martedì 21 ottobre 2014

La Stampa 21.10.14
La Cgil: “Il 25 ottobre un milione in piazza”
Camusso: «L’attenzione verso la manifestazione contro il Jobs Act sta crescendo
Gli 800 mila posti? Berlusconi ne aveva annunciati di più»

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il Fatto 21.10.14
Cgil: un milione di persone pronto a scendere in piazza sabato a Roma
"Il dato delle prenotazioni, che non tiene conto del Lazio è assolutamente confortante"
I pullman saranno 2300, sette i treni straordinari, una nave salperà dalla Sardegna
La manifestazione avrà l'accompagnamento musicale dei Modena City Rambles

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il Fatto 21.10.14
La Cgil azzarda: il 25 ottobre possibile un milione in piazza
Sondaggio Tecné: “Per il %1% il lavore deve essere a tempo indeterminato"
di Salvatore Cannavò


Se Matteo Renzi imperversa in tv, la Cgil oltre alla vecchia piazza, si affida ai sondaggi. Quello commissionato dal sindacato di Corso Italia alla Tecné conforta ampiamente il gruppo dirigente attorno a Susanna Ca-musso. E conforta sul risultato della manifestazione di sabato prossimo: almeno un milione di italiani, infatti, secondo l’istituto romano, sarebbero pronti a scendere in piazza. Se lo faranno concretamente già sabato prossimo, nella grande manifestazione indetta da Corso Italia, è però da vedere. Ma, stando al sondaggio, Camusso batte Renzi 41 a 39 e per il momento è bene non chiedere di più.
IL SONDAGGIO realizzato dall’Associazione Bruno Trentin, diretta da Fulvio Fammoni, si è basato sia su un campione di iscritti alla Cgil sia su uno rappresentativo dell’intera popolazione maggiorenne. Il dato più importante è relativo ai contratti a tempo indeterminato. Per il 51% degli interpellati, infatti, “i rapporti di lavoro devono continuare a essere a tempo indeterminato e la flessibilità deve essere limitata nel tempo”. Il 39%, invece, sostiene l’idea che l’occupazione si orienti “su forme di lavoro flessibili lungo tutto la vita lavorativa”. Non è una percentuale da trascurare, quasi analoga al consenso elettorale di Matteo Renzi e quindi importante. Più netta la risposta alla domanda se la legge delega sul lavoro, il Jobs Act, sia destinato o meno a far crescere o meno l’occupazione: il 64% dice di “no” e solo il 29% pensa di “sì”.
Forte di questi dati, per quanto virtuali, Susanna Camusso lancia quindi la propria scommessa e la sfida al progetto di Renzi. “Il lavoro” dice il segretario generale, “è il problema centrale e non si affronta con slogan”. La Cgil ha idee e proposte da mettere in campo mentre – fa capire
– quelli del governo sono spesso solo annunci: “Gli 800 mila posti annunciati dal ministro Padoan? Vorremmo capire di quali posti si tratta. Se, ad esempio, sono già conteggiati quelli che comunque sarebbero stati attivati”.
La sfida è molto seria. Camusso non accetta di fare paragoni tra la piazza di sabato prossimo e quella di Sergio Cofferati nel 2003: “Ci sono in mezzo sette anni di crisi, il paese è cambiato”. Ma quel paragone è già stato fatto dallo stesso Renzi e il problema dei numeri assilla non poco la Cgil in vista del 25 ottobre. Il segretario organizzativo, Nino Baseotto, ha dato i numeri della “macchina”: “2300 pullman, 7 treni speciali, una nave dalla Sardegna e poi prenotazioni private su treni e aerei per un totale di 120 mila presenze da fuori Roma e Lazio”. Come spesso accade, si tratta di uno sforzo significativo, quasi imponente per i tempi che corrono. Ma l’ansia per sabato prossimo la si coglie quando è l’incaricato di Tecné ad annunciare che, secondo il sondaggio, “c’è un milione di persone disposto a scendere in piazza”. I dirigenti sindacali si guardano negli occhi perplessi, temono di rimanere appesi a questa previsione e precisano che non si tratta di una stima del sindacato ma di Tecné. Il numero però è ormai circolato e diventa un riferimento mediatico e in qualche modo la Cgil dovrà farci i conti. “Ci sarà tanta gente” si limita a dire Camusso: “Non siamo affezionati” ai numeri.
LA MANIFESTAZIONE verificherà anche la salute interna, i rapporti del gruppo dirigente, l’immagine pubblica. Perché, in ogni caso, il sindacato vive una stagione difficile. Lo si coglie nella stessa rilevazione presentata ieri. Alla domanda relativa al giudizio sulla Cgil, il campione si divide quasi a metà: il 47% lo ritiene “positivo” mentre è “negativo” per il 45%. Trattandosi di un sondaggio del sindacato si tratta di un’ammissione importante. Nello scontro con il leader del Pd, il sindacato sconta uno scarto generazionale su cui Renzi gioca molto e che sembra del tutto sottovalutato nelle stanze di corso Italia. Esiste anche un problema di rapporti interni. Nelle stanze del sindacato si parla di un “triumvirato di fatto” alla guida della Cgil. Dopo lo spostamento della linea sindacale dall’asse con Cisl e Uil a quello con la Fiom, Camusso deve concordare le mosse con il segretario dei metalmeccanici, Maurizio Landini, e con quello dei pensionati, Carla Cantone. E in questo silenzioso riassetto degli equilibri interni si assiste anche alla crescita di peso di regioni strategiche come l’Emilia Romagna, protagonista della grande manifestazione di Bologna di giovedì scorso. Micro-movimenti che non hanno impatto pubblico ma che pesano nelle scelte. Il governo Renzi ha “costretto” la Cgil a una posizione di opposizione “dura” dopo gli anni passati a ricucire i rapporti con Cisl e Uil. Questa è una novità importante che non sarà risolta in breve tempo perché il governo Renzi ha tutto l’interesse a mantenere questa polarizzazione: di là, dice lui, la “sinistra delle opportunità”, di qua quella delle rendite di posizione. Di là “l’innovazione”, di qua la conservazione. La manifestazione di sabato prossimo serve anche a rompere questo schema e a costringere Renzi a una nuova dialettica.

il Fatto 21.10.14
La piazza della Cgil e le Resistenze di ieri
di Angelo Farano, membro Anpi Taranto


C’era una volta nel nostro Paese un dittatore che amava portarci in guerre senza alcun ritorno economico, nonché perseguitare e sterminare qualsiasi minoranza capitasse a tiro. Così, col tempo, nacque e si sviluppò una certa ‘insofferenza’ ed opposizione. Un altro motivo fu però certamente il suo totale appoggio alla destra più retriva e alla proprietà terriera più spietata. Questo, perché portò agli assalti alle Camere del Lavoro. La Resistenza, fu anche e soprattutto opposizione a tutto questo. Cambiano i tempi, cambiano i modi, ma in Italia ci ritroviamo sempre al bivio della scelta tra la civiltà e la barbarie, e senza peraltro che la maggior parte dei cittadini scelga mai con nettezza la prima. Così, serve ancora e nuovamente uno sforzo in più, incisivo e forte, dei giusti superstiti ancora tra noi. Ieri sulle montagne, oggi nelle piazze. Perché se tagli il fondo per l’editoria, nei fatti, stai determinando la chiusura della stampa libera. Perché se elimini il contratto nazionale e diffondi a tappeto i contratti schiavistici, stai svuotando ed eliminando il ruolo del sindacato. Perché se svuoti ed elimini le funzioni degli organi elettivi li distacchi dalla realtà che dovrebbero governare. Come i feudatari di una volta. E noi, moderni valvassori e valvassini. Civiltà o barbarie. Se si conserva ancora un minimo di coscienza e umanità, la scelta è obbligata. Il 25 Ottobre a Roma con la Cgil è importante esserci.
 
il Fatto 21.10.14
Su Radio Articolo1 il primo cinegiornale dell’Era renziana


UN CINEGIORNALE ispirato a quelli dell’Istituto Luce che raccontavano i “successi” dell’epoca fascista, è apparso sul sito di Radio Articolo1. Il protagonista è però Matteo Renzi “nostra luce e guida”, recita il testo del breve video. Scorrono le immagini dell’attualità, dovutamente corrette con un bianco e nero d’annata. “La miracolosa riforma del lavoro denominata Jobs Act”, prosegue il cinegiornale, “si riassume nella massima to squeeze the balls e cioè tenere i lavoratori per le palle”. Il documentario si riferisce alle “mummie” del sindacato, di cui è stato trovato un esemplare sottoterra, sepolto insieme ad una tessera del Pd. La parodia racconta che “passato, futuro e presente sono categorie superate” e che “nell’Era Renzi, con il contratto flash back ti assumo oggi ma ti ho già licenziato ieri”.

La Stampa 21.10.14
I cento uomini d'oro della borsa 2013 hanno guadagnato 371 milioni di euro
Stipendi, stock option & Co. Quanti anni di lavoro (e quante vite) occorrono per dirigenti, quadri, impiegati e operai
di Walter Passerini

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La Stampa 21.10.14
Renzi al Pd: “Sabato venite alla Leopolda, libertà coscienza ma non sulla fiducia”
Così il segretario in direzione alla minoranza che lo ha criticato per l’organizzazione dell’evento fiorentino: «Nessun partito parallelo». Sull’Italicum: «Premio alla lista»

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Corriere 21.10.14
Il nuovo scarto del premier per arrivare al bipartitismo
di Maria Teresa Meli


ROMA «Io preferisco l’arroganza alla mancanza di ambizioni»: è uno dei motti preferiti di Renzi. Ma quando le aspirazioni sono alte, anche la sfrontatezza si può archiviare. Perciò chi si aspettava un premier irridente nei confronti della minoranza è rimasto deluso.
Certo, Renzi è rimasto fermo sulle sue posizioni ma ha replicato a tutti gli oppositori «con grande calma», come aveva preannunciato ai fedelissimi. Anche sulla Leopolda, disegnata come un partito parallelo. Però per uno la cui «ambizione per l’Italia non è fare meglio della Grecia, bensì della Germania», per uno che sogna di mettere un punto se non definitivo almeno «di svolta» sulle riforme «entro sei mesi», ingaggiare una polemica con Cuperlo o Fassina non è il caso.
Tant’è vero che quando è scoppiato il caso delle tessere del Pd e all’epoca il bravissimo Luca Lotti era riuscito a scoprire che non erano ancora pervenunuti tra gli iscritti nomi di peso come quelli di Bersani, Fassina e Civati (com’è naturale che sia, quando non vi sono congressi locali in vista), Renzi non ha voluto assolutamente che queste notizie filtrassero all’esterno. A lui avrebbero fatto gioco. Al suo progetto no.
E il suo progetto è semplice: quello di prendere per mano il Pd e portarlo in un territorio più ampio, «offrirgli i nuovi consensi», che può dargli la Leopolda e non solo quella. «Perché — confida il premier agli amici — anche gli ex gril-lini ci stanno facendo delle avances». E così gli espulsi pentastellati diventano un potenziale bacino elettorale per quella forza politica che «va da Gennaro Migliore ad Andrea Romano», passando per i cattolici che non vogliono entrare nel Nuovo centrodestra.
Il «partito della Nazione», lo ha chiamato Alfredo Reichlin, il «partito degli italiani», ha preferito chiamarlo in tempi passati il premier. Il partito che fa paura alla minoranza di Largo del Nazareno perche non è la sinistra che si allarga al resto ma è una nuova forza politica, o, meglio, sempre per dirla alla Renzi, «è il progetto originario del Pd». Su questo il capo del governo ha pochi dubbi: «Per me bipolarismo significa bipartismo». Più chiaro di così.
Tradotto in legge elettorale: «Premio di maggioranza alla lista e non alla coalizione, sbarramento del 5 per cento e ballottaggio dal 40 in su». Certo, c’è un problemino che si chiama Berlusconi. Renzi però non è pessimista: «Vediamo — spiega ai suoi — perché lui ci sta ancora ragionando. Non ha chiuso tassativamente, come pure è stato scritto, anche se non ha ancora fatto un’apertura decisa e definitiva, però...». Però «si potrebbe presentare l’occasione adatta», insiste il premier. E c’è chi, in Forza Italia, giura che l’ex Cavaliere oscilla. E che, sotto sotto, si rende conto, che le aziende vengono prima di tutto e che quindi che senso avrebbe dare un dispiacere a Renzi? Verdini per ora lo frena, ma chi conosce il premier sa quanto possa essere insistente. E persuasivo.
Anche per questo, ieri, in Direzione, di tutto aveva voglia tranne che di mettersi a litigare con la minoranza interna, peraltro sempre più sparuta. Aveva cose più importanti da fare. «Il Jobs Act dobbiamo portarlo a casa a gennaio ed entro aprile dobbiamo dimostrare che cosa siamo capaci di fare», è il suo leitmotiv. Ossia ben prima dei famosi mille giorni di tempo che si era dato. Nel frattempo urge una decisione, che verrà presa ad horas: la sostituzione di Federica Mogherini agli Esteri. Renzi sembra orientato su Marina Sereni (anche se questa sua scelta potrebbe portare alle dimissioni del viceministro Lapo Pistelli), anche per rinsaldare il suo rapporto con Fassino, benché i bookmakers di Montecitorio non diano ancora in calo le azioni di una renziana di ferro come Simona Bonafè.

il Fatto 21.10.14
Renzi vuole il regime ma si scorda la manovra
"Meglio premio di lista che di coalizione"
Pesca in Sel, M5S Scelta civica, ribalta l'Italicum e pensa al voto
Obiettivo il 51%
Anche ieri la Finanziaria da 36 miliardi non è arrivata a Napolitano: il premier, però, pensa ad altro. Annettersi Sel e Scelta Civica, cambiare l’Italicum e regalare il premio elettorale alla sua lista. Imponendo il partito della Leopolda e azzerando il Pd
di Wanda Marra


Non abbiamo 700 deputati di maggioranza. Anche perché essendo loro 630 sarebbe troppo anche per la vocazione maggioritaria”. Nella replica alla direzione del Pd, Matteo Renzi, mettendola in battuta, lo dice fino in fondo. L’obiettivo è prendere tutti, da tutte le parti. “Se il Pd pensa di essere il partito della nazione deve avere strumenti elettorali in grado di contenere anche realtà diverse. Spero che per Gennaro Migliore, con l’esperienza di Led, fino ad Andrea Romano e a quella parte di Scelta civica o Italia Popolare che vuole stare a sinistra, ci sia spazio di cittadinanza piena”. Romano gli risponde a stretto giro di posta dandogli piena disponibilità (“Gli eletti di Scelta Civica non possono che prendere atto del fallimento di quel progetto e guardare a Renzi”). Ma il progetto del segretario-premier è ben più ambizioso e riguarda anche quelli che in Parlamento “si stanno sgretolando”, ovvero, prima di tutto i Cinque Stelle, citati esplicitamente. E poi, gli elettori di Forza Italia (vedi il giro tv nei salotti Mediaset). Per arrivare al “partito della nazione”, il premier ha bisogno di una legge elettorale adeguata. Dunque, per quanto riguarda l’Italicum “sarebbe meglio il premio alla lista che alla coalizione”. Un modo per stravincere con il suo partito. Nell’ultimo incontro al Nazareno, il tema è stato posto, Berlusconi (che ha sempre tenuto fermo il punto sul premio di coalizione) non ha chiuso, ma non ha neanche aperto. Non a caso, l’Italicum è ancora impantanato in Senato, tra le divisioni di FI e lo stop per evitare di dare al premier lo strumento per il voto immediato. Non a caso, Renzi guarda ai Cinque Stelle, che questo avevano chiesto nell’ultimo streaming.
NELLA DIREZIONE convocata per discutere la forma partito, nessun voto, niente pienone, clima moscio. D’Alema non c’è, Bersani non parla. L’appuntamento lo aveva chiesto la minoranza bersaniana, e il segretario l’ha concesso. Poi, lo trasforma al solito in un palcoscenico per raccontare come vede il Pd da qui al futuro.
Camicia azzurrina, toni sobri e sommessi, Renzi-Zelig si trasforma nel grande padre ecumenico pronto ad accogliere tutti a sé. Quelli di ieri non sono diktat, ma avvertimenti. Prima di tutto al Parlamento: “Dobbiamo riflettere sullo stallo, anche per nostra corresponsabilità, sulle nomine della Consulta in Parlamento”. Per questo, “vedrò presto i capigruppo, Zanda e Speranza”. Secondo avvertimento: “Si può votare secondo coscienza, ma non sulla fiducia. Non siamo una banda di anarchici”. Nessuna espulsione per regolamento. Per ora. Anche perché nel giorno in cui Grillo ne caccia 4 (“È imbarazzante che il M5s abbia espulso chi sul palco è salito per chiedere qual è l'organigramma”, nella sua interpretazione), Renzi ci tiene a marcare la differenza. A non fare martiri. Altro avvertimento: “Alle prossime elezioni del presidente della Repubblica”, comincia. Poi, capisce di aver detto “prossime” e si corregge: “Tra sei anni a scadenza, dobbiamo avere i parlamentari che sanno resistere a Twitter perché su una funzione come quella del capo dello Stato non si può aprire una discussione costante sui social media”. Niente discussioni su un patto che si fa altrove, insomma. Nazareno docet.
Infine, il capitolo Leopolda. Cuperlo, D’Attorre, Fassina, utilizzano le poche cartucce usate in questa direzione per contestare la manifestazione di Firenze. “Che cos’è la Leopolda? Se capisco bene vi sono centinaia o più comitati che hanno la missione di sostenere le idee di Renzi”, si chiede Cuperlo, parlando di “un partito parallelo”.
NELLA REPLICA Renzi si conferma ecumenico: “ ‘Sta Leopolda... ragazzi, veniteci.... non sabato che avete altro da fare.... ho capito”, dice, riferendosi alla manifestazione della Cgil (prima aveva espresso “rispetto” per i sindacati). “È uno spazio di libertà”. Esplicito, a Cuperlo: “Vieni anche tu, Gianni”. Sul tesseramento, solo un passaggio. Per dire che Campania e Puglia sono rispettivamente al -90 e al -89 per cento, rispetto all’anno scorso. Il segretario confrontando i dati nazionali a quelli dei partiti socialisti europei (in Italia sono 239.000, lo spagnolo Psoe ne ha 197.000, il francese Psf 250mila, il Labour inglese 190.000). Al Nazareno gli iscritti dettagliati non li danno: sostengono che sono in evoluzione e che in molte Regioni a fare le tessere hanno iniziato solo a settembre. Ma in un partito che sta ragionando su come avvicinare gli elettori agli iscritti e che si rivolge a tutti, perché “è finito il tempo del voto a tempo indeterminato” questo appare un problema minore. Prossima tappa della discussione, un’Assemblea entro fine anno.

La Stampa 21.10.14
Italicum, Matteo apre un doppio fronte
di Marcello Sorgi


Proponendo, seppure per inciso, alla direzione del Pd di modificare l’Italicum per passare dal premio di coalizione a quello di lista, Matteo Renzi ieri ha aperto - in realtà riaperto - un doppio fronte, interno e esterno. Una legge maggioritaria a doppio turno con premio per il partito, e non per la coalizione, che prende più voti, avrebbe come effetto di trasformare le prossime elezioni in un referendum su Renzi. Lui e Grillo farebbero la campagna l’un contro l’altro armati, né più né meno come alle ultime europee, ma Renzi, vincendo, com’è probabile, conquisterebbe la maggioranza, avendo anche il potere di ridisegnare in gran parte la compagine dei parlamentari che dovrebbero poi dargli la fiducia.
Si tratterebbe di una svolta presidenzialista, oltre che maggioritaria. Logico che non sia piaciuta alla minoranza del Pd, che per bocca di Gianni Cuperlo si era spinta a proporre una convivenza da “separati in casa” tra le varie componenti del partito, una sorta di confederazione aperta alla possibilità estrema di una scissione nel caso in cui l’emarginazione in cui la minoranza è stata ridotta dalla gestione renziana dovesse consolidarsi. Con Renzi padrone delle liste e del premio elettorale gli spazi per gli ex-Pci verrebbero invece ulteriormentente a ridursi.
Non è affatto sicuro,però, che su una simile ipotesi concordi l’altro firmatario del “patto del Nazareno”: il premio di coalizione, com’è stato inserito nel testo dell’Italicum approvato dalla Camera, porterebbe il centrodestra a riunirsi, superando per causa di forza maggiore tutte le divisioni e le difficoltà degli ultimi tempi, quello di lista no. Quanto questo processo di riunificazione sia difficile, per non dire irrealistico, lo dimostrano le sterili (fin qui) trattative per cercare di ricostruire la coalizione in vista delle regionali. Politicamente infatti la contraddizione in cui il centrodestra si trova è che Berlusconi è ancora il solo ad avere un (ridotto) potenziale elettorale, ma è anche quello che impedisce la trasformazione della sua parte in una normale federazione democratica, in cui il leader e i candidati ai vari livelli sono scelti tramite primarie. Di qui le resistenze dell’ex-Cavaliere: quanto forti, non si sa, dato che Berlusconi alla fine non delude mai Renzi e di recente è sempre più disamorato del suo partito, abbandonato a una lotta correntizia infinita e senza rimedio.
Favorevoli all’ultima proposta di Renzi sono invece i partiti minori, sia di governo, come l’Ncd, sia di opposizione, perché il premio alla lista porterebbe con se l’abbassamento della soglia di sbarramento per l’ingresso in Parlamento. Al primo turno, insomma, ognuno potrebbe presentarsi per conto suo: salvo poi rinegoziare i propri voti prima del ballottaggio, in cambio di impegni sulla composizione del governo.

Il Sole 21.10.14
Renzi sente la vocazione maggioritaria ma gli serve la legge elettorale
di Stefano Folli


Verso la Leopolda: il premier non ama che gli oppositori parlino di «partito parallelo»
Nel mezzo del contrasto irrisolto con le regioni e dovendo ancora mettere a punto il testo della legge di stabilità, Matteo Renzi non ha paura di restare con le mani in mano. Ma il premier è soprattutto un uomo politico con un progetto in testa. E oggi più che mai tale progetto passa attraverso la legge elettorale. Senza questa riforma, oggi meno vicina di quanto non si creda, l'intera strategia renziana rischia di avvilupparsi nelle sue contraddizioni: un grande dinamismo a cui corrispondono enormi attese, ma risultati tutt'altro che certi.
Anche ieri, nella direzione del Pd, Renzi ha lasciato capire che quasi tutto ruota intorno alla legge elettorale. Nelle sue mani essa è lo strumento per governare la legislatura – in quanto diventa credibile la minaccia di sciogliere le Camere – e per gestire il suo stesso partito. Su quest'ultimo terreno il premier-segretario ha imparato a muoversi in spazi assai ristretti. Si capisce perché: il Pd di oggi non è una "comunità" politica bene assortita, né ha la possibilità di diventarlo a breve. È piuttosto una "confederazione", come dice Cuperlo. Qualcosa di simile, forse, alla vecchia Dc, dove però non esisteva un capo carismatico e incombente, come tende a essere oggi Renzi nel centrosinistra. Quindi la "confederazione" è sbilanciata e instabile, tenuta insieme dalla voglia di rivincita più che da un disegno condiviso.
D'altra parte la fazione "renziana" non può nemmeno assomigliare a una corrente vecchio stile, del tipo di quelle in cui si divideva, appunto, la Dc. È comprensibile che i collaboratori del premier si risentano se qualcuno evoca questo termine per definire il convegno di sabato, la famosa Leopolda. Naturalmente c'è sempre il rischio che emerga una sorta di "partito parallelo", un movimento "renziano" che fa gioco a sé all'interno del Pd. Ma nemmeno questo va bene al premier per via dei rischi che comporta; ed ecco perché il suo sentiero oggi appare tortuoso.
La legge elettorale sarebbe, almeno nelle intenzioni, la panacea di tutti i mali. Un Pd a "vocazione maggioritaria": la vecchia definizione di Veltroni è tornata in auge e una ragione c'è. Nel partito rimodellato dalla riforma la maggioranza governerebbe e la minoranza interna sarebbe garantita nei suoi spazi residui. In Parlamento il premio in seggi offrirebbe la massima tranquillità, specie quando il sistema sarà monocamerale. Non a caso, per rafforzare tale prospettiva, Renzi ha riproposto con tenacia l'idea del premio di maggioranza assegnato non più alla coalizione, bensì alla lista vincitrice. Ossia, secondo le previsioni, al solo Pd. E infatti il premier ha citato Gennaro Migliore e Andrea Romano come protagonisti di un fenomeno che aggrega le forze da sinistra (ex Sel) e dal centro moderato (ex Scelta Civica).
Ora si tratta di capire quanto sia davvero convinto Berlusconi di una riforma che regala un gran numero di seggi a un singolo partito, anziché a un'alleanza di forze politiche. I dubbi sono legittimi. Per un verso l'innovazione può piacergli, visto che l'intesa con Alfano oggi sarebbe insufficiente e quella con Salvini problematica. Per l'altro verso c'è un problema non di poco conto perché Forza Italia oggi risulta terza in tutti i sondaggi, superata anche (e in misura rilevante) dai Cinque Stelle. Grillo è senza dubbio in crisi di idee e di strategia, ma i suoi elettori non lo hanno del tutto abbandonato. Non ancora. E comunque è difficile che tornino da Berlusconi.

Il Sole 21.10.14
La svolta bipartitica del patto del Nazareno
di Roberto D'Alimonte


Sulla riforma elettorale c'è una grossa novità. Per ora sulla carta. Nella versione dell'Italicum approvata alla Camera il premio di maggioranza può andare sia a un partito singolo che a una coalizione di partiti. Era così anche nel sistema elettorale bocciato dalla Consulta. Erano i partiti a scegliere se presentarsi da soli o in compagnia. Ma sembra che Renzi e Berlusconi abbiano cambiato idea. Secondo quanto il premier ha detto nella direzione del Pd di ieri il nuovo progetto dovrebbe cancellare la possibilità che i partiti concorrano in coalizione nella gara per conquistare il premio. Devono andare da soli. Berlusconi lo aveva già detto qualche settimana fa, ma sembrava una dichiarazione estemporanea. Adesso che lo ha detto anche Renzi siamo davanti a un fatto nuovo di grande rilievo.
Nell'attuale versione dell'Italicum il premio alla coalizione è inserito in un sistema di regole, fortemente voluto da Verdini, che lo rendono funzionale al progetto di ricompattare il centrodestra intorno a una coalizione dei moderati a guida Forza Italia. Il meccanismo chiave è quello della soglia con lo sconto. Attualmente chi decide di presentarsi alle elezioni da solo deve avere l'8% dei voti per ottenere seggi. Se invece si entra in coalizione allora la soglia si abbassa al 4,5%. Con questo meccanismo il Ncd di Alfano, Fdi della Meloni e la Lega di Salvini sono "costretti" a fare l'accordo con Berlusconi per non rischiare di restare fuori dalla Camera. E così Berlusconi torna ad essere il federatore del centrodestra italiano come ai bei tempi.
Oggi questo "schema verdiniano" sembra superato. Pare che Renzi e Berlusconi vogliano puntare dritti verso il bipartitismo. Non basta più il bipolarismo. Non una coalizione deve vincere le elezioni ma un partito. Va da sé che un sistema del genere semplifica non solo il quadro politico ma anche l'ingegneria elettorale. Se il premio va al partito e non alla coalizione tutti i problemi legati al conteggio dei voti di liste coalizzate, ma sotto la soglia, o alla presentazione di liste fasulle, ma buone per raccattare qualche voto in più, sono superati. Tutto è più semplice e più comprensibile. Ma resta qualche dubbio.
Perché Berlusconi si è convinto a rinunciare allo "schema verdiniano"? Senza avere informazioni dirette è difficile rispondere. La vera ragione potrebbe essere la Lega. Il partito di Salvini non è più quello di Bossi, con cui il Cavaliere andava d'amore e d'accordo. La Lega non è più il partito della padania ma sta diventando il partito della destra nazionale. Una destra dura che assomiglia sempre di più al Fronte nazionale di Marine Le Pen. Con una destra del genere anche Berlusconi non può fare accordi. E allora forse meglio puntare a fare il partito unico dei moderati invece della coalizione dei moderati.
Resta da capire perché i partiti minori dovrebbero appoggiare un disegno del genere. Soprattutto quelli del centrodestra. Certo, se il premio va solo al partito e quindi sparisce lo sconto, il buon senso dice che la soglia dell'8% sarà abbassata. Immaginiamo che venga portata al 4%. A quel punto Ncd e Fdi, ma anche Sel, avrebbero in teoria una scelta: entrare nel partito unico (di centrodestra e di centrosinistra) o presentarsi da soli. La seconda opzione presenta il vantaggio che se nessuno dei maggiori partiti vince il premio al primo turno e si va al ballottaggio i loro voti possono diventare determinanti. Ma in primo luogo dovrebbe essere modificato l'Italicum che al momento non prevede apparentamenti. E poi non è detto che questo evento si verifichi. Potrebbe invece verificarsi un evento ancora più deleterio per loro: potrebbero non superare la soglia e restare fuori dalla Camera. Ergo sparire. Si capisce che per Alfano e soci tornare sotto le ali del Cavaliere è cosa indigesta, ma sparire forse lo è ancora di più.
Ora capita che il Ncd sia un alleato di Renzi al governo. Per essere più precisi il premier non ha al Senato la maggioranza senza i voti del Ncd. L'Italicum in versione bipartitica può essere approvato anche senza i voti di Alfano ma poi Alfano che fa? Continua a stare al governo con il Pd come se nulla fosse? E se non succede Renzi il governo con chi lo fa? Oppure punta al voto con l'attuale sistema elettorale proporzionale, quello disegnato dalla Consulta? L'incertezza sotto il cielo è ancora tanta.

il Fatto 21.10.14
Cercasi avversari
di Antonio Padellaro


Alla fine l’unica promessa che potrebbe mantenere è quella che Matteo Renzi si tiene per sé: prendersi la maggioranza assoluta alle prossime elezioni, forse più vicine del previsto. Un percorso che il premier ha disegnato nella direzione Pd di ieri con il combinato disposto “partito nazionale a vocazione maggioritaria” più Italicum con premio di maggioranza alla lista e non più alla coalizione. Significa che il 41 per cento delle Europee potrebbe toccare il 50 per cento se la lista dei Democratici diventerà il carro del vincitore sul quale faranno a spintoni per salire a sinistra i profughi di Sel e al centro i disperati di Scelta Civica. A quel punto, come teme Cuperlo, del Pd resterebbe solo il partito della Leopolda a esclusiva vocazione renziana. Renzi stravince perché ha rimbambito di balle un Paese stremato che gli ha lasciato carta bianca e dice: pensaci tu. Ma se Renzi stravince, gli avversari dove sono finiti? Berlusconi? Un pregiudicato che sopravvive a se stesso e che non chiede di meglio che cedere la ditta al più giovane concorrente, in cambio di una tranquilla vecchiaia. Grillo? Un grande avvenire dietro le spalle che sta disperdendo l’unica opposizione in una nuvola avvelenata di vendette interne e di sproloqui perfino razzisti che Salvini al confronto sembra Madre Teresa di Calcutta. Lo stesso Salvini col suo cinque per cento? La sinistra pd ormai asserragliata come gli ultimi giapponesi nella giungla? Non scherziamo. Renzi stravince perché propone l’eterna paccottiglia nazionalpopolare che piace alle mamme trepidanti (bonus bebè), ai piccoli e grandi evasori, ai proprietari di fabbrichette e a quelli che ‘di questi sindacati non se ne può più’. Infatti, l’ultima grande barriera prima che lo statista di Rignano sull’Arno si pappi tutto è la piazza. Quella che il prossimo 25 ottobre a Roma, in piazza San Giovanni, raccoglierà l’Italia arrabbiata. Quella che chiede lavoro e che non si accontenta degli spot da Barbara D’Urso.

Repubblica 21.10.14
Renzi vuole un nuovo Pd “Il partito della nazione con gli ex Sel e Scelta civica”
La minoranza attacca: “La Leopolda è un movimento parallelo”

Il segretario nega: “Niente correnti e io non sono un usurpatore”

ROMA «’Sta Leopolda, veniteci. La drammatizzazione è stata un po’ un autogol... fa perdere». Renzi contrattacca alla fine di una direzione che deve parlare del futuro del Pd ma diventa subito un match con la minoranza dem su chi vuole veramente bene al partito. Gianni Cuperlo denuncia: «Matteo, con la Leopolda cosa stai facendo? Dobbiamo essere chiari, se tu costruisci e rafforzi un partito parallelo scegli un particolare modello, la locomotiva si avvia in quella direzione e si porta appresso tutti gli altri vagoni. A quel punto andremo verso una confederazione». Verso una deriva. Non il solo attacco. Alfredo D’Attorre afferma che «il partitofederazione non reggerebbe una settimana».
Francesco Boccia chiede «si costruisca un’idea paese da sinistra». Pippo Civati vuole un referendum tra gli iscritti sul Jobs Act. Una pioggia di critiche.
Il segretario-premier assicura: «Prendo un impegno: mai e poi mai ci sarà la strutturazione di una organizzazione parallela sul territorio da parte mia, niente correnti». La sua idea di Pd è nella scommessa di allargare le maglie del partito, che includa perciò dalla sinistra di Gennaro Migliore a Scelta civica di Andrea Romano a Italia Popolare. Un Partito interclassista, maggioritario: il Partito della Nazione.
Un paio di «puntini sulle i», Renzi vuole metterli. Sulla fiducia, non si può fare come pare: la fiducia si vota, «dobbiamo darci delle regole», su questo non c’è libertà di coscienza. E’ l’avviso ai dissidenti. Poi rispetto reciproco. «Il rapporto tra di noi deve superare le tensioni che ci sono state - insiste - Per questo dico che così come non ci sono Flintstones contro innovatori non ci sono usurpatori contro legittimi detentori».
D’altra parte la politica è cambiata. Ora la parola di sinistra è «opportunità». E soprattutto è ormai «finito il voto a tempo indeterminato, è finito l’articolo 18 del voto. Non è che la gente continui a votare sempre gli stessi, comunque vada, gli elettori fanno zapping», ironizza. In questo nuovo paesaggio non c’è nessun Pd-confederazione. La Leopolda è uno spazio di libertà e bellezza della politica. Ci sarebbe molto da dire sul finanziamento del partito. Renzi il 6 a Milano e il 7 a Roma sarà alle cene di autofinanziamento. «Non è che si vuole bene solo al Pd ma anche al paese». E c’è la questione degli iscritti. Una polemica «fuori luogo» per Renzi che fa un raffronto con gli altri partiti di sinistra europei e però ammette che serve una riflessione.

Repubblica 21.10.14
Che cosa vuol dire partito-nazione
di Piero Ignazi


PER ora il segretario Renzi non rottama il partito. Anzi. Demitizzando le primarie a strumento tra i tanti per scegliere candidati e dirigenti il segretario re-introduce un elemento cardine di qualsiasi organizzazione politica che si voglia stabile: il ruolo centrale della classe dirigente. Ora che Matteo Renzi e la sua corrente (del resto, che cosa è la Leopolda se non una classica riunione di corrente, per quanto smart e cool nella forma) sono alla barra del timone si rendono conto che più un partito è “liquido”, più è contendibile.
PERCHÉ oggi non ci sono competitor al segretario, ma se domani le cose dovessero andare male tutto può succedere. Come ricordava domenica Eugenio Scalfari, nessuno è insostituibile: non per nulla, anche dopo De Gaulle non ci fu il paventato diluvio. Quindi, seguendo il motto degli antichi romani, meglio essere pronti ad ogni evenienza. E se si dispone di una organizzazione, ramificata, efficiente e coesa, i momenti critici si attraversano indenni. Ricordino i dirigenti Pd che intonano ossessivamente il mantra salvifico e beneaugurante del risultato elettorale delle elezioni europee di giugno che, in ogni paese e per tutte le elezioni per il parlamento di Strasburgo, la relazione tra voto europeo e nazionale è assai labile… Del resto, cosa rimase del primato conquistato dal Pci alle europee nel 1984? Nulla. Per questo, ritornare ai fondamentali organizzativi di ogni grande partito europeo è cosa saggia e prudente. Poi, lo spazio per le innovazioni è enorme, tanto che, in Europa, le formazioni politiche più importanti studiano e sperimentano nuove forme di partecipazione interna, di trasmissione delle domande dal basso all’alto, di coinvolgimento dei cittadini, di responsabilizzazione e gratificazione dei dirigenti locali, e così via. Anche il Pd deve rinnovarsi e ripensarsi abbandonando alcune velleità inserite al momento della sua fondazione, e affrontando soprattutto il problema del buon uso della rete (quello cattivo lo fa già Beppe Grillo).
Il segretario ha rimandato la discussione su questo punto ad un momento di maggiore approfondimento. Segno che il tema merita riflessione. Ma alcune indicazioni sono già emerse anche perché ogni partito si struttura in rapporto agli obiettivi che si propone. Il Pd, oggi, ama definirsi “partito della nazione”, sul modello britannico: un partito che rappresenta interessi e valori trasversali al punto da ambire, potenzialmente, alla maggioranza assoluta dei consensi. In effetti, il vuoto politico che attualmente circonda i democratici consente lo- ro di porsi obiettivi così ambiziosi: solo una catastrofe economica — come auspica Grillo — può cambiare radicalmente le prospettive. Un partito della nazione recluta a destra e a sinistra, attrae imprenditori e operai, laici e cattolici, dipendenti pubblici e partite Iva. Proprio come voleva fare il Berlusconi del 2001 quando incombendo da quei manifesti giganti con il suo migliore sorriso a 32 carati si rivolgeva a tutte le categorie sociali. Forza Italia non aveva problemi a porsi come un partito “pigliatutti” perché il suo moderatismo (apparente) e il suo benpensantismo condito da qualche fremito anti-establishment si riassumevano nella figura del leader. Il Pd è (ancora) refrattario a ridursi interamente ad un PdR, ad un “Partito di Renzi” secondo il brillante conio di Ilvo Diamanti. Per quanto il segretario-premier domini la scena, il partito sul territorio esiste ancora; e se i circoli languono, le feste dell’Unità resistono bene, a riprova che qualcosa nell’organizzazione politica tradizionale va cambiato.
Il “partito” per quanto un po’ ammaccato — ma non è reponsabilità di Renzi — (r) esiste ancora ed i suoi riferimenti ideali si rifanno tuttora alla tradizione della sinistra di classe e del cattolicesimo democratico. Non è emerso ancora nulla di nuovo e di trasversale, al di là di alcune provocazioni e battute. Non esiste un profilo ideologico del partito della nazione. La stessa debolezza progettuale del partito a vocazione maggioritaria veltroniano rischia di riverberarsi sul progetto renziano. Tra l’altro, le ricerche effettuate dopo le primarie del dicembre 2013 indicano una divaricazione tra iscritti, votanti alle primarie ed eletti all’Assemblea nazionale: gli iscritti sono più sinistra dei votanti che, a loro volta, sono più sinistra dei delegati. Cosa cementa allora questa “comunità” politica, come la chiama il segretario? Su quali valori si fonda per attrarre sostegno da ogni dove? O è solo il profumo del potere che oggi seduce e domani, una volta svanito, allontana? Un grande partito seduce per la forza delle sue idee, dei suoi progetti, delle sue convinzioni. Il resto è contorno, utile per vincere (come accadde a Berlusconi), inutile per costruire.

il Fatto 21.10.14
Apprendisti
Leopolda, volti nuovi e sconosciuti
di Wa. Ma.


Quest’anno darò una mano come tanti altri volontari, sarò nel back-office. Ci saranno altri sul palco ad accompagnare Matteo Renzi”. Maria Elena Boschi, definitivamente diventata la “Giaguara” (dalle scarpe leopardate con tacco) nella manifestazione dell’anno scorso, la racconta così. La nuova versione della Leopolda di governo (che lei, ministro delle Riforme, sta organizzando in prima persona), in programma da venerdì a domenica, sul palco sfoggerà tre volti nuovi del renzismo della prima ora, e uno un po’ meno nuovo, ma in ascesa.
A fare compagnia a Renzi saranno Silvia Fregolent, renzianissima deputata torinese, Luigi Famiglietti, altrettanto renziano, deputato campano, Edoardo Fanucci, anche lui onorevole, toscano e giovanissimo. E poi, ci sarà Lorenza Bonaccorsi, romana.
Siccome Renzi non fa niente a caso, anche questa scelta è studiata: sia la Fregolent (un passato nella giunta provinciale di Torino) che Famiglietti (presidente del Big Bang Campania) sono rimasti fuori dalla segreteria, nonostante abbiano abbracciato la causa dal primo momento. Un modo di riaccoglierli, per non farli sentire esclusi. Fanucci è uno dei personaggi che il nuovo renzismo sta lanciando: spigliato e cordiale, è spesso in tv. La Bonaccorsi, allieva di Gentiloni, è tutta un’altra storia: dopo qualche delusione tra Giunta Marino e equilibri del Pd romano, il segretario-premier l’aveva già risarcita mettendola in segreteria. Dunque, saranno loro a coordinare i tavoli e a co-condurre i lavori. Un ruolo che ha portato fortuna (e sfortuna) a molti prima di loro, da Pippo Civati, a Matteo Richetti, passando per Giorgio Gori, Davide Faraone e la Boschi. Civati è all’opposizione interna “a prescindere”, Gori è stato fatto fuori ormai da tempo, Richetti è diventato una voce critica su metodo e contenuti, Faraone è in attesa di un posto da Sottosegretario alla Scuola. E la Boschi è costantemente in orbita. Che ne sarà dei prossimi quattro?

La Stampa 21.10.14
Nel Pd sale lo scontro sulla Leopolda
Cuperlo a Renzi: “Sei segretario del partito: a che serve la tua kermesse?” Risposta ecumenica: “Venite a vedere”
di Francesca Schianchi


«Questa Leopolda… Veniteci! Epifani ci è venuto l’anno scorso e non mi pare che sia stato mangiato…». La Direzione del Pd è agli sgoccioli. Si è discusso per oltre tre ore di forma partito e tesseramento, di cosa significa sinistra («per me la parola chiave è opportunità», declina Renzi), di partito comunità o di (temuta) «confederazione» di correnti (copyright Cuperlo). E in tanti, dalla minoranza, hanno riproposto con forme diverse la domanda che per primo, da subito, Cuperlo, l’ex sfidante di Renzi alle primarie, pone «per vivacizzare» la discussione «senza tono polemico»: «Matteo, sei segretario del partito e capo del governo: ti chiedo qui, da questa tribuna, cos’è la Leopolda?».
Non bastano i toni concilianti di Renzi («sono ecumenico…»), il tentativo di essere inclusivo («dobbiamo essere un partito in grado di contenere realtà diverse»), il richiamo a non essere «un comitato elettorale ma nemmeno un club di anarchici, di liberi pensatori» condito però da parole soft ai senatori dissidenti («nessuno di noi espellerà un senatore che ha fatto una battaglia trasparente»): nella minoranza la tradizionale kermesse renziana, il prossimo fine settimana a Firenze, proprio non va giù.
«Leggo che dietro c’è una fondazione che ha raccolto due milioni, di cui 300 mila serviranno per il prossimo week end. Se tu costruisci e rafforzi un partito parallelo, scegli un particolare modello di partito», e non andremo «verso un partito comunità ma verso una confederazione», si allarma Cuperlo. Dopo di lui, è il bersaniano Alfredo D’Attorre a paragonare la Leopolda a una «circolazione extracorporea» attraverso cui Renzi ha «scalato il partito»: ma ora «quali sono le finalità e le funzioni?». O ancora Stefano Fassina, o il bersaniano Nico Stumpo: «Da segretario io non avrei organizzato la Leopolda. Mi chiedo: ma quello che si dirà in quella sede, impegna il Pd oppure no? Impegna Renzi come persona ma non come segretario?».
Arrivano anche altre domande, altre obiezioni. Sulla direzione di marcia («il partito della nazione è la sinistra rinnovata che si fa carico di un interesse nazionale, o la nostra trasformazione in un contenitore indistinto», chiede D’Attorre), sull’idea di democrazia del partito e la «tensione morale» che deve avere («a me sembrano assenti o appaltati ad altri, anche se poi ci si rincuora con sondaggi e share», punzecchia Cuperlo), ma è sull’appuntamento del weekend prossimo che più si concentrano le critiche. Che Renzi respinge: «So che sabato in molti avete altro da fare», li stuzzica, ricordando che alcuni saranno in piazza con la Cgil contro un provvedimento del governo, «ma veniteci alla Leopolda. Io sono il primo ad essere contro la corrente dei renziani, e mai e poi mai – assicura – ci sarà la costruzione di organizzazioni parallele sul territorio». Non tema la minoranza, «non c’è stata un’invasione dei barbari dentro al partito», considerare la Leopolda «madre dei nostri problemi significa leggermente sovrastimarla». E’ finito «il voto a tempo indeterminato, l’articolo 18 del voto», e la fatica del consenso «è quotidiana». Da fare «rispettandoci di più», invita tutti, e non attacca la piazza del sindacato, caso mai solo una battuta: «Io ammiro chi vuole occupare le fabbriche, io vorrei occupare i lavoratori».
«Facciamo lo sforzo di non accusare nessuno di lesa maestà se andrà a Roma e non a Firenze, e smettiamo di dire che la Leopolda è contro il partito», saluta la fine della Direzione. Di «come si sta insieme in un grande partito» si continuerà a discutere.

La Stampa 21.10.14
Il baratro tra segretario e minoranza
Due strade destinate a allontanarsi ancora
Il segretario si muove, i suoi oppositori restano fermi
di Federico Geremicca


Che succede quando un partito - o almeno la sua nomenklatura - considera il proprio leader alla stregua di un usurpatore, di un «barbaro», e il leader - dal suo canto - vive il partito come un freno, una pesante e noiosa palla al piede? E’ l’inedito interrogativo al quale Renzi e il Pd dovranno ineludibilmente dare una risposta, visto che da ieri la minoranza interna e il segretario sembrano esser passati dalla guerra guerreggiata all’accidiosa incomunicabilità dei separati in casa. Il che, se possibile, è segno ancor peggiore.
La dialettica tra il premier-segretario ed i suoi oppositori non è più sintetizzabile, ormai, nemmeno con l’abusata immagine della rotta di collisione. Le traiettorie, infatti, divergono, si allontanano: per l’ottima ragione che il primo si muove (in direzione giusta o sbagliata si vedrà) ed i secondi sono fermi, ancorati ad antiche certezze ed al totem della tradizione.
Nulla di quel che il premier propone o fa è accettabile per gli oppositori: dalle riforme del Senato e della legge elettorale al jobs act, dagli 80 euro fino alla manovra appena varata, niente va bene. Per non parlare dell’idea stessa di partito: tema che ieri ha prodotto momenti di crudele comicità quando Renzi, rispondendo a chi lo accusava di aver organizzato un’altra Leopolda ormai essendo segretario, ha invitato tutta la Direzione ad andar lì (piuttosto che perdere tempo con la Cgil e noiosità simili).
E mentre gli oppositori son lì a piantonare la vecchia linea, Matteo Renzi utilizza l’idea veltroniana di partito a vocazione maggioritaria per calare la sua rete e provare - letteralmente - a cambiare fisionomia al Pd: vengano da noi, che c’è spazio, i deputati e i senatori usciti dai partiti di Vendola e di Monti. Dalla sinistra estrema, dunque, alla quasi destra (o centro tecnocratico, per dir così) in ossequio a un disegno che sembra esser quello di una sorta di «partito mangiatutto». Corollario tecnico di tale suggestione è un’idea che Renzi butta lì, quasi si trattasse di una faccenda da niente, di un dettaglio: cambiare il profilo dell’Italicum, attribuendo il premio di maggioranza non più alla coalizione vincente ma al partito più forte...
La tendenza al «partito mangiatutto» merita un inciso, per il gran parlare che si fa di Democrazia cristiana e delle similitudini con il Pd a trazione renziana. L’evocazione pare errata, e qui si annotano due soli punti di contatto: la sempre più ferrea organizzazione in correnti del Pd (confederazione, l’ha definito ieri Cuperlo) e una ormai evidente tendenza all’interclassismo (che si spiega, però, con l’incontestabile evidenza che il Pd oggi guida l’esecutivo: ed escludendo i soviet e le dittature di destra non c’è governo democratico che non fatichi per tener conto delle richieste delle diverse classi sociali).
Assai più evidenti e profonde, piuttosto, sono le differenze: a cominciare dal rigidissimo ancoraggio alle tradizioni che caratterizzava l’azione della Dc (quella cattolica, quella popolare: quella italiana, insomma), un partito che mai avrebbe battuto la via dei cosiddetti diritti civili; per continuare con l’idea stessa di modernità, e quel che ne consegue. Lo stesso straboccante modo di far politica di Matteo Renzi, a ben vedere, è distante anni luce da quello tradizionale dei maggiori leader democristiani, si pensi solo a Moro o ad Andreotti: così che è forse possibile dire, paradossalmente, che pochi dirigenti politici sono meno democristiani di quanto lo sia oggi Renzi, pure nato cattolico, popolare e perfino boy scout...
Al di là degli inevitabili corsi e ricorsi storici, quel che sembra aprire un baratro insuperabile tra il premier-segretario e la generazione di dirigenti che l’ha preceduto (da Bersani a Bindi, da D’Alema fino allo stesso «giovane» Cuperlo) è il rapporto con quello che un tempo si sarebbe ironicamente definito “il nuovo che avanza”. Soprattutto nel discorso di replica alla riunione di ieri della Direzione, Renzi è sembrato quasi tenere una lezione sul come affrontarlo: “I nuovi strumenti di comunicazione - ha detto ad un certo punto - impongono la disintermediazione. Non che i corpi intermedi non contino più, ma il rapporto con la gente si è fatto più diretto...”.
Potrebbe sembrare - e a molti che lo ascoltavano probabilmente così è sembrato - un ragionamento astruso, un po’ alla Casaleggio... E invece è la base teorica di una pratica politica che lo porta puntualmente a “scavalcare” i sindacati, la Confindustria, talvolta sindaci e presidenti di Regione, spesso la stessa magistratura. Nella sua costruzione del “partito mangiatutto” Renzi li bypassa e parla - ormai è noto - direttamente alla gente, al cittadino-elettore. Ieri, forse per la prima volta, si è avuta la sensazione che non avesse più voglia di parlare nemmeno al Pd: un partito che pare considerare sempre più un freno. Un partito - a detta di Renzi - che continua “a guardare al futuro come a una minaccia, piuttosto che un’opportunità”. Un partito inutile, o giù di lì...

Corriere 21.10.14
E un pezzo di minoranza si prepara alla piazza
Camusso lancia la protesta del 25 in San Giovanni. Cuperlo, Civati e Fassina sfileranno, Bersani no
di Alessandro Trocino


ROMA Da una parte, a Firenze, la Leopolda di Matteo Renzi. Dall’altra, a Roma, la piazza della Cgil, con la grande manifestazione di protesta contro il Jobs act e le politiche del governo. In piazza San Giovanni, sabato 25 ottobre, si attendono oltre un milione di persone (secondo un’indagine dello studio Tecné). Susanna Camusso lancia la sfida al governo, ma gli occhi sono puntati anche sulla minoranza del Pd, stretta tra la fedeltà all’esecutivo e la voglia di essere in piazza.
La Camusso spiega che la manifestazione sarà «aperta a tutti quelli che condividono la nostra piattaforma». Non ci saranno veti espliciti ai parlamentari pd che hanno votato la fiducia, ma certo non saranno accolti a braccia aperte. Molti sono ancora indecisi. L’ipotesi più probabile è che domani venga diffuso un testo firmato da alcuni esponenti della sinistra pd nella quale si mettono nero su bianco affinità e divergenze con la Cgil. E si dice quel che chiarisce Alfredo D’Attorre: «Deve essere chiaro che chi di noi andrà in piazza lo farà non per abbattere il governo, ma per cambiare la politica economica e del lavoro dell’esecutivo». Insomma, un’adesione condizionata e limitata. D’Attorre sembra orientato a partecipare: «Ricordiamoci che ci saranno decine di migliaia di elettori del Pd. In piazza ci sarà un pezzo del nostro 41 per cento». I sicuri partecipanti, a ora, sono Gianni Cuperlo, Stefano Fassina e Pippo Civati. Non andrà, invece, Pier Luigi Bersani.
Che la piazza sarà fortemente critica nei confronti del Pd e di Renzi lo si deduce anche dal cinegiornale «L’Italia cambia verso», pubblicato ieri sul sito della Cgil. Un filmato in bianco e nero, parodia dei tg dell’epoca fascista, che prende di mira Renzi. L’ironia di Paolo Hendel si abbatte sul premier e su una riforma «che piace a tutti, da Marchionne a Paperon de’ Paperoni». La segretaria Cgil, lanciando i temi della manifestazione, «Lavoro, dignità, uguaglianza», non ha risparmiato frecciate: «Gli 800 mila posti di lavoro promessi dal ministro Padoan? L’aveva già detto Berlusconi». Quanto ai numeri, «il paragone» con i 3 milioni del 2001 «non si può fare, Renzi, ha poca fantasia: in mezzo ci sono sette anni di crisi e tre milioni di disoccupati».

Repubblica 21.10.14
Fassina
“L’acchiappatutto non mi piace dobbiamo stare con chi lavora”
Molti iscritti e elettori sono smarriti
Bisogna dare priorità al Pd in una fase in cui la discussione politica è rattrappita
intervista di Giovanna Casadio


ROMA . «Se il Partito Nazione è un partito “acchiappatutto” che in realtà porta avanti gli interessi dei più forti, allora non mi convince, non mi piace». Stefano Fassina, leader della sinistra dem, alla fine della direzione del Pd, rincara le critiche.
Fassina, il Pd sarà un Partito Nazione?
«Questa espressione si presta a una interpretazione ambigua. Il partito è parte, non un contenitore indifferenziato. Per me deve stare dalla parte delle persone che lavorano, dalla parte di chi nel mercato del lavoro è più debole».
Questa trasformazione in Partito Nazione non le piace?
«Parlare di Partito Nazione come fa Alfredo Reichlin è un conto, vuol dire un partito che si fa carico dell’interesse generale in una determinata fase storica. Ma se il Partito Nazione è un partito “acchiappatutto” che in realtà porta aventi gli interessi dei più forti, allora non mi convince ».
Accetta l’invito di Renzi di andare alla Leopolda o preferisce sabato la manifestazione della Cgil?
«Beh, la Leopolda c’è per tutto il week end... Comunque ho apprezzato l’invito del segretario e anche la chiacchierata cortese fatta con Maria Elena Boschi. Devo però mantenere l’impegno con i miei bimbi domenica per lo zoo».
Perché questo attacco alla Leopolda? Lei e la sinistra dem la giudicate il partito personale di Renzi?
«Non è un attacco alla Leopolda. Abbiamo rimarcato l’importanza di dare priorità al Pd in una fase in cui c’è un rattrappimento della discussione politica nel partito. C’è un senso di smarrimento di una parte significativa dei nostri iscritti e elettori. Renzi, che è il segretario nazionale, avrebbe dovuto dare piuttosto importanza a un’assemblea nazionale con i coordinatori dei circoli».
Non vi vanno giù neppure i finanziamenti per la Fondazione renziana Open?
«Tutta la nostra capacità di mobilitazione di risorse dovrebbe avere come priorità il Pd. Purtroppo girando sui territori capita spesso di vedere circoli che chiudono, perché non ce la fanno a pagare l’affitto e hanno difficoltà a fare iniziativa politica per carenza di risorse. Di questo il segretario deve farsene carico».
Chi come lei è stato sostenitore della “ditta” bersaniana, considera Renzi e i renziani degli usurpatori?
«Nessuno mai ha utilizzato quell’espressione. Non è il mio sentimento. Considero il segretario del Pd, chi gli è vicino, come parte del partito e non da ora. Posso avere posizioni diverse, ma assolutamente nel Pd».
Qual è il rimprovero a Renzi, di volere poco bene al Pd?
«Abbiamo visioni diverse di come deve essere e deve funzionare un partito. Ripeto, chi ha la responsabilità della segreteria concentri tutte le sue energie sul Pd».
Un Pd “allargato” che vada dalla sinistra di Gennaro Migliore ai centristi di Scelta civica e Italia Popolare, può funzionare?
«Il punto è qual è l’asse di programma e politico-culturale del partito. Non mi basta identificare il Pd con le pari opportunità. Nel XXI secolo è difficile trovare una forza politica che sia per le opportunità impari. Ritengo che la nostra forza e la nostra missione sia quella di essere il partito della persona che lavora, per valorizzarne l’identità, il protagonismo sociale e politico».
Teme che il Pd smetta di essere un partito di sinistra?
«Un partito, soprattutto quando svolge funzioni di governo, è quello che fa. Dobbiamo stare attenti a che la necessaria ricerca del consenso non comporti la subalternità a un’agenda politica che continua a svalutare il lavoro».
Ha ragione Renzi però quando dice che è finito l’articolo 18 del voto. I consensi bisogna conquistarseli volta per volta?
«Questo è vero da almeno mezzo secolo. Il consenso si conquista elezioni dopo elezioni, e le rendite non esistono più da tempo».

il Fatto 21.10.14
L’Unità: presidio dei giornalisti al Nazareno


CI AUGURIAMO che l’appello perché l’Unità torni a far sentire la propria voce si realizzi al più presto”. Lo dice la vicepresidente dell’assemblea Pd Sandra Zampa, dopo aver dato lettura di un documento dei giornalisti de l’Unità, in apertura della direzione del Pd. I giornalisti, in presidio sotto il Nazareno, hanno distribuito il documento, che porta in calce numerose firme del giornalismo e della società civile, ai membri della direzione. “La sinistra ha bisogno di un giornale vivo, e talvolta scomodo, per evitare la tentazione di un riformismo dall’alto che la renderebbe debole e subalterna. Di un giornale vivo ha bisogno la società italiana”. Prosegue il documento: “Dobbiamo fare il possibile, tutto il possibile, per dare un futuro alla storia de l’Unità. È questo che chiedono i lettori del giornale, decine di associazioni della società civile, del mondo sindacale e politico, numerose fondazioni culturali, scrittori e artisti”.

il Fatto 21.10.14
Manovra ancora fantasma, ora il Quirinale è irritato
Padoan aveva promesso “Pronto lunedì mattina”. Al Colle l’aspettavano per le 18, ma non s’è vista
Resta da capire cosa hanno votato i ministri
di Marco Palombi


È pronta, vediamo gli ultimi dettagli in queste ore. Domattina sarà al Quirinale”. Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha forse tratto dalla sua giovinezza in un Pci impanato di gramscianesimo l’ottimismo della volontà che domenica, ospite di Lucia Annunziata a In 1/2 Ora, lo ha spinto a promettere che la Legge di Stabilità fantasma - quella approvata mercoledì scorso dal Consiglio dei ministri (ma quale testo se continuano a riscriverla?) - ieri mattina sarebbe stata portata al Colle per la firma. Per non sacrificare il binomio originale, è toccato al Fatto Quotidiano esercitare dunque il pessimismo della ragione: ebbene al momento di andare in stampa, non sappiamo infatti quali siano i programmi per la notte del ministero del Tesoro, la manovra autunnale che per legge dovrebbe essere alle Camere entro il 15 ottobre non era stata ancora portata al Quirinale (e dunque, contrariamente a quanto promesso dal ministro Boschi, oggi non sarà depositata a Montecitorio).
L’ENNESIMO RITARDO non è stato affatto accolto bene alla presidenza della Repubblica: proprio ieri il Tesoro aveva promesso all’ufficio legislativo del Colle che la legge di Stabilità sarebbe arrivata entro le 18. Un po’ tardi per la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale ma tant’è: e invece niente. È appena il caso di chiarire che Giorgio Napolitano e il suo staff hanno di certo ricevuto via email le varie bozze preparatorie, ma quella che era attesa ieri è la versione definitiva, quella “bollinata” dalla Ragioneria generale dello Stato. Insomma sembra che gli “ultimi dettagli” di Pier Carlo Padoan stiano prendendo più tempo del previsto mentre i particolari della manovra tendono a gonfiarsi con l’aria delle dichiarazioni: uno dei principali consulenti economici del premier, ad esempio, il deputato Pd Yoram Gutgeld, ieri sul Corriere della Sera ha aumentato e non di poco la portata della detassazione triennale dei nuovi assunti a tempo indeterminato.
Se il ministro dell’Economia, infatti, aveva promesso 800mila nuovi posti di lavoro, Gutgeld s’è spinto a 850mila e con uno sgravio più alto: 8.060 euro a contratto anziché 6.200. Al di là della promessa berlusconiana (su cui torneremo subito) il costo dell’operazione passa così a quasi sette miliardi nel triennio 2015-2017, mentre nelle bozze della manovra ne erano stati inseriti solo 3 mentre, prendendo per buone alcune dichiarazioni di Padoan, si poteva ipotizzare uno stanziamento finale di 5 miliardi. Ovviamente la cosa non ha alcuna relazione coi nuovi posti di lavoro: 800 o 850mila in tre anni che siano, si tratta solo dei contratti per cui le imprese beneficeranno degli sgravi, non certo di nuovi posti. Nel 2013, per dire, anno di crisi nera, in Italia sono stati attivati più di un milione e mezzo di contratti a tempo indeterminato, 400mila a trimestre: come faranno Padoan e Gutgeld a riconoscere i loro? Di più: se questa è la dinamica a febbraio i fondi per il 2015 saranno già finiti, finendo per sgravare assunzioni che le aziende avevano probabilmente già deciso in precedenza. Un regalo. In realtà la manovra rischia di riservare una pessima sorpresa anche dal lato delle tasse. Tra i 3,5 miliardi di minor deficit che dovrebbero costituire la “riserva” da offrire alla Sfinge di Bruxelles nel caso la Commissione Ue ritenga inaccettabile la legge di Stabilità, entra per una quota che dovrebbe aggirarsi sui due terzi (due miliardi) un taglio di detrazioni, deduzioni e agevolazioni fiscali: vecchia fissa dei governi fin dai tempi di Giulio Tremonti, che le cosiddette “spese fiscali” le voleva tagliare dieci volte di più. Come è intuibile, in ogni caso, minori detrazioni fiscali significano più tasse da pagare soprattutto sui redditi mediobassi, quelli che usufruiscono di più delle detrazioni.
DOVRANNO accontentarsi del bonus triennale da 80 euro al mese per i figli nati nel 2015 (non è chiaro se anche per quelli nati l’anno dopo) in famiglie con reddito inferiore a 90mila euro l’anno o Isee inferiore a trentamila (non è chiaro). Un po’ di numeri: nel 2013 in Italia sono nati circa 515mila bambini, quindi il bonus per ogni singola leva costa un po’ meno di mezzo miliardo l’anno. Bene, si dirà, esattamente lo stanziamento di Renzi. C’è un problema: nelle bozze quei soldi sono una tantum. Altra questione. Se gli 80 euro a figlio verranno mantenuti anche negli anni successivi il costo è destinato a salire: quasi un miliardo nel 2016 e circa 1,4 miliardi nel 2017. I soldi per ora non ci sono, ma se Matteo l’ha promesso a Barbara in diretta tv...

il Fatto 21.10.14
Giustizia, scuola, lavoro Renzi non chiude niente
Le promesse dei cento giorni sono ormai alle spalle e le riforme costituzionali impantanate alle Camere
Per questo ne fa di nuove
di Paola Zanca


E al 50esimo giorno, arrivò l’annuncio: ottanta euro al mese per ogni nuovo nato nel 2015. Diceva Matteo Renzi che “la presenza del count down è la vera rivoluzione della politica italiana”. É il numerino che si aggiorna ogni 24 ore, sta sul sito passodopopasso e oggi segna 51. “Mi spiego meglio – chiariva il presidente del Consiglio - Nel momento in cui sei accusato di annuncite, noi rispondiamo con l’elenco che dà una data alla quale siamo evidentemente autocostretti”. Però, alla squadra di governo, i panni dell’aucostrizione vanno evidentemente stretti. Così, l’orizzonte delle promesse, dai 100 giorni è passato ai mille. E al di là della vittoria incassata con gli 80 euro, ormai non si sbilancia su nulla che non sia il maggio del 2017. Eppure, era febbraio del 2014, sembrava tutto così facile. Mignolo, anulare, medio. Matteo sciorinava provvedimenti partendo dal dito più piccolo, a marcare la differenza. Tutto doveva succedere in tre mesi: “100 giorni di lotta durissima per cambiare”, disse illustrando le slide della “svolta buona”. Ricordate? Ad aprile la pubblica amministrazione, a maggio il fisco, a giugno la giustizia. E poi il traguardo: “Prendete questa data: 1 luglio”. “Il primo di luglio noi avremo un’Italia più leggera, quindi alla guida del semestre europeo ci sarà, non dico un’altra Italia, perché sarebbe eccessivo, ma sicuramente più leggera. Pronti, si parte”.
Pubblica amministrazione. Ad aprile è partito solo il percorso di consultazione. Per il decreto si è dovuto aspettare ottobre. Ora in Parlamento c'è la legge delega. E lo stesso Renzi, adesso, non promette novità prima della prossima primavera.
Riforma del Senato. “Questo è testo che noi oggi formalmente consegnamo a tutti i leader politici che stanno in Parlamento - sventolava il premier - È un passaggio impressionante, storico e incredibile”. Per ora, fermo a Montecitorio.
Legge elettorale. Anche qui, toni epici: “Mai più larghe intese, chi vince governa 5 anni, candidati legati al territorio, stop ai ricatti dei piccoli partiti. Vogliamo dirlo che questa è una rivoluzione impressionante per l’Italia? ” Diciamolo, ma dopo il voto alla Camera, anche questa si è arenata in commissione a palazzo Madama.
Sblocco debiti P. a.. Grande tormentone, promessi 68 miliardi entro luglio. Poi ha dovuto aggiornare la scadenza: 21 settembre. Quel giorno la Cgia ha fatto i conti: “Nel biennio 2013-2014 sono stati messi a disposizione 56,8 miliardi di euro e entro il 21 luglio 2014 (ultimo aggiornamento disponibile) ne sono stati pagati 26,1: alle imprese mancano 30,7 miliardi. La promessa non è stata mantenuta”.
Piano sicurezza scolastica. La prima slide parlava di 3 miliardi e mezzo, i conti di oggi parlano di finanziamenti ridotti a un terzo. E il sottosegretario all’Istruzione Roberto Reggi (oggi dimesso) ad agosto confessava al Fatto: “Abbiamo aggiornato la scadenza entro la quale comuni e province posso aggiudicarsi gli appalti. Hanno tempo fino alla fine dell’anno per appaltare i lavori. In questo caso, il denaro arriverà a gennaio 2015 a sindaci e presidenti di Provincia”.
Nuovo codice del lavoro. Nella conferenza stampa del 22 febbraio prometteva entro 6 mesi un assegno universale di disoccupazione e la revisione degli ammortizzatori sociali. Ma il Jobs Act ancora non c’è: la legge delega è passata al Senato (con la fiducia e quasi in bianco): palazzo Chigi promette un testo entro fine anno, Renzi punta tutto sull’articolo 18 e la Cgil tra quattro giorni torna in piazza.
Giustizia. Anche per la giustizia – riforma che prevede, tra le altre cose, la responsabilità civile dei magistrati, l’autoriciclaggio, il falso in bilancio, il dimezzamento dei tempi dei processi (e delle ferie dei magistrati) – ha superato indenne la scadenza di giugno (come da slide). E la settimana scorsa, il presidente del Senato Pietro Grasso ha vuotato il sacco: “Ormai da mesi – ha detto – sulle riforme penali registro una difficoltà politica di giungere a soluzioni equilibrate: questi interventi sono indifferibili”.
Mille asili. Il primo settembre annunciava un grande intervento per l’apertura di strutture per l’infanzia. Da Barbara D’Urso ha calato la maschera ed è ritornato sull’unico numero che gli ha portato fortuna: mamme, 80 euro anche per voi.

il Fatto 21.10.14
Elargizioni. Consigli dopo gli annunci
Donne, non pensate troppo al bonus
di Elisabetta Ambrosi


Avviso a tutte le donne incinte o a quelle che sono ancora fertili e forse pensano di fare un figlio. Sospendete l’uso della ragione, accantonatelo fino a data (politico-culturale) da destinarsi. Lo so che è duro, visto che la donna è un essere pensante, ma non c’è altra strada, pena l’uscita di senno. Se, ad esempio, domenica sera vi foste messe davanti al televisore ad ascoltare l’annuncio di Renzi degli 80 euro per le mamme cercando di porvi domande sensate – come arriveranno i soldi? Se aspetto due gemelli il bonus sarà doppio? – di certo la vostra mente ne sarebbe uscita turbata, come quella di certi teologi medioevali che cercavano di comprendere un assoluto, ab-solutus, sciolto da tutto, attraverso l’intelletto (con l’aggravante che qui l’assoluto è televisivo). Usando la ragione, infatti, vi sareste chieste come mai Renzi ha detto che il bonus sarebbe andato a tutte le mamme, per poi aggiungere “e anche ai papà”, per poi aggiungere e anche “ai nonni, perché tanto pagano loro”, per poi aggiungere “ai bambini, il che dimostra che non è uno spot elettorale”.
USANDO LA RAGIONE avreste subito cercato di capire se i soldi che andranno a finanziare il fantomatico bonus sono gli stessi che avrebbero dovuto finanziare i famosi mille asili nido in mille giorni, oppure l’altrettanto sbandierato quoziente familiare previsto dal Jobs Act. Usando la ragione, vi sareste anche un po’ inferocite a pensare con quanta malafede si stesse presentando il bonus, quasi che con quest’uscita si fosse risolto l’immenso problema della conciliazione tra lavoro e figli. E sempre usando la ragione vi sareste trovate nel tragico paradosso di essere d’accordo con Matteo Salvini, che ha definito la nuova promessa una presa per i fondelli, visto che in Francia il bonus lo danno per le spese vive di un neonato, salvo poi aggiungerci generosi assegni mensili e nidi gratis. Usando la ragione, ancora, sareste arrivate alla stessa conclusione cui è arrivata Giulia Bongiorno nell’intervista rilasciata ieri al Secolo XIX: e cioè che Renzi ha una visione delle donne, e delle madri, preistorica e pure mussoliniana e che se proprio volesse fare qualcosa dovrebbe ricominciare a ripristinare il ministero delle Pari Opportunità. A usare la ragione, vi sareste anche intristite a pensare a come le mamme tornano buone quando bisogna attaccare l’articolo 18 – magari dicendo che “l’obiettivo è la mamma che non ha la maternità” – o quando fa comodo usare i soliti stereotipi (come quando a marzo Renzi disse che “le mamme sono brave il doppio”). Ma soprattutto, sempre usando la ragione, vi sareste definitivamente incupite a pensare come siamo finiti dalla cultura dei diritti, e delle politiche familiari, all’abisso della (non) cultura del bonus, “la carità mentre si taglia lo stato sociale, l’elemosina al posto di giustizia ed eguaglianza”, come ha scritto un illuminato commentatore sul web. Se volete fare un figlio, dunque la ragione accantonatela. E non ce la fate, perché appunto siete donne pensanti, beh allora sono veramente guai.

il Fatto 21.10.14
Cuci e scuci
Serracchiani taglia Matteo rilancia


Non deve essere semplice fare il presidente di una Regione e contemporaneamente il vice segretario di un Pd che ha per segretario Mr. Annuncio Matteo Renzi. Debora Serracchiani, presidente eletto del Friuli Venezia Giulia, giusto una settimana fa a Ballarò, su RaiTre, rivendicava la cencellazione del “bonus bebè” in Friuli. L’elargizione, argomentava, era nata “pensando che questo potesse incentivare la maternità”. Ma “in realtà sono nati sempre meno figli. Al che abbiamo detto non vale la pena fare questo tipo di operazione, mettiamo più soldi sull’abbattimento delle rette degli asili nido”. Ne aveva quindi dedotto che i soldi “dobbiamo imparare a spenderli meglio, e soprattutto a scegliere”. Poi è arrivato il segretario premier del Pd e che ti va a proporre? Il bonus bebè. Delle due l’una. O la Serracchiani non sa spendere i soldi o Renzi li sta buttando dalla finestra.

il Fatto 21.10.14
Sblocca Italia
L’Ue contro il regalo ai gestori di autostrade
di Carlo Di Foggia


Ben ultima anche l’Europa: sullo Sblocca Italia, la figuraccia del governo è ormai a un passo. Dopo aver incassato critiche a raffica (Autorità anticorruzione, Bankitalia, Antitrust etc.), per il decreto che oggi (salvo imprevisti) verrà licenziato dalla Camera, la commissione Ue è pronta a sanzionare l’Italia. Motivo? Il regalo miliardario ai signori delle autostrade, una pioggia di soldi inserita alla voce “prolungamento delle concessioni” autostradali (articolo 5). Funziona così: viste le casse pubbliche vuote, in cambio della promessa di nuovi investimenti, il governo di Matteo Renzi è pronto a concedere ai grandi gruppi che gestiscono le tratte (le autostrade sono pubbliche) l’allungamento della concessione allo sfruttamento, senza gara e con la possibilità di aumentare i pedaggi. Una misura che - ha calcolato l’ex direttore esecutivo della Banca Mondiale Giorgio Ragazzi - porterebbe nelle casse dei beneficiari (Benetton, Gavio etc.) qualcosa come 16 miliardi di euro nei prossimi trent’anni, sotto forma di pedaggi (che crescono sempre per l'inflazione e altri fattori). Dal canto loro, i concessionari promettono investimenti per circa 11 miliardi. A conti fatti, se pure fossero realizzati, considerando i consueti ritardi, la cifra è assai inferiore al regalo garantito dallo Sblocca Italia. Molte delle concessioni sono in scadenza e, stando alle norme europee, dovrebbero essere riaffidate tramite gare aperte a tutti i soggetti. Un’ipotesi che terrorizza i concessionari, e per questo disinnescata accortamente dal decreto.
UN PRONUNCIAMENTO dell’Ue era atteso. A settembre, il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi aveva presentato le misure all’Europa. Il passaggio era obbligato: da tempo, infatti, Bruxelles ha messo sott’occhio l’atteggiamento dei governi italiani nei confronti della autostrade, e la raffica di favori (sempre in tema di concessioni) più volte elargiti ai gesttori dopo la grande privatizzazione di fine secolo. Un assenso, quindi, era tutt’altro che scontato. Ieri la doccia gelata. I dubbi sullo Sblocca Italia sono stati resi con un po’ di ritardo, forse dovuto alle lunghe fasi che stanno caratterizzando il rinnovo delle cariche: il 17 ottobre scorso, l’esecutivo comunitario ha avviato una Eu pilot, una pre-procedura d’infrazione, chiedendo lumi su una norma che, così come è scritta, viola le direttive comunitarie. Pena, l’apertura della procedura vera e propria. In una lettera inviata al ministero, la direzione generale Trasporti mette sotto accusa “la stipula di atti per la modifica dei rapporti concessori esistenti sulla base di nuovi piani economico-finanziari” prevista all’articolo 5 del decreto. Stando alle direttive europee, infatti, i lavori (cioè gli investimenti) promessi dai concessionari in cambio della proroga possono aggirare l’obbligo di messa a gara solo se “necessari, a seguito di una circostanza imprevista, per l’esecuzione dell’opera prevista”, altrimenti bisogna aprire un bando pubblico. Tanto più che il testo autorizza a unificare “tratte interconnesse o attigue”, permettendo così a chi è in scadenza di prolungare la concessione attraverso l’accorpamento.
Lupi ha sempre giustificato la norma spiegando che o si aumentano le tariffe o si allungano le concessioni, citando il caso della Francia, dove però l’Ue ha concesso l’allungamento per un solo anno, solo per far fronte a lavori direttamente proporzionali e con penali severe in caso di ritardi. Forse temendo le mosse della Commissione, nei giorni scorsi il governo aveva introdotto una prima correzione: per la proroga delle concessioni autostradali servirà il via libera dell’Ue. Non è servito. Come se non bastasse, ieri il testo ha incassato la bocciatura del Comitato della legislazione (“troppe misure che non centrano nulla”) e delle Regioni, con l’aggiunta del leader dei dissidenti Pd. Pippo Civati ha spiegato che il decreto “sarà una buona palestra” per iniziare a votare in dissenso.

il Fatto 21.10.14
Conflitto di interessi
Arriva in aula, ma senza accordo


È arrivata ieri sera nell’aula di Montecitorio. Ma la strada della legge sul conflitto di interessi non è per niente in discesa. Il relatore Paolo Sisto (Forza Italia) ha assemblato le varie proposte che erano state depositate in commissione: “Ho elaborato questo testo svolgendo un mero lavoro di sintesi e di assemblaggio dei contenuti delle diverse proposte di legge, senza che questo costituisca la mia opinione politica. Perciò, sul contenuto riferirò con la stessa asetticità utilizzata per la sua formulazione”. Si è fatta questa scelta perché l’ufficio di Presidenza della Camera aveva imposto una calendarizzazione rapida della legge, attesa da vent’anni. Così, la commissione Affari Costituzionali ha accelerato i tempi, ma senza discutere e arrivare ad un testo minimamente condiviso. Il Pd ha già fatto sapere che non voterà mai il testo Sisto. E come se non bastasse, il Parlamento ora sarà impegnato nella sessione di bilancio. Per discutere di conflitto di interessi, nemmeno questa sarà la volta buona.

La Stampa 21.10.14
Rimborsopoli, eccole spese che accusano il Pd
Niente archiviazione per due assessori e il segretario regionale

di Lodovico Poletto Maurizio Tropeano

Non è una giornata facile per Sergio Chiamparino e per la sua giunta di sinistra e certo non aiuta il riscaldamento accesso anche se fuori dal palazzo ci sono più di venti gradi. Alle 13 il presidente e i due assessori per cui il Gup ha chiesto l’imputazione coatta si presentano ai giornalisti tesi e non nascondono la loro angoscia. Monica Cerutti si fa prendere dalla commozione mentre Aldo Reschigna trattine la sua angoscia ma spiega: «Mi sento un po’ come se fossi il dottor Jeckyll e mister Hyde». Chiamparino ha deciso di non accettare il loro passo indietro e di tenerli al suo fianco: «Alla luce delle motivazioni del Gup e della conoscenza del loro lavoro per motivi morali e politici gli ho chiesto di restare al loro posto a testa alta».
Niente dimissioni
Cerutti e Reschigna subito dopo l’annuncio della decisione del Gup hanno chiesto di incontrare Chiamparino a cui hanno presentato le loro dimissioni, respinte. E nel pomeriggio anche Gariglio si è presentato dimissionario alla riunione della segreteria democratica. Anche in questo caso, dimissioni respinte. Gariglio continua a sostenere la diversità di comportamento dei consiglieri democratici: «A nessuno di noi viene contestata alcuna spesa di acquisto di oggetti per uso personale o di proprio arricchimento». E Reschigna aggiunge: «Il fatto che venga riconosciuto anche dal Gup che neanche un euro dei fondi pubblici è stato da me usato per scopi personali mi conforta e mi dà la forza di andare avanti».
Cota alla sbarra
Il presidente si dice convinto che la sua scelta è in coerenza con quanto affermato in campagna elettorale e nel pomeriggio, nel corso di una riunione di giunta dà il via libera alla costituzione della Regione come parte civile nel processo a carico dell’ex presidente della giunta Roberto Cota e di altri 24 imputati. Undici di loro, Cota compreso, hanno restituito la somma contestata dai pm maggiorata del 30 per cento. Quattordici non l’hanno fatto (Giovine, Tiramani, Dell’Utri, Burzi, Negro, Lupi padre e figlia, Formagnana, Cortopassi, Mastrullo, Motta, Tentoni, Valle e Stara) e contro di loro la giunta Chiamparino ha deciso di chiedere il riconoscimento dei danni, cioè la cifra contestata maggiorata del 30%.
Il processo
Il processo Rimborsopoli va in scena nell’aula 45 del tribunale, di fronte al giudice Silvia Bersano Begey, già presidente del collegio che aveva condannato nei mesi scorsi l’ex assessore Caterina Ferrero per la vicenda dei pannoloni. È un’udienza interlocutoria, destinata alle questioni preliminari, in vista anche del ricongiungimento delle nuove posizioni emerse ieri con il rigetto delle archiviazioni per altri 10 indagati con la richiesta di impugnazione coatta per lo stesso tipo di reato contestato: peculato.
La legge Severino
Cinquestelle e centrodestra hanno chiesto a Chiamparino e al Pd un atteggiamento di coerenza «visto che hanno hanno utilizzato Rimborsopoli in campagna elettorale», attacca Gilberto Pichetto, capogruppo di Forza Italia. Il presidente, però, ha deciso una linea garantista nei confronti dei suoi assessori («quando le liste erano in formazione e quando si è formata la giunta non erano stati rinviati a giudizio e non lo sono nemmeno ora», precisa) e, dunque, anche degli altri esponenti democratici coinvolti nella vicenda (lo stesso Gariglio, il vicecapogruppo al Senato, Stefano lepri, e la consigliera regionale Angela Motta). Cerutti e Reschigna, dunque, continueranno a fare gli assessori e lo faranno anche nel caso di un rinvio a giudizio. Alla fine solo in caso di condanna, se ci sarà, si dimetteranno anche per effetto della legge Severino.

il Fatto 21.10.14
Crepuscoli. Da Arcore a Pontassieve
Silvio e il suicidio assistito del berlusconismo
di Fabrizio d’Esposito


L’ultimo giapponese che si aggira indomito e inconsapevole nella giungla berlusconiana è Renato Brunetta, che dalle colonne del suo Mattinale verga proclami altisonanti: “Berlusconi non ci sta. Non cede alla lusinga del renzismo e dei suoi teorici palesi e occulti”. Pura propaganda, nella Salò azzurra. Il Mattinale addirittura definisce “dirompente” lo stanco intervento telefonico del Pregiudicato di domenica scorsa, durante un’iniziativa nelle Marche. Ma di dirompente, ieri, nell’ex mondo magico di B. c’è stata solo la schizofrenia del Giornale di famiglia che in prima pagina ha celebrato il renzusconismo televisivo intortato a una raggiante comare Cozzolino (alias Barbara d’Urso) su Canale 5, mentre a pagina tre ha scolpito con imbarazzo la frase più forte del Condannato nel suo comizietto a viva voce: “La politica in tv è morta”. Patetico, se non penoso. Delle due l’una - o la tv è viva e lotta con Renzi oppure è morta - e non c’è dubbio su chi abbia ragione.
Il patto del Nazareno è ormai una tragicommedia delle parti tra Renzi e Berlusconi che costringe l’attore più anziano a far finta di fare politica, nella speranza di salvare almeno le apparenze. Dopo però l’unzione di TeleNazareno al premier, cioè all’attore più giovane, dentro Forza Italia nessuno crede più alle parole di riscatto dell’ex Cavaliere. Non solo per l’enorme divario nei sondaggi tra il Pd renziano e quel che resta degli azzurri. Per avere il dato attuale di FI basta rovesciare il risultato europeo di Renzi: 41 per cento contro 14. Ed è per questo che ex ministri di B. ed altri importanti parlamentari forzisti si dilettano con gravità a cercare la formula giusta per questa fase crepuscolare: “eutanasia”, “dolce morte”, “suicidio assistito”.
TUTTO NASCE da quello “sfondamento consenziente ” (il copyright è di un ex ministro azzurro) che Berlusconi sta concedendo a Renzi nel recinto del centrodestra. L’offerta è totale e potrebbe anche imporre un sacrificio sulla legge elettorale con il fatidico premio di lista che condannerebbe Forza Italia a un terzo posto certo. Ecco l’analisi della posizione filorenziana di B. nella parole di chi in Forza Italia si riconosce senza se e senza ma nel patto del Nazareno: “Dobbiamo prendere atto che in questa fase non c’è un’alternativa a Renzi. Il premier sta facendo tutte quelle cose che piacciono a noi e noi dobbiamo stare con lui. La legge elettorale? Tanto non si vota per il momento, finché Renzi può contare su di noi che bisogno ha di andare a votare? Ha già tutto il potere che vuole, è capo del Pd e presidente del Consiglio”. Fin qui gli entusiasti azzurri di TeleNazareno, che confidano nel quotidiano contatto di Denis Verdini con l’emissario di “Matteo”, Luca Lotti. Poi ci sono gli scontenti, i delusi alla Fitto e il loro scoramento porta paradossalmente alle stesse conclusioni di chi tifa per lo Spregiudicato di Palazzo Chigi: “Ci siamo consegnati a Renzi”.
Il risultato non cambia. Da un lato però è giudicato con enfasi positiva, anche a tutela del gigantesco conflitto d’interessi del Pregiudicato. Dall’altro ha un’accoglienza funebre, da “dolce morte” o “suicidio assistito”. Il renzusconismo aspira alla dittatura della maggioranza e vede Renzi come nuovo Unto del Signore. Anche perché, Verdini a parte, tutto il vero cerchio magico dell’ex Cavaliere è schierato con il Nazareno: Gianni Letta, Fedele Confalonieri, Ennio Doris. Primum vivere, deinde philosophari, cioè fare politica. L’anomalia berlusconiana trova sempre conferme.
TRA ARCORE e Palazzo Grazioli raccontano persino che i due si metteranno d’accordo sulle prossime regionali, che nei pronostici potrebbero riservare al centrodestra un bruciante nove a zero, includendo nel conto anche il prossimo turno autunnale di Emilia Romagna e Calabria. Ma dove il Nazareno celebrerà i suoi fasti sarà in occasione della successione a breve di Giorgio Napolitano, che continua a ripetere di non voler festeggiare da capo dello Stato il suo novantesimo compleanno, il 29 giugno 2015. Ieri Renzi ha già spedito il primo segnale ai suoi avversari interni: “Quando si eleggerà il capo dello Stato i deputati dovranno resistere a Twitter”. Esplicito il riferimento a quei grandi elettori del Pd che bruciarono così la candidatura di Franco Marini per il Quirinale, concordata da Bersani e Berlusconi. Vicenda che fu lo strabico preludio al dramma successivo dei 101 franchi tiratori che boicottarono Romano Prodi. Al momento il presidente della Repubblica voluto dal Nazareno è una donna. In casa Pd c’è aria di derby tra la Pinotti e la Finocchiaro. Ma tutto è prematuro. Lunga e impervia è la strada.

La Stampa 21.10.14
Togliete twitter a Gasparri
di Mattia Feltri

Breve campionario twitteristico di Maurizio Gasparri: letame, imbecille, cespuglio di imbecilli, demente, sterco, sterco in discarica, shampista, scemi, nullità, zombie, coglioni. Un po’ gutturali, per essere cinguettii, ma questa pare sia la cifra dei tempi, e specialmente se c’è in ballo l’ex missino, il quale secondo le istituzioni è pure vicepresidente del Senato. L’ultima colluttazione è di ieri, e molti ne sapranno già i contorni: prima con Fedez, rapper che in politica è noto per la contiguità con Beppe Grillo, e definito dal senatore «questo coso dipinto» per via dei tatuaggi; e ancora: «quel coso dipinto ispira pena, si fa orrore e si nasconde a se stesso». Poi la rissa è proseguita con una ragazzina, una che non ha proprio un timore riverenziale per il Palazzo («sei sporco», scrive), e a Gasparri pare di nuovo una disputa degna di essere affrontata. «Meno droga, più dieta», tracolla riferito alla ragazza sovrappeso. C’è poco da fare, per Gasparri twitter è un mare in cui tuffarsi vestiti e menare, alla romana, ’ndo cojo cojo. L’Italia batte l’Inghilterra ai mondiali e lui esulta: «E fa piacere mandare a fare... gli inglesi, boriosi e coglioni». Uno risponde: brutto pirla, veramente a me questi mi hanno dato un lavoro. E lui: «Bravo, lava i piatti». E avanti così, tua mamma è sul marciapiedi, a te ti raccolgo con la paletta, in testa hai la segatura. Non c’è provocazione, la piiù facile, in cui lui non caschi, per sfogarsi pettoruto dentro un microfono sempre acceso, finalmente.

Corriere 21.10.14
Proclami ed epurazioni a raffica,
La deriva autoritaria di Grillo
Le battaglie annunciate restano virtuali, le idee xenofobe non piacciono alla base: i riflessi pavloviani dell’ex comico lo portano a navigare a vista
di Marco Imarisio

qui

il Fatto 21.10.14
Beppe Grillo
“I clandestini vanno rispediti a casa loro”
Su Isis e ebola: “Flussi migratori insostenibili, epidemie inevitabili
di L. D. C.


I clandestini? “Vanno rispediti da dove vengono”. Grillo torna sul tema immigrazione, suo vecchio pallino, con un post (non firmato) sul blog in cui disegna un’Italia presto invasa da torme di immigrati e dall’Ebola, per poi invocare misure draconiane. Righe che sembrano una risposta all’avanzata nei consensi della Lega Nord, trainata da Matteo Salvini. E forse pure un modo per spostare l’attenzione dalla nuova ondata di espulsioni. Di certo il post è durissimo. Inizia con scenari da apocalisse: “L’Isis sta producendo flussi migratori insostenibili, negli ultimi mesi sono arrivati in 100.000, e in futuro la situazione peggiorerà. Ebola sta penetrando in Europa, è solo questione di tempo perché in Italia ci siano i primi casi”. Nel frattempo “i partiti si stanno baloccando tra razzismo e buonismo un tanto al chilo, ma sempre sulle spalle delle fasce più deboli della popolazione, il tutto per un pugno di voti”. E allora Grillo monita: “È tempo di affrontare l’immigrazione come un problema da risolvere e non come un tabù”. Come? “Chi entra in Italia con i barconi è un perfetto sconosciuto: deve essere identificato immediatamente, i profughi vanno accolti, gli altri, i cosiddetti clandestini rispediti da dove venivano (consecutio avventurosa , ndr). Chi entra ora deve essere sottoposto a una visita medica obbligatoria all’ingresso per tutelare la sua salute e quelle degli italiani che dovessero venirne a contatto”. Non solo: va disdetto il Trattato di Dublino, in base a cui “il profugo che arriva in un Paese non può più uscirne per essere accolto altrove. Chi arriva in Italia dalla Siria per esempio non può andare in un altro Paese della Ue e passa il tempo a cercare di fuggire”. Male, malissimo per Grillo: “L’Italia è diventata la sala di aspetto dei disperati del mondo. Chi arriva qui deve avere il diritto di muoversi liberamente nella Ue”. Così la pensa il blog. Concludendo: “In mancanza di queste immediate misure avremo sempre più razzismo e malattie epidemiche. È questo quello che vogliamo?”. Così il numero uno dei 5 Stelle. Salvini si sente invaso sul proprio terreno. E risponde su Twitter: “Per Grillo i migranti vanno rispediti a casa. Ma se M5S ha votato contro reato di immigrazione clandestina”. Nel dettaglio, a presentare un emendamento contro il reato furono i senatori Buccarella e Cioffi. Grillo e Casaleggio si infuriarono, pubblicamente. Ma il voto sul web dette ragione ai due parlamentari del Movimento.

il Fatto 21.10.14
Un polacco salverà Farage. Disse: “Bene picchiare le donne”


“WE ARE BACK”, così il gruppo Efdd, annuncia l’operazione di rinascita degli euroscettici al Parlamento europeo. Il gruppo è composto da Ukip e Movimento Cinque Stelle. Sciolto giovedì scorso per le dimissioni della lettone Iveta Grigule, Efdd nato dall’alleanza di Beppe Grillo e Nigel Farage, rinasce con l'ingresso un eurodeputato dell’estrema destra polacca, Robert Jaroslaw Iwaszkiewicz. E si riappropria del quorum di sette nazionalità diverse rappresentate, caduto con l’addio della Grigule. Ma potrebbe non essere riconosciuta continuità al gruppo. “Il gruppo continua a esistere nonostante la chiara volontà politica dei gruppi dell’establishment di scompaginarne le file”, afferma il pentastellato Borrelli, mentre Farage torna ad attaccare Martin Schulz, che avrebbe commesso uno “spregevole tentativo di farci chiudere”. Iwaszkiewicz, oltre a far parte di un partito il cui capo ha negato l’Olocausto, pochi giorni dopo l’elezione alle europee, in una intervista, sostenne che picchiare moglie e figli può far bene: “Aiuterebbe le donne a tornare con i piedi per terra e i bambini a far fronte ai momenti di crisi”. Dichiarazioni che potrebbero creare imbarazzo al rinato gruppo euroscettico.

Repubblica 21.10.14
Il cerchio rosso sui dissidenti
Come può una forza che si candida a governare il paese dare di sé l’immagine di una setta nella quale il potere è nelle mani di un’eminenza grigia?
di Sebastiano Messina


BEPPE Grillo ha decapitato la dissidenza del Circo Massimo segnando su Facebook le teste dei colpevoli con un cerchio rosso, e Gianroberto Casaleggio ha risposto a quei quattro che gli chiedevano dal palco un po’ più di trasparenza espellendoli in un post scriptum. Ormai la realtà supera la satira, nel M5s, e gli stessi militanti restano senza fiato assistendo alla degenerazione farsesca di quella democrazia del web dove tutto doveva essere meraviglioso.
E OGNI decisione sarebbe stata fantastica, e invece si scopre a poco a poco che tutti possono scrivere un post, non tutti possono parlare, pochi possono votare ma solo due persone possono decidere: uno si chiama Beppe e l’altro Gianroberto.
Chi ha votato — per restare alle ultime 48 ore — la nuova linea dura dei Cinquestelle sull’immigrazione, con quel post para-leghista di Grillo che annuncia che «i cosiddetti clandestini vanno rispediti da dove venivano», dopo che la base del partito — la Rete! — si era chiarissimamente schierata con un referendum per l’abolizione del reato di clandestinità? Chi ha discusso, sull’Europa, lo scivolamento sempre più a destra del Movimento, che dopo essersi affidato alla leadership dell’ultra-conservatore Farage — per il quale «le donne che lavorano e hanno figli valgono meno ed è giusto che guadagnino meno degli uomini» — ha aperto ieri le porte persino al polacco Iwaszkiewicz, eletto nel Partito della Nuova Destra e autore della teoria secondo cui picchiare le mogli «aiuterebbe molte di loro a tornare con i piedi per terra»? E chi ha emesso la sentenza di espulsione immediata del sindaco di Comacchio, Marco Fabbri, colpevole di essersi candidato alla Provincia per difendere gli interessi dei suoi concittadini, cacciato su due piedi con una tale brutalità da trasformare un appassionato militante in un cittadino così amareggiato, così deluso da arrivare a parlare di «una deriva squadrista e fascista»?
Ma il capolavoro del tandem Beppe& Gianroberto è stata ieri la radiazione dei quattro militanti, subito degradati a dissidenti perché avevano osato interrompere la liturgia del Circo Massimo salendo sul palco per domandare con parole semplici che le votazioni sul portale grillino fossero almeno verificabili, «e soprattutto vorremmo sapere qualcosa di questo “staff” col quale tutti ci interfacciamo ma nessuno lo conosce». Chiedevano, in una parola, solo un po’ di quella trasparenza che i cinquestelle reclamano dagli altri ma non applicano mai in casa propria. E sono subito diventati un bersaglio che Grillo ha appeso su Facebook cerchiando di rosso le loro teste, e Casaleggio ha centrato in pieno con un colpo secco: un post scriptum in coda a una delle sue allegre profezie, «Press Obituary”, necrologio della stampa: «I quattro sono fuori dal M5S».
È difficile capire perché un abilissimo stratega della comunicazione e un formidabile comunicatore siano scivolati nella trappola di rispondere a un’accusa di scarsa trasparenza con una sentenza assolutamente priva di trasparenza. Perché anche nella non-democrazia inventata dai grillini, Casaleggio non avrebbe in teoria alcun potere: non ha incarichi, non è stato eletto, non è stato nominato. Tutti sappiamo, per carità, del suo ruolo fondamentale nella nascita e nella crescita del Movimento, ma come può una forza politica che si candida a governare il Paese dare di sé l’immagine di una setta nella quale il potere massimo — quello di decidere chi è dentro e chi è fuori — è nelle mani di un’eminenza grigia che non risponde a nessuno se non al suo socio?
Grillo invece — che non si è mai candidato alle elezioni perché una vecchia condanna lo priva di uno dei requisiti che lui stesso pretende dagli altri — una carica ce l’avrebbe: quella di presidente del Movimento. Se l’assegnò da solo, una sera di dicembre di due anni fa, davanti al notaio di Cogoleto nominando vicepresidente suo nipote Enrico e segretario il suo commercialista. Una carica che lui non ostenta, e che gli serve solo per decidere chi è candidabile e chi no, quale meetup avrà il simbolo e quale no, e soprattutto chi va cacciato e chi può rimanere. Purché stia buono, canti in coro la canzoncina che lui ha scritto e non si azzardi a fare mai una domanda indiscreta sulla trasparenza di un movimento dove tutto è sempre magnifico, incredibile e stupendo, un luogo magico dove comandano finalmente i cittadini, i militanti, la Rete, mentre lui e Casaleggio prendono solo le decisioni.

il Fatto 21.10.14
Viaggio al termine delle alette di pollo. L’Italia dei discount
Nelle periferie di roma si scopre a che pounto è davvero il nostro Paese
Pure il supermarket della crisi è in crisi
di Antonello Caporale


Tutto finì in alette di pollo. Due euro e trentanove centesimi al chilo. Il futuro vi aspetta qui, al bancone di carni Lidl, sulla via Casilina altezza Centocelle. Dopo Carrefour ma prima di Trony e di Coop, sulla destra scendendo, quasi di fronte a Eurocasa, Mondialcucine e Unieuro. È bello quasi come gli altri e colorato anche. È un supermercato vero, non più cartoni in terra ma freezer e cestelli, tanta cioccolata, carotine, lattuga, banco dei vini con un rispettabile Muller Thurgau a 2,49 euro, e vodka, brandy, limoncello (da cinque euro).
La povertà ci ha vinti e conquistati e Lidl ha il merito di averla almeno resa più confortevole, presentabile, dignitosa. E liberata da qualunque ossessione. Rita, alla cassa, gentile: “Mettiamo da parte le caramelle o lo yogurt? ”. La signora con figlia adolescente ha fatto spesa e deve decidere cosa espellere dalla busta: il conto fa 13 euro e 90, senza yogurt viene dodici, senza caramelle tredici tondi. “Lo yogurt”, dice. Amore di mamma.
AL DISCOUNT si fa la spesa con i soldi compattati in striscioline minuscole e gli spiccioli che escono dalla tasca contati già. Maria ha settant’anni e non vede bene. Apre il borsellino. “Ho questi, tiè”. La cassiera con gesto amorevole: “Cinquanta centesimi in più del necessario, tietteli questi, li sto rimettendo nel borzellino”. Ali di pollo, latte e due panini (con farina di grano rimacinato).
Il discount racconta l’Italia meglio di chiunque altro. All’entrata Parvos distribuisce i carrelli. Viene dal Bangladesh: “Fino a poco tempo fa pulivo i piazzali, ero assunto con una vera busta paga. Poi la crisi e a febbraio mi hanno licenziato. Sono stato con loro sei anni ma poi la gente è calata, le casse sono chiuse, guada lì su quattro una è aperta, e hanno scelto la riduzione. Ora porto i carrelli e chiedo una mancia. In una giornata faccio dieci euro, non di più. Arrotondo con la chiamata del ristorante, quando serve vado a fare il cameriere. Dalle cinque della sera alle due di notte mi danno quaranta euro. Avevo comprato casa, avevo fatto il mutuo. Ho preso 120mila euro per 25 anni. Sono regolare io. Eravamo contenti in famiglia, poi è successo disgrazia. Tutto è andato via veloce. Allora ho detto: come faccio? Vendo casa ho detto. Sono andato all’agenzia dove l’ho comprata ma mi hanno spiegato che avrei perso almeno 30mila euro. Allora ho trovato questa soluzione: mia moglie e mia figlia sono tornate al mio Paese, io ho affittato l’altra stanza (ho due stanze e cucina e un balcone) a connazionali. Duecento euro danno loro, cinquecento euro guadagno io. Con cinquecento euro pago mutuo, con duecento mangiare, pagare luce. Però voglio andar via dall’Italia, mi son detto come faccio? L’unico è lavorare ancora così per sei sette anni. Mia moglie lo sa: tra sette anni vendo casa, chiudo mutuo e torno da lei”.
Di veramente straordinario, quasi inspiegabile, è che anche il discount soffre la crisi. Parvos guarda desolato il piazzale. Questo giovedì si contano cinque auto in un parcheggio costruito per trecento. La crisi è così potente che neanche il luogo della rivincita della povertà si sottrae al destino. Come se la discesa verso gli inferi non fosse ancora finita. Sono terminati i gradini della scala, siamo giunti alle alette di pollo a due euro e trentanove centesimi. Ma niente.
“Da noi le vendite sono diminuite del 30% e con i lavori della Metro C anche di più. Siamo preoccupati perchè se si va avanti così non ce la facciamo”. Angela, la cassiera dello Sma di Porta Metronia, supermercato di livello medio alto, pensava che il suo posto di lavoro se lo fosse fregato Parvos. Che il suo pane (da un euro e ottanta a tre euro e venti) se lo fosse mangiato Rita del discount (pane da novanta centesimi a un euro e quaranta). Che il latte (allo Sma un euro e 60 centesimi al litro) se lo fosse bevuto Laura di Lidl (Latteria italiana, fresco e pastorizzato, neanche un euro). Che i biscotti del Mulino Bianco (due euro e 60 centesimi per 400 grammi) non potessero competere con quegli altri (sempre Mulino Bianco, sempre due euro e 60 centesimi, ma confezione da 800 grammi). Invece anche le colleghe di Angela stanno cedendo, e Parvos del Bangladesh ha perso il lavoro pur vendendo per conto del padrone “verdure e carne veramente buona, ti dico buona a poco prezzo”.
SEMBRAVA un cammino disperato tra il commercio in default di Tor Lupara e Bella Monaca, l’Axa e l’Ardeatina, le distinte e graduate periferie romane. Invece al Tuodì del Pigneto mi accoglie il sorriso di Cesar Carreia, trentacinquenne angolano, responsabile del punto vendita. “Noi andiamo forte, la gente entra con più convinzione, e mettiamo la roba in modo che si senta a casa sua, come in un vero supermercato. C’è chi viene prima da me e mi chiede cosa si può comprare che non faccia tanto male. Io rassicuro tutti. Prima forse qualcosina era un po’ così, ma oggi per esempio la carne, guarda che carne... ”. Un chilo di macinato misto costa 5,99. Le cotolette vanno a 2,99 euro, la salsiccia a 2,39, la mortadella 2,75. Anche qui le alette di pollo sbancano. “Si vende il pollame, dico la verità”. E poi la birra, la vodka, anche il rum. Gli stranieri dell’Est hanno una confidenza speciale con gli alcolici. Gli italiani prediligono gli alimentari, meno i detersivi. “La pasta, questa settimana abbiamo un’offerta speciale. Mettiamo dei cartelli bene in vista, abbattiamo i prezzi anche del 26-30 per cento”.
Siamo all’offerta dell’offerta, al discount del discount. È uno sconto al quadrato che annienta i ricavi ma almeno riempie il market. È l’approdo fisso degli albergatori della zona. “Chi ha un hotel viene qua: cornetti, latte, fette biscottate. Acquistano qui la colazione del mattino per i clienti. Anche i ristoratori fanno spesa da noi”. E le pizzerie, i forni. “Guarda quello, lui è il garzone del fornaio. Ogni venerdì compra la farina”. Yeres, indiano, ha cento pacchi di farina nel carrello. La ragazza del pub riempie il suo di rucola, crema di tonno e di carciofini: “Sennò come campiamo? Al mercato è impossibile acquistare”. Cesar riconosce tutte le facce nuove. Ogni settimana nuovi arrivi, soprattutto italiani. “Li vedo che sono un po’ spaesati. Noi li accogliamo e li rassicuriamo. Vergogna non ne noto, ma un po’ di pudore sì, anche una punta di imbarazzo. Ma rotto il ghiaccio, come si dice in Italia? ”.
Rotto il ghiaccio si acquista e si ritrovano vecchi amici perduti: la pasta De Cecco, l’acqua minerale Ferrarelle, i wafer dell’Alto Adige Loacker, la Levissima (purissima), il Dixan e la birra Becks.
Le migliori marche, vero?

Corriere 21.10.14
«Da qui all’eternità», il nuovo libro di Sergio Rizzo
Boiardi, politici, uscieri I privilegi a vita degli intoccabili di Stato
I privilegi a vita degli intoccabili di Stato che resistono alla rottamazione
Le vite dorate dei politici, boiardi del potere e burocrati che non rinunciano alle rendite parassitarie
di Francesco Cevasco

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il Fatto 21.10.14
Qui Roma
Sindaco, se ci sei batti un colpo
Romano, soffri e impara Marino ti purificherà
di Giorgio Meletti


Il delirio pedagogico di Ignazio Marino non dà scampo: “Il sindaco deve essere avanti al proprio popolo e non indietro, non deve guardare ai sondaggi e poi seguirli in base alle opinioni”. Ma sì, perché dare peso alle trascurabili opinioni degli interessati quando hanno la fortuna di un sindaco che è avanti? La geometria politica ignaziana è confusa: “L'Italia è stata e continua a essere più avanti della propria classe politica”. Quindi il trenino è questo: in coda la classe politica (esclusi i sindaci) che fa schifo; in mezzo il popolo, saggio ma poco lungimirante; in testa il sindaco onnisciente e vocato a insegnarci a vivere.
SBAGLIANO dunque gli omofobi convinti o inconsapevoli che accusano Marino di usare il tema del matrimonio gay per distrarre il popolo dai suoi disastri amministrativi. Il sindaco di Roma sa benissimo che la registrazione all’anagrafe di matrimoni gay contratti all’estero è una sceneggiata illegale, legittimata dal passepartout della “provocazione”. E sa che il nodo può essere sciolto solo dal Parlamento. Ma il mondo com’è non gli piace. Non gli basta la diffusa convinzione popolare che non ci sia una seria ragione per vietare il matrimonio omosessuale. Gli rode che i romani l’abbiano eletto pensando a cassonetti da svuotare, buche da tappare sulle strade, metro C da finire e autobus da far passare in orario, se non frequenti e regolari, almeno vagamente prevedibili. Sogna una Capitale dove il cittadino medio di fronte al cassonetto pieno non si chieda “e mo’ dove lo butto? ”, ma quando questo benedetto Paese si adeguerà ai più civili sui gay.
Il trenino pedagogico impone ai romani una biblica condanna: si sposteranno con dolore. Loro sanno che non ci sarebbe ragione al mondo per rischiare la pelle in motorino se ci fossero comodi mezzi pubblici. I mezzi pubblici latitano e così ieri Marino, implacabile, ha pedonalizzato un’ampia area del centro storico, da piazza del Popolo a Palazzo Chigi, e l’ha chiusa anche ai motorini che per molti sono una zattera nel traffico disperante. Migliaia di poveri cristi oppongono alla illuminata decisione una domanda triviale: “E adesso come vado a lavorare? ”. Lui non fa una piega: “Il cambiamento è sempre il processo più difficile per un essere umano”. Non si cura dei sondaggi ma li inventa, e benedice: “Rispetto a poche persone che non approvano il progetto, mi rincuora la gioia della maggioranza: l’80-85 per cento delle persone che abitano qui”. Giustamente il generone con attico in piazza di Spagna applaude, la colf che viene dalla borgata si attacca.
Ma anche le colf devono migliorarsi, e nella visione di Marino devono essere quelle che ne hanno più bisogno. Il metodo è semplice: anziché sconfiggere auto e motorini con metropolitane e autobus, che è fatica, si pedonalizza il centro e si aumentano del 50 per cento le tariffe dei parcheggi eliminando lo sconto sulla sosta di otto ore.
IN QUESTO percorso di sofferenza ed espiazione pensato da Marino, i romani dovrebbero diventare danesi, instancabili pedalatori e camminatori anche a 30 chilometri dall'ufficio, attenti ad ambiente e salute. Alti, biondi, occhi azzurri, andranno sorridenti al lavoro inforcando la bicicletta. Tutti i giorni, a parte quando gliel’avranno rubata. Ma queste cose, chi sta avanti al popolo, non le sa.

Corriere 21.10.14
«Io, 007 del caso Orlandi epurato  perché troppo scomodo»
Parla Giulio Gangi, l’agente allontanato dal Sisde negli anni ‘90: «Mi trasferirono al ministero dell’Economia, facendo sparire le note di merito e accusandomi di indagini inopportune su Emanuela. Suor Dolores mi disse il nome di una ragazza. De Pedis? usato come il prezzemolo. Al Sisde pensavano solo alla guazza, eravamo schifati»
intervista di Fabrizio Peronaci

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Corriere 21.10.14
Il fidanzato di Sonia aveva già tentato di strangolarla «Potevano salvarla»
«La violenza non può essere perdonata»
La criminologa Baldry: certe donne credono di poter salvare il compagno con le parole
intervista di Giusi Fasano


«Dev’essersi sentito potente, quel tizio, quando l’ha vista tornare... Quando impareremo, noi donne, a riconoscere il rischio? Quando la smetteremo di perdonare la violenza?».
È da molto tempo che la criminologa Anna Costanza Baldry si occupa di questi casi. E tante, troppe volte, ha seguito storie di donne perdute in una relazione sbagliata.
Non è raro che donne maltrattate tornino dai loro aguzzini.
«Ci sono così tante Sonie, là fuori... Noi diciamo spesso che restano o tornano nelle braccia dei loro carnefici perché non hanno alternative. Ma non è sempre così. Quando si tratta di donne adulte e senza figli, quando non vogliono denunciare nemmeno dopo averci quasi rimesso la vita, be’: per quanto si possa provarci non è possibile salvare una persona dalle sabbie mobili se non si aiuta un po’ anche lei».
Perché una donna torna indietro sui suoi passi e riallaccia i fili di una relazione violenta?
«Perché c’è qualcosa che distoglie i suoi pensieri dal rischio primario, cioè quello di essere uccisa. A volte è la dipendenza economica, a volte sono le difficoltà legate ai figli, altre volte sono disturbi psichiatrici veri e propri che impediscono di decodificare la realtà».
Quanto conta la convinzione di essere innamorate?
«Conta. Viene chiamata dipendenza affettiva e davanti agli uomini violenti e manipolatori questa dipendenza porta a sottovalutare gli elementi di rischio, rende vulnerabili, impedisce la crescita della consapevolezza che si rischia la vita».
Spesso le donne pensano di poter cambiare l’uomo violento che hanno accanto.
«È così ma è sbagliatissimo. Ci sono donne che credono di salvare il compagno, il marito o l’amante provando a convincerlo a parole, cercando di capirlo dove però capire vuol dire anche un po’ giustificare. Si arriva ad avere dei sensi di colpa, magari per avergli risposto così male da meritarsi, diciamo così, un ceffone. Cosa c’è di più sbagliato? Se un uomo ti prende a pugni non c’è nulla ma proprio nulla da capire. E poi c’è un’altra cosa che direi di evitare assolutamente».
Quale?
«Il famoso “ultimo incontro” chiesto per chiarire. Mai concederlo. È pericolosissimo. Anzitutto perché se si è arrivati a lasciarsi vuol dire che ci si è già chiariti abbastanza. E poi perché la richiesta dell’incontro chiarificatore è strumentale. Serve a farti sentire in colpa e a costringerti a dargli un’altra chance. Se gliela concedi lui impara che perseguitandoti ottiene il tuo contatto, non gli importa se lo vedi anche solo per prenderlo a parolacce, lui vuole solo regolare la tua vita».
Lei dice “smettere di perdonare”.
«Sì. Il perdono è una bella fregatura. Non parlo del perdono nel senso puro del termine. Parlo di quel perdono che significa annullare ciò che è successo di violento in una relazione. Parlo del dimenticare e dare un peso specifico pari a zero alla violenza subita, magari aggrappandosi ai momenti positivi di una storia e pensando a quando mi ha regalato questo, a quando ha fatto quel bel gesto...Ecco: questa si chiama distorsione cognitiva».
Come si esce da tutto questo?
«I passaggi sarebbero tanti. Uno per tutti: lavorare molto sull’autostima. Volersi bene, molto bene. Perché se ti vuoi bene non puoi accettare di essere maltrattata da nessuno, non puoi annullarti».

Corriere 21.10.14
C’è una regia per gli incendi «spontanei»
nel Messinese: indagato venticinquenne
I roghi ritenuti misteriosi si sono verificati fra il 20 luglio l’8 ottobre scorsi, ma il fenomeno era iniziato 10 anni fa
Il sindaco: «Non può essere imputato a un piromane»

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Corriere 21.10.14
Germania, gli scioperi a catena

di Paolo Lepri

Dopo il weekend delle Ferrovie adesso tocca alla Lufthansa: cancellati quasi 1.500 voli Intanto i tedeschi si organizzano: chi rinvia la partenza, chi decide di viaggiare in bus DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BERLINO Deutschland oppure Streikland, il «Paese degli scioperi»? Sembra impossibile, ma siamo arrivati a questo punto, dopo il «ping-pong» delle astensioni dal lavoro che sta paralizzando da mesi il trasporto aereo e ferroviario tedesco. In particolare, gli ultimi giorni sono stati terribili. Il sindacato dei macchinisti Gdl ha bloccato la circolazione dei treni (e delle metropolitane di superficie) in un weekend di grandi spostamenti, che coincide con le prime vacanze scolastiche in molte regioni del Paese.
Quando questa agitazione si è conclusa, ha preso il via ieri quella dei piloti della Lufthansa, la sesta dall’inizio dell’anno. Saranno coinvolti, fino a domani notte, sia i voli interni e a medio raggio che quelli intercontinentali.
Il nuovo nemico pubblico numero uno è un ex ferroviere nella Repubblica democratica tedesca, Claus Weselsky, 55 anni, che guida con piglio dittatoriale, dicono, un’organizzazione che rappresenta circa 20 mila iscritti. I macchinisti vogliono che l’orario di lavoro settimanale sia ridotto da 39 a 37 ore e chiedono aumenti salariali di circa il cinque per cento. Secondo i dati della Deutsche Bahn, il colosso delle ferrovie tedesche a totale partecipazione pubblica, lo stipendio mensile dei guidatori parte da un minimo di 1.970 euro e arriva a 2.142 dopo quattro anni, con gratifiche addizionali che possono raggiungere i 600 euro mensili.
La Gdl contesta queste cifre, in particolare quelle dei benefit che non raggiungerebbero i trecento euro mensili. La battaglia di Weselsky non è solo contro l’azienda e il governo, ma contro il più grande sindacato rivale, l’Evg, la cui base è costituita dai ferrovieri che svolgono tutte le altre mansioni.
I piloti, rappresentati dalla Vereinigung Cockpit, vogliono invece continuare a godere dei benefici per chi lascia il lavoro anticipatamente a 55 anni, ricevendo fino all’età prevista per la pensione, cioè 65 anni, circa il sessanta per cento dello stipendio. L’azienda vuole abolire questo privilegio stabilendo un tetto per il ritiro a circa 60 anni. Il loro primo sciopero di quest’anno, proclamato in occasione delle vacanze di Pasqua, è costato alla compagnia tedesca 45 milioni di euro. La Lufthansa ha annunciato di poter mantenere 700 voli su 2.150 affidandoli a volontari impiegati attualmente nel management o in uffici amministrativi.
Intanto i tedeschi si organizzano. In questo fine settimana, c’è chi ha rinviato la partenza e chi invece ha deciso di viaggiare in autobus. Le compagnie, che hanno fatto incassi record, hanno rinforzato i servizi ma non sono però riuscite ad accontentare tutti i potenziali clienti.
La Bdi, la «confindustria tedesca» ha tuonato contro Weselsky e i suoi uomini, parlando di «irresponsabilità». Anche il governo è molto preoccupato, pensando ai danni subiti da molti settori dell’economia. Il leader dei macchinisti non ha però intenzione di fermarsi. D’altra parte, di lui si tramanda una frase celebre: «Non metto mai in discussione le mie decisioni. Se una si è rivelata sbagliata il giorno successivo, era giusta nel momento in cui l’ho presa».

La Stampa 21.10.14
La svolta della Turchia
Ankara dà il via libera ai peshmerga curdi: “Li aiuteremo a raggiungere Kobane”
Dopo le critiche per non essere intervenuta militarmente a fermare l’avanzata del Califfato nel villaggio curdo e per aver chiuso il confine, la Turchia annuncia il cambio di linea tramite il ministro degli esteri Cavusoglu
di Marta Ottaviani

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Repubblica 21.10.14
Califfi immaginari, tagliagole e curdi Ecco gli incubi del “sultano” Erdogan
La feroce internazionale dei jihadisti dell’Is accende sogni nei Paesi arabi. Ma anche la paura in Occidente che la guerra possa provocare un terremoto geopolitico. Il presidente turco non muove i tank alla la frontiera per non rafforzare i ribelli del Pkk Avvantaggiando così il nemico storico Assad
di Bernardo Valli


ISTANBUL È UN califfato immaginario quello proclamato il 29 giugno nella valle del Tigri e dell’Eufrate. Nella sua traduzione pratica è invece una macchina infernale. E’ immaginario perché risveglia il ricordo della città islamica nell’età classica, spesso associata all’idea di un’epoca d’oro dell’Islam, al paradiso perduto, alla potenza svanita, alla comunità dei credenti ancora unita. Insomma un messianismo emblematico della crisi che attraversa il mondo arabo. E al tempo stesso in concreto, oggi, è un’entità cosmopolita con confini instabili e ambizioni sterminate, composta da fanatici religiosi, giovani in cerca d’avventura, tagliagole, stupratori, mercenari e buoni combattenti. Un’internazionale formatasi in prossimità dei luoghi dove furono ambientate alcune delle bellissime pagine di Mille e una notte. Dunque accende fantasie e paure. Sogni e incubi. Le grandi istituzioni sunnite e ancor meno quelle sciite non gli riconoscono la minima autenticità. Secondo i grandi lettori del Corano, il testo sacro dettato da Dio a Maometto, tramite l’Arcangelo Gabriele, non parla mai di istituzione politica con quel termine. La parola «khalifa » al singolare appare soltanto due volte a proposito di Adamo e di Davide. E il suo significato si avvicina a «luogotenenza». Per questo i primi successori del Profeta adottarono il titolo di califfo. La storia ha fatto il resto fino all’abolizione del califfato decretata (1924) da Ataturk allo scioglimento dell’Impero ottomano.
Questo preambolo spiega, almeno in parte, la complessità e le contraddizioni della guerra del califfato immaginario. I fronti caldi, in cui si combatte, si decapita e si violenta, sono due: quello siriano e quello iracheno. Ma il conflitto può estendersi in modo più o meno cruento in altre regioni del mondo musulmano. Dove la jihad, intesa all’origine come mobilitazione spirituale, rischia di diventare per emulazione violenta. Sul piano geopolitico è un autentico terremoto, perché è esploso in un’area in cui i confini tracciati dagli occidentali un secolo fa, sulle spo- glie dell’Impero ottomano, frantumano gruppi etnici e religiosi e spaccano nazioni ansiose di nascere o rinascere. Senza i richiami messianici che rimbalzano in comunità frustrate alla ricerca di un rifugio nel remoto passato religioso, l’impatto militare del califfato immaginario sarebbe più modesto di quel che appare.
Nelle città del Kurdistan turco, a Diyarbakir, sulle rive del Tigri, a Batman, a Bingol, a Van, all’inizio del mese almeno trenta manifestanti sono stati uccisi, e più di cento feriti, mentre esprimevano solidarietà ai curdi siriani impegnati a difendere Kobane dai jihadisti del califfato. Era anche una protesta contro la passività delle truppe turche schierate lungo la frontiera con il solo non nobile compito di impedire il passaggio degli aiuti alla città aggredita e a portata di mano. Senza l’autorevole invito alla calma di Abdullah Ocalan, il leader curdo imprigionato da anni, la situazione si sarebbe aggravata in Turchia. Questo è l’aspetto etnico del conflitto che trabocca dal campo di battaglia siro — iracheno. In questo caso la religione non c’entra: si tratta infatti di uno scontro tra sunniti alimentato dal patriottismo represso.
La posizione turca appare ambigua. «Zero problemi con i vicini» era la formula riassuntiva della dottrina del ministro degli affari esteri Ahmet Davutoðlu. Il quale nel frattempo è diventato capo del governo all’ombra di Recep Tayyip Erdoðan, eletto presidente. In quanto alla formula del ministro filosofo (Davutoglu si è definito kantiano) adesso appare non solo superata ma ridicola. I problemi con i vicini infatti non si contano. Da quando lo Stato islamico, o califfato, si è impegnato in un’offensiva contro Kobane, diventata una città simbolo, il governo turco si è chiuso in un rifiuto non sempre decifrabile. E paradossalmente la posizione potrebbe appesantirsi se i jihadisti dovessero perdere terreno e i curdi finissero col vincere la battaglia. Se Kobane resterà nelle mani dei suoi naturali abitanti e gli aggressori subiranno una sconfitta e dovranno abbandonare i sobborghi che occupano, per Erdoðan sarebbe una scommessa perduta.
Pur moltiplicando gli appelli a un intervento terrestre oltre che aereo, Erdoðan è rimasto immobile per sei settimane. E fermi, silenziosi sono rimasti i suoi carri armati sulle colline turche dominanti la città siriana assediata. Rivelandosi operativi soltanto per impedire ai curdi di Turchia di soccorrere i loro amici oltre confine. Nelle ultime ore c’è stata tuttavia una svolta. In seguito a una lunga e pare tempestosa telefonata di Barack Obama a Erdoðan avvenuta domenica, il ministro degli Esteri, Mevlut Çavuþoðlu, ha annunciato che i curdi iracheni, i peshmerga, potranno raggiungere Kobane per battersi a fianco dei curdi siriani contro i jihadisti del califfato. Erdðan ha dovuto cedere, almeno in parte, alle richieste del presidente americano, e tener conto dei severi giudizi internazionali per il suo comportamento davanti a quel che accade appena al di là della sua frontiera. E ha messo sul tappeto, come un abile giocatore, i curdi iracheni, con i quali ha buoni rapporti, perché non minacciano l’integrità della Turchia e gli vendono direttamente il petrolio, senza passare per Bagdad. Per queste loro virtù e perché buoni combattenti i peshmerga sono autorizzati a raggiungere Kobane. Diversa la posizione dei curdi di Turchia, ai quali non è concesso di soccorrere i fratelli siriani.
Erdogan si augura il crollo del regime di Bashar al Assad ed anche la sconfitta di Daesh (acronimo arabo di Stato islamico), ma al tempo stesso non vuole rafforzare troppo i combattenti curdi di Kobane, molti dei quali sono affiliati al Partito di unione democratica (PYD), sezione siriana del Partito dei lala voratori curdi (PKK) di Turchia, il quale è fuori legge e schedato come movimento terrorista dopo decenni di lotta contro il governo di Ankara. Da qui la preferenza data ai curdi dell’Iraq, estranei alle vicende turche. Anche sui curdi siriani pesano forti sospetti. Hanno legami con i fratelli turchi e soprattutto usufruiscono già di una larga autonomia. Un loro successo sul campo di battaglia equivarrebbe alla prima pietra di un futuro Kurdistan indipendente, capace di esercitare una forte attrazione su tutte le comunità disperse nei vari Paesi del Medio Oriente. Non esclusi i circa dodici milioni che vivono in Turchia. Affiancati alla città di Kobane ci sono altri due centri curdi autoamministrati, Afrin e Diezireh. L’insieme del territorio semi indipendente è chiamato Rojava. Per Ankara è un grosso fastidio.
Questo spiegherebbe l’atteggiamento di Erdoðan. Nel passato recente il suo governo ha aiutato i gruppi jihadisti impegnati contro il regime di Damasco e simultaneamente contro i curdi. Con lo scoppio della guerra civile siriana la sua politica è diventata zigzagante. A tratti ambigua. Di recente non ha neppure esitato a rifiutare, almeno per ora, l’uso della base aerea di Incirlik agli Stati Uniti che la chiedevano per poter intervenire più facilmente a Kobane. E ha suggerito invano agli americani di creare una “no-fly zone” per privare Bashar al Assad della superiorità aerea che gli consente di bombardare senza rischio i ribelli risparmiati dalle incursioni americane. Washington ha deciso che la “no-fly zone” è troppo costosa. È una strana guerra quella del califfato immaginario: Bashar al Assad e Barack Obama, avversari dichiarati, si spartiscono il compito di attaccare dal cielo i ribelli che a terra si combattono tra di loro, trascurando spesso il nemico originario, il regime di Damasco. Il quale per ora esce abbastanza bene dalla mischia, poiché controlla metà del Paese e la maggioranza della popolazione.
Il caso della Turchia è bizzarro ma non è l’unico. È senz’altro particolare e decisivo per la forza militare di cui dispone il paese. Il quale è membro della Nato ma rifiuta agli alleati americani l’uso di una base aerea che faciliterebbe le loro incursioni in Siria. Autorizzato dal Parlamento a intervenire in Siria, il presidente Erdoðan rimane immobile lungo il confine siriano con i suoi carri armati. Con il risultato che a trarre vantaggio della situazione è proprio Bashar al Assad, che Erdoðan considera il suo principale avversario. Essendo lui, Erdoðan, un sunnita fervente, e Assad un alawita, quindi dell’area religiosa sciita. Ma a prevalere in questo caso è soprattutto la realpolitik. La religione c’entra poco. Il Medio Oriente è come una vasta sabbia mobile, da cui emerge una nazione frantumata e sommersa: il Kurdistan. Erdoðan se lo sogna di notte, anche se per adesso è uno dei tanti fantasmi della regione.
Dai Paesi arabi, come del resto dalla Turchia, sono partiti i primi aiuti ai numerosi gruppi islamisti armati avversari del regime di Damasco. I sunniti dell’Arabia saudita, degli Emirati del Golfo e del Qatar, spesso in competizione, hanno aiutato i gruppi islamisti armati per colpire il regime di Assad, alleato degli ayatollah di Teheran, capitale sciita alla quale si è affiancata Bagdad, dopo l’invasione americana, da cui è spuntato un governo sciita. In tre anni di guerra civile i movimenti islamisti hanno neutralizzato la vera forza moderata d’opposizione (il Libero esercito siriano) e si sono immersi in una rissa senza fine tra di loro, favorendo di fatto il loro nemico dichiarato, il regime di Assad. Non è poi tanto azzardato sostenere che Daesh, ossia il califfato, sia un alleato obiettivo di Bashar al Assad. La notte dei lunghi coltelli islamisti oppone i Fratelli musulmani ai salafiti (musulmani integralisti), e la vecchia Al Qaeda ai discepoli infedeli di Daesch.
Se sul terreno, in Siria e in Iraq, è in corso una mischia non sempre decifrabile, le coscienze di molti musulmani sono in tumulto. Stando a un sondaggio la stragrande maggioranza dei sauditi, appartenenti a un Paese che partecipa alla coalizione guidata dagli americani, giudica il califfato «conforme ai valori dell’Islam e alla legge islamica». Le famiglie dei giovani sauditi morti combattendo nelle file jihadiste li considerano martiri e quindi ne sono fiere, e invece di esprimere dolore non esitano a manifestare l’orgoglio per quei figli destinati al paradiso riservato a chi muore per l’Islam. Nonostante la condanna delle autorità religiose la vendita di indumenti con scritte inneggianti al califfato e invitanti alla jihad hanno un notevole successo, anche perché pubblicizzati sugli website. Enfatizzato da generazioni di teologi e di letterati come un «paradiso perduto », il califfato sia pur immaginario sollecita le fantasie. Favorisce il fenomeno la difficoltà intellettuale e politica a pensare o a creare dei modelli alternativi, e quindi la naturale propensione a ricorrere a movimenti messianici rivolti al passato.
Gli Stati Uniti non hanno mai partecipato a una guerra del genere. Si tratta di bonificare politicamente e di ridisegnare una regione, che va da Bagdad, dove muoiono per attentati una trentina di persone al giorno, a Raqqa, dove un califfato immaginario è retto da un chierico che si ispira al Settimo secolo, ma che è un esperto o quasi in comunicazione di massa. Spegnere questo conflitto sorvolando e bombardando il campo di battaglia, senza mettere piede a terra. Questo è il quesito posto agli strateghi del Pentagono. Ma una politica condotta Paese per Paese, tesa ad isolare quella che gli storici hanno battezzato la Mezzaluna fertile, la curva striscia di terra adesso insanguinata che taglia il Tigri e l’Eufrate, è probabilmente la strada più intelligente da seguire per arrivare col tempo a un risultato. Che non sarà comunque una vittoria.

il Fatto 21.10.14
La paga del soldato
La vecchiaia serena delle ex SS in patria con la pensione Usa
Washington ha proposto un accordo ai nazisti: rinunciare alla cittadinanza tenendo gli emolumenti
di Valerio Cattano


Guardiani dei campi di concentramento, ex SS, aguzzini che rasero al suolo il ghetto di Varsavia: tutti con la pensione pagata dal governo degli Stati Uniti, dietro l'accordo, mai divulgato prima, chiamato “Nazi dumping”. Lo svela una inchiesta elaborata dall'Associated Press che ha consultato documenti ottenuti tramite il Freedom of Information Act, la legge che dà diritto ad accedere ad informazioni protette dal governo Usa; almeno 38 su 66 persone sospette di aver avuto ruoli operativi nei reparti nazisti, pur essendo costrette a lasciare gli Usa dopo essere state scoperte, hanno incassato gli emolumenti – circa 375 mila dollari a persona - alla faccia dei contribuenti americani che magari in famiglia avevano avuto uno o più parenti stretti caduti sul fronte europeo durante la Seconda guerra mondiale. Di quei 38 solo 4 sono ancora vivi, come ricorda il Daily Mail.
JAKOB DENZINGER era una guardia ad Auschwitz, è morto il 28 luglio di quest'anno: dopo la guerra si era trasferito in Ohio mentendo sulla sua carriera, e lì aveva vissuto sino al 1989; quando venne a sapere che il suo passato stava divenendo pubblico ed era imminente un procedimento per revocare la cittadinanza, accettò l’accordo; Denzinger partì per la Croazia e sino a qualche mese fa trascorreva le sue giornate in un appartamento sulla riva del fiume Drava, a Osijek. Denzinger ha sempre rifiutato di discutere ciò che aveva fatto nel campo di concentramento ma il figlio, che vive ancora negli Stati Uniti, ha confermato che il genitore riceveva la pensione dal Social Security , e che quei 18 mila dollari all'anno erano comunque meritati. Anche Martin Bartesch era una guardia in campo di concentramento, a Mauthausen, con la divisa delle SS: dopo le prime avvisaglie di guai in America , tornò in Europa per vivere in Austria con la pensione concessa sino alla sua morte, nel 1989: altri beneficiari ancora in vita risultano Peter Mueller, 90, ex guardia al campo di Natzweiler in Francia e Wasyl Lytwyn, 93, che ha militato nelle SS e partecipò alla battaglia del ghetto di Varsavia, con lo sterminio di 13.000 ebrei: scappò nel 1957, e tornò in Ucraina solo nel 1995. Nulla è stato casuale, ma frutto di un patto fra il governo degli Stati Uniti e gli ex nazisti che rinunciavano alla cittadinanza, ma non alla pensione: l'Osi (Office of special investigation) durante le sue inchieste – in alcuni casi aiutato dagli investigatori di Simon Wiesenthal, l'ingegnere ebreo che dedicò la vita a smascherare i nazisti dalla doppia identità in tutto il mondo – scoprì circa 10.000 persone che smessa la divisa nazista, si erano mescolati ai cittadini americani, mentendo sul loro ruolo in divisa nazista.
I CRIMINI erano però avvenuti in Europa, dunque Denzinger, Bartesch e gli altri non potevano essere processati: come allontanarli dalle strade degli Stati Uniti? Si trovò una scappatoia anche per evitare le lungaggini dei tribunali che si sarebbero protratte per anni prima di cacciare i criminali di Hitler: gli ex nazisti avrebbero rinunciato alla cittadinanza evitando la deportazione, ma il governo Usa avrebbe assicurato ugualmente la pensione maturata durante gli anni di vita americana: tutto messo nero su bianco, secondo interviste e documenti governativi che sino all'inchiesta della AP erano classificati come materiale “interno”. Una pratica non sempre apprezzata dall'Europa: il caso di Bartesch mandò su tutte le furie il governo austriaco; nel 1987, quando l'ex guardia nazista atterrò a Vienna, nessuno era stato avvertito. Due giorni dopo, come da accordi, Bartesch rinunciò alla cittadinanza americana: era diventato una presenza ingombrante in Austria.

Repubblica 21.10.14
Studenti scomparsi e fosse comuni nella città delle lacrime controllata dai narcos
di Randal C Archibold


IGUALA Armati di pale e picconi, a bordo di pick-up ammaccati, i contadini vanno verso una serie di radure sospette in campagna, saltano giù e iniziano a scavare. «Ehi, ecco una costola!», esclama uno degli uomini, parte di una ronda dei cittadini: estrae quel che sembra un pezzo di colonna vertebrale. Presto emergono altri frammenti: una costola? Una rotula? Cinque fosse comuni sono state già scoperte nella ricerca dei 43 studenti scomparsi un mese fa dopo scontri con la polizia locale; e altrettante fosse segrete come questa sono allo studio per determinare l’origine dei resti che esse contengono. Malgrado l’impegno di centinaia di soldati, funzionari federali, dipendenti statali e abitanti locali, la sorte degli studenti resta un mistero. Piuttosto, la caccia ha rivelato qualcosa di altrettanto agghiacciante: una moltitudine di tombe clandestine con cadaveri ignoti alla periferia della città nasconde a stento il pesante scotto imposto al Messico dalla criminalità organizzata.
I giovani sono scomparsi dopo che la polizia locale — accusata di collaborare con una banda di narcotrafficanti — ha aperto il fuoco e ucciso sei persone il 26 settembre. Stando al procuratore di Stato, gli agenti avrebbero rapito un gran numero di studenti per consegnarli a una banda. Il presidente Enrique Peña Nieto assicura che la ricerca dei ragazzi è la priorità assoluta del governo. In realtà, le ricerche confermano che la crisi del crimine organizzato in Messico — con decine di migliaia di morti negli ultimi anni nelle guerre dei narcotrafficanti — è ben più grave di quanto finora pubblicamente ammesso.
I familiari dei giovani, che frequentavano la facoltà di Magistero e stavano organizzando una protesta contro i tagli all’università, si tormentano al ritrovamento di ogni nuova fossa comune. Alcuni hanno rinunciato alle ricerche, convinti che una mafia di criminali e politici sappia dove siano i giovani, però non lo riveli. Molti continuano a credere che gli studenti siano vivi, come i parenti di migliaia di altre persone sparite nella guerra messicana della droga.
Poco prima che spuntassero le nuove tombe, María Oliveras, madre di Antonio Santana, uno degli studenti scomparsi, aveva acceso una candela e pregato nel campus dove le famiglie conducono una veglia costante. «Voglio soltanto sapere come sta, dov’è e che cosa fa», dice. «Quando trovano resti umani, non voglio credere che sia lui. Devo credere che è vivo, e che per qualche motivo non l’hanno rilasciato ». Nel primo biennio del mandato, Peña Nieto s’è impegnato a ridare slancio all’economia e ad attirare investitori stranieri, guadagnandosi il plauso di alcuni economisti speranzosi in una crescita futura. Stando ai detrattori, però, Nieto ha trascurato l’espandersi dell’illegalità in cittadine come questa. «È l’impunità il primo motivo delle scomparse», dice Alejandro Hope, ex agente dell’Intelligence messicana. «In Messico, soltanto un caso di omicidio su cinque viene risolto. È colpa dell’impunità, delle istituzioni deboli, e delle ricerche decentralizzate ».
Alcuni contadini delle brigate che cercano gli studenti — autoproclamatesi “polizia comunitaria” nel vuoto di autorità del Messico meridionale — contano sulle soffiate degli abitanti, che, a sentir loro, non si fidano delle forze dell’ordine.
Chino sulla vanga, Miguel Ángel Jiménez, un capo della polizia comunitaria, dubita che lì siano sepolti gli studenti, infatti l’erba è troppo alta per essere cresciuta in poche settimane. «Anche se non sono loro, non possiamo lasciare irrisolto l’enigma di queste tombe», dice. «Appena troviamo delle ossa ci fermiamo, e cediamo il campo ai periti giudiziari». Ci vorrà qualche settimana per analizzare i resti scoperti di recente. Gli inquirenti confermano: le cinque fosse comuni contengono resti umani, ma per ora non c’è alcun legame con gli studenti.
Le squadre di contadini, ricevute nuove soffiate dagli abitanti, ora battono un sentiero in collina: cercano alcune grotte dove si dice siano stati lasciati dei cadaveri. Per ora scovano quel che sembra il rifugio di una banda, disseminato di bottiglie, vestiti usati, candele e un ritratto di Jesús Malverde, un’icona delle gang. Al ritorno dalla caverna, una guida locale riceve una telefonata minatoria: «Non andarci più», gli ripete una voce prima di attaccare.
Gli studenti frequentavano l’Escuela Normal Rural Raúl Isidro Burgos, un’università imbevuta di fermenti e slogan rivoluzionari. Le famiglie degli scomparsi aspettano lì, bevendo caffè, chiacchierando in piccoli gruppi e dormendo su materassi sistemati nelle classi e un po’ ovunque. Secondo alcuni attivisti dei diritti umani, gli studenti stavano organizzando una protesta il 2 ottobre contro i tagli all’università statale, ma pare che si siano scontrati con la polizia quando hanno cercato di rubare degli autobus per recarsi alla manifestazione.
«A volte non riesco a star seduta e pensare», dice una madre. Serra in pugno un pezzo di carta con la preghiera per “la Protezione del Prezioso Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo”. Il marito se la prende con la farsa delle autorità: «Noi non possiamo cercare, non conosciamo la zona, e invece loro sanno dove si trovano. Che ci ridiano nostro figlio».
Ha collaborato Paulina Villegas (© The New York Times La Repubblica traduzione Anna Bissanti)

Repubblica 21.10.14
Via da Auschwitz l’opera d’arte italiana “Non è in sintonia con il museo”
L’installazione rimpatriata entro la fine di novembre Si tratta sulla destinazione
di Gabriele Isman


AUSCHWITZ Via l’installazione italiana da Auschwitz perché non corrisponde ai criteri pedagogici e illustrativi indicati negli ultimi anni dalla direzione del museo dell’ex campo di concentramento polacco. Entro il 30 novembre l’Associazione nazionale ex deportati rimpatrierà l’installazione che fu inaugurata nel 1980 e a cui lavorarono su richiesta dell’Aned tra gli altri Primo Levi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Nelo Risi, Luigi Nono e Pupino Samonà: troppo opera d’arte quella spirale, con simboli politici come la falce e il martello non graditi nemmeno al governo polacco che ha avallato la scelta della direzione per rimuoverla. E mentre l’Aned, come conferma anche la consigliera Grazia Di Veroli, è già in trattative per portare altrove l’installazione (la Regione Toscana e le città di Torino e Bergamo la vorrebbero), sarà Palazzo Chigi a indicare come procedere per non perdere quelle stanze nel blocco 21 che altri Paesi (l’Ucraina, per esempio) vorrebbero all’interno del museo di Auschwitz. Dalla Polonia — dove ha accompagnato il sindaco Ignazio Marino e 144 studenti romani nel tradizionale Viaggio della Memoria organizzato dal Campidoglio — è stato Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica romana, a ringraziare il sottosegretario Graziano Del Rio, incaricato di risolvere il problema. «Con la mediazione del governo — ha detto Pacifici — si è trovata la soluzione per quel memoriale che, a parte una scritta di Primo Levi, nulla racconta della deportazione italiana. Ora sarà possibile costruire un comitato con l’Unione delle comunità ebraiche italiane per sviluppare un’opera di narrazione sul modello di quelle che vediamo qui per altri Paesi come la Francia». E anche Marino ha chiesto che il museo della Shoah che nascerà a Villa Torlonia tragga ispirazione da quel padiglione, magari anche con i contributi degli studenti che in 20 anni hanno partecipato ai Viaggi della Memoria.

il Fatto 21.10.14
Non sempre i libri garantiscono la libertà
Quando nel 2000 arriva la destra di Sharon trasforma la pedagogia degli adolescenti in una dottrina militarizzata
di Maurizio Chierici


QUANDO ha vinto il Nobel per la Pace, Malala ripete l’invocazione che a 13 anni le è quasi costata la vita: i ragazzi devono andare a scuola per crescere nella consapevolezza dei diritti e dei doveri e imparare la convivenza sui libri che formano la personalità dei futuri cittadini. Resta il problema: quali libri? Trovo sulle bancarelle un’antologia per le elementari, Italia 1942. Balilla sfolgorante alza l’indice verso un bambino ingobbito negli stracci: “Lontano da noi, sei ebreo“. I vecchi razzisti che sfilano a Milano abbracciati a CasaPound devono aver cominciato così. Intanto la Tv ci porta a casa le bande nere dell’Isis mentre massacrano i curdi attorno alla frontiera siriana. E i carri armati di Ankara lì, a due passi, spettatori disinteressati. Da tempo immemorabile si ripete che nessun tedesco sapeva dei campi di sterminio. Ma con lo stesso cinismo degli stivali di Hitler, i turchi immobili fanno capire che i massacri vanno bene quando tolgono di mezzo i “nemici della patria”.
Filosofia sciolta nei libri destinati a primarie e licei. Negazionismo che imbroglia la storia: curdi popolo di traditori. Minacciano l’unità del paese pretendendo l’indipendenza negata dalla spartizione imposta dalle grandi potenze. Insomma, terroristi in combutta con chi sta morendo per fermare il delirio dei jihadisti. È già successo un secolo fa. Quei maledetti armeni che “collaboravano coi russi per distruggere l’impero, deportati per salvare le famiglie dalla crudeltà dei loro ribelli“. Un milione e 200 mila cristiani morti “per fame e malattie“: nessuna violenza, ipocrisia che imbroglia il passato per nascondere il primo genocidio del Novecento. Ma gli affari non ne risentono.
LA TURCHIA è un paese dall’economia che tira e gli imprenditori dei paesi perbene non possono rinunciare agli affari, non importa se si allevano nell’odio i protagonisti di domani. Libri di scuola carta sporca non solo a Istanbul. Quando nel 2000 l’estrema destra di Sharon arriva al ministero dell’Educazione, trasforma la pedagogia degli adolescenti israeliani in una dottrina militarizzata. Alte uniformi impostano l’educazione formativa. Israele è un paese democratico e i suoi intellettuali denunciano la distorsione. Analisi della signora Nurit Peled- Elhman, premio Sacharov per la libertà di coscienza, professore all’Università ebraica di Gerusalemme, nipote del generale Avraham Katsnelson che nel 1948 ha firmato la dichiarazione d’indipendenza. Fa sapere che “…si evita di presentare i palestinesi come esseri umani. Immagini mascherate in atteggiamenti minacciosi”. Nel saggio Una brutta faccia allo specchio Adir Cohen, Università di Tel Aviv, analizza il contenuto di 1700 libri didattici stampati dai governi Likud. Il 66 per cento dei testi parla di “arabi vagabondi“, mai la parola “palestinesi“. Il 37 per cento li descrive “avidi e traditori“. E altri 86 libri confezionano profili di “fanatici sanguinari“, “animali viziosi“, “assassini pericolosi“. Alla domanda “come definiresti un arabo e quali rapporti vuoi avere con lui“ i ragazzi indottrinati rispondono (70 per cento) subito che lo riconoscono in quanto “terrorista e criminale“. L’80 per cento capisce chi è “dagli abiti sporchi“. Quasi tutti d’accordo: cosa c’entrano i banditi con la nostra patria? Ecco la convivenza che Erdogan e Netanyahu annunciano alle Nazioni Unite. Purtroppo non sempre i libri invocati dal coraggio di Malala aiutano i ragazzi a capire cos’ è la democrazia. Dipende dall’orribile tornaconto di chi li scrive.

La Stampa 21.10.14
A qualcuno piace l’italiano. Soprattutto all’estero
Oggi e domani a Firenze gli Stati generali della nostra lingua La quarta più studiata al mondo, non solo per le glorie del passato
di Paolo Di Paolo e Igiaba Scego


C’è una legione di appassionati all’italiano, fuori dell’Italia. Che facce e che storie hanno? Perché scelgono il nostro idioma, al punto da renderlo il quarto più studiato sul pianeta? Con dati confortanti si aprono oggi a Firenze gli «Stati generali della lingua italiana nel mondo»: due giorni di confronti e testimonianze con studiosi, scrittori, artisti. 250 milioni fra italofoni e italofili, un milione e mezzo di studenti: «Eravamo convinti che fossero 600 mila, è stata una sorpresa anche per noi» dice Mario Giro, sottosegretario agli Esteri e promotore dell’evento. «Spesso è guardando fuori che riscopriamo la nostra vitalità e le nostre risorse». Se gli indici di sviluppo economico non brillano, quelli di interesse per la lingua di Dante fanno eccezione.
«Di anno in anno - spiega Alessandro Masi, segretario della Società Dante Alighieri, 400 comitati all’estero - vediamo aumentare anche il numero di studenti che in tutto il mondo si iscrivono a corsi di italiano certificato. Solo dieci anni fa era fantascienza». Quasi il 50% ha sotto i 35 anni. Motivo della scelta? Interesse personale e studio coprono da soli la metà delle risposte. Cresce la richiesta da Sud America e Asia. Lo conferma Pier Luigi Arri, che dirige a Roma la scuola di italiano per stranieri Torre di Babele: «La crisi si fa sentire, soprattutto nella vecchia Europa. Ma Russia e Cina ci guardano con molta attenzione, e si potrebbe fare di più per incentivare e facilitare i soggiorni linguistici».
Oltreoceano lo studio dell’italiano è una realtà consolidata. Stefano Albertini, direttore della Casa italiana Zerilli Marimò, ci spiega come alla New York University gli studenti («circa quattrocento studenti di lingua al semestre e duecento di letteratura, storia, cinema e arte italiana») scelgano l’italiano per passione: «Sono appassionati di opera, di storia dell’arte, di gastronomia, magari hanno letto Dante e Machiavelli in traduzione al liceo e vogliono leggerli in originale. Ciò non toglie che spesso la conoscenza dell’italiano si riveli strategica quando si mettono a cercare lavoro, specialmente in alcuni settori».
In passato una buona fetta di studenti era di origine italiana. «All’inizio della mia carriera alla NYU - ricorda Albertini - avevo molti più studenti italoamericani. Alcuni non sapevano per niente la nostra lingua e approfittavano dell’università per appropriarsi di radici poco conosciute, ma che sentivano come proprie. Oggi la percentuale di studenti italoamericani è molto bassa e l’italiano viene sempre di più considerato lingua “culturale” più che ancestrale».
Questo nuovo approccio ha cambiato di fatto il modo di presentare la lingua italiana in America. Ruth Ben Ghiat, docente di Italian Studies and History alla New York University, racconta come lo studio dell’italiano si stia aprendo di più al presente. Non solo l’eterno Rinascimento, quindi: «I miei studenti si occupano di argomenti come l’immigrazione cinese in Italia o l’occupazione fascista del Dodecaneso». Anche Albertini sottolinea questo sforzo di portare l’italiano e l’Italia nella modernità. Creare un rapporto con la lingua e il mondo globalizzato di oggi: «Nel nostro lavoro alla Casa cerchiamo di dare due idee fondamentali: l’Italia nonostante il passato illustre e ingombrante è un paese vivo e in continuo cambiamento e non un museo a cielo aperto. Inoltre la ricchezza della cultura italiana è frutto di un multiculturalismo ante litteram, dell’incontro (e scontro) di popoli, culture e tradizioni diverse, solo recentemente unificate. Dar conto di questa diversità e di questa ricchezza è uno degli aspetti più appassionanti del nostro lavoro».
Sul fronte delle traduzioni, però, siamo ancora indietro. Nel 2013 i libri italiani tradotti all’estero sono stati 4597. Qualcosa in più rispetto all’anno prima, ma nel novero la parte del leone la fanno Geronimo Stilton, il design, la moda. E la letteratura? Mariarosa Bricchi e Andrea Tarabbia, che gestiscono booksinitaly.it, sito di promozione dell’editoria italiana nel mondo, raccontano come sia difficile avere attenzione: «Molti restano fermi a mafia e lifestyle. Lo spazio va costruito, con proposte mirate e di qualità. E sperando in maggiori investimenti istituzionali sulle traduzioni. Prendiamo esempio dai Paesi nordici».
In questi primi mesi del 2014 sono stati assegnati circa 100 mila euro di incentivi alle traduzioni. Non basta. Frederika Randall, inviata di The Nation in Italia e traduttrice, è riuscita a portare al pubblico anglofono Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo. Il testo è uscito per la Penguin Classic per il mercato inglese, sbarcherà con le sue mille pagine negli Usa a gennaio. «Negli Stati Uniti si sa veramente poco della storia d’Italia - spiega Randall - e il ruolo del traduttore oggi è anche un ruolo culturale. Ma la mia impressione è che sia molto difficile proporre libri che non ripetono cose già sapute del Paese». Per questo la sua scelta di tradurre e proporre Nievo è quasi rivoluzionaria: «Con Nievo si scopre una combinazione di intelligenza, spirito, idealismo, che di fatto alza la reputazione del vostro Paese».

Corriere 21.10.14
Il mito fragile di Tutankhamon
Denti sporgenti e piede deforme, nato da un fratello e una sorella
Il faraone svelato dall’autopsia virtuale
di Giovanni Caprara


Il mito di Tutankhamon è stato di nuovo messo alla prova da un’autopsia virtuale, impietosa nei risultati. Ma è difficile immaginare che il fascino e il mistero del giovane e più celebre faraone egizio ne siano intaccati. Non basteranno certo le duemila scannerizzazioni computerizzate effettuate negli ultimi mesi sul suo corpo mummificato dalle quali gli specialisti hanno ricostruito un identikit ben diverso da quello finora noto.
Il suo volto aveva labbra effeminate, i suoi denti erano «da cavallo» e il piede sinistro era «equino», conseguenza di una deformazione congenita. Ciò spiegherebbe, forse, anche i circa 130 bastoni trovati nella sua tomba. A modificare l’immagine sono gli specialisti dell’American University del Cairo. «La nostra indagine — ha raccontato ai giornalisti il radiologo Ashraf Selim — mostra come il faraone avesse piedi divergenti. E quando camminava era pesantemente claudicante».
Tutankhamon salì al trono all’età di 10 anni e la sua vita fu come il bagliore di una meteora concludendosi appena raggiunti i 18 anni. Il mito e le osservazioni compiute in passato avevano fatto pensare che la scomparsa fosse stata causa di un incidente occorso durante una competizione con una biga. Si era detto della frattura del femore scatenante un’infezione fulminante e, in seguito, era emersa pure la causa della malaria, di cui soffriva. Ora, invece, gli specialisti sono più inclini a pensare ad alterazioni genetiche, malefico frutto degli incesti familiari che duravano da generazioni. Il padre Akhenaton e la madre del faraone erano ad esempio fratello e sorella. Tutankhamon ereditò un immenso regno e le sue scelte sconvolsero perché spostò la capitale, ripristinò la vecchia religione restituendo i privilegi ai sacerdoti. Non a caso tra le ipotesi della sua morte c’era anche quella di un assassinio politico.
Il mito del faraone della XVIII dinastia, nato ad Amarna nel 1341 avanti Cristo, è esploso nel novembre 1922 quando il gruppo dell’egittologo britannico Howard Carter finanziato da George Herbert, quinto conte di Carnarvon, scopriva nella Valle dei re la tomba di Tutankhamon. La sua maschera di 12 chilogrammi d’oro tappezzata di pietre preziose mostrava lineamenti perfetti e affascinanti come le storie che da quel momento lo avvolsero stretto analogamente alle bende che ne avevano preservato il corpo per millenni.
Nel 2005 il direttore del Supremo consiglio di antichità egiziane alla guida di un commissione scientifica per trovare risposta al mistero della morte ordinava una Tac da farsi con un’apparecchiatura donata dal National Geographic Magazine . Così, per la prima volta, apparvero il volto e il corpo del faraone e si scoprì, tra l’altro, che il suo cranio era vuoto.
I risultati furono sottoposti anche a due medici italiani i quali escludevano una morte lenta come era stato ipotizzato dopo una radiografia eseguita nel 1968. Poi arrivarono le indagini sul Dna. Adesso i nuovi scandagli rivelano altri dettagli del volto del faraone i cui segni del dolore aumentano ancor di più fascino e mito.

Repubblica 21.10.14
Se il Papa ama il dialogo vero più della verità
Il monoteismo produce solo monologhi ma il nostro è un mondo polifonico
Dagli Aztechi alla “religione” del Pil, il pensiero unico attraversa da sempre la stori
Zygmunt Bauman individua in Francesco un potente antidoto
di Zygmunt Bauman


MACIEJ Zieba adopera il concetto di “società veritale” per significare quella forma di coesistenza umana in cui «l’intera vita individuale, dalla culla alla tomba, così come la vita collettiva» sono imperniate su «una verità trascendente universalmente riconosciuta». E per chiarire che forma ha in mente, Zieba si affretta ad aggiungere che «questo vale non solo per gli Aztechi e i Masai ma anche per i seguaci di Marx e Mao, e per chi nutre una fiducia acritica e quasi-religiosa nella fisica e nella genetica». Aggiungerei i credenti quasi religiosi nel Pil, nel commercio, nell’informatica. In tutti questi casi la divinità è una; questo tratto comune relega ai margini le differenze tra un caso e un altro.
Nell’idea di “verità”, non importa se associata o no al termine “uno”, c’è dal principio un suggerimento arduo da togliere che qualcosa di “unico” ci sia o almeno vada presupposto. Quella di verità è un’idea agnostica per la sua origine e la sua natura. È infatti un concetto che può emergere solo dall’incontro col suo contrario, con un antagonista. La necessità del concetto di verità è avvertita dal momento in cui l’affermazione «è quel che è» diventa insufficiente e occorre aggiungere «e non è quel che dicono alcuni (chiunque siano) ». “Verità” è a suo agio in un lessico del monoteismo, e, in ultima analisi, in un monologo. Ed effettivamente, usare “verità” al singolare in un mondo polifonico è come voler applaudire con una mano sola... Con una mano si può dare un ceffone, ma non applaudire.
Ecco perché le parole di papa Francesco sull’aprire le porte e andare incontro a tutti, pronunciate ad Assisi, e più ancora le sue parole sul comunicare non per far proseliti ma per capirsi, mi hanno così toccato; soprattutto perché pronunciate conversando con un agnostico dichiarato e direttore di un autorevole giornale anticlericale, che stampa regolarmente nelle sue colonne punti di vista mal deglutiti dai cardinali. Mi hanno commosso perché succede molto di rado, per non dire mai, nei monologhi a puntate spacciati per “dialoghi”. Non è a queste forme molto comuni di finto dialogo che Francesco guarda, né nelle conversazioni a cui partecipa di persona né nella teoria del dialogo che, tenacemente, promuove da anni. In un articolo pubblicato in origine nel 1990, riproposto nel 2005 solo con modifiche minori, egli considerava il finto dialogo un segno di corruzione, la corruzione essendo, diversamente dal peccato (che si può perdonare), imperdonabile; la corruzione, lungi dall’andar perdonata, «andrebbe curata». Il marchio dell’individuo corrotto, secondo Jorge Mario Bergoglio, sta nel «prender male qualunque critica. [Un individuo così] svaluta chi lo giudica negativamente, e vorrebbe disfarsi di qualsiasi autorità morale atta a disapprovare qualche aspetto della sua condotta; giudica gli altri e disdegna chi è di parere diverso. Il loro [dei corrotti] modo di perseguitare è imporre un sistema di terrore a chiunque li ostacola; si vendicano rimuovendo [gli oppositori] dalla vita sociale». «Il corrotto non riconosce la fratellanza né l’amicizia, solo la collaborazione. L’amore verso i nemici per lui conta nulla, al pari della distinzione di amico e nemico su cui si basava il diritto antico. Piuttosto, egli si muove nell’ottica dell’opposizione collaboratore- nemico. Così un corrotto con un incarico pubblico finisce sempre per coinvolgere altri nella propria corruzione. Li abbasserà al suo livello e li farà complici della scelta». Inoltre ala persona corrotta non vede la sua corruzione. È come con l’alito cattivo: chi ne soffre non se ne accorge».
Tirando le somme, è possibile indicare un’emozione tipica del corrotto e del suo comportamento: l’odio, l’opposto dell’amore. Quell’amore che Henryk Elzenberg, un importante filosofo etico polacco, ha definito come «la gioia dell’esistenza di qualcun altro». In particolare, il corrotto odia chi non collabora, chi si sente in diritto di pensare diversamente, chi fa resistenza. Chiudo gli occhi, mi turo le orecchie... mi affretto a premere “cancella” quando sul monitor mi imbatto in un’idea in disaccordo con le mie. Hic, davanti al portatile, all’i-Pad o allo schermo dell’i-Phone; e nunc, nelle circa sette ore che l’uomo medio di oggi passa a guardarli. Questo hic et nunc che abbiamo avuto in dono dall’intelligenza artificiale, è una “comfort zone”; uno spazio al riparo dalle controversie, dalla stancante necessità di portare prove e argomenti a sostegno di ciò che diciamo, e dal pericolo di esser smentiti in uno scambio dialettico. Hic et nunc, in un mondo sempre più affollato e congestionato in cui chiese cattoliche, luterane e ortodosse, moschee, sinagoghe e luoghi di culto metodisti, battisti e dei Testimoni di Geova, si contendono lo spazio disponibile a volte nella medesima strada, ignorarsi a vicenda è sempre meno possibile.
Come Jorge Bergoglio prima di lui, papa Francesco non solo predica la necessità del dialogo, ma la pratica. Di un dialogo vero, tra persone con punti di vista esplicitamente diversi, che comunicano per comprendersi. Non di un dialogo all’insegna dell’elogio reciproco, pensato dall’inizio per concludersi con una standing ovation; né un “dialogo” (solo in apparenza di tipo opposto) che sia in realtà una mera giustapposizione di monologhi. È stata una decisione molto significativa da parte di Francesco concedere la prima intervista alla stampa del suo pontificato all’apertamente anticlericale La Repubblica, rappresentata, con Eugenio Scalfari, da un decano del giornalismo che non fa mistero di non essere credente.
Di sicuro l’arte che papa Francesco predica, e pratica lui stesso ogni giorno, è difficile da imparare e, più ancora, da attuare quotidianamente. La sua meno rischiosa alternativa è molto più allettante. Dopo tutto, in un dialogo degno del nome si deve mettere in conto anche l’insuccesso; la possibilità che il nostro punto di vista, ciò in cui crediamo, risulti errato, o che il nostro interlocutore risulti più nel giusto di noi... Simili timori tendono ad aggravarsi e moltiplicarsi, perché meno ci confrontiamo con persone e punti di vista diversi dai nostri, più si indebolisce la nostra capacità di provare i meriti della nostra posizione (che è tutt’altro, naturalmente, dal cercare di aver la meglio alzando la voce, o dal turarsi le orecchie per non sentire le ragioni di chi consideriamo nient’altro che un nemico) e aumentano i nostri motivi di temere il confronto. Ma non lasciamoci indurre in tentazione! Sottrarci al dialogo, voltare le spalle al dovere di confrontarci con la varietà delle umane ricette per una vita decente, ci darà forse la pace mentale (benché, senza dubbio, solo per un po’) ma non risolverà nessuno dei problemi che minacciano il pianeta di estinzione e avvelenano la vita dei suoi abitanti. Per il futuro dell’umanità in un mondo irreversibilmente multiculturale e multicentrico, l’accettazione del dialogo è una questione di vita o di morte.

Repubblica Salute 21.10.14
Depressione
La speranza che cura il “male oscuro” Sos teen-ager
Tra gli adolescenti è la patologia più diffusa per l’Oms
Un disturbo che colpisce 2,6 milioni di italiani. La psicoterapia anche nei casi autolesivi. Intreccio con l’alcol e nuovi farmaci. Ricerca su biomarcatori nel sangue
di Francesco Cro
Psichiatra, Dip. Salute Mentale, Viterbo


L’OMS ha stimato che la depressione è la prima causa di malattia tra gli adolescenti e stima che nel 2020 diventerà la seconda causa di malattia nel mondo. Nel nostro Paese (2,6 milioni di malati, prevalenze doppie tra le donne, indagine Istat) il rischio di ammalarsi di depressione nel corso della vita è del 10%; i maschi sono più inclini all’abuso di alcol, spesso associato ai disturbi dell’umore.
Ma come prevenire l’effetto più tragico di una forte depressione, cioè il suicidio (circa 4000 in Italia, uno dei tassi più bassi nel mondo)? «Grazie all’uso di strategie mirate, con le tecniche psicoterapeutiche cognitivo-comportamentali »: è l’opinione della psicologa Marjan Ghahramanlou-Holloway, direttrice del Laboratorio per il trattamento dei comportamenti suicidi di Bethesda, che ha messo a punto un intervento breve (10 sedute in ambulatorio, 6-8 in ricovero) partendo dalla convinzione che la sindrome suicida debba essere affrontata direttamente, non solo come sintomo di altre patologie psichiatriche. Il terapeuta costruisce un’alleanza con il paziente, invitandolo a raccontare il suo tentativo di suicidio come una storia compiuta (inizio, svolgimento, fine) sottolineando circostanze, pensieri, sentimenti e azioni che lo hanno portato a cercare di togliersi la vita; così la persona viene aiutata a comprendere e a conoscere i processi mentali alla base del suo comportamento. Si identificano i problemi e le possibili risorse da mettere in campo; possono essere utili le “scatole della speranza”, da aprire in caso di necessità, contenenti materiale affettivamente significativo come foto, poesie, immagini o preghiere, o le “carte di resistenza”, nelle quali riportare da un lato i pensieri o le convinzioni che si associano alla perdita di speranza e dall’altro le possibili strategie nei momenti di sconforto. Infine vanno potenziate le abilità acquisite al fine di prevenire le ricadute: il paziente dovrà raccontare di nuovo la storia del suo tentativo di suicidio, ma questa volta con un finale diverso. Secondo lo studio dell’Ufficio di Statistica Cnesps-Iss il suicidio in Italia riguarda, al contrario della depressione, soprattutto i maschi (8 su 10, uno su tre over 70) e rappresenta la seconda causa di morte più frequente tra gli uomini di 15-29 anni, simile ai dati dei tumori (13% del totale di morti) e inferiore solo agli incidenti stradali (35% del totale). Sulla depressione in generale il sistema di sorveglianza Passi segnala per il 2013 «un andamento in diminuzione dei sintomi di depressione... più significativo se si confronta il 2008 con il 2013». Ma il recente convegno delle Società di Psichiatria su bisogni e pratica clinica parla di casi in aumento, 6 su 10 evidenti già in adolescenza, cronicità, cure in ritardo e interruzioni nei trattamenti con troppe ricadute. La psicoterapia (di vario orientamento) è uno degli strumenti da utilizzare anche in situazioni cliniche complesse.
Sul fronte farmaci un recente filone di ricerca riguarda sia depressione che impulsività e tendenza al bere: è il caso dell’amitifadina, che potenzia l’attività nel cervello dei tre neurotrasmettitori chiave coinvolti: noradrenalina, serotonina e dopamina. La cariprazina agirebbe invece selettivamente sulla dopamina (mancanza di piacere e iniziativa), mentre il brexpiprazolo sembra riuscire a modulare l’attività dei neurotrasmettitori, inibendola o stimolandola. Infine sono allo studio farmaci regolatori del recettore per l’aminoacido eccitatorio glutammato, come la ketamina, anestetico noto come sostanza d’abuso per le sue proprietà dissociative, ma con effetto antidepressivo rapido e potente.
Sia gli interventi psicoterapeutici che quel- li farmacologici potranno giovarsi dei progressi nella conoscenza dei meccanismi neurofisiologici della depressione: negli Usa la neurobiologa Alla Karpova ha dimostrato che è possibile ripristinare i processi decisionali bloccando il rilascio di noradrenalina nella corteccia cingolata anteriore, mentre la biochimica Eva Redei ha evidenziato 9 molecole di RNA presenti nel sangue dei depressi, “marcatori biologici” della malattia e possibili predittori della risposta alla psicoterapia.

Repubblica Salute 21.10.14
Effetto crisi. I suicidi


Almeno diecimila suicidi verificatisi in Europa, Canada e Stati Uniti tra il 2008 e il 2010 sarebbero da attribuire alle conseguenze della crisi economica.
L’incremento della disoccupazione sembra colpire, dal punto di vista psicologico, soprattutto i quarantacinquantenni: un’indagine coordinata da Caroline Coope, infermiera ricercatrice presso la Scuola di medicina sociale dell’Università di Bristol (Regno Unito), ha dimostrato che rimanere a lungo senza lavoro è un fattore di rischio particolarmente incisivo per le persone appartenenti alla fascia d’età compresa tra i trentacinque e i quarantacinque anni, mentre sui più giovani peserebbero maggiormente i debiti e le difficoltà abitative.
Gli effetti negativi sulla salute mentale sono più evidenti nei primi cinque anni di disoccupazione, ma persistono anche a lungo termine. Anche nel nostro Paese la crisi ha colpito duramente: secondo i dati diffusi dalla Link Campus University di Roma i suicidi per motivi economici sono cresciuti, dal 2012 al 2013, del 67% soprattutto tra gli imprenditori e i disoccupati.
Il sociologo Aaron Reeves e i suoi collaboratori (Oxford) hanno registrato notevoli differenze nel tasso di suicidi tra i diversi Paesi colpiti dalla crisi giungendo alla conclusione che le decisioni operate in materia di politiche sociali dai singoli Stati possono risultare cruciali. In Svezia e in Finlandia i suicidi non sono aumentati e in Austria il tasso di suicidi è addirittura sceso.

Repubblica Salute 21.10.14
Post partum
“Rebecca blues” rete protettiva per le mamme senza alcun aiuto
di Anna Rita Cillis e Francesco Cro


Tristezza, perdita di interesse, stanchezza, senso di colpa, disturbi di sonno, poco appetito, scarsa concentrazione.
Secondo l’Oms sarebbero 350milioni le persone di ogni età a soffrire di depressione nel mondo.

DEPRESSIONE prima e dopo il parto: molte donne non sanno cosa fare, altre hanno problemi ad ammetterlo e la rete dell’assistenza sociale non ha sempre maglie così ramificate da contenere il problema. E i dati, fa notare Antonio Picano, psichiatra dell’ospedale “San Camillo” di Roma parlano chiaro: «In Italia una mamma su sette si ammala di depressione e in genere solo un quarto chiede aiuto perché la vergogna è parte strutturale della patologia ma le strategie più semplici per affrontare il problema si sono rivelate fallimentari in tutto il mondo».
Per questo Picano, con la sua associazione “Strade onlus” ha creato il social network “Rebecca Blues”, il primo progetto che si avvale di un’app e di una piattaforma «pensata per aiutare le donne rispettandone l’intimità e valorizzando il loro rapporto con il medico di fiducia ». E se da un lato l’applicazione - pensata per gli smartphone - permetterà l’autodiagnosi attraverso la compilazione online di un test, dall’altro fornirà l’aiuto di un medico in caso di bisogno. In più la piattaforma avrà una chat e filmati informativi. In molti casi l’intervento del medico di fiducia sarà sufficiente altrimenti la paziente sarà indirizzata verso un trattamento specialistico.
«Il progetto parte da Roma dove verrà attivato al San Camillo anche uno sportello di consulenza sulla maternità», dice Picano. Ma l’idea è di allargare i confini e di esportare il tutto oltre la Capitale. «Siamo già stati contattati da dieci strutture tra cui l’ospedale pediatrico Bambino Gesù», aggiunge lo psichiatra «ovviamente il nostro intento è di arrivare in più città possibili perché questo disagio colpisce molte persone e produce danni strutturali anche ai figli delle mamme depresse». A riprova c’è anche la teoria della psichiatra Tricia Bowering, esperta di disturbi d’ansia nel periodo perinatale e istruttrice clinica al Dipartimento di psichiatria dell’Università della British Columbia a Vancouver per la quale la gravidanza il parto e il puerperio rappresentano momenti di vulnerabilità psicologica della donna, anche per l’ansia: ad esempio, il rischio di sviluppare un disturbo ossessivo- compulsivo, con timori ricorrenti, intrusivi e irrazionali di poter fare male al bambino, raddoppia nel primo anno dopo il parto. Un punto quello d’ansia sul quale c’è ancora molto lavoro da fare in Italia come nel resto del mondo.

Corriere 21.10.14
Risale a 385 milioni di anni fa il primo rapporto sessuale
Un placoderma già noto è il protagonista della prima penetrazione della storia
Il fossile era già noto dal 1888 ma ora è stato «riconosciuto» l’organo riproduttivo maschile, ricostruendo le modalità di accoppiamento
di Emanuela Di Pasqua

qui

Corriere 21.10.14
Donatello restaurato al Museo del Bargello

È arrivato a conclusione il restauro del rilievo bronzeo, opera di Donatello (1386-1466), datato al 1455. Il bassorilievo che raffigura la Crocifissione di Cristo si trova al Museo Nazionale del Bargello a Firenze nel Salone dedicato all’artista fiorentino. L’intervento è il secondo progetto realizzato nell’ambito della prima edizione del «Premio Friends of Florence Salone dell’Arte e del Restauro di Firenze», iniziativa voluta dalla Fondazione non profit Friends of Florence. Il restauro condotto da Ludovica Nicolai sotto la direzione di Beatrice Paolozzi Strozzi, già direttore del museo, è costato 20 mila euro; durato circa sei mesi ha permesso il riaffiorare dell’oro e dell’argento usati dall’autore. (c. br.)