mercoledì 22 ottobre 2014

La Stampa 22.10.14
Camusso scrive agli iscritti: “Tutti in piazza”
Sabato a Roma c’è la manifestazione della Cgil contro il jobs act e per l’articolo 18. L’appello del segretario: «Facciamo sentire la nostra voce, adesso serve coraggio»

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il Fatto 22.10.14
Camusso: “Tutti in piazza S. Giovanni”

CARE e cari - ha scritto Susanna Ca-musso, segretaria generale della Cgil - è il momento delle scelte, chiare, dedicate a creare lavoro. Sono passati sette anni dall’inizio della crisi e a pagarne il prezzo continuano a essere i lavoratori e le famiglie, i giovani e i pensionati, i precari, gli esodati, i disoccupati di ogni età”.
Questa la lettera inviata ai 5 milioni e mezzo di tesserati Cgil per chiamarli a raccolta, a Roma, in vista della manifestazione del 25 ottobre. Per Camusso “le politiche che, purtroppo, caratterizzano il governo Renzi, insistono su un’idea di Italia che compete al ribasso (...) non scommettono sul lavoro di qualità” prosegue la lettera che si conclude con un appello: “Facciamo sentire la nostra voce, schierandoci dalla parte del lavoro. Facciamolo insieme. Ci vediamo a Roma”. Susanna Camusso dopo la manifestazione ovviamente non andrà alla Leopolda e andrà a Torino dove è invitata da Carlo Petrini a Terra Madre.

il Fatto 22.10.14
Usb, venerdì 24 sciopero generale e cortei nelle città


SCIOPERO generale, con manifestazioni nelle principali città. Lo ha indetto il sindacato di estrema sinistra Usb per l’intera giornata del 24 ottobre: proprio un giorno prima la manifestazione della Cgil a Roma, fissata per il 25 ottobre. Lo sciopero di venerdì dell’Usb contesta vari atti del governo Renzi: dal jobs act al “blocco dei contratti nel pubblico impiego” fino al piano Renzi sulla scuola. Il sindacato manifesterà anche contro il Fiscal Compact, i trattati “antipopolari” dell’Unione europea e il pareggio di bilancio inserito nella Costituzione (contro cui è partita una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare). Oltre alla giornata di venerdì 24, l'Usb parteciperà anche allo sciopero del 14 novembre indetto dai movimenti sociali. Quello del 24 si articolerà in manifestazioni regionali. A Roma l’appuntamento è in piazza dell’Esquilino (ore 9,30), a Milano in piazza San Babila (9,30), a Torino in piazza Solferino e a Bologna in piazza XX Settembre mentre a Napoli il concentramento è previsto in piazza Mancini sempre alle 9,30. Tra le adesioni alla giornata del 24 quelle de l’Altra Europa con Tsipras, il Prc e il Pdci, il Forum Diritti/Lavoro.

Il Fatto 22.10.14
Pd, Renzi punta al Partito della Nazione. “Ma la somma delle percentuali non vale”
Il premier sogna una forza politica in grado di "contenere realtà diverse", da Sel a Scelta Civica, fino all’ala destra di Angelino Alfano
Ma i sondaggisti mettono in guardia: "Quando un partito aggrega nuovi consensi, rischia di perdere elettori storici", spiega Antonio Noto di Ipr Marketing
Non solo: “Su alcune questioni gran parte dell’elettorato del Pd si riconosce maggiormente nelle posizioni di Sel, Ferrero e Landini", avverte Alessandra Ghisleri di Euromedia. Che lascia intravvedere il rischio di una scissione
di Giuseppe Alberto Falci

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il Fatto 22.10.14
Qualcosa di... Partito della Nazione
Lo scout e quell’idea di destra del Country Party
di Fabrizio d’Esposito


Senza offesa per i personaggi in questione, capita pure che, con questa storia del partito della nazione, un po’ seria un po’ no, finisce che Ezio Mauro parli come un vecchio e dimenticato colonnello di An, Adolfo Urso. Ieri mattina, infatti, il direttore del più noto house organ del renzismo, Repubblica, ha citato il fatidico Country Party durante la riunione di redazione, come si apprende dall’apposito video sul sito del quotidiano. Ora, per chi ha memoria, il Country Party, versione albionica del partito della nazione, fu una fissazione di Urso e Domenico Fisichella nel gennaio del 2005, quando l’allora An, oggi defunta, compì dieci anni. Forum, dibattiti, articolesse e un memorabile numero della rivista Charta Minuta che alla fine esasperarono non solo Fini ma anche tanti parlamentari postmissini, fra cui uno di origini napoletane che esplose a un certo punto nel dialetto della sua città: “Ma cherè stu Country Party? ”. “Ma che cos’è questo Country Party? ”. Qualcuno gli rispose che era il partito della campagna, altra traduzione dall’inglese di country.
Il divertente aneddoto, ogni tanto ricordato sui divanetti di Montecitorio, è l’introduzione perfetta al nuovo partito della nazione, invocato da Renzi nell’ultima direzione per includere finanche i rimasugli filodemocrat di Sel e Scelta Civica, frutto di microscissioni in partiti traballanti (Sel) o derelitti e morenti (ex montiani).
PRECISATO che il partito della nazione, nella Seconda Repubblica, porta anche sfiga (ci ha provato Fini, ci ha provato Casini, ci ha provato persino Bersani col supporto nobile di Alfredo Reichlin), l’anomalia teorica, rilevabile anche da chi non ha studiato un banale manuale di dottrine politiche, è che il Country Party è un’idea di destra, che rimanda al reaganismo ma anche a Mussolini che volle definire il partito fascista come nazionale (Pnf). Punto. Non solo. Nel memorabile numero di Charta Minuta già citato, organo della fondazione finiana di Urso, il professore Fisichella, indiscusso inventore di Alleanza nazionale, immaginò il Country Party come prosecuzione naturale di An in un sistema bipartitico. Senza dimenticare che la scelta di chiamarsi Alleanza nazionale fu presa, a metà degli anni Novanta, in contrapposizione ad Alleanza democratica.
E qui la citazione di Ferdinando Adornato è doverosa. Adornato, che piaccia o no, e può non piacere, ha dato tanto alla causa dell’elaborazione partitica nel ventennio breve. Nel ’91, da sinistra, teorizzò il Partito democratico per andare oltre la sinistra (e D’Alema commentò sarcastico: “Oltre la sinistra c’è la destra”). Nel 2003, da berlusconiano, lavorò al partito unico del centrodestra, di matrice popolare. Oggi è deputato centrista che osserva Renzi e dice: “Renzi realizza il partito della nazione a distanza di 24 anni del mio libro. Di questo passo, con la stessa media e lo stesso ritardo, il centrodestra impiegherà altri tredici anni per arrivare alla compiuta realizzazione del partito popolare”.
Quella di Adornato è una battuta fino a un certo punto. Indica la fatica dei processi storici nonché, per certi versi, l’eccesso di opportunismo che a volte caratterizza il tentativo di chiamare Country Party il vecchio modello della Dc interclassista che teneva dentro tutto: il centro puro, la sinistra demitiana, la destra clericale e filofascista di Andreotti, giusto per semplificare. Adesso il CountryParty è necessario perché bisogna includere il fuoriuscito montiano Andrea Romano e il fuoriuscito vendoliano Gennaro Migliore. Chiosa feroce un deputato democratico campano: “A me, me pare ‘na strunzata”. Non c’è bisogno di tradurre. Ma questo è l’altro lato della medaglia senza bandiere di partito che negli anni Matteo Renzi ha coniato alla Leopolda. La vocazione maggioritaria del Pd, alla base del Lingotto veltroniano del 2007, trova adesso il suo sbocco naturale. E infatti la coerenza di “Walter” è tale che, a differenza di D’Alema e Bersani, altri due big riformisti, oggi i veltroniani sono tutti schierati nel renzismo.
Il partito della nazione di Renzi sarà moderato, ma anche di destra e di sinistra. E in casa si ritrova pure il simbolo dei Moderati, il partito di Giacomo Portas, deputato eletto nel Pd e che sabato non andrà da alcuna parte, né alla Leopolda né a San Giovanni, a Roma. Ma la fortuna del Country Party di “Matteo” sarà quella di tenere il piede in due piazze.

Repubblica 22.10.14
L’amaca
di Michele Serra


È PROPRIO vero che siamo nell’era postideologica, con tutto il bene (rinnovamento radicale) e tutto il male (confusione radicale) che ne deriva. “Partito della Nazione”, per esempio, è una definizione che fino pochi anni fa sarebbe stata, a sinistra, totalmente impensabile. Un po’ perché nazione è parola tradizionalmente legata alla cultura di destra (a sinistra si preferiva dire “Paese”), un po’ perché la sinistra ha speso i suoi ultimi decenni di vita a fare i conti con il totalitarismo (anche quello interno) e dunque a riscoprire che la parola “partito” definisce anche etimologicamente solo una parte, e non il tutto. “Partito della Nazione” suona, in questo senso, vagamente minaccioso.
Si intende che le intenzioni sono buone, ed è all’interesse collettivo che ci si vorrebbe riferire. Ma quando già si gode di un consenso così rilevante, e si sta per varare una riforma elettorale più che maggioritaria e in sostanza esiziale per le minoranze, non guasterebbe una più spiccata sensibilità per il proprio ingombro, che può anche risultare allarmante per chi non è della partita, anzi del partito. Magari il nutrito assortimento di creativi che lavora per Renzi ha il tempo e la voglia, alla Leopolda, di escogitare un marchio che suoni un po’ meno totalitario di “Partito della Nazione”.

il Fatto 22.10.14
Il Pd di lotta e di governo diviso tra Cgil e Leopolda
Sabato il doppio appuntamento: La manifestazione del sindacato a Roma e la kermesse renziana a Firenze
E un grande dubbio: “Mi si nota di più se vado o no?”
di Wanda Marra


Maria Elena Boschi, ministro delle Riforme, sta lavorando notte e giorno per l’organizzazione, ma non sarà sul palco. Lo stesso il sottosegretario a Palazzo Chigi, Luca Lotti, che da sempre preferisce lavorare nelle retrovie. Il ministro della Pa, Marianna Madia interverrà dal palco, così come Roberta Pinotti, ministro della Difesa, in lizza per il Quirinale. Il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, sarà presente in modo “attivo”. Presente pure il ministro della Cultura, Dario Franceschini. La prima Leopolda di governo vedrà arrivare mezzo esecutivo, più una nutrita schiera di sottosegretari, da Angelo Rughetti a Ivan Scalfa-rotto. L’evento che fu il trampolino di lancio della rottamazione, diventa di governo. Di nome e di fatto. In contemporanea sabato a San Giovanni nella manifestazione organizzata dalla Cgil contro il governo ci saranno delle figure non esattamente secondarie a partire da Guglielmo Epifani (“Sono iscritto alla Cgil, anzi allo Spi”), che è il presidente della Commissione Finanze e Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro, quella che sulla carta ha in mano le sorti della riforma del lavoro (anche se poi l’ultima parola - ma no? -è al governo con i decreti attuativi). Ecco di nuovo il Pd di lotta e di governo. Anche se Renzi ha provato a disinnescare la miccia invitando tutti a Firenze: “Venite a vedere”, ha detto. “Non sabato, che avete altro da fare”. Seconda la regola del “non ti curar di lor, ma guarda e passa”.
I RENZIANI di fede provata, antica e recente, ci saranno tutti. Alcuni faranno a gomitate per intervenire, altri aspettano un invito ufficiale. Sul palco tre deputati più o meno sconosciuti: Luigi Famiglietti, Silvia Fregolent e Edoardo Fanucci. Più Lorenza Bonaccorsi, un po’ più nota. Almeno un rapido passaggio lo faranno tutti i membri della segreteria. Ma nella vecchia stazione di Firenze arriveranno franceschiniani doc, come Marina Sereni (che spera in un posto da ministro) e Ettore Rosato, renzianissimi come i parlamentari David Ermini, Andrea Marcucci, Simona Bonafè, giovani in ascesa, come Marco Di Maio, “convertiti” da un po’ e ora ultras convinti, come Alessia Morani e Alessandra Moretti, critici come Matteo Richetti. Per molti altri, magari alla prima esperienza in Parlamento, sarà la prima volta: un’occasione imperdibile per condividere un’esperienza con “Matteo”. E la prova generale di quello che sarà il “partito nazione”, aperto a tutti e poco interessato alle strutture tradizionali.
Pippo Civati, che fu sul palco degli esordi, andrà a San Giovanni e con lui tutti i suoi. In piazza, Stefano Fassina, Gianni Cuperlo, Alfredo D’Attorre. Poi, c’è pure chi non va né da una parte, né dall’altra. Il presidente del Pd Matteo Orfini va in Cina con una delegazione del partito.
PER I GIOVANI TURCHI c’è un problema. A manifestare contro il governo, visto che sono una minoranza renziana, non ci possono andare. Anche se la piazza sarebbe il loro luogo naturale. E alla Leopolda? Discussione in corso. Decideranno per una delegazione, capitanata da Valentina Paris, in segreteria. La regola è sempre la stessa, da Nanni Moretti in poi, “... mi si nota di più... ”. Se è per Enrico Letta sarà a Trieste per una lezione alla scuola di formazione politica, promossa da www.lab.it   di Francesco Russo (senatore Pd, anche lui lontano da Firenze). E Roberto Speranza, capogruppo a Montecitorio, uno dei capi ufficiali della minoranza, ma pronto ad esaudire i desideri del premier? Sarà a festeggiare Matera. Non a Firenze neanche l’ora fedelissimo capogruppo al Senato, Luigi Zanda. Il dilemma non è solo esserci o non esserci, ma anche dove essere. Francesco Boccia, uscendo in serata dalla Camera, alla domanda se va alla Leopolda, scherzando risponde “Non fumo”.

La Stampa 22.10.14
Il Pd fa rivivere l’Unità e punta ai fondi ex Ds
Ritorno in edicola grazie a Veneziani, editore di riviste di gossip. La campagna di risparmi nel partito
di Maria Teresa Meli


ROMA Intanto un primo passo è stato fatto. Tra qualche mese l’Unità sarà di nuovo in edicola. L’impresa non è stata facile. Francesco Bonifazi, tesoriere del Partito democratico, e l’editore di minoranza del quotidiano, Maurizio Mian, si sono messi di buzzo buono per trovare i soldi necessari per rimettere in piedi il giornale e il secondo ha dato un cospicuo contributo finanziario per scongiurarne la chiusura definitiva.
Prima hanno deciso di costituire la Fondazione di cui faranno parte Youdem (l’unico vero strumento di comunicazione del Pd che è in attivo e che, anzi, ha molte possibilità di sviluppo future, tant’è vero che a breve andrà sul digitale terrestre), Europa (che a novembre potrebbe chiudere per poi rinascere solo sull’online e come settimanale di approfondimento) e infine l’Unità . Ed era quest’ultimo il vero problema. Trenta milioni di debiti, 900.000 euro di spese l’anno: insomma un carico insostenibile per un partito che ha optato per l’autofinanziamento e che ha detto addio ai soldi pubblici. Come fare? Pensa che ti ripensa, Bonifazi, con l’aiuto di Adrio de Carolis di Swg, ha capito che l’unica era puntare sul brand del giornale. Non a caso Matteo Renzi ha voluto che la Festa, da quest’anno, riprendesse l’antico nome di Festa dell’Unità e Bonifazi ha puntato su tutto quello che gira intorno al brand di quel giornale e a quello degli altri strumenti di comunicazione del partito: gadget, musica, eventi... Poi con Mian si è dato da fare per trovare un editore disposto a metterci i soldi.
Già, perché sono quelli che scarseggiano a via del Nazareno, dove la querelle sul patrimonio immobiliare dei «fu Ds» non si è ancora risolta. L’ex tesoriere Ugo Sposetti ha fatto capire in tutte le salse che non ha intenzione alcuna di regalare nulla di ciò che fu dei diessini. L’ultimo segretario di quel partito, Piero Fassino, non la pensa nello stesso modo. E come lui non la pensano molti segretari dei circoli del Partito democratico che provengono dall’esperienza ds.
Ma quella è una vicenda destinata ad andare per le lunghe. E se si voleva salvare l’Unità Bonifazi e Mian non potevano certo aspettare che il tormentone diessino arrivasse alla fine. Per questa ragione il tesoriere del Pd si è buttato sul mercato a cercare un partner. Un’offerta è arrivata da Matteo Arpe. Non è stata accettata. Ufficialmente mancavano tutte le garanzie necessarie. In realtà, raccontano a largo del Nazareno, al Pd erano in molti a sospettare che dietro quella cordata vi fosse Massimo D’Alema. Vero o falso? Smentiscono tutti. E Bonifazi è categorico nel negare l’intera vicenda: «Non vi sono stati interessamenti da parte di Matteo Arpe». Ma l’indiscrezione continua a circolare con una certa insistenza.
Fatto sta che, Arpe e D’Alema o meno, Bonifazi alla fine ha trovato un editore con il quale fare un’offerta di dieci milioni per l’Unità . È Guido Veneziani. Un nome sconosciuto all’editoria politica, ma ben conosciuto per i suoi periodici: Stop , Top , Vero . Nomi che, magari, faranno arricciare il naso a qualcuno, ma che consentiranno al quotidiano fondato da Antonio Gramsci di riprendere le pubblicazioni di qui a qualche mese, giacché l’offerta verrà fatta entro il 31 ottobre, ossia tra pochi giorni. Dopodiché si tratterà solo di individuare il direttore. Questione di mesi, dunque. Poi si ripartirà. Certo, con una redazione più snella rispetto a quella precedente. Ma i tempi sono quelli che sono. E ieri, nell’assemblea che ha avuto con i dipendenti del partito, Bonifazi non ha nascosto le difficoltà, anche se ha fatto delle promesse importanti: «Sono disposto a correre il rischio di andare incontro a una piccola perdita pur di non mettervi in pericolo, quindi niente solidarietà». Una rassicurazione che ha fatto tirare un sospiro di sollievo a quanti erano — e sono — preoccupati per le sorti del Pd dopo la decisione di rinunciare ai finanziamenti pubblici. Del resto, la spending review operata dal tesoriere del Pd sta andando avanti a passo spedito. Il costo per i servizi è stato ridotto del 57 per cento rispetto agli anni precedenti, mentre i costi della segreteria nazionale si sono fermati a 50 mila euro, nulla rispetto al milione e 220 mila euro di prima. Sulla manutenzione si risparmia il 70 per cento e l’aver già abbandonato due sedi del Pd a Roma ha portato a un risparmio di 820 mila euro.
Certo, non basta. Ci vogliono ancora altri sforzi. E, soprattutto, è necessario che anche i Ds diano un loro contributo. Ma di questo argomento Bonifazi preferisce non parlare. Non vuole entrare in questa polemica che ha visto uno Sposetti molto combattivo difendere il patrimonio immobiliare diessino confluito in alcune fondazioni. Ma ora sono proprio alcuni circoli degli ex Ds, adesso circoli del Partito democratico, che stanno chiedendo conto di questo problema e della fine che farà quel patrimonio. Ne vogliono discutere a giorni. Ed è assai probabile che sia alle viste una nuova puntata di questo tormentone. Il tesoriere del Pd, almeno per ora, preferisce non intervenire: è troppo felice di essere riuscito a mandare in porto l’operazione che si era prefisso, l’ennesima resurrezione dell’ Unità

Repubblica 22.10.13
Pd, Bersani sul 'partito della nazione': "Bene allargarsi, ma non fino a Berlusconi e Verdini"

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il Fatto 22.10.14
Il bersaniano Alfredo D’Attorre
“Matteo vuol far l’amerikano, ma il suo è un soviet”
di Wa. Ma.


È preoccupante che in un momento in cui il Pd è in crisi, con i dipendenti che rischiano la cassa integrazione e le sezioni che chiudono, Matteo Renzi faccia organizzare ai suoi fedelissimi un evento per il quale ci si impegna a fondo a raccogliere finanziamenti privati”. Così parla Alfredo D’Attorre, bersaniano di ferro, che sabato sarà a San Giovanni.
Renzi vuole un partito-Leopolda?
Il rischio è quello di andare verso un partito personale, carismatico, disancorato da una base sociale culturale di riferimento. Un partito che diventa un contenitore indistinto in cui possono convivere istanze di destra e di sinistra e che viene tenuto assieme solo dalla capacità attrattiva del leader e non da una visione della società.
Che senso ha la Leopolda in un momento in cui Renzi è sia segretario sia premier?
La Leopolda ha rappresentato una forma di circolazione extracorporea, con la quale energie esterne sono state portate nel Pd. Questo andava bene quando Renzi era l’outsider che tentava la scalata alla segreteria. In un momento in cui è segretario e ha dalla sua gran parte dell’establishment economico non si comprende il senso di un’iniziativa di corrente senza simboli di partito.
Ma il partito nazione non è la naturale evoluzione di questo?
Partito nazione pensato come contenitore indistinto e partito acchiappatutto sì, altra cosa è l’idea di Reichlin della sinistra che si fa carico dell’interesse nazionale senza smarrire le sue radici e i suoi valori.
E dunque voi cosa gli chiedete?
Mi auguro che ci chiariamo sul modello di Pd che vogliamo costruire. Se si tratta di un partito strutturato tipico dei regimi parlamentari il modello deve essere coerente: dev’essere un partito con un ruolo forte degli iscritti, degli organismi dirigenti e della disciplina dei gruppi parlamentare. Se invece si sceglie un partito all’americana, si devono avere dei contrappesi.
Cioè?
I gruppi parlamentari devono godere di una certa autonomia. Per esempio, in regimi presidenziali come Usa e Francia non di rado accade che i gruppi di uno stesso partito si dividano in quanto il singolo parlamentare risponde anzitutto alla propria base elettorale e fa da contrappeso al potere presidenziale.
In sintesi cosa va evitato?
Non si può avere il modello americano con una disciplina da Politburo sovietico.

Repubblica 22.10.14
Scontro minoranza-renziani “Si discute di più nella Chiesa” “Ma ora gli operai ci votano”
Bersani: “Bene allargarci, ma senza Berlusconi e Verdini” Pannella chiede di iscriversi al Pd. Guerini: se è leale perché no
di Tommaso Ciriaco


ROMA Aperto o chiuso, con le tessere o ultra-leggero, di sinistra o post ideologico. Neanche il tempo di cambiare pelle che già renziani e minoranza interna si spaccano sul futuro. «Ormai l’unico posto dove si discute è il Sinodo, nel Pd non c’è più l’occasione di farlo...», scherza Pierluigi Bersani incrociando monsignor Rino Fisichella negli studi Rai. È solo l’antipasto, il resto accade a Ballarò: «Un partito che va da Romano a Migliore? Va bene - attacca - basta che non ci siano Berlusconi e Verdini». Una provocazione, per le truppe vicine al premier: «Eravamo il terzo partito tra gli operai nel 2013 - ricorda Giorgio Tonini - mentre adesso siamo il primo». La sfida di Bersani cade nel giorno in cui Renzi incassa l’ingresso nel partito dei nove deputati di Led guidati da Gennaro Migliore.
L’ex segretario dem, comunque, chiama in causa l’idea stessa di partito della nazione: «Il tema del “pigliatutto” non è positivo. E la sinistra delle opportunità è una roba da anni Ottanta, per me la parola chiave è uguaglianza». Nel mirino finisce anche la Leopolda, alfa e omega del renzismo: «Lì non vado. Se fai il segretario e vuoi fare un'iniziativa aperta a tutti, falla come Pd». La prima linea del premier replica colpo su colpo: «Rischiamo di annacquarci?
Macché - sostiene il vicesegretario Lorenzo Guerini - costruiremo una forza larga e di sinistra». E l’eurodeputata Simona Bonafè: «Sarà un partito nuovo, non più di novecentesca memoria.
Ritorniamo alle origini, alla vocazione maggioritaria».
Nel caos democratico, intanto, fa capolino Marco Pannella. Il leader radicale vuole iscriversi al Nazareno e raccoglie un primo via libera di Guerini. «Siamo aperti a tutti quelli che guardano a noi sinceramente e lealmente - dice a Radio Radicale - Ogni contributo può essere un arricchimento, anche quello di Pannella». Tonini, poi, si mostra ancora più entusiasta: «Una componente radicale è un fattore di ricchezza». Da Londra, Pannella si mostra cauto: «Avevo già chiesto di entrare, anni fa. Mi bocciarono i probi viri, c’era un problema di doppia tessera. Ora torno in Italia, rifletto e avanzo passi formali. Con Renzi il clima è cambiato? Quello dice una cosa su tutto, vediamo cosa significa “partito aperto”...». Chi invece proprio non apprezza è Beppe Fioroni: «Stimo Pannella per le sue battaglie e la sua coerenza, ma non credo che abbia molto a che vedere con il Pd».
Sempre più distanti sono di certo i vendoliani, di fronte alle novità sulla legge elettorale: «Con il premio alla lista e non alla coalizione - chiarisce Nicola Fratoianni si segna la fine dell’ipotesi coalizionale con il Pd».
Il quadro della alleanze, almeno per adesso, resta però sullo sfondo. I renziani pensano soprattutto all’organizzazione della prima Leopolda di governo. Non sarà Renzi a “condurre” l’evento, affidato invece a una regia “corale”. Il palco richiamerà un garage americano - sul modello di quello scelto un tempo per la Apple da Steve Jobs - e tra gli ospiti ci sarà spazio anche per il guru di Obama, Mike Moffo.

Repubblica 22.10.14
Cuperlo
“Il progetto di Matteo è vecchio e se lui alimenta un partito parallelo io resto per rilanciare la sinistra”
“Alla Leopolda farò un salto lunedì. Ah, sarà finita, dura solo tre giorni? Allora andrò l’anno prossimo”
Per catturare il consenso ovunque si rischia una trasversalità senz’anima
intervista di Alessandra Longo


ROMA Cuperlo lei ci andrà alla Leopolda?
«Se riesco faccio un balzo lunedì ».
Ma la Leopolda finisce domenica.
«Ah, dura solo tre giorni? E allora sarà per l’anno prossimo».
Cosa rimane di sinistra in quel partito della Nazione che Renzi vuol portare addirittura al 51 per cento?
«Il premier mi ricorda la parabola dei talenti. Il punto è dove vuole indirizzare le doti che ha. L’impressione è che voglia catturare il consenso ovunque, senza limiti e confini. Ma se spezzi il legame tra bisogni e consenso rischi di fondare il potere su una trasversalità senz’anima».
Sono tutti 'renziani' cioè tutti dalla parte del vincitore. Cos’è che le impedisce di aggregarsi al coro?
«Lo spartito».
Lei dice: 'Non vado da nessuna parte, questo è il mio partito'. Ma è sicuro che il Pd sia ancora il suo partito?
«Mi batto per questo. So che la sinistra non esiste in natura. La sinistra è un impasto di speranza, conflitti e passione. E’ scegliere la parte della società che vuoi liberare e promuovere. E’ immaginare il mondo con gli occhi di chi parte dal fondo».
Accusano l’opposizione interna di essere troppo morbida e per giunta divisa. Pagherebbe alzare i toni?
«Io penso che paghi la chiarezza. Ho chiesto a Renzi se vuole guidare un partito o una confederazione. Rischiamo di andare verso la seconda. E allora io dico che la sinistra deve unirsi, organizzarsi ma soprattutto ripensare tutto con una radicalità che finora non ha avuto».
Renzi è davvero il nuovo Blair? Ed è possibile importare il New Labour?
«Renzi ha definito la sua una sinistra delle opportunità. In questo è blairiano. Ma per me Blair oggi è l’Old Labour. Perché il tema del secolo torna con prepotenza, quello di nuove uguaglianze e libertà. Non cogliere questo aspetto restringe la sinistra in un recinto stretto mentre il mondo corre più in là».
Marco Pannella chiede di nuovo di iscriversi al Pd.
«Io penso al Pd come ad un campo aperto: ai singoli, a culture diverse, a movimenti, ad associazioni».
Rodotà ha evocato “il diritto ad avere dei diritti” anche e soprattutto in tempo di crisi.
«Rodotà cita giustamente Samuel Moyn quando spiega perché i diritti umani globali sono l’ultima utopia a disposizione dell’umanità. Questa è la bussola anche nella concretezza. Perché se alla sinistra togli la potenza dell’utopia le togli il respiro. E nella notte delle utopie tutte le riforme si somigliano ».
Quanti partiti ci sono ormai dentro il Pd? C’è il partito della Leopolda, ci siete voi di SinistraDem....
«Il Pd non ha bisogno di tifoserie ma di persone autonome e pensanti. Se risorse e potere alimentano un partito parallelo è quasi un dovere dentro il Pd dare un luogo a chi non la pensa così».
Non si capisce qual è il punto di non ritorno. Renzi alza l’asticella ma voi sembrate sempre chinare il capo. L’articolo 18 fino a poco tempo fa pareva il confine.
«Ma io sfido il governo ad avere più coraggio. Semmai chiedo una manovra più espansiva. Un mercato del lavoro più aperto.
Una rete di diritti più moderna. Evasione e lotta alla corruzione, imposta progressiva sui patrimoni sopra i 2 milioni di euro, bonus a chi guadagna meno di 8 mila euro all’anno e ai disoccupati. Restituire qualcosa ai pensionati. Altro che capo chino».
Renzi adesso parla con 'rispetto' della manifestazione della Cgil. Glielo ha consigliato lei di ammorbidire i toni?
«No, ma un leader sa da solo che una piazza di lavoratori si ascolta».
Che ne pensa del premio di lista, la nuova proposta di riforma elettorale?
«Il bipartitismo non è una gabbia e vorrei discuterne nel Pd. Per me le priorità da cambiare sono le soglie e le liste bloccate».
Qualche volta la mattina si alza e si chiede: chi me lo fa fare?
«Mai, ho il privilegio unico di vivere la politica come una passione ».

il Fatto 22.10.14
Con il sindacato Pravettoni (Paolo Hendel)
“Il premier è un Berluschino però senza bunga bunga”
di Emiliano Liuzzi


Difficile capire dove si ferma Paolo Hendel – la sua voce per il Cinegiornale dell’era renziana firmato Cgil – e inizia Carcarlo Pravettoni, dove la parodia è quella antica, di un berlusconiano o quella, più attuale, di un uomo affezionato al verbo imposto dal renzismo. “Non chiedetelo a me, ne parlo già troppo con lo psichiatra”.
Hendel da che parte sta?
Diciamo che Paolo Hendel è il contrario di quello che pensa Pravettoni.
Pravettoni alla Leopolda e Hendel in piazza coi sindacati?
Assolutamente sì. Non che Hendel non si fidi di Renzi, lui spera che ce la faccia, ma la strada mi pare in salita. È la negazione della democrazia.
Perché?
Per colpa nostra, degli italiani. Aspettiamo l’uomo della provvidenza che venga a risolvere i nostri problemi e la deriva autoritaria sta lì, dietro l’angolo. Come diceva Gaber, libertà è partecipazione. Dunque la democrazia è partecipazione. Non c’è un’altra strada, lo abbiamo visto con Craxi e anni prima con un altro signore. Non erano gli uomini della provvidenza.
Le piace la visione dell’ottimismo a tutti i costi?
No, è quella che gli contesto. Gli scemi sono ottimisti sempre e comunque. Poi la vita è un’altra cosa. E la politica di conseguenza.
Pravettoni però è in sintonia con Renzi?
Pravettoni ci sguazza nel renzismo. Come aveva sguazzato negli anni di Berlusconi. Mi piace una cosa che ha scritto Eugenio Scalfari.
Quella del bunga bunga?
Esatto, quando dice che Renzi è un Berlusconi senza bunga bunga. Probabilmente è una tassa da pagare, una fase di transizione. Meglio questa fase di quella berlusconiana, ma i processi sono lunghi e non si poteva pretendere di passare da un Berlusconi al suo opposto. Siamo in una fase intermedia. Già avere eliminato le feste e i festini sono un passo in avanti. Poi probabilmente tornerà anche la politica.
Lei è fiorentino, Renzi lo ha visto crescere politicamente. Si aspettava che arrivasse a fare il presidente del Consiglio?
Non lo so. Ma il ragazzo è sveglio e ci sa fare. È ambizioso. Ha quell’entusiasmo pravettoniano. Ripeto, fino alla noia: i rischi sono quelli di vedere in lui l’uomo della provvidenza. Un rischio molto serio per la democrazia. Sarà che nel nostro Paese ne abbiamo passate tante, troppe, ma questo maledetto vizio di individuare il salvatore della patria non ce lo siamo tolto. E il rischio è quello di mettere in pericolo la democrazia.

il Fatto 22.10.14
Per Renzi anche firme falsa
Così si blinda il governo: in calce a una risoluzione qualcosa non torna
Oggi la farsa in aula
di Carlo Tecce


Un documento anomalo (e apocrifo) al Senato, farcito con firme sospette. Per blindare il governo e liquidare il delicato discorso di stamattina in aula di Renzi sulla manovra all’esame della Commissione europea, i capigruppo di maggioranza, un po’ affannati e senz’altro premurosi, sette giorni fa, hanno spedito agli uffici di Palazzo Madama una proposta di risoluzione per ottenere un plebiscito e tanti saluti, al massimo una cartolina da Bruxelles. Renzi sarà in trasferta domani e venerdì per il Consiglio europeo.
LE RIGHE sono due, proprio due: “Udite le comunicazioni del presidente, relative alla riunione dei capi di Stato e di governo del 23 e 24 ottobre a Bruxelles, le approva”. E che barbosi: scrivono “udite” senza ancora “udire”, pazienza. E no, non c’entra nulla. Di strano ci sono le firme in calce, vergate a penna, più o meno sovrapposte ai nomi di Luigi Zanda (Pd), Maurizio Sacconi (Ncd), Karl Zeller (Svp), Lucio Romano (Pi) e Gianluca Susta (Sc). Il foglio è pubblicato in pagina (il secondo dall’alto), e non occorre una perizia calligrafica per intuire che le firme sono prodotto di una stessa mano o di mani incerte (e ignote). Ma per un paragone più preciso, e più inquietante, va consultato l’ordine del giorno del 15 ottobre, non un giorno qualsiasi per questa legislatura di Palazzo Madama, gli autografi sono sempre di Zanda, Sacconi, Zeller, Romano e Susta. I cinque capigruppo, allora, sostenevano e approvavano lo slittamento del pareggio del bilancio al 2017. Una modifica essenziale per Palazzo Chigi, passata soltanto con 161 favorevoli e una serie di coincidenze e di conversioni determinanti: il leghista Roberto Calderoli che presiedeva l’aula e non poteva votare, il sì di Luis Orellana (ex Cinque Stelle) e di quei democratici dissidenti sull’articolo 18 come Walter Tocci. O sono false le firme per la nota di aggiornamento al Def – poco probabile, sono diverse e sarebbe un disastro normativo (e anche peggio) – o sono false quelle per inviare Renzi a Bruxelles senza contrattempi. E oggi, proprio mentre Renzi svelerà ai senatori le sue tattiche per blandire Angela Merkel e i terribili burocrati, i capigruppo Zanda, Sacconi, Zeller, Romano e Susta dovranno spiegare: il Senato dibatte, delibera e si esprime attraverso documenti anomali (e apocrifi)?
Zanda&C. non dovranno, però, giustificare l’apprensione, perché al governo dei cento o mille giorni basta un’occasione per perdere la maggioranza a Palazzo Madama. E ci prova, Roberto Calderoli, esperto in tranelli e regolamento: anche l’opposizione vuole mettere ai voti una risoluzione, ma sui temi eticamente sensibili, quelli che dividono inesorabilmente i democratici e il drappello di Ncd. Se lo richiedono venti senatori, lo scrutinio sarà segreto. Nonostante il sacrificio di Zanda e colleghi, non sarà una passerella da trionfatore di Renzi: l’ormai leggendario 40% e rotti per le europee non è spendibile, stavolta.
A presiedere l’assemblea ci sarà Linda Lanzillotta, senatrice di Scelta Civica, infuriata con Renzi per il “silenzio” (citazione) dopo le “illusioni vendute” (citazione bis) di Ignazio Marino, il sindaco di Roma che ha trascritto in Campidoglio le nozze all’estero di 16 coppie gay. Ma per proteggere il fiorentino e per evitare una figuraccia, chissà, Valeria Fedeli (lo dice il cognome, fedelissima dem) potrebbe sostituire la Lanzillotta. Alchimie, nient’altro. Prima di tumulare l’istituzione di palazzo Madama che verrà trasformata in dopo-lavoro per i politici regionali, quel che conta sapere è semplice: le firme false valgono al Senato? Qualcuno avvisi di questa riforma, grazie.

La Stampa 22.10.14
L’annuncio di Migliore: “Mi iscrivo al Pd”
Il gruppo Libertà e Democrazia dei transfughi Sel confluirà nel Partito Democratico. Andrea Romano lascia Scelta Civica per il Gruppo Misto, ma guarda già ai dem

qui

Repubblica 22.10.14
Prove tecniche di alleanza fra Sel e sinistra Pd
di Antonio Pitoni


Il paradosso, in politica, è sempre in agguato. E così, mentre Matteo Renzi si augura che il Pd possa diventare un partito «in grado di contenere realtà diverse» riconoscendo «diritto di cittadinanza piena» a figure come quella di Gennaro Migliore (Led), può capitare anche che, nello stesso Partito democratico, non manchi chi finisca per riconoscersi, sostenendole, proprio nelle battaglie di Sinistra ecologia e libertà da cui anche Migliore proviene.
L’occasione è una proposta di legge dei vendoliani in materia di «contrasto alla delocalizzazione» delle aziende italiane. Che oltre a quelle dei deputati del gruppo Sel, può già contare alla Camera sulle firme di un gruppo di colleghi della sinistra Pd. «L’hanno sottoscritta Pippo Civati, Stefano Fassina, Michela Marzano, Luca Pastorino Marco Marchetti e Luciano Agostini – conferma Lara Ricciatti, prima firmataria della proposta –. Del resto, è una risposta di buon senso al nodo delle delocalizzazioni, figlio delle mancanze della politica industriale».
E mentre le sirene renziane spalancavano a Migliore le porte dei democratici, anche da Led, nato da una scissione interna a Sel, non sono mancate le adesioni. «Anche Claudio Fava, Titti Di Salvo e Martina Nardi hanno firmato», rivela ancora la Ricciatti.
Prove tecniche di opposizione trasversale? «A me pare, più che altro, un suggerimento (la proposta di Sel, ndr) utilissimo su cui dovrebbe convergere tutto il Parlamento – chiarisce Civati –. Vedo che si è acceso un “Led”, magari potrebbe dare un contributo anche la Lega prendendo atto, invece di prendersela con i disperati delle carrette del mare, che l’esproprio dell’italianità ha ragioni ben diverse».
Ma cosa prevede la proposta di Sel? Una misura su tutte: la decadenza dal beneficio e l’obbligo di restituzione dei contributi pubblici in conto capitale ricevuti per tutte le imprese che, entro tre anni dalla concessione dei finanziamenti, decidessero di delocalizzare non solo in uno Stato extra Ue (come prevedeva la legge di stabilità dell’anno scorso) ma anche in un Paese dell’Unione Europea. Le adesioni sono ancora aperte.

il Fatto 22.10.14
Pannella: “Vengo anch’io... nel Pd” Replica: “Sì, tu sì”


APERTURE da alcuni deputati Pd alla richiesta di iscrizione al partito annunciata dal leader dei Radicali, Marco Pannella. “L’adesione ad un partito – dice a Radio Radicale il renziano Matteo Richetti – si fonda sulla condivisione dei principi e dei valori del partito e quindi da questo punto di vista sto nel solco del ragionamento fatto da Renzi, cioè di una grande apertura ad un campo di forze di centro sinistra, progressiste, e anche per chi ha fatto battaglie importanti sui diritti come ha fatto Marco Pannella con una tradizione ben più autorevole della storia di ognuno di noi. Quindi non credo che ci saranno resistenze a questo tipo di ragionamento”. “Per un partito che dichiara come ha fatto Renzi – aggiunge il bersaniano Davide Zoggia – che va benissimo l’iscrizione e l’adesione da Migliore (passato di recente dal gruppo Sel a quello di Led a Montecitorio, ndr) a Romano (passato oggi da Scelta civica al misto, ndr), credo che non sia affatto un problema che Pannella si iscriva al Pd, anzi è anche un bene”.

il Fatto 22.10.14
Oscar Farinetti, il Mattei al lardo di Colonnata
di Fulvio Abbate


Oscar Farinetti, patron di Eataly, visto tra gli ospiti di Myrta Merlino a L’aria che tira su La7, ti suggerisce d’istinto alcuni interrogativi a ripetizione. Li enuncio qui di seguito, così come mi giungono, in piena libertà. 1) Però, cazzo, lo vedi che fa fare essere amici di Matteo Renzi! 2) Però, lo vedi che soddisfazioni arrivano a occuparsi di “food” (cit.) di questi tempi, meglio del mattone! 3) Oh, ma Oscar, non sarà venuto mica a rispondere ai miei considerevoli dubbi sul guanciale in vendita presso il suo post-supermercato per ceti medi riflessivi? 4) Sto cercando di capire a chi cavolo assomiglia, ah, sì, ora che ci penso ricorda il figlio di Adriano Sofri, il marito di Daria Bignardi, lo stesso piglio simpatico, in più ha i baffi. 5) Ma sarà vero che nella sua impresa, come ho sentito dire a La Gabbia di Paragone, sempre su La7, i giovani lavoratori sono assunti da un appalto esterno? 6) Scusa, non sarà mica venuto a difendere l’amico Matteo senza se e senza ma? 6bis) Minchia!, sì, è proprio venuto a difenderlo. 7) Ma quando Farinetti incontra Renzi e Baricco di cosa parleranno mai: Hegel o i friarielli napoletani? 8) È una mia impressione, oppure all’obiezione mossagli dal nostro amico Antonello Caporale sulla modalità di comunicazione non proprio di sinistra sempre di Matteo Renzi, Oscar se ne sta uscendo con le stesse parole che avrebbe usato Berlusconi: ovvero che bisogna dare speranza alla “gente” e non parlare sempre delle cose brutte e negative?
NO, DIMMI se sbaglio. Farinetti avrà pure, come già il poeta Tonino Guerra, il “dovere dell’ottimismo” in quanto esercente, eroe della trasfigurazione del “package”, nel senso che i prodotti di Eataly indossano la minigonna o il body del cibo radical-bidè, ma non sarà un approccio un po’ troppo spudorato? 9) Ecco però che si profila un filmato di repertorio con Della Valle che, su sfondo fotografico d’album di famiglia, anche lui come già Berlusconi al tempo della discesa in campo e proclami successivi, grande quadro di Schifano come ulteriore fondale, Diego vestito da moschettiere del calzaturiero, pronto a mettere in discussione il dogma renziano e renzista, e a questo punto Oscar sai che fa? Assume la faccia seria e tuttavia sorridente della forza dei nervi distesi, di chi sembra voler dire che lo gnocco di Eataly può arginare il mare.
Al dubbioso resta ora addosso la sensazione del disfattista, dell’untore, dell’incapace di comprendere che dovrebbe soltanto mettersi accettando, come dicevano i camerieri, il “lasciami lavorare, ragazzino”.
L’ultima considerazione, la 10, riguarda l’uscita dallo studio, spiega Myrta Merlino che l’imprenditore ha un impegno e dunque deve andare via, e qui è l’ennesimo ricatto morale, rispetto agli altri ospiti, tra cui Giovanardi e Flick, che restano in studio, lui c’è subito modo di immaginarlo come un nuovo Enrico Mattei, un tempo il petrolio, adesso il lardo di Colonnata, ma il dubbio d’essere presi per sudditi resta lì al centrotavola del buffet della Leopolda.

il Fatto 22.10.14
Berlusconi riappare in tv: “Matteo è il mio revival”

“È UN REVIVAL delle nostre ricette, condito da un po’ di populismo e presentato con grande abilità”, Silvio Berlusconi, intervistato ieri sera dal Tg5 ha colto nel segno. L’ex premier nell’intento di attribuire meriti al suo partito e al suo governo ha in realtà svelato le somiglianze della sua politica con l’esecutivo Renzi. “Forza Italia è all’opposizione di questo governo del quale non condividiamo né le politiche economiche né le politiche estere” ci tiene a precisare Berlusconi, in bilico su risposte che non tradiscano troppo la sua somiglianza con Renzi, con cui condivide anche l’idea del partito unico, “ma nel centrodestra” ha precisato Berlusconi.

il Fatto 22.10.14
Le sue riforme
Il vecchio pallino del turbopremier
di Lucio Giunio Bruto


La fissazione di cambiare la Costituzione della Repubblica italiana Matteo Renzi ce l’ha fin da quando, apprendista politicante, è presidente della Provincia di Firenze. Al tema (...) dedica addirittura un libro intitolato Tra De Gasperi e gli U2. I trentenni e il futuro (Giunti editore, 2006) .(...) Il senso del libro renziano è, appunto, il tentativo di dimostrare che la Costituzione repubblicana è in troppe sue parti “vecchia”, che è oramai anacronistica e superata dalla modernità, travolta e stravolta da Internet, dai tweet e dalla rock band degli U2 (...): “Per la nuova generazione la bandiera rossa è il simbolo della Ferrari e non un riferimento politico, il Reno è un fiume e non il confine di guerre spaventose, la lira è uno strumento musicale e non una divisa economica... L’Internazionale evoca il nerazzurro del calcio e non un futuro socialista e rivoluzionario. E del resto, oggi, ci si appassiona alla politica molto più seguendo un intervento di Bono Vox, leader degli U2, che non studiando le grandi figure della storia italiana”. In una parola: evviva l’ignoranza e la superficialità. Secondo lo sbrigativo presidente della Provincia di Firenze, “i vecchi codici del passato non dicono più niente”, e per capirlo “basta esaminare dieci articoli della Costituzione per fare i conti con la dimensione radicale della novità (...) i valori della Costituzione valgono ancora per tutti?”. La risposta renziana è no. E per dimostrarlo (...) comincia l’esame dei 10 articoli: (...) “Art. 1. L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro (...) Bisogna prendere atto del fallimento del nobile obiettivo dei Costituenti. Altro che fondata sul lavoro! Oggi l’Italia è una Repubblica affondata sulla rendita finanziaria che è nemica del lavoro” (...) “Art. 3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali (...) È vero che tutti i cittadini sono uguali, ma qualcuno è meno uguale degli altri”. Ne consegue che anche questo articolo è vecchio e superato. (...) “Art. 4. La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro (...) Non andremo da nessuna parte, se continueremo a restare aggrappati alla tenera illusione di un mondo che non c’è più”. (...) “Art. 5. La Repubblica una e indivisibile riconosce le autonomie locali (...) Una e indivisibile. Anche sexy?” (...) E poi ci si lamenta se l’unico, vero difensore civico ormai è il Gabibbo” (...) “Art. 10. L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (...) Fatta l’Italia, Cavour voleva fare gli italiani. Oggi per l’Europa vale il principio opposto. È maturo infatti un forte sentimento di identità europea, soprattutto tra i più giovani” (...). “Art. 11. L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente... alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo (...) Ma a sessant’anni da quella Costituzione, qualcosa è cambiato. Il grande sogno di avere organizzazioni internazionali finalizzate ad assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni è sostanzialmente tanto necessario quanto (almeno ad oggi) fallito”
“ART. 21. Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione (...) La Costituzione, con tutto il rispetto naturalmente, non se la può cavare con l’espressione ‘ogni altro mezzo di diffusione’ (...) tutto è in discussione con le nuove tecnologie” (...) “Art. 31. La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose (...) Chi vuole davvero difendere i principi costituzionali della famiglia deve additare come responsabile la tv di Beautiful, che ha disgregato la famiglia naturale fondata sul matrimonio (...). “Art. 49. Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale (...) Bisogna prendere atto che l’articolo 49 è poco più che una boutade nell’attività concreta quotidiana... I cittadini, infatti, non hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti. I cittadini hanno il terrore di farlo. E talvolta anche il ribrezzo”. (...) “Art. 52. La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino (...) Non è più il confine geografico a fare la Patria. Il mondo è piatto, senza confini, la comunicazione raggiunge e tocca tutti gli angoli del villaggio globale (...) La pochezza culturale che traspare dalle pagine di Tra De Gasperi e gli U2 è tale da lasciare esterrefatti. L’arringa anti-Costituzione del presidente della Provincia fiorentina è un incredibile pasticcio superficiale, ignorante e velleitario, che non scalfisce neppure di striscio uno solo dei principi costituzionali menzionati.

ATTACCO ALLA COSTITUZIONE, di  Lucio Giunio Bruto; Kaos Edizioni

Repubblica 22.10.14
Renzi, offerta a Grillo: un posto del Csm al M5S
Grillini spiazzati “Ma se ci fanno un nome valido siamo pronti”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA . Le mosse del governo Renzi si insinuano nel terremoto a 5 stelle. Cercano aperture laddove finora si ergevano muri. Interloquiscono con il dissenso («nella nostra legge di stabilità ci sono tante delle cose che avete chiesto», diceva ieri il pd Marco Donati a una collega grillina), ma anche con chi è da sempre custode della linea ortodossa. Così, l’offerta del Pd sulla Corte Costituzionale - prima ancora di essere messa sul tavolo ufficialmente - è vista di buon occhio da chi in questi mesi ha lavorato a sbloccare l’impasse. «Se fanno il discorso delle donne cascano male - dice chi è vicino a Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio - ma sui nomi validi siamo aperti. Quanto al posto al Csm, il nostro nome c’è già, ed è quello di Alessio Zaccaria».
Il professore di diritto civile all’università di Verona è colui che ha preso più voti quando i nomi prescelti dai 5 stelle nelle commissioni competenti sono stati sottoposti a un referendum sul blog. «Avevamo chiesto una disponibilità di massima alle persone che abbiamo contattato - racconta il vicepresidente della commissione Giustizia Alfonso Bonafede - non ci siamo informati sulle loro opinioni politiche. Quello che abbiamo sempre cercato sono nomi rispettabili e sopra le parti». Quanto alla Consulta, Danilo Toninelli (plenipotenziario grillino agli affari costituzionali) ancora lunedì sera rinnovava il suo invito ai democratici: «Hanno capito che non hanno i voti per eleggere Violante, quindi sono arrivati gli slanci di Giachetti prima e Richetti poi. “Apriamo al M5S”, dicono, ma a che titolo? Chi rappresentano? Servono fatti, non parole».
Se i fatti - come trapela dal Nazareno - arriveranno oggi, sarà difficile per i 5 stelle dire no ai nomi terzi che chiedono da mesi («Dal 12 giugno scorso», quantifica sempre Toninelli). Per i deputati del Movimento sarebbe un primo successo, da spendere con una base ormai in fiamme a causa delle espulsioni arrivate di imperio e delle guerre per bande locali. Che ci sia in Parlamento un gruppo compatto in grado di guidare la partita, però, è tutto da vedere. La resa dei conti tra i falchi che chiedono nuove espulsioni e chi da dentro resiste e non vuole farsi cacciare (Massimo Artini, Eleonora Bechis, Tommaso Currò, Walter Rizzetto) è rimandata alla congiunta di stasera. Ma ieri - alla riunione in cui si votava il nuovo capogruppo alla Camera - i dissidenti hanno dato un segnale ben preciso scrivendo sul loro biglietto bianco proprio il nome di Artini, nonostante le accuse piovute dai vertici su un uso improprio del server del gruppo e sulla creazione di un blog clone. Alla fine la spuntano i falchi, con l’elezione di Fabiana Dadone. Il che non sorprende, perché ieri - tra i 5 stelle della Camera - a farla da padrone era la paura: perfino una vecchia battaglia dei parlamentari, quella contro il reato di clandestinità, è stata rimessa nel cassetto per adeguarsi alle parole di Grillo, ormai in aperta concorrenza con la Lega.

La Stampa 22.10.14
Il governo in attesa del responso dell’Europa


Si allunga l’ombra di un mezzo pasticcio del governo sulla legge di Stabilità. Il fatto che ieri il Quirinale abbia comunicato di avere ricevuto il testo da Palazzo Chigi senza la vidimazione della Ragioneria generale dello Stato rischia di rendere l’atto privo di effetti: nel senso che la procedura seguita non offre nessuna certezza. La sottolineatura di Giorgio Napolitano sull’esigenza di compiere «un attento esame» del provvedimento, data la sua complessità, lascia capire che la sua risposta non arriverà presto. Potrebbe sembrare solo un problema formale. In realtà, si tratta del testo spedito nei giorni scorsi all’Ue, che potrebbe far conoscere le sue obiezioni già oggi: il primo passo in vista di una richiesta di correzione. L’episodio, subito usato da FI per polemizzare col presidente della Repubblica, evoca piuttosto una certa approssimazione del governo nella redazione delle leggi: una critica sussurrata già in passato. Non bastasse, l’incidente emerge nel giorno in cui il presidente uscente della Commissione, Josè Manuel Barroso, ricorda che nel 2011 «alcuni Stati membri sono stati vicini alla bancarotta». E, oltre a Grecia e Spagna, cita l’Italia dell’ultimo governo guidato da Silvio Berlusconi. Ieri il premier Matteo Renzi è stato al Quirinale per preparare con Napolitano il prossimo Consiglio dell’Unione. Ma quale sarà l’esito di quell’appuntamento non è ancora chiaro. «Speriamo che tutto vada per il meglio», si limita a dichiarare il commissario agli Affari economici, il finlandese Jyrki Katainen. «Stiamo analizzando cifre e misure che ci ha inviato il governo italiano». La mancanza del «bollino» del Ragioniere generale, che dovrebbe certificare le coperture della manovra, può tuttavia complicare l’operazione; e sollecitare una richiesta di ulteriori chiarimenti. Qualche tensione si registra nei rapporti con FI anche su alcune riforme che sono alla base del cosiddetto «patto del Nazareno»: l’intesa tra Renzi e Berlusconi che salda il loro asse istituzionale in Parlamento. I primi malumori sono affiorati quando il segretario del Pd ha proposto l’altroieri una legge elettorale che premi la lista di un partito: una ipotesi ritagliata su misura per una sinistra che sente di avere il vento in poppa. Berlusconi nicchia: si limita a dire che la soluzione deve soddisfare FI e Pd. E ieri è emersa un’altra frizione su un problema apparentemente secondario: la responsabilità civile dei giudici. Si tratta invece di uno dei temi ai quali Berlusconi ha sempre mostrato di tenere molto. L’idea del governo di tornare a un disegno di legge del Guardasigilli Andrea Orlando, che limiterebbe a «rarissimi casi» la responsabilità dei giudici, alimenta il nervosismo. Il relatore della riforma, il socialista Enrico Buemi, ha minacciato le dimissioni. Eppure, quando ieri ha dovuto esprimersi su un emendamento proposto dal leghista Gianluca Pini che voleva indurire l’atteggiamento verso i magistrati, la Camera lo ha bocciato con 365 no, appena 126 sì e tre astenuti: tutto a voto segreto. Una vittoria del governo, dunque. C’è da chiedersi se questo risultato avrà qualche ripercussione su altre misure. In particolare, se irrigidirà FI, rendendo il suo appoggio al governo in Senato sui provvedimenti più a rischio ancora meno scontato. Non sembra, per ora. La triangolazione Renzi-Denis Verdini-Berlusconi funziona e tiene. E non prevede rotture a breve.

Repubblica 22.10.14
Ora si teme il giudizio Ue “Sul deficit faranno richieste eccessive” voto a rischio al Senato
Calderoli chiederà lo scrutinio segreto a Palazzo Madama Premier ottimista sull’esito della trattativa con Bruxelles
di Francesco Bei e Umberto Rosso


ROMA Le carte, plichi con centinaia di pagine, fanno ingresso al Quirinale verso l’ora di pranzo. Arrivano però senza quel benedetto bollino della Ragioneria, la certificazione che le cifre sono esatte, che le coperture ci sono tutte, e il “banco” dei conti dello Stato non salterà sotto la pressione della legge di Stabilità targata Renzi. E a Giorgio Napolitano non è piaciuto granchè ritrovarsi sul tavolo — dopo che domenica in tv il ministro Padoan aveva inopinatamente dato il testo come già all’esame del Colle — una finanziaria ancora ballerina, senza le garanzie del Tesoro. Così quando Matteo Renzi nel pomeriggio sale al Quirinale, ufficialmente per informarlo sul prossimo vertice europeo, il capo dello Stato mette in chiaro col premier l’iter che seguiranno gli uffici guidati dai suoi consiglieri economici e giuridici: «Cominciamo l’esame del testo, e necessariamente sarà un lavoro approfondito. Per la natura stessa della legge di stabilità e anche perché, ancora prima di ogni valutazione finale, dovrà arrivare quell’ok della Ragioneria ».
Renzi rassicura, smussa, promette «questione di ore, presidente, le tabelle col timbro saranno sulla sua scrivania, le coperture non mancheranno». Alla fine, nel giro di un paio di giorni, Napolitano dovrebbe controfirmare e autorizzare la trasmissione in Parlamento. Tanto che, lasciando il Colle alla fine dei novanta minuti di colloquio, Renzi rientra a Palazzo Chigi e galvanizza i suoi: «È andato tutto bene, nessun intop- po». E liquida con un sorriso “l’annuncio” del capogruppo forzista Brunetta di un Cdm urgente in notturna per trovare ulteriori coperture: «Non sapevo che l’avessimo nominato sottosegretario alla presidenza del nostro governo». Del resto la vera partita non è tra Napolitano e Renzi, che nell’incontro ha trovato nel Quirinale una preziosa sponda nella difficile trattativa con l’Europa. Il capo dello Stato avrebbe alzato il telefono e parlato con il presidente della commissione Barroso, dal quale è attesa oggi una lettera ufficiale di “chiarimenti” al governo italiano sui numeri della manovra. Uno sforzo per trovare un compromesso fra la mano pesante della Ue e il tentativo italiano di rompere la gabbia del rigore.
La sfida si gioca sui decimali di riduzione del deficit. Il governo ha scritto che nel 2015 l’aggiustamento strutturale sarà soltanto dello 0,1 per cento, pari a 1,6 miliardi. Barroso chiede di più, molto di più. La lettera in arrivo oggi potrebbe attestarsi su mezzo punto di Pil da correggere. Troppo per Roma. «Tecnicamente — ha anticipato ieri Renzi ai ministri — potremmo anche arrivare a una riduzione dello 0,25 per cento. Ma io non vorrei concedere tanto». Insomma, il braccio di ferro continuerà nei prossimi giorni. Nella speranza di non dover usare tutto quel “tesoretto” di 3,4 miliardi di euro prudentemente accatastato nella legge di Stabilità proprio per fronteggiare le richieste europee. Nelle conversazioni informali tra gli sherpa si arriva a ipotizzare una chiusura del negoziato su una cifra intermedia (0,30-0,35 per cento) che non faccia perdere la faccia a nessuno, né al governo né alla Commissione. E soprattutto eviti all’Italia la bocciatura della finanziaria, un atto dirompente che potrebbe riaccendere la fiammata speculativa sullo spread.
Ma l’Europa non è stata l’unica preoccupazione nel faccia a faccia al Colle. Il governo infatti appare sempre più sotto assedio. I comuni in rivolta, le regioni che minacciano tagli ai servizi, la Cgil in piazza, una fetta del Pd in subbuglio. «Avevo messo nel conto le proteste — rassicura Renzi — ma siamo ancora nella fase preliminare: urlano per farsi sentire, poi tratteranno ». Napolitano entra poi nei dettagli della manovra, chiedendo di specificare meglio le norme sul bonus bebé e quegli sgravi per i neo-assunti.
Oggi se ne riparla, insieme agli altri ministri, nel tradizionale pranzo al Quirinale che precede i vertici europei. Prima però il premier dovrà schivare il trappolone che Roberto Calderoli gli sta preparando a palazzo Madama, dove Renzi illustrerà la posizione del governo in vista del summit Ue. L’esponente leghista medita infatti una richiesta di voto segreto che, visti i numeri della maggioranza, potrebbe mettere in seria difficoltà l’esecutivo proprio nel momento più delicato.

Repubblica 22.10.14
La cupola dell’Expo
“Da Greganti a Frigerio la tela dei rapporti con sinistra e destra”
di Emilio Randacio


MILANO Primo Greganti si vantava «di andare al Nazareno, che è la sede del Pd». Gianstefano Frigerio, a detta degli altri componenti della «Cupola» Expo, spaziava tra Arcore e l’assessorato alla Sanità della Regione, guidato da Mario Mantovani. Per spingere un buon manager nella scala più alta delle società di Stato, poteva presentare banchieri (Ubaldo Livolsi e l’ex numero uno dello Ior, Angelo Caloia), o manager di Stato come il vicepresidente dell’Autority dei contratti pubblici, Berarducci, o il segretario generale dei Trasporti Scino. Visto che gli appoggi servivano da tutte le parti, l’ex centrista Sergio Cattozzo aveva il compito di garantire le coperture nell’Ncd, direttamente con Vito Bonsignore o comunque dialogando con la Lega attraverso «Maroni e il sindaco di Verona Tosi». Chiamarla cupola sembra riduttivo. Perché grazie all’agenda del pregiudicato, ma riverito, «professor» Frigerio, fino all’8 maggio scorso — momento del suo arresto — tanti politici o manager pubblici avevano garantiti incontri, attenzioni, e soprattutto appoggi. Il nuovo elenco emerge dalle carte depositate nell’inchiesta Expo, il cui processo prenderà il via il prossimo 2 dicembre.
GLI APPOGGI A SINISTRA
L’ex «compagno G», Greganti, oltre a essere accorto nel parlare al telefono, era riluttante a raccontare quelle che erano le sue frequentazioni politiche. Ma qualcosa ogni tanto gli scappava. Così, lo scorso 18 giugno, davanti ai pm di Milano Claudio Gittardi e Antonio D’Alessio, il faccendiere Sergio Cattozzo, sui «contatti» politici del compagno G, risponde: «Non mi ha mai detto con chi parlava... Lui diceva di andare al Nazareno, che è la sede del Pd». L’ex manager di Expo, Angelo Paris, anche lui arrestato a maggio, è più particolareggiato. «L’unico nome che mi fece Greganti — spiega nel verbale del 4 giugno — è quello del ministro Martina, ma relativo al discorso Paesi» (appalto per la realizzazione dei padiglioni Expo, ndr ). Quale era esattamente il ruolo dell’attuale ministro dell’Agricoltura? Sempre secondo Paris, «prima di questo nuovo incarico da ministro, Martina era in contatto per fare, tra virgolette, segnalare, lavorare aziende italiane, tra cui la CMC (Cooperativa muratori e costruttori di Ravenna, ndr) ». Per Paris, fu lo stesso Greganti a svelare i contatti con Martina. Greganti giura di non aver mai incontrato alcun politico. «Così mi rovinate politicamente», sembra urlare al gip Fabio Antezza. «Io non ho visto nessuno, nemmeno Bersani, che neppure conosco».
LE PRESSIONI SULLA DESTRA
Nel centrodestra, invece, il garante sembra essere il «professore » Frigerio. Nel verbale appena depositato, Paris a domanda dei pm ricorda anche di «quella volta che mi fece i nomi di Guerini e Delrio, però solo come contatti del nuovo esecutivo di Renzi, come possibili punti di contatto». Paris è accusato di aver pilotato più di un appalto milionario di Expo, su società sponsorizzate dalla cupola. E, almeno dalle intercettazioni telefoniche, emerge come per sdebitarsi garantendogli la poltrona da direttore generale di Infrastrutture lombarde (Ilspa), Frigerio attivi realmente fino alla fine dell’aprile scorso più canali. «Berlusconi e Mantovani ha detto che avrebbero giocato un ruolo nel favorire la mia... (candidatura, ndr ) ». E per tenere ancor più in palmo di mano Paris, «Frigerio mi presentò una volta a pranzo Ubaldo Livolsi e poi io andai a trovarlo una volta in ufficio ». Stessa tattica portata avanti con Berarducci, Scino e Caloia. «Mentre Cattozzo mi fece incontrare una volta Vito Bonsignore, e Bonsignore se lo giocò (Cattozzo, ndr), anche nel supporto alla mia candidatura in Ilspa ». L’indagato conclude il suo verbale spiegando bene il ruolo della cupola Expo. «Io non ho mai pensato per i titoli professionali che avevo di contattare direttamente i politici...». Il pm Gittardi lo interrompe, precisando: «Beh, però Frigerio e Cattozzo servivano a questo, no?». «Loro lo fanno, loro lo fanno... a questo miravano».

il Fatto 22.10.14
“Abusi su 40 minori” L’ex uomo forte di Cl ora rischia la galera
Don Inzoli, confessore di Formigoni, è stato già punito da Bergoglio che collaborerà con i Pm di Cremona
Prete in Mercedes Don Mauro Inzoli, già capo del Banco alimentare di Cl Ansa
di Sara Nicoli


L’accusa, atroce, è di aver abusato nel corso di quasi una decina d’anni di 40 bambini e ragazzi affidati all’associazione Fraternità di Crema, che si occupa di minori in difficoltà e di cui era presidente. Ora la Procura di Cremona la rivolge direttamente a don Mauro Inzoli, un tempo uomo forte di Comunione e liberazione, per 15 anni presidente della Fondazione fiore all’occhiello dell’organizzazione di don Giussani, il Banco Alimentare, nonché tra i confessori più fidati di Roberto Formigoni.
Il presule è già stato punito da papa Francesco dopo aver subìto ben due processi da parte del Tribunale Ecclesiastico, ma ora anche la giustizia terrena vuole la sua parte. E così il procuratore di Cremona, Roberto Di Martino, ha prima aperto un fascicolo, quindi ha chiesto notizie alla Santa Sede, attraverso una rogatoria internazionale, per acquisire testi e documenti agli atti dei processi ecclesiastici contro don Inzoli.
La Rogatoria è arrivata in Vaticano nei giorni scorsi, ma già è stato fatto trapelare, attraverso fonti del ministero della Giustizia, che sarà dato seguito, “con ampia disponibilità” alla richiesta della magistratura cremonese; il nuovo corso di trasparenza e denuncia degli abusi inaugurato da Francesco prosegue dunque senza tentennamenti.
D'ALTRA PARTE, lo scandalo di don Inzoli è stato reso pubblico dallo stesso vescovo di Crema, monsignor Oscar Cantoni, con un comunicato stampa e una lettera alle parrocchie della Diocesi, nelle quali si parlava espressamente dei “gravi comportamenti” di cui si era reso responsabile il confessore del governatore, a partire “dall'abuso di minori” accertato da molte testimonianze durante i processi in Vaticano. Una “notizia criminis”, quel comunicato, per la Procura, alla quale, tuttavia, ha deciso di rivolgersi, con un esposto, anche Franco Bordo, deputato di Sel. “Era chiaro – racconta Bordo – che la Chiesa aveva già lavato i panni sporchi in casa e che dunque era necessario sollecitare la giustizia italiana a muoversi per ottenere una condanna per un reato così pesante. Per questo ho deciso di mandare l’esposto, mettendo semplicemente in fila le frasi contenute nei documenti resi pubblici dalla Diocesi di Crema. E la Procura si è mossa”.
Don Inzoli è stato prima sospeso a divinis, poi in appello ha ottenuto un alleggerimento della pena, ma gli è stato vietato dal Vaticano di accedere al territorio di Crema per almeno 5 anni, di dispensare sacramenti e di esercitarli in pubblico e, in ultimo, di “redimersi”. Lo scandalo, a dire il vero, è scoppiato due anni fa, per la precisione il 9 dicembre del 2012, quando il sito della Curia cremasca pubblicò la decisione del Vaticano di ridurre allo stato laicale don Inzoli, provvedimento contro il quale il sacerdote ricorse nel febbraio del 2013. Il 12 giugno scorso, quindi, ecco il decreto, durissimo, della Congregazioneper la Dottrina della Fede (il dicastero guidato dall’allora cardinale Ratzinger prima di diventare Papa) che, su incarico di papa Francesco, lo trasmise a Crema. Un decreto che, appunto, infliggeva la pena perpetua al presule, pur lasciandogli gli abiti talari, vietandogli anche in modo tassativo di svolgere “accompagnamento spirituale nei confronti dei minori o di altre attività pastorali, ricreative o culturali che li coinvolgano, compresi ruoli a scopo educativo. Dopo i divieti, i doveri: “Dovrà intraprendere per almeno cinque anni, un’adeguata psicoterapia”.
NON C’È SOLO l’aspetto più crudo e violento dell'abuso sui minori nella vita di don Inzoli. A Milano lo chiamavano “il prete in Mercedes”.
Sigaro in bocca, auto e ristoranti di lusso, frequentazioni politiche di peso, un uomo di potere attraverso la Fondazione Banco alimentare, l’organizzazione del Meeting di Rimini di Cl. Soprattutto tanto vicino a Roberto Formigoni. Ebbene, se il fascicolo romano d’Oltretevere non tiene conto di questi aspetti profani, l’altro fascicolo aperto dalla Procura di Cremona potrebbe ampliare la propria visione anche alla vita privata del presule, certamente vissuta e ostentata in modo ben al di sopra le possibilità di un modesto prete di campagna. Sul fronte economico gli accertamenti sono solo all’inizio.

il Fatto 22.10.14
Editoria, la disfatta delle sette sorelle
Carta stanca.Sul sito di Mediobanca un report che nessuno pubblica: i big dei giornali perdono copie, pubblicità, hanno i conti disastrati e licenziano
di Giorgio Meletti


I lettori sono in fuga dalle edicole e tutti sappiamo perché. Le notizie si sentono alla tv, gratuitamente, e chi vuole approfondire usa la rete. I social network aiutano a selezionare le notizie grazie al passaparola e alla condivisione di link e contenuti. Per andare all'edicola resta dunque un solo ovvio motivo: la certezza di leggere una cosa introvabile altrove. È il caso di questo articolo: chi questa mattina ha acquistato il Fatto vi trova adesso i risultati di un’analisi sui bilanci dei principali gruppi editoriali condotta dal Ufficio Studi di Mediobanca. Non è un documento segreto, visto che è stato pubblicato sul sito della Ricerche& Studi spa ( www.mbres.it  ).
SEMPLICEMENTE è stato ignorato dai principali giornali, forse per evitare ai propri lettori la malinconia delle cattive notizie. E infatti la cosa che colpisce di più non è che gli ultimi cinque anni siano stati per i maggiori editori italiani ( Rcs, Espresso, Mondadori, Monti Riffeser, Caltagirone, La Stampa, Il Sole 24 Ore) una Caporetto ininterrotta. Piuttosto il fattoche dal 2009 i sette gruppi esaminati hanno perso 1,8 miliardi di euro senza fare una piega. Come osserva lo studio, azionisti e impresa, “avendo una posizione residuale, assorbono la perdita finale”. Dal tempio del potere finanziario nazionale arriva dunque la conferma autorevolissima dell'osservazione empirica di chiunque: possedere i giornali non serve a fare soldi, e le perdite sono il prezzo da pagare per controllare l’informazione.
Non c’è altra spiegazione. I grandi editori, nella fotografia di Mediobanca, sembrano assistere impassibili alla ritirata disordinata delle loro truppe. Dal 2009 al 2013 il mercato è stato spietato. Oggi, come si vede dalla grafica, per quasi tutti gli editori il costo del lavoro è superiore al valore aggiunto creato: significa che i ricavi non bastano a pagare neppure gli stipendi di giornalisti, poligrafici e impiegati.
LA DIFFUSIONE complessiva dei quotidiani che fanno capo a 6 dei 7 maggiori gruppi (la Mondadori pubblica solo periodici) è calata del 24,8 per cento, da 2,8 milioni di copie al giorno a 2,1. La flessione più marcata è del Corriere della Sera (-28,4 per cento), seguito da Repubblica (- 27,4 per cento) mentre Messaggero, Stampa e Sole 24 Ore hanno perso copie intorno alla media, circa un quarto dei lettori. Mentre la diffusione cala del 24,8 per cento, i ricavi delle vendite dei giornali scendono in misura maggiore, del 27,7 per cento, nonostante in questi cinque anni il prezzo dei quotidiani sia salito notevolmente. Il Sole 24 Ore, per esempio, è passato da 1 euro a 1,50 come prezzo base, accusa una flessione dei ricavi del 35 per cento a fronte di un calo delle vendite del 26,8 per cento. Come se la crisi venisse fronteggiata dagli editori (tutti) con massiccia diffusione gratuita, anche a difesa del fatturato pubblicitario. Che però è andato peggio dell'edicola: - 31 per cento in cinque anni.
GLI SCHIAFFONI presi sul mercato hanno eroso il capitale netto delle aziende editoriali, rimpicciolito del 40 per cento in cinque anni mentre il valore di Borsa delle società quotate (tutte a eccezione della Stampa) si è mediamente dimezzata, con un dato impressionante per il Sole 24 Ore, le cui azioni hanno perso il 68 per cento del valore.
L’Ufficio Studi di Mediobanca fa notare che il patrimonio di queste aziende è tenuto in piedi da una valutazione generosa dei cosiddetti beni intangibili, quale il valore attribuito alle testate. Siccome si tratta di un valore che esprime le potenzialità di reddito di quei beni, viene sottolineato che in questi anni di crisi nera e perdite si è evitato di svalutare queste voci di bilancio. La ragione è evidente: senza queste voci “ottimistiche” tutte queste aziende, con l’eccezione di Caltagirone e Monrif, avrebbero patrimoni negativi, che in parole povere somiglia molto a doversi preparare a portare i libri in tribunale. La perdita di copie non è maggiore della media europea (-23 per cento), ed è in parte un inevitabile segno dei tempi. Ma sono i drammatici dati di bilancio a farci interrogare sulle contromosse escogitate. In questi cinque anni gli editori hanno fatto fuori il 22 per cento degli occupati, mettendo alla porta 4200 persone. La produttività del lavoro è però diminuita del 15 per cento.
BISOGNA considerare che quando si fabbricano automobili la produttività di un operaio si misura in numero di auto prodotte. Nel caso di un giornalista, ma anche di un tipografo, il lavoro di scrittura o di preparazione alla stampa di un articolo rimane sempre lo stesso, sia che si vendano 100 mila copie sia che se ne vendano 10 mila. Tagliare il costo del lavoro unitario dell’1,2 per cento (quindi molto di più considerando l’inflazione), come è stato fatto, contribuisce a migliorare i conti delle aziende. Mentre ridurre il numero dei giornalisti a fronte di una minor vendita di copie, come stanno facendo i grandi editori, non ha senso: visto che non scrivono ogni singola copia con i trasferelli, sfoltire le redazioni è come se la Fiat, vendendo meno macchine, pensasse di far tornare i conti smerciando le Punto senza sportelli.
Col risultato quasi certo di spingere il lettore superstite a reagire a un prodotto sempre più scadente, o simile a ciò che trova gratis nel suq di Internet, unendosi a quei lettori in fuga che hanno innescato il declino.

La Stampa 22.10.14
“Non colpevole perché ubriaco”, assolto il padre che uccise il figlio
Lecce, i giudici: “Incapace di intendere e volere”. In primo grado aveva avuto 30 anni
Il delitto due anni fa in provincia di Lecce
di Maria Corbi

qui

il Fatto 22.10.14
Europarlamento
Il deputato polacco sessista più a destra di Marine Le Pen
M5S meno schizzinoso: grazie al membro del Pnk resta in vita il gruppo con l’Ukip
di Andrea Valdambrini


Strasburgo Abbiamo rifiutato i membri del Pnk (la nuova destra polacca, ndr): non abbiamo gli stessi valori”. È secca Marine Le Pen, uscendo dall’emiciclo di Strasburgo quando si riferisce all’eurodeputato del Pnk Robert Iwaszkiewicz. Grazie a lui rimane in vita il gruppo politico formato tra 5 Stelle e Ukip a Strasburgo, scioltosi d’ufficio dopo l’uscita della deputata lettone Grigule la settimana scorsa. Cosa ha Iwaszkiewicz per non andar bene neppure alla leader del Front National? Il 52enne Iwaszkiewicz – già imprenditore prima di entrare in politica - aveva concesso un’intervista al quotidiano Gazeta Wroklavska dopo le europee dello scorso maggio. Alle domanda “è accettabile per un uomo picchiare la propria moglie?”, la risposta è stata: “Personalmente non ricordo di averlo fatto. Però sono sicuro che le botte aiuterebbero alcune a farle tornare coi piedi per terra”. Quando all’educazione dei figli, l’attuale alleato dei 5 Stelle si è rammaricato di non averli mai toccati. “Come le spiace?” si è meravigliato l’intervistatore. “Se l’avessi fatto, loro avrebbero imparato qualcosa e il loro carattere si sarebbe rafforzato”. Senza dimenticare che, nella stessa intervista, Iwaszkiewicz notava come “le tasse al tempo di Hitler erano più basse di oggi. Che c’è di male a dirlo?”. Roba da far saltare sulla sedia il segretario del proprio partito. Se non fosse che quest’ultimo ha fatto uscite perfino peggiori. Oggi anche lui al Parlamento europeo, Janusz Korwin-Mikke, è noto per la sua descrizione del Fuhrer un po’ come Heidi (“Dell’Olocausto non sapeva nulla, era tutto organizzato da Himmler”) mentre sulle donne, botte o no, pensa che comunque sia meglio non vadano proprio a votare. Non sorprende quindi più di tanto che il linguaggio razzista del suo discorso d’esordio da eurodeputato, quando il leader del Pnk aveva definito i giovani disoccupati europei come “i negri d’Europa”. L’arrivo dell’estremista polacco non sembra però scalfire la fede dei deputati 5 Stelle. “La sostanza del gruppo non cambia”, prova a rassicurare il capo delegazione grillino in Europa, Ignazio Corrao. Guai a parlare di ulteriori svolte a destra, dopo quella della contestata (da meet up e da una parte della base) alleanza con Farage. Anche se nessuno dei grillini ne vuole parlare apertamente, un po’ di imbarazzo sull’ennesima figuraccia europea c’è. “Quante ce ne avrebbero dette se ci fossimo presi un misogino e antisemita come Iwaszkiewicz”, se la ride un deputato del Front National.

il Fatto 22.10.14
Ucraina al voto, spopolano i paramilitari
di Giuseppe Agliastro


Mosca L’Ucraina si prepara alle elezioni parlamentari in un clima di tensioni e rivendicazioni. Il conflitto nel sud-est russofono prosegue a dispetto della fragile tregua del 5 settembre, e per raccogliere quanti più voti possibile quasi tutti i partiti hanno farcito le loro liste con militari o combattenti di battaglioni di volontari. La chiamata alle urne è fissata per il 26 ottobre, domenica prossima, ma i seggi resteranno chiusi nei tanti distretti controllati dai miliziani separatisti, e ovviamente nell'ormai russa Crimea. La nuova Verkhovna Rada si prepara ad accogliere un numero record di deputati filo-occidentali. La fetta più grossa dei 450 seggi in palio andrà probabilmente al presidente Petro Poroshenko, o meglio al Blocco che porta il suo nome, che secondo un recente sondaggio dell'istituto Ratinggroup dovrebbe staccare tutti gli avversari (e gli alleati) aggiudicandosi il 33,5% dei suffragi, mentre il partito Patria dell'ex pasionaria della Rivoluzione arancione, Yulia Tymoshenko, dovrebbe accontentarsi di un più modesto 6,9% nonostante la mossa vincente dal punto di vista del marketing elettorale di piazzare come propria capolista la top gun Nadia Savchenko, catturata mentre combatteva nell'est e ora processata in Russia. Ma a far paura in Ucraina è l'ascesa dei nazionalisti, con i radicali del fanatico Oleg Liashko che potrebbero diventare addirittura la seconda forza politica del Paese con il 12,8% dei voti.
LIASHKO si fa pubblicità elettorale facendosi ritrarre con un kalashnikov in mano ed è accusato da Amnesty International di aver guidato degli squadroni di “irriducibili” a farsi giustizia da sé picchiando e umiliando dei presunti filorussi nei territori del sud-est tornati sotto il controllo di Kiev. Restano invece molto più indietro altri partiti nazionalisti, come Svoboda e il movimento paramilitare Pravij Sektor (Settore Destro), che pure sono stati tra i protagonisti della rivolta di Maidan: probabilmente perché “cannibalizzati” proprio da Liashko. Dovrebbe fare bene anche il Fronte popolare di Arseni Yatsenyuk, che ha abbandonato la Tymoshenko (il cui astro politico appare ormai in declino) per allearsi con Poroshenko: secondo Ratinggroup il partito del premier potrebbe raggiungere l'8,9% e un risultato così positivo potrebbe essere dovuto ai nomi di sicuro richiamo che ha fatto salire sulla sua barca, come il comandante delle forze di Autodifesa di Maidan, Andriy Parubiy, la blogger e attivista politica Tetyana Chornovol o - ed ecco il combattente - Viacheslav Konstantinovskij, un multimilionario che ha deciso di imbracciare il fucile per combattere i separatisti e si è arruolato nell'esercito. Non solo, l'oligarca ha anche deciso di vendere la sua Rolls Royce per raccogliere 250.000 dollari da donare alle forze armate ucraine: ed è questo che viene ricordato dallo slogan stampato sui manifesti di cui è tappezzata Kiev. Navigano invece in cattive acque gli ex fedelissimi del deposto presidente Viktor Yanukovich, che avevano il loro feudo elettorale proprio nelle regioni dell'est. Il clima in Ucraina resta teso, e lo prova il presunto tentato omicidio ai danni di Volodimir Borisenko, un candidato del Fronte popolare a cui qualcuno avrebbe sparato nel giardino della sua abitazione vicino Kiev. Il politico si sarebbe salvato perché indossava un giubbotto antiproiettile. C’è poi la denuncia dell'ex ministro degli Esteri polacco Radoslaw Sikorski, secondo cui nel 2008 il presidente russo Vladimir Putin propose all’allora premier di Varsavia, Donald Tusk, una spartizione dell’Ucraina.

La Stampa 22.10.14
La Cina affronta la nuova frenata
E il Partito torna sotto pressione
Il Pil al 7,3 nel terzo trimestre, livello più basso dal 2009. Le Borse reagiscono bene
di Guido Santevecchi


PECHINO In Cina niente è mai bianco o nero, sono le sfumature che prevalgono. Anche in economia. La crescita del Prodotto interno lordo, nel terzo trimestre, è scesa al 7,3%, il livello più basso dal 2009, quando il mondo era sprofondato nella crisi finanziaria e Pechino avanzava «solo» al ritmo del 6,6%. Per quest’anno il governo aveva posto un obiettivo del 7,5%: nel primo trimestre è stato sfiorato con il 7,4; nel secondo toccato con il 7,5. Ora una nuova frenata, al 7,3. Le Borse internazionali hanno tuttavia reagito bene: i timori erano in effetti per una frenata più consistente, sotto il 7%.
Un ulteriore calo cinese spingerebbe tuttavia al ribasso anche la crescita degli Stati Uniti: un punto percentuale in meno nell’espansione del Pil a Pechino, secondo Moody’s Analytics, ha lo stesso effetto negativo di un aumento di 20 dollari nel prezzo del barile di petrolio. Il danno sarebbe anche più grave per i produttori di materie prime, dall’Australia all’Indonesia e al Brasile, che contano su una forte domanda dell’industria cinese.
Però, nel 7,3 per cento del trimestre luglio-settembre, gli analisti leggono anche elementi di ottimismo. Anzitutto, la Cina si è impegnata nella ristrutturazione della sua economia, che per decenni si è retta sulle esportazioni spinte dal basso costo del lavoro e sugli investimenti enormi in infrastrutture e sviluppo edilizio. Un sistema oggi insostenibile.
La Fabbrica del Mondo soffre di un eccesso di capacità produttiva; il settore immobiliare, che conta per circa un quarto del Pil se si considerano le industrie dell’acciaio, del cemento, delle finiture, fa temere la bolla. Ci sono 10 milioni di case invendute.
Così, la nuova formula di riequilibrio verso una crescita sostenibile punta sulla domanda interna. Meno investimenti, meno debito e più consumi. E su questo versante la lunga marcia procede in modo confortante. Ieri mattina l’Ufficio Statistiche di Pechino ha detto che i consumi hanno contribuito per il 48,5% al Pil quest’anno, scavalcando in modo sensibile gli investimenti (quindi l’indebitamento) scesi al 41%. Buono anche il dato della produzione industriale, risalita al +8% a settembre su base annua, rispetto al +6,9 di agosto (sempre che dietro non ci siano «aggiustamenti» statistici, sempre possibili secondo i costumi di Pechino). Ormai il governo comincia a preparare il terreno per un ulteriore rallentamento e prevede di non porre più un obiettivo fisso di crescita, ma una forchetta, a partire dal 2015: in modo di non perdere la faccia in caso di fallimento.
Il problema, anche qui, è il lavoro: una crescita al 7%, che sarebbe miracolo in Occidente, in Cina non basta: si calcola che serva almeno un 7,2% per creare ogni anno i 10 milioni di posti di lavoro attesi dal miliardo e trecento milioni di cinesi. Il partito comunista, riunito da lunedì nel conclave segreto del Plenum, sente la pressione.

Il Sole 22.10.14
Pechino. Il governo potrebbe non centrare gli obiettivi per la prima volta dal '98
Pil cinese ai ritmi più bassi degli ultimi cinque anni
Nel terzo trimestre la crescita è stata del 7,3%
di Rita Fatiguso


PECHINO. C'è da capire, quanto prima, come sta realmente la salute della Cina e cosa deve fare la seconda potenza globale per invertire la rotta ed evitare un eccessivo rallentamento dell'economia.
Se lo stanno chiedendo febbrilmente in queste ore, a porte chiuse, i componenti del quarto Plenum del partito comunista cinese: il rituale conclave che si è aperto lunedì è dedicato allo stato di diritto, ma anche alle misure da prendere in campo economico nei prossimi sei mesi per realizzare il pacchetto di riforme varato dal terzo Plenum esattamente un anno fa.
Gli ultimi giorni sono stati infausti per la ridda di cifre registrata sul Pil cinese, appena il 6 ottobre scorso la Banca mondiale ha rivisto le prospettive di crescita dell'Asia e, di conseguenza, del suo motore principale, la Cina, dal 7,4 al 7,2.
A ruota, è seguito il Fondo monetario che ha fissato la crescita dell'Asia in 5,5 sottolineando il ruolo della domanda locale e quello della Cina, Paese estremamente concentrato nel raggiungere un maggior livello di sostenibilità ma anche responsabile dell'andamento di una regione ben più ampia.
Fatto sta che le previsioni di East Asia e area del Pacifico scendono al 6,9 dal 7,1 atteso nel 2014. Non solo, il rallentamento, pare, continuerà anche nel 2016. Purtroppo il contributo dei consumi alla formazione del Pil cinese nel secondo quadrimestre è stato il più basso degli ultimi cinque anni, al 2,4 per cento.
La crescita è ancora legata agli investimenti centrali, mentre proprio gli sforzi di contenere debito locale, shadow banking e richiesta di energia da parte di imprese dedite alla sovraproduzione deprimono gli effetti degli stessi investimenti.
A preparare il terreno a possibili previsioni negative era sceso in campo, secondo lo stile di Pechino, uno dei principali think tank, l'Accademia di scienze sociali Cass con un report dedicato alla crescita.
Ma la notizia diffusa a inizio settimana che l'economia è realmente cresciuta del 7,3% nel terzo trimestre rispetto all'anno precedente, il tasso più lento di crescita da oltre cinque anni, ha il sapore della profezia che si avvera e che spazza perfino il positivo e inatteso incremento della produzione registrato a settembre.
Il punto è che le riforme di Pechino anche formalmente ben delineate procedono a ritmi troppo lenti rispetto a quanto lo spesso Plenum aveva delineato. Con effetti negativi sul Pil.
Il timore di contraccolpi e le lotte di potere intestine tra i diversi apparati dello Stato nella gestione delle riforme stanno minando, inoltre, la fiducia che la Cina possa cambiare il proprio modello di crescita.
Il mercato avrebbe dovuto conquistare gradualmente spazi più ampi invece continuano a prevalere attività e industrie in settori non funzionali a un'economia avanzata e lo Stato corre in soccorso di imprese poco profittevoli.
Il fatto che il 20% degli immobili siano vuoti non è un mistero, ma questa è una zavorra per l'economia, perché le risorse non entrano in circolo, le aziende di dimensioni più ridotte non trovano credito e le famiglie non spendono.
Il debito cresce in maniera esponenziale rispetto al Pil, e la nazione che ha contribuito per un quarto alla ricchezza del mondo chiede meno materie prime e accessori per investimenti esteri. Le importazioni arrancano, con i ben noti effetti sulla bilancia commerciale legata alle esportazioni, di vitale importanza per la Cina.
La riforma della finanza si è spesso fermata agli annunci, la liberalizzazione dei tassi sui depositi bancari ora è rimasta al palo. L'assicurazione sui depositi bancari necessaria a liberalizzare il sistema langue.
Le misure di stimolo varate hanno avuto effetti a breve, incluso il taglio di un punto operato dalla Banca centrale alle riserve obbligatorie degli istituti di credito. L'aiuto da 500 miliardi di yuan ai principali big del sistema bancario, mai formalmente ammesso, dovrebbe essere restituito entro dicembre.
Se il Pil rallenterà, per la prima volta dalla crisi del 1998 la Cina potrebbe mancare il suo obiettivo di crescita. L'Istituto di Statistica, in fondo, ha già confermato che la crescita media dei primi tre trimestri è stata del 7,4 per cento.
Ma, forse, usando la moviola, conviene tornare indietro e ricordare che nel marzo scorso davanti al Parlamento in seduta comune il premier Li Keqiang ha parlato di 7,5 per cento. Qualche ora dopo il ministro delle finanze Lou Jiwei ha detto che un tasso tra il 7,3 e il 7,2 non sarebbe poi così scandaloso. Tutto questo, forse, era già scritto e previsto.

Repubblica 22.10.14
Il Nobel prigioniero
Colpevole d’aver difeso i diritti umani, per Pechino Liu Xiaobo ormai è un fantasma
Ma quattro anni dopo la solenne cerimonia di Oslo, lo è anche per l’Occidente
Le poesie le scrive in cella, sul pavimento di pietra: con l’acqua, perché gli hanno tolto anche l’inchiostro
Le giornate le passa a cucire le divise dei carcerieri. Non può vedere nessuno, neanche l’avvocato
di Giampaolo Visetti


PECHINO NON possiede più niente. Le scarpe che calza sono dello Stato. Gli hanno tolto carta e inchiostro. Ogni giorno scrive poesie sul pavimento di pietra, bagnando un dito nella ciotola dell’acqua che beve. I versi, anche se in cella, sono liberi: evaporano in pochi istanti. Vietato invece leggere. La rieducazione ha deciso che il lavoro giusto per lui è il sarto. Liu Xiaobo a fine dicembre compirà 59 anni e trascorre le giornate a cucire le divise dei suoi carcerieri. Nella sua vita di prima insegnava filosofia. Si è poi scoperto poeta e ha promosso “Charta 08”, ultimo manifesto per la democrazia in Cina.
Nel 2009 era Natale quando lo hanno condannato: undici anni di carcere per «incitamento alla sovversione». Nel dicembre di dodici mesi dopo, a Oslo, la sua “sedia vuota” di Nobel per la pace fece paura anche a Pechino. «Una farsa e un crimine — dissero le autorità — orchestrati da gruppi di pagliacci stranieri per conto degli Usa». Altri quattro anni e quella “sedia rimasta vuota”, e quel Nobel, per la Cina non esistono.
Anche i “pagliacci” però rivelano di avere poca memoria. Di Liu Xiaobo, poeta divenuto sarto per aver chiesto libertà e aver dedicato il premio «alle anime morte di piazza Tienanmen», il mondo non parla più. «Lui però è vivo — dice l’amico Yang Jianli — e vuole resistere almeno fino al giorno in cui potrà uscire dal carcere».
Mancano sei anni e nella cella di Jinzhou, in Manciuria, possono essere lenti. Il suo “trattamento” è stato indurito. Nessun contatto con l’esterno, sospese le visite dell’avvocato. Un muro di vetro lo separa dalla moglie Liu Xia, la sola che ha il permesso di visitarlo una volta al mese. Èl’ultima punizione, per aver confidato di «ripassare a memoria ogni notte il discorso». Sogna di pronunciarlo quando finalmente potrà volare libero in Norvegia, per ritirare il riconoscimento che ancora lo attende.
Liu Xiaobo è un fantasma invisibile e dimenticato, su quell’aereo forse non salirà mai. Fuori dal carcere in cui è rinchiuso resta però un posto di blocco e due pattuglie impediscono a chiunque di avvicinarsi «per motivi di sicurezza ». Il nulla, ai regimi, non dà pace. Oltre cinquemila chilometri più a sud, alla periferia di Pechino, anche l’appartamento di tre stanze in cui ufficialmente è confinata Liu Xia, viene considerato un «luogo pericoloso». Certi drammi fanno sorridere: la moglie del Nobel, 55 anni, da febbraio non vive più nel malandato palazzo bianco. Restano tre agenti condannati a sorvegliare il suo spettro. Un’auto della polizia, nel cortile vuoto, controlla i documenti a chi passa. «Vivo qui — dice un vicino — mi conoscono. In quattro anni hanno registrato il mio nome migliaia di volte». Liu Xia da nove mesi è in ospedale. Per gli amici rischia di «finire sepolta viva in un manicomio».
Le ultime immagini, rubate durante pochi minuti di distrazione dei secondini, risalgono a gennaio. Appare con la testa rasata a zero, vestita con una vecchia felpa, magra, irriconoscibile rispetto alla bella donna imprigionata l’8 ottobre 2014. Il confino, un’ora dopo l’assegnazione del Nobel al marito. Xu Youyu, amico da venticinque anni, dice che «è ridotta nella povertà più totale» e che il potere cinese «vuole farla impazzire, o spingerla al suicidio ».
Su di lei non pende alcuna accusa. Sposare un ragazzo che poi vince un Nobel «per la sua lunga e non violenta lotta per i diritti fondamentali in Cina», è una colpa più che sufficiente. Per oltre tre anni, prima di finire in clinica chiedendo di morire, la mattina poteva uscire a fare la spesa. Perso il lavoro, finiti i soldi, si faceva accompagnare dalla madre pensionata. Percorrevano a stento i trecento metri fino ad un piccolo spaccio. Le scortavano sei agenti, a volte ragazzi buoni che si offrivano di saldare il conto di riso e foglie di cavolo.
«La signora Liu — dice la negoziante — sorrideva sempre ma si vedeva che le veniva da piangere. Diceva che la polizia le suggeriva di divorziare. Un funzionario telefonava per ricordarle che bisogna stare attenti a chi si sposa. L’ultima volta ha promesso che un giorno mi pagherà».
Sono passati quattro anni dal Nobel per la pace a Liu Xiaobo, venticinque dalla repressione degli studenti in piazza Tienanmen, e la realtà in Cina è questa: il dissidente è isolato in Manciuria e sottoposto a regime di carcere duro, sua moglie è agli arresti domiciliari in un ospedale di Pechino, curata per «esaurimento nervoso». Nessuno dei due è avvicinabile. Gli edifici in cui risultano reclusi sono sorvegliati giorno e notte. Non possono comunicare con il mondo esterno. Liu Xiaobo rifiuta di chiedere clemenza al presidente Xi Jinping. Liu Xia dice che la politica non l’ha mai interessata. Quando si incontrano si possono scambiare solo poesie d’amore: la censura pensa che non sono «anti-patriottiche».
La pena del Nobel scade nel 2020. Quella della moglie nessuno lo sa perché non è stata mai condannata. In un mondo normale, governi e opinioni pubbliche chiederebbero ogni giorno la libertà degli innocenti. Un regime che imprigiona chi esprime pacificamente le proprie idee verrebbe emarginato dalla comunità internazionale. Nel 2010 tale impegno, da parte dei Paesi democratici, fu solenne. La Cina invece viene oggi contesa tra quelle stesse nazioni, che esaltano la sua crescita economica, da cui dipendono. Il gigante dei capitali nasconde il nano dei diritti. Prima di metà novembre il presidente americano Barack Obama volerà a Pechino per il vertice delle potenze affacciate sul Pacifico. I famigliari e gli amici di Liu Xiaobo e di Liu Xia, i superstiti di Tienanmen, gli hanno chiesto di sfruttare l’occasione per scongiurare Xi Jinping di liberarli, prima che sia troppo tardi sia per loro che per la Cina.
È l’ultima speranza: se il silenzio continua, legittimando l’indifferenza, il Nobel e la sua “sedia vuota” si trasformeranno nel certificato storico della resa di chi crede nei diritti umani.

Repubblica 22.10.14
Richard McGregor “La Cina lo cancella dalla memoria collettiva”
intervista di Anna Lombardi


«IL governo cinese vuol cancellare Liu Xiaobo dalla memoria collettiva. E ci sta riuscendo: molti in Cina non sanno chi è o non si ricordano di lui». Riflette con amarezza Richard McGregor, giornalista del Financial Times a lungo corrispondente da Pechino e autore di The Party, il bestseller che ha svelato i segreti del partito comunista cinese. «È già accaduto ad altri dissidenti, personaggi anche più noti. Come Zhao Ziyang, segretario del partito fino ai fatti di piazza Tienanmen. Dopo il giro di vite post 1989 fu tenuto agli arresti domiciliari per 25 anni. Quando è morto, nel 2005, molti cinesi si erano dimenticati di lui. Era stato sepolto in vita: nessuna notizia, nessuna foto... ».
È quello che sta accadendo a Liu Xiaobo? Quattro anni dopo il Nobel il governo lo considera ancora così pericoloso?
«Lo considerano pericoloso quanto basta. C’è un modo di dire qui in America: “solo i paranoici sopravvivono”. È perfetto per definire l’atteggiamento cinese. Il governo non ama le critiche: è molto sensibile su questo. Ma soprattutto teme ciò che non controlla. In un certo senso la Cina riesce a mantenere così bene il controllo proprio grazie alla paura costante di perderlo ».
L’Occidente ha portato Xiaobo alla ribalta internazionale conferendogli il Nobel: poi lo ha dimenticato. Può bastare?
«Difficile dirlo. Fuori dalla Cina la capacità di influenzare quel che avviene all’interno è limitata per chiunque, vicino allo zero. Altrettanto difficile è tenere il suo caso costantemente sotto i riflettori, almeno in modo che crei pressione. Il Nobel è stato importante: ma non garantisce attenzione perpetua. Poi, francamente, non so se il suo caso sia seguito con discrezione da qualche governo occidentale. Insomma, non se sia stato dimenticato, oppure semplicemente il suo caso non è in cima alle agende dei governi ».
E se lo avessimo “dimenticato” in nome degli affari?
«C’è anche quello. Sappiamo quanto le relazioni commerciali con la Cina siano oggi importanti per molti. Tedeschi, americani, e anche per gli italiani che lì importano prodotti di lusso. Nessuno vuole che il rapporto coi cinesi si focalizzi sui dissidenti. Non è una cosa nuova: I diritti umani sono stati messi ai margini dell’agenda almeno 20 anni fa».
C’è un nuovo Liu Xiaobo? Chi ha raccolto la sua eredità?
Forse i ragazzi di Hong Kong?
«Non mi viene in mente nessuno. È una creatura di un’altra epoca. Anche se non è dissidente vecchio stile, era già un nome prima del 1989 e questo fa la differenza. Pochi hanno l’ampio respiro del tipo d’esperienza che lui ha avuto».
Nemmeno un personaggio come Ai Weiwei, che in Occidente è molto popolare?
«Ai Weiwei è un carattere unico e coraggioso. Ma è attivista in quanto artista. Xiaobo è un attivista politico: e questo lo rende un po’ più pericoloso».
Così pericoloso che gli è impedito leggere e scrivere...
«Un modo per deprivarlo di ogni diritto. Per uno come lui la punizione più dura, la peggiore possibile».
Cosa possiamo fare per lui?
«Tenerne vivo il pensiero il più a lungo possibile. Non credo che attualmente si possa fare molto di più».

La Stampa 22.10.14
Hong Kong, il voto e il rischio «poveri»


Perché le autorità di Hong Kong non possono accogliere le richieste degli studenti per candidature libere nell’elezione del governatore del 2017? Semplice: se i candidati fossero scelti dalla gente e non dal comitato elettorale devoto a Pechino, la popolazione che guadagna meno, i poveri, potrebbero dominare il processo elettorale. Lo ha spiegato l’attuale Chief Executive CY Leung: «È solo una rappresentazione numerica, perché ovviamente prevarrebbe quella metà della popolazione di Hong Kong che guadagna meno di 1.800 dollari al mese e si finirebbe con quel tipo di politiche». Quindi a Hong Kong, che fa parte della Cina, i poveri non possono pesare troppo. Ieri sono cominciati i colloqui tra governo locale e studenti, dopo 23 giorni di occupazione delle strade. E il governatore ha offerto un compromesso sulla commissione elettorale (1.200 membri) in modo da renderla «più democratica». «Ma attenti a non sfidare la pazienza di Pechino», ha concluso. La repressione è dietro l’angolo.

Corriere 22.10.14
Il fallimento Usa tra israeliani e palestinesi


«Yankee go home», americani andatevene a casa e smettetela di (far finta di) mediare tra israeliani e palestinesi. È accorato il grido di Gideon Levy , grande firma di Haaretz , quotidiano israeliano mai tenero con le politiche più oltranziste dei governi di Gerusalemme. Gli Stati Uniti non hanno fatto fare neanche un passo avanti al processo di pace, scrive Levy, e anzi hanno acuito e perpetuato il conflitto. Come? Instaurando un rapporto «sadomasochistico» con lo Stato ebraico, in cui non è più chiaro chi sia il potente e chi il protetto.

Corriere 22.10.14
Dare tempo alla scienza
Non possiamo vivere senza ore e minutiore E minuti
ma al microscopio è tutta una illusionea un’illusione
Il Festival di Genova ruota quest’anno attorno a una delle categorie più affascinanti e sfuggenti
Ecco perché dalla teoria di Einstein alla fisica quantiatica abbiamo messo in crii Newton. E dato ragione a Poirot
di Giulio Giorello


C’era una questione che veniva a intralciare le mie ipotesi: i tempi non si accordavano». Questa constatazione di Poirot, l’investigatore creato da Agatha Christie, potrebbe farla sua, sconsolatamente, un Newton condannato a rivivere oggi. Aveva dichiarato che «il tempo assoluto fluisce in modo uniforme senza relazione ad alcunché di esterno»; ma nel 1905 un ventiseienne impiegato dell’Ufficio Brevetti di Berna mostrò che tale «assoluto» svaniva come un fantasma.
Due osservatori in movimento l’uno rispetto all’altro, Alberto che sfreccia su un treno e Isacco che resta fermo sulla banchina, non riescono ad «accordarsi» nel giudicare contemporanei due eventi, per esempio l’accendersi di un semaforo presso i binari e il passaggio del vagone in cui Alberto è seduto. Qualsiasi segnale i due si possano scambiare, per esempio mediante una pila come nei polizieschi, richiederà sempre un certo tempo per viaggiare dall’uno all’altro.
Einstein (era lui il bizzarro impiegato) aveva fatto propria l’idea di Galileo che nessun esperimento possa rivelare a un osservatore se l’ambiente in cui si trova sia davvero in quiete o si muova di moto rettilineo uniforme; e vi aveva aggiunto il principio «che la luce si propaghi sempre con una determinata velocità che non dipende dallo stato di moto del corpo che la emette». Il tutto aveva conseguenze che sfidavano il senso comune: le lunghezze «si contraggono», i tempi «si dilatano» per il velocissimo Alberto. Come scrive il fisico e biologo Edoardo Boncinelli: «Perché la formulazione delle leggi della natura risulti la stessa, i diversi osservatori dovranno considerare e misurare valori differenti delle varie grandezze. Si ha una validità assoluta delle leggi e una misura relativa di molte grandezza fisiche, come gli intervalli di tempo e le dimensioni dei corpi».
Per quanto corra veloce il treno di Alberto, i nostri sensi non percepiscono tale sottile discrepanza: veniamo da una storia evolutiva in cui essi si sono rivelati utili per sopravvivere nelle foreste e asservire ai nostri bisogni l’ambiente circostante, senza preoccuparsi troppo di altissime velocità, come quella della luce (circa 300 mila chilometri al secondo). Ma negli anni Settanta del secolo scorso i ricercatori Usa hanno collocato due orologi ad alta precisione e perfettamente sincronizzati su due jet di linea, poi decollati dallo stesso aeroporto per un giro intorno alla Terra in direzioni opposte. All’atterraggio i tempi segnati dai due orologi non si accordavano più: per uno occorreva sommare alla sua velocità quella di rotazione della Terra, per l’altro occorreva sottrarla.
A ciascuno, dunque, il suo tempo. Ma l’articolo di Einstein in cui gettava le basi della relatività speciale era solo l’inizio delle peripezie del concetto di tempo. La relatività generale ha reso ancora più complessa la questione, prospettandoci uno spaziotempo che «come un mollusco» viene deformato dalla materia. Inoltre nel dominio del molto piccolo la fisica quantistica ha rivelato il carattere «granulare» delle grandezze pertinenti, a cominciare dall’energia. Non potremmo pensare che a un livello di piccolezza che sfida la nostra immaginazione anche lo spazio sia costituito di grani, o quanti, e che il tempo emerga solo quando si considera un enorme numero di variabili e i loro valori medi? Un po’ come la temperatura di un gas, effetto di superficie del moto disordinato delle molecole che lo compongono? Il tempo non sarebbe altro, dunque, che «conseguenza della nostra ignoranza dei dettagli microfisici del mondo», conclude Carlo Rovelli, tra i maggiori sostenitori della pionieristica concezione della gravità quantistica.
Eppure, per noi piccoli osservatori in un universo immenso il tempo resta quello che «tutto dà e tutto toglie», come diceva Giordano Bruno nel dedicare il suo Candelaio a un’elusiva signora di nome Morgana. Un grande fisico come John Wheeler ha definito il tempo come «il migliore espediente che la natura ha escogitato per impedire che le cose avvengano tutte in una volta». Ed è per questo che abbiamo la forza della passione, la consapevolezza dell’io.

Corriere 22.10.14
«Il tempo non esiste»
«Deluso dal fallimento del ‘68 ho trovato la libertà nella fisica»
di Carlo Rovelli


«Il tempo non esiste». Carlo Rovelli stupisce prima di tutto con questa affermazione che non lascia spazio ad alternative. O meglio toglie il fiato perché ci chiediamo allora che significato abbia l’ansia quotidiana che ci prende guardando l’orologio perché qualcosa ci sfugge. «In realtà — precisa — esistono tanti tempi diversi, ognuno per ogni cosa, per ogni fenomeno. Ma tutti differenti e riferiti a qualcosa di specifico e non col valore assoluto che siamo inclini ad attribuirgli».
Il tempo e lo spazio sono i due temi sui quali lavora Carlo Rovelli, fisico teorico di origini veronesi, professore all’Université de la Mediterranée di Marsiglia, e di cui parlerà al Festival della scienza di Genova.
La frontiera della fisica è divisa su due strade. Da una parte abbiamo la teoria della relatività di Albert Einstein dove ci sono il tempo e lo spazio e la comprensione dell’universo, buchi neri inclusi; dall’altra la meccanica quantistica che decifra il comportamento della materia, della radiazione a livello atomico e subatomico. Questo secondo mondo si ritrova in numerose applicazioni: dal Laser ai computer. Due spiegazioni che restano finora confinate alle rispettive dimensioni, cosmica e materiale, ma che da decenni si cerca di unire in una visione capace di conciliarle, perché unica è la realtà. Il primo a credere che ciò fosse possibile era stato lo stesso Einstein che si era impegnato nel sogno di una «teoria del tutto» in grado di unificare le idee. La leggenda vuole che quando si spense all’ospedale di Princeton, sul comodino avesse addirittura gli ultimi appunti sull’argomento a cui aveva dedicato decenni senza approdare ad alcun risultato. Ma l’appassionante ricerca continuò e trovò nella nascita della Teoria delle stringhe i successori di quel sogno. Ancora una volta, tuttavia, senza risultato, nonostante la sua esplorazione partisse dal 1968 dopo un articolo del fisico Gabriele Veneziano, allora al Cern di Ginevra.
In parallelo, un altro gruppo di fisici avviò indagini teoriche su un altro obiettivo meno totalizzante ma più concreto pur diretto ad unificare i due fronti. Nasceva così la gravità quantistica della quale Rovelli è un illustre protagonista. «Cerchiamo di spiegare innanzitutto che cosa siano lo spazio e il tempo affrontando idee che sono in alcuni casi verificabili. Invece le stringhe, belle nell’immaginazione, sembrano frutto di un eccesso e anche alcune risposte che si attendevano dal superacceleratore Lhc di Ginevra non sono ancora arrivate. Ma noi proseguiamo su una strada alternativa».
La sfida è aperta e i discorsi sul tempo che già animavano i pensieri di Sant’Agostino («Se non mi chiedono che cosa sia lo so, altrimenti no») si dipanano tra formule e teorie. «Il tempo che viviamo come la nostra casa è utile per descrivere fenomeni nella scala quotidiana, ma non vale per tutto l’universo», dice Rovelli. E aggiunge, per provocare: «Il tempo non è fondamentale nell’universo e si può immaginare un mondo senza tempo».
Concetti ardui, che lo scienziato ama affrontare in numerosi libri (dopo l’ultimo «La realtà non è come ci appare», pubblicato da Cortina, in questi giorni è in libreria «Sette brevi lezioni di fisica», con Adelphi) raccontando anche la sua storia di scienziato. «Alla fisica sono approdato per caso — racconta lo scienziato che ama la filosofia —. Dopo aver vissuto il fallimento della contestazione studentesca, ho trovato nella fisica e nei pensieri di Einstein il luogo della libertà che cercavo. La scienza ti porta sempre oltre nella vita; nella scienza le rivoluzioni si fanno davvero». Un giorno ricevette una telefona dall’Università americana di Pittsburg. Era un invito alla scuola di relatività generale. «Non avevo molta voglia di andarmene, ma accettai e ci rimasi dieci anni sempre con l’idea di tornare in Europa. Avevo intanto vinto un concorso all’Università di Roma, ma preferii la proposta di Marsiglia, dove era attivo un importante centro sulla relatività».
L’Italia rimane lontana. «Come per tanti scienziati stranieri — nota con un guizzo critico — che amerebbero venirci, ma sono scoraggiati dalle condizioni che troverebbero».

Dieci giorni nel segno della ricerca In programma a Genova dal 24 ottobre al
2 novembre, l’edizione 2014 del Festival della Scienza ha come filo conduttore il tempo. Ideato e organizzato dall’Associazione Festival della Scienza, con l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, il Festival abbina un programma di conferenze, tavole rotonde e momenti divulgativi a laboratori ed exhibit interattivi. Dal Palazzo Ducale al Porto antico, per dieci giorni Genova si trasforma così nella capitale europea della scienza, con appuntamenti e dibattiti in numerosi luoghi cittadini fino a raggiungere Nervi, dove la scienza incontra la botanica dei parchi.
Gli orari della manifestazione: feriali 9-18, sabato e festivi 10-19. Infoline: 010 8976409.
Info mail: info@festivalscienza.it; info mail scuole: scuole@festivalscienza.it. Dove si possono acquistare i biglietti: all’Infopoint di Piazza de Ferrari, nelle filiali Banca Carige o sul sito www.festivalscienza.it.

Corriere 22.10.14
Il digitale può salvare l’italiano
Un patrimonio mal custodito
di Paolo Di Stefano


FIRENZE Non è una notizia il fatto che la nostra lingua e la nostra cultura sono molto amate all’estero, e non è una notizia il fatto che l’Italia finora non se n’è accorta. Ora la prima edizione degli Stati Generali della lingua italiana nel mondo, che si è aperta ieri a Palazzo Vecchio di Firenze e si chiuderà oggi, sembra un ottimo segno di consapevolezza.
La quinta (forse la quarta) lingua più studiata al mondo lo meritava. E così il Ministero degli Esteri, in coincidenza con la Settimana della lingua italiana nel mondo, ha deciso di convocare le parti interessate: università, scuole, studiosi, gestori di corsi per le comunità italiane all’estero, ambasciate, lettorati, istituti di cultura eccetera. Con l’intento di fare delle proposte operative che servano a intensificare la presenza della nostra lingua, ben sapendo che, come ha fatto notare il linguista Mir-ko Tavoni, professore a Pisa e presidente del Consorzio interuniversitario ICoN (Italian Culture on the Net), difendere la diffusione della lingua equivale ad aiutare l’economia italiana: «Nel mondo la competizione nel sostenere la lingua nazionale è una battaglia politica ed economica che coinvolge le relazioni internazionali e i rapporti commerciali, e che ha dunque notevoli conseguenze nel Pil e nei posti di lavoro. Per esempio, non rendere disponibili in italiano le informazioni normative dell’Unione europea si traduce in un danno economico ingente e in un vantaggio enorme per i madrelingua inglese».
Fior di economisti della lingua l’hanno dimostrato: le oligarchie linguistiche (nella Ue, la triade inglese-francese-tedesco) producono discriminazioni anche economiche. Dunque la difesa dell’italiano è tutt’altro che una nobile sfida idealistica, relegata alle nostalgie di una tradizione culturale aurea. Per questo ha ragione lo stesso Tavoni a stupirsi nel constatare una macroscopica lacuna in questi Stati Generali: «Giusto che se ne sia fatta carico la Farnesina, giusto che gli Esteri agiscano in collaborazione con il Miur, ma l’assenza del Ministero dello Sviluppo economico rischia di rendere tutto molto meno efficace: il problema è che la politica di promozione dell’italiano non è una vera politica del governo. Per tradurre in realtà i buoni propositi il sistema Italia dovrebbe essere un vero sistema. E sarebbe necessario che gli uomini d’azienda, nel parlare con enfasi del made in Italy, capiscano finalmente di essere debitori della cultura italiana, del Rinascimento, di Leonardo eccetera».
È ciò che sostiene con simpatica forza espressiva (ed emotiva) anche un osservatore esterno, come Klaus Kempf, direttore della Bayerische Staats-bibliothek di Monaco, che vanta il fondo librario italiano più cospicuo all’estero: «Quel che mi meraviglia è che la cultura, l’arte e la lingua italiane, che per noi sono l’immagine stessa dell’Italia, siano sottostimate dalla politica, considerate un patrimonio indipendente dall’economia: la fase di transito verso l’era postindustriale dovrebbe invece valorizzare tutto questo patrimonio straordinario, magari anche attraverso i muovi strumenti digitali». Nel suo intervento, Kempf — che come bibliotecario si definisce protagonista del nuovo — ha fatto un appello ai politici italiani perché realizzino un vero sistema Italia («sistema»). Chiede di concentrarsi sulle strutture culturali e formative, sui musei, sugli archivi, sulle biblioteche. Quando parla delle biblioteche italiane, Kempf si mette le mani nei capelli: «Non è possibile tenere nascosti o lasciar andare alle ortiche gli immensi tesori librari che avete». Fa qualche esempio, ma preferisce che non venga citato. «La grande creatività individuale italiana trova ostacoli nella mancanza di sistema, nella paralisi amministrativa». Si sorprende, Kempf, quando viene a sapere i numeri illustrati da Andrea Meloni, direttore generale per la promozione del sistema paese («sistema», ancora una volta), secondo cui la Germania è in cima alla classifica degli iscritti a corsi di italiano. E a proposito di numeri, non sorprende invece il milione e mezzo complessivo di studenti di lingua italiana all’estero: «Ma si può fare molto di più», dice lo stesso Meloni.
E proprio passando al «fare», la ministra Stefania Giannini, che da linguista mostra familiarità con l’argomento, ha annunciato iniziative che farebbero inorridire Salvini: «Non possiamo trascurare che la lingua deve essere uno strumento di integrazione, per questo istituiremo una nuova classe di concorso per formare docenti che insegnino l’italiano come seconda lingua ai bambini figli di immigrati». Un riconoscimento istituzionale e un’abilitazione ad hoc da inserire nella riforma. Sempre restando alle proposte operative, il sindaco di Firenze Dario Nardella ha avanzato tre idee: lanciare un programma di Erasmus delle arti in Italia; promuovere rassegne di cinema italiano negli Istituti di cultura; favorire la circolazione di musica italiana colta e pop nel mondo, essendo un veicolo linguistico fondamentale. Pane per i denti di Renzo Arbore, che dall’alto della sua ventennale Orchestra Italiana, non si è lasciato sfuggire l’occasione: «Ho imparato l’inglese ascoltando Frank Sinatra e il francese con Trenet e Aznavour: facciamo ascoltare di più Modugno, Battisti, Gaber, De Andrè, Dalla, De Gregori, Conte, i risultati saranno incredibili…».

La Stampa 22.10.14
Sartre, il Nobel non è cosa da intellettuali
Il 22 ottobre di 50 anni fa lo scandaloso gesto del filosofo francese engagé che rifiutava il premio più ambito: voleva mantenersi libero da qualsiasi legame con il potere
di Marco Albertaro


Il Premio Nobel per la letteratura è il sogno di ogni scrittore. Rappresenta la certezza di passare alla storia, il lasciapassare per l’Olimpo delle lettere. Eppure c’è chi l’ha rifiutato, il 22 ottobre 1964. Si tratta di Jean-Paul Sartre.
Lo scrittore e filosofo francese padre dell’esistenzialismo nel ‘64 è all’apice della notorietà. Ha pubblicato alcuni dei suoi libri più importanti - La nausea, Il muro, L’età della ragione - ma soprattutto ha assunto un ruolo di primo piano nel dibattito pubblico: ha sostenuto la rivoluzione cubana (romperà poi con Castro nel 1971), ha simpatizzato per Mao, ha dato il suo appoggio al Partito comunista francese (da cui si distaccherà nel drammatico ’56), ha criticato il colonialismo in Algeria, insomma è un intellettuale che si butta nella mischia, che affonda le mani nel conflitto, che non teme di farsi dei nemici e che gode del dissenso. Sartre è l’intellettuale cosmopolita per eccellenza: viaggia moltissimo, sposa cause apparentemente lontane e diventa l’emblema di quella tipologia tipicamente francese che è l’intellettuale engagé.
Sartre dice no all’Accademia di Svezia che lo vuole premiare, rifiuta l’onorificenza e la consistente somma di denaro, così come aveva rifiutato, anni prima, la Legione d’Onore, l’Académie e il Collège de France. Non si tratta però soltanto del rifiuto di un premio. Sartre non vuole essere «istituzionalizzato», non vuole subire, lui intellettuale critico verso il potere, una sorta di «normalizzazione». Per Sartre lo scrittore deve essere libero da qualsiasi legame con un potere che fagocita. È per questo che, nella lettera con cui motiva il suo gesto, afferma che «lo scrittore deve rifiutare di lasciarsi trasformare in istituzione, anche se questo avviene nelle forme più onorevoli».
Non si tratta soltanto di un gesto coerente, del resto Sartre aveva già chiesto, alcune settimane prima, all’Accademia svedese di non essere inserito nella lista dei candidati al Nobel. Il rifiuto del premio non è un gesto per chiamarsi fuori, per rinunciare alla dimensione pubblica dello scrittore ma, al contrario, è proprio la rivendicazione di un ruolo pubblico altro, che nulla ha a che fare con una cultura istituzionalizzata e che, proprio per questo, rivendica un’autonomia. Sartre - come ha scritto Bernard-Henri Lévy, un intellettuale che ha un po’ scimmiottato il suo «stile» schierandosi però a favore di battaglie che avrebbero fatto inorridire il filosofo esistenzialista - voleva «far saltare in aria la società», un’espressione efficace per rappresentare la radicalità di un approccio politico che è, prima di tutto, una posizione culturale. L’intransigenza, che Gobetti aveva indicato come elemento fondativo della condizione di intellettuale, viene richiamata infatti in uno degli articoli scritti in morte di Sartre e che lo paragona, proprio per questo atteggiamento, a Rousseau: «un’intransigenza innata» che non gli ha mai permesso di accettare il minimo «compromesso con il potere stabilito».
Zygmunt Bauman ha parlato della «decadenza» della figura dell’intellettuale. E ne ha descritto il passaggio «da legislatore a interprete», ossia, si potrebbe dire, da costruttore di idee (e di modi di pensare) a funzionario che traduce concetti vecchi in linguaggi nuovi. Ecco, Sartre è stato uno degli ultimi intellettuali «legislatori», e lo è potuto essere proprio perché ha rifiutato le coordinate culturali, politiche e linguistiche imposte dalle istituzioni.
Questo discorso non può non portare alla mente un altro intellettuale «legislatore» che, in una condizione di solitudine, di «esilio» perenne, nell’ultimo quarto del Novecento ha avuto un’influenza paragonabile a quella di Sartre. Si tratta di Edward Said, il grande studioso di letteratura comparata che ha messo la propria voce al servizio di numerose cause. Sempre nel posto sbagliato è il titolo della sua autobiografia ma, come ha scritto Tony Judt, non era Said a sentirsi in imbarazzo per questa sua condizione di «senza patria». Erano piuttosto gli altri, i suoi interlocutori ma soprattutto i bersagli della sue polemiche, a doversi sentire a disagio davanti alla sua continua ricerca della verità. Scomodo per gli avversari ma ancor più scomodo per i compagni di battaglie - si pensi alle dure critiche mosse alle politiche di Israele ma allo stesso tempo alle sue aspre prese di posizione nei confronti dei dirigenti palestinesi - Said ha recuperato il meglio della tradizione dell’intellettuale engagé «alla Sartre».
Il rigore, innanzitutto, la ricerca del vero, la battaglia contro la menzogna sono soltanto tre dei valori che accomunano Sartre a Said. E che danno un senso, dopo cinquant’anni, al ricordo dello scandaloso gesto di uno scrittore che disse no al premio dei premi.

Repubblica 22.10.14
Il Brera filosofo “Sto in ansia dunque sono”
L’anima, le paure, Cartesio rivisitato tra ironia e saggezza: in un breve pamphlet di riflessioni inedite rivive lo stile unico del grande giornalista
di Gianni Brera


IL LIBRO ntroduzione alla vita saggia (Il Mulino pagg. 74, euro 8) di Gianni Brera

PERFETTAMENTE conscio e abbastanza fiero di essere un animale privilegiato, l’uomo scopre nei secoli che la sua stessa sensibilità lo pone ogni giorno di fronte a problemi esistenziali qualche volta spaventevoli. Lo stato di ansia è tuttavia un sintomo eletto, nel quale è costantemente implicita l’idea di progresso spirituale e materiale: nonché temuta, l’ansia va dunque accettata e padroneggiata secondo i dettami della scienza. Nessuno sa da quanti mai secoli il bipede uomo si sia scoperto l’anima. Era un corpo vivo, stavo per scrivere animato!, con impulsi via via contenuti dalla convenienza o dalla necessità: l’ora del tempo e la dolce o perfida stagione, gli umori della femmina, la minaccia del nemico di istinti consimili o della belva mostruosa e bruta, l’ambiente occasionale.
In quel bipede sempre meno peloso e belluino, l’intelligenza coincide con l’idoneità a sopravvivere e riprodursi. I fenomeni naturali trovano rispondenze nella sua sensibilità sempre più raffinata.
Lo aiuta la memoria a contrapporre casi consimili se non addirittura nuovi. Impara a vivere quando l’equilibrio fra sé e il mondo consiste di sensazioni di anno in anno più controllate e valide. L’anima è una entità impalpabile che il bipede uomo coglie in se stesso come si ravvisa un paesaggio, un ambiente particolare. Talora, l’impressione è sgomentevole, perché ai baratri interni non aveva mai pensato (visto che in qualche modo connetteva): ed eccoli sorprendentemente bulicare di impulsi imprevedibili, captare ed esprimere flussi ormonici in sintonia con altri che sono di amici o amanti, di nemici o amanti possibili.
Nasce l’homo ludens, che mima giocando la vita. Salta dall’albero e compie azioni che lo divertono nella misura in cui gli forniscono beni, sentimenti nuovi, soddisfazioni. Dimentica le mani posteriori tenendosi ritto per giungere ai frutti più alti. Adegua le mani posteriori alla necessità di un vivere sempre più dinamico, e scopre, alla lunga, di avere due piedi.
L’homo faber costruisce imitando per successive osservazioni su quanto lo circonda e magari l’opprime. La zattera è desunta dalla formica navigante impavida sulla foglia. La barca è casuale opera del fuoco sul greve tronco abbattuto dalla folgore. I pesci vengono isolati e tolti dall’acqua con graticci dai quali gradualmente si giunge alla rete. La zanna che trafigge i maldestri viene sottratta alla belva e impiegata con mosse più abili e varie. Quando la difficoltà della lotta consiglia più ampie distanze, la zanna si allunga in ramo appuntito a giavellotto. Una scimmia impigliata nella liana suggerisce l’idea del ramo elastico nella cui corda incoccare la freccia. Come gli uccelli del cielo costruiscono i loro nidi sui rami più alti, così astuti animali si scavano tane a riparo di venti e di piogge.
Il fuoco atterrisce le belve e riscalda la prole inetta dell’uomo. Sul fuoco si cuociono carni che i denti non bastano a tritare e masticare. Saper produrre il miracolo del fuoco significa dominare il mistero della notte, padroneggiare il buio e incominciare a vedere anche in se stessi. Il repertorio filosofico dell’uomo è ricco, a pensarci, non meno che astruso. E come i primitivi davano forme umane alle loro divinità, così io, disinvolto manipolatore di concetti, oso ridurre l’anima a un’immagine che molti considereranno, magari a torto, un pochino banale. Per me, dunque, l’anima è una fiammella che arde più o meno intensamente a seconda degli elementi che costituiscono il nostro organismo: se questi elementi sono nobili, la fiamma che brucia «dentro di noi» sarà vivida e lingueggiante; se non sono nobili, di una ben misera fiammella si tratterà, dunque di un’animula senza luce particolare. Ma all’immagine non mi fermo: per renderla più plausibile, giova infatti completare il concetto visivo con l’aggiunta di un beccuccio comune, al quale confluiscono microscopici canali più o meno sgombri «secondo disposizione naturale e secondo i fenomeni che avvengono intorno a noi».
Ecco il punto. Risaliamo agli astri e pensiamo, se ci accomoda, che sia il loro influsso a dilatare quei canali microscopici, traverso i quali giunge l’essenza degli elementi che fanno ardere la fiammella dell’anima. Risaliamo anche a Dio, se vogliamo, ma solo per pregarlo che generosamente dilati o restringa (ipotesi necessaria!) quei piccoli dilettosi canali lubrificati dagli humores. Per essere schietto, mi fermo a tale ipotesi arcana e poi torno subito in terra con la coscienza perfettamente a posto. Nessuno vi impone di dubitare della scienza perché credete già in Dio e viceversa. Non è neppure vero in assoluto quello che Goethe versifica in termini così aridamente ispirati alla logica: «Chi esercita l’arte o la scienza / ha già una religione; / chi non esercita né arte né scienza / abbia invece una religione». Conosco scienziati che seguitano a pregare con le semplici parole imparate dalla mammina e artisti che bestemmiano con accanimento degno solo di chi non è eretico in alcun modo. Ma quando arrivo all’immagine mia dell’anima, debbo subito ricordarmi del parroco di Orbetello: invitato a salire sugli splendidi “S55” della transvolata atlantica, rifiutò energicamente, affermando che lui «stava sempre volentieri lontano dai superiori ». Io dunque rimango in terra. Qui vivo e vegeto con crescente soddisfazione animale (che è proprio tutto dire).
La fiammella che arde dentro di me qualche volta sonnecchia fino a darmi il timore che alla lunga si debba spegnere molto miseramente; qualche altra volta lingueggia dandomi l’impressione anche fisica di scaldarmi, anzi di surriscaldarmi oltre ogni limite decente. Le mie ansie, per dirla schietta, oscillano fra il timore che si spenga e la speranza che arda troppo. Vedi come l’ho presa larga per riconoscermi uomo anche nelle debolezze derivanti dalla mia sensibilità! Parafrasare Cartesio è piuttosto facile, a questo punto: «Sto in ansia, dunque sono».

Repubblica 22.10.14
Le interviste di Nuto Revelli la Storia vista dagli ultimi
di Massimo Novelli


«La memoria è il motivo che unisce tutti i miei libri: non dimenticare, non rimuovere». Nuto Revelli (1919-2004) lo affermava in un’intervista del 1999, che riassume in modo esemplare il senso della sua vita e della sua opera di narratore del «mondo dei vinti », gli uomini e le donne delle montagne e delle colline del Piemonte povero cancellati dalla storia. Cuneese, ufficiale degli alpini nella guerra di Russia, dove maturò la scelta antifascista e dopo l’8 settembre 1943 l’adesione alla Resistenza, scrittore «e manovale della ricerca», come si definiva, Revelli ha dato voce a chi non l’aveva mai avuta: i soldati dell’Armir mandati da Mussolini a morire nell’Urss, e i dimenticati del massacro di Leopoli; i contadini, i montanari, costretti dalla fame a emigrare in città; e le donne delle vallate misere del Cuneese, i preti che salvarono ebrei e perseguitati dalla deportazione nei lager nazisti. Un nuovo libro curato da Mario Cordero, studioso della Resistenza e delle vallate alpine, consente di ritornare ancora una volta a Nuto, alla sua lezione morale e civile, alla sete inestinguibile di verità, alla storia dalla parte degli umiliati e offesi. Si tratta de Il testimone. Conversazioni e interviste 1966 2-003 ( Einaudi, pagg. 246, euro 12), che raccoglie i colloqui con un grande protagonista del Novecento, che non ha mai cessato di battersi per la giustizia e per la libertà, per riscattare i «vinti». Come sottolinea Cordero nell’introduzione, la parola scritta non può restituirci la voce di Nuto, le sue intonazioni, i gesti, coinvolgenti e «straordinariamente espressivi». Restano per fortuna le cose che scriveva: parole scolpite come pietre anche nell’Italia rottamata e immemore di oggi.

Corriere 22.10.14
Antonio Pappano
«I teatri italiani devono cambiare Imparino dal modello inglese»
intervista di Valerio Cappelli


Antonio Pappano è sospeso tra i suoi due mondi: l’Opera a Londra, con I due Foscari di Verdi, la musica sinfonica a Roma: sabato, davanti al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, inaugura la stagione sinfonica dell’Accademia di Santa Cecilia, il Made in Italy che funziona.
Quale sarà il programma del concerto?
« Una notte sul Monte Calvo nella versione originale di Musorgskij, anziché in quella postuma di Rimskij-Korsakov che si esegue di solito, che diventa un pezzo corale, con un basso solista, ed esalta l’aspetto demoniaco usando parole inventate. Poi Richard Strauss per i 150 anni dalla nascita e il Secondo Concerto di Rachmaninoff: il mio primo incontro col pianista Evgeny Kissin».
È il suo nono anno come direttore musicale a Roma: dove trova nuovi stimoli?
«Dalle continue tournée, ora stiamo partendo per Cina e Giappone dove troveremo un pubblico amante della musica drammatica e anche del chiasso teatrale. Ma rispetto all’Oriente detesto quando si parla di nuovi mercati; c’è invece il fatto di condividere qualcosa che amano dell’Italia. Nuovi stimoli vengono anche dai cd, in cui abbiamo l’opportunità di suonare repertorio italiano: stanno per uscire le Sinfonie di Rossini, e Puccini con Kaufmann, che tornerà per registrare con noi Aida ».
Opera che, a dispetto della marcia trionfale...
«È l’opera del silenzio, intimista, che però ha bisogno di grandi spazi, con personaggi che portano dentro di sé il mistero di civiltà lontane. Le note di Aida sono facili, bisogna vedere come vengono eseguite. Insomma, crescono le aspettative del pubblico, dobbiamo essere all’altezza».
È un momento delicato per Santa Cecilia, sono in corso le elezioni per il nuovo presidente.
«Una delle priorità è la capacità di trovare denaro privato. Ma bisogna vendere un prodotto di qualità. Il governo deve tenere conto che la qualità non dev’essere punita ma sostenuta. È vero, dobbiamo cercare fondi alternativi, senza però perdere l’appoggio istituzionale che abbiamo sempre avuto. Ogni anno si è sul filo del rasoio per il pareggio di bilancio. Non dobbiamo tentare il destino per vedere se un marchio come Santa Cecilia ce la fa anche il prossimo anno».
Come vede la drammatica crisi dei «cugini» dell’Opera di Roma?
«Non entro nel merito dei licenziamenti collettivi, anche perché quando sono a Roma mi dedico al 150 per cento a Santa Cecilia. Prima del concerto con Diana Damrau, mi sono rivolto agli spettatori dicendo che va trovata una soluzione dignitosa per i musicisti, che garantisca il futuro di quel grande teatro».
L’Opera ha il 14 per cento di autofinanziamento (contro il 52 per cento di Santa Cecilia), 912 permessi artistici l’anno, e 125 giornate lavorative...
«Il mondo sta cambiando, da anni dico che i teatri italiani devono trovare un’altra struttura. Da una parte sono stati gestiti male e ora c’è un debito enorme, la situazione è disastrosa, serve competenza, dirigere un teatro non è facile; dall’altra i musicisti devono capire che per far andare bene le cose ci vuole più flessibilità. Il muro contro muro non funziona».
Che cosa augura all’Opera di Roma?
«Di tornare alla normalità, anche se nel mondo non esiste un teatro normale. Ogni teatro ha bisogno di trovare la soluzione migliore. Il direttore d’orchestra è la figura centrale, che dovrebbe essere presente nella buona e nella cattiva sorte. È il principio del bene comune».
Principio su cui lei si batte da sempre.
«Sì, e che si dovrebbe adottare dal mondo anglosassone. Giochiamo nella stessa squadra, e ci battiamo per conquistare il pubblico. All’Accademia, e non è retorica, ci consideriamo una famiglia. Io dico: se la mia orchestra di Santa Cecilia ha un buon contratto integrativo, lo merita, per il tanto lavoro che si fa insieme. Alla fine vengono i riconoscimenti».
L’ultimo c’è stato nei giorni scorsi a Berlino.
«Alla rassegna cinematografica musicale dei Berliner Philharmoniker, siamo apparsi in copertina col nostro documentario, Carattere italiano : nei concerti si presentano tutti in frac, qui invece si raccontano gli uomini, chi produce miele, chi vive nel bosco. Storie individuali, uniche; storie di artisti che in palcoscenico raggiungono un comune traguardo artistico».

Corriere 22.10.14
Va in scena «Rigoletto». Ma per coro e musicisti restano i licenziamenti
di V. Ca.


All’Opera di Roma nel cda di oggi saranno confermati i 180 licenziamenti (erano 182, sono scesi di due unità) di orchestra e coro. La notizia era stata preannunciata ieri nel corso di un incontro con il direttore del personale delle sette sigle sindacali, che avevano chiesto il ritiro del provvedimento; un nuovo incontro è stato fissato per venerdì. Alcuni dipendenti si sono presentati con una bandiera nera in segno di lutto. Ieri sera è andata in scena, in un’atmosfera di suspence, la prima opera dopo l’inasprimento della crisi: Rigoletto , nel nuovo allestimento di Leo Muscato, sul podio Renato Palumbo. Nessuna protesta in sala. Ha poi tenuto banco il doppio licenziamento subito da Pasquale Faillaci, sindacalista della Cgil e corista dell’Opera: doppio perché, oltre a quello collettivo, ne ha ricevuto uno «ad personam». «Timbrava il cartellino al posto della moglie, truffava il teatro», si apprende da fonti dell’Opera. La moglie, Anna Maria De Martino, anch’essa dipendente, è la sorella dell’ex sovrintendente Catello De Martino, licenziato per il buco di 30 milioni. Faillaci replica così: «Sono stato licenziato per dichiarazioni rese alla stampa. È una montatura fatta ad arte con testimonianze probabilmente di fantasia, è una ritorsione per la mia attività sindacale. Si parla di una timbratura che non doveva nemmeno esserci perché mia moglie non era stata convocata». (v. ca.)

La Stampa TuttoScienze 22.10.14
“Ripartiamo da Wikipedia e Linux. Sono i monasteri del XXI secolo”
Il cyberspazio dilaga nella realtà fisica: la condivisione delle conoscenze potrà trasformare anche il business, dall’economia di scala a quella di scopo
di Francesco Rigatelli


La nuova economia della coscienza ha bisogno della scienza. Michel Bauwens, 56 anni, belga che vive in Thailandia, inventore della «Peer to Peer Foundation», lo teorizza nei suoi saggi sulla «Network society e il futuro dell’economia collaborativa», a partire dall’attitudine crescente in Rete a scambiarsi informazioni, oltre che musica e video. Un saggio, in particolare, ha un titolo illuminante per descrivere il suo pensiero: «Dal comunismo dei capitali al capitale delle risorse comuni».
Si sfoga, insomma, con Internet uno dei desideri più antichi della Storia? «Economie di scopo, non di scala», sintetizza il guru, ospite, lunedì scorso, a Milano, della Fondazione Feltrinelli per il progetto Laboratorio Expo, domandando provocatoriamente: «Che cosa hanno in comune i monaci medievali, i socialisti cubani e Wikipedia?».
Per Bauwens l’economia collaborativa è il nostro destino, poiché l’attuale sistema rivela profonde debolezze. «La prima è che tende verso la creazione di monoculture, sia agricole sia industriali, che a loro volta generano il bisogno di crescenti esportazioni. Ora la globalizzazione si fonda sull’utilizzo del petrolio per il trasporto delle merci. Quando il petrolio a basso costo finisce, ci aspetta un crollo economico. Quindi l’economia di scala non è sostenibile nel lungo periodo, ma nemmeno nel breve, visti gli effetti sul Pianeta».
Insomma, «gli attori della produzione devono trovare un modo diverso di innovare e competere» ed è in questo che la rivoluzione tecnologica mostra una direzione. Tra l’altro, per Bauwens, non è la prima volta che la Storia indica segni simili. «Nel V secolo, mentre l’impero romano stava per scomparire, le comunità cristiane prefiguravano il valore di una rilocalizzazione della produzione, basata su economie di scopo, in cui i costi di produzione si sarebbero abbassati grazie alla condivisione dei costi delle infrastrutture. Mentre l’Impero romano decadeva e l’approvvigionamento di oro e schiavi diventava via via più difficile, i possidenti più visionari liberavano i loro schiavi, legandoli contrattualmente come coloni o servi, alle loro terre. Quindi, una parte della transizione ad un nuovo sistema implicava la rilocalizzazione dell’economia intorno allo scopo, invece che alla scala della produzione, vista l’incapacità dell’Impero di supportare un’organizzazione su scala globale. Inoltre, mentre le città si svuotavano, i cristiani inventavano i monasteri come centro di raccolta di saperi».
Così per Bauwens è avvenuto a Cuba, soggetta ad embargo, quando non è stata più in grado di appoggiarsi all’economia di scala sovietica. «Nel 1989 sperimentava quello che un giorno il mondo potrebbe provare: l’importazione sottocosto di petrolio dall’Urss veniva bruscamente interrotta. Al fine di creare forme alternative al trasporto su gomma il governo lanciava diverse iniziative. Ad esempio, permetteva a diversi imprenditori di sviluppare cooperative locali e creava istituti di agricoltura con l’obiettivo di diffondere a tutti le innovazioni. Questo esperimento di “open design” - diremmo oggi - riusciva al di là di ogni aspettativa. Oggi Cuba produce cibo biologico con il minor uso di combustibile».
L’energia, per Bauwens, è il termometro del sistema. Se costa troppo, l’economia deve spostarsi da un modello di scala a uno di scopo. Quello che lui definisce una «produzione fra pari, “peer production”: conoscenza condivisa, cultura libera, produzione manifatturiera locale e distribuita. Quando parliamo di “peer to peer” non ci stiamo riferendo soltanto al file sharing, lo scambio di contenuti in Rete, ma a relazioni umane orizzontali e alla capacità di autoallocare gli sforzi attorno alla creazione di valore comune».
L’ultima utopia? Non per Bauwens: «Comunità globali di progettazioni post-capitalista e post-statale come Wikipedia e Linux - dice - potrebbero essere accompagnate da una rete di microimprese a produzione locale. Questo significherebbe organizzare le nostre attività materiali al fine di minimizzare i costi comuni».
«In altre parole - aggiunge - chi svolgerebbe il compito organizzativo che la Chiesa e i monaci svolgevano nel Medioevo? La Chiesa non era solo una comunità di progettazione, ma un’organizzazione materiale efficace con una leadership culturale. Solo così - conclude - si potrà superare lo scenario attuale in cui poche piattaforme proprietarie controllano reti e dati personali, guidando i nostri comportamenti, e arrivare, invece, a una società che persegue un valore sociale oltre che economico».

La Stampa TuttoScienze 22.10.14
Camminare con le cellule olfattive
“Così curiamo chi è paralizzato”
di Vittorio Sabadin


Per la prima volta, un uomo le cui gambe erano paralizzate da quattro anni a causa di una lesione al midollo spinale ha potuto di nuovo camminare. Il miracolo è stato reso possibile da un’équipe di scienziati anglo-polacca, che ha scoperto come rigenerare il midollo grazie a particolari supercellule facili da trovare: si trovano nel naso di ogni individuo.
Derek Fidyka, un bulgaro che ora ha 40 anni, era stato vittima nel 2010 di una feroce aggressione, durante la quale era stato ferito alla schiena. Una coltellata aveva leso il midollo spinale, tagliandolo quasi completamente in due. Da quel giorno non aveva più potuto camminare. La terapia che gli ha consentito di muovere nuovamente le gambe è frutto dell’incontro tra alcuni uomini straordinari: il professor Geoff Raisman, esperto di rigenerazione neuronale all’University College di Londra, il dottor Pawel Tabakow, neurochirurgo della clinica universitaria di Breslavia in Polonia, il professor Wagih El Masri della Keele University e David Nicholls, il cuoco dei più esclusivi hotel di Londra, che ha finanziato con 1,5 milioni di euro le ricerche e le cure. Nicholls ha un figlio, Dan, rimasto paralizzato in seguito a un incidente di nuoto. Gli ha promesso che sarebbe riuscito a farlo camminare di nuovo.
La promessa potrà ora forse essere rispettata grazie a una particolarità del sistema olfattivo. Avvertiamo gli odori grazie a un complesso circuito neuronale: le molecole che li diffondono nell’aria entrano in contatto con le cellule nervose che si trovano nel naso e trasmettono il messaggio ai bulbi olfattivi, collocati alla base del cervello. Queste cellule nervose sono gli unici neuroni del corpo che si rigenerano quando sono danneggiati, grazie al lavoro delle «olfactory ensheathing cells» («Oec»), le cellule olfattive di rivestimento.
Dopo una sperimentazione sui cani, il tipo di lesione presente sul midollo spinale di Fidyka autorizzava il primo tentativo su un essere umano. Il midollo era ancora tenuto insieme da un lembo e c’era una cavità di 8 millimetri recisa dal coltello: le condizioni ideali per provare. Uno dei due bulbi olfattivi del paziente è stato rimosso e le cellule «Oec» sono state fatte crescere in una coltura. Due settimane dopo sono state iniettate sopra e sotto la lesione del midollo. Il buco di 8 millimetri è stato riempito con quattro strisce di tessuto nervoso, prelevato da una caviglia del paziente, in modo da formare un ponte sul quale i neuroni rigenerati dalle «Oec» avrebbero potuto saldarsi.
Due mesi dopo l’intervento i medici hanno verificato che il muscolo della coscia destra si stava riformando. Sei mesi dopo Fidyka camminava in palestra, sostenendosi alle parallele, e nei giorni scorsi, a due anni dal trapianto di cellule «Oec», è stato in grado di uscire dal centro di riabilitazione di Breslava, camminando con le sue gambe, appoggiato a un deambulatore. Si sottopone a cinque ore di fisioterapia al giorno e «non ci sono ragioni - afferma - per non credere che un giorno sarò di nuovo indipendente».
L’équipe di medici che ha reso possibile il miracolo non vuole guadagnare nulla dalla terapia. «Nessun paziente in futuro - ha detto Raisman - dovrà pagarci qualcosa per quello che abbiamo fatto». Tutti sono consapevoli del pericolo di ingenerare troppo ottimismo in milioni di persone paralizzate da lesioni al midollo spinale: le condizioni di questo caso erano particolari e favorevoli. Ma se tutto andrà bene, il piccolo passo compiuto nei giorni scorsi da Fidyka potrebbe rivelarsi per l’umanità molto più importante di quello di Neil Armstrong sulla Luna.