lunedì 20 ottobre 2014

Repubblica 20.10.14
Perché i diritti non sono un lusso in tempo di crisi
Come fare se il mercato pretende di stabilire cosa è compatibile.Anche se si tratta di democrazia
di Stefano Rodotà


NEL 1872, a Vienna, comparve un piccolo classico del liberalismo giuridico, La lotta per il diritto di Rudolf von Jhering, che Benedetto Croce volle fosse ripubblicato quasi come un anticorpo negli anni del fascismo. Oggi è più giusto parlare di lotta per i diritti, che si dirama dalla difesa dei diritti sociali fino alle proteste dei giovani di Hong Kong, e che può essere sintetizzata con le parole di Hannah Arendt, «il diritto di avere diritti», ricordate su questo giornale con diverso spirito da Alain Touraine e Giancarlo Bosetti (e che ho adoperato come titolo di un mio libro due anni fa).
Ma, per evitare che quella citazione divenga poco più che uno slogan, bisogna ricordarla nella sua interezza: «Il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa». Così la fondazione dei diritti si fa assai impegnativa, esige una vera “politica dell’umanità”, l’opposto di quella “politica del disgusto” di cui ci ha parlato Martha Nussbaum a proposito delle discriminazioni degli omosessuali, ma che ritroviamo in troppi casi di rifiuto dell’altro.
Quella del riconoscimento dei diritti è un’antica promessa. La ritroviamo all’origine della civiltà giuridica quando nel 1215, nella Magna Carta, Giovanni Senza Terra dice: «Non metteremo la mano su di te». È l’ habeas corpus , il riconoscimento della libertà personale inviolabile, con la rinuncia del sovrano a esercitare un potere arbitrario sul corpo delle persone. Da quel lontano inizio si avvia un faticoso cammino, fitto di negazioni e contraddizioni, che approderà a quella che Norberto Bobbio ha chiamato “l’età dei diritti”, alle dichiarazioni dei diritti che alla fine del Settecento si avranno sulle due sponde del “lago Atlantico”, negli Stati Uniti e in Francia. È davvero una nuova stagione, che sarà scandita dal succedersi di diverse “generazioni” di diritti: civili, politici, sociali, legati all’innovazione scientifica e tecnologica. Saranno le costituzioni del Novecento ad attribuire ai diritti una rilevanza sempre maggiore. Ed è opportuno ricordare che le più significative innovazioni costituzionali del secondo dopoguerra si colgono nelle costituzioni dei “vinti”, l’italiana del 1948 e la tedesca del 1949, che non si aprono con i riferimenti alla libertà e all’eguaglianza. Nella prima il riferimento iniziale è il lavoro, nella seconda la dignità. Si incontrano così le condizioni materiali del vivere e la sottrazione dell’umano a qualsiasi potere esterno.
Cambia così la natura stesso dello Stato, caratterizzato proprio dall’innovazione rappresentata dal ruolo centrale assunto dai diritti fondamentali. E si fa più stretto il legame tra democrazia e diritti. Con una domanda sempre più stringente: che cosa accade quando i diritti vengono ridotti, addirittura cancellati? Molte sono state in questi anni le risposte. Proprio la centralità dei diritti fondamentali nel sistema costituzionale ha fatto parlare di diritti “insaziabili”, che si impadroniscono di spazi propri della politica e che, considerati come elemento fondativo dello Stato, espropriano la stessa sovranità popolare. Più nettamente, nel tempo che stiamo vivendo, i diritti sono indicati come un lusso incompatibile con la crisi economica, con la diminuzione delle risorse finanziarie.
Ma, nel momento in cui la promessa dei diritti non viene adempiuta, o è rimossa, da che cosa stiamo prendendo congedo? Quando si restringono i diritti riguardanti lavoro, salute e istruzione, si incide sulle precondizioni di una democrazia non riducibile ad un insieme di procedure. Non sono i diritti ad essere insaziabili, lo è la pretesa dell’economia di stabilire quali siano i diritti compatibili con essa. Quando si ritiene che i diritti sono un lusso, in realtà si dice che sono lussi la politica e la democrazia. Non si ripete forse che i mercati “decidono”, annettendo alla sfera dell’economico le prerogative proprie della politica e dell’organizzazione democratica della società?
La riflessione sui diritti ci porta nel cuore di una discussione culturale che va al di là delle contingenze e rivela come i riferimenti alla crisi economica abbiano soltanto reso più evidente una trasformazione e un conflitto assai più profondi, che riguardano il modo stesso in cui si deve guardare alla fondazione delle nostre società. A Touraine sembra che le spinte provenienti dal sociale abbiano esaurito la loro capacità trasformativa e propone non soltanto di rimettere i diritti fondamentali al centro dell’attenzione, ma di operare uno spostamento radicale verso movimenti “etico-democratici”, i soli in grado di porre in discussione il potere nella sua totalità e di «difendere l’essere umano nella sua realtà più individuale e singolare». I diritti fondamentali “ultima utopia”, come ha scritto Samuel Moyn, o pericoloso espediente retorico, che trascura la loro inattuazione anche quando sono formalmente proclamati e se ne serve per imporre con un tratto “imperialistico” la cultura occidentale, oggi il neoliberismo? Si può andare oltre queste contrapposizioni o dobbiamo piuttosto considerare la dismisura assunta dalla dimensione dei diritti che, secondo Dominique Schnapper, mette a rischio i fondamenti stessi della democrazia, vissuta troppo spesso come “ultrademocrazia”, e a riflettere sulla forza delle cose che ha interrotto quella che Giuliano Amato ha definito «la marcia trionfale dei diritti»?
Tutti questi interrogativi confermano la necessità di analisi approfondite, che dovrebbero però tener conto di come il mondo si sia dilatato, spingendo lo sguardo verso culture e politiche che proprio ai diritti fondamentali hanno affidato un profondo rinnovamento sociale e istituzionale. È nel “sud del mondo” che ritroviamo novità significative, nella legislazione e nelle sentenze delle corti supreme di Brasile, Sudafrica, India. Basterebbe questa constatazione per mostrare quanto siano infondate o datate le tesi che chiudono la vicenda dei diritti fondamentali solo in una pretesa egemonica dell’Occidente. Al tempo stesso, però, l’attenzione per le costituzioni “degli altri” deve spingerci ad avere uno sguardo nuovo anche sul modo in cui i diritti fondamentali si stanno configurando nelle loro terre d’origine, a cominciare dai nessi ineliminabili e inediti tra diritti individuali e sociali, tra iniziativa dei singoli e azione pubblica.
I diritti non invadono la democrazia, ma impongono di riflettere su come debba essere esercitata la discrezionalità politica: proprio in tempi di risorse scarse, i criteri per la loro distribuzione debbono essere fondati sull’obbligo di renderne possibile l’attuazione. E, se è giusto rimettere al centro i diritti individuali per reagire alla spersonalizzazione della società, è altrettanto vero che questi diritti possono dispiegarsi solo in un contesto socialmente propizio e politicamente costruito. Qui trovano posto le riflessioni su un tempo in cui il problema concreto non è la dismisura dei diritti, ma la loro negazione quotidiana determinata dalle diseguaglianze, dalla povertà, dalle discriminazioni, dal rifiuto dell’altro che, negando la dignità stessa della persona, contraddicono quella “politica dell’umanità” alla quale è legata la vicenda dei diritti.
Seguendo questi itinerari, ci avvediamo di quanto sia improprio ragionare contrapponendo diritti e politica. Senza una robusta e consapevole politica, fondata anche sull’iniziativa delle persone, i diritti corrono continuamente il rischio di perdersi. Ma quale destino possiamo assegnare ad una politica svuotata di diritti e perduta per i principi?

La Stampa 20.10.14
Da mamma Rosa a nonna Maria
Alla conquista del mondo del Cavaliere
Dalla D’Urso oltre ogni politica, tra “caro Matteo” e “cara Barbara”
di Jacopo Iacoboni


«Quando smetterai di essere presidente del consiglio conduciamo una trasmissione insieme? Guarda, sei mooolto divertente», gli fa a un certo punto Barbara D’Urso. La cosa, a pensarci bene, è già avvenuta.
Perché lo show di ieri di Matteo Renzi, insediato nel pomeriggio di Canale 5 nella trasmissione eponima della tv berlusconiana, e culminato col selfie (pardon, col «carmelitasmack») scattato dalla conduttrice, è stato davvero qualcosa di totalmente oltre: oltre la politica, le ideologie, il passato e i paragoni con Berlusconi, oltre il concetto stesso d’intrattenimento. Nel momento in cui hai rotto ogni argine con l’elettorato di destra - e con quel particolare telespettatore-elettore della D’Urso, casalinghe, mamme, nonne, pensionati in pantofole domenicali postprandiali - è lì che vai a spiegare la manovra, a dare le notizie nuove (gli 80 euro di bonus per le famiglie con neonato), a bypassare totalmente qualunque posto “istituzionale” della sinistra o del giornalismo. E si vedeva che Renzi ci teneva tantissimo, molto più di quando va in trasmissioni politiche, la camicia bianca strizzata (almeno lì, appropriata) con cravatta azzurrina, le scarpe a punta piccola quadrata ottime per il target, davanti a pizzi rasi e merletti della D’Urso, sul bordo della poltrona quasi ad andargli fisicamente incontro.
È stato un pomeriggio di battute e gag continue, cercate, lo sguardo in camera del premier, che lasciava quello dell’interlocutrice, talora girandosi verso il pubblico in sala, le inquadrature sfumate, il tu ostentato, da lui a lei, «Barbara», ma anche - soprattutto - da lei a lui, «Matteo, vediamo se sei permaloso, ma io so che non lo sei», «Matteo, la gente non fa figli perché non sa come mantenerli!» (e lui, scena strapreparata: «Ecco perché, ti do un annuncio, ho pensato a un contributo di 80 euro anche per ogni bambino nato dal 2015»). O ancora, siccome aveva esordito annunciando «sono qui per farti delle domande scomode» (nientemeno), il ricorrente «Matteo, mi spieghi?», oppure «Matteo, Oprah Winfrey ha twittato che sei gentile, carismatico, eccezionale... anch’io nel mio piccolo piccolo voglio fare un tweet», «Matteo, scusa, c’è la pubblicità, noi non siamo servizio pubblico». E questo s’era capito.
È stato un duetto senza pudori, qualcosa di non riconducibile neanche alle performance di Berlusconi. Certo, alcune affinità superficiali, per esempio Renzi che scherzava «oggi la Fiorentina ha perso, non parlo di calcio (guardando il pubblico), oppure faceva battutine allusive come quando la D’Urso gli ha detto «con la Camusso può succedere di tutto?», e lui: «Beh, adesso non esageriamo». Ma appunto, affinità superficiali: Silvio giocava in casa, recitava di per sé le battute e le barzellette dei pensionati anche quando aveva cinquant’anni, Renzi no, ha dato loro il brivido di essere ancora sulla breccia, come e più di sempre (guarda questo ragazzo, che sveglio, devono aver pensato). La confezione era refrattaria al giornalismo, ma il punto non era quello. La D’Urso ha fornito piattaforme incredibili: siamo passati dalla casalinga di Voghera alla «comare Cozzolino», il prototipo della donna media che la conduttrice cita sempre, fa niente che la Cozzolino sia morta tre anni fa. Siamo arrivati a parlare della moglie del premier, «Matteo, mi piacerebbe fare una chiacchiera un giorno con la signora Agnese», risposta: «Ovviamente lei fa la sua vita di insegnante, mi accompagna nei viaggi ufficiali, ma cerchiamo di difendere i nostri figli e il loro diritti a essere normali, visto che di non normale basto già io».
Il clou forse l’ha toccato quando ha evocato nonna Maria, che a questo punto è the new mamma Rosa. Dev’esser stato un colpo al polpaccio delle signore mature in sala quando il premier - così schivo e sempre ritroso - ha ceduto alla confessione familiare: «Saluto le mie due nonne, in particolare nonna Maria, oggi è il compleanno 94, di solito lo festeggiamo insieme...». Per andare dalla Barbara, pesante è stata la rinuncia.
Alla fine un ottimo affare per entrambi (è da vedere se lo sia per l’Italia); a giudicare persino dalla copiosissima pubblicità, che spaziava tra Nino D’Angelo e Ezio Greggio; e i due ci hanno scherzato su di continuo. Renzi: «Sono la pausa tra le pubblicità». Oppure: «Ma quanti soldi gli fai fare, Barbara, al tuo editore?»; alché lei: «Ma noi non abbiamo il canone, siamo sempre tartassati...»; e Renzi: «beh, siete una bellissima azienda ma dammi retta, non vi hanno sacrificato in questi anni...». Forse l’unica battuta un po’ corrosiva e dalemiana, dunque sbagliata e lì fuori luogo, in un formidabile, furbissimo addormentamento di massa.

Corriere 20.10.14
Il premier-conduttore

La strategia in onda «Matteo Renzi Show»: come gli ha consigliato Barbara D’Urso, il nostro leader, terminato il mandato, potrebbe benissimo condurre uno show. Ha carisma, suscita simpatia, è abbastanza paraguru per piacere all’audience generalista. Sulla scena tv sono in pochi che hanno la sua forza comunicativa. Per ora, di mestiere fa il presidente del Consiglio e sa bene che per un leader politico saper comunicare non è più un orpello, ma «cose di lavoro». Renzi sta seguendo una strategia precisa, articolata in tre punti principali. 1. Come a suo tempo Berlusconi, Renzi preferisce gli scenari nazionalpopolari (Vespa, De Filippi, Del Debbio, D’Urso…). Nei giorni scorsi ha voluto incontrare Oprah Winfrey, l’icona della tv pop americana. In quanto incarnazione del «sapere comune», Oprah ha saputo suscitare l’identificazione fiduciaria che è una delle caratteristiche portanti della tv. I maligni hanno sottolineato come sia stato Matteo a intervistare Oprah e non viceversa. Fa niente. 2. Renzi, incalzato con complicità da Barbara cui dava del tu, ha parlato di temi concreti, non astratti («gli 80 euro anche alle neomamme per tre anni») con un preciso obiettivo: mettere i governatori delle Regioni con le spalle al muro. Dal punto di vista comunicativo, significa disintermediare, «saltare» il mediatore istituzionale. 3. Il descamisado Renzi ha capito che a destra c’è un deserto, una carestia di leadership. Perché andare da Floris quando, dall’altra parte, il campo è così libero?

il Fatto 20.10.14
Nazareno gioioso su Canale %
Fan e selfie: Mediaset è casa Renzi
di  Ma. Pa.


Come Gadda ha spiegato diffusamente in Eros e Priapo in Italia tende ad esistere un rapporto erotico, cioè irrazionale, tra il popolo e il turgore immaginato del leader. Quel che fu vero per il Duce e, in modi differenti e meno isterici, per Bettino Craxi e Silvio Berlusconi, non lo è affatto per Matteo Renzi.
Ieri il premier non ha conquistato Mediaset, e il suo pubblico domenicale così decisivo se si vuole il 41% dei voti, con la violenza: non ha assediato la fortezza, non l’ha conquistata, quando le telecamere l’hanno inquadrato - solita camicia bianca con le maniche al gomito, cravatta a quadretti - sembrava che fosse sempre stato lì da quella volta della Ruota della fortuna. Renzi non seduce, al massimo flirta: nessuno vuole essere lui, lo sono già tutti. L’identificazione è totale, la simpatia spontanea, il selfie obbligatorio, le zie se lo mangerebbero di baci e lui provvede ad aumentare l’effetto mandando “gli auguri a nonna Maria che oggi compie 94 anni: stanno tutti a casa a festeggiare e io no per colpa tua”. Questa presenza di Matteo Renzi a Domenica Live, contenitore domenicale di cui è tenutaria Barbara D’Urso, la terza peraltro, non ha i caratteri dell’eccezionalità: niente giubbottino di pelle da Fonzie come da Maria De Filippi, niente campagna elettorale nè voti da chiedere, solo Matteo l’amico degli italiani che spiega quanto è importante l’ottimismo e sentirsi giusti. Uno che può perfino dire che il suo cantante preferito è Francesco Guccini senza che quel pubblico abbia alcunché da dire: è di famiglia, può avere le sue stranezze, ma gli si vuole bene lo stesso.
L’ORETTA di Renzi Live che invade le case degli italiani appena finite le partite del pomeriggio è lo sdoganamento in pubblico del Renzusconi, il “Nazareno gioioso” (copyright D’Urso). Il “tu” è d’obbligo: Matteo “ci tengo tanto a dirti” e Barbara duettano chiamandosi per nome con pesanti cadute nel colloquiale e in certi stilemi così tipici della conversazione da bar che ogni tanto sembra di sentire il tintinnare delle tazzine. L’uomo ama le battute si sa e sa adeguarle al contesto: “Ma quanto la fai guadagnare la tua azienda? Dice: c’è Renzi su Canale 5, ma sono solo la pausa fra le pubblicità”, scherza quando “Barbara” lancia l’ennesimo spot. Risate in studio. Spontanee addirittura. Capito che l’argomento funziona, “Matteo” torna sul tema pubblicità, ne fa il suo tormentone pomeridiano per la delizia dei presenti. “Barbara” capisce che si trova di fronte a un professionista, praticamente un collega: “Quando finirai di fare il presidente del Consiglio, tra 150 anni, fai un programma con me? Sei simpatico, funzioni... ”. La risposta non è arrivata, ma è pure vero che a Vanity Fair Renzi aveva detto che gli piacerebbe fare tv dopo la politica.
Seduto comodo, il nostro ogni tanto si rivolge direttamente al pubblico, riesce a sedarlo persino quando scatta un minimo di contestazione (esattamente sul rapporto tra tasse e servizi nei comuni) come solo i cabarettisti più bravi: Mediaset, e non la Rai per molteplici ragioni politico-amtropologiche, è la casa di Matteo Renzi e il Patto del Nazareno è il rogito con cui ne è entrato in possesso.
NON SI CAPISCE davvero perché Paolo Romani, dopo la trasmissione, senta il bisogno di dichiarare via Twitter: “Dopo Domenica Live di oggi e l’intervista del segretario del Pd, ci sarà ancora qualcuno che parla di conflitto di interessi? ”. Il Renzi Live non confuta, semmai conferma l’esistenza del conflitto di interessi del fu Cavaliere, che semplicemente oggi si esplicita nella forma dell’appeasement con l’unico altro leader politico rimasto in campo: B. tenta di gestire il suo declino - mai così ovvio dopo il pomeriggio tv di ieri - mentre quello ha semplicemente fatto fare un salto all’antropologia del potere in Italia. Un capo che non ha bisogno di dire “sono come voi” perché per tutti è ovvio che lo sia, Renzi riesce a realizzare il paradosso di sembrare diverso essendo uguale. A tutti. È simpatico, funziona, direbbe Barbara.

il Fatto 20.10.14
Enrico Mentana
“Il popolo di B. ha detto: è uno di noi”
di Alessandro Ferrucci


Se fosse rimasto altre due ore in studio, avrebbe presentato anche le previsioni meteo” spiega di Matteo Renzi, il direttore del Tg de La7, Enrico Mentana.
Quindi ha visto il premier dalla D’Urso.
Certo, e neanche Berlusconi dopo le Europee del ’94 aveva questa forza, questa capacità di comunicare e di includere.
Il tutto è avvenuto in casa Mediaset.
È già andato in trasmissione da Paolo Del Debbio e da Nicola Porro, evidentemente la sua è una strategia per parlare al corpo profondo del Paese, alla pancia, di provvedimenti che potrebbero provocare malessere nei cittadini, quindi negli elettori. Ne ha bisogno.
Renzi sembrava seduto in casa.
Lui riesce a parlare e muoversi come una persona senza steccati, è uno spregiudicato, con la capacità di proporre la sua narrazione.
Spregiudicato e seduttore.
L’atteggiamento piacione è la sua cifra, e riesce a cercare e ottenere il consenso. Ma c’è un punto che mi ha particolarmente colpito...
Quale?
Renzi dà del “tu” a molti giornalisti, ma è la prima volta che vedo un premier intervistato pubblicamente con il “tu”, anche se il contesto è una trasmissione non giornalistica.
E cosa comporta?
Accorcia le distanze con lo spettatore-cittadino.
Il senatore Paolo Romani ha twittato: “E ora voglio vedere chi parla di conflitto d’interessi”.
Sì, l’ho letto. Romani è un uomo di televisione, evidentemente è rimasto colpito della complicità: sembrava un pesce nella sua acqua, un beniamino. Sembrava “uno di noi” che ce l’ha fatta. E non dimentichiamoci mai che lui è anche e sempre il leader del Pd.
Quindi Romani ha le sue ragioni.
Vede, Renzi riesce anche a muovere negli avversari una certa invidia e ammirazione.
Chissà il pensiero del fu Cavaliere...
In questo contesto, la differenza tra Berlusconi e Renzi è una: il primo è divisivo, il secondo no. Non solo, il premier porta gli altri a essere inclusivi con lui.
Ed è spesso in televisione.
La questione è reciproca: lui deve presentare i provvedimenti, le trasmissioni invece lo chiamano perché alza gli ascolti, fa la differenza.
È una questione editoriale.
Infatti viene trattato con tutti gli onori, mai in maniera scomoda, da nessuno. E solo lui fa politica, vista l’auto-esclusione dei 5Stelle dai format.
Ha campo libero.
Eccome, chi gli va contro pubblicamente sono solo Ci-vati, i gufi e Landini, un po’ poco rispetto a quello che Renzi rappresenta.
Se al suo posto ci fosse stato Berlusconi...
Ripeto: questo livello non è mai stato raggiunto, Berlusconi è stato attaccato per meno, adesso invece nessuno trova strano ciò che accade.

Repubblica 20.10.14
Matteo, Barbara (e un po’ di Silvio)
di Filippo Ceccarelli


IN PARADISO con i Santi, nella taverna con i ladri e a “Domenica live” con Barbara D’Urso. La moltiplicazione dell’immagine di Matteo Renzi sulle reti televisive Mediaset è pari solo alla sua naturalezza.
ALL’ABILITÀ e comunque all’inconfessabile proponimento con cui egli si è ieri sottoposto al rito della consacrazione mediatica e spettacolare.
Lei se lo mangia con gli occhioni, flapflap, miao-miao, un misto di meraviglia e di tenerezza; lui in cravatta e camicia bianca, maniche arrotolate di virile ordinanza, travolge qualsiasi record di tele-piacioneria predatoria, e insieme mettono in scena fra applausi scroscianti un duetto di reciproca soddisfazione che un pochetto allarma perché spontaneo e autentico nell’implicito messaggio e nei suoi immaginabili sviluppi.
Si conclude ovviamente in piena euforia con il giovane premier che, preso ormai il sopravvento, presenta Nino D’Angelo, esprime le sue preferenze musicali e chiama la pubblicità. Lei orgogliosa e premurosa. Quindi si alzano e si danno il bacione.
Poi la vita continua, all’imbrunire, e anche l’autunnale domenica dei telespettatori con le loro malinconie, le loro speranze, le loro allegre, rassegnate o atterrite suggestioni.
Una di queste dice, secondo i più ribaditi canoni renziani, che la sinistra, certa sinistra, ha “la puzza sotto il naso”. Per cui andare dalla D’Urso, che di nome in realtà è Maria Carmela, è disdicevole. E invece serve. Ma un’altra più azzardata e complicata suggestione parte proprio da questi spettacoli e attribuendogli profondità psichica, addirittura, e abbondanza di contenuti, dice che il Partito della Nazione non solo sta prendendo il via, ma passa anche per Barbara D’Urso.
“Anche” in quanto il giovane leader sta chiaramente facendo il giro delle tv Mediaset e l’esultante incoronazione di Carmelina è certo da mettersi in rapporto con l’entusiasmo manifestato da Porro a “Virus” e con il tripudio di Del Debbio a “Quinta colonna”. Sotto il dominio delle rappresentazioni, assai più che nelle parole il consenso si costruisce attraverso i riflettori, le inquadrature, le musiche, gli applausi, le scritte in sovraimpressione, le immagini che si affacciano dai fondali; ma soprattutto la benedizione definitiva arriva al cuore dei telespettatori dall’atteggiamento di chi dialoga con gli ospiti e mena la danza dell’intrattenimento sulle varie reti. Ogni visibile fusione emotiva in questo senso, reca un segnale che al giorno d’oggi sarebbe sbagliato trascurare.
La modifica della Costituzione, l’attacco simbolico all’articolo 18, le polemiche con la magistratura sulla riforma della giustizia non sembrano avere nulla a che fare con le sdolcinatezze sollecitate al premier da Barbara D’Urso.
Su quello stesso trono bianco, nel dicembre del 2012, sedeva Berlusconi, con tutti gli onori del caso, del resto era anche a casa sua. Dopo averlo fatto chiacchierare a suo piacimento e per l’altrui sfinimento, Carmelina ricordò mamma Rosa e con una indimenticabile formula — «Mi si è fidanzato?» — gli chiese ingenua conferma dell’amore per Francesca. Per poi mettere un punto fermo all’apice della gioia: «Che carino!».
Due anni prima, la sera del compleanno del Cavaliere, gli aveva cantato in diretta “Happy birthday, Mr President”. Poco dopo, quando Berlusconi si sentì trattato male da Giletti, trovò ancora il modo di lodare Barbara D’Urso, «che è bella, brava e gentile».
Ora Renzi sa il fatto suo, conosce le tecniche del marketing e certamente se le gioca anche sul piano del target e a livello emozionale; ma il fatto che abbia coronato il suo pellegrinaggio televisivo da lei, pure con selfie sbaciucchione e contorno di bonus alle mamme e omaggi alle nonne, in qualche modo sanziona che un certo vasto pubblico lo avverta come il sostituto, il continuatore, il successore, l’erede, il vero figlio evoluto o reincarnato di Berlusconi.
È plausibile che Renzi prosegua, almeno sul piano della narrazione, a colpi di ego, sorrisi, storielle, diete, metafore calcistiche, gelati, cerchi o gigli magici, bagni di folla, lanci, rilanci, supporti audiovisivi; è possibile che lasci a tratti anche trapelare quel fondo birbantesco, per non dire vagamente barbarico che accompagna il profilo dei più evoluti capi nell’era del tele-populismo.
Questo eventuale “Partito della Nazione” è una faccenda ancora fuori dalle categorie interpretative della politica, ma forse è proprio tale indeterminatezza a renderlo particolarmente fecondo nella post-politica. Il nome suona in verità un po’ sudamericano, ma il modello di applicazione vira piuttosto, almeno a livello dell’immaginario, verso un inedito plebiscitarismo di cui si sarebbe portati a trovare qualche traccia nel recente Putin televisivo.
Il partito del leader, frutto di una massiccia convergenza al centro, in una repubblica presidenziale fondata su una democrazia d’investitura. Magari si esagera, ma la versione italiana ha tutta l’aria di germogliare (anche) da spettacoli come quelli di ieri e da figure come Barbara D’Urso. Ci si può ridere, ci si può avvilire, come sempre sarebbe meglio capire, o almeno provarci, possibilmente in serenità.

La Stampa 20.10.14
Confronto impietoso con l’Europa
In Francia aiuti per migliaia di euro
Molti Paesi prevedono anche asili nido o baby sitter per tutti
di Flavia Amabile


Visto dall’Europa il bonus per le mamme annunciato da Renzi non fa una gran figura. Non lo è di sicuro se si prendono in considerazione le mamme francesi. A Parigi e dintorni i genitori ricevono ogni mese 130 euro circa se hanno due bambini, 295 se ne hanno tre e via aumentando se cresce il numero dei figli. Inoltre contributi supplementari possono essere concessi, a partire da 3 figli a carico, a partire dall’undicesimo anno di età dei figli. Variano in base all’età e alla data di nascita dei figli. A tutto questo va aggiunto un sistema di asili nido diffuso in modo capillare in tutta la Francia e persino l’assistenza gratuita a domicilio di infermiere specializzate subito dopo la nascita del bebè per risolvere qualsiasi dubbio possa avere la mamma.
Per il 90% delle famiglie è previsto un bonus bebè da 923 euro che viene concesso già al settimo mese di gravidanza per permettere di sostenere già prima della nascita le spese necessarie, dal passeggino alla culla. Insomma, una famiglia dal reddito medio con un neonato e un bimbo all’asilo nido può ricevere un contributo di quasi 7mila euro.
È aria di crisi anche in Francia e il premier Francois Hollande ha dovuto tagliare, ha annunciato una riforma che sta facendo parecchio discutere ma che è comunque un sogno per qualsiasi mamma italiana. Dal primo luglio del 2015 una coppia con due bambini ed un reddito superiore ai 6mila euro netti al mese riceverà «solo» 65 euro al mese, chiaramente le coppie meno abbienti riceveranno di più. Tagli anche al bonus che rimarrà invariato per il primo figlio e dovrebbe invece essere ridotto ad un terzo dal secondo in poi.
Non solo la Francia è molto più accogliente nei confronti delle mamme. In Inghilterra i genitori ricevono un contributo mensile di 100 euro per il primo figlio e di 164 euro dal secondo in poi. In Svezia le famiglie ricevono un sussidio di 251 euro mensili. In Germania il contributo per il primo e secondo figlio è di 184 euro. È una misura che dovrebbe contrastare la tendenza delle mamme tedesche a non fare figli: il loro tasso di natalità è fra i più bassi in Europa ma anche quello delle italiane se si andrà avanti così, non sarà molto diverso.
In Austria lo stato versa per i primi tre anni 105,40 euro al mese per figlio a carico per arrivare fino 152,70 euro al mese per ogni figlio fino ai 19 anni.
In Belgio l’assegno versato alla famiglia va da un minimo di 90,28 euro al mese e aumenta in modo notevole in funzione del numero di figli. In Belgio esiste anche il bonus, che viene definito «premio per la nascita», concesso a tutti i futuri nascituri. Per il primo figlio l’assegno è di 1.223,11 euro. Dal secondo in poi diminuisce a 920,25 euro. In Finlandia un sussidio è versato mensilmente per ogni figlio a carico fino all’età di 17 anni ma solo se vive in Finlandia. Per il 2014 la somma è di 104,19 euro per il primo figlio, 115,13 euro per il secondo figlio, e così via. Si ha diritto a 46,79 euro in più al mese per ogni figlio se il genitore è da solo. Sussidi mensili anche in Svezia, Danimarca, Norvegia, Irlanda. In Olanda il sussidio viene versato ogni tre mesi ma la sostanza non cambia molto.
E non è tutto. In molti Paesi sono previsti contributi economici per la cura dei figli: in Francia fino al 66% le rette di nidi e asili sono coperte dai fondi pubblici. In Svezia i comuni offrono dei servizi come la babysitter di famiglia. In Italia abbiamo solo le liste d’attesa negli asili nido.

Repubblica 20.10.14
Centinaia di migliaia i ragazzi nati qui ma senza passaporto
di Vladimiro Polchi


ROMA «Viviamo tutti dentro una contraddizione: ci sentiamo italiani, senza averne i documenti». Mihai Popescu, 21enne, figlio di romeni, a lungo rappresentante degli studenti medi, oggi studia Scienze politiche a Roma. Nelle sue parole, il disagio delle seconde generazioni di immigrati in Italia: ragazzi e ragazze che vivono a cavallo di due identità, mezzi italiani e mezzi marocchini, o cinesi, o romeni. «Vivo e studio in questo Paese — racconta Mihai — e in Romania ho solo qualche vecchia zia e dei bisnonni».
Come si diventa oggi italiani? In attesa della riforma più volte annunciata (e impelagata tra ius soli temperato e ius culturale) la nostra legge sulla cittadinanza resta ferma al ‘92. Per ottenere il documento italiano ci sono due strade. La prima si chiama “naturalizzazione”: l’immigrato deve dimostrare una residenza ininterrotta di dieci anni e un reddito minimo. La seconda è sposare un italiano. Per chi è nato qui da genitori stranieri, le cose non migliorano, anzi: il richiedente deve aspettare la maggiore età per poter presentare domanda, quindi dimostrare una residenza senza interruzioni fino ai 18 anni. Infine, ha solo un anno di tempo (fino al compimento dei 19 anni) per consegnare la domanda. E così resta alla porta un esercito di “nuovi italiani”.
Il numero di minori stranieri in Italia è infatti in continua crescita. Al primo gennaio 2010 rappresentavano il 22% del totale della popolazione immigrata residente. Al primo gennaio 2012 sono arrivati al 23,9%. Quest’anno hanno toccato quota 1.087.016. Dei ragazzi stranieri, quasi il 60% è nato in Italia, il 21% è entrato prima dei 5 anni e il restante 20% in un’età compresa tra i 6 e i 17 anni. Mediamente la popolazione straniera è più giovane rispetto a quella italiana. Basta leggere i numeri della Fondazione Leone Moressa: tra gli stranieri l’incidenza dei minori è del 22,1%, mentre tra gli italiani è solo del 16,2%. Non è tutto. Gli alunni d’origine immigrata iscritti nelle scuole italiane (anno scolastico 2012/2013) sono sempre di più: 786.630, pari all’8,8% degli alunni totali. Rispetto all’anno 2006-2007, il loro numero è aumentato di oltre il 56%. Tradotto in numeri assoluti, fa 250mila ragazzi in più.
Quasi la metà (47,2%) degli alunni stranieri è nata in Italia: incidenza che cresce ulteriormente nella scuola dell’infanzia (79,9%) e primaria (59,4%).
«Una parte di questi ragazzi si sente pienamente italiana — spiega Asher Colombo, sociologo a Bologna e curatore della collana “Stranieri in Italia” dell’Istituto Cattaneo — altri vivono una doppia appartenenza. Dipende dal gruppo etnico e da fattori religiosi. L’Italia deve essere comunque pronta: il nostro è da anni un Paese di immigrazione e non più di emigrazione, non si può più attendere questa riforma della cittadinanza».

La Stampa 20.10.14
Parlamento nel caos per l’elezione dei giudici della Corte Costituzionale
È vero che il quorum è altissimo e che in passato ci sono voluti anni Ma adesso i tempi sono cambiati e la credibilità dei partiti precipita
di Ugo Magri


Siamo al ventunesimo voto per la Consulta, altrettanti giorni sottratti al lavoro parlamentare.È così importante che le Camere eleggano i 2 giudici costituzionali?
Sì, perché la Corte è come il Parlamento, come il governo, come il Presidente della Repubblica. Cioè un organo che, secondo la Costituzione, non può mancare. E oltre ad esserci, bisogna che funzioni.
Però, senza i due giudici, la Consulta è in grado di decidere ugualmente...
Il regolamento lo permette purché ci siano almeno 11 membri su 15. E dopo le nomine presidenziali di sabato (Del Prete-Zanon), il «plenum» è in salvo a quota 13. Però finché la Corte resterà incompleta, mette chiarezza il professor Giovanni Maria Flick che ne è stato presidente, «sarà come un cocktail nel quale mancano certi ingredienti, e dunque non può avere lo stesso gusto. Il sapore mancante è in qualche misura quello della Politica con la maiuscola, che è assicurato anche dalla diversa provenienza dei giudici e, tra essi, dalla presenza in parti uguali di membri designati dal Parlamento».
E allora, cosa aspettano i nostri rappresentanti a scegliere un paio di personaggi degni?
Difatti, Napolitano giudica imperdonabile questo ritardo. Perché, potendo fare bella figura, i partiti se ne guardano bene.
Sono in molti a obiettare: per eleggere i 2 giudici viene richiesta una maggioranza esagerata, i 3 quinti del Parlamento. È solo una scusa?
No, c’è del vero. L’asticella è altissima, ancora più impegnativa di quella che deve superare il Presidente della Repubblica. Basti dire che, se si fosse votato per il Capo dello Stato, dopo il quarto scrutinio Luciano Violante sarebbe già stato eletto...
Altra giustificazione del ritardo: non è la prima volta che il Parlamento se la prende comoda. Davvero ci sono precedenti?
Se è per questo, è accaduto di peggio. Ricorda Flick: «La Corte ritardò circa 3 anni a entrare in funzione per lo scontro accesissimo su Crisafulli, grande giurista indicato da Pci e rifiutato dalla Dc. Se ne venne a capo solo quando Togliatti accettò di indicare al suo posto Jaeger, che non aveva la tessera di partito». Flick segnala pure il cosiddetto «de bello gullico», dal nome di Gullo, protagonista di un altro interminabile braccio di ferro che si concluse non prima che il candidato gettasse la spugna per andare alla Corte europea di giustizia.
E in tempi meno remoti?
La lista è lunga così. Ci vollero 8 mesi nella X legislatura; se ne andò quasi un anno nella XIII. Il Presidente Segni usò le buone maniere e si lamentò per lettera.
Qualcuno arrivò alle minacce?
Cossiga. Ipotizzò di sciogliere il Parlamento se non avesse nominato i giudici. A quel punto gli onorevoli ubbidirono, perché il Picconatore sarebbe stato capacissimo di mandarli tutti a casa.
Se in passato ci sono voluti anni, perché entrare in fibrillazione dopo «soli» 4 mesi?
I tempi sono cambiati. Siamo nel mondo di internet, dell’alta velocità, dei summit planetari. Certi riti della politica non vengono più accettati, così si alimenta solo la rivolta della gente: anche di questo si preoccupano i vertici massimi.
Possibile che i nostri parlamentari, o perlomeno quelli che impallinano i candidati, non se ne rendano conto?
I franchi tiratori sono spia di un malessere più profondo. È la protesta, tutta sbagliata, di chi per un motivo o per l’altro si sente tagliato fuori. Spiega Flick, in termini didattici: «Il voto segreto è l’unico momento in cui il deputato o senatore riesce ancora a esprimere il suo dissenso verso le scelte calate dall’alto. È come se dicesse: “Finalmente conto qualcosa anch’io”».
Quando si terrà la prossima votazione?
A giorni. I presidenti delle Camere, Grasso e Boldrini,fisseranno la nuova seduta comune. I segnali non sono incoraggianti. Interpellati nel weekend, i capigruppo di maggioranza e opposizione confidano che si brancola nel buio.

Repubblica 20.10.14
Rispunta il conflitto d’interessi ma rischia di insabbiarsi
di Lavinia Rivara


ROMA . Rispunta la legge sul conflitto di interessi. In quota alla minoranza di 5Stelle e Sel, è attesa oggi in aula alla Camera, dopo infinite risse procedurali tra i grillini e il resto del mondo. Ma il rischio, concretissimo, è che neanche stavolta sarà quella buona e che il provvedimento, madre di tutte le battaglie del centrosinistra, torni ad inabissarsi. Magari fino a Natale, se tutto va bene, una volta terminata la sessione di bilancio. Oppure se ne riparlerà dopo le riforme costituzionali. Il primo ostacolo è il testo che, paradossalmente, pur avendo avuto il via libera i tutti i gruppi (tranne i 5 stelle), sembra figlio di nessuno. Prende le distanze perfino il suo autore, il relatore e presidente della commissione Affari Costituzionali, Francesco Paolo Sisto, possibile candidato azzurro per la Consulta. «Ho unificato le cinque proposte presentate per adempiere alla richiesta della presidenza di andare in Aula. Ma non è il pensiero di Forza Italia nè tantomeno il mio» ci tiene a precisare Sisto. In altre parole Fi non ne vorrebbe proprio sapere di modificare la legge Frattini del 2004. Al massimo qualche ritocco, ha fatto capire in commissione anche Maria Stella Gelmini. Il Pd invece non può che proporre norme più severe di quelle attuali e considera «invotabile» la bozza Sisto, per dirla col segretario del gruppo Ettore Rosato. Quel testo prevede per i membri di governo in conflitto l’assegnazione di patrimoni superiori a 15 milioni di euro ad una gestione fiduciaria o, in casi non definiti esattamente, la vendita degli stessi. Viene creata una autorità ad hoc (5 esperti nominati dal presidente della Repubblica), ma non c’è l’ineleggibilità dei parlamentari. I dem vogliono introdurla, assicura Francesco Sanna, e nei loro emendamenti propongono anche che l’incompatibilità per le cariche di governo venga sancita con voto di sfiducia del Parlamento.
Insomma distanze incolmabili e un ostacolo tutto politico: come fa il Pd a tenere in piedi il patto del Nazareno e al tempo stesso approvare insieme alla sinistra, e magari ai 5Stelle, una legge che è come un dito in un occhio per Forza Italia? Del resto quando Enrico Letta, pochi giorni dopo il patto del Nazareno, rilanciò non senza malizia la legge sul conflitto di interessi, ottenne dal braccio destro di Renzi, Graziano Delrio, una risposta lapidaria: «Non può chiedere la luna».
Rosato sdrammatizza: «Oggi l’ultimo problema di Berlusconi è il conflitto di interessi. C’è la legge Severino che gli impedisce di andare al governo. Dunque siamo nelle condizioni migliori per affrontare il nodo. Ma certo non in 48 ore e comunque per noi vengono prima le riforme istituzionali». Che sono in discussione nella stessa commissione. «Siamo nella solita situazione da larghe intese» incalza Pippo Civati, autore di una delle pdl presentate, assai critico verso il testo Sisto: «Manca un vero blind trust, sanzioni adeguate e l’incompatibilità post carica. Presenterò i miei emendamenti ma è chiaro che se tutto viene congelato protesterò anche io, non solo i 5Stelle». I grillini stanno col fucile puntato, vogliono dimostrare che il Pd non vuole fare la legge: «Questo è già chiarissimo — sostiene Fabiana Dadone, firmataria della pdl stellata —. Non hanno neanche depositato una proposta del partito, ci sono solo quelle di Civati e Bressa» . Come andrà a finire? Quasi tutti pensano che Sisto chiederà il rinvio in commissione della riforma. Ma lo stop potrebbe venire anche dall’avvio imminente della sessione di bilancio, che blocca ogni legge di spesa. E i grillini sono già pronti a rilanciare su tutti i social network quel passaggio della sfida tv tra Bersani e Renzi per le primarie, dove l’attuale premier prometteva una legge sul conflitto di interessi nei primi cento giorni di governo.

Repubblica 20.10.14
Eterologa, donne in rivolta “Noi over 43 respinte dagli ospedali pubblici”
Ticket solo per le più giovani, tutte le altre pagano fino a 6mila euro
“Le Regioni ci costringono ad andare nei centri privati o all’estero”
di Michele Bocci, Caterina Pasolini


ROMA «Hanno vanificato la sentenza della Corte Costituzionale. Le coppie sono costrette ad andare nel privato o all’estero per fare l’eterologa». A sei mesi dalla caduta del divieto di fecondazione con gameti esterni alla coppia il servizio pubblico è praticamente fermo, come sottolinea l’avvocato Paola Costantini di Cittadinanzattiva. Negli ospedali il trattamento non è iniziato (salvo un caso a Firenze) e soprattutto quasi ovunque non verrà fatto alle coppie con donne di più di 43 anni. Secondo le linee guida della Conferenza delle Regioni quell’età rappresenta il limite alla rimborsabilità della prestazione: sotto si ottiene con il ticket, sopra si dovrebbe pagare la tariffa piena (3.500-6.000 euro). Si dovrebbe, perché in molte Regioni in questi giorni viene deciso di non intervenire comunque su chi ha superato i 43 anni, perché non è il caso che l’ospedale si occupi di prestazioni a pagamento e si vuole pensare prima alle coppie più giovani alle quali per motivi sanitari è stato riconosciuto il diritto a fare il trattamento al costo del ticket. La Toscana ha scritto il principio in una delibera ma la vedono allo stesso modo anche in Emilia Romagna o in Piemonte, per citare solo alcune Regioni.
Il punto è che secondo gli esperti sono circa il 70% le over 43 che chiedono l’eterologa. Finiranno tutte dai privati. «La maggior parte delle pazienti saranno escluse dalla sanità pubblica», commenta Costantini, relatrice dei ricorsi che hanno portato alla sentenza. Ha raccolto la rabbia, il disorientamento delle migliaia di coppie che avevano sperato, dopo il 9 aprile di poter cercare un figlio con donazioni di gameti a pochi passi da casa in un ospedale pubblico. Le sue parole trovano conferma a Milano. Persino dal centro di consulenza genitoriale di Sos infertilità, organizzato con l’appoggio del Comune consigliano «alle coppie di andare oltreconfine». I motivi? Innanzitutto il limite di 43 anni: «Se è sensato dal punto di vista medico nella fecondazione omologa, perché dopo quell’età c’è poca probabilità che i gameti femminili possano concepire, è assurdo in quella eterologa con donazione di ovociti», sottolinea Rossella Bertolucci.
Finirà che i privati faranno ottimi affari con pazienti che il servizio pubblico non è in grado di seguire. Un altro problema riguarda le donazioni: quasi ovunque in Italia non è partita la raccolta di gameti e comunque al momento è molto difficile trovare persone, soprattutto donne, disposte a sottoporsi a trattamento ormonale ed intervento per aiutare chi ha problemi di infertilità. E non è un caso che l’unico trattamento di eterologa eseguito fino ad oggi nel pubblico, all’ospedale di Careggi di Firenze l’altra settimana, sia avvenuto grazie all’acquisizione di liquido seminale da una banca estera. Almeno all’inizio le altre Regioni dovranno percorrere la stessa strada. E c’è un altro problema che riguarda la donazione: i gameti crioconservati in questi anni per trattamenti di fecondazione omologa non si potrebbero usare per fare l’eterologa anche se le donne a cui appartengono vogliono donare. Andrea Borini, presidente della Società italiana di prevenzione della fertilità, fa notare come con le nuove linee guida tra gli esami che devono essere necessariamente fatti ai donatori ci sia il tampone vaginale. «Ma non è mai stato previsto in Italia — dice — e non lo è nelle banche dei tessuti straniere, perché è inutile. Ma averlo richiesto rende inutilizzabili i migliaia di ovociti conservati nelle nostre strutture in questi anni». E ci sono dubbi anche per l’acquisizione all’estero.
La sanità pubblica sta stentando ma le coppie sono battagliere e qualcuno, forte della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge 40 e della nuova norma che regola la libera circolazione dei pazienti in Europa, va a farsi curare all’estero e chiede il rimborso delle spese alla propria Asl. Una coppia romagnola, assistita dal centro di Lugo Artebios ha vista riconosciuta la sua richiesta di copertura di parte delle spese sostenute per fare il trattamento in Spagna proprio ad aprile. Ma i ricorsi alle aziende sanitarie per avere i soldi spesi all’estero si stanno moltiplicando. L’avvocato Gianni Baldini, un altro dei legali che ha seguito molte cause contro la legge, 40 ne ha presentati cinque, a Puglia, Lombardia e Veneto.

Corriere 20.10.14
Unioni gay, sì da tre italiani su quattro

Sul matrimonio il consenso è del 35% Favorevoli alle nozze (24%) o ai diritti (32%) anche molti tra i cattolici più assidui
di Nando Pagnoncelli


Il Sinodo straordinario sulla famiglia convocato da papa Francesco ha mostrato un volto della Chiesa a cui non eravamo abituati. Una Chiesa pronta ad affrontare e discutere temi scomodi, come l’ammissione dei divorziati al sacramento dell’eucarestia o l’omosessualità. A conclusione del Sinodo, aldilà di alcuni aspetti che rimangono controversi, sembrano lontani i tempi della Chiesa «del no», dei valori «non negoziabili». Queste aperture appaiono in forte sintonia con le opinioni prevalenti nel nostro Paese, una sintonia testimoniata dall’impennata di fiducia nella Chiesa dopo l’elezione di Francesco (passata dal 54% del febbraio 2013 al 76% dei mesi scorsi) e dai risultati del sondaggio odierno. Vediamoli in dettaglio.
La definizione di famiglia nella quale ci si riconosce maggiormente (53%) è quella di una «qualunque coppia legata da affetto che voglia vivere insieme»; un italiano su quattro (28%) considera la famiglia solo se è composta da un uomo e una donna sposati e 18% se è composta da un uomo e una donna anche se non sposati. Tra i fedeli assidui, cioè tra coloro che partecipano alla messa domenicale regolarmente, quasi uno su due (46%) ritiene che la famiglia sia composta da uomo e donna sposati ma una importante minoranza (uno su tre) si riconosce nella prima definizione. Su questo tema, com’era lecito attendersi, le opinioni variano in relazione all’età: tra le persone di oltre 60 anni e i pensionati infatti prevale una concezione più tradizionale della famiglia.
Riguardo alla possibilità di dare la comunione ai divorziati si registra un larghissimo consenso: nel complesso 84% si dichiara molto (55%) o abbastanza (29%) d’accordo. In questo caso il favore è nettamente prevalente anche tra i fedeli assidui (83%).
Il Sinodo sulla famiglia nell’ultima settimana ha suscitato un confronto politico e mediatico più ampio sui diritti delle coppie di fatto rispetto a cui l’Italia appare in una situazione diversa rispetto a molti altri Paesi. A tale proposito prevale l’idea che su questa spinosa materia la legislazione italiana sia arretrata. La pensa così il 56% degli intervistati, mentre il 21% ritiene che la nostra legislazione abbia il giusto approccio al problema non essendo né troppo avanzata né troppo arretrata e il 14% considera la nostra legislazione fin troppo permissiva.
Tra i fedeli assidui, sebbene prevalga l’idea che la nostra legislazione sia arretrata (36%), le opinioni sono decisamente più diversificate mentre tra i fedeli che partecipano saltuariamente alla messa i pareri sono sostanzialmente in linea con la totalità della popolazione.
Da ultimo la questione più spinosa, rappresentata dai diritti delle coppie omosessuali. Tre intervistati su quattro sono favorevoli al riconoscimento dei loro diritti: il 35% si dichiara favorevole al matrimonio e il 39%, pur essendo contrario al matrimonio, è favorevole alle unioni civili. Viceversa, il 23% è contrario sia all’uno che alle altre. L’apertura ai diritti delle coppie gay prevale indistintamente tra tutti i segmenti sociali, sia pure con accentuazioni diverse. Infatti i giovani fino a 30 anni, gli studenti, gli impiegati e gli operai, i residenti nelle regioni del centro nord e gli elettori del Movimento 5 Stelle si esprimono nettamente a favore del matrimonio.
Sul fronte opposto si osserva maggiore contrarietà tra le persone meno giovani, meno istruite, tra i pensionati, i residenti nelle regioni meridionali tutti con valori compresi tra 33% e 37%. Gli atteggiamenti di maggiore chiusura si registrano tra gli elettori di Forza Italia (42%), nonostante il dialogo avviato su questo tema da parte di Silvio Berlusconi che nei giorni scorsi ha ospitato a cena ad Arcore Vladimir Luxuria, uno dei simboli della lotta per i diritti degli omosessuali, e soprattutto dalla sua giovane compagna Francesca Pascale che nei mesi scorsi si è iscritta all’Arcigay e ha fatto scalpore chiedendo scusa per tutti coloro che dal centrodestra hanno insultato e maltrattato i gay.
Nel mondo cattolico gli atteggiamenti sono abbastanza variegati: tra i fedeli più assidui la maggioranza assoluta (56%) è a favore del matrimonio (24%) o delle unioni civili (32%), tuttavia con valori meno elevati rispetto ai fedeli saltuari (75% a favore dei diritti) e ai non praticanti e ai non credenti (85% a favore).
Il Paese sta cambiando, sia pure in modo graduale e non univoco. E trova conforto nel fatto che un’istituzione come la Chiesa, tradizionalmente poco incline al cambiamento, stia affrontando di petto alcune questioni delicate, fino a poco tempo fa considerate dei veri e propri tabù. Tutto ciò rappresenta una sfida per le nostre istituzioni e il nostro legislatore che, quanto ad innovazione, oggi sembrano scavalcati dalla chiesa di papa Francesco.

Corriere 20.10.14
La svolta «nazionalista» della Lega. Cosa c’è dietro la strategia di Salvini
La lotta contro «i nemici degli italiani» tra CasaPound in piazza e la Fiom in fabbrica
di Marco Cremonesi


MILANO Salvini, l’ultimo situazionista, non vuole perdere tempo. Dopo il bagno di folla di sabato a Milano, si è convinto che questo è «il momento». Salvini «l’impolitico», tale lo considerava parte della Lega prima dell’elezione a segretario, non si cura di chi storce il naso per l’alleanza con la destra estrema: «Verde-nero, scrivete voi giornalisti. Ma la settimana prossima voglio portare da Maroni i segretari regionali della Fiom. Sulle crisi aziendali sono i più preparati. Pensi che bello: potrete scrivere Lega verde-rossa». E Salvini «il ragazzino», l’altro giorno era seduto con Vladimir Putin, che gli ha regalato un orologio e, pochi giorni prima, a Mosca l’ha fatto accogliere da una sorta di standing ovation da parte della Duma. Nel concreto: la Lega farà gruppo unico con il partito Russia unita di Putin al Consiglio d’Europa.
Senza troppo parere, senza dare troppo nell’occhio, Salvini ha trasformato la Lega in qualcosa che nel dicembre scorso nessuno avrebbe immaginato. Anche se era già tutto lì, nel suo discorso d’elezione a leader. Addio di fatto al capo carismatico Umberto Bossi (sempre però pubblicamente omaggiato), addio al padanismo oltranzista («In questo momento i problemi più gravi sono italiani, non della Lombardia»), addio all’indipendentismo spinto: «L’indipendenza, dove non c’è più neanche una fabbrica, non mi serve. Non serve a nessuno». L’idea è che «esistono tre nemici comuni, che sono legati, e sono nemici dei veneti come dei pugliesi e dei piemontesi come dei lucani. Sono l’immigrazione clandestina, l’Europa e la crisi economica che dall’Europa è stata indotta. Nemici di tutti, nemici degli italiani e non solo del Nord. E dunque, nei prossimi mesi martelleremo su tutti i fronti».
Insomma, è svolta «nazionale». Le due visite di Salvini in Italia meridionale, al di là dei fischi rimediati in più di un’occasione, non erano estemporanee come avrebbe potuto sembrare: «Il mese prossimo inauguriamo e lanciamo la Lega sorella, quella che ci affiancherà al Centro e al Sud. Nessuno si illuda che si tratti di qualcosa fatta tanto per fare: molti scopriranno di aver perso consiglieri comunali, qualcuno si troverà dei consiglieri regionali in meno, altri perderanno addirittura qualche parlamentare».
Segni di nervosismo, ieri, se ne sono già registrati. Soprattutto da parte dei Fratelli d’Italia. Che hanno visto i militanti di CasaPound sfilare disciplinati alla manifestazione leghista e non alla loro di Reggio Calabria. Impensabile temere qualche fuga di voti a favore degli (ex) nordisti? Riccardo De Corato, già senatore e capogruppo in Regione Lombardia, sbuffa che «la Lega in piazza ha portato solo simboli di partito e insulti al tricolore, quando perfino il Front National di Marine Le Pen porta con fierezza il tricolore francese nella sua bandiera di partito». Pochissima voglia di parlare dell’argomento ha Giorgia Meloni: «CasaPound? E che c’è di nuovo? Avevano già fatto la campagna elettorale per Borghezio a Roma. Hanno fatto le loro scelte... Di che parliamo?». Parliamo di possibili alleanze per le future elezioni? «Noi saremo alleati con persone coerenti, che fanno scelte coerenti e non soltanto di tattica. Nulla è automatico, nulla è deciso. Vedremo…».
Di sicuro, un’alleanza c’è. Quella tra Lega e Forza Italia per le elezioni in Emilia-Romagna. E dove il candidato, guarda il caso, è il leghista Alan Fabbri. Il luogo comune afferma che Salvini e Berlusconi non si prendano più di tanto? «Macché, il problema non è quello, anzi — dice Salvini — Io ho visto Berlusconi faccia a faccia soltanto due volte. C’è una grande simpatia umana e ci siamo sempre trovati d’accordo su tutto. Pensi un po’: anche sull’euro. Però…». Però? «Però il suo partito è un filo anarchico. Lui dice “Fate A” e poi, a volte, il partito fa B». Parla delle indicazioni di voto? «E beh, sì… anche di quelle».
I nemici di Bruxelles fanno sì che Salvini riservi un’attenzione alla politica estera speciale. Certo: per il militante della base politica estera significa soprattutto il no all’euro. Eppure, non è soltanto quello: ieri il deputato Paolo Grimoldi ha parlato della possibilità di formare un eurogruppo con i partiti contrari alle sanzioni alla Russia. La Lega ne avrebbe ricevuto in cambio la promessa, da parte di «alcuni ministri» di Mosca, di indirizzare i flussi turistici verso le aree d’Italia che hanno prodotto atti ufficiali contro le sanzioni: Lombardia e Veneto. Il modello dichiarato resta il Front National di Marine Le Pen. Con cui mercoledì Salvini sottoscriverà la richiesta di sospendere il trattato di Schengen. Mentre una nuova nota è apparsa sull’agenda di Salvini: a novembre è stato invitato al congresso del Front a Lione. Con una soddisfazione, anche rispetto agli alleati internazionali. La macchina della Lega sabato a Milano ha funzionato alla perfezione: dalla mobilitazione sede per sede, all’organizzazione dei pullman su base provinciale fino alla gestione della piazza affidata, come da ormai decenni a questa parte, a Maurizio Bosatra.

Corriere 20.10.14
L’occasione di riempire lo spazio lasciato libero a destra
Bisogni e paure da interpretare dietro la sfida della nuova Lega
di Antonio Polito


Se fosse solo fascismo redivivo, razzismo consapevole, pregiudizio xenofobo, difficilmente il movimento di Matteo Salvini porterebbe in piazza a Milano decine di migliaia di persone, né sfiorerebbe il 10% nei sondaggi. continuaLa nuova Lega è piuttosto la dimostrazione che in politica il vuoto si riempie, come in natura. E in Italia, dopo la dimissione berlusconiana, c’è un forte bisogno di destra.
Forse l’abbiamo dimenticato, tutti presi dal brillio dell’ascesa di Renzi, nella illusione che basti una sinistra moderna per svuotare il serbatoio di una destra moderna. Così ovviamente non è. C’è una rappresentanza di interessi e di opinioni che neanche al suo massimo punto di espansione la sinistra può interpretare. E, quel che più conta, la nuova destra di Salvini è davvero moderna.
La sua carica anti-immigrati, per esempio, ha più radici economiche e sociali che identitarie ed etniche. Salvini non porta maiali sui terreni dove devono sorgere le moschee, né indossa magliette inneggianti alla derisione di Allah. Dice di voler fermare i «clandestini», non la religione che professano.
Non c’è in lui integralismo alla rovescia. L’islamismo, come ha notato ieri su questo giornale Paolo Valentino, viene anzi contrastato più nel nome dei diritti liberali dell’Occidente, a partire dall’emancipazione femminile, che della tradizione cristiana. Un po’ come faceva in Olanda Pym Fortuyn, leader gay, laico e anti-immigrati, poi ucciso da un fanatico islamico.
L’avversione agli stranieri della nuova Lega viene motivata invece con la concorrenza che fanno agli indigeni per il lavoro e le prestazioni del welfare, e trae la sua forza dalla recessione e dal cambiamento tecnologico, che continuerà a spaventare gli italiani anche quando la recessione sarà finita. Angry young men, giovani arrabbiati e poco istruiti, destinati a soccombere nella competizione con mano d’opera a prezzi stracciati, e allo stesso tempo incapaci di inserirsi nella gara per lavori qualificati: può essere questo anche in Italia, come negli Stati UnIti, il cuore di una nuova e moderna destra.
La quale non perde neanche tanto tempo con le tradizionali battaglie culturali. A Salvini dei gay sembra importare molto meno che ad Alfano, ha capito che è un tema residuale. E neanche gliene importa delle bandiere, che sia quella separatista della Lega di prima, o che sia quella tricolore cui hanno dovuto rinunciare i neo-fascisti per essere accolti alle sue manifestazioni. Il secessionismo, lasciato a far bella mostra di sé nella soffitta del movimento, diventa piuttosto rivolta fiscale, e si incarna nella polemica di Maroni e di Zaia contro i tagli lineari alle Regioni, motivata col fatto — peraltro indiscutibile — che così si colpisce chi ha saputo spendere meno e meglio.
C’è ancora, soprattutto nel Nord del Paese, quel sentimento anti-fiscale, di sbrigativo individualismo anti-statuale, che Edmondo Berselli definiva «l’ideologia del forzaleghismo»; e, di fronte alla misteriosa rinuncia di Berlusconi a incarnarne la protesta, sta cercando una nuova rappresentanza. Una parte aveva creduto di trovarla nei Cinque Stelle, in particolare nel Nord Est.
Ma con lo svuotamento progressivo sia della destra moderata di Berlusconi sia della destra qualunquista di Grillo, è possibile che la Lega possa allargare la sua sfera di influenza e proporsi come nuovo interprete di quel mondo. Già oggi è il punto di riferimento di quanti in Parlamento, in Veneto o in Lombardia, si preparano a lasciare Forza Italia.
Se Bossi era una costola della sinistra, Salvini può diventare la spina dorsale di una destra che oggi ne è priva.

La Stampa 20.10.14
Opera di Roma, orchestra e coro preparano il contrattacco
E arriva la solidarietà di Cecilia Bartoli: no ai licenziamenti
di Sandro Cappelletto


Veloce riepilogo degli avvenimenti precedenti.
Atto I (21 settembre) Riccardo Muti rinuncia a dirigere Aida e Nozze di Figaro all’Opera di Roma lamentando che nel Teatro non esistono le condizioni per poter svolgere con serenità il proprio lavoro. Stupore e sgomento.
Atto II (1 ottobre): il sindaco Ignazio Marino e il sovrintendente Carlo Fuortes annunciano, a partire da gennaio 2015, il licenziamento per 182 tra professori d’orchestra e artisti del coro. La rinuncia di Muti – dicono – ha fatto fuggire abbonati e sponsor, è impossibile continuare così. Corpo di ballo, operai, tecnici, dipendenti amministrativi sono esclusi dal provvedimento. Applausi e fischi accompagnano una decisione senza precedenti.
Atto III (ieri): A due giorni dal debutto di Rigoletto e mentre sono in corso dei tesi incontri tra sovrintendenza e sindacati per capire se davvero i licenziamenti annunciati – di cui si discute la fattibilità tecnica - diventeranno effettivi, orchestra e coro del Teatro ringraziano in un comunicato «i colleghi di tutte le Fondazioni lirico sinfoniche, i Conservatori, le istituzioni musicali italiane, i teatri esteri, gli esimi esponenti del mondo musicale, artistico, culturale e politico» per «la vicinanza e il sostegno dimostrati in questo drammatico momento» e la presa di posizione contro la «profonda ferita inferta all’immagine della cultura musicale italiana». Da Berlino, la diva Cecilia Bartoli, romana de Roma, dice quello che in molti pensano: «Bisogna trovare una soluzione e la soluzione non è mandare a casa orchestra e coro e tenere l’amministrazione. Per fare cosa se non c’è nessuno da amministrare?».
Intanto, anticipando il quarto e penultimo atto, che sarà lunghissimo, le segreterie nazionali di tre sindacati (Cgil, Cisl, Fials) inviano una raccomandata – ma assomiglia a un siluro - a tutte le 14 Fondazioni liriche per «verificare che nel corso degli anni non siano stati corrisposti interessi anatocistici agli istituti bancari che hanno concesso affidamenti ai teatri». La cresta sugli interessi dei tanti debiti contratti dai teatri? «Nel caso venisse evidenziato un possibile danno erariale, i lavoratori faranno denuncia presso la Corte dei Conti». E l’ultimo atto? Ancora tutto da scrivere, ma vi terremo informati.

Repubblica 20.10.14
Quell’ultimo assalto alla Laguna
di Mario Pirani


LA LAGUNA è un argomento esplosivo. La settimana scorsa eravamo tornati a denunciare la follia di costruire sotto false spoglie il canale Contorta, trasformando questo modestissimo corso d’acqua, con grande spesa e impegnative opere, in un canale di grande impatto e dimensione, così da assicurare un’altra via di transito delle grandi navi all’interno della Laguna. Mentre questo progetto non ha ancora neppure ricevuto la Valutazione d’Impatto Ambientale (Via), un’altra soluzione alternativa, come avevamo scritto la settimana passata, è stata presentata dall’ex ministro alle Infrastrutture ed ex vice sindaco di Venezia, De Piccoli, supportata dal Gruppo Duferco Engineering, Soc. Intern. d’ingegneria che esclude il transito delle grandi navi dal Bacino San Marco. L’alternativa prevede di realizzare il terminal crocieristico alla Bocca di Porto del Lido, trasportando poi i passeggeri, sbarcati dalle grandi navi ormeggiate alla Stazione Marittima, con motonavi catamarano — fino a 6 per 1200 passeggeri — a trazione elettrica per limitare l’impatto del moto ondoso, ma consentendo ai turisti di vedere Venezia dall’acqua. La realizzazione prevede due anni per la costruzione, un costo di 128 milioni di euro, oltre tremila posti di lavoro. Il nuovo terminal sarà capace di ospitare cinque navi e sarà costituito da un pontile lungo 940 metri e largo 34, completamente rimuovibile, collocato a 220 metri dalla diga Nord del Cavallino. La struttura potrà movimentare ogni giorno fino a 24 mila crocieristi tra sbarco e imbarco. Come sempre a Venezia la discussione tra i pro e i contro si è subito accesa. Cito l’ultima lettera arrivatami da un vecchio lettore che già polemizzava con noi ai tempi dei primi passi del MoSe. Ora polemizza sui due progetti portuali. Si capisce che non ne vorrebbe nessuno e che preferirebbe si lasciassero le cose come sono. Anche noi siamo dello stesso parere, comunque vogliamo rendere più edotti i lettori su ambedue i disegni dietro i quali si nascondono soprattutto grandi navi e grandi affari. Alle spalle di Venezia.
”Riepilogo un po’ i fatti — scrive il lettore —: nel gennaio 2012, Schettino al Giglio fa la marachella che sappiamo. Il problema del passaggio delle grandi navi nel bacino S. Marco balza in primo piano all’attenzione generale. Il governo mette uno stop al passaggio, ma ci ripensa... fino a che non si trovino soluzioni alternative. L’autorità portuale trova l’alternativa con lo scavo del Contorta. All’opposizione si sostituisce un comitato No Grandi Navi che gioca sull’equivoco. Non è che non voglia più le grandi navi, solo che le vuole da un’altra parte! Il No resta appannaggio solo di chi non le vorrebbe né di qua, né di là. Ma questi sono molto pochi. A Venezia restano solo 59 mila abitanti e il loro peso è minimo. Il progetto De Piccoli duplica, in sostanza, esattamente le funzioni che si svolgono attualmente alla Marittima. Arrivo delle navi. Sbarco dei passeggeri e dei bagagli sul nuovo terminal alle bocche di porto. Carico su motonavi-catamarano dei passeggeri — Trasporto di questi ultimi attraverso il Bacino S. Marco fino alla Marittima (qui siamo al cabaret. Metà dei passeggeri sono seduti rivolti verso il Palazzo Ducale. L’altra metà — seduti di spalle — lo vedono su schermi televisivi) — Sbarco dei passeggeri alla Marittima. Altre motonavi con i bagagli per altro percorso. I rifornimenti provengono dalla Marittima con altre imbarcazioni verso il nuovo terminal fuori porto. Praticamente tutto doppio, soprattutto i costi. L’impatto sulla laguna resta sconsiderato con questa flotta smisurata di catamarani con conseguenze devastanti sui sommovimenti di sedimenti lagunari. Altra questione sono le navi in sosta. Attualmente quando entrano ed escono lasciano una massa di fumi giallognola che ristagna sulla laguna perennemente. In sosta alle bocche di porto certamente i motori in funzione emetteranno fumi in abbondanza, specie a mezzogiorno quando lo scirocco tira dal mare verso terra. Di fronte c’è l’Isola di S. Erasmo che è zona agricola. A lato vi sono tutte le spiagge che si dipartono da Punta Sabbioni con una fiorente attività turistica. I progettisti del De Piccoli dicono che le navi spegneranno i motori e passeranno ad un servizio di “cold ironing” con l’elettrificazione delle banchine a cui si dovranno allacciare le grandi navi, sempre che abbiano il dispositivo adatto. Se non ce l’hanno sarà impedito loro di attraccare? Comunque l’impatto di questa massa di turisti sul tessuto urbano moltiplicherà l’invivibilità e il degrado che già stanno marciando di pari passo. Nulla resta per il mantenimento della città. Ponti, strade, scuole, sono all’indecenza. Non c’è una lira per sostituire le bricole in laguna che stanno sgretolandosi. Il signor Enrico Ricciardi, insieme a tanti altri conclude augurandosi che si levino forti le voci critiche in sostegno di una città che sta sempre più morendo sotto il peso, non degli anni, ma degli interessi voraci che la colpiscono”.

Repubblica 20.10.14
Se la democrazia bussa in Vaticano
di Giancarlo Bosetti


LA CHIESA dunque è in questi momenti un organismo deliberante, come un parlamento con maggioranze semplici e maggioranze qualificate. I paragrafi cruciali sulla comunione ai divorziati e sull’accoglienza pastorale degli omosessuali hanno avuto un largo consenso nel Sinodo, ma non sufficiente a raggiungere i due terzi. Nell’organo collegiale, che fu istituito da Paolo VI per dare seguito all’esperienza del Concilio Vaticano II, c’è dunque una divisione, una frattura, e si è manifestata una minoranza conservatrice. Non si parla più dei «doni» e delle «qualità» che i gay possono offrire alla comunità cristiana, come nella relazione post disceptationem del cardinale ungherese Erdo, ma bisogna ammettere che la versione più tenue, dell’accoglienza nella Chiesa «con rispetto e delicatezza» di uomini e donne con tendenze omosessuali (118 sì contro 62 no) mostra un cambiamento in corso.
È DIFFICILE sottovalutarne la portata. È il messaggio di una chiesa «che cerca» (Enzo Bianchi), è l’indicazione di un « work in progress» (secondo l’espressione del portavoce in inglese del Sinodo, Thomas Rosica di Toronto). Questo significa che le affermazioni contenute nel documento non hanno valore di magistero, non sono ancora dottrina, ma mostrano di poterlo diventare nel seguito del «lavoro da compiere», cui si riferisce, sollecitante, Papa Francesco, che ieri ha insistito sulla «sinodalità e la collegialità» della Chiesa e sulla necessità di non perdere il contatto con «le mutate condizioni della società». Quello cui assistiamo appare come l’opera in corso di un organismo bimillenario che mostra, dal vivo e con sofferenza, come i suoi approdi nella prassi e nella dottrina si sottopongano ai segni dei tempi, accettino esplicitamente di collocarsi nella storia, esponendosi ai venti del mondo e alle mutazioni cui questo la costringe.
Le dimissioni di Benedetto XVI erano già un atto che faceva irrompere la mondanità e umanità del pontefice dentro la sacralità del ruolo, in modo anche più dirompente, di quanto non avesse già fatto la esposizione ai media della decadenza fisica e della malattia di Giovanni Paolo II. Con il Sinodo ora si è manifestato il carattere mutevole, evolutivo, aperto al nuovo, in una parola “storico”, della dottrina teologica. È una ricerca, quella della Chiesa, che si presenta come indirizzata ad un modo “migliore” di interpretare “la fedeltà ai vangeli”. Come sempre quando viene sfidata la ortodossia dei letteralisti (qui pronti a sfoderare San Paolo e le sue parole sulle relazioni «contro natura»), in qualunque religione c’è chi grida al «tradimento», come ieri il cardinale sudafricano Wilfrid Fox Napier: inammissibile per lui presentare le unioni gay «come se fossero qualche cosa di positivo».
Eppure il tema della “natura” come norma dei rapporti sessuali è stato cancellato dal documento conclusivo, mentre l’approccio al problema del divorzio non intacca certo il principio dell’indissolubilità del matrimonio, ma sposta lo sguardo sulla misericordia di Dio capace di offrire un viatico a chi ha sbagliato. Dopo il Sinodo ce ne sarà un altro — dice Francesco fiducioso nei lavori in corso — come chi guida un organismo politico che ha i suoi tempi di reazione, le sue maggioranze e minoranze, le alleanze e le ostilità interne.
I tradizionalisti si erano mossi per tempo con un libro-manifesto contro ogni apertura a gay e divorziati. L’avevano sottoscritto cinque cardinali, Müller, Burke, Caffarra, Brandmüller e De Paolis. E l’arcivescovo di Milano, Scola aveva preso posizione dalla loro parte. Il fronte dell’opposizione ha cercato l’appoggio di Benedetto XVI dal suo ritiro, ma il pontefice dimissionario, come ha rivelato ieri Claudio Tito su queste pagine, si è sottratto alla richiesta con determinazione, chiudendo a ogni possibilità di aprire una divaricazione che avrebbe avuto clamorose conseguenze sul Sinodo. Le “animate discussioni” e il “movimento degli spiriti”, caro alla concezione gesuitica della Chiesa di Bergoglio, non si spingerà dunque fino a un duello tra leader. L’omosessualità esce dalla condizione dottrinaria di “disordine morale”, anche se la nuova dottrina non è ancora scritta e aspetta di trovare un numero di voti sufficiente per diventarlo, nel corso del processo deliberativo che prosegue fino al prossimo appuntamento assembleare, da qui a un anno.
La dottrina e la teologia della Chiesa mostrano di poter cambiare, manifestandosi come un fatto nel tempo, così come nel diritto la scuola giusnaturalistica un giorno ha lasciato il passo alla scuola storica. Non è d’altra parte una novità per una entità che ha visto concili, guidati da imperatori come Costantino o Giustiniano, scrivere il Credo e anatemizzare eresie. Non sappiamo ancora se sia prematuro spingere il paragone fin là. Certo è un segno eloquente della svolta, il commento di un cardinale come il filippino Luis Antonio Tagle, giovane di grande spicco, e finora molto cauto, secondo il quale «è tornato a soffiare lo spirito del Concilio».

La Stampa 20.10.14
Bonino: “All’Occidente serve l’intesa con l’Iran sul nucleare”
L’ex ministro degli Esteri: decisivo per un processo di stabilizzazione regionale
di Antonella Rampino


È appena tornata dall’Iran, dove con un gruppo di esperti di Medio Oriente europei ed arabi organizzato dall’European Council on Foreign Relations ha avuto un briefing di due ore e mezza con il ministro degli Esteri Zarif. Ma dal paese del quale da ministro degli Esteri italiano fu la prima, in Europa, a captare il forte segnale di cambiamento politico con la vittoria dei riformisti, Emma Bonino torna con un allarme: «Se i negoziati sul nucleare non andassero a buon fine si brucerebbe l’unica reale possibilità di iniziare un processo di stabilizzazione dell’intera regione».
Si deve chiudere entro il 24 novembre a Ginevra. È una preoccupazione che ha percepito in Iran, il ministro Zarif vi ha fatto cenno?
«Tutt’altro. Zarif ci ha esplicitamente detto che comunque il governo dell’Iran procederà normalmente. Ma da molti segnali si capisce invece che se non si chiude l’accordo sul nucleare quello sarà il punto di non ritorno. Si sente che la pressione dei conservatori sul governo riformista, su Rohani e lo stesso Zarif, è fortissima. Si può ripetere quello che accadde con Khatami, quella stessa finestra di opportunità si può richiudere. Allora dopo Khatami ci furono otto anni di Ahmadinejad. L’Occidente non può permettersi che la storia si ripeta. Anzitutto perché l’Iran è un grande paese, ed è uno dei pochissimi paesi islamici che non è anti-occidentale né anti-americano».
È stato scritto più volte che la Guida Suprema, e capo dei falchi conservatori, Ali Khamenei avrebbe «concesso» tempo ai riformisti fino alla conclusione dei negoziati 5+1. Cosa potrebbe succedere se la trattativa saltasse?
«Vediamo cosa accadrebbe se andasse in porto. Ovviamente è auspicabile un serio accordo, con monitoraggio affidabile. Dopo, si aprirebbero possibilità di dialogo con un attore di grande rilevanza, per non dire con il protagonista, in tutta la regione, dall’Afghanistan al Libano, paesi niente affatto stabilizzati, chiamandolo alle proprie responsabilità anche e soprattutto per Siria ed Iraq. E naturalmente, nella lotta all’Isis. I droni possono essere una tattica, ma non una strategia: se diciamo che il Califfato è l’incarnazione dell’ideologia sunnita, l’ideologia non è con le bombe che si batte».
Non starà dicendo che occorre trovare un accordo a tutti i costi con l’Iran...
«Niente affatto. Serve tutto fuorché un accordo purché sia, e infatti Kerry e Ashton stanno definendo una road map per arrivare al 24 novembre. E con Zarif avranno il primo incontro già sabato 25 ottobre. Ma occorre fare ogni sforzo per trovare un punto di mediazione, e tenere presente alcuni punti. L’Iran, l’accordo contro la proliferazione che altri non hanno sottoscritto, l’ha firmato. E i punti di discussione, anzitutto il numero delle centrifughe e il tipo di arricchimento nucleare, sono sostanzialmente gli stessi dai tempi di Khatami».
Insomma, lei sottolinea le responsabilità dell’Occidente, che deve evitare di ripetere gli stessi errori.
«E deve farlo non per generosità verso l’Iran, ma per se stesso, perché la carta di un accordo serio con l’Iran è l’unico possibile elemento cardine di un processo di stabilizzazione dell’intera regione. La posta in gioco è questa. Quello che temo, è che l’Occidente resti fermo su alleanze che ha ormai da vent’anni, e che in vent’anni non ci hanno portato da nessuna parte».
È all’Arabia Saudita che pensa?
«L’odio sunnita-sciita non si è mai spento, è storico, culturale, religioso e geopolitico. Adesso è in atto una sorprendente alleanza tra Arabia Saudita ed Israele, forse momentanea e fragile ma molto efficace sul Congresso Usa al quale Netanyahu ha detto che il problema non è l’Isis ma l’Iran. Il tutto in uno scenario mediorientale nel quale ogni Paese segue la propria agenda mentre si bombarda l’Isis. Dobbiamo invece considerare una differenza fondamentale: i sunniti vogliono un Islam politico, gli sciiti in Iran hanno scelto la via delle elezioni, una forma di democrazia islamica. È questo, certo, che terrorizza le monarchie del Golfo».
Eppure ricordo di aver sentito Zarif raccontare qui a Roma, a porte chiuse, di un incontro con i sauditi nel quale s’era trovato un accordo di non-interferenza...
«Già, ma poi l’Arabia Saudita ha abbassato il prezzo del petrolio, mettendo in difficoltà anche Russia e Stati Uniti. Non mi pare una coincidenza...».
Lei teme la pigrizia europea. Ma quali sono le posizioni su questa partita nella Ue, stante che l’Italia è tagliata fuori dal negoziato?
«Mi pare ci sia una certa rigidità francese, mentre gli inglesi stanno negoziando per riaprire l’ambasciata a Teheran. La Germania è maggiormente consapevole della posta in gioco e della complessità dell’intero dossier mediorientale, e punta molto sulla diplomazia».

Repubblica 20.10.14
“Chi tradisce è capace di cambiare il mondo”
La provocazione di “Giuda”, il nuovo libro di Amos Oz: “Solo rinnegando si può migliorare”
Si arrabbieranno per un personaggio, ebreo amico degli arabi, schierato contro l’idea di Stati nazionali
intervista di Wlodek Goldkorn


Oz, attraverso le voci e i silenzi dei suoi personaggi, mette in scena una specie di thriller esistenziale e ideologico: dalla riflessione sul senso dell’esistenza dello Stato d’Israele e su ogni utopia di redenzione che finisce inevitabilmente nel sangue, al rapporto tra ebrei e Cristo, dalla domanda su cosa significhi essere figli che come il biblico Isacco o i contemporanei soldati corrono il rischio di essere sacrificati dai padri, alla meditazione sulla solitudine senza rimedio. Ma prima di tutto Giuda è un potente elogio del tradimento. «Perché», dice l’autore in questa conversazione, «solo chi tradisce, chi esce fuori dalle convenzioni della comunità cui appartiene, è capace di cambiare se stesso e il mondo».
L’azione si svolge a Gerusalemme, durante tre mesi d’inverno fra il 1959 e il 1960. Piove e fa freddo. Ogni tanto si sentono gli spari dei militari della Legione araba appostati sulla linea del cessate il fuoco che divide la città. Il protagonista è uno studente che sta perdendo la fede; nel proprio futuro personale, nel socialismo e nel sionismo. In una specie di viaggio interiore incontra un maestro disilluso ma non cinico, una donna che gli farà da madre e amante e due fantasmi: di un uomo che non voleva la nascita d’Israele e di un giovane morto perché Israele viva.
Cominciamo dall’inizio, da Gesù e Giuda, tabù nell’universo ebraico. Un grande scrittore yiddish Sholem Asch nel 1939 li raccontò in un romanzo: finì in bufera, con una specie di anatema.
Shemuel Asch è anche il nome dello studente, protagonista del suo romanzo.
«È solo una citazione. Il Giuda di Asch tradisce perché ubbidisce a una richiesta precisa rivoltagli da Cristo. Il mio Giuda invece crede in Gesù più di quanto Gesù crede in se stesso. Il mio Cristo non vuole farsi crocifiggere, ha paura, gli piacerebbe abbandonare Gerusalemme e tornare nella sua Galilea, mentre Giuda è convinto che solo con Gesù sulla croce il mondo possa essere redento; dei trenta denari non gli importa niente. Detto questo: Gesù era un uomo meraviglioso, amato e pieno di amore, ma anche ingenuo. È davvero possibile amare l’umanità intera?».
Lei come risponde?
«Io faccio il romanziere, invento i personaggi. Uno di questi risponde: “Si possono amare al massimo cinque, sette persone”. Chi pensa di amare l’umanità intera, si mette su una china pericolosa».
Comunque molti ebrei la contesteranno per l’empatia nei confronti di Gesù, per aver revocato Giuda, con cui gli antisemiti da sempre identificano gli ebrei....
«Penso che i patrioti sionisti saranno arrabbiati per un altro personaggio che ho inventato: Shaltiel Abrabanel».
Un ebreo di terza generazione a Gerusalemme, amico degli arabi, che si oppone alla nascita dello Stato d’Israele e viene accusato di tradimento. Abrabanel dice: “Stiamo per fondare un piccolo staterello che sarà condannato a un eterno ciclo di violenza e odio”...
«Secondo lui l’idea di un mondo diviso in Stati nazionali è anacronistica. Abrabanel faceva parte di un’epoca precedente, ma forse era profeta del tempo a venire. E per quanto riguarda il tradimento: chi porta al mondo una cosa nuova, tradisce le cose vecchie. Traditore era il profeta Geremia, e per gli ebrei Gesù. E lo sono stati Lincoln, De Gaulle, Ben Gurion agli occhi della destra, perché il fondatore del nostro Stato ha rinunciato nel 1948 a metà della Terra d’Israele. Traditore è stato Rabin. E l’hanno ammazzato. Anche io sono stato più volte accusato di essere un traditore. Per me è come una medaglia al merito».
Parliamo del disincanto. Nel- le prime pagine di Giuda lei cita due romanzi. Il primo, Il dottor Zivago di Boris Pasternak, è un’epopea che toglie ogni patina di eroismo alla Rivoluzione bolscevica. Il secondo, Le giornate di Ziklag , è un un’opera dello scrittore israeliano S. Izhar, pseudonimo di Izhar Smilanski, e dove la guerra d’indipendenza del 1948 viene raccontata come una serie di riflessioni intime sulla paura, sull’egoismo, su come è assurdo morire e su come i luoghi storici della patria siano invenzioni posticce. Il suo protagonista poi, è disilluso da Stalin, dal sionismo, spera un po’ in Fidel Castro, ma con scarsa convinzione...
«Sia per quanto riguarda la rivoluzione comunista che quella sionista, racconto il risveglio dopo la sbornia, quando l’euforia è finita e la testa fa male. Ma oltre la Storia e la teologia, ho narrato una piccola vicenda intima; di un ragazzo che non ama i suoi genitori e che ha sempre voluto avere un altro padre e un’altra madre. E chi di noi non ha mai sognato di avere altri genitori? Anche in questo desiderio c’è elemento di tradimento».
Parlando dei padri e figli. Nel libro di Izhar che lei cita, un protagonista maledice Abramo per il sacrificio di Isacco.
Nel suo, un protagonista maledice se stesso per aver mandato il figlio a morire per la patria. Corrisponde al pensiero di Oz?
«Ho scritto un libro polifonico e in cui c’è chi pensa che Ben Gurion sia stato un falso Messia portatore di disgrazie e c’è invece chi considera Ben Gurion il più grande leader ebreo della storia. Ogni tesi ha una sua antitesi. E io sono parzialmente d’accordo con ciascuno dei protagonisti. Le mie posizioni politiche le ho espresse in centinaia di pezzi giornalisti».
La domanda non riguardava le sue opinioni politiche, ma la sua posizione esistenziale rispetto al mito di Abramo e il sacrificio dei figli..
«Dal punto di vista esistenziale sono d’accordo con chi maledice Abramo. Ma sono pure d’accordo con chi pensa che nel 1948 il sacrificio era necessario. Non ho scritto un romanzo a tesi».
E allora, una domanda diretta: c’è nel sionismo un elemento di messianesimo senza il Messia? Un tentativo di accelerare i tempi che secondo la tradizione ebraica porta all’apostasia o alla catastrofe?
«Un elemento così esiste. C’è un passaggio nel libro in cui un protagonista dice: “Il sionismo è un movimento laico, però usa energie mistiche, fideistiche”. E un altro gli risponde: “Un giorno queste energie diventeranno padrone”... Ma si ricordi la lezione di D. H. Lawrence: per scrivere un romanzo bisogna saper presentare con uguale credibilità cinque o sei punti di vista diversi».
Quando si cerca la perfezione si finisce per distruggere il mondo?
«È così. È quello che dice con un paradosso un protagonista: “In ogni generazione i popoli si alzano per redimerci e non c’è nessuno che ci salvi dalle loro mani”. E senza svelare la fine: anche Giuda comprende di aver fatto un errore a pensare che Gesù non era solo un essere umano, ma anche Dio».

Repubblica 20.10.14
Una fila di tombe senza lapidi. Qui sono stati sepolti 22 palestinesi giustiziati per aver passato notizie a Israele L’altra faccia della guerra
Le vite rubate della Striscia così a Gaza si muore da spia
di Fabio Scuto


GAZA IL SOLE d’autunno illumina un cimitero di campagna compresso tra una fattoria e una fabbrica di salsa di pomodori, non distante da Khan Younis. Scavata nella sabbia c’è una fila di tombe senza lapidi. Un letto di cemento grezzo anonimo di due metri per uno, senza un nome, senza una data. Sono le tombe dei rinnegati, delle presunte spie giustiziate per strada dai miliziani di Ezzedin al Qassam alla fine della guerra dei 50 giorni che questa estate ha devastato la Striscia. Ventidue palestinesi sospettati di aver passato informazioni sono stati uccisi davanti alla gente per la strada. Li hanno seppelliti in queste tombe senza nome perché le famiglie, per vergogna, non hanno chiesto indietro i corpi. Dal 2007, quando comanda Hamas nella Striscia, sono 57 le presunte spie palestinesi giustiziate per strada.
Israele ha sempre fatto affidamento sui “collaboratori” per colpire i miliziani palestinesi. Interi apparati dell’intelligence dell’Esercito israeliano, come l’Unità 8200, sono votati solo a questa missione: raccogliere informazioni, frugare nelle vite della gente di Gaza. Una ricerca finisce per coinvolgere la vita persone innocenti, che nulla hanno a che vedere con il terrorismo di Hamas, ma che vengono schedate per preferenze sessuali, lo stato di salute e quello finanziario. Informazioni utili solo per estorcere altre informazioni e arruolare collaboratori. Perché non ci sono volontari in questo mondo di spie. Il fenomeno è carsico ma molto più numeroso di quel che si pensi, si stima che siano diecimila fra Gaza e la Cisgiordania. Un “ modus operandi” denunciato con una lettera pubblica lo scorso mese 43 ufficiali e soldati dell’Unità 8200 stanchi di «rubare le vite degli altri».
La storia di Fadi Qatshan, 26 anni, la racconta suo padre Alì seduto sulla sua carrozzella elettrica sull’uscio di casa, un antro di cemento grigio nel campo profughi di Nusseirat dove abita con la famiglia. Alì ripercorre il periplo del figlio, le sue ansie, le sue paure, la sua scelta e infine la sua morte. Fadi era malato di cuore e in un lungo giro per ospedali palestinesi a Gaza e in Cisgiordania i medici possono solo constatare che ha bisogno di un’angioplastica ma non hanno strutture per quel tipo di intervento. Fadi approda così per motivi umanitari nel maggio 2013 al Tel Hashomer, una delle eccellenze del sistema sanitario israeliano a Tel Aviv. Subisce un doppio intervento che riapre le sue arterie e resta ricoverato per 45 giorni. «Alla dimissione», racconta il padre Alì, «gli hanno dato una lettera dell’ospedale che attestava il fatto che avesse bisogno di un altro intervento al cuore dopo un mese, è il requisito per ottenere il visto di uscita da Gaza». Dopo una settimana dal ritorno a casa riceve una telefonata da un cellulare israeliano, la voce al telefono si qualifica come un ufficiale dell’intelligence dell’Idf e dice: se vuoi tornare in ospedale devi lavorare per noi, pensaci, basta che richiami questo numero. Fadi chiude terrorizzato la conversazione e racconta tutto al padre. Il 2 luglio 2013 chiede attraverso il Liaison Office israeliano il permesso di uscita allegando la richiesta dell’ospedale, richiesta respinta. Una nuova richiesta viene presentata il 27 agosto 2013 e il 9 novembre, respinte. L’attestazione dell’ospedale scade, e la famiglia via fax ne ottiene un’altra che fissa la data di ricovero per il 6 gennaio 2014. Ma Fadi Qatshan, il ragazzo di Nusseirat che non voleva diventare una spia, viene dichiarato morto per arresto cardiaco il 16 novembre 2013 all’ospedale di Deir Al Balah. «Se avesse detto sì forse sarebbe ancora vivo», dice Alì mostrando il fascio di carte che documenta questa tragedia, «ma noi saremmo vissuti nel terrore, nella paura e anche nella vergogna».
La chiameremo Suad perché non vuole dire il suo vero nome. Cinquant’anni mal portati, volto scavato e scarno, occhi grandi mai fissi su un punto, mani con un leggero tremolio. L’odore della paura nelle vesti modeste. Suo marito era uno dei sei “collaborazionisti” uccisi da Hamas per strada nel dicembre del 2012. Lei stessa, madre di sette figli, è stata arrestata per favoreggiamento e incarcerata. Condannata a sette anni è stata “graziata” lo scorso dicembre, i giudici di Hamas sono stati clementi solo per la sua prole. «Lui — racconta a proposito del marito — era già nelle mani degli israeliani prima del 2005, prima del loro ritiro. Aveva il permesso di lavoro in Israele e passava regolarmente per il valico di Erez, ma poi gli venne revocato». Spinto per necessità economica a tradire le confessò: «Non faccio del male a nessuno, passo qualche numero di telefono, un nome o un’informazione su un tunnel». Nel 2008 anche Suad diventa una “informatrice”, quando per la malattia grave di uno dei figli ottiene il permesso di andare in un ospedale israeliano. Descrive questi anni come un inferno, di paura, rabbia e impotenza. Al marito nel 2011 venne descritta un’auto e la targa: doveva chiamare “un certo numero” quando l’auto sarebbe passata nella strada principale. Guidare l’eliminazione di due boss locali di Hamas in quell’auto fu l’inizio della fine, Suad e il marito furono arrestati qualche mese dopo. «Ci hanno rubato la vita — dice adesso la donna — mio marito è stato costretto, non avrebbe mai fatto del male a nessuno».

il Fatto 20.10.14
L’ex leader sovietico Gorbaciov
“Non vogliamo muri ma non umiliate i russi”
intervista di Leonardo Coen


Nell’estate del 1989, al termine di laboriose trattative con il cancelliere Helmut Kohl, il presidente sovietico Mikhail Gorbaciov si sentì chiedere durante la conferenza stampa: “Cosa può dire a proposito del Muro di Berlino? ”. Gorbaciov non ebbe tentennamenti. Con il suo russo dall’accento provinciale (è nato nella regione di Stavropol tra il mar d’Azov e il Mar Caspio), rispose semplicemente che “nulla è eterno”. Che “il Muro può sparire quando spariscono i presupposti per averlo costruito”. E aggiunse: “Non vedo alcun problema in questo”. Il Muro di Berlino cadde la sera del 9 novembre di quello stesso anno. Migliaia di berlinesi della Ddr attraversarono in massa la porta di Brandeburgo e si ritrovarono a Berlino Ovest, che gli apparve come il paese delle meraviglie. Fu una straordinaria festa popolare. L’apertura del Muro divenne una sorta di spartiacque politico simbolico. La riunificazione della Germania avrebbe accelerato il processo di coesistenza pacifica tra Est e Ovest, la fine della guerra fredda, e la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Protagonista di questo epocale cambiamento fu Gorbaciov, padre delle riforme che si basavano su un principio base, quello della novoje mishlenje, il “nuovo modo di ragionare” che ebbe come conseguenze la glasnost (trasparenza) e la perestroijka (ricostruzione).
Venticinque anni dopo - un quarto di secolo è un pezzo di Storia decisivo - l’ultimo presidente dell’Urss rievoca quel tempo in un’intervista pubblicata dal quotidiano Rossiskaja gazeta di Mosca (organo ufficiale del governo della Federazione russa) e ci tiene a sottolineare che è contrario a qualsiasi tipo di muro. Purtroppo, se il Muro di Berlino è scomparso, altri ne sono apparsi in tutto il mondo (per complessivi 8mila chilometri) e uno lo vorrebbero innalzare gli ucraini alla frontiera con la Russia: “Sarebbe meglio se quelli che pianificano questa costruzione ci ripensassero”, è il consiglio di Gorbaciov, “siamo troppo vicini, in tutti i sensi. Non ci sono problemi insormontabili tra di noi. Però, tanto dipenderà dalla società civile e dai mass-media. Se si impegnano a disunirci e ad approfondire la lite (Gorbaciov usa un termine russo popolare, svara, che guarda caso ha radici comuni con l’ucraino e significa litigio sanguigno, ndr.), sarà un disastro. Di esempi ce ne sono, purtroppo. Quindi mi appello all’intelligencija perché si comporti in modo consapevole e responsabile”.
LA QUESTIONE UCRAINA ricorda i dissidi tra la dirigenza della Germania Orientale e quella sovietica che precedettero la caduta del Muro di Berlino. Allora, in quell’estate fatale dell’89, “né io né Kohl aspettavamo che tutto accadesse così presto, tantomeno ci attendevamo il crollo del Muro a novembre... succede che la Storia affretti il passo. Essa punisce chi è in ritardo. Ma punisce ancor più severamente coloro che si mettono sulla sua strada. Sarebbe stato un grave errore tenere la Cortina di Ferro”. Parole simili Gorbaciov disse a Erich Honecker, segretario generale del partito comunista della Ddr, “chi arriva troppo tardi, la vita lo punisce”. Era il 7 ottobre del 1989, la Ddr festeggiava il quarantesimo anniversario della sua creazione con una grande parata militare. Ma la sera ci furono manifestazioni spontanee un po’ dappertutto, al grido di “Gorby, aiutaci! ”. E in effetti, ormai, tra la dirigenza della Repubblica Democratica tedesca e quella sovietica c’erano sostanziali divergenze, i tedeschi orientali criticavano apertamente la perestroijka e la glasnost di Gorbaciov. Eppure, sostiene l’ex presidente sovietico, non ci furono pressioni di Mosca nei confronti di Postdam: “II processo di riunificazione della Germania è stato pacifico e non ha portato ad una pericolosa crisi internazionale. Io credo che un ruolo lo ebbe l’Urss. Quando l’evolversi della situazione prese un’accelerazione per tutti inaspettata. Il governo sovietico uniformemente decise di non intromettersi nei processi interni della Ddr”. Una scelta ben precisa, per esempio, fu quella di non mobilitare le forze russe dislocate nella Ddr, “anche oggi sono sicuro che quella decisione fosse giusta”.
L’OTTANTATREENNE Gorbaciov rivisita il passato pensando al presente. Nel 1989 abbiamo risolto i problemi. Potremmo ripeterci anche oggi, è il senso di questa intervista. Venticinque anni fa, “un ruolo fondamentale lo ebbero i tedeschi stessi. Non solo per le loro manifestazioni di massa a favore della riunificazione, ma anche per il fatto che negli anni del Dopoguerra, sia i tedeschi occidentali che orientali dimostrarono di aver imparato la lezione, e hanno provato che ci si poteva fidare di loro. Noi del governo sovietico sapevamo che i russi e i popoli dell’Unione Sovietica capivano la voglia dei tedeschi di vivere in un unico stato democratico”. Gorbaciov a ragione si ritiene l’artefice di una pace mondiale suggerendo la soluzione per i gravi problemi attuali, ossia la necessità di ritrovare il dialogo che porta “a trovare i punti di convergenza”. “Voglio inoltre ricordare che anche altri protagonisti del processo di regolarizzazione della questione tedesca mostrarono responsabilità ed equilibrio. Intendo i paesi della coalizione anti-Hitler, cioè Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Non è un segreto il fatto che François Mitterand e Margaret Thatcher avessero dei grossi dubbi a proposito dei tempi della riunificazione. La guerra aveva lasciato il segno. Ma quando tutti i dettagli di questo processo vennero concordati, firmarono i documenti per mettere il punto definitivo nella storia della guerra fredda”. Perché, spiega Gorbaciov, la riunificazione non era un processo isolato, ma parte del “processo di cessazione” della Cold War. Anzi, rivendica la paternità di tutto ciò: “La strada l’aveva aperta la nostra perestroijka e la democratizzazione del nostro Paese. Senza, l’Europa poteva rimanere congelata ancora per decenni. Uscirne, poteva essere molto più difficile”. Con malcelato orgoglio, l’uomo che ricevette nel 1990 il premio Nobel per la Pace precisa che fu proprio il “nuovo modo di ragionare” (novoje mishlenje) a determinare la grande svolta politica dell’Urss: “Era la consapevolezza di avere minacce globali, al tempo in cui la minaccia del conflitto nucleare poteva essere rimossa solo con gli sforzi di tutti. Significa che si dovevano costruire relazioni in modo nuovo e diverso, avere il dialogo, cercare la via per abolire la corsa del riarmo. Significava riconoscere la libertà dei popoli di scegliere, ma al tempo stesso il dovere di considerare i diversi interessi, di costruire la collaborazione, di stabilire relazioni in modo che il conflitto in Europa diventasse impossibile”. Questi principi, sostiene Gorbaciov, hanno formato la base degli accordi di Praga del 1990 “per costruire la nuova Europa”, documento che per lui è di “massima importanza storica”. Fu sottoscritto da tutti i paesi europei, dagli Stati Uniti e dal Canada. Prudente, ci tiene a distinguere l’oggi dall’ieri: “Non voglio confrontare la generazione dei leader di quei tempi ai leader attuali. Ma rimane il fatto che sviluppare i punti programmatici di allora, concretizzarli, creare le strutture, i meccanismi di prevenzione e di collaborazione come il Consiglio di Sicurezza per l’Europa” sono rimasti senza seguito, “tutto ciò non è stato implementato. Lo sviluppo europeo ha avuto un carattere unilaterale, favorito anche dalla debolezza della Russia negli anni Novanta”.
“OGGI SI DEVE CONSTATARE l’evidenza di una crisi della politica europea e mondiale”, è la sintesi della sua analisi, un leit motiv che lo ha sempre accompagnato in tutta la sua vita. Cominciava sempre i discorsi così: “Tovarish, la situazione internazionale è tesa... ”. Una delle ragioni di questa crisi è che “i nostri partner occidentali non considerano il punto di vista della Russia e i legittimi interessi della sua sicurezza. A parole incoraggiavano la Russia, specialmente durante gli anni di Eltsin, di fatto non era così. Mi riferisco soprattutto all’espansione della Nato, all’installazione dello scudo antimissili, alle azioni dell’Occidente nelle regioni di importanza strategica per la Russia: Jugoslavia, Irak, Georgia e adesso Ucraina. Ci dicevano, alla lettera: questi non sono affari vostri. Quindi si è formato un ascesso, che è esploso. Io suggerisco ai leader occidentali di analizzare tutto questo invece di accusare di tutto ciò la Russia”. C’erano state delle discussioni con gli americani, dopo la riunificazione della Germania, i russi chiedevano che non si avanzassero le forze Nato sul territorio della ex-Ddr: “È stato fatto tutto quello che era necessario per legalizzare questo impegno politico... nell’accordo finale con la Germania è scritto che sul territorio orientale non vengono create strutture militari né installate arme di distruzione di massa. L’accordo è stato rispettato e lo è ancora adesso. Quindi smettete di descrivere Gorbaciov come un ingenuo, uno che è stato preso in giro. Se fosse stata ingenuità, è venuta dopo, quando ci siamo posti la domanda sull’espansione della Nato e quando all’inizio la Russia non aveva nulla in contrario. La decisione degli Usa, a proposito dell’espansione a Est è del 1993. Io dissi subito che era un grosso errore. E che era l’opposto di tutte le assicurazioni date nel 1990. Ma, per quel che riguarda la Germania, gli accordi sono rispettati”. Rispetto che dovrebbe essere la cifra degli accordi di Minsk del 5 e del 19 settembre 2014, il cessate il fuoco nell’est dell’Ucraina: “La situazione è molto fragile. Il regime di cessate il fuoco è spesso violato. In questi ultimi giorni c’è l’impressione che questo processo sia avviato. Stanno creando la zona demilitarizzata, ritirano le armi pesanti. Arrivano gli osservatori Ocse, tra loro alcuni sono russi. Se si riesce a stabilizzare, questo sarà un traguardo importante. Però, è solo il primo passo. Il rapporto tra Russia e Ucraina è stato rovinato. Non
possiamo permettere che i due popoli diventino l’uno estraneo all’altro. Un’enorme responsabilità cade sui leader, i presidenti Putin e Poroshenko. Loro devono dare l’esempio. Dobbiamo abbassare il fuoco delle emozioni. Chi ha ragione e chi ha torto, lo vedremo dopo. Adesso è importante stabilire il dialogo sui problemi concreti. Riportare alla normalità la vita delle regioni che hanno subìto più di tutti, lasciando per il momento le questioni sullo status etc... ”. Due, le strategie da seguire. Una, riguarda Russia ed Ucraina. Si devono sedere allo stesso tavolo e discutere ogni tipo di problema. L’altra, riguarda Russia e l’Occidente: “Dobbiamo uscire dalla logica delle accuse reciproche e delle sanzioni. Secondo me, la Russia questo passo l’ha già fatto. Adesso tocca ai nostri partner. Credo che si debbano abolire innanzitutto le sanzioni personali. Come si può intavolare un dialogo se voi punite le persone che prendono le decisioni che hanno influenza sulla politica? ”.

il Fatto 20.10.14
Il nuovo Est
Berlino è sexy ma Budapest si scopre nera


IL PADRE DELLA PACE
Mikhail Gorbaciov è nato il 2 marzo 1931. Nel 1985 raggiunse il potere in Unione Sovietica avviando rapidamente le riforme che fecero crollare la Cortina di Ferro. Nel 1991 un tentativo di golpe avviò il suo declino fino alle dimissioni del dicembre successivo. Ha ottenuto il premio Nobel per la Pace.

IL MURO DI BERLINO
Il Muro di Berlino ha segnato per 28 anni la divisione tra Est e Ovest. Era un sistema di fortificazioni fatto erigere dalla Repubblica Democratica Tedesca nell’agosto 1961. Fu abbattuto dal popolo nella notte del 9 novembre 1989.

È rimasto un misto di folklore, nostalgia, anzi “nostalghia”, come il titolo del film (1983) di Tarkovskij che fondeva per immagini la cultura europeista e quella russa, e un po’ di rancore. Venticinque anni dopo quel che resta del Muro dipende dall’immaginario di chi guarda, ovvero da che lato lo si guarda. Berlino resta sexy seppur meno povera rispetto al 2003 quando il sindaco Wowereit (che proprio ieri ha annunciato che se ne andrà dopo 13 anni di regno, sconfitto dallo scandalo del nuovo aeroporto della capitale della riunificazione) coniò l’espressione per la città più attraente per i giovani d’Europa.
SUSSIDI PER (QUASI) TUTTI, birre a basso costo, cosmopolitismo all’“orientale” (prima comunità di Berlino sono i turchi) per la metropoli fino a 25 anni fa teatralmente divisa in due, simbolo materiale della convivenza impossibile delle due ideologie padrone dell’Europa (secondo le reciproche accuse), la cui tetra patina di regime si è stinta nei colori della cultura underground di cui la città-stato è divenuta capitale europea. Check Point Charlie e il “ponte delle spie” sono ormai luoghi del luna park del regime comunista conosciuti e citati come le spetacchianti Trabant, simbolo classico della povertà tecnica rivestita di arroganza dal regime di Hoeneker, quello del bacio in bocca con Breznev immortalato in una sezione del Muro, molto più conosciuto e ricordato delle vittime della Stasi, quelli che spiavano la vita di tutti gli altri (e ne conservano ancora i segreti, da “riciclati” dopo la riunificazione).
Stesso mesto folklore, e auto simili, nel picnic paneuropeo, quell’happening “auto-proclamato” dai funzionari ungheresi e austriaci il 19 agosto del 1989 per sancire che una falla nella Cortina di Ferro, era e sarebbe rimasta aperta. L’Ungheria era secondo il detto comune vigente nei paesi del “Patto di Varsavia” “la baracca più allegra del lager”, che si estendeva dalle vaste terre dello sterminato “arcipelago Gulag” sovietico all’Europa Orientale, propaggine finale delle pianure russe per secoli incrocio di popoli, regni, padroni e culture (tra cui quella ebraica che il nazismo andò capillarmente a distruggere a est del III Reich) e che adesso sta riconquistando i suoi spazi a Berlino.
ADESSO BUDAPEST È PREDA del premier Orban e degli ancor più xenofobi e incazzati con l’Europa di Bruxelles di Jobbik, il “movimento per l’Ungheria migliore” che fa vergognare il Parlamento europeo, sempre più meta dei nazionalisti “euro-scettici” (a dir poco) provenienti dai paesi dell’ex blocco sovietico, nelle cui vene nelle cui parole scorre una viscerale opposizione e diffidenza per il passato recente, e la voglia di recuperare tradizioni e storie delle più o meno false glorie medievali. Altrettanto sentita è dunque la vicinanza con l’America, intesa come libertà assoluta, soprattutto di mercato, dopo i decenni di scaffali semi-vuoti o di mercanzie di Stato. “Eravamo poveri, ma eravamo uniti, ci aiutavamo l’un l’altro, c’era la solidarietà contro i russi, scomparsa in un sol giorno”, mi sintetizzò efficacemente nell’estate del 1990 una ragazza di Dresda il giorno dell’apertura del negozio Nikon nel centro ancora ingombro delle macerie lasciate apposta dai sovietici prodotti dai bombardamenti della II guerra mondiale.
DAL SOCIALISMO al turbo-individualismo in pochi mesi. L’eccesso come regola, la possibilità di scelta come credo, è stata per due decenni la stella polare degli ex alleati disgregati di Mosca, dove ampie minoranze russe sono passate da dominatrici a mal sopportate (in primis nei Paesi baltici). “La Nuova Europa”, la definiva dieci anni fa Donald Rumsfeld, battagliero segretario alla Difesa dell’America di Bush jr, contrapposta alla Vecchia Europa reticente a seguire la Casa Bianca nella guerra senza quartiere al terrore post-11 settembre. Molto più affidabili e volenterosi i nuovi alleati provenienti dall’ex est sovietico, gli stessi che ora vorrebbero lo scontro aperto contro la Russia per la “spartizione ucraina” portata avanti dall’odiato Putin, lo zar che vuol resuscitare i fasti (e i confini) dell’Urss, ex agente del Kgb, che iniziò la sua carriera a Dresda e che ha detto che nell’89 “difese con le armi in pugno la caduta del muro”.

La Stampa 20.10.14
I fragili ombrelli di Hong Kong
di Roberto Toscano


Le strade di Hong Kong sono teatro, ormai da settimane, di una protesta pacifica di cittadini che chiedono più democrazia e meno autoritarismo. In concreto, esigono – richiamandosi agli accordi sulla cui base nel 1997 la città passò da essere una delle ultime colonie britanniche a far parte della Cina – di potersi governare sulla base di un suffragio universale e diretto. Si scontrano per questo motivo con un sistema elettorale che vede le candidature, in particolare quella per l’elezione del Chief Executive (il governatore che dovrà essere rinnovato nel 2017), sottoposte a un vaglio preventivo da parte di un comitato di Grandi Elettori composto da rappresentanti dei vertici economici e notoriamente allineato sulle posizioni del governo cinese.
Quello che è in gioco, al di là dei meccanismi elettorali, è il difficile equilibrio fra i due aspetti di un assetto istituzionale definito con la formula «Un Paese, due sistemi».
Mentre la protesta di Hong Kong mira non solo a conservare le libertà fin qui preservate anche dopo la riunificazione con la Cina, ma ad ampliarle in una logica di fatto confederale, a Pechino non si vuole abbandonare il meccanismo di vaglio delle candidature, necessario – secondo quanto dichiarato da un alto funzionario del governo centrale – «a garantire che il Chief Executive ami la Cina, ami Hong Kong e tuteli la sovranità, la sicurezza e lo sviluppo del Paese».
La protesta ha suscitato l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. È una protesta giovane (uno dei suoi leaders è un mingherlino e occhialuto diciassettenne, Joshua Wong), pacifica, colorita. È diventata nota come «rivoluzione degli ombrelli», visto che i dimostranti portano ombrelli multicolori, più per proteggersi dai lacrimogeni che dalla pioggia.
Si capisce quindi che sia una protesta che suscita simpatia e anche solidarietà. Ci vuole molto coraggio per opporsi al potere schiacciante di un Paese poderoso, di un governo impegnato con assoluta determinazione a non perdere il controllo su una popolazione di un miliardo e trecento milioni di persone. Nessuno ha dimenticato Tienanmen, e non sono pochi a temere che la repressione, finora esercitata dalla polizia locale, potrebbe – se la situazione degenerasse – essere affidata all’Esercito Popolare Cinese.
Ma anche senza questa ipotesi estrema, possibile ma improbabile dati i costi politici ed economici che comporterebbe per la Cina, le prospettive di successo della «rivoluzione degli ombrelli» appaiono esigue. Lo sono innanzitutto perché gli abitanti di Hong Kong sono molto divisi e anzi, secondo alcuni sondaggi di opinione, si registrerebbe una prevalenza di chi è contrario alla protesta. I gruppi favorevoli al governo centrale sono numerosi (uno dei principali si chiama «Maggioranza silenziosa per Hong Kong»), e sono scesi in piazza con contromanifestazioni imponenti che in alcuni casi sono degenerate in scontri con i giovani della protesta democratica.
Non basta dire, anche se in parte è senz’altro vero, che questi gruppi sono promossi e manovrati da Pechino. Più interessante sembra invece chiedersi chi, nelle strade e piazze di Hong Kong, siano gli uni e gli altri.
Il dato giovanile che caratterizza la protesta è senz’altro importante, ma a questo va aggiunto quello sociale. Il movimento è sostanzialmente un movimento di classe media, e di classe media istruita. A Hong Kong sia i potenti vertici del mondo economico che gli strati meno abbienti e meno colti della popolazione vedono invece con preoccupazione e ostilità una protesta che minaccia la stabilità e la prosperità – stabilità e prosperità che, assieme al nazionalismo, sono la base del consenso che il regime di Pechino continua ad essere in grado di raccogliere. Mentre il grande business teme che più democrazia possa significare instabilità e disordine, il 18 per cento della popolazione di Hong Kong che vive sotto la soglia di povertà non si identifica con una protesta riferita a questioni politico-elettorali e non a tematiche socio-economiche. Vengono in mente la caratterizzazione sociale, e i limiti, delle manifestazioni di Teheran contro la frode elettorale del 2009, e anche le ragioni del sostanziale isolamento minoritario della protesta del 2012 nella piazza Bolotnaya di Mosca contro l’autoritarismo putiniano. Anche in quei casi, la protesta era fortemente caratterizzata dal punto di vista sociale e del livello di istruzione, rivelandosi incapace di costruire – rimanendo minoritaria – più vaste convergenze democratiche sia sociali che politiche.
Speriamo che gli ombrelli di Hong Kong non vengano schiacciati dai carri armati, ma si può comunque prevedere che – purtroppo – finiranno comunque per chiudersi – come le rivoluzioni colorate dell’Est Europa, la protesta moscovita o il «dov’è il mio voto?» di Teheran.

Repubblica 20.10.14
Il simbolo della generazione Occupy
Da Hong Kong al Messico le rivoluzioni degli ombrelli
di Adriano Sofri


FRA i manufatti umani, l’ombrello è dei più antichi e versatili, e il suo rilievo simbolico fu universale. Si legge di un antico sovrano birmano che si attribuiva il titolo di “Re dell’elefante bianco e Signore dei ventiquattro ombrelli”. Da noi oggi, fabbricati in Cina, si comprano da benedetti venditori africani o asiatici al primo accenno di acquazzone, a una tariffa usa e getta. E di colpo i giovani di Hong Kong ne fanno l’insegna della propria impresa.
Messaggi su ombrellini di carta a sostegno della protesta a Hong Kong
IL BELLO delle rivoluzioni è che si trovano i loro simboli per una felice combinazione fra il caso e l’inventiva. A Hong Kong fa caldo, e bisogna proteggersi dal sole. Poi gli agenti speciali, nelle loro uniformi marziane, cominciano a usare spray al pepe e lacrimogeni, e viene fatto di proteggersi dietro gli ombrelli. Poi a un ragazzo, più esilarato degli altri, viene di mettersi a saltare in mezzo alla nube di gas con due ombrelli spalancati, e lo fotografano e lo battezzano “l’uomo-ombrello”, e di lì a poco è già un manifesto planetario.
Un giorno ero al capezzale di Elsa Morante e le dissi che fuori c’era una pioggia noiosa; «Sì — disse — ma gli ombrelli sono bellissimi quando si aprono». Se avesse visto aprirsi gli ombrelli di Hong Kong!
Anche i giovani di Hong Kong sono incerti se chiamare la cosa “rivoluzione” o “movimento”. Il primo nome sembra troppo solenne, e anche troppo canonico, il secondo promette di preservarne la duttilità, ma le cose poi finiscono, o comunque tornano a inabissarsi. Ora che le rivoluzioni politiche, quelle che si proponevano di conquistare il potere, non si fanno più, e così sia, le rivoluzioni si riprendono il loro diritto: che è quello di irridere la menzogna del potere, di denunciarne la violenza, e di proporre, almeno per un po’, un altro modo di vivere insieme. Sbucano all’improvviso, non più come vecchie talpe pazienti che hanno saputo scavarsi la loro occasione: e tuttavia sotterraneamente, misteriosamente si ricordano le une delle altre, senza antenati ed eredi, come nella storia politica, ma per citazioni creative, come nella storia dell’arte. In una delle innumerevoli variazioni grafiche — hanno fatto un concorso per il logo dell’ombrello, con risultati fantastici — c’è un ragazzo con l’ombrello aperto sulla testa che fronteggia la colonna dei carri armati: è una citazione del 4 giugno della Tienanmen, e fissa una parentela con quel meraviglioso giovane di Pechino che ipnotizzò la fila di tank col suo sacchetto di plastica in mano. Così è toccato alla Cina di offrire due immagini delle migliori della storia contemporanea: il giovane che ballava davanti al carro armato nell’89, e i ragazzi degli ombrelli nel 2014. (Però la migliore, quest’anno, è della bambina che estrae dalle macerie di casa a Gaza il libro di scuola). Le rivoluzioni si ricordano l’una dell’altra, senza preoccuparsi di essere in linea.
“Occupy Central” è la traduzione di Hong Kong di “Occupy Wall Street”, e la canzone che ne è diventata l’inno, “Do U hear the people sing …”, viene dal musical sui Miserabili, e le barricate montate ordinatamente con le transenne dai ragazzi di Hong Kong sono cugine di quelle parigine sulle quali muore Gavroche, senza finire la sua canzone. Nel riadattamento in cantonese per la rivoluzione degli ombrelli l’inno dice più o meno: “Nessuno ha il diritto di restare indifferente di fronte alle migliaia di fiammelle di candele che luccicano in ogni mano: noi ci battiamo audacemente per il diritto a votare il futuro che ci appartiene”. Victor Hugo sarebbe stato entusiasta, tanto più se avesse potuto vederlo quel firmamento di telefonini-candela luccicanti sollevati nella notte in tutta la città, e la miriade di ombrelli colorati.
I simboli delle rivoluzioni sopravvivono loro, e le valgono. Sapete perché la rivoluzione portoghese del 25 aprile 1974 si chiama “dos cravos”, dei garofani? Mentre i militari ribelli e la folla occupavano Lisbona, una sontuosa festa di matrimonio in un locale del centro dovette essere rinviata, e i titolari regalarono i garofani che l’avrebbero addobbata ai soldati, che li infilarono nelle canne dei fucili. La rivoluzione dei garofani. In Tunisia si chiamò dei Gelsomini, nel 2010, e l’anno dopo il governo cinese fu così spaventato dal contagio da censurare su Twitter la comparsa della parola: gelsomino. Gli ombrelli hanno qualcosa di più domestico e cattivante, specialmente quando sono rotti, rivoltati, storti, dopo aver fatto da scudo alle botte da orbi delle squadre speciali. Ce n’erano anche nelle fotografie di sabato sugli scontri di Bologna: l’emulazione è veloce, ma l’analogia finiva troppo presto. E ce ne erano a Berlino, dove gli ombrelli sono stati agitati dagli attivisti che manifestavano contro il traffico di essere umani. E infine tra i messicani che chiedevano giustizia per 43 studenti fatti sparire dopo scontri con la polizia.
Per militanti che siano, gli ombrelli sono del tutto non-militari. Nei giorni scorsi, grazie al meticoloso Cottarelli, si è saputo che il regolamento proibisce agli ufficiali di coprirsi dalla pioggia con un ombrello. Regola universale, a quanto pare, visto che anche Obama ha dovuto scusarsi con un cadetto cui aveva chiesto di tenerglielo aperto sulla testa.
L’ombrello è stato a lungo un accessorio femminile, e anche questo ha giovato al movimento di Hong Kong, che li ha scelti colorati, e ne ha mostrato la somiglianza con dei grandi fiori che si aprano e richiudano. La serietà e il coraggio di un movimento che sfida la prepotenza di un impero colossale e lo fa danzando con gli ombrelli, abitandoci sotto e scrivendoci sopra, e drizzandoli a testuggine, ecco un capitolo che il gran libro delle rivoluzioni cucirà con orgoglio tra le proprie pagine. «Altre mani si leveranno e impugneranno le nostre armi», scriveva il Che. «Se un ombrello si strappa — dice uno dei manifestanti di Hong Kong — un altro arriverà a rimpiazzarlo». I tempi cambiano e si fanno la rima. Gli ombrelli poi hanno qualcosa del paracadute, ma di un paracadute alla rovescia, specialmente quando vento o manganelli li rivoltano, e sembrano poter portare le ragazze e i ragazzi in alto, come aquiloni. Hanno anche citato la Grande Rivoluzione Culturale, a Hong Kong: mettendo in mano alla giovane Guardia Rossa dei manifesti di allora che doveva spazzar via il Quartier Generale… un ombrello. E riempiendo la metropoli di minuscoli e minuziosi post-it, versione ingentilita dei tazebao di allora, ed espressione di una moltitudine composta di altrettanti individui manoscriventi. Uno dice: «Sono così arrabbiato che l’ho scritto».
Una moltitudine di persone che ha preso le sue legnate, ha curato la raccolta differenziata, ha fatto della propria città minacciata un’arca di Noé, e l’ha provvisoriamente salvata dal diluvio. Una Fahrenheit degli ombrelli.

La Stampa 20.10.14
Henry Miller
L’autobibliografia di un grande scrittore
di Mario Calabresi

qui

il Fatto 20.10.14
I 23 giorni della città di Alba. Resta solo il ricordo
Il 10 ottobre 1944 i partigiani conquistano la città piemontese, ma il governo dura solo fino al 2 novembre quando cedono ai fascisti
A difenderla c’era un ventenne dinoccolato: Beppe Fenoglio. Dopo 70 anni del mondo dello scrittore è rimasto poco
di Michele Concina


C’è chi ne ricava un sacco di soldi, dalle Langhe. Da pochi giorni è finita la vendemmia, da qualche settimana la raccolta delle nocciole. Alla fiera di Alba compratori di mezzo mondo si disputano i tartufi bianchi, a prezzi che partono da duecento euro l’etto. Se ti siedi su una panchina con gli occhi chiusi, dopo un po’ ti sembra di vivere un sogno altrui. Un sogno di Nanni Moretti: il profumo dolciastro e inconfondibile della Nutella scende ad avvolgere la città dallo stabilimento della Ferrero, multinazionale a conduzione familiare che rifiuta di separarsi dalla sua cittadina d’origine.
C’è chi delle Langhe s’innamora. Specialmente adesso, in autunno, girando per le colline pettinate dai vigneti, fra i colori attenuati dalla nebbia leggera, i verdi non troppo verdi, i rossi non troppo rossi. Respirando l’odore di terra smossa e di funghi. Sostando nelle cascine, da tempo tirate a lucido, per un bicchiere di vino, servito con cortesia schiva, ritrosa.
E c’è chi nelle Langhe ha fatto la guerra. Combattendo i fascisti, i tedeschi, e questo stesso paesaggio oggi incantevole; ma ostile, funesto nel terribile inverno del 1944. Nei rittani, i dirupi delle alte Langhe, dove si rifugiava inseguito il partigiano Johnny: “Era un inferno di fango, lezzava di foglie marcite, la vegetazione curva su di esso a mascherarlo come un aborto di natura grondava orribilmente”. Nelle notti di guardia, quando “nulla era visibile nella ondulante tenebra, udibile soltanto il sinistro, purgatoriale crocchiare dei rami freddi sotto il vento onnipotente”.
“La presero in duemila e la persero in duecento”
Sono passati giusto settant’anni dall’ottobre in cui le formazioni della Resistenza occuparono Alba, instaurandovi una libera repubblica durata 23 giorni. Non la prima, non la più duratura, né la più importante delle repubbliche partigiane. Ma a difenderla, e poi a darle fama superiore a ogni altra, c’era un ventenne dinoccolato e un po’ goffo, figlio di un macellaio di Alba, affascinato dalla letteratura inglese. Si chiamava Beppe Fenoglio.
Seppe scrivere della Resistenza e di questa terra come nessun altro. Senza retorica, senza indulgenza verso la propria parte, senza paura delle parole: “guerra civile”, la chiamò da subito. Capace di cogliere l’epica collettiva, ma anche le insufficienze, talvolta le meschinità di chi combatteva; o trovava modo d’imboscarsi quando l’aria volgeva al brutto. “Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre” è il celebre attacco folgorante, impietoso de I ventitré giorni, il primo libro pubblicato.
Tre paragrafi più in là, racconta la sfilata trionfale dei partigiani: “Fu la più selvaggia parata della storia moderna: solamente di divise ce n’era per cento carnevali”. E poi: “Su quel balcone c’erano tanti capi che in proporzione la truppa doveva essere di ventimila e non di duemila uomini”. Frasi e passaggi che scatenarono il tiro al bersaglio da sinistra. “Questo racconto di Beppe, che ha fatto la Resistenza accanto a me sulle Langhe, mi è parso aiutare chi si affanna a denigrarci”, scrisse Davide Lajolo. Carlo Salinari, gappista romano, poi illustre critico letterario di stretta ortodossia marxista, si occupò di scomunicarlo su Rinascita.
Fenoglio non ci badò più di tanto, e si diede a raccontare le Langhe del tempo di pace. Strette d’assedio non dalla Wehrmacht, ma dalla povertà. La terra dei contadini della Malora, ossessionati dallo spreco: “Finì che nelle sere d’autunno e d’inverno mandavamo Emilio alla cascina più prossima a farsi accendere il lume, per avanzare lo zolfino”.
Il punto di svolta: lo scandalo del metanolo del 1986
Sono sempre le stesse, quelle colline e quelle zolle. Ma a percorrerle oggi, anche con i libri di Fenoglio sotto gli occhi, sembra che le abbiano trasportate di peso in un altro pianeta.
E ci si chiede che cosa abbia trasformato, in un tempo inferiore a quello di una vita umana, i cupi mezzadri affamati nei gentiluomini di campagna in giacca di tweed che vendono Barolo ai miliardari cinesi e piantano rose alle estremità dei filari.
Il punto di svolta, probabilmente, fu una disgrazia: lo “scandalo del metanolo” del 1986. Ventitré persone morte per aver bevuto del vino da pochi soldi, adulterato con alcol metilico per risparmiare qualche lira sull’imposta di fabbricazione. Epicentro nelle Langhe. Rifiutati dal mercato, minacciati di estinzione, i vignaioli seri si resero conto che la loro unica speranza era puntare sulla qualità alta, altissima. La grande paura li spinse addirittura a superare il secolare individualismo, a scambiarsi esperienze e buone pratiche, a esplorare insieme mercati nuovi.
Da Slow food di Petrini a Eataly di Farinetti
Ebbero fortuna: gli americani stavano scoprendo proprio allora i cibi d’élite. E in zona cominciavano a farsi largo un paio di giovani capaci di costruire intorno alle produzioni alimentari una filosofia di vita, se non addirittura un’ideologia.
Ad Alba c’era Oscar Farinetti, futuro patron di Eataly. A Bra, da qualche anno, studiava e predicava Carlin Petrini: tra i padri fondatori del Gambero Rosso, in quel 1986 trasformò l’Associazione amici del Barolo in Arcigola; tre anni dopo diede vita a Slow Food.
Ma se queste non fossero state le Langhe, la riscoperta della terra madre e delle eccellenze alimentari avrebbe colto i poderi sguarniti, abbandonati da contadini corsi a inurbarsi nelle fabbriche.
La Ferrero e il monopolio delle nocciole
Qui, invece, c’era la Ferrero: un’azienda nata all’indomani della guerra, che ha sempre assorbito l’intera produzione dei settemila ettari di noccioleti della zona. E ha sempre preferito lasciare che i suoi operai continuassero ad abitare nei paesetti sparsi per le colline, anziché attirarli in casermoni di città.
Ancora oggi, in corrispondenza dei turni dello stabilimento, non c’è un villaggio in cui i pullman della Ferrero non si fermino a caricare i dipendenti.
Un’idea formidabile, in quegli anni. “Per il contadino che si era alzato alle quattro a zappare la vigna, il turno alla Ferrero non era neppure fatica. Tornava a casa bello fresco, e ricominciava a rivoltar la terra”, spiega Enzo De Maria, ex sindaco di Alba e oggi presidente dell’Anpi locale.
È la prosperità, alla fin fine, che ha smussato la terra di Fenoglio e le vite di chi l’abita. Senza snaturarle, per ora.
Anzi, contribuendo a ingentilire il paesaggio fino a farlo includere, quattro mesi fa, nella lista Unesco del Patrimonio dell’Umanità (con implicito sberleffo all’indirizzo del rivale di sempre, il Chianti). Ma consacrare il bello non lo mette al riparo dagli assalti del brutto.
È abbastanza noto, e deprecato, il caso della Cascina Langa, a Trezzo Tinella, l’ “aia gelata, aperta per tre lati al cielo”, in cui il partigiano Johnny e il partigiano Fenoglio trovarono rifugio nei momenti peggiori.
Certo, trasformandola in un resort di lusso l’hanno resa irriconoscibile, a forza di parallelepipedi in cemento nudo e vetrate panoramiche.
Certo, è veramente dura capire che ci fa, fra queste colline, uno hammam, che dovrebbe essere il bagno rituale di arabi e turchi.
Il manufatto che domina il costone di Trezzo
Ma lo stravolgimento di Cascina Langa è un’inezia, rispetto al vasto manufatto incredibile che domina il costone più alto di Trezzo, una specie di ranch messicano reinterpretato due volte, prima da Hollywood e poi da un qualche palazzinaro locale, di un bianco accecante.
O al ripetitore televisivo, alto il doppio della chiesa cinquecentesca, rizzato sullo spiazzo in cima a Mombarcaro. Era l’ “alpestre deserto” di Johnny.
E il luogo in cui Fenoglio andava a meditare, ritto sul ciglio del dirupo, contemplando la sua Langa aspra, poco domestica, cupa verso il tramonto. Ancora ignara del suo destino da cartolina.

il Fatto 20.10.14
Quel ragazzo che parlava di Resistenza


NASCE AD ALBA il primo marzo 1922. Terminato il Liceo si iscrive alla facoltà di Lettere di Torino, ma interrompe gli studi nel 1943. Dopo l’8 settembre sceglie la guerriglia partigiana sulle Langhe. Dapprima sale “a Murazzano presso quegli stessi parenti che solevano ospitarlo da ragazzo per le vacanze estive”, poi entra in una brigata d’ispirazione comunista, che opera tra Murazzano e Mombarcaro nell’alta Langa. Questa formazione partigiana, dopo l’assalto ai depositi militari di Carrù (3 marzo 1944), subisce una pesante sconfitta dai nazifascisti. Per sfuggire ai rastrellamenti, Fenoglio ritorna ad Alba. Il 10 ottobre 1944 è con le forze che liberano Alba (I ventitre giorni della città di Alba). Dopo la Liberazione, ritorna alla vita civile, ma l’esperienza partigiana è fondamentale nella sua vita e ispira molti dei suoi lavori. Nel 1949 pubblica il primo racconto, Il trucco, con lo pseudonimo di Giovanni Federico Biamonti. Nel 1952 escono presso Einaudi dodici racconti; nel 1954 viene pubblicata La malora. Nel 1961 nasce la figlia Margherita e Fenoglio comincia ad ottenere i primi riconoscimenti dalla critica; nel 1960 vince il premio Prato con Primavera di bellezza. Muore il 18 febbraio 1963.

il Fatto 20.10.14
Margherita Fenoglio
“Una vita breve, ma che segno enorme ci ha lasciato papà!”
intervista di Mic. Con.


Mio padre mi dà grandi soddisfazioni, ma anche un daffare pazzesco. Dall’anno scorso, quando sono iniziate le celebrazioni per i 70 anni della Resistenza e insieme quelle per il cinquantenario della sua morte, in pratica non faccio altro che occuparmi di lui”. Un mestiere ce l’avrebbe, Margherita Fenoglio: è avvocato, specializzata in diritto di famiglia; ha a che fare tutti i giorni con figli contesi e separazioni difficili. Ma nella sua vita straripa quel padre amatissimo benché mai conosciuto, ucciso da un cancro ai bronchi a 41 anni, quando Margherita ne aveva appena compiuti due. Lo scrittore e partigiano inflessibile con se stesso e con gli altri. Il Beppe Fenoglio secco e impietoso nei suoi capolavori, Il partigiano Johnny, La malora, La paga del sabato, Una questione privata. Eppure così dolce con quella bimba destinata a somigliargli che il giorno prima di morire radunò le ultime forze per scriverle un biglietto: “Ciao, per sempre, Ita mia cara. Ogni mattina della tua vita io ti saluterò, figlia mia adorata…”.
Un padre ingombrante è spesso scomodo.
Per me è prima di tutto un padre di cui andare orgogliosa, ma senza arroganza. Mia madre mi ha insegnato che il talento era suo, che non c’è alcun merito nell’essere la figlia di Fenoglio, che la stima degli altri si guadagna, non si eredita. E so che il suo ricordo lo divido con moltissimi altri, con migliaia di persone che lo amano e lo ammirano. La sua è stata una vita breve, brevissima, che però ha lasciato un segno enorme.
Ancora oggi?
Oggi più che mai, anche grazie a Internet che facilità la comunicazione, l’espressione dei sentimenti. Ogni giorno qui al Centro studi Beppe Fenoglio, e perfino al mio indirizzo privato, arrivano decine di mail. C’è qualcuno – immagino sia un uomo, ma non so neppure quello – che una volta all’anno visita la sua tomba a fumare con lui, per così dire: poggia una sigaretta intera sulla lapide, un’altra ne fuma lui, lascia il mozzicone in bella vista come fosse un fiore, e se ne va.
A proposito di sigarette, non le capita di arrabbiarsi con suo padre per aver fumato così tanto? Ha privato lei della gioia di conoscerlo, noi probabilmente di altri grandi libri.
Non sono arrabbiata con lui, e neppure con il destino. Del resto, non credo che lo abbia ucciso soltanto il tabacco. Due anni a combattere in montagna, in quelle condizioni, lasciano il segno. Le Langhe di Beppe Fenoglio non sono il paesaggio da cartolina che oggi tutti contemplano con occhi sognanti, le colline dove le rose si mescolano ai vigneti. La sua era la Langa alta, inospitale, scoscesa, gelida d’inverno. Da anni qui al Centro studi organizziamo passeggiate in quei luoghi. Andiamo nella bella stagione, con le nostre scarpe buone, cibo e acqua, un maglione nello zaino nel caso a sera rinfrescasse. E quando partecipo, mi viene l’angoscia pensando ai ragazzi che si sono arrampicati su e giù per quei dirupi in pieno inverno, malvestiti, malnutriti, inseguiti dai tedeschi.
Nei suoi romanzi, specie “Il partigiano Johnny”, Beppe Fenoglio ha rigettato la retorica che ha ingessato per decenni l’immagine della Resistenza. Non ha mai esitato a parlare di guerra civile.
C’è stato un tempo in cui per descrivere la Resistenza si usavano dosi di enfasi fortissime, quasi letali. La Resistenza era sempre alta, bionda, con gli occhi azzurri. Quel tempo è passato, e non solo grazie a mio padre. Il libro del 1991 di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza è un punto fermo.
In quelle pagine l’adesione alla lotta partigiana appare esistenziale. Molti salivano in montagna per puro e semplice ribrezzo verso i fascisti.
Mio zio Walter, fratello e compagno d’armi di Beppe Fenoglio, diceva sempre che il fascismo era brutto. Tirannico, guerrafondaio, ampolloso; ma in primo luogo brutto. Per mio padre contarono molto il pensiero e l’esempio di due dei suoi professori al Govone, il liceo di Alba: Leonardo Cocito, comunista ma partigiano in Giustizia e libertà, impiccato dai tedeschi, e Pietro Chiodi, anche lui combattente di Gl, deportato in un lager ma sopravvissuto. Aiutarono quel giovanissimo studente a dar forma a un suo disagio nebuloso, ma cocente; a trasformarlo in un messaggio di libertà. Chiodi racconta, in una lettera, di un anniversario della marcia su Roma. Quel giorno gli studenti, in tutta Italia, erano obbligati a vergare un tema sul regime fascista come erede dell’impero dei Cesari. Fenoglio lasciò il foglio in bianco, non ci fu verso di convincerlo a scrivere una riga.
Suo padre non è stato solo uno scrittore partigiano. Ha raccontato il disagio della pace e del dopoguerra. E il mondo contadino, la povertà come carcere senza sbarre, la fatica senza fine.
Aveva il senso dello sforzo, la percezione della stanchezza. Un paio d’anni prima di morire, in un’intervista, disse: “Scrivo per un'infinità di ragioni, non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti”. Scriveva sempre, tardi, di notte. Viveva circondato di foglietti.
L’ultimo lo ha scritto a Margherita.

La Stampa 20.10.14
Dai babilonesi al digitale: siamo gente che conta
In mostra a Roma “Numeri”: la matematica raccontata attraverso gli oggetti
di Valentina Arcovio


Non bisogna essere dei nerd per riconoscere e apprezzare il fascino dei numeri. Per quanto molti di noi li abbiano potuti odiare tra i banchi di scuola, è infatti innegabile l’importanza che da sempre rivestono nella vita degli esseri umani. I numeri sono onnipresenti nella nostra mente: non solo consapevolmente quando li usiamo per fare la spesa o per contare i risparmi, ma anche quando inconsciamente facciamo una banale scelta calcolandone le probabilità di successo.
A ricordarci questo universo invisibile ma anche tangibile è la mostra «Numeri. Tutto quello che conta, da zero a infinito», allestita al Palazzo delle Esposizioni di Roma fino al 31 maggio 2015. Lo scopo dell’evento è quello di mostrare i numeri nella loro duplice essenza: da una parte oggetti naturali e utili, che il cervello umano è predisposto spontaneamente a trattare e di cui la società ha continuamente bisogno per quantificare; dall’altra oggetti artificiali e sociali, costruzioni teoriche con implicazioni linguistiche e culturali che hanno viaggiato nel tempo e nello spazio. Un affascinante viaggio quindi che parte con un modello di cervello umano utile per spiegare la sua abilità a manipolare i numeri a prescindere dalle culture e dei suoi limiti a trattare numeri grandi, per poi passare ai due aspetti del contare e dello scrivere i numeri. Il viaggio offerto dalla mostra prevede un tuffo nel passato, fino alla preistoria, nel quale vengono presentati una serie di oggetti originali, quando i nostri antenati si sono accorti che con i soli mezzi naturali non riuscivano a maneggiare grosse cifre, e dunque hanno cercato di superare i loro limiti con la costruzione di strumenti per aiutarsi nel calcolo: dall’Osso di Ishango, risalente a circa 20.000 anni fa, alle tavolette babilonesi provenienti dal Louvre di Parigi; dagli abachi antichi del Museo Nazionale Romano, alla Pascalina, una calcolatrice meccanica del Seicento. Inoltre, proveniente da Monaco di Baviera, un esemplare di Enigma, la macchina utilizzata dai tedeschi per spedire messaggi cifrati durante la II Guerra Mondiale.
Questo a dimostrazione che anche un argomento apparentemente astratto come quello dei numeri primi può avere ricadute molto concrete come nel campo della crittografia. In pratica, la mostra offre al pubblico un percorso che dal passato arriva al futuro, tra installazioni multimediali e reperti antichi, con l’obiettivo dichiarato di rivolgersi non soltanto a esperti delle scienze, che con i numeri di certo hanno più dimestichezza, ma anche ai più riluttanti, fino ad arrivare ai bambini.
«La mostra coniuga - spiega Franco Bernabè, presidente dell’Azienda Speciale Palaexpo – l’aspetto scientifico a quelli didattici e artistici, con elementi interattivi per coinvolgere i ragazzi delle scuole». Il segreto per non guardare i numeri con diffidenza è dunque saperli approcciare nel modo giusto. Un aiuto in questo senso arriva dalle undici sezioni del percorso espositivo, tutte molto curate, nonché dalla sala From Digit to digital, «Ora facciamo i conti» e «La matematica è un’opinione».
Il quadro che ne emerge affascina e stupisce, e rivela i possibili intrecci tra la matematica e l’arte, la musica, la letteratura, il misticismo. Per tutta la durata della mostra si terranno una serie di incontri con esperti, come «Matematica e quotidianità», «Musica e numeri», «L’irragionevole bellezza dei numeri», o «I numeri della guerra» e saranno anche proiettati celebri film che hanno come protagonista la matematica a partire da «A beautiful mind», «Will Hunting, genio ribelle», «Enigma», «Rain man», «Memento» o «Il mio piccolo genio».
Il messaggio degli organizzatori è chiaro: non lasciamoci spaventare dai numeri. Non è un caso se tra gli slogan è stata scelta una particolare citazione di Albert Einstein: «Non preoccuparti delle tue difficoltà in matematica; posso assicurarti che le mie sono maggiori».

Corriere 20.10.14
La destra e la sinistra. Due concetti invecchiati
risponde Sergio Romano


Più o meno un secolo fa il mio maestro Benedetto Croce sosteneva che il liberalismo è una concezione etico-politica che, avendo come fine la maggiore libertà dell’individuo e la maggiore libertà di tutti, doveva ricercare caso per caso, secondo la situazione storico-politica del momento, la soluzione migliore per raggiungere quel fine; e la soluzione poteva essere a volte di tipo liberistico e a volte di tipo statalistico; ossia, possiamo dire, di destra o di sinistra, due parole che si richiamano a quei sistemi economici allora imperanti.
A me giovane liberale (anni Quaranta) queste cose piacevano molto in quei tempi di forte contrapposizione ideologica. Figuriamoci oggi. Oggi le ideologie sono morte; il comunismo ha perso e ha vinto la società aperta. Lei non pensa che i concetti di destra e di sinistra, storicamente legati a due ideologie che non esistono più, appartengano ormai a un antiquariato culturale? E che la sfida moderna non è fra destra e sinistra, ma fra giusto e sbagliato?
Sergio Lepri

Caro Lepri,
Dietro la tesi di Croce vi era la convinzione che la vera libertà fosse un affare di etica e coscienza, con aspetti quasi religiosi, e che quella economica, invece, appartenesse alla categoria dei comportamenti pratici, destinati a mutare secondo le esigenze del momento. Era perfettamente concepibile, quindi, che uno Stato liberale restasse tale pur nazionalizzando alcuni settori dell’economia. Questa tesi era per molti aspetti la risposta di Croce a Palmiro Togliatti, con cui dovette convivere nel secondo governo Badoglio, formato dopo la «svolta di Salerno». Ma fu anche materia di una lunga discussione (civile, con qualche reciproca stoccata) tra il filosofo napoletano e Luigi Einaudi, economista, senatore e futuro primo presidente della Repubblica italiana.
Einaudi riconosceva che l’intervento dello Stato nell’economia fosse in molti casi utile e desiderabile, ma non tollerava che le libertà di possedere e d’intraprendere fossero considerate libertà minori. Mentre il filosofo teneva a una netta distinzione tra la sfera pratica della vita economica e la sfera morale e spirituale della coscienza, Einaudi pensava che fra le due vi fosse un inevitabile nesso. Non vi è libertà, scrisse in una delle sue repliche a Croce, «in una società economica nella quale non esista una varia e ricca fioritura di vite umane, vive per virtù propria, indipendenti le une dalle altre, non serve di un’unica volontà».
La discussione durò più di trent’anni e divenne la materia di un libro pubblicato dall’editore Ricciardi di Napoli sotto il titolo Liberismo e liberalismo . Più recentemente questo libro è stato nuovamente pubblicato in una collana del Corriere della Sera («Laici e cattolici. I maestri del pensiero democratico»).
Le confesso, caro Lepri, che le mie simpatie, in questo caso, vanno alla tesi di Einaudi. Ma i due contendenti, all’atto pratico, erano altrettanto pragmatici ed egualmente contrari alle contrapposizioni schematiche fra statalisti e liberisti. Lei ha quindi ragione quando scrive che destra e sinistra sono ormai categorie antiche, poco utili per l’economia dei nostri giorni. Sono care soprattutto a coloro che non riescono a nascondere una certa nostalgia per la «lotta di classe».

Corriere 20.10.14
Desmond Morris: Se crea, la scimmia non è una scimmia
«L’arte è ciò che rende straordinario l’ordinario. Soltanto l’uomo ne è capace»


OXFORD (Inghilterra) «Per esempio...».
Oh! Scusi solo un attimo.
Ecco, la verità è che per fermare un fiume di passione come Desmond Morris non c’è altro modo. Zoologo, etologo, scrittore, giornalista, pittore surrealista nonché «viaggiatore» attraverso centosette Paesi da un capo all’altro del globo («Finora!», se la ride) quest’uomo di 86 anni vissuti sotto il segno dell’Acquario sta parlando da neanche un’ora, nel giardino della sua casa di Oxford, e di esempi ne avrà fatti già cinquanta. Uno più curioso e personale dell’altro. Tutti per spiegare con ironica e britannica pazienza il concetto attorno al quale ha costruito, sotto forma di una storia universale dell’arte dalle origini al presente, le 320 pagine e centinaia di immagini del suo ultimo libro: The Artistic Ape , uscito in Inghilterra l’anno scorso e appena tradotto per l’Italia da Rizzoli ( La scimmia artistica ). A quasi mezzo secolo dal suo bestseller che fu un caso mondiale, quella Scimmia nuda in cui esplorava la natura umana rispetto a quella dei primati, Morris torna ora sull’argomento per dire che cosa invece ci rende veramente unici rispetto a tutto il creato: e cioè l’arte, appunto.
Perdoni ancora, poi continuiamo: senta come suona in italiano la fine del suo libro.
«Inventando quella che chiamiamo arte abbiamo trovato il modo di migliorare la nostra vita e di arricchire il breve tempo che ci è concesso di trascorrere su questo pianeta tra la luce della nascita e la tenebra della morte».
Le piace?
«La vostra lingua mi è sempre piaciuta, e chiunque ami l’arte non può non amare l’Italia. Lo sa che il nostro più grande lessicografo, Sir James Murray, scrisse l’ Oxford English Dictionary proprio in questo giardino? Purtroppo arrivò solo alla lettera T... Sedeva proprio lì».
Torniamo al suo esempio. Stava parlando del suo amico , il pittore Francis Bacon.
«Un mio grande amico, sì. Dicevo di come sono fatti gli artisti. Francis era un genio, ma insicuro su tutto. Una volta aveva dipinto quello che secondo lui doveva essere un babbuino arrabbiato, con le fauci aperte verso il cielo. Lo aveva copiato da una foto, come faceva sempre. Mi chiese un parere da etologo: è realistico? In realtà il babbuino della foto stava solo sbadigliando. Ma non glielo dissi: avrebbe distrutto il quadro con lo stesso taglierino con cui nella sua vita ne distrusse centinaia».
Ma l’arte, lei dice, è ciò che ci rende unici.
«Beh, molti lo spiegherebbero con la bellezza. In realtà bisogna partire dalla caccia».
Cioè?
«Da un punto di vista biologico non c’è alcuna differenza estetica tra la Cappella Sistina, un tatuaggio, o una semplice piuma decorativa tra i capelli: nessuna di queste attività è essenziale per la nostra sopravvivenza fisica quanto lo sono cibo, acqua, un riparo».
E allora?
«Ma l’uomo è diventato quello che è diventato, grazie al proprio cervello. Si è affermato come cacciatore non perché più forte degli altri, ma perché più intelligente. E anche il cervello va nutrito. Così dopo la caccia, anziché dormire come i leoni, l’uomo è l’unico che ha sentito il bisogno di festeggiarla. Danzando, cantando, dipingendola e raccontandola. Premiando il cervello, oltre alla pancia, l’uomo gli ha dato un nuovo piacere. Ha scoperto che poteva rendere la realtà più intensa».
Ed è per questo, lei scrive, che il nostro cervello ha orrore dell’inattività.
«Non a caso essere rinchiusi in una cella da soli è considerata una punizione tra le più brutali».
E cosa dice allora di Congo, di Sophie, insomma delle scimmie «artiste» di cui parla nel suo libro?
«Ah, Congo... Quello scimpanzè cui mettemmo in mano matita e colori nel ‘56 fu in effetti impressionante. Più ancora della gorilla Sophie che sarebbe venuto dopo. Congo mostrava alcune caratteristiche simili a quelle dei bambini alle primissime armi: disegnava senza uscire dal foglio, i suoi segni avevano una certa coerenza, per esempio tracciava linee trasversali rispetto a una griglia data e che in qualche modo potevano essere lette come “variazione su un tema”, il più umano dei giochi estetici. Se gli toglievi la matita prima che avesse “finito” si infuriava. Ricordo una seduta, forse la ventiduesima, in cui raggiunse il suo vertice: tutti i disegni di quel giorno furono addirittura comprati in seguito da collezionisti privati. Uno lo acquistò persino Picasso!».
Oddio, allora non siamo così unici...
«E invece sì. Perché il vertice dell’espressione “artistica” a cui può arrivare una scimmia non è che il primo, elementare gradino da cui un bambino parte per esprimere la sua. L’arte fa parte di noi, perché ne abbiamo bisogno. E non ha necessariamente a che vedere con la bellezza».
Ma se noi uomini siamo tali in quanto tutti siamo «artisti», perdoni la banalità, cosa distingue allora lo scarabocchio di un bambino dall’«Ultima Cena»? C’è un criterio?
«Eh, lei mi fa la solita vecchia domanda di quelli che vogliono sapere che cos’è l’arte... Le risponderò mettendoci insieme anche le altre due cose che in realtà, a mio avviso, distinguono l’uomo dal resto. Mi riferisco naturalmente alla scienza e alla religione».
Ebbene dica.
«È quello che scrivo nel libro. L’arte è ciò che rende straordinario l’ordinario, per divertire il cervello. La scienza è ciò che rende semplice il complesso, per capire l’esistenza. La religione è ciò che rende credibile l’incredibile, per mitigare la paura della morte».
E la bellezza non c’entra.
«C’entra lo stupore. La famosa “meraviglia”, no? L’uomo è quell’animale che trasporta pietre gigantesche dove non c’erano per fare Stonehenge nella preistoria, che mette insieme cento milioni di tessere e due tonnellate d’oro per fare mille anni fa il mosaico pazzesco del Duomo di Monreale, ma anche quello che cuce i costumi del carnevale di Rio o che dipinge i caravan degli zingari. La molla è sempre la stessa».
E perché quell’animale ha deciso, a un certo punto, che un orinatoio poteva valere milioni di dollari?
«La questione della finanza e dell’arte è un’altra cosa, certo. Oggi il valore commerciale di un oggetto artistico è un concetto difficile da spiegare con criteri solo artistici. Una cosa vale milioni nel momento in cui qualcuno è disposto a pagarla milioni, punto. Se dico che voglio un miliardo per un sasso e qualcuno me lo dà, ecco, quel sasso vale un miliardo. Non piace neanche a me, ma è così».
E l’arte nel frattempo?
«L’arte è sempre lì, e proprio opere come la Fontana del mio amico Duchamp sono una conferma di quel che dicevo. L’arte non ha a che vedere sempre con la bellezza, ma con lo stupore sì. E lo stupore nasce anche dal contesto: per esempio prendendo un orinatoio e mettendolo in un museo».
Diciamo che per chi vedeva un Caravaggio era più facile distinguere.
«Ma guardi che in un certo senso era più facile anche per Caravaggio! L’arte prima imitava la realtà, punto. Ampliandola, cambiandola, ma insomma sempre copiandola. Dopo la fotografia, che cosa potevano inventare gli artisti per stupire? La stessa contraddizione, peraltro, vale al contrario: l’arte non è mai stata tanto “visibile” da tutti come oggi, e allo stesso tempo mai tanto “difficile” da capire. Finiamo con una cosa buffa?»
Certo che sì.
«In realtà non abbiamo inventato niente: la prima opera d’arte riconosciuta come tale, risalente a tre milioni di anni fa, è un ciottolo di fiume conosciuto come Makapansgat Pebble. Somigliava a una faccia, ma era solo un sasso. Però un nostro antenato lo raccolse e lo portò nella grotta in cui gli archeologi lo trovarono. In quel momento diventò un’opera d’arte».

Repubblica 20.10.14
Pennac: “Ragazzi, non ascoltate chi vi dice che non valete niente”
Lo scrittore dialoga con Ezio Mauro “Insegnare significa spiegare agli alunni che esiste un futuro. E se non lo capiscono, spiegarglielo di nuovo”
Bisogna lottare contro la confisca del linguaggio, quella che l’Italia ha subito per vent’anni e la Francia per cinque
La cultura è più importante di tutto, ma la libertà è più importante della cultura perché ci sono persone che non ce l’hanno
di Sara Scarafia


PALERMO Una scuola che insegni agli allievi a essere «sovrani di se stessi». L’ultimo appuntamento di Repubblica delle Idee a Palermo — il dialogo tra lo scrittore francese Daniel Pennac e il direttore Ezio Mauro — incomincia dalle parole di Don Milani, il maestro di Barbiana. “Sovrani di se stessi”, una citazione di Lettera a una professoressa , si intitolava l’evento clou, introdotto da Fabio Gambaro, della due giorni di incontri, confronti e dibattiti durante i quali si è tracciato il profilo della scuola del futuro. Pennac e Mauro hanno parlato a una platea affollatissima: tutti i 1300 posti a sedere del Teatro Massimo di Palermo erano occupati, decine di persone hanno assistito in piedi. Lo scrittore francese e il direttore hanno immaginato una scuola che non è più un problema e diventa un’opportunità. Una scuola che salva tutti, anche i somari, proprio com’era il Pennac studente. Dal palco del Massimo l’amatissimo papà della famiglia Malaussène ha rivolto agli insegnanti l’invito a liberare i ragazzi «dall’incubo di ritenersi senza futuro».
Mauro: Siamo qui per parlare di libertà attraverso la cultura. Allora è giusto partire da Don Milani che diceva che solo la lingua ci fa uguali.
Penn ac: La lingua ci unisce a condizione che non venga confiscata da parte di nessuno. La maggior parte dei problemi incontrati dagli allievi delle classi svantaggiate sono legati alla lingua, alla non comprensione di quello che viene detto loro, del modo in cui il professore parla loro. Solo se i professori riescono a farsi capire, a utilizzare una lingua che non terrorizzi, solo allora si creano le condizioni di uguaglianza di cui parlava Don Milani. Per creare questo sentimento di fiducia il primo lavoro di un docente deve essere quello di lottare con accanimento contro la paura del bambino di non capire la domanda che gli è stata posta e di conseguenza di fare la figura dell’imbecille.
Mauro: Antonio Gramsci diceva che cultura «è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita» e che chiunque può essere filosofo, basta vivere da uomini tenendo gli occhi aperti e curiosi su tutto, non addormentarsi e non impigrirsi mai. È per questo che andiamo a scuola e per tutta la vita non smettiamo di studiare?
Pennac: «La lingua è fascista», disse Roland Barthes al Collège de France destando scandalo, perché il potere totalitario confisca il linguaggio. Quando il potere viene incarnato da certi individui diventa il primo nemico della scuola. E oggi bisogna lottare contro la nuova confisca del linguaggio, quella che l’Italia ha subito per vent’anni e la Francia per cinque (applausi, ndr ). Quella di chi dice tutto e niente usando il tono di chi dice una verità. Per esempio che la giustizia non esiste e che è una vittima delle istituzioni perché subisce cinque processi.
Mauro: Secondo il premio Nobel per la pace Malala Yousafzai, la giovane attivista pachistana che si è battuta per il diritto delle ragazze all’istruzione, «un bambino, un insegnante, un libro, una penna, possono cambiare il mondo». E per questo che l’istruzione fa paura ai potenti, l’istruzione è sovversiva?
Penn ac: Direi di sì. L’istruzione è un modo di destare la coscienza degli uomini. Ma c’è molto lavoro ancora da fare.
Mauro: In una società che ha perso la nozione del bene comune, gli insegnanti possono farcela a riaccendere il fuoco della coscienza pubblica?
Penn ac: Se chiediamo loro questa cosa li terrorizziamo. Ma ogni giorno in una classe c’è un docente che ha vinto la paura dei suoi alunni. E ogni giorno nelle aule ci sono bambini ai quali si illuminano gli occhi perché hanno finalmente capito qualcosa che era per loro del tutto incomprensibile.
Mauro: Nel libro Diario di scuola tu stesso ti metti dal lato dei somari, dalla parte di chi rischia di perdere la battaglia della scuola. La democrazia non contempla le esclusioni, che pure cominciano sui banchi. La cultura può salvare un ragazzo?
Penn ac: Quando i professori mi dicevano che ero un cretino io ci credevo, credevo di non avere futuro. Vivevo nel presente dell’indicativo come tanti bambini che pensano che non ce la faranno mai. Il ruolo dell’insegnante è quello di spiegare una seconda volta, di ripescare i somari. Insegnare loro che il vero coraggio è sapere tante cose. Perché sapere tante cose significa vivere.
Mauro: Parli spesso della figura del “bambino-cliente”: non c’è il rischio che l’illusione di un mondo facile, che una delega totale alla rete possa mettere fuori gioco la scuola?
Penn ac: I bambini guardano in tv la pubblicità che stimola il desiderio consumistico. Così molti ritengono che la loro identità sia costituita dal sentire il desiderio e dal soddisfarlo. In classe il professore deve dimostrare loro che la vita della mente passa attraverso l’accettazione del suo insegnamento, che si rivolge ai loro bisogni e non ai loro desideri.
Mauro: Tu dici che il verbo leggere non tollera l’imperativo e che la lettura non è un obbligo morale. La cultura è più importante di tutto, ma la libertà è più importante della cultura?
Penn ac: Sì perché ci sono persone che non ce l’hanno.

Repubblica 20.10.14
Italiano
È il quarto idioma più studiato nel mondo. E in quel milione e mezzo di appassionati crescono russi e asiatici
Se la lingua di Dante conquista anche Pechino
di Laura Montanari


RALLENTA nei Paesi della vecchia Europa, la lingua italiana, cresce in aree che vanno dall’Est europeo, Russia in testa, al Magreb, fino ai Paesi arabi e al Vietnam. Cambia la geografia e forse si allontana un po’ dalle radici e dai luoghi della nostra immigrazione, che pure, vedi Germania e Stati Uniti, restano numericamente di gran lunga in cima alla classifica. L’italiano conquista terre nuove e il saldo, assicurano dal ministero degli Affari esteri, è positivo. «Siamo la quarta o quinta lingua più studiata al mondo, e in crescita» sostiene il sottosegretario Mario Giro. È lui che ha voluto il nuovo censimento delle scuole di italiano oltre confine. I risultati saranno presentati nel corso degli Stati generali della Lingua italiana nel mondo in programma domani e mercoledì a Firenze. Nel 2012 erano circa 570mila gli allievi che imparavano la lingua italiana all’estero. Secondo la nuova mappatura triplicano: si arriva a un milione e mezzo perché nei conteggi sono stati aggiunti scuole private, associazioni e istituti che prima sfuggivano al censimento.
L’italiano come risorsa, come veicolo culturale, turistico ed economico di promozione del Paese. È l’idea del ministero degli Esteri, che intende rilanciare e riorganizzarne lo studio. Sfida complicata in tempi di spending review, di tagli agli istituti di cultura e alle cattedre. Si punta al web: in agenda c’è la creazione di un portale dell’italiano che metta insieme l’offerta dei corsi, lezioni online, formazione a distanza per i prof e un osservatorio permanente. L’Indire, l’istituto nazionale di documentazione e ricerca del ministero dell’Istruzione ha già pronto un progetto i cui contenuti sono stati realizzati in collaborazione con l’Accademia della Crusca. «Finalmente ci si muove con decisione per promuovere la conoscenza della nostra lingua non soltanto come vettore culturale, ma anche economico» dice il presidente dell’Accademia Claudio Marazzini.
«Agli studenti che arrivano dalla Cina nei nostri politecnici adesso si impartiscono lezioni in inglese, io proporrei di offrire loro anche corsi di italiano e di arte. È un modo — sostiene — per legarli al ricordo del nostro Paese». A proposito di Cina, uno dei soggetti più attivi nella diffusione dell’italiano estero è la società Dante Alighieri (423 sedi): «Stiamo lavorando con l’istituto Confucio — dice il segretario Alessandro Masi — per potenziare gli scambi».
Va bene Dante e Michelangelo, ma non dimentichiamo il design, la moda, il cibo, la musica lirica, il turismo, quel pacchetto che va sotto la targa made in Italy e che può essere un richiamo: «La promozione linguistica — si legge in una relazione preparatoria della due giorni fiorentina — non avrà il successo sperato se non è connessa allo scenario culturale simbolico». Suggerisce Mirco Tavoni, presidente del consorzio Icon che riunisce diciannove atenei e organizza corsi di e-learning: «Usiamo come vettori per diffondere la lingua le grandi aziende italiane già impegnate all’estero e magari anche la Chiesa cattolica». C’è invece chi pensa di qualificare le cattedre puntando sugli italodiscendenti, «perché — sibila un prof — con tutti i tagli che ci sono, chi paga più un docente italiano per andare all’estero?».

Repubblica 20.10.14
Tullio De Mauro
“Scopriamo dagli altri che il nostro Paese non è in decadenza”
intervista di L. M.


IL PROFESSOR Tullio De Mauro, linguista, ex ministro dell’Istruzione, non sarà a Firenze per i primi Stati generali della lingua italiana: «Sono a Londra per intervenire all’istituto di cultura italiana perché questa che si apre è anche la Settimana della Lingua italiana e ci sono iniziative e incontri in diverse parti del mondo. L’italiano piace sempre molto... «.
Quella dei corsi di italiano è una domanda in crescita.
«La nostra lingua è da anni in espansione, siamo ai primi posti in classifica dopo l’inglese, lo spagnolo, il francese, il tedesco...».
Cosa si può fare per aumentare ulteriormente questi numeri?
«Vale quello che accade per altri campi. Faccio un esempio, c’è una buona politica estera se c’è una buona politica interna. Significa che per far crescere l’italiano all’estero dobbiamo mantenere un buon livello di italiano nel Paese».
Sale la richiesta di corsi nell’Africa meditearranea e nei Paesi dell’Est. La sorprende questa tendenza?
«No, per niente. È segno che anche se noi ci lamentiamo e pensiamo di essere diventati poveri, c’è sempre chi ci ritiene ricchi, guarda con interesse al nostro mercato e come primo passo cerca di imparare la nostra lingua. L’Italia è un Paese che affascina gli stranieri per tante ragioni culturali, turistiche. So che c’è una forte domanda anche dal Giappone. C’è poi un’altra grande potenzialità su cui può contare l’italiano».
Dante, il Rinascimento...
«Qualcosa di più recente. Penso ai discendenti dei nostri immigrati che dall’Argentina al Venezuela fino a molte altre nazioni nel mondo sono interessati a conoscere il Paese di cui hanno sentito parlare in famiglia e dove magari hanno ancora dei parenti. È una comunità di decine di milioni di persone, un formidabile bacino di possibili studenti e divulgatori della nostra lingua».

Repubblica 20.10.14
Sfida di Sky a Mediaset pronti canali gratis e in chiaro
Berlusconi in trincea “Anche Renzi ci difenda”
Gli uomini di Murdoch valutano le ipotesi di fronte ad un mercato sempre più affollato L’arrivo di servizi di streaming come Netflix consiglierebbe di attaccare il dominio nella raccolta pubblicitaria delle reti generaliste. Una rivoluzione che non esclude la Rai
di Claudio Tito


ROMA La pax televisiva sta per saltare. In questi anni la tregua era stata prima firmata da Rai e Mediaset. Poi con gli anni si è aggiunta Sky. Ma nel 2015 tutto cambierà. Anzi, tutto sarà rivoluzionato. Anche con il possibile “trasferimento” in “chiaro” dell’emittente, ora a pagamento, di Murdoch.
Gli uomini del magnate australiano, infatti, hanno iniziato a valutare rischi e opportunità di una trasformazione completa di Sky Italia. Non una decisione per il momento ma un’opzione concreta. Che nella sostanza prevederebbe una graduale “gratuità” per una parte dei suoi canali. Seguendo di fatto le orme di Cielo e aumentando probabilmente la presenza anche sul digitale terrestre.
Il quartier generale della pay-tv di certo vuole lanciare il guanto di sfida all’ex amico Silvio Berlusconi. Contemplando anche l’idea di competere sul suo stesso terreno. Contendendo spazi, audience e quote pubblicitarie. E quindi riaprendo una battaglia che sembrava ormai finita. La guerra è tra Murdoch e Berlusconi, ma inevitabilmente coinvolgerà anche la Rai. Certo, si tratta ancora di un’ipotesi e non ancora di una scelta. Eppure, le valutazioni della principale pay-tv italiana non sarebbero un fulmine a ciel sereno. Il mercato televisivo sta diventando sempre più complicato. La sua saturazione «tecnologica» è per tutti un dato di fatto. Aggravato negli ultimi anni dalla crisi economica e dalla flessione senza precedenti della raccolta pubblicitaria.
Tutti i soggetti in competizione sono quindi alla ricerca di nuovi orizzonti. Anche perchè per il prossimo anno tutti dovranno fare i conti con un nuovo «competitor», Netflix. Il campione della tv su internet è già sbarcato in Germania e in Francia. E ora si prepara a «invadere» anche il nostro Paese. Con un’offerta sconfinata sui film e con canone piuttosto basso.
Ecco, la società americana con la sua possibilità di fare vedere i programmi su tv o tablet sta diventando il vero incubo della tv «tradizionale». Anzi, molti lo considerano il grimaldello per far saltare l’attuale assetto televisivo e trasformarlo in toto. Con nuovi soggetti e nuovi protagonisti.
Senza contare che i risultati economici di Mediaset, Rai e Sky negli ultimi anni sono stati pesantemente condizionati dalla crisi economica. Il Gruppo dell’ex Cavaliere, ad esempio, soffre ormai da tempo di una strutturale problematicità. L’ultimo bilancio è stato chiuso con un netto calo dei ricavi e ancora una volta non è stato distribuito il dividendo. La pubblicità non da segni di risveglio e l’ultimo dato certificato, quello del 2013, ha registrato una contrazione di oltre 230 milioni rispetto all’anno precedente. E le previsioni per il 2014 certo non sono ottimistiche.
Non a caso negli ultimi mesi proprio Berlusconi ha ricominciato ad occuparsi del suo core business a tempo pieno. «La politica — ripete a tutti — in questo momento è la cosa meno importante.
Almeno per quanto riguarda Forza Italia. Io devo pensare ad altro». E l’»altro» è appunto il futuro delle sue aziende. Dal punto di vista della «successione imprenditoriale» ma anche degli obiettivi strategici. «Non siamo messi bene — si è lasciato andare qualche giorno fa Fedele Confalonieri con un ex parlamentare di centrodestra nella saletta vip di un aeroporto — i conti continuano a peggiorare. Dobbiamo inventarci qualcosa, proprio come fece Silvio negli anni `80».
L’ex Cavaliere dunque sembra preso proprio dalla battaglia che si preannuncia con Sky. «Dobbiamo prepararci», è il suo refrain. E questo impegno, in realtà, ha anche un riflesso indiretto sulla politica. L’intero vertice del suo gruppo, dalla figlia Marina a Confalonieri a Doris, gli ripete che in questa fase la tattica migliore consiste nel «rimanere attaccati al governo Renzi». L’ex Cavaliere è ormai convinto che non è più nelle sue forze aprire contemporaneamente due fronti bellici: con lo Squalo australiano e con il presidente del consiglio. «L’esito — ripete ai suoi fedelissimi — sarebbe disastroso». E in più è convinto che finchè Forza Italia non aprirà le ostilità contro l’esecutivo «almeno Palazzo Chigi non farà leggi contro di noi. Da Renzi non mi aspetto aiuti ma nemmeno svantaggi». Spera quindi in una sorta di imparzialità. E anche nell’uso della cosiddetta Golden power, la ex golden share. Per bloccare eventuali scalate ostili da parte di soggetti esterni all’Unione europea. Sebbene l’uso della golden power per le tv non sembra assolutamente praticabile: non rientra proprio nel novero dei casi in cui è utilizzabile questo strumento.
Ma le sofferenze riguardano anche Sky e Rai. I tagli al «superfluo» cui sono state obbligate molte famiglie italiane si sono fatti sentire. La rete a pagamento ad esempio ha visto un decremento di quasi 200 mila abbonati negli ultimi due anni.
L’ultimo bilancio si è chiuso con un meno 2,2 miliardi nei ricavi e un rosso di 8 milioni. Anche la tv pubblica ha visto flettere gli incassi pubblicitari senza una adeguata compensazione del canone e della lotta alla sua evasione. Il guanto di sfida, però, l’ha lanciato per primo il gruppo dell’ex Cavaliere. L’atto che ha dato il via alla nuova guerra dell’etere è stata l’assegnazione dei diritti tv del calcio. In particolare per la Champions league nel triennio 2015-2018. Una riserva di caccia da sempre nel carnet di Sky e che appunto dal prossimo anno passerà ai canali berlusconiani.
L’emittente di Murdoch, allora, non intende rimanere a guardare.
Il «passaggio» in chiaro, anche se la scelta non è ancora definitiva, è la prima opzione. Proprio per sfidare il Cavaliere nel suo «territorio storico».
Contendergli lo share e soprattutto la raccolta pubblicitaria. Negli studi fatti nel quartier generale è previsto un graduale e progressivo «trasloco» a cominciare dai canali all news.
Lo scontro dunque è aperto. Sebbene siano previste delle subordinate. Che riguardano il destino di un’altra pay-tv: la berlusconiana Premium. Che vive una fase di incertezza ancora più pesante rispetto alle «sorelle» in chiaro.
Non è riuscita a sfondare il muro della concorrenza di Sky in modo significativo.
Basti pensare che i canali Sky coprono una quota di questo mercato pari al 77,8% e Mediaset arriva al 19,1%. Le strategie della tv di Murdoch, quindi, potrebbero ad esempio cambiare se da parte di Berlusconi ci fosse un passo indietro proprio su Premium.
Lasciandogli il monopolio di fatto delle reti a pagamento.
Ma anche la Rai sta mettendo in moto delle contromisure. La possibile riorganizzazione, infatti, dovrebbe proprio rispondere all’esigenza di affrontare le nuove sfide di un mercato in completa evoluzione. E soprattutto dovrebbe mettere in campo una nuova strategia per combattere l’evasione del canone.
La guerra delle tv, dunque, è solo l’inizio. Ma il 2015 sarà l’anno delle prime battaglie.