domenica 19 ottobre 2014

il Fatto 19.10.14
I neri in marcia a Castel Volturno
“Basta camorra, dateci i permessi”
Sulla Domiziana 7.000 immigrati, e il Viminale offre un piano straordinario
di Enrico Caria


Castel Volturno (Ce) L’acqua è poca e le papere non galleggiano, quindi o le papere si ammazzano tra di loro o si aprono i rubinetti. ” Così Vincenzo Fiano, giovanissimo presidente del “Comitato per la tutela dei diritti dei migranti e dei rifugiati di Castel Volturno e Caserta”, spiega la manifestazione di ieri. Laddove la poca acqua sta per le condizioni miserabili in cui versa il territorio, le papere che rischiano di ammazzarsi tra di loro sono i seimila italiani e gli oltre 18mila africani che ci vivono e i rubinetti da aprire sono le risorse indispensabili a soccorrere una popolazione che vive tra l’incudine della povertà e il martello della camorra. E in piazza (o meglio, su una assolata e polverosa via Domiziana), insieme a circa 7.000 africani è sceso anche un bel gruppo di italiani, tutti in marcia sulle note di Bob Marley e dei Kalifoo Ground Sound System. Destinazione Castelvolturno centro dove non tutti i “castellani” faranno i salti di gioia. “Qui manca tutto”, dice Maria Rita Cardillo, anche lei volontaria del movimento, “niente fogne e illuminazione, il trasporto pubblico carente, niente spazi sociali, non solo i neri... la maggior parte dei bianchi vive nello stesso degrado”.
“NON RIUSCIAMO a capire chi ci accusa di rovinare Castelvolturno”, incalza Prosper, il pastore evangelico arrivato dal Ghana che guida il corteo parlando inglese, francese, twi e wolof, “qui sugli africani si basa tutta l’economia, ragazzi che lavorano dalle 12 alle 14 ore al giorno per una paga di 20 euro”. Sfruttamento lavorativo nei campi e in edilizia che va a braccetto con lo sfruttamento abitativo. Oltre a trarre profitto dal loro lavoro c’è chi trae profitto anche dal loro riposo e agli africani affitta a prezzi folli posti letto in palazzine e villette diroccate, tuguri che andrebbero solo abbattuti. E i rapporti tra affittuario e locatore? Spesso in pure stile camorristico. “La verità è che la Bossi-Fini è un fallimento totale”, osserva Gianluca Castaldi, ex comboniano ora in forza alla Caritas, “qui serve una legge che permetta le regolarizzazioni per levare i migranti dalle grinfie della camorra, che pianifichi i flussi di ingresso per finirla con le mafie della tratta degli schiavi”.
MAFIE, CAMORRA... parole difficili da pronunciare in un territorio controllato dai clan. A metà luglio Yussif Bamba e Nicolas Gyan, due ragazzi della Costa d’Avorio, furono gambizzati a Pescopagano dopo una lite con due italiani titolari di un’agenzia di vigilanza privata senza licenza. Due giorni di can can mediatico, quindi sulla Soweto d’Europa i riflettori sono tornati a spegnersi e quelli della camorra a riaccendersi. Amen. Ma stavolta, alla notizia della manifestazione dei migranti, reazionari e razzisti del Belpaese si sono mobilitati a Napoil (Forza Nuova), Reggio Calabria (Fratelli d’Italia) e Milano (LegaNord), con l’effetto boomerang di dare risalto mediatico all’iniziativa di Castel Volturno, a sostegno della quale poi hanno aderito anche intellettuali e gente di spettacolo come Marcelle Padovani, Ettore Scola, Massimo Carlotto, Ugo Gregoretti, Rocco Papaleo, Davide Ferrario, Francesco Bruni, Claudio Santamaria, Elio Germano, Neri Marcorè per Artisti 7607, Patrizio Rispo, Stefano Disegni e tanti altri. Ma soprattutto, Questura e Prefettura hanno dovuto mettere in conto che il 18 ottobre una risposta a migranti e rifugiati doveva pur essere data.
DOPO TRE ORE di marcia sulla Domiziana, il corteo finalmente approda a Castelvolturno e all’ombra del palazzo del Municipio, sotto gli sguardi non tutti amichevoli dei castellani e di qualche strano colored con vistose scarpe a punta e pesanti catene d’oro (qualche pecora nera esiste anche tra i neri...), spuntano fuori mamas in abito tribale con ceste di cibi africani cucinati all’alba. E il microfono torna a Prosper che ora istruisce la folla su come farsi censire per presentare alle autorità le domande di rinnovo dei permessi di soggiorno. E se qui dalle autorità arrivano i primi segnali di disponibilità a trattare, nelle stesse ore a Milano, la Lega Nord dà i numeri: quelli delle spese affrontate dal contribuente per l’operazione Mare Nostrum che le camice verdi vorrebbero azzerare. “Calcolatrice alla mano”, replica a distanza Castaldi, “in Italia i migranti sono il 7,5% della popolazione che producono il 12% del nostro Pil. Quindi mentre Salvini e compagnia cantante gridano all’invasione, gli invasori producono 13 miliardi e 300 milioni di euro a fronte di 11 miliardi e 900 milioni spesi per assisterli, con un saldo attivo per le casse dello Stato di 1 miliardo e 400 milioni. Numeri non male in tempo di crisi. ”
A fine giornata Vincenzo, Prosper, Gianluca e gli altri incassano quello che pare a tutti un primo risultato tangibile: il ministero degli Interni sembra aver accettato le richieste dei manifestanti sul piano di inclusione sociale proposto, corsi di formazione e soprattutto la regolarizzazione di un certo numero di permessi di soggiorno attualmente bloccati in questura. Un primo filo d’acqua che dà alle papere la speranza di poter galleggiare. Bianche o nere che siano.

il Fatto 19.10.14
Milano
Lega e Casa Pound in piazza Duomo
Salvini: “Sospendere trattato di Schengen”
In contemporanea il capoluogo lombardo è stato attraversato dalla contro-manifestazione antirazzista organizzata dai centri sociali

qui

Corriere 19.10.14
La piazza della Lega: basta clandestini
Lo slogan del corteo: prima gli italiani. In migliaia sfilano a Milano insieme all’estrema destra
Piazza del Duomo trabocca di persone e bandiere, il colpo d’occhio è impressionante
Salvini: è una questione nazionale. Nel partito meno Padania e più Le Pen: con lei per lo stop a Schengen
di Marco Cremonesi


Milano Piazza del Duomo trabocca di persone e bandiere, il colpo d’occhio è impressionante. Matteo Salvini, il segretario della Lega, ha vinto la sua scommessa: quella di ieri pomeriggio a Milano è probabilmente la manifestazione del Carroccio più grande di sempre. «Non siamo 100.000, siamo 101.000 contro i gufi!» assicura il leader dal palco (40.000 secondo fonti della polizia).
Ma la data è da registrare anche per un altro motivo: la Lega «padana» è finita. È il momento, pare, della Lega italiana. È lo stesso Salvini a declinare in modo «nazionale» la giornata di protesta contro l’immigrazione clandestina: «Pensiamo prima agli italiani». Gli italiani, tutti: quelli «che hanno il problema di un fisco che rapina, quelli le cui tasse servono a pagare l’operazione Mare nostrum, schiavista e razzista». Per Roberto Maroni, «Mare monstrum». La svolta lepenista, annunciata al congresso che ha eletto Salvini segretario, è ormai davvero completata. E dispone anche di un’immagine simbolo: i militanti di Casapound e di altre sigle della «destra di popolo» che marciano nel cuore del corteo leghista. Le loro bandiere sono quelle dell’Europa coperte da una vistosa croce rossa a simboleggiarne la cancellazione. Giusto per sottolineare la continuità politica e ideale, Salvini annuncia anche che martedì, con Marine Le Pen, chiederà ufficialmente «la sospensione del trattato di Schengen e la ripresa dei controlli alle frontiere».
Il no all’immigrazione diventa quindi un no all’invasione e alla violazione dei confini. Chi lo dice con la maggior lucidità è Mario Borghezio, di nuovo alla ribalta sopra un grande palco leghista dopo anni in cui la sua presenza era stata giudicata imbarazzante. L’europarlamentare va diritto al punto: «Voglio ringraziare quei siciliani e quei calabresi che cento anni fa, durante la Prima guerra mondiale, vennero al Nord per difendere i nostri confini. Quelli erano patrioti». Borghezio si ferma un istante: «Mi hanno chiesto di non insultare, ma questo è un giudizio politico: se chi ha difeso i confini della patria è un patriota, chi non li difende quando dovrebbe farlo è un traditore. E allora, diciamolo: Renzi e Alfano sono dei traditori».
Eppure dal palco tutti, ma proprio tutti, parlano di italiani. Lo fa il candidato alle regionali dell’Emilia-Romagna Alan Fabbri, lo fanno i governatori Roberto Maroni e Luca Zaia. L’eccezione è una sola: Umberto Bossi. Salvini scatena l’ovazione presentandolo come «colui che ha permesso che accadesse tutto questo». Lui, però, torna all’antico: «Si porrà il problema della libertà del Nord. E per quella arriverà in piazza mezzo milione di persone». Ma l’applauso è poco più di un atto di cortesia. Il Senatùr parla anche dei procedimenti sui rimborsi elettorali che si stanno per celebrare: «Ci processano ma non scappiamo»
Il no ai clandestini, riprende Salvini, non è un no all’immigrazione. E prova a dimostrarlo portando sul palco (saranno subissati di applausi) il neo responsabile dell’immigrazione della Lega, Toni Iwobi, nigeriano, e la marocchina Souad Sbai, già deputata pdl. E Iwobi fa venire giù la piazza quando dice che «in Italia ci sono tantissime persone che sono leghiste e ancora non lo sanno». Perché sono determinate a fermare «chi vuole distruggere la nostra civiltà». Nostra italiana, non nostra padana. E «nazionale» è anche un altro ospite voluto sul palco da Salvini. Il segretario del sindacato di Polizia Sap, Gianni Tonelli, assai efficace nel raccontare che «le mafie brindano, dato che le questure sono bloccate dal contrasto agli sbarchi».
La manifestazione, preceduta da un lungo corteo da Porta Venezia, è tranquilla. Salvini si ferma in piazza della Scala, davanti al Comune «per dire a Giuliano Pisapia: no ad altre moschee». Una contro manifestazione dei centri sociali deve essere fermata tra piazza Santo Stefano e piazza Duomo. Qualche istante di tensione, poi tutto torna nei ranghi. Altro momento di nervosismo, mentre sta parlando Iwobi. Parte una salva di fischi. Ma era per l’affissione di uno striscione: «Milano ha sempre accolto tutti, anche i leghisti».

Corriere 19.10.14
Vicino all’Europa dalla parte sbagliata
di Paolo Valentino


Milano vicino all’Europa. Mai come negli ultimi giorni, il genio pop di Lucio Dalla ha descritto plasticamente la capitale morale. Il vertice euroasiatico ne ha fatto palcoscenico del «grande gioco» che sta cambiando gli equilibri globali. E quando racconteremo la storia della crisi ucraina, forse indicheremo Milano come tappa importante del processo negoziale. Ma c’è un’altra Europa cui ieri la città più americana e aperta d’Italia si è scoperta molto, troppo vicina. È quella dei populismi nazionalisti, delle pulsioni xenofobe, della destra antieuropea. Le decine di migliaia di persone mobilitate dalla Lega, con il contributo di Casapound, contro gli immigrati, segnano un salto di qualità che sarebbe grave ignorare. Riscoprendo le radici estremiste, il partito di Salvini traduce in italiano lo «Zeitgeist» dei suoi referenti in Europa, dal Front National di Marine Le Pen, alla Fpoe austriaca di Strache, al PVV olandese di Wilders. Li accomuna un’ostilità verso lo straniero, che in alcuni sa vestire perfino accenti di modernità, come la difesa dei diritti delle donne contro l’oscurantismo islamico. Nel paesaggio di rovine in cui Berlusconi lascia la destra in Italia, la Lega cerca di colmare il vuoto, indicando una prospettiva nuova e inquietante. Alle elezioni europee, l’Italia di Renzi è stata l’unico dei grandi Paesi ad arginare l’ondata populista. Il cambio di passo della Lega rischia di avvicinarci all’Europa, per le ragioni sbagliate.

Repubblica 19.10.14
La Lega verde-nera di Salvini
di Gad Lerner


NEL sabato muscolare delle piazze contrapposte, da Milano a Bologna, da Napoli a Genova, alla fine è Matteo Salvini a farsi largo. Realizzando l’occupazione di uno spazio politico di destra radicale che appare al contempo inquietante e redditizio. Il fascismo come eterna pulsione sotterranea della società italiana, lubrificato dall’ostilità contro stranieri e euro, rivisitato nei nuovi codici giovanili da stadio o concerto, trova nel leghista Salvini un leader svelto a offrirgli un luogo di raccolta.
DISPOSTO anche a mettere la sordina al secessionismo padano, pur di catalizzare in tutta la penisola la destra dispersa e arrabbiata. Le decine di migliaia di sostenitori che hanno consacrato la leadership di Salvini in una piazza Duomo divenuta all’improvviso verde-nera, rivelano che non abbiamo più a che fare con un innocuo Capitan Fracassa televisivo. Perché il vuoto non esiste in politica e l’Italia — o non Renzi — non si è certo trasformata in un paese di sinistra solo perché Berlusconi chiude il suo ciclo.
Non so se sia vero quel che scrivono i suoi giornali, e cioè che Berlusconi avrebbe raccomandato il giovane Salvini all’amico Putin, durante il loro convivio notturno. Ma è certo che la benedizione personalmente concessa da Putin a Salvini, incontrandolo al- la vigilia del raduno milanese, giunge nel segno dell’autoritarismo tradizionalista mitizzato come unica salvezza possibile: uomini forti, chiamati a proteggerci dalla povertà, dalle invasioni, perfino dalle malattie.
Ci troviamo di fronte a un disegno pericoloso, perché fomenta il rancore sociale, ma tutt’altro che campato per aria. L’alternativa di destra è un’ipoteca concreta che grava su tutto il vecchio continente, qualora precipitasse la disgregazione in corso dell’Unione europea. A partire dalla Francia, dove Salvini ha realizzato un’alleanza vincente con Marine Le Pen. Ma è in Italia che il fronte xenofobo e noeuro capitanato da Salvini può attirare spezzoni di elettorato oggi dispersi. Non li seduce più la destra post-fascista di Ignazio La Russa, nonostante si mascheri dietro all’immagine più fresca di Giorgia Meloni. A Milano, in particolare, pesano ancora i compromessi di potere con Ligresti e Berlusconi. Non ha attecchito il trapianto neonazista di Alba Dorata. La stessa Forza Nuova è uscita travolta dal voto europeo e subisce un’emorragia di quadri in direzione della Lega, pronta a accoglierli a braccia aperte. Così come non ha esitato a coinvolgere in un’alleanza reazionaria i movimentisti di CasaPound, ovvero il fascismo giovanile che a Roma ha fatto eleggere Mario Borghezio con più di 5 mila preferenze, e che ieri ha rinunciato addirittura a sventolare il tricolore pur di scendere in piazza insieme ai leghisti. Su La Padania lo chiamano “fronte identitario”, l’insperata “ancora di salvataggio per una destra politica destinata all’estinzione”.
È assai probabile che proprio Milano diventi il teatro della prossima sfida politica con questa destra intenzionata a scommettere sul suo profilo più radicale. Salvini lo ha pianificato: approfittare della crisi del berlusconismo e delle difficoltà in cui versa Comunione e Liberazione per offrirsi come unica alternativa possibile al sindaco Pisapia nel 2016. La Milano cosmopolita alle prese con l’Expo, dunque, nuovamente laboratorio di un esperimento avventuroso, contraddistinto dall’esasperazione dei conflitti metropolitani. Piace a Salvini la contrapposizione con i centri sociali; la ricerca con lo spirito del ragazzo da stadio che non si tirerà mai indietro per primo.
Niente di meglio, per lui, che le contromanifestazioni dell’estrema sinistra, proprio come quelle che ieri hanno provocato tensioni in diverse città italiane, per affermare la propria ritrovata centralità politica. Tanto meglio se vi aderissero anche i seguaci di Grillo, dopo che quest’ultimo ha snobbato la disponibilità di Salvini a condurre insieme la raccolta di firme per il referendum contro l’euro.
Rattrista che questa ricomparsa di un’estrema destra vigorosa sulla scena italiana coincida con un dramma epocale — la grande fuga dei profughi dalle guerre che insanguinano la sponda sud del Mediterraneo — da costoro ridotto a “invasione” da combattere. Mettere i poveri gli uni contro gli altri, creare false comunità di sangue irriducibili le une alle altre, è un’operazione cinica ma non certo inedita. L’Italia ci è già cascata più di una volta, a Milano tocca di nuovo cimentarsi in un confronto sulla sua idea di civiltà.

Corriere 19.10.14
Tensioni a Bologna. Gli scontri sono proseguiti fino a sera
Gli antagonisti contro Bankitalia
I collettivi sfidano Forza Nuova e contestano la lezione di Visco in ateneo
di S.Ta.


BOLOGNA Gli scontri sono proseguiti fino a sera, su due diversi fronti. A manifestare, a Bologna, ieri pomeriggio in due zone diverse del centro storico, animato per lo shopping del sabato, erano i simpatizzati di Forza Nuova, e gli antagonisti, giovani dei collettivi e dei centri sociali. La tensione era già alta dalla mattina, ore prima della partenza programmata dei cortei. E la polizia era in allerta da giorni. Gli antagonisti partiti con l’intento di marciare contro il presidio di Forza Nuova al grido «Bologna non è fascista», hanno però diversificato l’obiettivo aggiungendovi quello di disturbare la lezione del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco all’Università, in occasione della celebrazione dei 60 anni della casa editrice il Mulino. Dopo Napoli, dove il 2 ottobre avevano preso di mira il consiglio direttivo della Bce guidato da Mario Draghi, gli antagonisti, mobilitati contro «crisi e disoccupazione», hanno deciso di puntare su Visco. All’università, dove il numero uno della Banca d’Italia parlava, non si è però sentito nulla. Neanche gli echi dei cori e degli slogan lanciati contro le banche centrali. All’esterno però è esploso lo scontro fra i circa 600 manifestanti, che fino a quel momento avevano sfilato pacificamente, e la polizia che, in tenuta antisommossa, aveva formato un cordone in via Castiglione, per evitare l’accesso all’Aula Magna Santa Lucia.
Dalle prime file del corteo, da chi protestava col volto coperto da casco, passamontagna e occhiali da sole, è partito il lancio di vernice, bottiglie e grossi petardi, una sorta di rudimentali bombe carta, per cercare di sfondare la barriera degli agenti, che hanno risposto con manganelli e fumogeni. Vi sono stati momenti di forte tensione e di paura per i passanti coinvolti nei disordini. Insomma il caos, che ha lasciato sul terreno feriti da entrambe le parti: quattro manifestanti, due carabinieri e un poliziotto.
E dire che ieri Visco ha fatto un discorso proiettato sul futuro. Sull’onda della vecchia canzone di Bob Dylan che nel ‘64 avvertiva come i «tempi stessero cambiando» per i conservatori, per i portatori di sicurezze e per le autorità, Visco si è soffermato proprio sui problemi del lavoro chiedendo una rete più forte di sicurezze per chi è disoccupato e perché no, anche il reddito di sussistenza o qualche strumento in grado di accompagnare il lavoratore anche quando è senza lavoro.
Gli antagonisti però Visco non lo hanno sentito. Fermati in via Castiglione, hanno cambiato tragitto e ripreso l’obiettivo originario gridando: «Siamo tutti antifascisti». Si sono quindi diretti verso Piazza San Domenico, dove erano riuniti circa 200 simpatizzanti di Forza Nuova per sentire il comizio del segretario Roberto Fiore. Anche qui c’era la polizia a fare cordone e gli scontri sono stati più violenti, tra lancio di bottiglie, petardi e fumogeni con lo strascico di feriti e contusi — due poliziotti sono stati portati in ospedale ma non sono gravi — e un arresto tra i manifestanti.

il Fatto 19.10.14
Arriva lo sblocca-porcate
Cemento, trivelle e marchette
di Marco Palombi


Profittando della distrazione del Tesoro, impegnato a riscrivere la manovra, di notte la commissione Ambiente vota lo Sblocca Italia riuscendo persino a peggiorarlo: favori clientelari senza copertura. Dall’autostrada Cispadana alla Telesina ai regali alla Lucania

Sul Fatto Quotidiano di ieri vi abbiamo raccontato come - a dispetto di un’approvazione avvenuta in Consiglio dei ministri mercoledì - all’ufficio legislativo del Tesoro siano ancora alle prese con la riscrittura di intere parti della legge di Stabilità. A parte la bizzarria di un governo che approva una legge che non esiste, la cosa non è senza effetti pratici. Il Mef in questi giorni non ha fatto in tempo a seguire come dovrebbe i lavori parlamentari: gli emendamenti che comportano spese, infatti, hanno bisogno dell’ok del Tesoro: viste alcune brutte esperienze dei mesi scorsi - vedi il pensionamento degli insegnanti di quota 96 - il presidente della Camera Laura Boldrini ha prescritto che niente sia votato senza questo passaggio formale.
LE BRUTTE abitudini, però, sono dure a morire e nella notte di venerdì, in commissione Ambiente, il decreto Sblocca Italia (oltre alle porcherie che conteneva già di suo e su cui torneremo) è stato approvato con una serie di modifiche con coperture bizzarre o inesistenti. “Cose da pazzi”, dicevano ieri i funzionari del Tesoro, “dovesse passare tutto sarebbero miliardi, ma tanto toglieremo tutto al momento dell’arrivo in aula”. Pure i pareri della commissione Bilancio comunque, anch’essi ancora di là da venire, metteranno ordine nel bailamme, ma intanto a Montecitorio s’è riaperto il suk e alla lista delle opere “strategiche” da sbloccare ne sono state aggiunte parecchie altre.
L’autostrada Regionale Cispadana, per dire, che è una roba dell’Emilia Romagna, da oggi è una priorità nazionale: così si potranno aggirare i pareri contrari come quello del ministero dei Beni Culturali. La palla passa a Maurizio Lupi, nominato unico signore del cemento italiano dallo Sblocca Italia di Matteo Renzi. Pure la strada Telesina, che corre dentro il Sannio caro al sottosegretario alle Infrastrutture Umberto Del Basso de Caro, passa dall’essere finanziabile in project financing (cioè dai privati) sotto l’egida dell’Anas. Spiega Alberto Zolezzi, deputato M5S che ha partecipato alla seduta notturna: “C’era di tutto, soprattutto opere infrastrutturali collegate, in maniera fantasiosa, a quelle ‘sbloccate’ dal governo: dalle ferrovie in Sicilia a quelle pugliesi, dalle autostrade al Tav tra Brescia e Padova”.
La Basilicata ha fatto un capolavoro: è riuscita a far approvare un emendamento che lascia alla regione un pezzo più grande del previsto dei tributi Ires dovuti all’aumento dei permessi di trivellazione. Magari è pure giusto, ma quelle sono risorse dell’erario che andrebbero comunque compensate. Bizzarro, poi, è il caso dell’articolo 4, che doveva essere ritirato e invece è ancora lì: vi si stanzia un miliardo di euro per quei comuni che hanno fatto pervenire a palazzo Chigi i loro progetti entro il 14 giugno scorso. Quali sono questi comuni? Gli altri erano stati informati di questa possibilità? Non si sa, la lista è segreta o almeno alla Camera il governo non ha voluto presentarla.
NON È FINITA. Davide Crippa, altro deputato 5 Stelle, parla di “deroghe sugli appalti per importi da 50 o 100 milioni”: “Anche l’autostrada Orte-Mestre, che pure stava nel testo originario, non si farà. L’ha detto pure il presidente Ermete Realacci”. Ecco Realacci è un’altra delle pietre dello scandalo di questa vicenda: al nostro, nome storico dell’ambientalismo italiano, il testo del governo non piaceva, e lo ha anche detto pubblicamente, eppure i cambiamenti apportati durante la sua gestione della commissione Ambiente sono stati solo marginali. Per capirci su come la vedono gli ecologisti basti citare Angelo Bonelli, portavoce dei Verdi: “Questo Rottama-Italia di Renzi è scandaloso. Se questa proposta l’avesse fatta Berlusconi il centrosinistra che l’ha approvata nel silenzio degli ambientalisti Pd, sarebbe sceso in piazza per protestare”. Il M5S ha preso di punta direttamente Realacci e ha chiesto a Legambiente di ritirargli la carica di presidente onorario: “Realacci deve decidere da che parte sta”.
Nel testo, per dire, è rimasto lo scandaloso prolungamento ad libitum delle concessioni autostradali - condannato anche dall’Antitrust e dall’Autorità dei Trasporti - che fa felici Benetton, Gavio e gli altri. Intonse pure tutte quelle semplificazioni autorizzative negli appalti che hanno spinto Bankitalia a parlare di un rischio di “aumento della corruzione”.
RESTA PURE la potestà del ministero di Maurizio Lupi (esclusi Ambiente e Beni culturali) sul via libera alle opere in aree archeologiche che tanto interessa la Metro C di Roma su cui si spende il gruppo Caltagirone. Resta la svendita del demanio pubblico ai fondi immobiliari, restano gli incentivi a trivellare lo Stivale (da Favignana alle Tremiti passando, ovviamente, per la Basilicata) per raddoppiare la produzione di petrolio. Non solo: trivelle e inceneritori diventano “opere strategiche di interesse nazionale” e dunque approvabili sopra la testa dei cittadini e difendibili dall’esercito contro le contestazioni come il Tav in Val di Susa. Dulcis in fundo, il Tesoro si prende il potere di indicare le linee guida per investire i 20 miliardi della Cassa depositi e prestiti in “opere strategiche”. Dunque pure trivelle e inceneritori, volendo.

il Fatto 19.10.14
Tele-Nazareno, Berlusconi apre al premier le sue Tv

Oggi il primo ministro da Barbara D’Urso a spiegare la Legge di stabilità
Preoccupati anche in FI: così continua a pescare nei nostri elettori
di Fabrizio d’Esposito


Nazareno 5, oggi nel pomeriggio pop-trash di Barbara d’Urso. È la progressiva berlusconizzazione di Matteo Renzi oppure, se si vuole cambiare verso, la renzizzazione di Mediaset. Lo Spregiudicato, ancora una volta, va a casa del Pregiudicato per la propaganda tv sulla legge di stabilità. E stavolta a ospitarlo è la principale delle reti del Biscione, Canale 5. TeleNazareno, appunto. La colonizzazione di programmi e talk-show di destra è ormai un must del renzismo. Un’ossessione impartita quotidianamente dal suo staff di Palazzo Chigi e che nel giro di dieci giorni non ha risparmiato nulla. Renzi da Paolo Del Debbio, per Quinta Colonna su Rete 4. Renzi da Nicola Porro, vicedirettore del Giornale di Alessandro Sallusti e conduttore di Virus, su Raidue. Renzi persino alle Iene su Italia1.
I rispettivi benefici del patto segreto
Dalle parti di Forza Italia, un importante berlusconiano etichetta questi movimenti di Renzi come “sfondamento consenziente” nell’elettorato di centrodestra. L’ennesima conferma degli effetti pratici, sostanziali del patto segreto del Nazareno tra i due, lo Spregiudicato e il Pregiudicato. Al premier vanno i benefici politici, in termini di consenso. Al Condannato è garantita la tutela massima del suo gigantesco conflitto d’interessi, in vista della delicatissima successione della prole di primo e secondo letto alla guida dell’impero. È la ricetta del renzusconismo, che mette insieme la resistibile ascesa dell’ex sindaco quarantenne e il crepuscolo dell’ex Cavaliere, che un ex ministro del centrodestra descrive come “prigioniero politico” del clan della fidanzata napoletana, Francesca Pascale. Del resto, a puntellare la suggestione dello “sfondamento consenziente” di Renzi nel mondo berlusconiano non ci sono solo i titoli del Giornale (tipo “Forza Renzi” oppure “Renzi fa una cosa di destra”) o le continue ospitate sulla rete del Biscione ma anche la controprova offerta dalla battuta di un altro forzista di rango: “Un diverso premier di centrosinistra, per esempio Prodi, secondo voi avrebbe avuto le stesse possibilità di andare in casa dell’avversario a parlare della finanziaria alle massaie? ”. La risposta è superflua.
La profezia di Urbani sul renzusconismo
Nello scintillante mondo di Mediaset non è mai accaduto nulla per caso. Quando il berlusconismo era al potere, per il Condannato le riunioni con i direttori delle sue reti erano un appuntamento fisso, a inizio settimana. Berlusconi ha sempre puntato sul carattere popolare delle tv, non solo le sue, e l’erede fiorentino non è da meno. Nella comunicazione del Pd renziano anche ai volti più noti della classe dirigente scelta del premier viene consigliato di “non snobbare” e quindi di “partecipare” alle trasmissioni del Biscione. È un’altra sfumatura del renzusconismo, dove i confini tra centrodestra e centrosinistra si confondono. In merito va pure segnalata la lunga intervista di Giuliano Urbani ieri a Libero. Il politologo Urbani è stato uno dei fondatori di Forza Italia. Dice oggi: “Oggi il centrodestra ha una sola certezza: Renzi. È l’elettore di centrodestra che lo vede così. Il futuro non può essere Berlusconi”. In questa chiave va letto l’entusiasmo della destra, non solo politica, per la manovra renziana. L’esultanza del presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, surclassa di parecchio l’immagine del lontano 2001 quando a Parma l’allora leader degli industriali Antonio D’Amato abbracciò senza se e senza ma lo stesso Berlusconi. Al di fuori del recinto renzusconiano, blindato dalla renzizzazione del Biscione, resta così davvero ben poco.
I pozzi del Condannato e la trivella di Matteo
Al di là degli stanchi appelli di B. alla rifondazione di Forza Italia, la realtà è che gli azzurri viaggiano sotto il 14 per cento nei sondaggi e il crollo non ha freni. È come se Renzi stesse trivellando senza sosta i pozzi del consenso berlusconiano, fino a prosciugarlo. E certo non sono un argine i convegni degli azzurri antirenziani per provare a imbastire una sorta di Leopolda blu (qui è la destra che copia il renzismo). Ieri a Milano ne hanno discusso Raffaele Fitto, capetto democristiano degli antirenziani di Forza Italia, il ministro Maurizio Lupi di Ncd, persino due ex finiani come Adolfo Urso e Andrea Ronchi. Ora, detto che il Condannato ha chiuso ogni porta o portone agli odiatissimi alfaniani, cui non resta che sperare in uno strapuntino dalle parti di Renzi, il vero tallone d’Achille di queste iniziative non è tanto la richiesta perenne di primarie ma il punto di partenza: trovare un’alternativa a Renzi. Il Pregiudicato, per il momento, non ne ha alcuna voglia e la golden share della Terza Repubblica è nelle mani dei due contraenti del patto segreto del Nazareno. Sempre a proposito del patto, ecco cosa ha scritto Antonio Polito, direttore del Corriere del Mezzogiorno, sulle regionali in Campania: “I maligni dicono che Renzi ha fatto un patto con Berlusconi per lasciare la Campania a Caldoro”. Il renzusconismo non è una favola. E a livello nazionale ha già un tele-candidato unico. Oggi pomeriggio in onda su Canale 5, pardon, Nazareno 5.

La Stampa 19.10.14
Renzi rottama la tv di sinistra
di Massimiliano Panarari


Dopo Maria De Filippi, oggi tocca a Barbara D’Urso. Matteo Renzi sceglie di farsi ospitare di nuovo da una delle first ladies di Canale 5, campionesse di share e pure dell’egemonia berlusconiana sull’immaginario. Il primato di audience nelle postdemocrazie, infatti, può divenirlo anche di consenso elettorale, dal momento che i politici, tramontate le ideologie, necessitano di popolarità – e, pure volendo, faticherebbero molto a svincolarsi dalla «cultura della celebrità» modellatasi, nell’America degli anni Venti, proprio sul divismo hollywoodiano.

Da noi (e in maniera fortissima) ha provveduto al riguardo il piccolo schermo, cassa di risonanza per la politica dei partiti di massa con la Rai, e mezzo di comunicazione della postpolitica (che, con connotazioni differenti, accomuna berlusconismo, grillismo e renzismo) con la neotv commerciale (nel frattempo diventata già da un po’ transtelevisione). Con gli elettori volatili e il voto ex berlusconiano in libera uscita, il premier-segretario del Pd prosegue le sue incursioni in casa Mediaset – come raccontava ieri Marco Castelnuovo – avendo saldamente in testa il suo «partito della nazione» a vocazione maggioritaria (un partito pigliatutto dalle sembianze di turbo-Dc postmoderna). Lo fa a tutto campo, spostando il terreno della campagna politica «dalle parti degli infedeli», e andando a prendersi dei target elettorali considerati solitamente proibitivi dalle classi dirigenti progressiste (e dai loro apparati sempre meno efficienti anche nell’andare a caccia di cittadini-elettori).
Si tratta della spesso evocata disintermediazione che, nell’età della democrazia del pubblico, rappresenta uno dei fondamenti del fare politica in modo post-ideologico. E qui, per la sinistra postcomunista (ma che non riesce a farsi postmoderna), sono – ulteriori – guai. Nel corso della sua storia, difatti, si è proposta di tenere strettamente insieme emancipazione (delle masse) e mediazione (da parte delle proprie élites). Anche, naturalmente, in televisione, considerata a lungo dai partiti della Prima Repubblica (e in particolare dal Pci) come una grande aula scolastica. Perché il servizio pubblico ha sempre avuto una finalità essenziale: insegnare. E lo ha fatto con risultati rilevanti (a partire dall’unificazione linguistica del Paese), fino a che lo strapotere partitico (inseparabile dalla televisione pubblica) si è fatto troppo vorace e clientelare, sacrificando la gran parte delle residue virtù.
Nell’Italia disintermediata dove i sindacati sono ammaccati e la forma-partito sta malissimo, non esiste chiaramente più spazio per il collateralismo televisivo e per le cinghie di trasmissione catodiche. Ma c’è di più, al punto da rendere impossibile una televisione pedagogica e fare quindi tramontare la stessa idea di un piccolo schermo «di sinistra». Lo testimonia la crisi dei principali talk show di prima serata (una sorta di grande narrazione informativa attraverso l’intermediazione di conduttori e redazioni), la cui platea, ci dicono le statistiche, è composta principalmente da telespettatori di orientamento progressista. E lo ribadisce, soprattutto, il protrarsi della crisi di identità di Rai3, anche a dispetto dei tentativi di sperimentare qualche novità (con l’eccezione dei programmi di Fabio Fazio, la formula magica, e l’unica di fatto riuscita, del nazionalpopolare di sinistra, insieme a Gazebo).
L’atteggiamento attuale del capo del Pd e le strategie comunicative dei suoi talentuosi spin doctor rottamano così, volutamente, la visione del medium «de sinistra» (per dirla alla Diego Bianchi-Zoro). Se la politica pop costituisce il pensiero (e il linguaggio) unico anche del centrosinistra, allora bye-bye per sempre tv pedagogica. Ma non è detto, visto che il pluralismo rimane un valore in sé (come affermano i teorici liberaldemocratici), che per la casalinga di Voghera, i ragazzi in cerca di fama dei talent e per noi tutti questo sia necessariamente un bene…

La Stampa 19.10.14
I governatori
“I risparmi devono iniziare da Roma”
di Alessandro Barbera


L’opinione pubblica sta dalla parte di Renzi, e loro lo sanno. Anni di sprechi, di casi Fiorito, di sedi inutili in giro per il mondo per promuovere il «Made in Piemonte», il «Made in Sicily», il «Made in Lombardia» pesano come macigni. La reazione dei giorni scorsi alla decisione del governo ha irritato il premier, e convinto i presidenti - in particolare quelli con la tessera Pd in tasca - a limitare interviste e dichiarazioni, almeno fino a quando non ci sarà l’incontro con il governo. Chi ha le mani più libere e attacca a testa bassa è ora il governatore leghista della Lombardia Roberto Maroni: «Il governo ci vorrebbe costringere a chiudere ospedali o alzare le tasse. Ebbene, piuttosto dico ai sindaci che siamo pronti a fare la rivolta fiscale».
Resta la feral domanda, della quale si incarica di rispondere il gran mediatore, ovvero il presidente dei governatori Sergio Chiamparino: in nome di cosa, dopo anni di scandali, le Regioni chiedono lo sconto ad un governo che taglia le (troppe) tasse che pesano sui cittadini? Chiamparino non si scompone: «Partiamo anzitutto dai numeri: fra Monti, Letta e Renzi i risparmi che quest’anno vengono chiesti alle Regioni valgono nel complesso 5,8 miliardi di euro. Se a questo aggiungiamo il fatto che dobbiamo farci carico dei bilanci definanziati delle Province, la faccenda si fa seria. Chi si occuperà quest’inverno, se non noi, delle strade provinciali ghiacciate? O di pagare il riscaldamento nelle scuole?» Eppure «chiunque vada in un ministero a Roma prima di arrivare dal suo interlocutore incontra minimo dieci persone che salutano cordialmente ma non si sa cosa facciano...».
Non più tardi di venerdì il presidente veneto Luca Zaia, che pure è leghista, aveva contestato più il metodo che il merito delle scelte di Renzi: «Noi siamo a disposizione, la perfezione non esiste nemmeno in Veneto, ma ci devono spiegare in maniera puntuale come agire, non dirci “tagliare, tagliare, tagliare”. Come si fa a chiedere una cosa del genere alla Regione che sui conti sanitari è la più virtuosa?» In realtà, a guardare la spesa pro-capite per abitante le differenze non sono poi così marcate. Secondo una elaborazione del Sole24Ore su dati del ministero dell’Economia, il costo pagato ogni anno da un cittadino veneto per finanziare la sanità è di 1723 euro, più o meno quanto si paga in Calabria, mentre in Liguria - in questo caso la meno virtuosa - è di 1998 euro. Basta cambiare voce di costo e gli scarti si fanno seri: le spese sostenute dal Veneto per il funzionamento degli uffici regionali vale 43 euro a cittadino contro i 66 pagati in Piemonte e i 192 del Lazio. Oppure il costo del personale: il peso pro-capite è di 27 euro l’anno in Veneto, 42 in Piemonte, di ben 174 in Molise. Di fronte a tali numeri l’obiezione del presidente laziale Zingaretti postata su Facebook per cui «tagliare 100 stipendi da centomila euro» fa risparmiare «”solo” dieci milioni di euro» lascia sbigottiti. «Noi la nostra parte la facciamo», corregge il tiro Chiamparino. «Ho passato gran parte della giornata con il mio assessore alla sanità Saitta per discutere di come far tornare i conti del patto per la Salute». I conti «torneranno, i saldi non sono in discussione. Ma mi chiedo: perché nel frattempo si è bloccata la riorganizzazione della macchina pubblica iniziata da Monti? Che fine ha fatto il progetto di accorpare le prefetture e gli uffici provinciali del governo? Che senso ha avere ancora decine di provveditorati per le opere pubbliche? Se su questo il governo ha bisogno di sostegno, siamo pronti a firmare un patto».

Il Sole 19.10.14
Tra Stato e Regioni la resa dei conti è sulla sanità
di Massimo Bordignon


La manovra di bilancio ha creato uno scontro al calor bianco tra Stato e Regioni, con tutti i governatori in trincea e quelli del Lombardia e Veneto che minacciano perfino il ricorso alla Corte costituzionale. Ma è giustificato questo conflitto? Guardando i numeri, è difficile crederlo.
La spesa complessiva delle Regioni, compresa la sanità, nel 2013 è stata pari a circa 160 miliardi; il Governo almeno stando alle slides circolate sulla legge di stabilità (non c'è ancora un testo finale), chiede di ridurla di 4 miliardi. Ma il taglio è rispetto al tendenziale e in questo sono già inclusi i 2 miliardi in più previsti dal Patto sulla salute per il finanziamento della sanità nel 2015. Si tratterebbe dunque di una riduzione netta di soli circa 2 miliardi, cioè l'1,3% della spesa complessiva. Certo, molta di questa spesa è incomprimibile nel breve periodo; stipendi del personale, contratti in essere, co-finanziamento fondi europei e quant'altro. Ma ridurre la spesa del 1,3% in un anno sembrerebbe comunque rientrare nell'ambito delle cose possibili; è circa la metà della riduzione che in media lo Stato chiede ai propri ministeri. Per un esempio dei risparmi possibili sulle Regioni, in un rapporto presentato a marzo per la spending review del commissario Cottarelli, e rimasto poi nel cassetto, avevamo valutato in circa il 17% il risparmio conseguibile sul miliardo utilizzato per finanziarie giunte e consigli regionali. E qui si parla di poco più dell'1% di risparmi, non del 17%.
Ma naturalmente il vero nodo del contendere non è la spesa complessiva delle Regioni, ma la titolarità della gestione della sanità. Sulla sanità, Stato e Regioni sono da sempre impegnati in un complesso gioco strategico, con il primo che fa finta di credere che non ci sia rapporto tra i servizi che esso stesso chiede alle regioni di fornire (i livelli essenziali di assistenza) e le risorse per finanziarli; e le seconde che fanno finta di credere che le risorse messe a disposizione dallo Stato siano sempre insufficienti e comunque incomprimibili. Nel caso in questione poi i governatori hanno ragione a denunciare la violazione di un accordo; solo pochi mesi fa, a luglio, è stato firmato un patto con il ministro Lorenzin, che prevedeva non solo che le risorse per la sanità sarebbero aumentate nei prossimi anni, ma anche che ogni risparmio sarebbe rimasto nella disponibilità delle Regioni e non sarebbe servito a finanziare una manovra di bilancio; esattamente l'opposto di quello che il Governo chiede adesso.
I governatori hanno ragione, ma il punto è che quel Patto non avrebbe mai dovuto essere firmato. In un processo di revisione complessiva della spesa pubblica, non si può enucleare a prescindere una componente da tutto il resto, soprattutto quando si tratta di una voce che conta da sola per oltre il 14% della spesa complessiva. Del resto, se è vero che la sanità italiana è complessivamente efficiente in un contesto internazionale, nel senso che costa poco rispetto ai servizi che rende, è anche vero che la sanità è stata negli anni della crisi più "protetta" di altre spese, proprio perché presidiata da figure politiche importanti come i governatori regionali. Nel 2007, ultimo anno pre-crisi, la spesa sanitaria era pari a 100 miliardi; nel 2013, a reddito nazionale nominale più o meno invariato, era salita a 110. In confronto, interventi molto più massicci sono stati fatti sull'istruzione o (in prospettiva) sulle pensioni, senza che ci sia mai stato un dibattito politico aperto sul fatto che la sanità sia, per dire, più importante della scuola.
Ma ammesso che tutti i tagli finiscano lì, ci sono 2 miliardi da risparmiare sulla sanità senza incidere sui servizi resi ai cittadini e senza aumentare tasse e tariffe? In prospettiva, sulla base delle stime disponibili sui livelli di efficienza del sistema sanitario italiano, la risposta è senz'altro affermativa. Un rapporto del Cerm di qualche anno fa stimava per esempio che se tutte le Regioni raggiungessero nella gestione dei servizi sanitari il livello di efficienza della migliore, si sarebbe potuto risparmiare fino al 20% della spesa a parità di servizi. Ma proprio qui sta il problema. I risparmi maggiori sono possibili laddove i servizi sono più inefficienti; ma è proprio qui dove è più difficile raggiungere risultati ragionevoli in tempi brevi. Risparmiare nella sanità significa ristrutturare la rete ospedaliera, rivedere i contratti di servizio, aumentare l'assistenza territoriale, tutte cose che richiedono tempo e programmazione. Quasi metà delle Regioni sono già sottoposte a piani di rientro per aver violato i vincoli finanziari; ed è difficile immaginare che ulteriori accelerazioni siano possibili in questo contesto. Il rischio è allora che i risparmi maggiori vengano richiesti alle Regioni già oggi più efficienti, con ovvi problemi in termini di equità ed efficienza.
Infine, non c'è dubbio che il conflitto in essere tra Governo e Regioni sia parte di un processo più complesso di ri-centralizzazione del sistema dei governi italiano, dopo la sbornia federalista degli anni passati. Ma attenzione a non buttar via il bambino con l'acqua sporca. Proprio la sanità mostra i vantaggi potenziali di una gestione decentralizzata, con almeno alcune Regioni che hanno saputo sfruttare gli spazi di autonomia per migliorare la qualità del servizio.

Corriere 19.10.14
I limiti della legge di Stabilità, il bonus per le assunzioni sufficiente per pochi mesi Contratti a tempo indeterminato, incentivi per 300 mila lavoratori
Professionisti penalizzati dal regime forfettario. Ridotto il taglio Irap
di Enrico Marro


ROMA Il testo del disegno di legge di Stabilità approvato mercoledì dal Consiglio dei ministri arriverà in Parlamento la prossima settimana, spiegano fonti governative. Per ora bisogna accontentarsi della bozza, che non ha subito modifiche di rilievo, aggiungono. Aggiustamenti più importanti potrebbero invece arrivare alla Camera, dove comincerà l’iter del ddl. Sono infatti numerose le sorprese tra le righe dei 47 articoli della bozza e tanti i nodi da sciogliere. Alcuni noti da tempo, come l’allargamento della platea dei beneficiari del bonus di 80 euro alle famiglie numerose (nel testo non c’è ma molti parlamentari lo vogliono). Altri sorti dalla lettura della bozza. E non si tratta solo dei tagli a carico di Regioni ed enti locali.
Quante assunzioni?
Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, in conferenza stampa aveva annunciato la decontribuzione totale per tre anni sui nuovi assunti. Una misura molto importante, finalizzata a favorire l’occupazione giovanile che, come certifica l’Istat, dal 2008 ad oggi, è diminuita di oltre due milioni, da 7,2 a 5,1, nella fascia tra 25 e 34 anni. Lo sgravio contributivo c’è, ma l’articolo 12 fissa un tetto di 6.200 euro l’anno, che corrisponde a una retribuzione lorda annua di circa 19 mila euro, 1.200 euro netti al mese. Un livello che copre la grandissima parte delle retribuzioni d’ingresso. Ma il limite maggiore è costituito dallo stanziamento per lo sgravio. Lo stesso articolo 12 parla di «un miliardo per ciascuno degli anni 2015, 2016 e 2017». Sommando le risorse che verranno dalla soppressione degli sconti sulla stabilizzazione degli apprendisti e sull’assunzione di disoccupati da più di 24 mesi, si arriva a 1,9 miliardi l’anno, dice il governo. Con questa somma, però, le aziende potrebbero assumere poco più di 300 mila persone (1,9 miliardi diviso 6.200 euro fa 306.451) mentre, secondo i dati del ministero del Lavoro, in un anno vengono attivati circa un milione e mezzo di contratti a tempo indeterminato (nel 2013 sono stati 1.584.516).
Anche considerando i paletti fissati dal ddl (la decontribuzione vale sulle assunzioni a tempo indeterminato effettuate nel solo 2015, con l’esclusione del settore agricolo, dei contratti di apprendistato e del lavoro domestico e di coloro che nei sei mesi precedenti hanno avuto già un contratto a tempo indeterminato) i fondi stanziati potrebbero andare esauriti già nella prima metà del 2015. Se quindi davvero Renzi vuole rendere strutturalmente il contratto a tempo indeterminato meno costoso, deve stanziare molti più soldi.
Sconto Irap a metà
Oggetto di discussione è anche l’alleggerimento dell’Irap. La deducibilità totale del costo del lavoro dalla base imponibile riguarda esclusivamente la forza lavoro a tempo indeterminato. Ed è controbilanciata dalla cancellazione del taglio del 10% dell’aliquota Irap decisa ad aprile. L’Irap torna quindi al 3,9% (dal 3,5%) sulla componente lavoro a tempo determinato e sulle altre due voci della base imponibile (profitti e interessi passivi). Significa che il taglio complessivo dell’Irap si riduce a 2,9 miliardi rispetto ai 5 annunciati da Renzi.
Stangata su Tfr e fondi
È forse il capitolo più criticato della manovra. Perfino Stefano Patriarca, (ex Cgil, ex Inps), esperto di previdenza che ha proposto il Tfr in busta paga già una decina di anni fa, boccia la decisione del governo di sottoporre a tassazione ordinaria il flusso di accantonamento del Tfr che il lavoratore, dal 2015 (e fino al 2018) potrà chiedere gli venga messo nello stipendio anziché andare al fondo pensione o restare in azienda ai fini della liquidazione (che gode di una tassazione agevolata). «Si rischia di compromettere tutta l’operazione — dice Patriarca —. Basti pensare che con una tassazione pari a quella del Tfr, con le somme messe in busta paga il reddito netto di un lavoratore che guadagna 15 mila euro all’anno aumenterebbe del 7,8% mentre con la tassazione ordinaria solo del 5,2%». Ed è pioggia di critiche anche sull’aumento del prelievo sui rendimenti dei fondi pensione dall’11,5 al 20% e del Tfr (dall’11,5 al 17%).
Partite Iva, chi ci perde
La manovra prevede una riforma del regime di minimi per favorire le partite Iva a basso reddito. Oggi sono ammesse al regime di tassazione forfettaria le partite Iva con fatturato fino a 30 mila euro. Con la riforma i fatturati ammissibili varieranno per tipo di attività, da un tetto di 15 mila euro per i professionisti fino ai 40 mila euro per i commercianti. Questi ultimi quindi sarebbero avvantaggiati mentre i professionisti, osserva lo stesso sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti, si vedrebbero dimezzata la soglia di fatturato e triplicata l’aliquota di prelievo che, secondo la stessa bozza, passa per tutti dal 5 al 15% del reddito imponibile. Anche qui, dunque sono possibili correzioni in Parlamento.
Statali esasperati
La proroga a tutto il 2015 del blocco dei contratti dei dipendenti pubblici non fa più notizia. Le retribuzioni sono ferme dal 2010. L’articolo 21 dispone anche il rinvio dell’indennità di vacanza contrattuale (non un gran danno, vista l’inflazione quasi a zero) e il blocco degli automatismi per il personale non contrattualizzato. Il tetto alle retribuzioni è stato tolto per militari e forze di polizia ma subiscono tagli l’indennità ausiliaria i fondi per il riordino delle carriere e le una tantum. E le spese per il funzionamento dei Cocer, gli organi di rappresentanza, sono dimezzate.

Il Sole 19.10.14
I «dettagli» che zavorrano la manovra
di Fabrizio Forquet


A quattro giorni dall'approvazione della legge di stabilità in Consiglio dei ministri, ancora nessun testo più o meno ufficiale è disponibile. Non è forse una novità, è però certamente un malcostume che non aiuta la credibilità del modo in cui in Italia si fanno le leggi. Viene da chiedersi, per dirne una, che cosa sia stato mandato a Bruxelles e che testo stiano analizzando i tecnici della Commissione in vista del giudizio di fine mese.

I eri sera da Palazzo Chigi si è fatto trapelare che per domani un testo sarà pronto per il Quirinale, non rimane che attendere. Intanto dalle bozze che stanno circolando si possono cominciare ad analizzare alcuni aspetti tecnici che dalle prime slide non erano emersi. Resta, allora, confermato il giudizio complessivamente positivo di una manovra a carattere espansivo, che dà e non toglie, in una fase di risorse più scarse che mai. Una manovra che taglia tasse e riduce (o almeno prova) spesa pubblica improduttiva. E tuttavia i nodi che meritano un approfondimento, e magari un ripensamento in Parlamento, non mancano.
Il taglio dell'intera componente lavoro dalla base imponibile Irap (che vale intorno ai 6 miliardi) è uno dei risultati più importanti di questa manovra. Impossibile sottovalutarne il peso, in termini effettivi di risparmio per le aziende e in termini di fiducia nella creazione e nella difesa di posti di lavoro. La copertura della misura è però garantita per una parte (2,1 miliardi) dal dietrofront rispetto alla riduzione del 10% dell'aliquota Irap stabilita con il decreto Irpef del maggio scorso. L'aliquota ordinaria Irap, dunque, tornerà dal 1° gennaio prossimo al 3,9% (dal 3,5%). Va anche considerato, poi, che – sempre in base alle bozze disponibili – il taglio previsto dalla Legge di stabilità si limita al costo del lavoro dipendente a tempo indeterminato, escludendo i lavori a termine e i collaboratori. Tutto questo significherà che talune aziende, quelle che non hanno o hanno pochissimi dipendenti stabili, saranno – per effetto della manovra – penalizzate. Per tutte le aziende, poi, viene meno la deduzione dell'Irap dall'imponibile Ires: questo è ovvio, ma riduce ulteriormente la portata – comunque positiva – del taglio dell'Irap.
Anche la cancellazione dei contributi per i primi tre anni per chi assume a tempo indeterminato è una misura che va nella giusta direzione di creare incentivi per le imprese a creare posti di lavoro stabili. Gli sgravi, tuttavia, valgono solo per le assunzioni effettuate nel 2015 e per chi non ha lavorato a tempo pieno nei sei mesi precedenti. Non si tratta, dunque, di una misura definitiva, mentre va a sostituire un beneficio permanente che è quello previsto dalla legge 407 del 1990, in base alla quale i disoccupati da oltre due anni potevano essere assunti a zero contributi (o con il 50%) per un triennio. Salta anche lo sconto contributivo legato alla prosecuzione di un anno dei contratti di apprendistato dopo il triennio.
La cancellazione dei contributi prevede inoltre un tetto annuo di 6.200 euro. Questo significa che potranno giovarsi dell'abbattimento totale solamente i contratti che sono intorno alla soglia retributiva limite, per tutte le altre retribuzioni lo sgravio sarà parziale. Non basta. L'incrocio tra tetto e somme stanziate permette di stimare in 161mila le possibili assunzioni annue, molto meno di quelle stimate dal Governo. Senza considerare, infine, il tentativo di una parte del Pd di far inserire nel testo la clausola che, se il rapporto di lavoro si interrompe prima dei tre anni, l'imprenditore sarebbe costretto a pagare tutti i contributi arretrati. Un modo per rendere più incerto l'incentivo e ridurre la spinta che può venire dalla misura.
Contraddittoria con la linea affermata dal Governo nel Jobs act appare anche la scelta di tagliare 200 milioni al Fondo che incentiva la contrattazione aziendale.
Sulla scarsa convenienza fiscale del Tfr in busta paga per chi ha redditi oltre i 15mila euro e sui rischi per la liquidità delle imprese è già stato detto tutto. Va però anche segnalato il rischio di un ulteriore aggravio di procedure burocratiche per le aziende, legato alla certificazione Inps e alla pratica con la banca.
Sui tagli di spesa vale la pena soffermarsi. In riferimento a Regioni e Comuni non si può che essere d'accordo con Renzi: i governatori hanno tutta la possibilità di far fronte ai tagli attraverso una maggiore efficienza della spesa ed eliminando gli sprechi. Vi sono Regioni (analisi di Gianni Trovati sul Sole di ieri) che, per il proprio funzionamento, spendono 192 euro pro-capite contro altre che si limitano a 22; Regioni che hanno una spesa corrente di 619 euro pro-capite a altre che si fermano a 275; Regioni che spendono per il personale 174 euro e altre solo 12. Gli spazi per l'efficienza e i risparmi, dunque, ci sono, eccome.
Ma è sui ministeri che il Governo deve dimostrare di saper fare la propria parte. In una tabella preparatoria della manovra sono indicati tagli molto specifici per oltre 3 miliardi, missione per missione, nella logica (quasi) di una vera spending review. Nella bozza della legge a oggi disponibile, quei tagli – come hanno raccontato sul Sole Marco Rogari e Marco Mobili – si riducono a poco più di 1,4. Cosa ne è di tutto il resto? Ci si piegherà ancora una volta alla logica degli interventi lineari, limitandosi a indicare l'obiettivo del 3% di riduzione? O si recupererà quella tabella voce per voce, magari con i dovuti aggiustamenti? Tra i due metodi c'è tutta la distanza che passa tra un Governo che si prende le proprie responsabilità e uno che demanda ad altri le scelte impopolari.
Sull'azzardo di mettere tra le coperture le stime della lotta all'evasione Il Sole-24 Ore si è soffermato tante volte, ma va anche detto che il Governo questa volta ha prudentemente messo da parte una riserva di 3,4 miliardi che può tornare utile, in questo senso, anche nella trattativa con l'Europa.
Sul credito d'imposta alla ricerca si parte solo da 260 milioni, una cifra certamente insufficiente e si lega l'incentivo esclusivamente agli incrementi di spesa, anziché al volume complessivo degli investimenti, come chiedevano le imprese. Viene inglobato, tra l'altro, il bonus oggi esistente per l'assunzione dei ricercatori.
È francamente poco per riattivare gli investimenti privati. Lo sconto Irap, certamente, dovrebbe fare di più. Ma quello che manca del tutto in questa manovra sono gli investimenti pubblici. Gli 1,7 miliardi che (come racconta Giorgio Santilli a pagina 2) il Governo ha reso disponibili in questi giorni in attuazione dello "Sblocca-Italia" sono utili, ma sono una goccia. Laddove il mare non può che essere, per un Paese con le nostre difficoltà di finanza pubblica, un mare europeo. Renzi ha più volte invocato una maggiore concretezza per il piano Juncker. Ma anche quando si parla di investimenti europei c'è una fondamentale responsabilità nazionale, che è quella di fornire buoni progetti.
L'Italia in questi anni è mancata totalmente in questa sfida: pochi buoni progetti e pochissima capacità di trovare il matching con i finaziamenti. In questi giorni finalmente c'è un tavolo governativo (coordinato da Del Rio e Pagani per conto di Padoan) che sta lavorando con gli uomini della Bei proprio per individuare i progetti possibili. C'è da augurarsi che produca risultati concreti. Perché non c'è dubbio che - come ha sottolineato il Governatore Visco proprio ieri nel suo intervento a Bologna - il rilancio dell'occupazione e della crescita può passare solo attraverso una ripresa degli investimenti.
In attesa, certo, del testo definitivo della manovra.

il Fatto 19.10.14
Maurizio Landini
“Macché leader della sinistra, volevo diventare calciatore”
di Silvia Truzzi


Il segretario generale della Fiom si racconta: la famiglia, la politica, l’impegno nel sindacato. Tutto è cominciato in un cantiere all’aperto, dove d’inverno faceva troppo freddo per lavorare otto ore. Molti ora lo vogliono a capo di una nuova formazione politica, ma lui non ci sta: “È un’operazione per delegittimare l’opposizione che stiamo facendo al governo su lavoro e diritti”

C’è un memorabile episodio nel Mondo piccolo, quando il compagno sindaco - organizzata la festa del partito in paese - vende il giornale del popolo per le strade. Il parroco gli chiede l’Osservatore romano e Guareschi annota: “Peppone, oltre alla testa, voltò anche il resto del corpo verso don Camillo. Non parlò, ma nei suoi occhi c’era un intero discorso di Lenin”. È la prima cosa che ti viene in mente quando nella sede della Fiom, tra manifesti di Cipputi e felpe rosse, Maurizio Landini comincia a raccontare di un paese dove - giovanissimo - è andato a lavorare. “Si chiama Cavriago, non so se lo conosce. Ma è un posto famoso perché c’è un busto di Lenin e tutti giorni gli mettono davanti un fiore fresco. Ancora oggi”. Tout se tient. Alle pareti puoi leggere un mucchio di parole rispettabili, e ormai sul viale del tramonto: lavoro, diritti, uguaglianza. Vecchia mercanzia abolita dalla nuova gauche rottamatrice. Ma il segretario generale della Fiom dice “salario”, “occupare le fabbriche”, dice anche “logica padronale”. E ci tiene a spiegare che non è un riflesso pavloviano, nemmeno nostalgia. Prima delle piazze e delle bandiere rosse, tutto inizia a Castelnovo ne’ monti, sull’appennino reggiano, nell’estate del ‘61. C’è un papà che fa lo stradino, e una famiglia numerosa – cinque fratelli, Maurizio è il quarto – che segue il lavoro paterno e scende dalla montagna in pianura. Fino a San Polo d’Enza, dove ancora oggi il segretario generale della Fiom abita. E torna appena può, anche se di tempo libero ne ha poco. “Stacco veramente solo quando sono a casa. Mia moglie ha un po’ di piante in giardino e quando posso la aiuto. Fare un lavoro manuale mi fa bene, mi scarica molto. Qualche volta vado a correre, ma sempre più di rado. In vacanza leggo gialli e ascolto musica. Autori italiani: Ligabue, De Gregori, Zucchero, la Mannoia”.
Ma come, niente Claudio Lolli e Guccini?
Nooo! La canzone politica, per come la s’intende generalmente, mi è sempre sembrata pallosa, pesante, triste. Non mi son mai piaciuti quelli che si piangono addosso. Le cose cupe non fanno per me.
Quando ha cominciato a lavorare?
Sono andato a scuola fino a 16 anni. Dopo le medie, ho fatto due anni di geometra, poi dovevo iscrivermi al terzo anno ma sono andato a lavorare: in casa non c’erano più soldi. Studiare mi piaceva, sono sempre stato promosso. Ho iniziato come operaio nel ‘77 da un artigiano che faceva cancelli e finestre. Nel ‘78 sono andato a lavorare in una cooperativa metalmeccanica, a Cavriago.
Il ‘77 è un anno di fuoco per l’Italia.
Ricordo solo gli echi del terrorismo, della contestazione. In quel momento ero più portato a giocare a pallone... Per me non era un periodo di impegno politico, anche se ero iscritto alla Fgci: dalle mie parti o eri in parrocchia o eri in cooperativa. E io avevo un papà che era stato partigiano comunista. In paese c’era la Cooperativa e sopra la sezione del partito. Il bar, che era il luogo dove alla sera si andava per trovarsi anche se non c’erano riunioni. Facevano davvero i cineforum, come nella canzone di Venditti. Io ero iscritto alla Federazione comunista perché stavo “naturalmente” da quella parte lì: ma il mio approccio alla politica non nasce dall’ideologia, nasce dal lavoro.
Cioè?
Dopo l’apprendistato, sono stato assunto come saldatore in una cooperativa che faceva impianti termo-sanitari e che aveva molti cantieri: andavi a fare impianti nelle case, negli ospedali, le prime esperienze di teleriscaldamento. Lavoravo anche all’aperto, sia d’estate che d’inverno. Ma lavorare otto ore all’aperto tra novembre e febbraio non è uno scherzo. Io il freddo lo soffro moltissimo, e c’erano inverni gelati nella bassa. È stata la mia prima battaglia, provare a lavorare un’ora di meno durante i mesi più rigidi: otto ore al gelo non sono uno scherzo.
Sono anni in cui succedono molte cose, c’è il tentativo del compromesso storico, il terrorismo, l’assassino di Moro. I movimenti.
In quel periodo Enrico Berlinguer era per tutti un punto di riferimento indiscusso. Anche per me, però il compromesso storico non mi convinceva. A casa mia gli accordi tra i comunisti e la Dc non si sono mai fatti. La solidarietà nazionale non era roba per noi.
E quando capisce che da grande avrebbe fatto il sindacalista?
Sono stato operaio saldatore fino all’85. In mezzo ho fatto il militare a Trapani e poi un pezzo a Modena. Fanteria, ricordo che facevo delle gran guardie. Però, visto che ero saldatore, mi facevano fare dei lavori di manutenzione.
Sembrava più il tipo da obiezione di coscienza...
Se uno all’obiezione non ci credeva, fare quella scelta era una paraculata: facevi l’obiettore per non partire. Così ho optato per il militare. Tornato a casa, a un certo punto mi chiedono se sono disponibile a fare un’esperienza sindacale fuori dalla fabbrica. E dico sì. Il lavoro però a me piaceva. Fare il saldatore non è mica facile, ci vuol degli anni a imparare: bisognava prendere i patentini. È un mestiere pesante. Come dicevo la cosa che mi pesava di più era stare fuori d’inverno. Ma c’era il problema della cooperativa.
Cosa vuol dire?
Che eravamo tutti soci. Poi che eravamo tutti comunisti, avevamo tutti in tasca la stessa tessera, però otto ore col gelo nelle ossa ci stavano solo alcuni. E quelli che invece fuori non ci stavano-sempre comunisti, eh – eccepivano, accampavano scuse. Una volta dissi al compagno direttore del personale che in tasca avevamo la stessa tessera, che però la tessera non mi proteggeva dal freddo. Non si poteva buttarla in politica per fregare i lavoratori! Alla fine l’abbiamo spuntata. E lì è iniziato tutto.
Invece il suo sogno da bambino era?
Mi piaceva tantissimo giocare a calcio, sognavo di farlo per mestiere. Non avevo i mezzi. Correvo tanto, ero molto generoso, ma i piedi non erano buoni. Ero uno come tanti, un mediano, come quello di Ligabue. Oggi purtroppo non ci riesco più, sono completamente fuori allenamento. Però nemmeno pensavo che avrei fatto il sindacalista: m’immaginavo che avrei fatto l’operaio saldatore.
Torniamo ai suoi primi passi nel sindacato, dopo la battaglia del freddo.
Gli anni in cui esco dalla fabbrica per entrare alla Fiom coincidono con il momento in cui Craxi decide, con il famoso decreto di San Valentino, di tagliare quattro punti alla scala mobile. Lo ricordo bene perché è stato un passaggio di rottura nella Cgil, tra i socialisti di Del Turco e gli altri. Tutto questo porterà a una spaccatura profonda, con il Pci che - perso il referendum - perde anche la capacità di condizionare i governi, anche se al governo non ci sta. Lì inizia il declino della rappresentanza del Partito comunista.
Non a caso, sui temi del lavoro.
È la prima volta che s’interviene sui temi del lavoro senza che ci sia bisogno del Pci, anzi contro il parere del Pci. Poi sparirà la scala mobile, e dopo ancora spariranno i contratti nazionali. Io avevo appena messo il naso fuori dalla mia azienda. Seguivo le vertenze sindacali di quattro o cinque Comuni della zona, sui cui mi avevano dato la competenza: tra aziende e piccole imprese erano una sessantina. Facevo assemblee, incontri, trattative. Quando ho dovuto abbandonare la scuola, nella mia testa c’era che avrei potuto fare le serali, volevo trovare il modo di diplomarmi. Non l’ho fatto, però il sindacato è stata la mia università. Nel ‘91, a 29 anni, mi hanno chiesto di fare il segretario provinciale della Fiom a Reggio Emilia, poi in Emilia Romagna, poi a Bologna. E dopo a Roma.
Dov’era mentre si consumava la Bolognina?
Io al partito sono stato iscritto, fino a un certo punto, sempre senza ruoli. Nella mia sezione appoggiai Occhetto e la svolta. Poi quando i Ds hanno scelto di sciogliersi per dare vita al Pd, le nostre strade si sono divise. La consideravo un’operazione a tavolino, che non aveva progetti, non era fondata su idee comuni e valori. Temevo, e avevo ragione, che attraverso la fusione fredda di Margherita e Ds si sarebbe arrivati alla scomparsa della rappresentanza politica dei lavoratori. Avevo ragione. Oggi in tasca ho due tessere...
... quella della Cgil e?
Quella dell’Anpi. Mio papà ha fatto la Resistenza. Aveva 18 anni e nel ‘43 doveva partire militare per andare a Salò. Ma scelse di disertare ed entrò in clandestinità. È stata una cosa importante per noi figli, anche se lui era un uomo taciturno. Per me è stato sempre un riferimento, un esempio più per le cose che faceva che per quello che mi diceva.
Con Renzi avete avuto un buon feeling all’inizio. Che è successo?
Sono cambiate le scelte politico-economiche. Il suo modello di società – per come viene fuori dalle dichiarazioni, perché per ora non s’è visto molto di concreto – è sideralmente distante dal mio. Le sue proposte sono una regressione pericolosa. Schematizzando, il modello di relazioni politiche a cui ambisce è molto americano, un sistema che riduce gli spazi di partecipazione dei cittadini.
Capitolo Fiat: un’azienda che ha la sede legale in Olanda, fa le auto a Detroit, è quotata a New
York, paga le tasse a Londra e in Italia ha lasciato briciole di produzione e cassintegrati. Le sarà venuto un colpo quando ha visto le immagini americane del premier con Marchionne.
Renzi è intelligente, veloce, ma anche pericolosamente spregiudicato. È uno che non fa nulla a caso. Ha dichiarato che non andava a Cernobbio perché non gli interessavano i discorsi di quelli che vanno nei salotti buoni. Poi è andato nella famosa rubinetteria, ma con Squinzi, il presidente di Confindustria. E, guarda un po’, sta assumendo in toto le loro richieste: Irap, quella cosa che lui chiama job act, l’articolo 18. E poi: non è andato a Cernobbio, ma da Marchionne sì. Mi sfugge completamente come la Fiat possa essere un esempio: non solo per la fuga all’estero, ma anche per gli atteggiamenti precedenti, la decisione di escludere la Fiom dalla rappresentanza sindacale interna, il modo ricattatorio con cui ha portato avanti l’accordo per lo stabilimento di Pomigliano. Bisogna distinguere sempre i rapporti tra le persone e le scelte politiche. Vorrei precisare una cosa: non è Marchionne la questione, è la politica industriale e occupazionale della Fiat. Uno dei nostri mali, in un senso o nell’altro, è l’eccesso di personalizzazione.
Dicono: i sindacati tutelano una minoranza già tutelata.
Come direbbero dalle mie parti, questo è vero fino a mezzogiorno. Abbiamo assistito a un processo legislativo che ha permesso alle imprese di riorganizzarsi, liberandosi dai vincoli: esternalizzazioni, appalti, subappalti. Determinando anche l’impossibilità per noi di utilizzare alcuni strumenti contrattuali classici. E lo dico senza voler sollevare dalle loro responsabilità i sindacati, che non hanno fatto abbastanza per capire come bisognava cambiare e reagire. Oggi un imprenditore può lavorare, e quindi trarre profitto, senza avere alcuna responsabilità sulle condizioni di lavoro di chi concorre a formare questo profitto. Quando io sono entrato nel mondo del lavoro, dal centralinista al progettista erano tuttiinquadrati nello stesso contratto: oggi sotto lo stesso tetto ci sono persone che fanno lo stesso identico lavoro, ma con trattamenti diversi. Una delle riforme da fare, è ridurre drasticamente le forme contrattuali.
Questo lo dice anche Renzi.
Sì, ma in un’idea di riforma che ci esclude completamente. Deve mettere in condizione i lavoratori, se lo vogliono, di potersi organizzare collettivamente e contrattare le proprie condizioni. Io penso che sia necessario arrivare al contratto dell’industria, il contratto dei servizi, il contratto dell’artigianato. Forme che garantiscano a tutti, a tutti, diritti minimi: orari, salario, malattia, maternità. Non c’è all’orizzonte nessun provvedimento sugli appalti, perché questo sistema fa comodo: innesca un regime di competizione tra i lavoratori, e non sul piano delle competenze, delle capacità o dei talenti. Se poi si va incontro alla logica della Fiat, saranno le aziende a decidere quali sindacati, quali diritti.
Tornato dagli Usa Renzi è andato da Fabio Fazio e ha detto: gli imprenditori devono avere la possibilità di licenziare. Che effetto le ha fatto?
Mi ha fatto incazzare. Ho pensato: ma a Renzi cosa hanno fatto di male quelli che per vivere devono lavorare? Perché ce l’ha così tanto con loro? Prevale in questi discorsi la logica padronale. Non autoritaria, proprio padronale: cioè di chi vuole poter disporre di te e della tua vita. Il principio di fondo è che il singolo lavoratore, nel rapporto con l’imprenditore, è più debole perché dipende da lui, e quindi ha bisogno di diritti per riequilibrare in parte una relazione che altrimenti sarebbe sbilanciata. Se neghi questo, affermando che l’imprenditore può disporre del lavoratore come gli va, svilisci le persone. Per uscire da questa crisi, la ricetta non è la liberalizzazione selvaggia sulla pelle dei cittadini. Non è accettabile: il modello sociale che propone Renzi è aggressivo, competitivo, feroce. Non terrà. Perché le persone non devono competere tra loro per poter vivere lavorando.
Da molto tempo le domandano di diventare il leader di una formazione di sinistra. Lei si è sempre schernito, ma ultimamente le voci sono moltiplicate e gli osservatori scrivono di una sua maggiore disponibilità.
Questa campagna è un modo per sminuire quello che stiamo facendo per costruire sui temi del lavoro una proposta alternativa a quella del governo. E non è un caso che le voci si moltiplichino adesso: c’è la manifestazione del 25, si parla di uno sciopero generale, siamo a uno scontro vero sul piano sociale, perché se tutto quello che Renzi ha messo in fila va in porto, i rapporti sociali e sindacali cambiano radicalmente. Il governo ha scelto i contenuti della Confindustria, decidendo di attaccare frontalmente i diritti: articolo 18, cancellazione dello statuto dei lavoratori. Il tentativo di dire “la Fiom o Landini sta cercando di fare un partito” è un’operazione di bassissimo livello che vuole solo delegittimare l’opposizione che stiamo provando a fare alla politica di Renzi. Buttano la palla fuori dal campo. Ma non glielo facciamo fare.
Si ricorda l’imitazione di Bertinotti che faceva Corrado Guzzanti? L’atomizzazione della sinistra... È andata così, non è rimasto nulla.
Questa è un’altra questione, sulla quale sono certamente d’accordo. Però già nel 2010, all’indomani della manifestazione in piazza San Giovanni, scrissero che volevamo fare un partito.
Lei dice cose di sinistra.
Le ho sempre dette e pensate. Semplicemente prima non mi conosceva nessuno. Dicono che buco lo schermo perché riesco a farmi capire, ma questo dipende dall’esperienza che ho fatto nel sindacato.
Vabbè, ma non è mica sposato con la Fiom.
Io ho un patto con il sindacato. Non posso nemmeno immaginare che un iscritto della Fiom possa pensare che l’ho utilizzato per fini personali. Ho preso un impegno, il mio mandato scade fra tre anni. Nessuno mi crede, ma è così.
Ma non potrebbe fare le stesse cose in Parlamento?
È un altro mondo. Il vuoto politico che indubbiamente c’è a sinistra non lo può riempire un leader calato da Marte e non lo si può fare nemmeno incollando insieme tante realtà, frammentate tra loro. Nella mia testa io mi vedo sindacalista. Aggiungo: quando dico i lavoratori non hanno un riferimento politico, penso a tutte le persone che per vivere devono fare un lavoro salariato. E siccome sono quelli che producono la ricchezza, hanno il diritto di avere un’adeguata rappresentanza in Parlamento. Bisogna però prima creare le condizioni per un movimento in cui sono i cittadini a decidere quello che verrà. L’idea dell’uomo carismatico che risolve tutti i problemi è una stupidaggine.
Si sente ancora comunista?
Non ho studiato Marx, quando ho preso la tessera della Fgci non capivo quasi nulla. Mi sono sempre sentito una persona che stava dalla parte dei più deboli e di quelli che lavorano. Mi danno fastidio le ingiustizie e le disuguaglianze. E adesso sono molto arrabbiato, perché non ho mai visto così tanta disuguaglianza sociale. Penso ai cassintegrati, ai disoccupati, ai precari, a quelli che s’ammazzano perché non sanno come tirare a campare. Il lavoro non è una merce che si compra e vende, perché attraverso il lavoro le persone trovano non solo i mezzi per sostentarsi, ma anche realizzazione e dignità.
Il 25 ottobre sarà un altro Circo Massimo?
Allora il presidente del Consiglio si chiamava Silvio Berlusconi, oggi il premier è il segretario del Pd. Non c’è più semplicemente l’attacco all’articolo 18 e allo statuto dei lavoratori. In questi anni il mondo del lavoro si è spezzettato, il tasso di astensione elettorale è ulteriormente aumentato. Il peggioramento è generale. Oggi ricostruire un punto di vista comune è più difficile rispetto al 2002. Però sento crescere attorno alla Fiom e alla Cgil un consenso che mi fa dire che il 25 sarà l’inizio di una lotta: adesso andare in piazza non basta. Bisogna porsi il problema di quanto essere duri per fermare i piani del governo. Il messaggio che bisogna mandare è che oltre alla manifestazione, oltre allo sciopero generale che va fatto, ci saranno altre iniziative per portare avanti un progetto alternativo a quello del governo. Ci sono altri modi per reperire risorse: combattere l’evasione fiscale, la corruzione, cancellare la riforma delle pensioni. In Parlamento è finita la discussione, non è più il luogo in cui i rappresentanti dei cittadini possono far valere un’opposizione efficace al governo: la delega in bianco sul decreto lavoro è la prova lampante. Allora bisogna dimostrare in altri modi e in altri luoghi che il governo non rappresenta la maggioranza del Paese. La gente mi ferma per la strada e mi dice: tenete duro.

il Fatto 19.10.14
L’involuzione
Cos’è il lavoro: una guerra tra poveri senza vincitori
di Furio Colombo


Per cominciare, come tutti, parliamo del lavoro dei giovani. Viene trattato come un problema sociale, tipo quartiere a luci rosse, la città a dimensione umana, le energie alternative, le piste ciclabili, i presidi sui territori o, se volete, il “jobs act”, che prende il nome americano proprio per sembrare un’altra cosa, ma è poco più di una esortazione. Non è vero che manca il lavoro dei giovani. Il lavoro manca e basta. Infatti, se guardate bene, sono in movimento due scale mobili, una sale, quasi vuota, verso porte chiuse. È quella del lavoro e di tutti i suoi “acts” che dovrebbero garantire la ripresa (invece è il contrario, è la ripresa, se ci fosse, che garantirebbe il lavoro). L’altra scende, gremita di licenziati, esodati, prepensionati e precari già dismessi, che ha due nomi: vista dal basso e tra la gente, è la disoccupazione. Vista dall’alto, da chi spinge giù dalla scala, è risanamento. Si ottiene chiudendo, vendendo, spostando una grande impresa dall’altra parte del mondo, realizzando festosamente un “merger” (fusione) di aziende diverse, in cui metà del personale è in esubero, rendendo smilza e moderna una impresa che va bene in modo da “premiare” investitori e manager liberandosi dalle persone.
DA UN CERTO numero di anni le persone sono sempre in esubero. Sul problema si affacciano due esperti. Uno è il Nobel per l’Economia Paul Krugman che, sul New York Times del 3 giugno scorso, difende e sostiene Thomas Picketty nella sua affermazione che “si consolidano ricchezze sempre più grandi e sempre più lontane dai livelli della povertà, che sono in continua espansione”. E aggiunge: “L’ineguaglianza fra vertici irraggiungibili e condizioni invivibili è stabile in un anno ma anche in dieci. Non si sono viste tassazioni, trovate, espedienti, benefici che abbiano intaccato la diseguaglianza, salvo le tasse sui ricchi che tendono a diminuire il loro contributo e ad aumentare la distanza da coloro che sono esclusi dalla ricchezza”. Cioè il lavoro.
Ed ecco l’altra voce. Alan Friedman (Il Corriere della Sera, 8 agosto). Non fate caso al dislivello. È una buona testimonianza di cultura del tempo. “Il motivo principale per cui l’economia italiana continua a essere anemica, è la mancanza di modernizzazione. (...) Senza un costo del lavoro ragionevole, una vera flessibilità del mercato della occupazione, una migliorata produttività, l’Italia non potrà progredire (...). Ora c’è Renzi, che prova a spingere l’acceleratore ma inciampa nei gattopardi del suo partito, o nelle resistenze di Sel e dei cinquestelle. Ma Renzi deve, se necessario, ‘sbattere la testa contro il muro’ e proporre cambiamenti strutturali che non faranno piacere a Susanna Camusso”. In altre parole, come in altri tempi si diceva, per descrivere una drammatica alternativa, “O la borsa o la vita”, adesso l’alternativa sembra essere: “O la ripresa o il lavoro”. Ovvero è il lavoro che si mette in mezzo, con le sue ottuse pretese, fra noi e il benessere.
“NOI” È una piazza polverizzata senza partiti e senza movimenti, dove ciascuno diffida di tutti, non appartiene a niente, e si sente personalmente danneggiato dalla paga di A, che ancora lavora, e dalla pensione di B, che è sicuramente un privilegio. Ma non si sente danneggiato dalla ricchezza di C, meglio se immensa, perché è una buona garanzia (come si è visto, infondata) che il ricco non ruba e non depreda lo Stato come insegnanti, giudici e impiegati pubblici. La strategia vincente, al momento, è la guerra tra poveri, tra chi vive di lavoro dipendente o ne ha le pensioni, tra sindacati, tra movimenti che vorrebbero difendere il lavoro. A essa è stata aggiunta la guerra generazionale, in modo da essere sicuri che i vecchi che hanno lavorato e lasciato nel lavoro la loro testimonianza, non abbiano rispettabile voce in capitolo. Ogni anziano deve apparire come il vero ostacolo ai diritti di un giovane. L’antipolitica è stata poco a poco trasformata in anti-lavoro, e guerra fra chi non ha. Piace che si mandi via gente alla Rai. Certamente sono abusivi. Piace mandar via gli statali, riciclando tutte le storie dell’impiegata che chiude lo sportello, benchè ci sia la coda, per fare la spesa. Circola una curiosa antipatia per l’Alitalia, e la persuasione che le centinaia di esuberi siano perdigiorno finalmente stanati. Tu hai il mio posto. O un posto che io occuperei molto meglio.
QUESTA acredine può tenere fermo e isolato il lavoro, mentre altri provvedono a spezzarlo, spostarlo, delocalizzarlo, privarlo di dignità, trasformarlo nella implorazione di certi cortei di fronte alla fabbrica vuota. È strano, ma in un momento così drammatico non esiste un partito del lavoro. Non esiste chi dice, con autorevolezza e ascolto, che il lavoro non è elargizione, non è spreco, non è spesa buona ma impossibile, non è una trovata politica e non è neppure classe. È la forma necessaria di un tipo di società, quando ha raggiunto un grado di civiltà che credevamo il nostro presente. Infatti è la società descritta dalle Costituzioni europee del dopoguerra, e – con particolare enfasi e attenzione – dalla Costituzione italiana.
C’è una risposta. Il lavoro (che non sia precariato o lavoro a giornata, per quanto travestito da stage) ha senso nella lunga durata delle strutture sociali, quando si produce ad esso e si investe nella ricerca per il futuro. Ma la vita si è contratta tra lo spasimo delle borse, dove conta solo ciò che si incassa subito, e lo spasimo del potere, che deve compensare subito perché non dura. Nella vita breve conta la tangente, la distanza esagerata fra la base (tutti) e il vertice di ignoti proprietari. Conta la delocalizzazione e la fuga. Tanti ce l’hanno fatta, nel mondo del lavoro negato, abolito o umiliato, vissero a lungo felici e contenti.

Corriere 19.10.14
Il ministro Orlando
«Per i pm più discrezionalità sui reati Il Pd? Rischio comitato elettorale»
«Sulla riforma della giustizia giusto andare oltre la maggioranza. San Vittore va chiuso»

intervista di Aldo Cazzullo

«L a riforma della giustizia va fatta con le opposizioni. Sui reati finanziari c’è intesa coi 5 Stelle, sulla responsabilità dei magistrati con FI — dice il ministro Orlando al Corriere —. Rivedremo appello e ricorso in Cassazione, aumenteremo la discrezionalità del pm sull’azione penale». E sulle carceri: «San Vittore va chiuso»
Ministro Orlando, anche lei pensa che i magistrati facciano troppe ferie?
«Penso che il taglio delle ferie si sia caricato di un significato ulteriore. Non è certo la pietra angolare della riforma; ma non è neppure un atto di lesa maestà, o un’aggressione».
È evidente che le ferie sono un simbolo. Il punto è che la giustizia è lenta e incerta.
«Non sono solo un simbolo. È uno dei tanti provvedimenti per migliorare le performance della giustizia. Pur riconoscendo la specificità del lavoro dei magistrati, credo se ne possa e se ne debba discutere».
Questa settimana arrivano alla Camera il decreto e la legge delega sulla riforma del civile. Il governo punta sulla composizione extragiudiziale. Che esiste già; e non funziona.
«Ampliamo percorsi che già ci sono. Ne apriamo di nuovi. E facciamo diventare gli avvocati promotori di questi percorsi. L’avvocato non ha interesse solo a mantenere la causa; diventa un soggetto che previene e ricompone il conflitto».
Così il cittadino deve pagare per avere giustizia.
«Non è vero. Lavoriamo a un sistema di incentivi: una parte delle spese per gli arbitri e per la negoziazione sarà detraibile. E non è vero che la giustizia viene privatizzata: se le parti non si ritengono soddisfatte, possono tornare alla giustizia ordinaria. La vera privatizzazione è un processo che dura 10 o più anni, in cui soccombe la parte più debole, che non è nelle condizioni di aspettare».
In Italia ci sono troppi avvocati?
«Il blocco del turn-over ha spinto una generazione verso la libera professione. La crisi dello status dell’avvocato diventa un problema democratico: l’avvocatura era un bacino in cui si selezionava la classe dirigente del Paese. Miglioreremo la formazione dei giovani, che potranno fare il tirocinio accanto a un giudice, e attueremo la riforma dell’ordinamento: avremo avvocati specializzati, come i medici».
È possibile rivedere l’obbligatorietà dell’azione penale?
«Il principio costituzionale deve restare. Però leggi già votate dal Parlamento hanno già ampliato la flessibilità. La riforma introduce un ulteriore elemento di discrezionalità per il pm, la condotta riparatoria: chi fa un danno si impegna a risarcirlo, ripristina la situazione precedente, e il reato si estingue prima del processo».
Perché si parla sempre di svuotare le carceri? E’ impossibile costruirne di nuove? Riconvertendo quelle nei centri storici, da San Vittore a Milano a Regina Coeli a Roma?
«Costruire è necessario. Va anche detto che l’aumento dei detenuti non è dovuto a un aumento dei reati, ma a una scelta politica. L’Italia ha deciso di aumentare il ricorso al carcere per droga e immigrazione. Meglio puntare sulla pena in comunità, sui lavori di pubblica utilità. Con Regioni e Comuni rimoduleremo il piano carceri, anche per cogliere l’occasione urbanistica legata a immobili di grande valore. Io sono per chiudere le carceri ottocentesche con i raggi, come San Vittore, non per riaprirlo altrove ma per sostituirlo con un carcere più piccolo fuori Milano».
È possibile limitare l’appello e il ricorso in Cassazione?
«Ci confronteremo con l’associazione magistrati e con gli avvocati. Non credo a ricette tranchant, tipo abolire l’appello. Ma si può far sì che non tutto sia appellabile, e non tutto possa finire in Cassazione. Nella riforma è prevista una sorta di “superpatteggiamento”: una confessione con sconto di pena, una “condanna concordata” non appellabile».
La responsabilità civile dei magistrati non sarà una punizione?
«Modificare la legge Vassalli del 1988 era una necessità, imposta anche dall’Unione Europea, che ci obbliga a varare una nuova legge entro fine anno. Se il Parlamento non farà in tempo dovremo intervenire per decreto; ma la considero un’extrema ratio. La responsabilità dei magistrati resta indiretta: paga lo Stato, che può rivalersi sul magistrato, che però risponderà per l’errore, non in base alla grandezza della causa. Altrimenti nessuno vorrà fare processi grandi e quindi rischiosi».
La magistratura ha un atteggiamento conservatore?
«Avevamo avviato un dialogo costruttivo. Ho visto un cambio di atteggiamento molto forte legato alla vicenda delle ferie, forse perché le si è attribuita un’enfasi che è stata scambiata per un’aggressione».
Renzi ha sbagliato?
«Penso abbia voluto emblematizzare alcuni interventi, come in altri campi. C’è bisogno di parlare con l’opinione pubblica, di semplificare il messaggio. Credo che l’Anm sappia che noi non abbiamo mai fatto di questa misura un punto centrale. Mi auguro che si riprenda la discussione, ora che la legge di stabilità risponde a molte richieste dei magistrati. Ci sono i soldi per mille assunzioni nelle cancellerie, per stabilizzare i precari della giustizia, per riqualificare il personale».
L’Anm critica le nuove norme sull’autoriciclaggio: limitarlo alle attività economiche e speculative consente ad esempio di comprarsi una villa con i fondi neri.
«Se il reato di autoriciclaggio fosse una cosa semplice sarebbe già stato introdotto non tanto dalla destra, che non l’ha mai voluto, quanto dalla sinistra. Si tratta di una misura storica. Il cuore è impedire l’inquinamento dell’economia da parte di capitali illeciti, che alterano la concorrenza. Possiamo stabilire che comprare una villa con i fondi neri alteri il mercato immobiliare. Ma non possiamo semplicemente moltiplicare le sanzioni già previste per il reato presupposto, quello per intenderci con cui si è fatto il nero».
Come cambieranno le intercettazioni?
«Il tema va affrontato. La delega lo prevede. Dobbiamo conciliare le esigenze delle indagini con quelle della privacy e del diritto all’informazione. Serve un filtro per non far finire nei fascicoli ciò che non è penalmente rilevante».
Il patto del Nazareno prevede un accordo sulla giustizia?
«No. E non ne ho avuto alcun tipo di segnale. Non ho mai ricevuto un diktat legato a patti segreti. Ma l’esigenza del confronto è fisiologica. Nella maggioranza ci sono forze che avevano programmi sulla giustizia molto diversi. E i numeri molto risicati al Senato ci impongono il confronto con le opposizioni. So che la navigazione è difficile: bisogna cercare ogni giorno punti di contatto. Ma andare oltre la maggioranza non è solo un’esigenza numerica; è un esigenza politica. Non è un obbligo previsto dalla Costituzione. Ma dopo lo scontro di questi vent’anni costruire una grande infrastruttura come la giustizia è una questione di rilevanza democratica».
Sta dicendo che il governo vuole fare la riforma della giustizia con le opposizioni?
«Sul civile c’è stato in commissione un atteggiamento costruttivo da parte di tutte le opposizioni. Mi auguro prosegua in Aula. Il consenso cambia a seconda del tema. Ci sono priorità simili sui reati di criminalità economica con i 5 Stelle e con settori di Forza Italia sulla responsabilità dei magistrati. Sul civile si possono ridurre le distanze con tutti. Del resto non esiste “la” riforma della giustizia. Esistono molti provvedimenti».
Un eventuale appoggio di Berlusconi su alcuni punti farà pensare a patti inconfessabili. Grazia compresa.
«La storia di questi mesi dimostra che si tratta di allarmi infondati. Un genere letterario, più che un’azione del legislatore o del governo».
Che voto dà a Renzi?
«Sicuramente positivo. Renzi sta cercando di rompere la temperie tecnocratica degli ultimi vent’anni, sorprendendo tutti. Renzi ha smentito Renzi. Ai tempi di Monti lo ricordo tra i più convinti supporter della sua agenda. Ora ha ridato respiro alla politica, incrinando la logica ragionieristica della gestione europea della crisi. Non solo rigore, ma redistribuzione del reddito e incentivi. Ora va proposta una politica industriale».
Lei però viene da una parte del Pd che rischia di essere spazzata via. Il partito diventerà il comitato elettorale di Renzi?
«Il rischio comitato elettorale c’è. Ma non inizia con Renzi. Non si tratta di coltivare la nostalgia del tempo delle sezioni. Dobbiamo costruire il partito facendo i conti con le nuove tecnologie, dando uno sbocco alla partecipazione attiva dei cittadini, in altre forme oltre a quelle delle primarie. Altrimenti sono in pericolo, oltre al partito e alla qualità democratica, anche le riforme. Che non dipendono solo dalle norme, ma da quel che si riesce a cambiare nel profondo del Paese».
D’Alema e Bersani faranno la scissione?
«Sono convinto di no. Non è nella loro cultura politica un posizionamento di mera testimonianza».

Corriere 19.10.14
Le dimissioni dopo la sentenza Ruby? «Incoerenti con regole e deontologia»
Nota del presidente della Corte d’appello di Milano. E Spataro: le sentenze si rispettano
di Luigi Ferrarella


MILANO Il primo giorno, tramortito dall’enormità del gesto di un suo giudice, senza precedenti nella storia giudiziaria italiana, il presidente di tutta la Corte d’appello di Milano, Gianni Canzio, si era limitato a una gelida presa d’atto delle clamorose dimissioni di Enrico Tranfa, presidente del collegio (e della seconda sezione penale della Corte d’appello milanese) che giovedì aveva depositato le motivazioni dell’assoluzione il 18 luglio di Silvio Berlusconi dalle imputazioni di concussione e prostituzione minorile valse invece 7 anni di condanna in primo grado all’ex presidente del Consiglio nel processo Ruby.
Ma ieri Canzio è andato oltre la constatazione del carattere «clamoroso e inedito» del gesto di Tranfa. E in una nota ufficiale ha stigmatizzato Le dimissioni del giudice perché, «se dettate dal motivo — non esplicitato direttamente dall’interessato ma riferito dai vari organi di stampa — di segnare il personale dissenso dal presidente del collegio rispetto alla sentenza assolutoria di Appello nel procedimento a carico di Silvio Berlusconi, non appaiono coerenti con le regole ordinamentali e deontologiche». Esse, infatti, «impongono l’assoluto riserbo dei giudici sulle dinamiche, fisiologiche, della formazione della decisione nella camera di consiglio dell’organo collegiale». Canzio rimarca che «ciò vale a maggiore ragione quando il processo sia stato celebrato, come nel caso concreto, in un clima di esemplare correttezza».
Se restano in silenzio gli altri due giudici Locurto e Puccinelli, indirettamente tacciati da Tranfa di aver adoperato nel processo a Berlusconi un metro di giudizio diverso da quello utilizzato nei processi agli imputati comuni, le dimissioni di Tranfa stanno destando riflessioni critiche anche di altri pesi massimi della categoria.
«Da sempre — ragiona ad esempio il procuratore della Repubblica di Torino, Armando Spataro, interpellato dopo la nota di Canzio — noi magistrati diciamo che le sentenze possono essere criticate ma si rispettano. Deve rispettarle il condannato, l’assolto, la parte civile, il pm. Ma deve rispettarle anche chi le emette». A Lo Curto, di cui dice di «non aver sempre condiviso posizioni associative» dentro la corrente di Area/Magistratura democratica, e ad Alberto Puccinelli «che praticamente non conosco», Spataro rivolge un «abbraccio sincero» anche perché «penso a come mi sentirei se fossi uno degli altri giudici del collegio: chiederei che il presidente dimessosi desse una spiegazione tecnica, anche per evitare illazioni che iniziano a circolare sulla eterodirezione del verdetto. Ma soprattutto, gridando a squarciagola, spiegherei che sono indipendente e soggetto soltanto alla legge, che uso lo stesso metro di valutazione per extracomunitari e potenti, e che per questo non mi interessa il livello di gradimento delle mie decisioni».

Repubblica 19.10.14
“È necessario poter licenziare gli insegnanti che non lavorano”
Il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, contestata dagli studenti, lancia la sfida: “È giusto punire chi non sa fare il proprio mestiere”
intervista di Corrado Zunino


PALERMO Il tour palermitano del ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, ieri, dalle undici di mattina alle sette di sera, ha registrato nell’ordine: un incontro con i dirigenti scolastici di Palermo al liceo Regina Margherita, una contestazione di cinquanta studenti medi all’esterno della scuola sfociata in uno sfondamento delle forze dell’ordine (due contusi e un fermo), una nuova contestazione fuori dal Teatro Al Massimo quando, alle 15,30, è iniziato il dibattito “Se mille giorni bastano. La scuola nuova” (il ministro, abito fiorato, tacco alto, è entrata da un ingresso secondario), quindi un assedio di domande extra-time da parte di docenti in ruolo, docenti precari e studenti e una rapida uscita del ministro che ha nuovamente evitato la piazza (i contestatori, a loro volta, avevano detto no all’ingresso di una delegazione in teatro: «O tutti dentro o tutti fuori»).
L’incontro alla Repubblica delle Idee si è aperto con la presentazione da parte di Ilvo Diamanti del sondaggio Demos-Coop che ha illustrato come la scuola sia l’unica istituzione ad aver tenuto in un deserto di macerie pubbliche e come il 44 per cento (maggioranza relativa) sia convinta che grazie alla proposta del governo l’intero sistema migliorerà: «Tutti ci attendiamo che la riforma venga attuata », ha detto Diamanti. La scrittrice, e preside a Vicenza, Mariapia Veladiano nel suo intervento ha detto che, sì, «non sempre le assunzioni di insegnanti hanno corrisposto a criteri di qualità: per funzionare la scuola deve prevedere la possibilità di licenziare».
Ministro, partiamo da qui: gli istituti scolastici devono avere la possibilità di licenziare i docenti inadatti?
«Dobbiamo entrare in un nuovo modello di istruzione che, innanzitutto, dia certezza e stabilità agli insegnanti precari, poi li avvii a una formazione permanente, quindi alla possibilità di essere valutati. La nuova scuola dovrà offrire incentivi a chi merita e si impegna e alla fine, certo, dovrà occuparsi con rigore e severità di chi non fa bene il suo mestiere. Oggi la scuola è troppo sindacalizzata. È sana, ma ha bisogno di irrobustirsi ».
Come procede la consultazione sul progetto di riforma del governo: docenti e studenti leggono davvero quelle 126 pagine?
«A ieri mezzo milione di persone, statisticamente tante, hanno passato almeno cinque minuti a sfogliare il rapporto, e cinque minuti su internet sono un’eternità. La metà, 250 mila, ha fatto anche un ripasso. Chi non ha letto il rapporto ha comunque compreso che abbiamo toccato due o tre nodi cruciali: i 148mila docenti che restano fuori ogni anno rendendo instabili le classi e loro vite e che noi assumeremo, l’introduzione del merito nella carriera degli insegnanti, l’alternanza scuola-lavoro ».
Sette Land tedeschi hanno annunciato università gratis per tutti. L’Italia, che subisce le politiche economiche dettate dalla Germania, rischia di chiudere le sue università o le costringe ad alzare le tasse.
«Dobbiamo colmare le distanze con il tempo, con i progetti. Intanto nella legge di stabilità abbiamo blindato 150 milioni per il Fondo di finanziamento degli atenei. Ora dobbiamo occuparci del welfare per gli studenti. Il numero dei laureati da noi è raddoppiato nel corso di una generazione, ma resta basso, il 18 per cento. Al Sud si registra un calo degli iscritti, però molti atenei sfornano eccellenze richieste in tutto il mondo ».
Servono mille giorni per cambiare verso all’università e alla scuola?
«Nei primi centottanta abbiamo fatto cambiamenti minimi normativi, questo è un bene, e atti concreti visibili. Per gli investimenti ora c’è un miliardo fresco, più altri due per la prossima stagione. Negli ultimi venti anni non si erano mai visti finanziamenti così».
Il vostro progetto, come ha ricordato uno studente in platea, apre alla scuola azienda.
«Vogliamo che i privati investano nei progetti educativi, non che li controllino. Dobbiamo saldare formazione, professione e qualificazione delle competenze. L’anno scorso 65mila posti di lavoro non sono stati occupati perché mancavano le competenze».
Spingete sulla scuola digitale, ma il processo è lontano.
«La digitalizzazione riguarda solo il 32 per cento degli istituti, è necessario investire qui i risparmi che stiamo facendo e che faremo con la fine delle supplenze».

Repubblica 19.10.14
Furlan: “Il Tfr di Renzi ci renderà più poveri”
La neo leader Cisl: un errore metterlo in busta paga, no all’aumento di tasse sui fondi pensione
Il governo tagli gli sprechi, iniziando dalle 10.000 partecipate pubbliche, di cui solo 2.000 fanno servizi
di Luisa Grion


ROMA Molte aperture e tre chiusure, tre provvedimenti presi dal governo Renzi che la Cisl vuol cambiare. Il bonus da 80 euro che va esteso anche ai pensionati, la busta paga degli statali, che dopo sei anni di blocco, va ricontrattata e soprattutto va rivista la manovra sul Tfr perché «così com’è rischia di mettere la pietra tombale sulla previdenza integrativa consegnando il futuro alla povertà». Su tutto il resto Anna Maria Furlan, da dieci giorni segretaria generale del sindacato, pensa che con il governo si possa ragionare, anzi «dialogare».
Lei parla di dialogo: fino ad oggi Renzi non è sembrato molto interessato a sentire il parere di Cgil, Cisl e Uil.
«Ci ha messo sette mesi a convocarci, é vero. Ma alla fine lo ha fatto. E il 27 ottobre c’incontrerà di nuovo per ascoltare le nostre critiche e i nostri progetti. La situazione è talmente grave che nessuno può farcela da solo, nemmeno Renzi».
Vi convince la politica del suo governo, in particolare quella sul lavoro?
«Ha fatto buone cose, come la riconferma del bonus di 80 euro a sostegno dei redditi delle famiglie, la decontribuzione riconosciuta a chi assume a tempo indeterminato con un contratto a tutele crescenti e il taglio della componente lavoro sull’Irap ».
E l’articolo 18?
«Il governo è partito riconoscendo solo il motivo discriminatorio, poi ha aggiunto il disciplinare: vediamo come saranno scritti i decreti attuativi. Penso che adesso sia più importante concentrarsi sul lavoro precario, se il contratto a tutele crescente ne annullerà le forme o le ridurrà drasticamente avremo raggiunto un buon risultato, ma anche qui aspettiamo di leggere i testi».
Ciò basterà a ribaltare i dati sull’occupazione?
«No, perché non è con le norme che si crea lavoro, ma con l’innovazione e gli investimenti. Non ci vengano a dire che le risorse non ci sono. Si trovano, a cominciare dal recupero dei 130 miliardi di evasione. E poi c’è ancora tanto da tagliare».
Cosa per esempio?
«Abbiamo 10 mila società partecipate pubbliche di cui solo 2 mila fanno servizi, le altre distribuiscono poltrone. Abbiamo 37 stazioni appaltanti contro le 100 della Francia, il che spiega anche i 70 miliardi di corruzione ».
Qu ali fra le misure adottate sono sbagliate?
«Quelle che non allargano ai pensionati il bonus di 80 euro, visto che la metà degli assegni sta sotto i mille euro, quella che blocca ancora il salario degli statali. E poi va riscritta la misura sul Tfr: tassarlo con aliquota ordinaria è un errore enorme, doveva essere a tassazione zero. Altrettanto sbagliato tassare i Fondi pensione non più con 11,5 ma con il 20 per cento: così si mette una pietra tombale sulla previdenza integrativa e, vista l’entità degli assegni Inps, si lega il futuro dei lavoratori alla povertà».
I sindacati raccolgono fischi e restano divisi visto che sabato la Cgil va
in piazza da sola. A quando il rinnovo?
«Con Cgil su tante cose abbiamo visioni comuni, su altre scegliamo percorsi diversi. Loro hanno deciso di manifestare in un’unica piazza, noi ieri siamo stati presenti in cento, per palare e soprattutto ascoltare i lavoratori. Quanto al rinnovo lo considero una mia missione. Per cambiare il Paese dobbiamo cambiare anche noi. E io voglio farlo: ho una nipotina di un anno, credo nel futuro».

Repubblica 19.10.14
Nave senza nocchiere in gran  tempesta, non donna di province, ma bordello!
di Eugenio Scalfari

qui

il Fatto 19.10.14
2 milioni per Renzi, zero al Pd
Diffusi dati e finanziatori della kermesse fiorentina
Fassina: “Dateli ai circoli”


L’ultimo bilancio del Pd non promette nulla di buono. La diminuzione del numero di iscritti e la norma che riduce in parte il finanziamento pubblico non lasciano presagire giornate serene al tesoriere del partito, il renzianissimo Francesco Bonifazi che ha già chiuso l’esercizio 2013 con una perdita pari a poco meno di undici milioni.
Ieri, poi, sono stati diffusi i dati sui generosi contributi privati che ha ricevuto la tre giorni della Leopolda (24, 25 e 26 ottobre ), quinta della serie inventata e inaugurata da Matteo Renzi, un tempo sindaco “rottamatore” di Firenze e ora premier e assieme segretario del partito Democratico. In tutto i fondi erogati da una fetta dell’imprenditoria nazionale raggiungono la considerevole cifra di due milioni di euro. Tra i finanziatori compaiono vecchie conoscenze del premier come Davide Serra, pietra dello scandalo delle primarie 2012 Renzi/Bersani per via di un investimento alle Cayman. È lui il maggior donatore con 175mila euro, seguito a stretto giro da Guido Ghisolfi e da sua moglie Ivana Tanzi (120mila euro). Dona 50mila euro anche la Gf Group, azienda savonese specializzata nell’import export dell’ortofrutta, finita sotto la lente della procura nell’inchiesta Carige per via di un finanziamento da cento milioni di euro (l’azienda, seppure in crisi, conta comunque 3000 dipendenti e un giro d’affari di 3 miliardi). Sessantamila euro sono arrivati da un vecchio finanziatore di Renzi e della Margherita, quell’Alfredo Romeo finito assolto nel processo napoletano per il global service (l’appalto per la gestione del rifacimento viario di Napoli ), ma certo in buoni rapporti con un bel pezzo della politica locale e nazionale. Diecimila euro sono arrivati anche, a titolo personale, da Fabrizio Landi, turborenziano della prima ora, nominato dal governo attuale in Finmeccanica. Ce n’è abbastanza perché la minoranza pd si facesse sentire. È Stefano Fassina a porre la domanda che in molti dovrebbero farsi: “Una parte dell’establishment italiano finanzia con 2 milioni di euro la Leopolda 2015 di Matteo Renzi. Due domande mi permetto sommessamente di rivolgere al segretario Nazionale del Pd. Per ragioni di opportunità, non si potevano evitare i generosi e certo disinteressati contributi di chi è stato nominato dal Governo Renzi nel cda di importanti aziende pubbliche? Le ingenti risorse da te raccolte, invece che per la tua corrente, non potevano essere utilizzate per tutto il Pd, ad esempio per aiutare tanti circoli che non riescono a pagare l’affitto e sono costretti a chiudere? Prima il Pd”. Nessuna risposta.

il Fatto 19.10.14
Leopolda 2010, quando Boschi era solo un avvocato
Il partito scalabile, le primarie per tutte le elezioni: così nacque il “Rottamatore”
Il Civati tradito: “Pensavo a un progetto di sinistra, moderno: lui pensava a Renzi”
di Luca De Carolis


I tre giorni della rottamazione. L’alba del renzismo, molto prima del patto del Nazareno e dell’articolo 18 da abbattere. Quando Civati era il primo alleato del leader in costruzione, Berlusconi pareva imprendibile come Beep Beep per Wile il Coyote e la Boschi si presentava come “avvocato esperto di diritto societario”. Quattro anni e qualcosa fa, a Firenze fu “Prossima Fermata Italia”, la prima Leopolda. La madre delle convention renziane, che deve il nome all’omonima stazione: primo scalo ferroviario a Firenze, poi adibito a struttura per congressi di ogni sorta.
DA LÌ L’ALLORA 35ENNE sindaco lanciò il guanto di sfida: “Noi non invochiamo posti, non rivendichiamo spazi: ce li prenderemo da soli”. Pretendeva “primarie sempre e ovunque per scegliere i parlamentari” e sognava un Paese “che rende il lavoro meno incerto e il sussidio più certo”. Voleva le unioni civili e la banda larga. Si proclamava antiberlusconiano a tutto tondo, e guai a chi lo accostava a
B. Dal 5 al 7 novembre 2010, raccontò le sue verità a quasi 7mila persone, accorse nel nome “della rottamazione dei dirigenti di lungo corso del Pd”. Renzi voleva “mandare a casa Bersani, D’Alema e Veltroni senza distinzioni, perché solo così possiamo sconfiggere Berlusconi”, come aveva scandito a Repubblica in agosto. Molti avevano letto nell’intervista una variante dello sfogo morettiano a piazza Navona del 2002 (“Con questi dirigenti non vinceremo mai”). Invece era l’annuncio di una scalata. E il primo metro dell’ascesa fu quell’assemblea, foto dei vari pezzi della sinistra che non ne poteva più.
A Firenze si affollano giovani sindaci Pd (e non) critici con il segretario Bersani, sindacalisti di base e ambientalisti, pezzi del Popolo viola, radicali perfino. Cercano il nuovo. Trovano un giovane sindaco, già presidente della Provincia. Con lui sul palco Giuseppe Civati, primo organizzatore dell’evento, ai tempi consigliere regionale in Lombardia. Poi l’europarlamentare Debora Serracchiani, che un anno prima a Roma aveva sbattuto in faccia alla dirigenza tutta errori e viltà politiche. Ma l’allora franceschiniana partecipa solo a una giornata: ancora poco convinta, raccontano, dal Renzi che le pareva troppo moderato. Intervengono anche due irregolari come Ivan Scalfarotto e Anna Paola Concia. Poi ci sono gli artisti: Pif, lo scrittore Alessandro Baricco. E filosofi, economisti, giornalisti. Spicca l’intervento di Maria Elena Boschi, 29 anni. “Sono un avvocato” si presenta dal palco. Colpisce spettatori e stampa. Di dirigenti e parlamentari di nome nessuna traccia. Bersani, invitato per la chiusura, marca visita. Da Roma, per Renzi e Civati, arrivano solo i fischi dell’assemblea dei circoli. Poco male, forse meglio per la coppia rottamatrice. Le parole d’ordine sono velocità e giovinezza. Tempi contigentati per gli interventi (800 in totale). Dal palco un dj spara la playlist dei rottamatori: dai Muse a Bowie per arrivare ai toscani Baustelle. Lo schermo si riempie di video, brevi e colorati. Si va di fretta, perché Renzi ha fretta. Di prendersi tutto. Anche se lui nega: “Non si può dire, anche perché la parola leader porta una sfiga bestiale. E poi io voglio fare il sindaco”. Ma la Leopolda è soprattutto sua. È lui a seminare parole veloci e ironiche, spesso contro l’avversario di Arcore: “Dicono che sono un berluschino perché comunico bene, è peggio di essere berlusconiani” assicura. Aggiunge: “La sinistra deve liberarsi della subalternità a Berlusconi”.
IL CONCETTO lo riassume una clip: un frammento del cartone animato di Wile, il simpatico coyote che insegue l’uccello Beep Beep, senza prenderlo mai. Ma il momento culminante è la lettura della Carta di Firenze, sorta di manifesto politico. Tutto al plurale. “Noi che abbiamo imparato a conoscere la politica con Tangentopoli e il debito pubblico e che oggi troviamo la classe dirigente del Paese occupata a discutere di bunga bunga e società offshore” inizia. Renzi declama: “Vogliamo un Paese che permetta le unioni civili; che preferisca la banda larga al ponte di Messina; in cui si possa scaricare tutto”. Obiettivi lontani, per il premier attuale. Lo stesso che puntava i piedi: “Vogliamo un Paese che rende il lavoro meno incerto e il sussidio più certo”. E la battaglia attuale contro l’articolo 18? Quattro anni dopo, Ci-vati: “Io alla Leopolda pensavo a un progetto di sinistra, moderno; lui pensava a Renzi. Si è spostato a destra, prendendo da quell’evento l’aspetto più comunicativo”. Ma si poteva già prevedere? “Vedevo la sua voglia di emergere, ma pensavo di tenere assieme a tutto. Quello era un appuntamento per tutto il centrosinistra: non un evento contro, ma propositivo”. Un mese dopo la prima Leopolda, il sindaco Renzi bussava alla porta di Arcore. Era l’inizio di un’altra storia. Di palazzo.

il Fatto 19.10.14
Fiori alle ministre e viaggi: pagava tutto il presidente Renzi
Le spese di rappresentanza quando era in Provincia
Pranzi da 1800 euro, missione negli Usa da 70mila euro
di Davide Vecchi


Mara Carfagna, Mariastella Gelmini, Stefania Prestigiacomo e Giorgia Meloni il 12 maggio 2008, dopo aver giurato da ministre del governo Berlusconi, ricevettero, tra i doni dei sostenitori, anche un mazzo di fiori da un mittente comune e all’epoca a loro totalmente sconosciuto: Matteo Renzi. Il giovane presidente della Provincia, per complimentarsi con la quota rosa fece recapitare alle neoministre un omaggio floreale. La ricevuta è tra le migliaia messe in ordine dalla Corte dei Conti nel fascicolo che riguarda le spese di rappresentanza della Provincia guidata dal boy scout di Rignano sull’Arno negli anni tra il 2005 e il 2009. Il fascicolo è stato aperto solamente nel 2012 a seguito di un’indagine del Ministero dell’economia che rivelò “gravi anomalie” nella gestione renziana della Provincia, ma ormai lui era già sindaco e proiettato alla conquista del Pd, così le conseguenze sono ricadute sul successore Andrea Barducci.
SE È VERO, come sostiene Renzi, che le Regioni devono farsi perdonare dai cittadini a seguito delle inchieste sulle spese pazze che hanno coinvolto tutti i governi territoriali (con eccellenze come la Lombardia che ha visto indagare il 90 per cento dei consiglieri) è altrettanto vero che, osservando a ritrovo la gestione della Provincia, Renzi è stato un precursore delle spese di rappresentanza. Ma va detto che la procura di Firenze, a differenza di quelle del resto d’Italia, non ha aperto alcun fascicolo, lasciando così alla magistratura contabile il compito di accertare solo ciò che era di sua competenza. L’esempio più recente riguarda Matteo Richetti che lo scorso settembre ha rinunciato alle primarie del Pd perché indagato per peculato: da consigliere regionale, secondo la procura di Bologna, avrebbe speso 5500 euro di spese in maniera poco chiara. Ecco. A Matteo Renzi, invece, la Corte dei Conti ha contestato diversi milioni di euro spesi tra il 2004 e il 2009, anni in cui era Presidente della Provincia. E nel periodo in cui era impegnato nelle primarie per il sindaco di Firenze e nella sfida, poi vinta, per conquistare Palazzo Vecchio. Il contenzioso tra Corte dei Conti e Provincia è ancora in corso. Nel luglio 2007 la Provincia liquida ristoranti e ricevute per 17 mila euro. Undicimila a ottobre e altrettanti novembre. Sempre per “attività di rappresentanza”. Per lo più sono cene, conti di pasticcerie, ristoranti, trattorie. Al bar Nannini, per dire, il 17 ottobre 2007 Renzi spende 1.224 euro; 1.213 li lascia al ristorante Cibreo, due mila in totale alla trattoria da Lino, 1.855 alla Taverna Bronzino. Qui è il cinghiale a farla da padrona. Il ristorante non è tra i più economici di Firenze, del resto. Ma a Renzi piace. Per tutto il suo mandato alla guida della Provincia frequenta assiduamente i tavoli della taverna. Con conti che oscillano tra i 200 ai 1.800 euro. Renzi ogni tanto cambia ristorante. Alla trattoria I due G in via Cennini il 29 aprile 2008 ordina una bottiglia di Brunello di Montalcino da 50 euro per annaffiare una fiorentina da un chilo e otto etti. Alla Buca dell’Orafo in via dei Girolami il 13 giugno 2008 si atto-vaglia con due commensali e opta per un vino da 60 euro a bottiglia. E ancora: al ristorante Lino, dove è di casa (anche qui), riesce a spendere per un pranzo 1.050 euro. 1.213 li lascia al ristorante Cibreo.
DURANTE le missioni all’estero non è da meno. Il 22 aprile 2008 la carta di Credito della Provincia (che usa il presidente) paga alle ore 01:01 pm un pranzo al Riva Restaurant on Navy Pier di Chicago: 4 aragoste, 2 sushi, 2 pepsi, una birra e 2 porzioni di gamberi fritti. Oltre allo scontrino, l’estratto conto della carta conferma che quel conto è stato saldato da Renzi in persona. In una delibera della Provincia di Firenze del 12 Maggio 2008 si legge: “Il sottoscritto Matteo Renzi (...) attesta sotto la propria responsabilità, che le spese delle fatture sottoelencate e che vengono inviate alla liquidazione dei competenti Uffici della Provincia, sono state da me sostenuto nel corso di attività istituzionali e di rappresentanza”. Segue elenco di pranzi e cene. Il fidato capo gabinetto Giovanni Palumbo, oggi con Renzi a Palazzo Chigi, firma decine e decine di delibere per rimborsi spese del presidente che aveva a disposizione anche una carta di credito con un limite mensile di 10 mila euro. Nell’ottobre 2007 però riesce a farsela bloccare. Durante un viaggio negli Stati Uniti, infatti, la carta viene sospesa a garanzia di un pagamento da parte di un hotel così Renzi è costretto a pagare di tasca sua 4.106 dollari, al cambio dell'epoca 2.823 euro, all’hotel Fairmont di San Jose, in California. Appena torna in Italia si fa restituire la somma. Una delibera del 12 novembre autorizza il versamento dei 4 mila dollari al presidente. Solo per quel viaggio le casse della provincia tra biglietti, alberghi e ristoranti, spendono 70mila euro. Dal due all'otto novembre per la missione a Santa Clara sempre in California e sempre per “attività internazionali” la Provincia stanzia 26.775,82 euro. Renzi, si legge nella delibera firmata dal solito Palumbo, deve presentare il Genio Fiorentino dell'anno successivo, incontrare i rappresentanti delle aziende Cisco e Apple, verificare lo stato di avanzamento delle attività avviate con il Mit, Massachusetts Institute of Technology. Che è a Boston. Dove è tornato circa un mese fa da Presidente del Consiglio. Ma le spese della missione compiuta da premier non sono state rese note sul sito di Palazzo Chigi.

Repubblica 19.10.14
Bingo, banche rosse o colletta per il leader
Come è cambiata la caccia al tesoretto
di Filippo Ceccarelli


ERA maggio quando, in pieno dilemma su come e dove trovare i soldi per i promessi 80 euro, attraversando piazza San Silvestro con i giornalisti al seguito, il presidente Renzi, giacchettino di pelle e gomma americana in bocca, prima avvistò sul selciato e quindi rapidissimamente afferrò una banconota da 20 euro, per consegnarla infine a un uomo della scorta.
C’è un video che certifica e glorifica l’insolito ritrovamento, ma più ancora l’atteggiamento del tutto naturale del premier che quasi in risposta al commento di un esterrefatto operatore dell’informazione (“Non mi è mai successo in tutta la vita!”) butta lì con un sorrisetto dei suoi: “E poi dicono che non trovo le risorse...”. Questo per dire con quanta facilità i soldi vengono incontro a Matteo Renzi. Che a quel tempo non aveva ancora stravinto le elezioni. Ora, al netto di qualsiasi vocazione gufesca e rosicona, dinanzi a una scenetta del genere ci si sente in qualche modo autorizzati a nutrire un certo scetticismo. Rafforzato dalla lettura del recentissimo “La società delle emozioni” del sociologo Massimo Cerulo secondo cui l’attuale premier, come del resto molti leader di questo tempo, spesso e volentieri costruisce e mette in atto strategie di “teatralizzazione e persuasione emozionale”. Che, riguardo al rinvenimento, sarebbe un modo rispettoso per dire che quei 20 euro non erano lì per caso.
Oppure sì. Sia come sia, recano senz’altro un significativo messaggio i ricchi introiti della fondazione renziana. Chi sa se anche la fortunatissima banconota è finita nel mucchio su cui ha polemizzato ieri l’onorevole Fassina. Di certo i predecessori di Renzi, da Veltroni a Bersani, non trovavano i soldi per strada. Ma anche andando un po’ più indietro negli anni non è che i vari leader del centrosinistra avessero instaurato un rapporto molto più sano, e generoso, e trasparente, e democratico, tra la loro politica e il denaro.
Per dirla in modo brutale: dalla trovatona del Bingo alle civetterie bancarie con Consorte, dalla selezione dei vertici del Monte dei Paschi all’accesso al sancta sanctorum consentito a Penati, dall’accoglienza dei finanziamenti di un’azienda tutt’altro che benemerita come l’Ilva alla seconda puntata di Primo Greganti c’è poco da scandalizzarsi per la lussuosa colletta leopoldina e la gratitudine di tanti beneficiati.
E piangeranno anche, le povere sezioni, ma così va il mondo, “la gente nova e i subiti guadagni”, già Dante (Inf. XVI) esprimeva riserve su chi proveniva dal contado. Fatto sta che il carro del vincitore è riccamente assortito e affollato e hai voglia a esorcizzare l’immagine evocando il “Brindellone”, che è appunto il carro fatto esplodere a Firenze durante la settimana santa.
Questo può sempre accadere. Ma intanto, e al di là della bellicosa retorica contro i poteri forti e delle messe a punto di giornata sui costi della Leopolda, è chiaro che il renzismo va forte anche dal punto di vista finanziario. E certamente, in parallelo ai successi politici ed elettorali, il “tesoro” si accresce.
Non solo, ma contro ogni ingenua e vana pretesa di divisione e redistribuzione dei soldi, per come da almeno un ventennio e con la responsabilità di tutti è andato sagomandosi il sistema politico, pare assodato che questi soldi sono per il leader, e non certo per il partito, che ormai non si sa più che cosa sia.
Curioso, per certi versi, o sintomatico di una verità sfuggente, è semmai il nome della fondazione renziana che accumula il capitale: “Open”, là dove l’apertura sembra limitata alla trasparenza dei finanziatori — che è già qualcosa. Ma per l’uso e la spesa dei quattrini “Open” in realtà è chiusa, o meglio è concentrata in pochissime e fidatissime mani. Del resto non succede tutti i giorni di trovare “le risorse” per terra.

Repubblica 19.10.14
“Renzi dia i soldi della Leopolda al Pd”
Fassina attacca sui due milioni alla fondazione Open. Cuperlo: c’è un partito parallelo?
di Giovanna Casadio


ROMA Quando la Leopolda con tutti i suoi riti — 4 minuti di interventi scanditi dal gong, i tavoli tematici, gli ospiti — comincerà a Firenze venerdì prossimo, il redde rationem nel Pd ci sarà già stato. Perché domani la direzione dem parla del partito e comincerà proprio da quei finanziamenti alla Fondazione renziana Open, utilizzati anche per la quinta edizione della Leopolda, e che tanto farebbero comodo al Pd. A scoperchiare il calderone della polemica è stato Stefano Fassina.
Su Facebook senza tanti giri di parole ha chiesto al premier-segretario di spiegare com’è che ci siano un sacco di finanziamenti per la manifestazione renziana, soldi che vengono anche «da chi è stato nominato da Renzi in qualche cda di aziende pubbliche», quando tanti circoli dem non riescono a pagare l’affitto e rischiano lo sfratto. Tra i finanziatori di Open ci sono Davide Serra (definito da Bersani ai tempi delle primarie uno di “quelli delle Cayman”), Fabrizio Landi (nomina appunto in Finmeccanica), molto establishment. «Tutto trasparente, online», si difendono a Open. E precisano gli importi: due milioni di euro raccolti nella cassaforte in totale ma dal luglio 2012 e comunque per la Leopolda se ne spendono 200 mila.
Comunque spetta a Maria Elena Boschi, alla fine di una riunione con i volontari per preparare la kermesse dove il renzismo è nato, spiegare che «la Leopolda è un’altra cosa, non è un evento del Pd ma aperto a tutti». Il premier-segretario dem sarà sul palco ma non ci saranno bandiere democratiche. Ovviamente chi vuole può portarsele.
Il “caso” politico lievita. Pippo Civati ironizza: «Noi dem potremmo chiedere un prestito alla Leopolda, magari staccano un assegno per il povero Pd. .. «. Ma Gianni Cuperlo chiede che domani la direzione affronti la questione: «Che cos’è la Leopolda? Una cosa era quando Renzi doveva costruire la sua leadership, ma oggi è il segretario del “mio” partito e il premier del “mio” governo. Allora chiedo: la Leopolda è un partito parallelo al servizio del leader? Forse è il caso di un chiarimento».
Lunedì mattina colloqui e riunioni della sinistra, mentre si riunisce la segreteria prima della direzione alle 15. A Giorgio Tonini è stata affidata la relazione iniziale sullo stato del partito e il suo futuro. Renzi punta al partitonazione, interclassista e maggioritario. Tonini stempera le polemiche: «La Leopolda è un’esperienza di successo, fa parte della galassia dem, inutile volere mettere le brache al mondo... «. Fassina rincara: «È tutt’altro che un fatto marginale questo: in un momento in cui il partito boccheggia, i circoli chiudono, un pezzo del nostro mondo è preoccupato e con posizioni diverse rispetto alle stesse politiche del governo, ecco che il segretario bypassa tutto. Il partito va bene come brand e ha una funzione ancillare rispetto al progetto politico di Renzi». Il tam tam della scissione si ripresenta. Tutta la sinistra nega la tentazione: «Vogliamo solo correggere la rotta del governo e del Pd». Ma domani in direzione in discussione non ci sarà genericamente la forma-partito, ma quanto Renzi vuole bene al Pd.

Repubblica 19.10.14
Il tesoriere Bonifazi “Polemica assurda ricordino che abbiamo risanato il partito”
intervista di G C.


ROMA «Mi dà fastidio il “sillogismo” secondo cui il Pd è in difficoltà e allora non andrebbe fatta la Leopolda: è una polemica che mischia due piani che non c’entrano. La Leopolda non può essere vista in contrapposizione al Pd». Francesco Bonifazi è il tesoriere dem che alla Fondazione renziana Open ha donato in passato 12 mila euro. Ma quei parlamentari renziani che facevano donazioni alla Fondazione hanno smesso a luglio.
Bonifazi, obiettivamente quei finanziamenti per la Fondazione renziana non farebbero comodo al partito?
«Il Pd era in gravi difficoltà soprattutto prima. Tra due settimane cominceremo le cene di autofinanziamento del partito e prenderemo più soldi della Leopolda».
Non crede che questa polemica abbia una ragione?
«Questa è una polemica “alla Fassina”, come chiedersi perché l’8 per mille va alla Chiesa e non al Pd... sono piani diversi. Ricordo sommessamente che rispetto ai 10 milioni di perdite del partito nel 2013 puntiamo al pareggio di bilancio del 2014, nonostante un taglio di 10 milioni di euro. E senza toccare il personale».
Ora però Renzi è il segretario del Pd e quindi tutti i soldi racimolati dovrebbero essere concentrati sul partito, non crede?
«Ripeto, il Pd non è certo, né può essere, in competizione con la Leopolda che è arrivata quest’anno alla sua quinta edizione. La Leopolda è una bellissima manifestazione».

il Fatto 19.10.14
Il gigante immobile
Moby Dick Metro C viaggio infernale verso la città di Dio
Cantiere per cantiere, periferia per periferia, il tragitto del treno che costa oltre 4 miliardi e avanza millimetricamente verso il cuore di Roma
di Daniela Ranieri


Rischiamo di perderci l’arrivo del treno della nuova Metro C per guardare il tabellone elettronico: funziona. Sono esperienze che a Roma non sono tanto usuali. Ma ecco il treno: viene dalla direzione di Roma e va a Pantano, verde-grigio, vuoto come una nave fantasma. È driverless, dice. Cioè? Senza conducente, che qui si chiama autista. Sarà sicuro? Eh non si sa. Qui l’automazione è vezzo e sofisticheria del nord, mentre l’errore umano è messo in conto, è variabile strutturale, tra fatalità e cinismo. “Tanto se c’hanno d’ammazzà c’ammazzeno”, convalida una signora, che fa per andarsene ma resta, e guarda il treno. Che si ferma un istante di troppo, vagamente immusonito. “Che, già s’è rotto? ”.
Tra false partenze, ritardi, rincari e inchieste, la Metro C s’è fatta affare teologico. Una cosetta da 4 miliardi di euro pensata per il giubileo di Wojtya e che, lasciati a piedi i Papaboys, adesso fa il Moby Dick, apparendo e scomparendo a detrattori e simpatizzanti. Perché faccia questo percorso nessuno lo sa. Il nulla osta a progetto su cui si basa l’urbanistica cialtrona ha vinto su sovrintendenze e burocrazia, e adesso eccolo, il treno-zero: svizzero, pulito, quasi giapponese. La gente alla fermata del 105 lo guarda diffidente e attratta, come un delfino da un peschereccio. Riparte, e sembra davvero “intelligente”, roba di prima classe, ecologica, norvegese.
“No, io la metro nun la pijo”. Claustrofobia? “No, l’Ebola. Co’ tutti sti negri, sti marocchini. E io nun so razzista”.
Abitanti di municipi remoti approderanno (quasi) in centro
Cinque treni fanno la spola per le prove tecniche, e portano utenti per ora fantasma. Poi condurranno residenti ultra-periferici in semi-periferia e viceversa. Gli altri, quelli che hanno l’ardire di portarsi fino al capolinea di piazzale Clodio, un domani. Se si trovano i soldi. Abitanti di municipi remoti approderanno in tempi quasi europei nei castelli kafkiani delle Agenzie delle Entrate (tutto cemento brutalista e vetri anti-suicidio), commesse del Carrefour e paramedici del Casilino arriveranno dalle vicine Finocchio e Torre Angela. Nel frattempo si sfida il fato la mattina aspettando l’autobus: lo slogan dell’Atac, “lavoriamo con trasporto”, ti leva le botte dalle mani. Qualcuno risale il fiume Congo in cerca di lavoro, lo va a chiedere negli uffici di collocamento, negli economati, negli uffici del Salario, di Saxa Rubra.
Il tratto per ora funzionante si snoda nella terra dove sono i leoni, il sud-est che tutti i sindaci vorrebbero volentieri cedere al Molise. Alla Borghesiana la vibrazione del treno disturba appena L’eredità di Carlo Conti in villette tipo Brianza, dove il capitale umano è d’importazione, più che altro rumeni con ditta propria. Una macelleria promette carni italiane. Grotte Celoni irride allo sperpero di vetro e acciaio, materiali finissimi, con casematte di consultori (chiusi), magazzini cinesi e un Ser. T (Servizi per la tossicodipendenza). Un signore aspetta il bus: “Tanto non la feniscono, se trovano un coccio ribloccano tutto”.
La stazione Torrenova è un iceberg stupendo con facciate sghimbesce da ospedale di Lu-becca. Un generatore elettrico mantiene in vita il furgone di un porchettaro bengalese, con le bottigliette d’acqua esposte al sole di un ottobre che pare luglio, con buona pace delle inchieste di Report.
Cicale. Miraggi. Viene in mente Woody Allen sul mondo invisibile: “Nessun dubbio che esista. Il problema è quanto dista dal centro” .
Il vecchio trenino non driverless (con autista), strapieno, si fa tutta la Casilina tra borbottii e frenate strazianti. Tra un’oretta arriverà a Roma, al capolinea delle Laziali, le ferrovie che portavano a Fiuggi-Alatri-Frosinone (“I laziali so quelli de fori le mura che ce porteno l’ove fresche e le ricotte”, chiarì Alberto Sordi). Davanti, tra svincoli cervellotici, si compra oro.
Stazione Giardinetti svetta con cristalli a specchio, splendidi. Due vigilantes la sorvegliano manco fosse la Lubjanka. Sembrano truppe d’occupazione di un Paese più civile, giunte a portare ordine e progresso su un’astronave giostra del Luneur, prima che lo comprassero i coreani, prima che chiudesse (ma è tutta leggenda metropolitana, tutto languore domenicale).
Lo specchiato ha qualche parentela con la Mumbay del cinemaindie, tutto luci-ombre, miseria e crescita. Architetture escheriane di calcinacci e tubi Innocenti giocano con le pozzanghere; l’effetto è di un industrial futuristico tra l’immondizia, un po’ Besson un po’ Antonioni, tra Manchester e Gardaland. Chi passa guarda, e fa “mah” col mento.
“Ai lavori me ce so’ quasi affezionato. Come alla monnezza”
La Casilina frigge sotto il peso di auto ferme. Vengono dalle altre consolari e dal Gra intasato. Tra qualche ora carovane coi fari al led s’intuberanno nel senso contrario a 130 km/h, abbandonati i sudori del PalaCavicchi, tempio in zona Ciampino di Salsa&Merengue e accoltellamenti tra bande.
Insegne Ipercoop e Euronics guardano manifesti di Casa Pound, che ricambiano in cagnesco. Un Casinò Las Vegas-Nova Gorica iper-illuminato rovina il tramonto, deludendo i figli di registi ricchi casomai s’avventurassero fin qui da Rione Monti in cerca di una propria poetica.
Una giungla sclerotica di gommisti e sfasciacarrozze circonda l’Alessandrino. “Io c’avevo un salone de parrucchiere”, dice un signore. “Ci venivano Samantha De Grenet, Manuela Arcuri. Poi pe’ sta metro ho chiuso”. Avete i lavori dal 2007? “Me ce so’ quasi affezionato. Come alla monnezza. Sto sindaco... ”. Il sindaco è quello che a febbraio, per protestare contro il blocco del Salva-Roma, minacciò: “Blocco Roma”. “Capirai, e chi se ne accorge”, commentarono gli indigeni.
A Centocelle la metro ritorna cantiere, s’interra e gira verso nord, il sud di Roma nord, praticamente i Quartieri spagnoli. Quasi Abruzzo per gli studenti dello Ied (design, moda) futura classe di creativi che fanno pausa-pranzo al fast food greco. Chi vive in centro viene ad annusare il fantasma di Pasolini; suburra, nostalgia neorealista da suggere al sabato sera, passeggiando per l’isola pedonale tra odori di piscio e hashish, il kebabbaro e una bottega di Bioestetica.
Una rotatoria enorme, impacchettata come un’opera di Christo, segnala la stazione Mirti. Gli automobilisti ci s’avvelenano attorno, alcuni si fermano proprio, stremati, in tripla fila, davanti a una friggitoria che accoglie precari del ramo informatico, badanti ucraine, manager Tecnocasa.
Oltre la tangenziale, cantieri e proletariato che piace ai ricchi
Oltre la tangenziale, su cui Veltroni voleva fare i giardini pensili, dove la Magnani si dannava adesso è tutto cantiere e senegalesi, nigeriani, etiopi, il proletariato che piace ai ricchi, che il Pigneto hanno gentrificato e riqualificato, diciamo. I cartelli dei lavori in rosso pompeiano danno l’idea di un’alacre umanità che, sotto, sta lavorando per noi e per il progresso. Che consisterà non nell’arrivare prima dalla periferia al centro eroicomico delle frattaglie d’Impero, dei fasti littori, degli obelischi, degli altari della Patria; ma nell’arrivare. Come le scale mobili, qui, non servono per salire più velocemente ma per non farsela a piedi. Ma tutti sanno che lì sotto non vola una mosca, se ne riparla nel 2016.
Ma da San Giovanni è tutta discesa. Il paesaggio si scarognisce e prende il colore del travertino e del botticino e poi quello dei pioppi di Prati. Finalmente i Fori, piazza Venezia, poi caserme, notai, tribunali. I cantieri spartiscono il traffico e sono una manna di sensi unici e vietati per fare cassa con multe e ganasce. La borghesia si riprende il progresso, l’efficienza sottile e precisa dei treni senza autista che qui si chiama conducente, la fiducia in un’amministrazione di sinistra dall’istinto pedagogico tarata più sul futuro indefinito che sulle terapie d’urto. Saliranno turisti, pensionati d’oro, insegnanti di yoga e medicina ayurvedica, partite Iva, precari Rai, principi del foro e marchesi.
Intanto la metro C, budello morto, metafora parlante, procede millimetricamente dall’inferno alla città di Dio, si cristallizza nell’immaginario come oggetto magico, astruseria, speranza delle masse. Nel frattempo ce la potremmo rivendere ai turisti come un non finito michelangiolesco, una scelta precisa, estetica, tra il rudere e la Svezia.

il Fatto 19.10.14
Tra i Sassi
La terra dove Cultura fa rima con Petrolio
Matera diventa Capitale europea nel 2019
Ma con lo sblocca Italia il governo ha dato l’ok alle trivellazioni selvagge
E se fosse uno scambio?
di Antonello Caporale


Pasolini e le trivelle, Carlo Levi e le discariche, Mel Gibson e l’acqua avvelenata. La Lucania di oggi, così perduta agli occhi, piange e ride insieme. I Sassi hanno appena ricevuto la fiducia del mondo: Matera sarà la capitale europea della Cultura nel 2019. Titolo strameritato. Ma i Sassi, questo incavo di pietre, anfiteatro di una umanità dolente, poverissima, dove uomini e capre si scambiavano umori e necessità, questo scheletro meraviglioso a cielo aperto rimasto quasi intatto per merito di chi lì vive e ha vissuto, tutelando anzitutto la dignità della memoria, sarà tombato, sigillato nell’area vasta degli scavi petroliferi, degli oli combustibili, dei fumi d’arrosto da kerosene.
GUARDATE la cartina: il rosso e il verde rappresentano l’attività di sfruttamento e le zone sottoposte a ricerca nella Regione. Il giallo segna la quantità del territorio sul quale insistono altre richieste di ricerca, nuove opportunità per le compagnie petrolifere e tanti soldi.
Matteo Renzi accompagna i Sassi nel petrolio, e punta, come sa fare bene, a conquistare tutti. Gli ambientalisti e gli industriali dell’oro nero, poeti e commercianti, pensatori e asfaltatori. Ad agosto si domanda: “Con tutto il petrolio che abbiamo in Basilicata e Sicilia, dobbiamo acquistarlo altrove? ”. E via col decreto Sblocca Italia che permetterà ai trivellatori di trivellare immediatamente, superando ostacoli, controlli, impatti ambientali e proteste. Tetragono, il premier dice: “Perderemo qualche voto, ce ne faremo una ragione”. Forse nemmeno più qualche voto, avendo oggi Matera conquistato il primato europeo. Panem et circensens dunque?
Così appare. Senza voler far torto alla qualità della candidatura, sembra che le opere pie siano mischiate alle cattive intenzioni di molti lupi mannari. Lo scambio, è accusa senza prove però, sarebbe: tu mi fai bucare e io ti premio.
Certo è che la classe dirigente che governa la Regione non è stata mai – dai tempi di Emilio Colombo, un dominus democristiano che per un trentennio interpretò le istanze di quella terra remota – così vicina al cuore del potere. La famiglia Pittella ha messo radici a Strasburgo, dove con Gianni guida il gruppo parlamentare europeo, e a Potenza domina la regione con il fratello minore Marcello. Due sere fa Pittella jr a Radio24 si è esibito in una enfatica dichiarazione di fedeltà e un entusiasmo senza pari nel commentare i tagli del Governo che lo avrebbero penalizzato, entusiasmo irrintracciabile tra i suoi colleghi governatori.
Nell’esuberanza del momento, forse perchè coinvolto nei festeggiamenti per la vittoria di Matera, è parso che Pittella non aspettasse altro che tagliare e che i soldi a sua disposizione sono così tanti da non sapere come impiegarli.
LA BASILICATA, ma forse Pittella jr non lo ha ancora chiaro, è terra di continua emigrazione. Dire a chi è costretto a fare le valigie che, senza i tagli di Renzi, in Regione continuerebbero a fregarsene del suo destino, sprecando ancora qualcosina è un atto politicamente suicida, un manifesto di totale imprevidenza. Ma forse quelle parole così avventate erano frutto dell’entusiasmo (o figlie del debito da saldare).
Ma la Basilicata a Roma gode di altri sponsor eccellenti: due ex governatori oggi al governo (De Filippo alla Salute, Bubbico all’Interno) e poi, distanziato negli affetti del leader, il capogruppo alla Camera del Pd Roberto Speranza. La Lucania è anche la terra di Banfield, la culla dove lo studioso americano ha tenuto a battesimo la sua teoria del familismo amorale. Ed è così piccina che le famiglie che contano ancora oggi si tramandano poteri e doveri, onori e nomine. In una filiera conosciuta e riverita.
E oggi quella terra diviene teatro del pendolo renziano. Nella filosofia concretista del premier, sempre contratta verso il presente, ambiente e cemento sono valori turnari, cointeressi che si espangono e si restringono a seconda dei bisogni. E le parole d’ordine divengono cangianti, legate al bisogno, misteriosamente interscambiabili.
L’AMBIENTE è il nostro futuro, il turismo la nostra economia, e quindi i Sassi il bene supremo. Ma anche con le trivelle si fanno soldi. Sporcano? Distruggono? Chi lo dice? Se c’è il petrolio lì, lì si scava e poi si vede. Infatti la legge prevede il primato dell’opera su ogni altra tutela. Vicino ad Aliano, il paese di Carlo Levi, ora si discute dell’arrivo di una discarica. Lì ci sono i calanchi, nuvole di pietra, voragini che resistono anche alla meraviglia. In Lucania tutto si tiene: lo scrittore dà una mano all’asfaltatore, il bosco al cemento, le ginestre al petrolio.

Il Sole 19.10.14
Il voto finale
Il sinodo apre (a metà) su gay e divorziati
I capitoli più discussi approvati a maggioranza, senza i due terzi
di Carlo Marroni


È anche in una lunga lista di numeri la fotografia della Chiesa di Francesco, che dibatte e si interroga sulle questioni fondamentali della famiglia che toccano da vicino il popolo dei credenti, come la famiglia. Ieri sera l'assemblea del Sinodo straordinario ha votato l'atteso documento finale - frutto di due settimane di confronti serrati e spesso anche di scontri, ma anche di un anno e più di lavoro preparatorio - e dal conteggio dei voti è emerso che tre paragrafi, tra i più discussi e dibattuti, relativi a divorziati risposati e omosessuali, non hanno raggiunto la maggioranza dei due terzi. In particolare non hanno superato il quorum dei 123 voti i capitoli in cui si prevede un percorso penitenziale per la riammissione ai sacramenti dei divorziati risposati (104 e 112 voti) e quello sull'accoglienza («gli uomini e le donne con tendenze omosessuali devono essere accolti con rispetto e delicatezza») per i gay (118 voti). Si tratta comunque della larga maggioranza dei consensi dell'assemblea, il che smentisce quanti nei giorni scorsi andavano affermando che i cardinali e vescovi considerati progressisti erano in minoranza. In uno dei tre capitoli che riguarda le cure da rivolgere alle "famiglie ferite" (separati, divorziati non risposati, divorziati risposati, famiglie monoparentali) viene sottolineato che deve essere tenuta «ben presente la distinzione oggettiva di peccato e circostanze attenuanti», ma per una decisione definitiva si rimanda al Sinodo del 2015 sulla famiglia, in attesa di risolvere la divisione tra quanti «hanno insistito a favore della disciplina attuale» e quanti si sono espressi per un'accoglienza che sarà comunque non generalizzata. In ogni caso il capitolo sui gay ribadisce quanto è stato sempre detto da tutti: «Non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia». Inoltre si riafferma che «è del tutto inaccettabile che i pastori della Chiesa subiscano delle pressioni in questa materia e che gli organismi internazionali condizionino gli aiuti finanziari ai Paesi poveri all'introduzione di leggi che istituiscano il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso». Il documento finale rispecchia quindi quanto emerso negli ultimi giorni: il dibattito, avvenuto nei "circoli minori" ha impresso una frenata rispetto a quanto scritto sulla relazione intermedia presentata lunedì scorso - la Relatio post disceptationem - ma rappresenta in ogni caso un enorme passo avanti nella pastorale familiare e getta un seme nel campo della dottrina. Ora la Relatio Synodi diverrà la base per il Sinodo ordinario del prossimo anno: sarà quella approvata ieri la base di partenza, e quindi c'è attendersi che tra un anno possano maturare le condizioni per ulteriori progressi. Il Papa ha pronunciato un discorso alla fine del Sinodo, che è stata salutato dau na stading ovatrion di cinque minuti. «Il dibattito si è sviluppato con franchezza e coraggio, senza mettere mai in discussione le verità fondamentali del Sacramento del Matrimonio: l'indissolubilità, l'unità, la fedeltà e la procreatività, ossia l'apertura alla vita», ha detto Bergoglio che sin dall'inizio aveva inviatato tutti a esprimersi in libertà e senza timori: «Personalmente mi sarei molto preoccupato e rattristato se non ci fossero state queste tentazioni e queste animate discussioni». Inoltre Papa Francesco ha ripetuto quanto aveva detto all'inizio raccomandando, ora che si apre una nuova fase di approfondimento, di «vivere tutto questo con tranquillità, con pace interiore anche perché il Sinodo si svolge 'cum Petro et sub Petrò, e la presenza del Papa é garanzia per tutti». Il messaggio è chiaro: il Pontefice ascolta tutti e garantisce la libertà di espressione del pensiero, ma poi a decidere sarà lui, e nessun altro. Nel Messaggio del Sinodo, presentato ieri mattina dal cardinale Gianfranco Ravasi, si afferma tra l'altro che «Cristo ha voluto che la sua Chiesa fosse una casa con la porta sempre aperta nell'accoglienza, senza escludere nessuno».

Repubblica 19.10.14
L’amaca
di Michele Serra


Con il sedere al riparo nelle nostre vecchie poltrone da panciafichisti, che della guerra sanno solo quel poco che i media riescono a raccontare, proviamo quasi imbarazzo a esprimere tutta la nostra solidarietà e gratitudine ai combattenti curdi, che a Kobane resistono all’Is da più di un mese, con armi peggiori, con l’incubo della tortura e dello stupro se vengono catturate/i, con l’ulteriore angoscia di dover proteggere anche i civili e le famiglie, e con i potenti vicini turchi che si mostrano reattivi solo quando si tratta di respingere i profughi che cercano di mettersi in salvo, restando del tutto indifferenti all’avanzata dell’esercito genocida jihadista. La nazione curda ha almeno due prerogative che la rendono odiosa al jihadismo: è multireligiosa (annovera musulmani sunniti e sciiti, cristiani, zoroastriani, ebrei, yazidi e altre minoranze di quel puzzle etnico-religioso che è il Medio Oriente) e il trenta per cento del suo esercito è costituito da donne, graduate e “in carriera” tanto quanto i maschi. E a capo e viso scoperto quando levano l’elmetto. La resistenza curda a Kobane meriterebbe, presso l’opinione pubblica occidentale, ben altra attenzione. Le vittime della guerra jihadista e del terrorismo sono in larga maggioranza musulmani mediorientali che cercano di conservare autonomia e dignità, e difendendo se stessi difendono anche la nostra comoda libertà.

il Fatto 19.10.14
Strage delle donne tra morbosità british e fanatismo religioso
Londra. La polizia crea un’unità speciale per contrastare i crimini in ascesa
di Carlo Antonio Biscotto


Il moltiplicarsi dei casi di violenza e brutalità contro le donne, spesso legati alla tradizione della dote e denunciati a più riprese dalla stampa britannica, ha indotto la polizia, per la prima volta nella storia del Paese, ad avviare una approfondita indagine sulle centinaia di donne che ogni anno vengono bruciate, torturate, sequestrate, maltrattate e rinchiuse in casa. Le organizzazioni a difesa delle donne da tempo spingono affinché le autorità forniscano i dati ufficiali sulla “violenza di massa” che, secondo stime approssimative, colpirebbe migliaia di donne.
Secondo le associazioni di volontariato i casi denunciati sarebbero appena la punta dell’iceberg di un fenomeno che ha ormai tutte le caratteristiche dell’epidemia. Eppure, per strano che possa sembrare, le forze di polizia non hanno – o non vogliono divulgare – cifre e dati. Gran parte delle violenze ruotano intorno a problemi finanziari e a questioni legate alla dote.
QUELLA DELLA DOTE è una tradizione millenaria praticata in molte parti del mondo. Secondo questa tradizione la famiglia della futura sposa deve fornire una somma di denaro (o beni equivalenti) alla famiglia dello sposo. È un costume ancora molto diffuso nel sud-est asiatico, in Medio Oriente, in Africa, in alcune zone dell’Europa orientale e in talune comunità della Gran Bretagna. Quando il marito non si ritiene soddisfatto della dote ricevuta, la malcapitata moglie può divenire oggetto di forme di maltrattamento e violenza che possono arrivare alla morte. Per questa ragione in alcuni Paesi la dote è stata vietata per legge, ma è tuttora legale in Gran Bretagna. Sono ormai numerose le organizzazioni che si occupano del problema, tra cui lo Sharan Project e l’Organizzazione curdo-iraniana per i diritti delle donne (Ikwro). “La maggior parte dei casi di violenza di cui ci siamo occupati aveva come motivo scatenante la dote”, ha dichiarato il portavoce dell’Ikwro.
L’organizzazione Karma Nirvana che aiuta le vittime dei cosiddetti delitti d’onore ha ricevuto nell’ultimo anno numerose telefonate tanto da attivare una apposita linea. I volontari di Coventry parlano di migliaia di casi e sostengono che spesso le donne maltrattate sono finite in ospedale o si sono suicidate. Tutte le comunità della Gran Bretagna sono mobilitate insieme alle organizzazioni umanitarie e alle associazioni di donne, per trovare una soluzione a partire dall’informazione nelle scuole. Inoltre chiedono alla polizia di riaprire le indagini sui numerosi casi di donne scomparse appartenenti a minoranze etniche. I responsabili delle forze dell’ordine ammettono – per la prima volta – che il problema esiste ed è grave e aggiungono che per questo delicato genere di indagini è necessario creare corpi di agenti specializzati con il compito di occuparsi di una serie di reati tra loro collegati se non altro per ragioni culturali: le violenze per la dote, le mutilazionigenitali, i matrimoni forzati, i delitti d’onore. Polly Harrar, fondatrice dello Sharan Project, ha detto all’Independent: “A volte si tratta di uomini che si sposano solo per pagare con la dote i debiti di gioco o di altra natura. Mi sono occupata di un caso nel quale un uomo si era sposato per poter comprare dei mobili. Quando si è accorto che il denaro della dote non era sufficiente ha picchiato a sangue la moglie fin quando i genitori non gli hanno dato altro denaro. Sono casi comunissimi qui in Gran Bretagna”.
OVVIAMENTE LE DONNE più esposte sono le immigrate prive di permesso di soggiorno per le quali la dote diventa una specie di pistola puntata alla tempia. Dianna Nammi, fondatrice e direttrice dell’Ikwro, ha dichiarato: “La dote è diventata una sorte di ‘pizzo’, una somma di denaro pagata per la protezione, per impedire che la figlia, una volta sposata, subisca maltrattamenti e abusi”. Hardial Kaul, che ha fondato il Sahil Project a Coventry nel 1986 per proteggere le donne asiatiche, ha detto: “Nel corso degli anni ho visto molte donne ricoverate in ospedale con gravi problemi psichici causati da questa situazione. Ricordo una donna che si era rivolta alla polizia e gli agenti sentendola parlare di denaro pensavano fosse pazza.
C’è una enorme difficoltà culturale a comprendere quello che accade in certe comunità etniche. In più di una circostanza i medici non riuscendo a capire il motivo dei disturbi sottopongono le donne all’elettroschock”. Il problema è che il sistema britannico non fornisce alcuna indicazione su come affrontare il fenomeno dei maltrattamenti legati alla dote e di questo tema non si parla in nessuna delle leggi sulla violenza contro le donne. “È necessario anzitutto che la società britannicaammetta l’esistenza del problema e che se ne parli liberamente e apertamente dal momento che causa numerosi casi di depressione e suicidio tra le donne”, ha detto Jasvinder Sanghera fondatrice di Karma Nirvana.
Ma una porta alla speranza l’ha aperta nel 1997 Dwinderjit Kaur, 51 anni, che si è rivolta al tribunale chiedendo la restituzione della dote dopo 18 mesi di matrimonio. Il tribunale ha accolto la sua istanza. “Presi questa decisione quando venni a sapere che il mio ex marito si era sposato solo per avere una casa più grande e un po’ di denaro da investire nella sua attività”.

Repubblica 19.10.14
Manal e Haitham venuti da Israele per rompere il tabù dello show Arab Idol
Sono i primi palestinesi dello Stato ebraico arrivati in finale. A costo di infrangere la legge
di Fabio Scuto


GERUSALEMME Manal e Haitham, due giovani palestinesi d’Israele, inseguono un sogno: partecipare a “Arab Idol”, il più popolare concorso canoro tv del mondo arabo trasmesso dal network Mbc da Beirut. Ma Israele e Libano sono ancora formalmente in guerra e ai cittadini israeliani è vietato viaggiare in un Paese nemico. Perciò i due sono dovuti ricorrere a uno stratagemma: andati in Giordania in maggio col passaporto d’Israele, hanno proseguito verso il Libano con un documento rilasciato dall’Anp. Manal Mousa di 25 anni e Haitham Khalaily di 24, che vengono da due paesini della Galilea, hanno deciso di sfidare le “leggi” di questa guerra e partecipare. Non è solo per la fama e il successo, vogliono essere parte di un mondo culturale che per loro è stato in gran parte off limits per la crisi israelo-palestinese. Molti palestinesi d’Israele guardano le tv satellitari arabe e sognano di viaggiare per il Medio Oriente. Ma la cittadinanza israeliana li esclude dai Paesi arabi, che vietano l’ingresso ai titolari del passaporto con la stella di David.
A Beirut i due ragazzi della Galilea sono stati ammessi alla finale dove incontreranno 24 altri giovani provenienti da tutto il mondo arabo. È la prima volta che “Arab Idol” ammette concorrenti con passaporto israeliano. Due anni fa vinse Mohammed Assaf un palestinese della Striscia di Gaza.
Al ritorno in Israele lo scorso maggio Manal e Haitham sono stati arrestati e interrogati dal servizio segreto israeliano, che mette sotto osservazione per terrorismo chi viaggia da o per il Libano. Passaporti sequestrati dallo Shin Bet e divieto di lasciare il Paese. Il sogno sembrava infranto. Ma il provvedimento è stato impugnato dagli avvocati delle due famiglie e dai gruppi israeliani per la difesa dei diritti umani, e i passaporti sono stati restituiti ai due. «Per la legge israeliana », spiega l’avvocato Mohammed Aram del gruppo per i diritti umani “Adala”, «viaggiare in un paese nemico è punibile con 4 anni di carcere o una multa».
Manal e Haitham potranno coltivare il sogno e sfatare un tabù: vincere da cittadini israeliani “Arab Idol”. L’anno scorso Lisa Makhoul, araba-israeliana, ha stravinto l’edizione israeliana di “The Voice” ma il successo è stato limitato a Israele. Invece Mohammed Assaf, da quando ha vinto “Arab Idol” è la voce più popolare in Medio Oriente ma anche negli Usa e in Europa. Votare per loro al telefono sarà un'altra sfida: da Israele non è possibile telefonare in Libano. Fan, amici e parenti dovranno spostarsi in Cisgiordania per poter chiamare Beirut con una compagnia telefonica palestinese.

Corriere 19.10.14
Stretta di mano Cina-Giappone Primo disgelo?
di Guido Santevecchi


Una stretta di mano nei corridoi del vertice Asem di Milano tra Shinzo Abe e Li Keqiang ha riacceso le speranze di un disgelo diplomatico tra Giappone e Cina. I due Paesi sono divisi dai fantasmi della guerra d’invasione giapponese nel secolo scorso e dalla disputa territoriale per un pugno di scogli disabitati che Tokyo chiama Senkaku e Pechino Diaoyu. Forse non è ancora un miracolo quello avvenuto a Milano, e ci sono stati subito segnali contrastanti e preoccupanti lanciati da tre ministre ultranazionaliste a Tokyo. Ma i due capi di governo non si erano ancora incontrati da quando sono entrati in carica a fine 2012. Shinzo Abe è stato definito «persona sgradita» a Pechino nel dicembre del 2013, quando andò al santuario di Yasukuni, dove sono onorati due milioni e mezzo di giapponesi caduti al servizio dell’imperatore, ma anche 14 generali e politici condannati per i crimini commessi durante la Seconda guerra mondiale. Però, negli ultimi mesi, ci sono stati contatti sotterranei, scambi di segnali e di richieste per fissare un’agenda capace di disinnescare la crisi. La Cina avrebbe posto due precondizioni: nessuna nuova visita di Abe allo Yasukuni e l’ammissione che le isole sono contese. In cambio, al vertice Apec in programma a Pechino il 10 e 11 novembre, il presidente Xi Jinping accetterebbe di incontrare faccia a faccia Abe per almeno 15 minuti.
Abe, ansioso di parlare con Xi, sarebbe pronto a un primo compromesso: davanti a Xi direbbe che le isole nel Mar cinese orientale sono giapponesi, ma ammetterebbe che la Cina ha le sue rivendicazioni e che servono colloqui per risolvere la questione. Ma proprio nello stesso giorno in cui i giapponesi hanno fatto filtrare questa apertura, una delegazione di 110 parlamentari di Tokyo è andata a rendere omaggio alle anime dei caduti di Yasukuni. E sempre da Milano, Shinzo Abe ha ordinato che a suo nome fosse depositato nel santuario un albero votivo. Subito sono arrivate le proteste ufficiali della Cina e della Corea del Sud, altra vittima delle aggressioni imperialiste nipponiche.
Non basta: ieri a Yasukuni sono andate anche tre ministre. Oltre a complicare la questione con Cina e Corea del Sud, l’omaggio delle tre esponenti del governo suona anche come una sfida all’autorità di Abe.

Repubblica 19.10.14
Mosca-Pechino, 48 ore con il supertreno
La nuova Transiberiana avvicina la Cina
di Nicola Lombardozzi


MOSCA Si può velocizzare un mito, renderlo più moderno, magari più comodo, senza ucciderne l’alone romantico che lo ha animato per quasi cento anni? La Russia ci prova con un progetto ardito e anche maledettamente costoso: realizzare una linea di Alta Velocità a fianco delle rotaie della vecchia Transiberiana, sacre a generazioni di appassionati di grandi viaggi intorno al mondo. Medesimi panorami, affascinanti e selvaggi, ma visti di sfuggita attraverso i finestrini sfrecciando a più di trecento all’ora. Il viaggio infinito (7000 chilometri e sei fusi orari) da Mosca a Pechino che adesso dura almeno sei giorni di dondolii, sobbalzi e nascite inaspettate di nuove amicizie tra compagni di scompartimento, si ridurrebbe a due giorni scarsi vissuti in asettici vagoni ultramoderni e cambiando così per molti il senso e lo spirito di quella che è sempre stata considerata un’avventura in piena regola. Non tutti a Mosca sono convinti che sia un affare investire la cifra, finora prevista, di 200 miliardi di euro per una simile operazione, ma il primo accordo con le ferrovie cinesi è già stato firmato l’altro giorno e la progettazione della nuova tratta potrebbe essere pronta già per la fine di quest’anno. A mettere fretta al governo russo c’è soprattutto la corsa ad orientare sempre più verso Est i propri interessi economici in questi mesi di sanzioni, controsanzioni e tensioni continue con l’Europa. E anche valutazioni di pura convenienza. I cinesi come è noto sono maestri nel campo dell’Alta Velocità. Non a caso possiedono la rete più estesa del mondo e vantano la tratta, finora più lunga, la Canton-Pechino di 2298 chilometri. Ma soprattutto possono garantire costi irrisori rispetto ad ogni altra nazione. Se la media del resto del mondo è di circa 26 milioni di euro per un chilometro di ferrovia ad Alta Velocità, le aziende cinesi sono in grado di realizzare la stessa distanza con “appena” 13 milioni.
Per questo la Russia ha accettato di realizzare la “Transiberiana veloce” insieme ai cinesi, accettando condizioni che fino a qualche anno fa sarebbero state impensabili visto il gelo tra i due Paesi: sul territorio russo arriveranno macchinari cinesi, ingegneri cinesi e anche operai specializzati cinesi. Il governo di Pechino sarà pagato soprattutto direttamente in natura con gas naturale e petrolio. In effetti da tempo i grandi progetti ferroviari russi languono per eccesso di costi e per difficoltà tecniche. I treni veloci (ma non velocissimi, poco più di duecentocinquanta all’ora), i cosiddetti Sapsan (falco pellegrino) collegano Mosca solo a San Pietroburgo a nord e Niznij Novgorod a sud. Ma corrono sulle rotaie tradizionali senza nemmeno sfruttare tutte le loro potenzialità.
L’inizio di una nuova Transiberiana porterebbe come prima tappa al collegamento veloce della capitale con la città tartara di Kazan, capoluogo di oligarchi e industrie pesanti. La seconda tappa renderebbe veloce il tragitto anche per Ekaterinenburg, altra città emergente per commerci e attività manifatturiere. Le tappe successive interessano meno a Mosca che infatti per bocca dei suoi dirigenti si esprime con vaghezza sui tempi e le scadenze dell’opera. «Non basteranno dieci anni — dice il presidente delle ferrovie russe — e c’è poi da valutare bene quanti passeggeri la utilizzerebbero».
Del resto le migliaia di turisti che sognano il viaggio lento e romantico continuerebbero a preferire la tratta tradizionale, quella voluta dagli zar, che ignorava Pechino e tirava dritto fino a Vladivostok. Ferrovia percorsa da eroi letterari, nobili esiliati e anche da migliaia di deportati nell’orrore dei lager sovietici dell’Estremo Oriente russo. Per percorrerla tutta ci vogliono sette giorni, attraversando pianure deserte, gole spaventose, e le coste straordinarie del lago Bajkal. Difficile che il treno superveloce cinese possa battere la potenza di un fascino immortale.

il Fatto 19.10.14
La giornalista Franca Leosini
“Rubo l’anima a chi intervisto ma alla fine la restituisco”
di Malcom Pagani


SIGNORA DELLE STORIE MALEDETTE Dall’Espresso alla Rai
Franca Leosini è nata a Napoli. All’Espresso nel 1974, direttrice di Cosmopolitan, poi la televisone dalla fine degli Anni 80. Autrice di Telefono Giallo di Corrado Augias, conduce dal 1994 “Storie Maledette” su Rai Tre Ansa

Franca Leosini arriva dopo. Quando i processi hanno tirato il sipario, nel retropalco restano solo i rimorsi e con i suoi anacronismi dialettici, da archeologa della parola, l’autrice di Storie maledette può finalmente spolverare la memoria, lucidare i dubbi, levigare il senso di colpa. Da vent’anni, sulla pista che conduce alla notte, Leosini guida gli spettatori di Rai Tre alla scoperta del crimine. Una stanza spoglia, un tavolo, un quaderno, due sedie. Poi campo- controcampo, sbarre alla finestre, domande, risposte. Sui casi giudiziari che a tempo debito riempirono le cronache, indaga una giornalista napoletana che le sommarie biografie pretenderebbero nata nel 1949: “Sono più vecchia di qualche anno, ma non ho mai sentito l’urgenza di rettificare”. In vent’anni, sulla sponda di una delle più antiche nicchie del servizio pubblico, Leosini ha visto passare davanti agli occhi sguardi non rassicuranti. Secoli di condanne per omicidio, abissi morali, deviazioni, ammissioni, distinguo, dichiarazioni di innocenza, realtà parallele e nomi entrati nell’immaginario collettivo. Ha ascoltato, incalzato e sorpreso aguzzini come Angelo Izzo, l’ex ragazzo nero dei Parioli che con Andrea Ghira e Gianni Guido sequestrò e uccise Rosaria Lopez e devastò per sempre l’esistenza di Donatella Colasanti sul litorale pontino. Pino Pelosi, l’ultimo incontro di Pasolini nel 1975, proprio a pochi mesi dal massacro del Circeo: “Feci riaprire il processo”. Femmine di mitologica cattiveria e maschi direttamente imparentati con i lupi. E poi, in ordine sparso, tra una Uno Bianca, un catamarano della morte e uno stilista fiorentino ucciso nel centro di Milano, disegnando la geografia del delitto italiano, Leosini ha restituito un quadro arcano e non rassicurante, dei molti motivi che spingono l’apparente normalità a cambiare di segno. A volte raptus, istante, lampo di follia. Altro misfatto meditato. Unico comun denominatore delle vicende trattate, l’irreversibilità. Sapendo di non poter tornare indietro, Leosini studia per scoprire oltre. Nelle pieghe di ciò che non è stato ancora svelato, alla ricerca di un’ulteriore confessione: “Ma la parola ‘scoop’ è lontanissima da me. Il giornalista con un minimo di qualità non ne ha bisogno”. L’essenzialità dell’ufficio inorgoglirebbe gli spartani. Fa caldo. Le finestre sono chiuse. L’arredamento è primario, le scrivanie semiarrugginite. Leosini apre armadi gonfi di faldoni. Mostra stralci di deposizioni e blocchi di appunti. Giura che due decenni di periplo nelle prigioni italiane non l’abbiano spaventata. “Mi fanno molta più paura i mostri che sono fuori. I miei interlocutori non sono mai professionisti del crimine, ma persone come me che a un certo punto della loro vita cadono nel vuoto di una maledetta storia”.
Sembra uno slogan.
Ma è la verità. Affronto sempre le mie storie con curiosità. Ho il desiderio di capire che tipo di guasto si sia verificato in precedenza. Cosa spinga un essere umano a compiere un gesto che in teoria non gli somiglierebbe.
Cosa glielo fa pensare?
Prima capisco, poi dubito, infine racconto. Scelgo sempre con cura i miei interlocutori. Spesso mi scrivono. Vogliono incontrarmi. E io vado a vedere. Parto.
E cosa trova dall’altra parte?
Vicende incredibili che però non necessariamente si trasformano in programma televisivo. Quando aprii la lettera di Nicola Dettori, condannato a 25 anni per concorso morale in sequestro di persona, ad esempio mi mossi subito. Il caso Vinci, con lo strascico della sua lunghissima detenzione, era un evento che meritava di essere approfondito.
Giuseppe Vinci, proprietario di una piccola catena di supermercati, era stato sequestrato nei pressi di Macomer a metà degli Anni 90. 310 giorni di inferno tra topi, pulci e musica ad altissimo volume nelle orecchie.
Dettori si è sempre dichiarato innocente. “Non so niente del mondo dell’Anonima sarda, ho preso 25 anni perché ho fatto da postino tra la famiglia del sequestrato e i sequestratori”. Andai a trovarlo. Era entrato in carcere da analfabeta e si era laureato. Una persona gentile, simpatica persino, ma esclusivamente interessata a raccontare il lato accademico della sua vicenda. Del sequestro Vinci e di quel mondo arcaico, legato alla pastorizia e ai rapporti ancestrali di sangue, non voleva parlare. Vista la parata, lasciai perdere. Storie Maledette ha una sua tipologia precisa. Di un condannato, in scena, c’è tutto il percorso. La salita, la discesa, la consapevolezza. Non solo il lustrino del traguardo finale o della redenzione. “Non c’è carica, Dettori, non c’è storia”. Gli dissi la verità.
Teme il ritratto involontariamente apologetico?
Non faccio sconti e non risparmio niente, ma tutte le persone con cui parlo hanno eleborato una revisione profonda del loro gesto. Poi certo, ai miei interlocutori non rivelo mai in anticipo le domande che porrò né come andrò a impostare il colloquio. Rubo l’anima per poi restituirla. Cosa la scuote quando affronta un’inchiesta? Prima di tutto mi interessa ascoltare. Storie Maledette è un ponte tra i cosiddetti “mostri” e la società. Un’occasione per osservare un caso in una prospettiva differente. Nelle settimane che seguono un delitto e la scoperta di un colpevole, per tacere di quelle che accompagnano un processo, farlo con quella profondità non è mai possibile. Il contesto, l’emotività e le pressioni contingenti contano. Contano eccome.
I casi che affronta non hanno mai come protagonista un omicida seriale.
Mi scrissero Pietro Pacciani, prima che venisse assolto e in seguito anche Donato Bilancia. Non mi occupo di serial killer veri o presunti. Di chi è preda di un’ossessione rituale. Con Bilancia, poi, condannato a 13 ergastoli, ebbi il fondato sospetto che cercasse una scappatoia, un modo per sottrarsi alle sue responsabilità, un’infermità mentale che lo facesse dichiarare pazzo e gli permettesse di tornare libero. Mi tirai indietro.
A quali altre storie si è sottratta?
Alle parabole raccontate con poca sincerità.
La più insincera in assoluto?
Forse la persona meno autentica che abbia incontrato nel mio percorso è Gigliola Guerinoni.
“La mantide” di Cairo Montenotte. Scarcerata quest’anno dopo ventisei anni di carcere.
Tendeva ad autorappresentarsi per quel che non era, a strumentalizzare l’interlocutore. Un atteggiamento che sono sicura le sia costato una condanna più aspra del previsto.
E poi?
Non prendo mai in considerazione i casi di persone che hanno parlato con altri in precedenza. Le mie storie si concentrano su chi non ha mai aperto bocca prima e non parlerà più dopo.
Nell’assunto c’è qualcosa di definitivo.
Perché mi porto dietro le storie che racconto e quelle storie entrano a far parte della mia vita. Ogni puntata richiede uno studio profondo dei personaggi, del loro mondo, degli atti giudiziari. Solo che io non sono un giudice e non mi avvicino mai con la lente del giudizio o peggio del pregiudizio. Detesto la retorica del pubblico perdono. La sola cosa che dico alle persone che incontro è “l’istante in cui a lei sembra che le stia ponendo la domanda più spietata, concide con il momento in cui io voglio aiutarla di più” .
E i suoi condannati, i suoi ergastolani ci credono?
Dissi la stessa cosa anche a Roberto Savi, uno dei killer della Uno Bianca. Il patto è darsi. Loro si concedono e io scavo dentro alla ricerca del buio. Per chi ha creato tanta sofferenza agli altri, non è mai un viaggio senza dolore.
Savi e i suoi fratelli ne provocarono moltissimo.
Proprio per i tanti morti e i tanti lutti causati, con Roberto Savi usai un linguaggio più duro di quello che utilizzo normalmente. Nelle lettere che mi aveva spedito, Savi mi descriveva le sue notti insonni, il tormento divorante per quel che aveva fatto. Ci furono momenti duri a iniziare da quello in cui gli mostrai la foto di suo padre Giuliano, suicida con massicce dosi di Tavor proprio all’interno di un modello di macchina identico a quello della banda. Alla fine della conversazione mi resi conto che mi aveva rivelato molte più cose di quante non ne avesse messe a verbale durante il processo. Abbassò la testa: “Su di me sono state scritte molte inesattezze”.
Conferire con lei è un modo di riscrivere la propria storia?
Potrebbe, ma non lo consento mai. La base è la fiducia reciproca, non si passa da Storie maledette per erigere il proprio altarino.
Lei parlò a lungo anche con Angelo Izzo, uno dei massacratori del Circeo. Con lei mostrò pentimento. Poi ricadde nell’orrore.
Continuiamo a scriverci, ma io inizio sempre le lettere nello stesso modo: “Mi rivolgo a quella parte di te in cui ho creduto”.
Chi ha incontrato davvero in questi vent’anni?
Un’Italia in cui il delitto attraversa trasversalmente
tutti gli strati sociali e racchiude in un certo senso la storia del Paese. Da Patrizia Reggiani e dal delitto Gucci, alla storia arcaica di Stefania Delli Quadri, la piccola martire del casolare, una sorta di Maria Go-retti di San Severo di Puglia uccisa non per sadico gusto ma perché un lontano cugino, Leonardo Racano, era convinto di poterla tenere per sempre legata a sé dopo averla sequestrata, si stringono nel crimine anche mondi distantissimi tra loro.
Da Quarto grado ai plastici di Vespa il crimine paga anche in televisione?
Storie maledette non riesce a essere imitato e io sono un oggetto strano, seguito dal letterato come dal venditore di verdura. Quando mi chiedono se ho dei modelli rispondo di no. Ognuno ha la sua identità. Cerco un’analisi verticale, profonda. Altri inseguono una lettura dei fatti orizzontale.
Lei parla un italiano ricercato, aulico. Non teme l’iperbole né la metafora.
Una delle responsabilità più gravi della televisione è aver abbassato il livello del linguaggio. La tv non deve diseducare. La gente parla come noi, siamo dei modelli. Tengo poi molto alla “parola”. Se dico “la picchiava come una cotoletta” o “fare lo zezo” o “fare farinella”, intendendo “mettere le mani addosso”, o corteggiare in modo smanaccione non è perché prepari la battuta in anticipo, ma perché amo saccheggiare la letteratura e non accetto di rinunciare a umanità e ironia. Non voglio che il mio racconto somigli a un mattinale della Questura. E non è vero che se degradi il linguaggio arrivi a un pubblico più vasto: non c’è tassista che non mi chieda chi ospiterò nella puntata che verrà. Se ti seguono anche quelli che hanno un eloquio più semplice del tuo, stai facendo bene il tuo mestiere.
I primi passi nel giornalismo?
Anche se non ne parlo volentieri per timore di confondere lavoro e privato, ho avuto un’adolescenza felicissima e molto viziata. Mio padre era un grosso banchiere. Un uomo meraviglioso, un mecenate dai mille talenti e dalle mille presidenze. Dopo la Laurea in Lettere Moderne, quando ero ancora alle prime esperienze, ebbi la fortuna di incontrare Sciascia.
Come lo conobbe?
Me lo presentò Sara Ferrati, una specie di vice madre che a me dava del lei e che aveva sposato un giovane tenore di Racalmuto, intimo amico di Leonardo. Dopo il primo incontro, tra un mercatino dei libri e un tè, trascorsi con lui cinque indimenticabili pomeriggi. Gli feci tenerezza, si fidò. Un giorno mentre eravamo insieme, incontrammo Valerio Riva de L’Espresso. Mi vide prendere appunti in compagnia di Sciascia e si fece lasciare il mio numero di telefono. Mi chiamò: “Salta sul primo Taxi e vieni in redazione, vorrei leggere la tua intervista a Leonardo”. Mi precipitai in Via Po. Riva fu secco: “Domani mattina alle 5 ti mando il corriere per la consegna”. Feci la spiritosa e chiesi se avessi almeno diritto a un penna e Valerio, sabaudo, sibilò: “Qui i diritti non sono in offerta, si conquistano”. Corsi a scrivere e consegnai nei tempi. La collaborazione nacque così.
L’intervista con Sciascia del 1974 fece epoca.
Il pezzo uscito su L’Espresso si intitolava “Le zie di Sicilia”. Leonardo attribuiva alla donna siciliana, vestale silente e cuore pulsante dell’omertà casalinga, la responsabilità morale della cultura mafiosa e a grandi linee, la genesi della mafia stessa. A risultato raggiunto, Riva fu generoso: “Per te andrebbe mutuata la frase dedicata da Pajetta a Berlinguer” disse “ti ricordi? Si iscrisse giovanissimo alla direzione del Pci. Per te vale lo stesso”.
Alla direzione di un giornale poi arrivò anni dopo, con Cosmopolitan.
Dirigere Cosmopolitan, un colosso, fu dura. Arrivai in un difficile momento di passaggio e mi resi conto che la linea dell’edizione italiana era totalmente dettata dagli americani. Mi dimisi quando dopo aver considerato un articolo impubblicabile, venni richiamata all’ordine: “L’editore ha detto che deve essere stampato”. Allora risposi a tono: “Se lo diriga lui, il giornale”. Il cervello non lo prostituisco, se devo prostituirmi faccio qualcosa di più divertente.
Ha rimpianti?
Quando mai? Sono di indole ribelle, ho bisogno di sentirmi libera. In una redazione mi troverei a disagio. Sono stata fortunata. Ho potuto scegliere.
Eredità della filosofia napoletana?
Le radici sono lì, ma come altri, ho con Napoli un rapporto conflittuale. Osservo con furore lo smarrimento di una città sepolta. Le responsabilità sono di vario tipo, anche dei napoletani perché Napoli ama abbandonarsi alla sconfitta e ha tanti limiti che la sfigurano. Però, per altri versi, conserva ancora nella sua parte antica un profondo rapporto morale di vicoleria. Una solidarietà di vicinato. Una generosità e una reciprocità di fondo tra esseri umani. Una strage come quella di Erba, nei quartieri spagnoli non sarebbe mai potuta accadere. Nei bassi napoletani il tuo sorriso è il mio e il tuo dolore mi appartiene. A Napoli sono rimaste le mie figlie, due ragazze felici e un marito del tutto disinteressato al miolatopubblico. Perluicheiofaccialepolpetteole storie maledette, non fa differenza.
L’intuizione di portarla in tv fu di Guglielmi.
Mai avuto alle spalle un amante o un partito, ma ad Angelo devo molto. Il passaggio dalla carta stampata alla tv avvenne per caso. All’epoca collaboravo alla terza pagina de Il Tempo e seguivo il caso di Anna Grimaldi, moglie dell’omonimo armatore e amante di Ciro Paglia, potentissimo capocronista del Il Mattino. La Grimaldi venne uccisa a colpi di pistola nel 1981 e dell’omicidio venne immediatamente accusata la legittima moglie di Paglia, Elena Massa, giornalista. Massa si era data alla latitanza. Venne poi arrestata e infine assolta con formula piena. Il processo fu memorabile. Un pezzo di teatro scarpettiano fitto di maschere, in un ambito teso a mettere in scena le enormi differenze sociali tra i due gruppi familiari. Il mondo di Elena Massa con i suoi figli, lontani dai capricci della moda e quello della Grimaldi, con le presenze smaltate e la prole lucida, bella e silenziosa. Fui chiamata a scriverne e a Guglielmi il mio lavoro piacque. Mi chiamò a collaborare. Era l’epoca del TelefonoGiallo di Corrado Augias.
Da allora sono passati vent’anni. Lei ha vinto molti premi, è diventata un’icona gay, ha dato ispirazione a Matteo Garrone per due film e non sembra
aver voglia di cambiare o passare la mano.
Ho rifiutato offerte principesche perché la pensocome Guglielmi: “Rai Tre non è una rete, è uno stato d’animo”. E uno stato d’animo non lo misuri con il denaro. Non lo puoi comprare.
Aldo Grasso non si è intenerito. L’ha criticata spesso.
Non puoi e non devi piacere a tutti. Grasso non mi apprezza, ma non importa. Rimedio io. Lo ammiro e non me ne vergogno. Bisogna essere elastici. Fare come la De Filippi che è un ossimorovivente, capace di tenere durezze conservando l’intelligenza e rimanendo se stessa.
Lei ci riesce?
Ci provo. Mi sforzo, sorrido alla vita, mi diverto. Anche se l’ottimismo cosmico di mia sorella, una che quando ingrassa cinguetta: “Ma come si sono strette queste gonne”, non mi appartiene e temo non mi apparterrà mai.

La Stampa 19.10.14
Sergio Flamigni, l’instancabile ricercatore della verità
di Agnese Moro


Nella letteratura sul terrorismo italiano e sullo stragismo gli scritti di Sergio Flamigni (Forlì 22 ottobre 1925) occupano un posto di tutto rilievo. Al suo attivo una vita speciale, nella quale l’impegno politico ha fatto la parte del leone. Partigiano, militante e dirigente del Partito Comunista Italiano; da deputato è stato membro della prima Commissione di inchiesta sulla mafia (1962); da senatore ha partecipato attivamente ai lavori delle Commissioni che indagavano sui nostri anni di sangue e sulla loggia massonica P2. Conclusa l’esperienza parlamentare ha messo la sua competenza, la sua passione e le sue risorse, anche economiche, al servizio della ricerca della verità su quegli anni difficili. Nella sua casa di Oriolo Romano ha creato un archivio tematico, diretto da Ilaria Moroni - seconda sede a Forlì con suo figlio Miro -, tra i più nutriti e qualificati (www.archivioflamigni.org), divenuto così importante da sfrattare lui e sua moglie Emilia Lotti - sua splendida compagna di vita e di impegno -, costringendoli a trovare un’altra sistemazione abitativa. In tantissimi, giovani e non, hanno studiato su quelle carte.
Conoscere Sergio è una sorpresa e un privilegio. E’ gentile, mite, risoluto, rispettoso degli altri, animato da una passione civile vera, senza secondi fini. Non è arrogante e non è mosso da interessi personali. Spiritoso, bellissimo sorriso, coltiva con Emilia il suo orto, in una vita semplice e piena che non si ammanta di titoli e di orgoglio. Spesso incompreso e deriso per la sua visione contro corrente delle vicende del terrorismo e dello stragismo non si è mai scoraggiato, proseguendo la sua ricerca della verità. Con una esemplare limpidezza e libertà interiore. Sentirlo parlare della storia italiana come l’ha vissuta lui in tanti momenti cruciali e drammatici è emozionante. Vedere la sua dirittura morale nelle piccole come nelle grandi cose è confortante e ti riempie di nostalgia e di desiderio di un Paese migliore.
Sergio sa parlare alle speranze dei giovani e ne ha convocati tanti, ieri e oggi, all’impegno serio e consapevole. Attorno a lui un bellissimo gruppo di giovani studiosi, e una rete, la Rete degli archivi per non dimenticare, per valorizzare le attività di tutela della memoria, animate dalla società italiana e dagli archivi di stato.
Caro Sergio. Grazie per quello che sei, per quello che fai, e per ciò che farai.

La Stampa 19.10.14
Dylan Thomas
Il poeta che rivestì le parole di linfa e sangue
Cento anni fa nasceva il bardo gallese: come una meteora attraversò il XX secolo, lasciando una traccia indelebile
di Paolo Bertinetti


Nei primi Anni Cinquanta Dylan Thomas, per sistemare le sue dissestate finanze, andò a più riprese negli Stati Uniti a tenere delle conferenze e delle letture pubbliche delle sue poesie. Dato che beveva moltissimo e c’era il rischio che non riuscisse neppure a stare in piedi sul palco, una volta, lo chiusero a chiave nella sua camera d’albergo per impedirgli di scendere al bar a riempirsi di whisky. Si calò dalla finestra. Lo trovarono più tardi, ubriaco fradicio, in un locale lì vicino.
Len Deighton, l’autore di La pratica Ipcress, sostiene che due sono le cose che distruggono uno scrittore (o almeno uno scrittore anglosassone): le lodi e l’alcol. Le lodi Dylan Thomas le aveva ricevute sin dall’uscita della sua prima raccolta di versi, 18 Poems, pubblicata ne 1934, quando aveva soltanto vent’anni. Ma soprattutto dopo la seconda raccolta, 25 Poems, del 1936, salutata con grande favore da critici e poeti, in particolare da Edith Sitwell, una delle figure più autorevoli della scena culturale inglese di quegli anni. Dietro la sua poesia si poteva scorgere l’eco dei poeti metafisici del Seicento e di Blake (con il loro legato, rispettivamente, di virtuosismi retorici affascinanti e di un quasi mistico impeto visionario). E poi l’eco del paesaggio e dell’immaginario della cultura gallese.
Dylan Thomas era infatti nato nel 1914 a Swansea, nel Galles meridionale, dove aveva frequentato la locale Grammar School (un tipo di scuola paragonabile al nostro liceo), in cui il padre insegnava inglese. Non volle andare all’università. A diciassette anni, finita la scuola, si mise a lavorare come giornalista – cosa che però non gli impedì di dedicarsi intensamente alla scrittura creativa e alla poesia. Nel 1934 aveva poi lasciato temporaneamente il Galles per trasferirsi a Londra, in coincidenza con la pubblicazione della sua prima raccolta di versi.
Le sue liriche, per la verità, suscitarono le perplessità di alcuni, sconcertati dall’ermetismo presente nel suo linguaggio. Agli occhi dei più, invece, prevalse l’ammirazione per il flusso tumultuoso di immagini, cadenze, suoni che rispondevano al rivelarsi di un’energia prorompente, vitale, come quella della natura stessa. Le parole delle sue liriche, la loro musicalità vibrante, la loro capacità di veicolare le emozioni primarie del vivere, costituivano un’alternativa stimolante rispetto a quelle dei due grandi poeti del tempo, Eliot e Auden, che pur nella loro bellezza spesso tradivano una freddezza intellettuale e un disincantato virtuosismo agli antipodi della vitalità debordante che il giovanissimo poeta dispiegava.
Allo scoppio della guerra Dylan Thomas, a causa della sua salute precaria, fu riformato. Il suo contributo alla lotta contro la Germania nazista fu di natura artistica: testi per la Bbc, che lui stesso leggeva, e cinque sceneggiature di film per una casa di produzione che faceva capo al ministero dell’Informazione. Alla fine del conflitto, a partire dall’autunno del 1945, ci fu la svolta decisa, quando la Bbc divenne il suo datore di lavoro (e la ragione principale del suo enorme successo popolare): nei successivi tre anni partecipò a più di cento trasmissioni. Il che significò due cose: fama e una seppur minimale sicurezza economica.
La sua notorietà e la sua assidua presenza sulla scena culturale inglese molto dipendevano dal successo radiofonico. Ma sicuramente importante fu anche il successo critico che accolse l’uscita di Death and Entrances, la raccolta di liriche pubblicata nel 1946; e definitiva conferma venne da In country sleep, uscito nel 1952. I giovani poeti, tra cui Allen Ginsberg lo apprezzavano molto (e Bob Dylan, che si chiama Zimmerman, cambiò il proprio cognome in suo omaggio); i critici (i molti a lui favorevoli) erano incantati dalla originale bellezza dei suoi versi; i lettori, oltre a questo, erano incantati dal «genio e sregolatezza» del suo autore. E dalla sua voce. Per questo riempivano le sale dove si esibiva.
La poesia di Dylan Thomas, che affronta i temi «elementari» della nascita, dell’amore, della morte, è caratterizzata dalla presenza quasi ossessiva del corpo, dell’insieme della sue sensazioni fisiche, dei suoi slanci emotivi, che trovano la loro incarnazione nelle parole e nelle immagini che danno vita ai suoi versi. «Tutti i pensieri e le azioni - scrisse Thomas, - provengono dal corpo. Perciò la descrizione di un pensiero o di un’azione può essere fatta riducendola al livello fisico. Ogni idea può essere tradotta nei termini del corpo, della sua carne, pelle, sangue, tendini, vene».
Questa «corporeità», che lui rintracciava nella poesia di John Donne, il grande poeta metafisico, doveva essere alla base della sua poesia. La quale però, diceva Thomas, aveva bisogno di una «schiera di immagini» che lasciava si creassero in lui «emotivamente, cozzando l’una contro l’altra», in un rapporto dialettico di costruzione e distruzione. In quel turbinio di immagini, che nel loro scontrarsi volevano corrispondere al modo di operare dei processi organici della natura, come è evidentissimo nelle sue liriche più famose, «La forza che nella verde miccia spinge il fiore», oppure «La collina delle felci», risiede la suggestione e la forza della poesia di Thomas. In quelle immagini e nell’incanto della parola, che è presente anche nelle prose, in particolare nel radiodramma Under Milk Wood, titolo tradotto in italiano come Sotto il bosco di latte («milk wood» è il nome di un albero sempreverde dal fitto fogliame).
Nell’ottobre del 1953 Dylan Thomas tornò di nuovo negli Stati Uniti, per assistere, tra l’altro alle prove di Under Milk Wood. Scese al Chelsea Hotel, in condizioni di salute alquanto precarie. Un medico, chiamato dalla sua recente amante americana, Liz Reitell, lo imbottì a più riprese di vari farmaci. Cosa che non gli impedì di passare da un bar all’altro, tra i quali un pub chiamato White Horse. Thomas si vantò di avere bevuto 18 bicchieri di whisky di fila nel locale (soltanto nove, disse poi il barista). Era la notte tra il 3 e il 4 novembre. Nel pomeriggio tornò di nuovo al White Horse con Liz Reitell. A mezzanotte fu portato in ospedale. Morì il 9 novembre; ma non per l’alcol, bensì di polmonite.

La Stampa 19.10.14
Padri assenti, figli disorientati
La fatica di diventare grandi
Un antropologo e uno psicanalista denunciano in un libro che la nostra società ha abolito i «riti di passaggio»
di Giuseppe Culicchia


Viviamo in un’epoca in cui, non solo in Italia, non solo in Europa, non solo in Occidente, le città sono sempre più pensate alla stregua di luoghi d’intrattenimento: come scriveva all’alba del nuovo millennio Bruce Bégout in Zeropoli. Las Vegas, città del nulla (Bollati Boringhieri 2002), l’urbe nel deserto del Nevada è organizzata in funzione del divertimento e dello shopping, e prevede un’animazione che non conosce soste, come usa dire h24, con architetture va da sé assai kitsch capaci di mixare seduzione commerciale e immaginario infantile, «offerta rituale al dio Divertimento e cimitero di insegne, trasfigurazione del banale e infinita variazione sul tema, sublimazione del grottesco al di là del bello e del brutto, Sogno Americano».
Ed è proprio a questo modello di città non più fortezza o polo commerciale o industriale ma vero e proprio parco giochi in stile Disneyland, nel frattempo esportato nel resto del globo con la complicità di costruttori e «archistar», che fa pensare La fatica di diventare grandi, sottotitolo La scomparsa dei riti di passaggio, volume scritto per Einaudi dall’antropologo torinese Marco Aime e dallo psicanalista e psichiatra veneziano Gustavo Pietropolli Charmet. Il tema ricorre ormai da lustri non solo tra gli specialisti delle summenzionate discipline ma anche tra ordinarie pierre all’ora dell’apericena e casalinghe più o meno disperate: ormai gli adulti vivono come adolescenti, e gli adolescenti sembrano già adulti. Basta farsi un giro su Facebook o al più vicino centro commerciale, gli esempi non si contano. Al punto che non di rado ormai non pochi figli si preoccupano dei rispettivi genitori, ovviamente separati o in via di. Non perché questi ultimi abbiano superato l’ottantina o siano invalidi, ma perché dall’alto dei loro, anzi dei nostri quaranta o cinquant’anni non ci limitiamo a vestirci e acconciarci da ragazzini, ma ci comportiamo davvero come tali. Di modo che la prole, magari neppure maggiorenne, si rivela capace di dispensarci consigli non richiesti, tipo: «Papà, ma non lo vedi che quella che tu chiami la tua nuova fidanzata è una ragazzina narcisista che ti sta solo usando?». Ecco.
Marco Aime, che prende le mosse dal concetto stesso di tempo, rileva come rispetto a qualche decennio fa, quando lo status degli anziani era ridimensionato dalla loro espulsione dal ciclo produttivo, le cose siano cambiate – gli ultra-sessantenni oggi sono ancora attivi, e detengono la maggior parte del patrimonio – e sottolinea come in realtà sia sempre stato importante evidenziare le differenze tra giovani e adulti. Non a caso, in ogni epoca e in ogni società sono nati riti di passaggio che segnavano la fine di un’età e l’inizio della successiva, e che erano allo stesso tempo una frattura e un segno di continuità all’interno di un quadro sociale condiviso. Da qui le prove iniziatiche a cui da sempre sono stati sottoposti gli adolescenti.
Ma come sostiene l’antropologo africanista Max Gluckman, più le società diventano complesse, meno sono ritualizzate. E dunque, in casa nostra, ecco l’eclissarsi di riti di passaggio quali il servizio militare, il fidanzamento e il matrimonio. Preceduti dalla comparsa di una nuova categoria sociale: i «giovani». Buoni per fare la guerra – vedi la nascita di organizzazioni quali la Hitlerjugend o i Balilla negli anni Trenta del Novecento – oppure per fare shopping, così come vuole fin dagli anni Sessanta la cosiddetta civiltà dei consumi. Con i jeans e la minigonna, per la prima volta nella storia dell’Umanità i giovani marcavano una differenza rispetto al mondo degli adulti. Poi la mutazione, colta già da Giorgio Gaber. Vedi I padri tuoi: «Che sembrano studenti un po’ invecchiati non hanno mai creduto nel mito del mestiere del padre e nella loro autorità». Compare così sulla scena il personaggio del genitore «amico» dei figli, all’insegna di un’indulgenza programmatica che arriva al «facciamoci una canna assieme» e prevede che il padre o la madre si precipitino a scuola per aggredire gli insegnanti rei di aver dato un brutto voto o di aver punito il figlio/amico. Intanto, la tivù ha del tutto abdicato al ruolo pedagogico per diventare pura fonte d’intrattenimento. Quanto alle moderne tecnologie, quanti sono gli adulti che dipendono dai figli, quando si tratta di usarle?
«Meno regole e meno punizioni»: ecco il motto dei nuovi genitori secondo Pietropolli Charmet. Dal padre etico, che aveva funzioni educative e di controllo, si è passati al padre che accudisce: salvo poi constatare come il figlio soffra non poco a causa dell’assenza o dell’evanescenza del padre medesimo. E se da un lato la pubertà arriva in anticipo rispetto a un tempo, abbreviando l’infanzia e dando luogo alla cosiddetta «adultizzazione precoce», dall’altro si assiste al rinvio del matrimonio e della procreazione. Con l’affermarsi della dipendenza nei confronti dei prodotti di consumo: «Può capitare di imbattersi in adolescenti che, animati da un desiderio ingordo di merce, cerchino disperatamente di mitigare i bisogni affettivi profondi spostandoli sulla raccolta frenetica e compulsiva di cose inanimate». Tutte cose che non sfuggono alle menti raffinate che stanno dietro i loghi delle varie corporation. Insomma: viene altresì in mente, inoltrandosi tra queste generazioni confuse, Alexis de Tocqueville, quando scriveva a proposito del tipo di oppressione da cui sono minacciati i popoli democratici: «Al di sopra della massa, si erge un potere immenso e tutelare, che si fa carico solo di assicurare i divertimenti collettivi […] E’ un potere assoluto, dettagliato, regolare, preveggente e dolce. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come questa, avesse lo scopo di preparare gli uomini all’età virile; ma, al contrario, non vuole che fissarli irrevocabilmente nell’infanzia».

Repubblica 19.10.14
Rosenberg
“Mangiate, fate i bravi”. L’addio ai figli delle “spie di Stalin”
di Vittorio Zucconi

NON ERA UNA SPIA, era soltanto una madre, la donna che sulla soglia della sedia elettrica scrisse ai figli: «Vi conforti sapere che noi siamo sereni. Ricordate sempre che noi siamo innocenti». Era il 19 giugno del 1953, il giorno in cui Ethel Rosenberg, con suo marito Julius, fu messa a morte a Sing Sing per un reato mai commesso: spionaggio per l’Urss. Ora che, mezzo secolo più tardi, vengono messe in mostra dalla Boston University le ultime lettere dal carcere dove per due anni avevano atteso un’esecuzione decisa e voluta per placare la sete di “streghe” che ossessionava l’America, la verità giudiziaria su questa coppia simbolo della paranoia rossa non cambia. Cambia la conoscenza di un uomo e di una donna intrappolati nella simbologia crudele della Guerra fredda e divorati dalle crisi di isteria ideologica dalle quali nessuna nazione è immune.
Julius aveva fatto la spia per Stalin, come più tardi riveleranno i documenti russi dell’”Operazione Venona”. Ethel mai. Fu il fratello, lui sì una spia, morto proprio in questi giorni dopo avere ammesso la verità, a deporre il falso contro di lei al processo del 1951 e a darla in pasto al maccartismo paranoide per salvare il proprio collo.
Il “Caso Rosenberg” divenne l’”Affare Sacco e Vanzetti” per la generazione del dopoguerra, un esempio sensazionale della ingiustizia sommaria applicata per placare il terrore del nemico vero o immaginario, l’anarchia e l’immigrazione dal sud Europa negli anni Venti, l’orso russo negli anni Cinquanta.
Neppure i due si resero conto fino agli ultimi giorni di avere commesso colpe tanto mostruose da mobilitare il boia.
Nelle lettere di Julius e Ethel si percorre il cammino del loro progressivo sbigottimento per il montare di un giustizialismo alimentato da un mondo politico sconvolto dalla scoperta che la “Bomba”, creata dagli scienziati del Progetto Manhattan e considerata un’esclusiva degli americani, era finita, appena quattro anni dopo Hiroshima, nell’arsenale di Stalin. «Il nostro avvocato — scrive Julius che, insieme al cognato, aveva passato ai sovietici informazioni giudicate “quasi irrilevanti” dallo stesso responsabile del Progetto Manhattan— ci tranquillizza e ci assicura che non esistono elementi per una condanna a morte». «La civiltà non è ancora progredita al punto di non dover perdere la vita per salvare vite» scriveva la madre ai figli.
Sia Julius che Ethel erano stati iscritti al partito comunista americano, il Workers’ Party, e questa era già colpa sufficiente nel mondo in bianco e nero del tempo. Julius non passò mai nulla di importante agli uomini di Stalin, certamente nulla che potesse avvicinare i dettagli che la vera superspia sovietica, Klaus Fuchs, destinato a morire di vecchiaia, aveva fatto filtrare da Los Alamos. Ethel fu spedita sulla sedia elettrica perché il fratello testimoniò di averla vista battere a macchina sotto dettatura del marito le informazioni segrete.
Sono stati i figli dei Rosenberg, Mike e Robbie nel lessico famigliare, a mettere a disposizione della Boston University tre dozzine di lettere. I loro genitori sarebbero stati graziati se avessero «confessato» e fatto i nomi di altri. Non lo fecero mai.

Comunisti, condannati a morte innocenti. La condanna fu eseguita a New York, nel 1953...
Repubblica 19.10.14
I Rosenberg. Lettere dalla sedia elettrica
di Ethel e Julius Rosenberg


Col tempo dovrete arrivare a convincervi che la vita è degna di esser vissuta. Vi conforti il fatto che anche adesso che la fine della nostra si avvicina lentamente, noi ne abbiamo una certezza tale da sconfiggere il boia! La vostra vita deve insegnarvi inoltre che il bene non può fiorire in mezzo al male; che la libertà e tutte le cose che rendono la vita degna e soddisfacente devono talvolta esser pagate care. Vi conforti che noi siamo sereni e abbiamo capito con estrema chiarezza che la civiltà non è ancora progredita al punto che non si debba perdere la vita nel nome della vita e che ci aiuta la consapevolezza che altri continueranno dopo di noi.
Vorremmo poter avere la gioia e la soddisfazione di vivere la nostra vita con voi. Vostro padre che è con me in queste ultime ore cruciali manda ai suoi adorati ragazzi il suo cuore con tutto l’amore che ha dentro. Ricordate sempre che siamo innocenti e non potevamo far torto alla nostra coscienza. Vi teniamo stretti e vi baciamo con tutte le nostre forze
Con affetto Papà e Mamma — 19 giugno 1953

Miei carissimi, dolcissimi figli, Ho pensato così tante volte di scrivervi ma veniva fuori sempre qualcos’altro e esigeva precedenza dalle mie energie. Ovviamente ho inviato messaggi a tutti e due voi tramite i corvi e i pettirossi, ogni volta che le loro maestà mi omaggiano delle rare visite nel cortile e la scorsa settimana, quando uno splendido merlo dalle ali rosse è piombato giù inaspettatamente a prendere il pane che avevo sparso per i passeri, sono rimasta a fissarlo senza parole, con un braccio attorno a ciascuno dei miei figli, gli occhi bramosi pieni della sua sgargiante bellezza, stringendo a me il vostro amoroso tepore. Per un attimo eravamo lì tutti e tre, col fiato sospeso, poi il merlo ha preso elegantemente il volo e si è librato nel cielo in una fuga di colori brillanti. Era andato, e voi con lui!
Tanti abbracci, tanti baci e tutto il mio amore a voi due Mamma — 18 maggio 1953
Carissimo Michael, come ho sempre fatto, anche quest’anno, nella specialissima ricorrenza del tuo decimo compleanno, il dieci marzo, mi unisco ai festeggiamenti, ti invio il mio bene più sincero, l’abbraccio più affettuoso e ti bacio con tutto il cuore. Ogni volta che compi gli anni, figlio mio, cresci sotto molti aspetti. Cresce il tuo sapere, cresce la tua intelligenza, sei in grado di perseguire obiettivi nuovi e superiori delle cose più belle che la vita ci regala, di apprezzare il mondo in cui viviamo e il ruolo che vi giochiamo. Anche per me, tuo padre, questo giorno è importante. Sono fiero dei tuoi successi e mi stanno a cuore costantemente la tua felicità e il tuo benessere. Soprattutto, Mike, io ti accetto sempre per come sei, che tu mangi o no le uova, con tutti i tuoi capricci e piagnistei, le tue gioie, i tuoi dolori, le tue speranze. Da adulti la vera cosa bella è avere determinazione nella vita, impegnarsi per migliorare il mondo in cui viviamo. Credo che questo sia il modo per migliorarci come persone scoprendo quanto davvero valiamo.
Anche se le circostanze impediscono un più stretto contatto tra noi sono molto felice che tu te la cavi bene nel fare le cose normali che fanno tutti i bambini della tua età; studiare, giocare, imparare la musica, fare a botte, (prendere in giro), lagnarsi ecc. Davvero figlio mio sei bravo e quindi oltre ad augurarti buon compleanno mi congratulo con te per il tuo comportamento.
Sai che è molto importante che non chiudiamo gli occhi di fronte alla realtà. Siamo consapevoli delle difficoltà che affrontiamo e del profondo significato di ciò che avviene attorno a noi in particolare nella misura in cui si riflette nella questione che ha toccato le nostre vite e riveste tanta importanza per l’umanità. Quindi dobbiamo attenerci saldamente alla verità, al fatto che siamo innocenti e abbiamo il coraggio delle nostre convinzioni. Ogni giorno sempre più persone in tutto il mondo vengono in nostro sostegno, capiscono la vera natura del nostro caso e siamo fiduciosi che contribuiranno a farci tornare in libertà.
Il vostro papà — 8 marzo 1953

Qualche giorno fa ho ricevuto una lettera. Aprendola sono rimasto sorpreso che l’avessi scritta tu. Ero orgoglioso e felice di ricevere tue notizie di tuo pugno. La tua calligrafia è buona e le frasi sono ben comprensibili. Tesoro stai crescendo e imparando e io ne sono tanto felice. Quanto alla scuola pubblica, non avevo dubbi che avresti recuperato in fretta, ma non avevo idea che il mio caro ragazzo fosse in grado di fare progressi così rapidi. Perché in un paio di settimane sei in terza e già in pari con gli altri. Tua zia Lena mi ha detto che la tua maestra pensava addirittura che tu potessi farcela bene anche in quarta. Il fatto che tu sia in classe assieme ai tuoi amici dell’istituto è una bella cosa e, dato che dici che ti sembra che la scuola duri solo due minuti, capisco che ti piace. A quanto sento da te, da nonna Sophie e dalla zia Lena sulle tue abitudini alimentari sono certo che hai scoperto il segreto di provare cose nuove per capire cosa ti piace davvero. Non è bello sapere che in questo modo non ti perdi il gusto di mangiare cibi nuovi e buoni? Soltanto un mese fa eri preoccupato per la scuola, per il mangiare, per il dormire nella casa nuova e tutto è andato proprio come ti avevamo detto che sarebbe andato. Te la cavi benissimo, ti sei fatto nuovi amici e all’istituto tutti ti vogliono bene. Che bello sentire che tu e tuo fratello avete passato una splendida giornata a casa di zia Ethel domenica scorsa. La tua meravigliosa mamma ed io stiamo organizzando altre visite domenicali interessanti per voi ragazzi. Ora che sei tornato a scuola e sai leggere meglio immagino che tu passi molto tempo in cerca di nuove avventure nei libri.
Quanto a me, ho letto moltissimo ed è una gran soddisfazione. Chanukah con le candele, i giochi, i party e i canti è arrivata e passata. So che ti sei divertito e ricordo la magnifica festa dell’anno scorso, trascorsa ad accendere le candele, cantare inni e scambiarci regali. Dato che non posso stare con voi e passare del tempo assieme mi viene a mancare qualcosa di molto caro e ho tanta nostalgia di voi. Ma siccome so che tutti noi cerchiamo di vivere al meglio questo stato di cose e che si tratta di una situazione temporanea, il morale e le speranze sono alti. Figli miei.Vi penso sempre. Abbracci e baci Con tutto il mio affetto Il vostro papà Julius — 11 dicembre 1950
(Traduzione di Emilia Benghi)

Repubblica 19.10.14
Che ironia Reale, filosofo e gentiluomo
di Piergiorgio Odifreddi


HO INCONTRATO Giovanni Reale una sola volta, che vale la pena ricordare. Devo premettere che il suo tipo di filosofia non poteva incontrare i miei gusti da matematico, più inclini ad apprezzare gli analitici che non gli improbabili tentativi di leggere fra le righe di Platone le “dottrine non scritte” alluse nella famosa Settima Lettera.
Fu così che mi divertii un paio di volte a stuzzicarlo in pubblico. Nell’introduzione al Matematico impertinente mi lasciai andare a identificare il nostro periodo storico come
“l’era della RCS: sigla che indica non il gruppo editoriale, bensì la Santissima Trinità della filosofia del Bel Paese, incarnata nelle persone di Reale, Cacciari e Severino”. E ad affermare di “sentire l’impertinenza nei confronti loro e dei loro discepoli come un imperativo logico e scientifico”. Qualche anno dopo lo incontrai per caso alla Milanesiana. Benché non ci conoscessimo mi venne incontro sorridente, mi strinse la mano e mi disse: “Sono la R della RCS”, con una battuta che sciolse all’istante i miei pregiudizi. Non ci siamo più incontrati, ma da allora ho cominciato a ricevere, senza averli chiesti, i tomi di filosofia della serie da lui curata per la vera RCS. La sua morte fissa ora a 2 a 0 per lui il nostro punteggio, in maniera irrimediabile: a volte una parola o un gesto gentili arrivano più lontano di una impertinenza.

Il Sole Domenica 19.10.14
Giovanni Reale (1931-2014)
di Maria Bettetini


(...) Aveva, certo, le sue preferenze, in linea con l'idea che guidò tutto il suo operare, dagli anni di studio a Marburgo fino alle ultime lezioni al San Raffaele, l'idea che la trascendenza sia già tutta nella filosofia greca, da Platone in poi, dalla famosa “seconda navigazione” descritta nel dialogo Fedone, che invita a lasciare i remi e a farsi portare dal vento issando le vele, passando dalla fatica del mondo immanente alla leggerezza del trascendente. Da qui la sua attenzione ai Neoplatonici, fino ad allora ben poco noti e tradotti, a Agostino che fu ritenuto autore di una “terza navigazione”, quella della fede e dell'amore. Convinto di questa impronta, certo non apprezzata da pensatori meno amanti della trascendenza, Giovanni Reale discusse molto giovane le teorie di Werner Jaeger sulla composizione progressiva della Metafisica aristotelica, rivendicandone l'unità di idee e di composizione. Ma non disprezzò, il professor Reale, i suoi obiettori di prima e di dopo, tanto che fece pubblicare le opere di Zeller, Jaeger, della grande storiografia tedesca, e in italiano sta per esser pronta un'edizione delle opere di Togliatti, per fare un nome ben lontano dalla sua sensibilità (...).

Corriere La Lettura 19.10.14
Tutte le (false) leggende sulle Amazzoni
Ma i pantaloni erano veri
di Anna Meldolesi


Si fa presto a dire Amazzoni, in realtà ne esistono di almeno tre tipi. Quelle dei miti greci, con cui si sono scontrati i grandi eroi come Teseo ed Eracle. Poi ci sono quelle delle saghe asiatiche, dalla Persia alla Cina. Anche loro si battevano con valore, lasciando i nemici maschi in una pozza di sangue. Le Amazzoni del terzo tipo sono le donne guerriere delle steppe, che non appartengono al regno dell’immaginazione ma alla storia. L’archeologia ne ha dimostrato l’esistenza e per chi le vuole conoscere The Amazons di Adrienne Mayor è una lettura obbligata. Sono queste cavallerizze del I millennio a. C., armate di arco e spada, ad aver ispirato i personaggi e le gesta narrate da mitografi e storici antichi. E in definitiva sono sempre loro l’archetipo su cui si è modellata la cultura delle donne guerriere di film e fumetti. Dall’eroina protofemminista Wonder Woman alla marziale Uma Thurman di Kill Bill . Le Amazzoni del quarto tipo, insomma.
Le Amazzoni vere conducevano una vita nomade in un’ampia regione intorno al Mar Nero, popolata da molte tribù e chiamata Scizia. Le sepolture di guerriere qui si contano a centinaia, una donna scita ogni 3 o 4 risulta inumata con le proprie armi, spesso anche con il proprio cavallo. Le bambine venivano addestrate alla caccia e alla guerra come i loro fratelli, da grandi potevano decidere se sposarsi o continuare a combattere.
Una tomba tipica è quella del IV secolo a. C. scoperta a Tira. Due lance conficcate nel terreno all’entrata, due all’interno di fianco allo scheletro. Sul cranio la lesione lasciata da un colpo d’ascia, nel ginocchio la punta di una freccia. Il corredo funebre comprendeva gioielli e uno specchio, ma anche una faretra con venti frecce. Si pensa che ne venissero scagliate fino a 15-20 al minuto e coprissero una distanza di 150-180 metri. La tecnica prevedeva che il cavallo corresse in avanti mentre la guerriera era rivolta all’indietro. Proprio frecce e cavalli consentivano alle donne di essere altrettanto veloci e letali dei soldati dell’altro sesso. Le Amazzoni storiche vivevano una condizione di parità inimmaginabile nella Grecia antica ma non odiavano gli uomini, non avevano scelto di vivere senza di loro, non costituivano una ginecocrazia. Non erano vergini né mantidi religiose, non schiavizzavano né mutilavano i maschi come ci siamo abituati a credere. Non è vero neppure che si privassero di un seno per tirare meglio con l’arco.
Dal punto di vista della medicina e della tecnica sportiva non ha alcun senso, eppure questa credenza diffusa dagli storici antichi — con l’eccezione di Erodoto — resiste da 25 secoli. Deve aver fatto presa perché allude a qualche stranezza di tipo sessuale, è pulp, sembra dire che la femminilità è il prezzo da pagare per l’indipendenza. Agli Sciti maschi, però, se ci pensate, è andata anche peggio: cancellati dai miti con l’invenzione delle tribù unisex o raccontati come disabili e succubi. L’ipotesi che degli uomini sani accettassero di condividere con le donne il potere doveva sembrare inverosimile.
La parola Amazzone ha un’etimologia dibattuta ma non significa «senza seno» come la vulgata vorrebbe. Omero ha usato l’espressione Amazones antianeirai . Un sostantivo senza desinenza femminile, a indicare un popolo composto da ambedue i sessi, accompagnato da un epiteto femminile a rimarcare l’eccezionalità delle sue donne ( antianeirai non vuol dire «contro gli uomini» ma «uguali agli uomini»).
È curioso che i Greci le raccontassero con un seno solo ma le dipingessero con entrambi, per non rinunciare alla bellezza di un corpo simmetrico. Comunque su vasi e fregi le raffiguravano più coperte degli eroi maschi, a cui la tradizione imponeva una nudità atletica.
Di solito le Amazzoni fantasy dei tempi nostri, come Xena, esibiscono le forme strizzandole in corazze sagomate come corsetti. Quelle vere no. Si vestivano in modo colorato, con berretti a punta, tuniche a maniche lunghe (magari rinforzate con tante piccole placche metalliche) e un indumento inammissibile in Grecia: i pantaloni. Sulla pelle usavano tatuarsi animali veri e immaginari, bevevano latte di giumenta fermentato e si inebriavano con la cannabis, praticavano una religione animista e totemica. Esploratori e mercanti devono aver raccontato i loro costumi ai Greci, che ai fraintendimenti hanno aggiunto l’immaginazione. Il loro successo nell’arte e nella letteratura antica è dovuto a una miscela di sex appeal e brivido, come per gli odierni vampiri, ha scritto la storica Amanda Foreman sullo «Smithsonian Magazine». Ma c’è più di questo. Una scuola di pensiero sostiene che le Amazzoni facessero parte di un rituale di iniziazione per i ragazzi, mentre alle ragazze fornivano un modello negativo, da non seguire. Forse, ragiona Mayor, la loro ubiquità indica altro. L’idea della libertà delle donne era inconcepibile nella società ellenica, ma aveva già il suo fascino e una sua plausibilità se relegata in terre lontane.

Il Sole Domenica 19.10.14
Stati generali a Firenze il 21 e 22 ottobre
Italiano, seconda lingua nel mondo
di Mario Giro


Si terranno il 21 e 22 ottobre a Firenze, a Palazzo Vecchio e presso il Teatro della Pergola, gli Stati Generali della Lingua Italiana nel Mondo: l'iniziativa voluta dal Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale in collaborazione con Miur e Mibact

La fragilità delle frontiere impone nuovi criteri d'appartenenza e fa della lingua una nuova geografia. Le lingue possono separare i popoli, se considerate espressioni d'identità contrapposte, aggressive o chiuse. Diventano strumenti di disprezzo e rifiuto dell'altro. Però possono unire, essere ponte, in quanto elementi di conoscenza utili nel dialogo. Possono essere una scommessa per la pace.
Questa è la prospettiva, che ispira l'azione dell'Italia: la promozione della nostra lingua non è mai stata politica di potenza né creazione di uno spazio di ingerenza politica. L'italiano è la lingua della scelta, del cuore, o "lingua sposa", come direbbe Amine Maalouf. Nel passato la nostra lingua è stata un modo di restare uniti per i tanti italiani nel mondo. Oggi può divenire un contributo a costruire un ponte di dialogo radicato nell'umanesimo italiano.
Lo strumento di una lingua comune non produce di per se stesso la comunicazione. Anche se parlassimo tutti inglese, cosa certamente utile, non avremmo fatto un passo verso l'unità. Non dobbiamo fare una battaglia di retroguardia contro il world english, ma puntare a un'alleanza con le lingue maggiori perché l'italiano divenga ovunque lingua seconda.
Nel mercato delle lingue il nostro problema, come italofoni, è quello di pensare a una lingua debole a rischio d'estinzione. L'italiano è invece la quarta lingua studiata al mondo, l'ottava più usata su Facebook, con un bacino potenziale d'interessati di 250 milioni di persone. Molti sono gli italofoni influenti nei Paesi, da Papa Bergoglio a Victor Ponta, e la diaspora italiana, con 80-100 milioni di italo discendenti, è la più estesa dopo quella cinese, rappresentando un gruppo economico influente in molti Paesi.
L'Italia ha un capitale di reputazione legato alla lingua non intaccato dalla crisi. Solo la rete di promozione culturale e linguistica dell'Italia è presente in più di 250 città al mondo. Gli istituti italiani di cultura guadagnano 3,5 milioni netti di euro l'anno grazie all'insegnamento dell'italiano. Solo gli studenti statunitensi in Italia spendono 700 milioni di euro nel nostro Paese. Questo potenziale economico e d'influenza resta sottoutilizzato anche a causa della scarsa consapevolezza dell'opinione pubblica. Dobbiamo rendere consapevoli gli italiani della ricchezza della loro lingua. Per questo il ministero degli Esteri ha promosso gli Stati Generali della lingua italiana nel mondo a Firenze per il 21-22 ottobre, al fine di radunare gli italofoni e chi lavora nella promozione della lingua italiana nel mondo ma soprattutto per dare consapevolezza al Paese. Il Governo ritiene che questa occasione possa generare uno slancio di iniziative e idee che diano energia a tutto il sistema della promozione linguistica. Il sottotitolo dell'evento è "l'Italiano nel mondo che cambia": la nostra lingua non è una reliquia ma, come dice l'Accademia della Crusca, "… è la nostra storia, il nostro futuro".
Molti contributi sono arrivati da tutti i soggetti coinvolti nell'azione di promozione della nostra lingua e cultura all'estero. C'è una grande vivacità che dimostra quanto il tema delle potenzialità dell'italiano sia sentito nel nostro Paese e presso le comunità di italiani e italofoni in tutto il mondo. Tutto questo movimento d'idee sarà raccolto nel Libro bianco della lingua italiana nel mondo, un manifesto che traccerà gli assi per una nuova politica linguistica dell'italiano all'estero che sarà articolato in cinque sezioni: i nuovi strumenti della comunicazione linguistica, le strategie di promozione linguistica per le diverse aree geografiche, il ruolo delle Università e delle cattedre di italianistica; il ruolo degli italofoni e delle comunità italiane all'estero, la gestione e gli strumenti della promozione della lingua italiana.

Il Sole Domenica 19.10.14
Josè de Acosta
Gettò le basi dell'antropologia
Protagonista della «disputa del Nuovo Mondo», il padre gesuita unì l'intento missionario con quello conoscitivo e delineò la prima mappa del genere umano
di Guido Abbattista


La «scoperta» dell'America evocò nuove dimensioni del tempo, della natura, della vita umana. Gli "incontri atlantici" portarono alla scoperta dell'uomo selvaggio o "naturale" e di forme sconosciute di organizzazione sociale, come quelle dei Tainos, dei Caribe, degli Aztechi e degli Incas. Di fronte a popolazioni con modi di vita e culture fino ad allora completamente ignoti ci si interrogò fuori dagli schemi creazionisti e monogenisti sulle origini e le migrazioni dei popoli, i tempi della storia, le varietà, o "razze" del genere umano. Iniziò così un progetto tripartito, uno dei più grandiosi della storia dell'uomo occidentale: materiale, per la conquista e la colonizzazione, intellettuale, per l'appropriazione cognitiva, religioso, per l'evangelizzazione. Dominare i popoli, impadronirsi delle loro ricchezze, ma anche delle loro anime: questa la sostanza del processo che allora spinse la storia verso la mondializzazione, coinvolgendo non solo le Americhe, ma anche l'Oriente, sia pure in forme e profondità di effetti molto diversi.
Secondo lo storico scozzese William Robertson, nel giro di pochi decenni, tra fine '400 e primo '500, accadde che «la grande mappa del genere umano si disvelò d'un colpo di fronte ai nostri occhi; non ci fu alcuna gradazione di barbarie, alcuno stadio di incivilimento che non si trovasse nel medesimo istante sotto il nostro sguardo». All'ampiezza e all'intensità dell'incontro con il "diverso" non poterono che corrispondere quelle controverse interpretazioni che Antonello Gerbi definì «la disputa del Nuovo Mondo». Si capì inoltre che la cultura europea aveva – e tuttora ha – la capacità di interrogarsi sul significato, sulla legittimità, sulle ragioni profonde del proprio agire, e di mettere in discussione i più radicati convincimenti religiosi e filosofici. Accanto alla conquista delle Americhe si sviluppò la discussione sui suoi fondamenti giuridici; accanto alla sottomissione e allo sterminio degli indios si svolse una disputa sulla loro sorte fisica e morale; della riduzione in schiavitù dei neri d'Africa si cercò la legittimazione fino all'epoca dei diritti dell'uomo e dell'abolizionismo; accanto alla colonizzazione materiale e culturale e all'inserimento del Nuovo Mondo nei circuiti di un commercio proto-globale ci si interrogò sulle diversità di modi con cui gli esseri umani convivono, si procurano la sussistenza, si riproducono, esprimono la propria sensibilità religiosa: si aprì quella stagione culturale che con Montaigne iniziò a relativizzare le forme culturali, il concetto di "barbarie", i riti e i costumi dei "cannibali", sfociando, alla fine del secolo XVII, nella «crisi della coscienza europea». Nacquero l'economia e la scienza moderne e, insieme, nacque una scienza dell'uomo tendenzialmente desacralizzata anche se non certo de-ideologizzata: l'antropologia. E la tradizione fu scossa dal metodo scientifico e dalla comparazione.
Tra i frutti dell'indagine europea sui nuovi mondi spiccano scritti come De natura orbis novi (col sottotitolo «et de promulgatione Evangelii apud barbaros sive de procuranda indorum salute») e Historia natural y moral de las Indias del gesuita spagnolo José de Acosta (1539-1600). Apparsi nel 1588 e nel 1590 e subito assurti a fama europea, essi rappresentano il prodotto intellettuale più alto di quel primo secolo di "invasione" delle terre americane e "distruzione" dei loro abitanti, ma anche di appassionata riflessione sui popoli americani e sui duri fatti del colonialismo. Acosta studiò gli indios avendo a cuore soprattutto i metodi di evangelizzazione. Ma suo merito maggiore fu di aver oltrepassato gli orizzonti missionari. Né la sua fu una semplice descrizione di "cosas nuevas y estranas", di aspetti geografici e ambientali, di usi e costumi, organizzazione sociale e politica delle popolazioni indie. Acosta scoprì e formalizzò il profilo di quelle società in termini sconosciuti ad Aristotele, a seconda della loro condizione nomadica o stanziale e della presenza o meno di conoscenze, scrittura, leggi e regole politiche. A lui si deve l'analisi sistematica, mediante lo studio integrato dei fenomeni culturali, di società ordinate ma senza Stato e di popoli né selvaggi né barbari né pienamente inciviliti. E al gesuita si devono i primi stimoli a non appiattire sulla mera superstizione idolatra comportamenti certo demoniaci, ma cui sottostava autenticità di sentimento religioso: un'intuizione che dischiuse la strada "storia naturale" delle religioni e al disancoramento, che l'Illuminismo avrebbe portato a effetto, della religiosità dalle Rivelazioni, riconducendola entro il dominio di quella scienza dell'uomo che presto avrebbe preso anche il nome di "antropologia".

Il Sole Domenica 19.10.14
Raccontare la fisica
Alle frontiere dell'ignoto
«Sette brevi lezioni di fisica», un viaggio appassionante in ciò che conosciamo: con uno sguardo aperto all'immenso oceano di ciò che non sappiamo
di Carlo Rovelli


Quando parliamo del Big Bang o della struttura dello spazio, quello che stiamo facendo non è la continuazione dei racconti liberi e fantastici che gli uomini si sono narrati attorno al fuoco nelle sere di centinaia di millenni. È la continuazione di qualcos'altro: dello sguardo di quegli stessi uomini, alle prime luci dell'alba, che cerca fra la polvere della savana le tracce di un'antilope – scrutare i dettagli della realtà per dedurne quello che non vediamo direttamente, ma di cui possiamo seguire le tracce.
Nella consapevolezza che possiamo sempre sbagliarci, e quindi pronti ogni istante a cambiare idea se appare una nuova traccia, ma sapendo anche che se siamo bravi capiremo giusto, e troveremo. Questo è la scienza.
La confusione fra queste due diverse attività umane, inventare racconti e seguire tracce per trovare qualcosa, è l'origine dell'incomprensione e della diffidenza per la scienza di una parte della cultura contemporanea. La separazione è sottile: l'antilope cacciata all'alba non è lontana dal dio antilope dei racconti della sera. Il confine è labile. I miti si nutrono di scienza e la scienza si nutre di miti. Ma il valore conoscitivo del sapere resta. Se troviamo l'antilope possiamo mangiare. Il nostro sapere riflette il mondo. Lo fa più o meno bene, ma rispecchia il mondo che abitiamo.
L'immagine scientifica del mondo non è in contraddizione con il nostro sentire noi stessi. Non è in contraddizione con il nostro pensare in termini morali, psicologici, con le nostre emozioni e il nostro sentire. Il mondo è complesso, noi lo catturiamo con linguaggi diversi, appropriati per i diversi processi che lo compongono. Ogni processo complesso può essere affrontato e compreso con linguaggi diversi a livelli diversi. I diversi linguaggi si intersecano, si intrecciano e si arricchiscono l'un l'altro, come i processi stessi. Lo studio della nostra psicologia si raffina comprendendo la biochimica del nostro cervello. Lo studio della fisica teorica si nutre della passione e delle emozioni che portano la nostra vita. I nostri valori morali, le nostre emozioni, i nostri amori, non sono meno veri per il fatto di essere parte della natura, di essere condivisi con il mondo animale o per essere cresciuti ed essere stati determinati dai milioni di anni dell'evoluzione della nostra specie. Anzi, sono più veri per questo: sono reali. Sono la complessa realtà di cui siamo fatti. La nostra realtà è il pianto e il riso, la gratitudine e l'altruismo, la fedeltà e i tradimenti, il passato che ci perseguita e la serenità. La nostra realtà è costituita dalle nostre società, dall'emozione della musica, dalle ricche reti intrecciate del nostro comune sapere, che abbiamo costruito insieme. Tutto questo è parte di quella stessa natura che descriviamo. Della natura siamo parte integrante, siamo natura, in una delle sue innumerevoli e svariatissime espressioni.
Questo ci insegna la nostra conoscenza crescente delle cose del mondo. Quanto è specificamente umano non rappresenta la nostra separazione dalla natura, è la nostra natura. È una forma che la natura ha preso qui sul nostro pianeta, nel gioco infinito delle sue combinazioni, dell'influenzarsi e scambiarsi correlazioni e informazione fra le sue parti. Chissà quante e quali altre straordinarie complessità, in forme forse addirittura impossibili a immaginare per noi, esistono negli sterminati spazi del cosmo... C'è così tanto spazio lassù, è puerile pensare che in quest'angolo periferico di una galassia delle più banali ci sia qualcosa di speciale. La vita sulla Terra non è che un assaggio di cosa può succedere nell'universo. La nostra anima non ne è che un altro.
Noi siamo una specie curiosa, l'unica rimasta di un gruppo di specie (il «genere Homo») formato da almeno una dozzina di specie curiose. Le altre specie del gruppo si sono già estinte; alcune, come i Neanderthal, poco fa: neppure trentamila anni or sono. È un gruppo di specie evolutesi in Africa, affine agli scimpanzé gerarchici e litigiosi, ma ancor più ai bonobo, i piccoli scimpanzé pacifici, allegramente promiscui ed egualitari. Un gruppo di specie ripetutamente uscito dall'Africa per esplorare mondi nuovi e arrivato lontano, fino in Patagonia, fino sulla Luna. Non siamo curiosi contro natura: siamo curiosi per natura.
Nasciamo e moriamo come nascono e muoiono le stelle, sia individualmente che collettivamente. Questa è la nostra realtà. Per noi, proprio per la sua natura effimera, la vita è preziosa. Perché, come scrive Lucrezio, «Il nostro appetito di vita è vorace, la nostra sete di vita insaziabile». Ma immersi in questa natura che ci ha fatto e che ci porta, non siamo esseri senza casa, sospesi fra due mondi, parti solo in parte della natura, con la nostalgia di qualcosa d'altro. No: siamo a casa.
La natura è la nostra casa e nella natura siamo a casa. Questo mondo strano, variopinto e stupefacente che esploriamo, dove lo spazio si sgrana, il tempo non esiste e le cose possono non essere in alcun luogo, non è qualcosa che ci allontana da noi: è solo ciò che la nostra naturale curiosità ci mostra della nostra casa. Della trama di cui siamo fatti noi stessi. Noi siamo fatti della stessa polvere di stelle di cui sono fatte le cose e sia quando siamo immersi nel dolore sia quando ridiamo e risplende la gioia non facciamo che essere quello che non possiamo che essere: una parte del nostro mondo. Lucrezio, lo dice con parole meravigliose: «... siamo tutti nati dal seme celeste; tutti abbiamo lo stesso padre, /da cui la terra, la madre che ci alimenta, riceve limpide gocce di pioggia, / e quindi produce il luminoso frumento, e gli alberi rigogliosi, / e la razza umana, e le stirpi delle fiere,/ offrendo i cibi con cui tutti nutrono i corpi, per condurre una vita dolce / e generare la prole...». Per natura amiamo e siamo onesti. E per natura vogliamo sapere di più. E continuiamo ad imparare. La nostra conoscenza del mondo continua a crescere.
Ci sono frontiere, dove stiamo imparando, e brucia il nostro desiderio di sapere. Sono nelle profondità più minute del tessuto dello spazio, nelle origini del cosmo, nella natura del tempo, nel fato dei buchi neri, e nel funzionamento del nostro stesso pensiero.
Qui, sul bordo di quello che sappiamo, a contatto con l'oceano di quanto non sappiamo, brillano il mistero del mondo, la bellezza del mondo, e ci lasciano senza fiato.

«L’Associazione nazionale ex deportati politici valorizza in campo nazionale e internazionale il grande contributo dei deportati italiani alla causa della Resistenza e affermare gli ideali perenni di libertà, di giustizia e di pace  (...) considera suo dovere far conoscere la storia della deportazione soprattutto ai giovani, ai quali è affidata la difesa della libertà e della democrazia».
«Furono circa 40.000 deportati dall’Italia nei campi nazisti per motivi politici, solo 4.000 sono tornati. 12.000 di questi erano operai accusati di aver organizzato il boicottaggio della produzione bellica, di aver collaborato con le Resistenza e d’aver organizzato e partecipato agli scioperi del marzo ’44 nelle grandi fabbriche del Nord. Questi dati sono abitualmente sconosciuti».
«Gli ebrei deportati dall’Italia furono in tutto neno di 8.000».
Sole Domenica 19.10.14
I deportati dell’Aned nei campi di sterminio nazisti
La memoria preservata
di Massimo Bucciantini


A metà del libro c'è un paragone che non ti aspetti, che rompe con la ricostruzione rigorosamente cronologica che l'autore ha voluto dare. E forse è per questo che resta impresso, a tal punto che ti sarebbe piaciuto che questo lavoro avesse preso inizio proprio da lì. Da quel funerale. Dal funerale di uno dei maggiori scrittori e poeti americani morto come un cane, in completa solitudine. «Due anni prima, nella totale indigenza, non aveva avuto neanche un lenzuolo per avvolgere in un sudario il corpo senza vita dell'amata moglie Virginia. Il funerale non fu accompagnato da più di dieci persone e la tomba, nel cimitero Old Western Burying Ground di Baltimora, fu un blocco di arenaria senza nome». L'8 ottobre 1849 era una giornata fredda e umida e la cerimonia non durò che qualche minuto. Tre minuti esatti dicono i suoi biografi. Non uno di più. Quell'uomo si chiamava Edgar Allan Poe, e ci vollero ventisei anni prima che l'autore dello Scarabeo d'oro e delle Avventure di Gordon Pym ottenesse onorata sepoltura, degna del suo nome.
La vicenda è raccontata nel capitolo che s'intitola Politiche della memoria e può essere esemplare per il tema affrontato – il bisogno primario di non dimenticare e le strategie di comunicazione necessarie perché questo bisogno resti vivo e si diffonda. Anche se qui non si tratta della memoria di una singola vita ma di un fatto collettivo, della sua storia e del sistema di valori a essa connessi. Questo libro è la storia di un'associazione. Il suo acronimo è Aned e sta per Associazione nazionale ex deportati politici. Ed è la storia di una battaglia condotta dalle donne e dagli uomini che la costituirono. Di una battaglia per la memoria durata decenni e che ha inizio nell'agosto del 1945, all'indomani del ritorno in Italia dei primi sopravvissuti dai campi di concentramento e di sterminio nazisti. Ovvero delle circa 13mila persone – su un totale di oltre 23mila deportati – che tra l'agosto del 1945 e il marzo dell'anno seguente riuscirono a fare ritorno nelle proprie case, e di cui facevano parte all'incirca 800 ebrei dei quasi 7mila finiti nei Lager del Terzo Reich. È la prima parte la più bella del libro. E forse non poteva essere diversamente: perché sono i momenti della precarietà, in questo caso delle difficoltà del reinserimento in una vita "normale", quelli più coinvolgenti e più densi di interrogativi. E Maida lo fa attingendo a documenti di archivio e fonti inedite, con la sensibilità e quel giusto distacco che sono qualità ambedue necessarie a chi fa il mestiere dello storico.
Il sollievo e la felicità durarono poco. «I reduci dovettero confrontarsi immediatamente con una società che non era in grado o non era pronta per ascoltare». Tra le testimonianze, una in particolare colpisce per la scelta oculata delle parole e per la lucidità con cui viene messo a nudo il problema. Ed è quella di don Andrea Gaggero, deportato a Mauthausen: «Lo shock subìto era dovuto allo scontro tra l'incandescenza creata dalla deportazione e il mondo reale», quel mondo reale che si credeva più accogliente, più benevolente, ora che si era riacquistata la libertà. Ma questo scontro così violento non dette luogo a manifestazioni esteriori. Il silenzio fu il tratto dominante di quel ritorno: il silenzio di solitudine degli ebrei sopravvissuti, ma anche degli internati militari che sembravano incarnare la disfatta dell'8 settembre. E poi, sopra tutto e tutti, c'era il silenzio pesante dei giornali, delle procedure burocratiche e delle istituzioni, «persino delle carte geografiche sulle quali non comparivano i nomi dei luoghi di internamento». «Lo Stato fu assente nelle strutture di assistenza, nelle leggi (in quelle da abrogare e in quelle da approvare), nel riconoscimento materiale e morale di quelle esperienze». Un'esclusione e una marginalizzazione che si manifestavano con l'assenza, ad esempio, di un'assistenza sanitaria specifica. Ma che si esprimevano in modo più sottile e forse in modo ancora più doloroso nella vita di tutti i giorni, nel linguaggio quotidiano, con l'assenza di alcune parole – «parole soffocate», le chiama Maida –, parole che mai o raramente venivano pronunciate o scritte. Come quella di "deportato", che negli anni del primo dopoguerra non era neppure prevista nei moduli da compilare per la richiesta di una pensione d'invalidità, sostituita dalla voce "reduce", di chiara derivazione militare, che inglobava tutti, cancellando così specificità, identità ed esperienze molto diverse. Si capisce dunque come la nascita di luoghi d'incontro, di piccole comunità, diventasse una sorta di camera di compensazione che consentì a molti di riappropriarsi della propria esistenza e di reinserirsi con minor fatica nel mondo reale. Inizia così la storia dell'Aned. Prima a Torino, poi a Milano, a Roma, Genova, Padova, Firenze, Vicenza, Udine, Treviso, Bolzano, Trento, Venezia. Nel 1948 si contavano 600-700 soci. «Erano gruppi aurorali, gruppi limitati di persone che si incontravano e cercavano di dare vita a una testimonianza fisica e a una presenza solidaristica e assistenziale, la cui mancanza avrebbe lasciato gli ex deportati in un completo isolamento». Anche se fin da subito l'obiettivo prioritario fu quello di "uscire" all'esterno e far conoscere a più persone possibile la loro esperienza vissuta, in modo che la deportazione ottenesse un riconoscimento pubblico e il sacrificio di tante vite si trasformasse in valore collettivo a fondamento della ritrovata democrazia. Così, tra il 1947 e il 1948, la sezione di Cuneo decideva di allestire una prima esposizione di cimeli del Lager. A Torino, riallacciandosi al valore simbolico rappresentato dal milite ignoto, si organizzò «il funerale del deportato ignoto». Nel 1955, a Fossoli, in ricordo del campo da dove migliaia di uomini e donne vennero rinchiusi per poi essere trasferiti nei Lager nazisti, si tenne la prima mostra nazionale sulla deportazione, che poi diventò itinerante, toccando ben quaranta città italiane. Nell'ottobre del 1973 a Carpi venne inaugurato, alla presenza delle più alte cariche dello Stato, il Museo Monumento al Deportato politico e razziale. L'attenzione verso la scuola fu uno dei tratti qualificanti della politica messa in atto dall'Associazione. A cominciare dall'esame dei libri di testo, con il compito di «denunciare all'opinione pubblica quelli che dicono il falso o ancora adesso subdolamente inneggiano al passato regime». Per poi proseguire, fin dalla metà degli anni Cinquanta (a Genova e in Piemonte), nel tentativo di "entrare" nella scuola e stabilire un primo contatto tra i sopravvissuti alla Shoah e gli studenti. Ottenendo, però, quasi sempre dei dinieghi da parte di presidi e provveditori, molti dei quali provenienti da un passato fascista o parafascista.
Il clima mutò a partire dalla metà degli anni Sessanta. La fortuna editoriale del Diario di Anne Frank e di Se questo è un uomo, l'eco mediatico che ebbe la cattura e il processo ad Adolf Eichmann, il successo di una canzone come Auschwitz (Canzone del bambino nel vento) scritta da Francesco Guccini nel 1964, furono i segnali più evidenti che qualcosa stava cambiando. L'interesse per queste tematiche cresceva e contribuì a far conoscere l'attività dell'associazione in gran parte del Paese.
E poi si arriva al presente. Ma anche questo presente, in certi casi, parte da lontano, come l'istituzione del Giorno della Memoria che forse molti non sanno fu una proposta sostenuta dall'Aned già dagli anni Sessanta.
Questo libro non è solo la storia di un'associazione. È anche uno spicchio di storia dell'Italia repubblicana. Ci racconta quanti sforzi sono necessari per provare a costruire la memoria pubblica in un Paese smemorato come il nostro. Quali percorsi seguire, quali strategie adottare, quali ostacoli superare. E oggi, con l'avanzare di nuovi fondamentalismi e dopo che i grandi affreschi di popolo sono stati tutti frantumati, è uno spicchio che non va dimenticato.

Bruno Maida, Il mestiere della memoria. Storia dell'Associazione nazionale ex deportati politici, 1945-2010, Ombre Corte, Verona, pagg. 256, € 23,00

http://www.deportati.it/

http://it.wikipedia.org/wiki/Associazione_nazionale_ex_deportati_politici_nei_campi_nazisti

http://www.cdec.it/home2.asp?idtesto=594&idtesto1=594&lemma=vittime%20della%20shoah%20in%20italia

Il Sole Domenica 19.10.14
Quelli della Volante rossa
Uccidere per la rivoluzione
di Raffaele Liucci


La vendetta, si sa, è un piatto da servire freddo. L'8 novembre 1990, l'ex partigiano comunista Giuseppe Bonfatti riconosce in un bar di Viadana (Mantova) uno dei fascisti che gli avevano bruciato la casa nel '44 e lo uccide a colpi di piccone: «È la cosa più bella che ho fatto al mondo e non sono pentito», dirà al processo: «Era un obbligo verso i miei parenti e anche verso il mio ideale» (pure il "deviazionista" Leon Trotsky era stato assassinato in Messico nel 40 con un colpo di piccone, sferrato da un sicario di Stalin).
Non tutti però pazienteranno così a lungo. Nell'agosto del '44, a Milano, il diciannovenne Giulio Paggio – futuro comandante nelle Brigate Garibaldi – giura vendetta davanti ai corpi dei quindici partigiani fucilati all'alba dai nazisti e poi esposti al sole cocente di Piazzale Loreto. Un anno più tardi, a guerra finita, Paggio, alias "tenente Alvaro", è il capo della Volante Rossa, costituita da una cinquantina di giovanissimi ex partigiani, gravitanti intorno alla Casa del Popolo di Lambrate. Il loro scopo è continuare la Resistenza dopo il 25 aprile, snidando i fascisti rimasti impuniti.
Raccontare questa storia – come fa lo scrittore e documentarista Francesco Trento, con uno stile incalzante e cinematografico, incrociando carte d'archivio e testimonianze orali – significa aprire uno squarcio sulla Milano del secondo dopoguerra, devastata dai bombardamenti, spolpata dalla disoccupazione galoppante e teatro di scorribande neofasciste. Il Partito Comunista fatica a frenare gli ardori della base, che sogna di «fare come in Russia».
Difficile quantificare il numero esatto degli omicidi effettivamente commessi dalla Volante, perché nei mesi successivi alla Liberazione agiscono altre bande irregolari. I cadaveri di molti fascisti scomparsi, apparentemente fuggiti in Sud America, in realtà finiscono nella "colata" della Breda o in fondo ai canali Martesana e Villoresi. Ma non tutte le azioni punitive si concludono in modo così cruento: talvolta i "rei" vengono sequestrati e poi, al termine di un processo sommario, rimessi in libertà, se giudicati "pesci piccoli". Un po' come accadrà con le prime Brigate Rosse, fondate nel 1970 da Renato Curcio proprio a Milano. Del resto, il mito della Volante Rossa era senz'altro scolpito nell'immaginario dei brigatisti.
Ma i raffronti storici sono spesso ingannevoli. Le Br nascono infatti in opposizione al Pci, "traditore della classe operaia". La Volante Rossa, invece, sorge per coadiuvare il Partito comunista, in attesa dell'insurrezione. Non sappiamo se Togliatti e gli altri dirigenti fossero davvero coscienti del ruolo omicida svolto da questa banda di apprendisti rivoluzionari. Comunque sia, dal '47 la Volante si trasforma in una specie di servizio d'ordine della Federazione milanese comunista. Dalle manifestazioni di piazza all'occupazione delle fabbriche, spiccano sempre, in prima linea, i suoi uomini, che sfoggiano sul giubbotto un triangolo rosso. Ormai, "quelli di Lambrate" non sono più soltanto un nucleo clandestino a caccia di fascisti, ma una formazione operante alla luce del sole, con una divisa, una bandiera e persino un inno ufficiale.
I sogni di gloria della Volante si spegneranno dopo il fallito attentato a Togliatti, il 14 luglio 1948, quando un autocarro di uomini armati, lanciato verso una caserma dei carabinieri, viene bloccato all'ultimo minuto da un'auto con a bordo un dirigente del Pci milanese. Ancora sotto shock per l'inattesa sconfitta elettorale del 18 aprile, il partito rinuncia ufficialmente alla "rivoluzione", togliendo così ogni illusione a chi ancora ne nutriva. Nel gennaio '49, dopo il duplice e rocambolesco "omicidio dei taxi" (una delle vittime è il presunto assassino del martire comunista Eugenio Curiel), il Pci scaricherà definitivamente i ragazzi "rossi", presto falcidiati dalla polizia, pur concedendo ai loro capi di rifugiarsi in Cecoslovacchia. Paggio, graziato nel '78 da Pertini, scomparirà a Praga nel 2008, ormai uno dei tanti "uomini ex", ritratti da Giuseppe Fiori nel suo omonimo romanzo. Quattro anni prima era mancato Theodor Saevecke, il capitano delle SS responsabile dell'eccidio di Piazzale Loreto: senza scontare un solo giorno di prigione e anzi gratificato di una brillante carriera nella polizia della Repubblica Federale Tedesca. Un altro nome ben radicato nel pantheon dei guerriglieri italiani negli anni di piombo fu quello di Pietro Secchia (1903-73), «l'uomo che sognava la lotta armata», secondo il fuorviante titolo del libro di Miriam Mafai (1984). In verità Secchia era stato sì un "rivoluzionario di professione", ma interamente calato nella tradizione stalinista del partito comunista e della terza internazionale. Le Br erano invece soprattutto figlie del '68, del terzomondismo, dei Tupamaros. Inoltre, la linea di Secchia – nel secondo dopoguerra vicesegretario del Pci e responsabile della sua organizzazione – non fu mai davvero alternativa a quella "legalitaria" di Togliatti. Così sostiene il giovane storico Marco Albeltaro, nella prima biografia scientifica a lui dedicata.
È una buona occasione per ripercorrere le vicissitudini di un personaggio che l'anticomunista Leo Valiani – nemico implacabile dei terroristi rossi – definirà il «faro vivente del disinteresse personale». Le umili origini, i dodici anni trascorsi come «prigioniero del fascismo», la Resistenza, l'approdo al vertice del partito, sino alla fragorosa caduta in disgrazia, nel '54: per colpa del suo più stretto collaboratore, Giulio Seniga, fuggito con un'enorme somma di denaro prelevata dalle casse del Pci (pari a circa 9 milioni di euro attuali). Un episodio mai del tutto chiarito, che tuttavia si presta a due postille storiche. Innanzitutto, la mancata denuncia del furto, trattandosi di finanziamenti sovietici illegali. In secondo luogo, i sospetti di omosessualità adombrati dai nemici interni di Secchia, riguardo al suo legame con Senise («vita privata anormale»). Segno di una radicata omofobia, oggi non più di moda, almeno a sinistra.

Francesco Trento, La guerra non era finita. I partigiani della Volante Rossa, Laterza, Roma-Bari, pagg. 200, € 18,00
Marco Albeltaro, Le rivoluzioni  non cadono dal cielo. Pietro Secchia, una vita di parte, Laterza, Roma-Bari,  pagg. 238, € 22,00

Il Sole Domenica 19.10.14
Roma - Mercati di Traiano
Augusto in via di risarcimento
di Cinzia Dal Maso


Finalmente qualcuno ci racconta la Roma di Augusto, nell'anno del bimillenario della sua morte. Finalmente con «Le chiavi di Roma. La città di Augusto», ai Mercati di Traiano fino al 10 maggio 2015, si è fatto quel che avevamo chiesto in molti un anno fa, in occasione della mostra celebrativa alle Scuderie del Quirinale: questa presentava le sculture ma non la città che ha effettivamente incarnato il senso della rivoluzione augustea. La città che Augusto prese di mattoni e restituì di marmo, e che trasformò in una vera capitale d'impero facendola risuonare a ogni crocicchio dell'ideologia del principato. Noi immaginavamo invero i turisti sguinzagliati per le vie di Roma alla ricerca di ogni minima pietra della città augustea: turisti giunti apposta da ogni dove, armati di app e guide a tema. Immaginavamo insomma una grande occasione per la città e così non è stato. Però questa mostra, ora, un po' all'idea si avvicina. Si passeggia sopra una grande mappa a terra di Roma moderna, anziché per la città vera, ma s'incontrano ugualmente tutti i monumenti eretti da Augusto: non solo l'Ara Pacis, o il Mausoleo, o il Foro o la sua casa, ma persino i sepolcri fuori città. E si possono interrogare schermi e tavoli touch screen per avere informazioni, mappe, foto e disegni antichi. Mentre i busti parlanti della moglie Livia e del generale Agrippa, raccontano ciascuno a modo proprio le gesta e il carattere del marito e dell'amico. Poi ci sono gli oggetti di quel tempo che il museo custodisce, e che narrano la propria storia: dal piede bronzeo della statua della vittoria, emblema della propaganda augustea, ai resti del colosso in marmo (il Genio di Augusto) che stava nell'aula del Foro.
Ognuno "aiutato" nel racconto dalle più sofisticate tecnologie per la comunicazione museale messe in campo dagli esperti della rete di eccellenza europea V-Must, coordinata dal nostro Cnr: tecnologie che puntano sempre più sull'interazione naturale e sul protagonismo del visitatore che sceglie dove e come orientare la propria visita. È in realtà un progetto vasto messo in campo contemporaneamente a Roma, Amsterdam, Alessandria d'Egitto e Sarajevo, per illustrare la vita ai quattro angoli dell'impero e nelle epoche più diverse. A Roma nell'anno del bimillenario, però, l'attenzione è necessariamente tutta su Augusto.
Il Comune di Roma chiude così col botto un anno ricco di iniziative augustee: dallo spettacolo di "suoni e luci" al Foro di Augusto ideato da Piero Angela e Paco Lanciano, alla mostra «L'arte del comando» che all'Ara Pacis ragionava su quanto Augusto abbia ispirato capitani di stati e imperi di tutti i tempi; dalle (troppo poche) visite guidate nei luoghi di Augusto all'affollatissimo show dell'Ara Pacis illuminata dei suoi colori. D'altro canto, la Soprintendenza statale non è stata da meno, pigiando l'acceleratore su grandi lavori in corso e ora ultimati. A settembre ha infatti aperto al pubblico l'ala pubblica della casa di Augusto sul Palatino, e ha restaurato e illuminato a dovere la Casa di Livia così che ora gli affreschi si ammirano davvero, e pare finalmente di stare in una vera dimora anziché in un antro oscuro. Anche la Villa di Livia a Prima Porta, dimora di campagna della coppia sovrana, è ora rimessa a nuovo, mentre al Foro romano si passeggia sul Vico Iugario costeggiando la Basilica Giulia, voluta da Cesare ma rifatta da Augusto. Poi c'è il museo Palatino splendidamente riallestito e ricco ora di una sezione che narra la storia del colle lungo tutta l'antichità. E presto vedremo anche la bella piramide di Caio Cestio abbagliante per il restauro. Molta "Roma di Augusto" è dunque visibile a tutti proprio a partire da quest'anno così importante.
Eppure, quest'anniversario non ha fatto risuonare di sé l'universo globo. È passato anzi un po' in sordina, a parte il clamore della mostra di un anno fa. E proprio qui sta il punto: contestualmente alla mostra non c'è stato nessun annuncio di un programma di iniziative ma il vuoto, ed è lecito supporre che molto lavoro sia stato fatto in fretta ad anniversario già iniziato, proprio per colmare il palese vuoto.
Soprattutto, è mancata una cabina di regia che disegnasse un filo rosso unitario e incisivo, così che Comune e Stato hanno fatto ognuno per sé. In questo modo il grande ed encomiabile lavoro di entrambi si è disperso senza riuscire a scardinare dalle nostre menti l'impressione di vuoto iniziale, né a trascinare i turisti sulle orme di Augusto ovunque in città.
Con l'aggravio che il suo Mausoleo, il monumento principe attorno a cui tutte le celebrazioni avrebbero dovuto ruotare, è tuttora immancabilmente chiuso e degradato, e per molti mesi è stato persino allagato. Poco vale rimarcare la glorificazione mussoliniana d'Augusto e la conseguente "damnatio memoriae" nei suoi confronti dell'Italia post fascista. Quest'anniversario avrebbe anzi potuto offrire l'opportunità di andare oltre retaggi così desueti, e riattualizzare criticamente la figura del princeps. Anche in questo, è stata un'occasione perduta.