giovedì 23 ottobre 2014

il Fatto 23.10.14
Verso il 25 ottobre
Gli ex Cgil in piazza Epifani non firma

  
sindacato che hanno deciso di sostenere la manifestazione del 25 ottobre. La lettera che vede come primi firmatari Sergio Cofferati e Antonio Pizzinato e che invita a “sostenere pubblicamente l´attuale gruppo dirigente della Cgil partecipando insieme alla manifestazione del 25 Ottobre” e invitando i deputati “a modificare il testo approvato in Senato, a partire dalla salvaguardia dell'art. 18”, non porta la sua firma. Ci sono quelle di altri ex sindacati confederali come Fausto Bertinotti, Betty Leone, Alfiero Grandi, Carla Cantone, Paolo Nerozzi, Gianpaolo Patta, Morena Piccinini. Ma quella di Epifani non risulta. Fatica a mescolarsi con la vecchia guardia sindacale oppure indisponibilità a “modificare il testo approvato in Senato”?

Corriere 23.10.14
Leopolda e Cgil, il fine settimana dei due Pd
Sul palco a Firenze anche Pif e Farinetti
Da Bindi a Cuperlo, gli oppositori che scelgono la piazza
I bersaniani cercano la terza via
E Orfini scioglie il dilemma dei «turchi» volando a Pechino
di Monica Guerzoni


ROMA I «dem» sono di nuovo al bivio tra la piazza e il governo. Ma questa volta la stragrande maggioranza del partito non ha dubbi, sta con il segretario. Sul palco della Leopolda, da domani a domenica, Matteo Renzi ci sarà «col sorriso sulle labbra», alla faccia delle polemiche e delle proteste sindacali. «Abbiamo iniziato quasi per scherzo, cinque anni fa — ricorda —. Adesso le cose sono cambiate. Questa Leopolda è la prima in cui al governo siamo noi...». E se la sinistra vede nei due milioni raccolti la prova di un «partito parallelo», Renzi rilancia invitando «tutti quelli che vogliono bene alla Leopolda» a contribuire economicamente.
Oggi Maria Elena Boschi presenta il programma. Qualche nome illustre trapela dalla riunione di ieri sera con Bonaccorsi, Fregolent, Fanucci e Famiglietti, i quattro conduttori. Attesi gli imprenditori Farinetti e Cucinelli e il regista Pif. Baricco manderà un video. Quanto a Marchionne guest star, lo staff leopoldino non conferma.
Con ecumenica astuzia, Renzi ha esteso l’invito agli oppositori. Rosy Bindi declina: «E’ una manifestazione parallela al Pd e non mi accontento certo di essere invitata per superare questa anomalia». E così la presidente dell’Antimafia andrà a «stringere la mano alla Camusso». Cuperlo, che sfilerà con la Cgil dietro allo striscione de L’Unità , farà «un balzo» alla Leopolda lunedì, quando avrà già chiuso: «È un partito, una struttura parallela e i finanziamenti lo confermano».
Per i riformisti, la scelta è stata più difficile. Il niet di Bersani alla Camusso ha messo a dura prova i suoi, costretti a imboccare la terza via. Per risolvere il dilemma tra il corteo della Cgil-Fiom e la culla del renzismo, i parlamentari di Area riformista si terranno a distanza di sicurezza da entrambe. L’adesione solo formale della componente che fa capo a Roberto Speranza è in un comunicato cesellato da Guglielmo Epifani, già segretario della Cgil e del Pd. Lui sarà in piazza, ma per il tempo di «un abbraccio». E domenica chissà, non è detto che non faccia un salto a Firenze. Testimoniare «rispetto e ascolto» e però non andare al corteo è la mediazione raggiunta tra bersaniani e dalemiani. Speranza sarà a Matera, capitale europea della cultura 2019: «Vado a festeggiare». E l’articolo 18? «Io ho un ruolo istituzionale e devo contribuire ad abbassare i muri contrapposti».
In piazza sono attesi solo i riformisti più agguerriti, come D’Attorre. E ci sarà Fassina, per cui il problema di cambiare la delega del lavoro «non riguarda un pezzo di partito, ma decine di milioni di lavoratori».
Civati la Leopolda ha contribuito a inventarla, ma sarà in piazza con la compagna Giulia: «In mezzo alle persone e non in testa al corteo». Non sarete pochini? «No, c’è mezzo gruppo Pd... Manca solo Renzi». Cofferati ha scelto la protesta per «la salvaguardia dell’articolo 18». Orfini invece ha risolto il dilemma dei «turchi» filorenziani volando a Pechino per un bilaterale con i comunisti cinesi. Con il presidente è partito il responsabile Esteri, il dalemiano Amendola. Pure Andrea De Maria è nello staff del leader, ma essendo cuperliano per lui la soluzione del rebus è stata più ardua: «Sabato sono invitato a Marzabotto per i settant’anni della strage...»

Repubblica 23.10.14
Il partito-tenda della Leopolda
Il modello “Macy’s” ha i suoi rischi se applicato alla politica
È illusorio pensare di superare la competizione inglobando i potenziali alleati
di Nadia Urbinati


ALLA Leopolda il nuovo Partito democratico si appresta a diventare il Partito della nazione. Un partito sulla cui forma si stanno sbizzarendo in tanti, sia al suo interno sia all’esterno. Per i suoi promotori e sostenitori, il nuovo Partito democratico dovrà avere un look americano come Big Tent , una grande tenda sotto la cui ombra sostano diverse anime e diversi movimenti, non sempre congruenti tra loro negli interessi e nelle idee, benché desiderosi di stare sotto a quell’ombrello e non a un altro (almeno temporaneamente).
Il segretario Matteo Renzi ha confermato il senso di questa volontà rifondatrice quando ha prospettato un nuovo Italicum, con un premio di maggioranza dato non più alla coalizione ma al partito. Una riforma che calza il modello di partito unico, è stato scritto. Nel senso che se il partito è una “grande tenda”, allora la coalizione viene inglobata dentro il partito stesso e quindi il premio alla colazione non ha più molto senso. Big Tent sta per “ catch all party, partito piglia-tutti e non tutto”, spiegano i leopoldini. Rassicurando che la parte non vuole diventare il tutto, ma vuole vincere e per farlo deve inglobare al suo interno tutto il possibile. Ma c’è bisogno di inglobare i diversi nel tutto per incamerarne i voti? La risposta che viene data a questa domanda si appella all’analogia con il partito americano. Analogia non equivale però a identità.
Il Partito della Leopolda (PdL) nelle intenzioni fatte circolare dai suoi organizzatori e sostenitori sembra avere due caratteristiche. In primo luogo, ha una natura (non solo una vocazione) maggioritaria. La parte ha in realtà aspirazione a essere il tutto inglobando tutti coloro che vogliono stare all’ombra della grande tenda. Con pochissimi distinguo ideologici. Si tratta di una forma di partito che vuole essere programmaticamente anti-partigiana. Il Partito della Leopolda sarà un post-partito. L’esito della lunga marcia verso il superamento del partito riconoscibile da una comprovata carta di identità ideologica. Bassa soglia di ammissione perché poca caratterizzazione ideologica, dunque.
Basta essere democratici per aderirvi, come era nelle intenzioni del fondatore del Partito democratico, Walter Veltroni, che scelse non a caso un nome “costituzionale”, se così si può dire. L’aggettivo “democratico” prefigura un’ampia inclusione giocando proprio sulla connotazione poco strutturata del termine democrazia che, come sappiamo, a parte alcune basilari procedure e il suffragio elettorale, lascia ciascuno libero di interpretarlo a modo suo. La natura del partito sarà altrettanto inclusiva e vaga dell’aggettivo che lo designa.
La seconda caratteristica del Partito della Leopolda è di imitare il modello “Macy’s”. Dal nome dei grandi magazzini americani, primi nel mondo, che rivoluzionarono il mercato quando misero in uno stesso spazio merci non solo di diverso genere ma anche prodotte da diverse case, tradizionalmente competitive tra di loro. Invece dei negozietti mono- brand o dei molti banchi che vediamo ancora nei mercati italiani, dove avviene la contrattazione diretta da parte del compratore, il modello grande magazzino abolisce quella contrattazione e impone il prezzo fisso (la competizione avviene altrove, per esempio sul mercato finanziario o sull’abbattimento dei costi di produzione). L’omogeneità dello spazio e l’impersonalità del venditore rendono possibile questa compresenza di diversi senza tensione competitiva. Invece del vociare tra una bancarella e l’altra, una grande e silenziosa corsa agli acquisti, con i clienti che diventano compartecipi del clima di rilassato consumo. Ma il modello Macy’s ha i suoi rischi se applicato al partito politico. Probabilmente la Big Tent è una strategia per sostituire la compartecipazione al conflittualismo portando dentro il partito i protagonisti (i piccoli partiti) di ipotetiche coalizioni. Ne guadagnerebbe la stabilità perché i piccoli non avrebbero più il potere di veto sulla coalizione. Ma è illusorio pensare che verrà superata la competizione inglobando i potenziali alleati. Poiché quella lotta che tradizionalmente avviene fra partiti alleati può travasarsi all’interno del partito, rendendo la Bid Tent un luogo che, invece di un amabile conglomerato di parti, ospita un ring per incontri di box. La trattativa tra i potenziali alleati verrà spostata all’interno, non eliminata. I gruppi inclusi avranno un potere di trattativa non meno piccolo, un po’ come le correnti nei vecchi partiti. Tutto dipenderà dalla forza degli interessi che rappresentano.
Sembra di capire che il modello post-partitico e da department store sia il segno che il nuovo Pd voglia essere a tutti gli effetti simile a un partito americano. Ma le differenze non mancano e non sono di poco conto. Almeno una differenza deve essere messa in evidenza: la Big Tent del partito americano è tenuta in piedi e insieme da una colla ideologica antagonistica molto forte. Vera o creata ad arte, la polarizzazione è la pratica permanente nell’arena americana (in questi anni in particolare) la quale, nonostante tutto, resta strutturata per contrapposizione ideologica. Anche se l’elettore medio è poco o nulla di parte, e i partiti cercano leader poco di parte per attirarne il voto, i due partiti americani restano nemici, antagonisti, opposti su molte posizioni (con lealtà tramandate di padre in figlio).
Invece, il superamento ideologico predicato dal nuovo Pd sembra essere più radicalmente anti-partigiano e per questo propenso ad andare in un’altra direzione: verso il depotenziamento dell’antagonismo e con una forte propensione che potremmo dire cattolica, nel senso di essere inclusiva al massimo e totalizzante, anche a costo di diventare meticcia. È questo aspetto che fa temere che il Partito della Leopolda coltivi il sogno di diventare il tutto, di non essere solo un partito piglia-tutto.

Repubblica 23.10.14
Quelli della Bolognina venticinque anni dopo “Così abbiamo smesso di essere comunisti”
Che fine hanno fatto i militanti del film di Nanni Moretti?
Nell’anniversario della Svolta siamo tornati a Francavilla, Roma, Bologna per interrogarli sul futuro della sinistra
di Concetto Vecchio


SOLO una vecchia foto in bianco nero, ingiallita dal tempo. Quattro ragazzi addossati a un muro di Testaccio. Ma sembra la locandina di un film sugli anni Settanta. «Ecco — dice Roberto Martini, puntando l’indice sul primo da sinistra — questo ero io, e son l’unico che si è salvato: gli altri sono morti tutti, per eroina. Io invece sono vivo grazie al Pci, per aver fatto la militanza, ogni giorno venivo in sezione, anche la domenica venivo, per distribuire l’Unità, questo quartiere era povero e noi l’abbiamo reso ricco; soprattutto la politica riempiva di senso la mia vita. Questi anni non sono passati invano. Quando vedevo la bandiera rossa mi venivano i brividi, mi vengono anche adesso».
Nel film “La Cosa” di Nanni Moretti, che raccontava lo spaesamento delle sezioni comuniste alle prese con il cambio del nome proposto dal segretario Achille Occhetto, nell’inverno del 1989, Martini è il più fiducioso di tutti, il più ottimista: «Finalmente c’è una strada nuova. Compagni, non fermiamoci ai risentimenti. Vediamo la sostanza politica: ora potremo finalmente creare l’alternativa in Italia ». Che fine aveva fatto, Martini? Le aspirazioni di quei giorni lontani sono andate deluse? Un giorno di giugno siamo riusciti a scovarlo. E poi lo abbiamo messo a confronto con un altro compagno, nella Casa della sinistra di Testaccio, Michele Crocco, che nel film invece si batteva con sarcasmo contro il cambio del nome: «Io sono comunista perché come ideale ho l’abolizione della proprietà privata, a me l’iniziativa privata non me sta bene manco per il cazzo!». Ne è nato un documentario, “La Bandiera Rossa”, che potete vedere sul sito di Repubblica.
Crocco ha i capelli tutti bianchi, e al furore è subentrata la dolcezza della maturità. Discutono tra loro, incuranti della telecamera. A un certo punto Martini dice: «Non avrei mai pensato che poi una parte della Dc sarebbe confluita con noi. Non ci sarei mai arrivato. Mi hanno detto: proprio tu non aderisci al Pd? Sì, proprio io. Voglio stare in un partito chiaramente di sinistra, non in un’accozzaglia di anime». E Crocco, stupefatto: «Ma guarda che strano! Tu che hai tutta questa storia». Martini tifa per Sel, Crocco guarda con simpatia a Renzi. Le posizioni si sono rovesciate. Chi l’avrebbe mai detto, allora? Crocco lo incalza: «Perché abbiamo il dovere di governare subito, con i problemi che ci sono adesso. Non è più possibile aspettare. Qual è stato sempre il problema storico della sinistra, da quando è nata? Che c’è sempre qualcuno che sta più a sinistra di te, che è più puro di te». «Hai ragione», gli dice Martini. Ma non pare convinto. «Vedi, io sognavo un partito socialista, come in Germania, come in Svezia, un partito che avesse al suo centro la lotta per il lavoro». «Sì, ma non è possibile pensare che non si cambia più niente, sono anni che non si cambia», si fa concitato Crocco. «Eh, e che te devo dì!». E alla fine i due compagni ritrovati si abbracciano ridendo: «Meno male che questo famoso comunismo non è mai arrivato in Italia».
Poco prima di Francavilla di Sicilia ci fermano i carabinieri. «Chi siete? Che fate?» «Un documentario sui comunisti». Il brigadiere ci squadra con occhi ironici, increspa le labbra. All’istante ci sottopone all’alcoltest.
«Partendo da questo, da questo grande patrimonio, si pone l’obiettivo di costruire una cosa — una cosa — che è più grande, e se mi consentite l’espressione, più bella». “La Cosa” si apre così, con questa petizione di Luigi Savoia, detto Gino. Aveva 39 anni. Ci aspetta davanti alla sede della Cgil. Allora, l’avete fatta più grande e più bella? Scuote la testa, amaro. «No, no». La piccola sala è piena, molti di loro non si vedevano da quei giorni, fioriscono i ricordi, contro Scelba nel ‘72, la mattina che trovarono morto Moro nel ‘78, ma non è un raduno di reduci, sono venuti anche i più giovani. Mettiamo a confronto Nino Silvestri, 90 anni, tutti spesi nelle lotte a sinistra, con Doriana Anzalone, la figlia del segretario della Cgil, nata proprio alla vigilia della Svolta. Silvestri era analfabeta, mangiava solo finocchi bolliti, «mi diedi al Pci con tutta la sua forza, ho quattro figli e otto nipoti, tutti laureati, noi abbiamo portato il benessere in questo paese» e Anzalone, sfiduciata: «Sì, ma per quelli della mia generazione non c’è speranza, non c’è futuro, questa politica non la riconosciamo, ci sa dire solo “andate all’estero”, ma io all’estero non ci voglio andare ». È un confronto drammatico. Ci sono quasi 70 anni di differenza tra i due, ma ora la storia sta andando all’indietro. «Il comunismo almeno ci indicava una via, un modello», è il rimpianto di Oreste Siciliano. «Voto Tsipras». Savoia era migliorista, la destra del partito. Ora consegna questo paradosso: «Ho la tessera del Pd, ma alle Europee non l’ho votato. Renzi non mi rappresenta. È stato un errore mortale puntare tutta sulle riforme istituzionali, prima veniva il lavoro, la lotta alla povertà ».
Poi prende la parola Carmelo Riolo. È un uomo alto e robusto, ma timidissimo. La voce è appena un sussurro. «Era difficile essere comunisti in questo paese governato dai democristiani. Fino agli anni Sessanta c’erano quattro capitalisti che la mattina radunavano i lavoratori in piazza, e dicevano, “tu vai a lavorare in quella contrada”, “tu in quell’altra”, noi comunisti eravamo sempre gli ultimi a essere chiamati: eravamo come servi, come schiavi». E come stelle gli devono esplodere i ricordi. Di quella Sicilia dove i padroni la domenica mattina facevano attendere i contadini curvi sotto il sole della Matrice («il barone deve fare colazione»), e solo a sole ormai alto il barone scendeva e distribuiva la sua magra paga: “Cia pizzu i soddi” («Ci perdo i soldi con voi»). Questa era la Sicilia, nel Dopoguerra. E all’improvviso Carmelo si azzittisce. Non sa più andare avanti, è come se quella reminiscenza lo paralizzasse. Nessuno osa incoraggiarlo, né rimproverarlo. Che facciamo? Niente facciamo, dobbiamo solo aspettarlo. E poi, come ridestandosi da un sogno, Carmelo ritrova il filo, trova le parole che cercava. E le parole che cercava sono queste: «Poi abbiamo alzato la testa grazie al Partito comunista».
«Segretario, siamo qui per un viaggio, un viaggio nella sinistra italiana».
«Ah, bene, e per caso l’avete trovata?» Questo è stato il primo approccio con Achille Occhetto, un pomeriggio di settembre nella sua casa nel centro di Roma. C’è in quel gesto che fece alla Bolognina — un gesto complesso, l’atto di un attore shakesperiano che gioca la carta della vita sul proscenio della Storia — un mistero che il tempo non ha mai diradato. Perché mise fine a una vicenda collettiva che durava da quasi 70 anni senza avvertire nessuno, con un dire cifrato? Aveva annunciato il cambio del nome del Pci — il cambio del nome di un partito che aveva ancora 1 milione e 450mila iscritti — e nessuno lo capì veramente. L’incontro con i partigiani avviene alle undici del mattino, dura appena cinque minuti. L’ Ansa fa un unico lancio alle 15,44. Titolo: “Occhetto: bisogna inventare strade nuove”. All’indomani l’ Unità, diretta da Massimo D’Alema, che allora vendeva 140mila copie, copiò la notizia d’agenzia relegandola a pagina 8, fotocopiando in copertina perfino il titolo dell’ Ansa. Appena in un occhiello, il riferimento ipotetico alla possibilità del cambio del nome. Solo all’indomani, lunedì, quando Occhetto riunisce i colonnelli della segreteria, la notizia esplode in tutta la sua portata. Diego Novelli incontra Pietro Ingrao a Montecitorio: «Scusa, tu sapevi nulla?», e quello scuote la testa sconcertato; Lucio Magri chiama Alessandro Natta: «Ma davvero cambiamo nome?» E Natta: «Sto pensando ad altro». Occhetto riempie meticolosamente la pipa. Era il Re Sole della sinistra. Alla fine aveva tirato fuori dalle macerie del comunismo internazionale il Pci, e nell’inverno del ‘94 pareva avviato alla più sicura delle vittorie. E invece, a scompigliare le carte, ecco il sassolino che s’infila negli ingranaggi della sorte: Silvio Berlusconi. L’alieno giunto da un pianeta lontano. A un certo punto Occhetto dice: «Se Martinazzoli avesse detto sì all’alleanza con noi Progressisti avremmo vinto noi».
A Bologna, nella mitica sezione della Bolognina, tutti si fanno attorno a Maria Della Lama. Ha 79 anni. I ragazzi si affollano dinanzi al telefonino dove scorrono le immagini della “Cosa”. «Quanto eri bella, Maria», le dicono. Maria si schermisce, e poi attacca a raccontare di quando lei e Bologna erano più giovani di adesso. «Ho creduto in Bersani, ma poi mi ha deluso. Renzi non sarà la perfezione, però ha coraggio. Anch’io devo pensare al futuro, sa, ho dei figli, dei nipoti, non è un tempo facile per nessuno». La sezione ha 284 iscritti, dice Rolando Rocchetti, che ci ha passato l’intera esistenza. Erano mille negli anni d’oro. Il segretario, Mario Oliva, viene dal Pci, ma è un renziano della prima ora. I giovani litigano sull’articolo 18. È una discussione vera. «Guarda che io ho perso due volte il lavoro» s’infervora un ragazzo con la consigliera Daniela Vannini, che esprime dubbi sul Jobs Act. «Oh, l’articolo 18 l’ha cambiato anche il Pd quando era al governo con Monti, di cosa stiamo parlando?» rincara la dose un signore con la Lacoste. Maria osserva tutto, in silenzio. Nel film di Moretti diceva: «Ho tanta confusione, dolore, tante domande».
Sì, Occhetto, la sinistra c’è ancora, in queste sezioni, in queste domande. Torniamo a Roma dondolati dal vagone, il cuore di simboli pieno. Prima di andarcene un militante, Mario Del Balzo, ci prende in disparte: «Venga con me». A duecento metri, in via Tibaldi 17, c’è la sala dove Occhetto parlò ai partigiani in quella lontana domenica. È diventata una sala di parrucchieri, gestita da cinesi, anche le scritte sono in cinese, la signora smette di fare i bigodini, si affaccia. E Del Balzo, con un lampo di soddisfazione: «Come vede, da questo posto i comunisti non se ne sono mai andati».

SU REPUBBLICA. IT Il documentario di Concetto Vecchio, “La Bandiera Rossa”, viaggio tra i militanti della sinistra 25 anni dopo la Svolta, è su Repubblica.it

Repubblica 23.10.14
“Quando c’era Berlinguer” il racconto di un leader
Da domani con Repubblica e L’Espresso il film di Walter Veltroni dedicato al segretario del Pci scomparso nell’84
di Alessandra Longo


«E ORA compagne e compagni, vi invito a impegnarvi tutti, in questi giorni che ci separano dal voto, con lo slancio che sempre i comunisti hanno dimostrato nei momenti cruciali. Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando con i cittadini, con la fiducia per le battaglie che abbiamo fatto, per le proposte che presentiamo, per quello che siamo stati e siamo... è possibile conquistare nuovi e più vasti consensi alle nostre liste, alla nostra causa, che è la causa della pace, della libertà, del lavoro, del progresso della nostra civiltà». Sono le ultime parole pronunciate da Enrico Berlinguer nel comizio del 7 giugno 1984 a Padova. Trent’anni dopo, Walter Veltroni ha sentito il bisogno di ricostruire la «grandezza» dell’uomo e del politico, «di ricollocarlo nel suo tempo storico ». Ne è nato Quando c’era Berlinguer (prodotto da Sky con Palomar), film da domani in distribuzione con Repubblica e L’Espresso , un contenitore di storia ed emozioni, che ha avuto molto successo nelle sale d’Italia e all’estero. Veltroni spiega le ragioni che sono state alla base del progetto: «Mi ha spinto la mia cura per la memoria che è un modo di combattere la sensazione di vivere sull’acqua; mi ha spinto anche l’amore per la politica. La politica può essere bellissima e Berlinguer ne è stato l’incarnazione ».
Memoria non nostalgia: «Non si può aver nostalgia degli anni di Calvi, di Sindona, del terrorismo ». Ma voglia, quella sì, di comunicare ai giovani chi era Enrico Berlinguer perché in tanti non lo sanno, chi era. Hanno facce belle, ridenti, imbarazzate. Sono freschi, nati dopo. Berlinguer chi? Un ministro, un generale della seconda guerra mondiale, un giornalista? Li abbiamo visti parlare nel film ma ce ne sono altri che si confessano in un altro video — inedito — di contenuti speciali (Titolo: Vox populi).
Interviste scartate, non montate sulle quali c’è da riflettere. «Emerge la difficoltà — dice Veltroni — a collocare storicamente Berlinguer. In questo tempo di social network, la memoria è solo quella del computer». E allora li vedi davanti alle tre università romane, all’ingresso di un liceo di Ivrea, o di fronte al liceo Azuni di Sassari dove Berlinguer studiò. Li vedi che educatamente si sforzano: «Chi è Berlinguer? Ma perché mi fa queste domande? Io studio chimica... ». Tuttavia dalla nebbia, dalla fatica di ricordare storie e persone arrivate prima di loro, qualcosa viene fuori: «Berlinguer era un uomo di sinistra, un signore che difendeva i più deboli, un comunista...». La guardia giurata con il gel nei capelli s’inoltra nell’ignoto: «Ricordo vagamente, comunque era un idealista».
Il film, che gira l’Italia da marzo, di sicuro ha aiutato: «È una delle cose che più sono contento di aver fatto in vita — ammette Veltroni — La narrazione cinematografica ha consentito di avvicinarsi a Berlinguer molto più di quello che avrebbero fatto un saggio o un convegno». I vecchi si sono commossi, «hanno ritrovato le emozioni di una generazione», i giovani hanno «percepito e collocato nel tempo» la grandezza del politico. Operazione di memoria per la memoria: «Sono passati 30 anni e 30 anni sono un ciclo della storia. Non ha alcun senso chiedersi cosa avrebbe fatto Berlinguer oggi. Per me Enrico Berlinguer finisce con quelle parole pronunciate a Padova, in piazza della Frutta».

Repubblica 23.10.14
Monsignor Oliveri. Sotto il suo episcopato, che dura da 25 anni, si sono succeduti anche abusi sessuali e indagini per pedofilia
Albenga, preti playboy e parroci nudi sul web
di Massimo Calandri


ALBENGA «Liberaci dal male», mormora monsignor Mario Oliveri dall’altare della cattedrale di San Michele Arcangelo. E sulla fronte gli s’allunga una ruga profonda: dolore, inquietudine. Amen, signor vescovo: ma è proprio vero che con tutti questi preti peccatori, Papa Francesco ha deciso di “commissariare” la sua diocesi? «Non voglio parlarne. Non è il momento», taglia corto. Dopo un quarto di secolo da indisturbato padrone di casa, Oliveri tra pochi giorni dovrà condividere il palazzo vescovile di Albenga con un altro prelato. Un “amministratore apostolico” scelto da Bergoglio per aiutarlo a reggere il peso dei troppi scandali delle sue parrocchie: sacerdoti condannati o indagati per pedofilia, altri che in processione corteggiano le fedeli più carine, parroci che posano nudi su Facebook o per siti gay, che svuotano le cassette delle elemosine e se la danno a gambe, che palpeggiano turiste adolescenti sul lungomare. Per non parlare di quelli che sfoggiano tatuaggi, fanno i barman nei locali notturni, organizzano giri di prostituzione. No, non è una barzelletta. È un rosario di nefandezze che fa due volte impressione, anche perché la diocesi di Albenga-Imperia è piuttosto modesta. Negli ultimi anni le procure hanno aperto decine di indagini e davvero ci deve essere qualcosa di orribile, se anche il nunzio apostolico Adriano Bernardini è tornato in Vaticano scuotendo la testa, dopo aver indagato per alcuni giorni.
Dicono che l’«inquisitore» Bernardini sia stato mandato da Papa Francesco all’inizio dell’autunno proprio quando il vescovo ha avuto un malore celebrando la messa -, ma è possibile che le cose siano ancora più delicate. Perché il nunzio apostolico di solito si muove quando un tribunale comunica alla Santa Sede l’intenzione di aprire un fascicolo su di un vescovo. Monsignor Oliveri indagato? La procura di Savona, che è capoluogo della provincia, smentisce. Però non esclude che possa essere stata presentata una denuncia nei suoi confronti altrove. Brutta storia.
«Bugie. Cattiverie della gente. Il vescovo nessuno lo manderà via. Se ne andrà lui da solo, vedrete. Gli manca poco alla pensione», spiega un parrocchiano. Settantuno anni, Oliveri da giovane sacerdote aveva intrapreso una carriera “diplomatica” tra Parigi e Londra. Ma qualcosa è andato storto, perché nel ’90 lo hanno nominato vescovo ad Albenga e da lì non si è più mosso. Era stato compagno di studi di Bernardini, che pare non sia in buonissime relazioni con Bergoglio (si erano incrociati a Buenos Aires nel 2003: sparlano che il nunzio giocasse a tennis con l’ex presidente Menem, poi condannato per traffico d’armi). Però la relazione di Bernardini al termine della visita non deve essere stata lusinghiera, se adesso arriva un “ausiliario” che presto sarà nominato vicario generale. Cosa ha scoperto?
Intanto, gli è bastato leggere sui giornali i resoconti di indagini e processi. Don Luciano Massaferro, parroco di Alassio, condannato a 7 anni e 8 mesi per abusi sessuali nei confronti di una chierichetta, difeso strenuamente dal vescovo durante l’indagine. Silvano De Matteis, parroco a Diano San Pietro, accusato da un capitano di porto di averne corteggiato la moglie durante una processione. Don Cesare Donati, parroco di Bastia d’Albenga, che prima viene destituito con l’accusa di avere una compagna - il suo posto è preso da un prete che si è fatto fotografare nudo su di un sito gay -, poi dice che officerà nelle frazioni ma finisce a fare il barman. Padre Alfonso Maria Parente, già protagonista al festival di Sanremo, che fugge con la cassa della parrocchia di Pairolo. E fa spazio a don Juan Pablo Esquivel, che vive con un amico e raccontano appassionato di culturismo, già ricoverato per mononucleosi («Chi lo avrà baciato?», era il tormentone dei fedeli), famoso per le sue invettive contro le “arpie insoddisfatte”. Un link che rimanda a don Juan è presente anche sulla pagina facebook del vescovo Oliveri. E su Facebook c’è finito puree don Gabriel Viorel Irla, parroco di Poggi di Imperia: nudo, naturalmente. Alcune delle tante storie di cui Bernardini ha preso nota. Ma il resto?
Fervente tradizionalista liturgico, monsignor Mario Oliveri nel 2008 ha celebrato in cattedrale una messa in latino, tre ore e mezza di cerimonia. Nei suoi post sui social network evoca spesso e volentieri il Pontefice “Benedictus XVI”. Cui era molto legato anche il cardinale Domenico Calcagno, che Bergoglio ha allontanato di recente dallo Ior. Calcagno è stato accusato di aver coperto diversi casi di pedofilia nella Curia di Savona. Dove era stato per 5 anni vescovo, prendendo il posto nel 2003 di quel monsignor Dante Lanfranconi a sua volta indagato due anni fa dalla procura savonese per aver coperto casi di pedofilia e abusi sessuali nella diocesi. Che confina con quella di Albenga. Oliveri e Lanfranconi si erano insediati insieme, un quarto di secolo fa. Luisa Bonello, medico savonese, a febbraio aveva consegnato a Papa Francesco un dettagliato rapporto sulle violenze commesse dai sacerdoti della zona, denunciando la “connivenza” dei vertici. «Liberaci dal male», gli aveva chiesto. Si è uccisa il mese scorso. La magistratura ha aperto un’inchiesta per “istigazione al suicidio”.

il Fatto 23.10.14
Albenga. Commissariata la diocesi “allegra”
di Caterina Grignani


La diocesi di Albenga-Imperia verrà “commissariata”. L’arcivescovo Adriano Bernardini sarà inviato dalla Santa Sede nella diocesi più chiacchierata d’Italia. Lo accoglierà monsignor Mario Oliveri (nella foto), classe 1944, vescovo dal 1990. La comunità negli anni ha segnalato, con lettere e petizioni a Roma, i comportamenti dubbi del clero ligure. Dall’ex fotomodello ordinato sacerdote ai sacerdoti che dismesso l’abito frequentavano locali gay oltre confine. Francesco Zanardi, presidente della Rete L’Abuso Onlus che offre assistenza legale e psicologica a chi denuncia molestie e abusi, ne ricorda alcune ricorda “don F., il parroco che nascose l’ex prete di Gordola condannato per atti sessuali con minori, tentati e consumati. E lui stesso, don F., fu rinviato a giudizio perché tentò di scoraggiare una mamma a denunciare gli abusi subiti dalla figlia”. E ancora: “La Curia di Albenga ha difeso don Renato Giaccardi, parroco condannato per prostituzione minorile”. Il vescovo Oliveri ha sempre motivato l’accoglienza di certi soggetti con la misericordia e nel 2013, 10 sacerdoti della Diocesi di Albenga-Imperia hanno contestato gli attacchi “ingiustificati” della stampa, che hanno rovinato “senza riscontri molte reputazioni”. Voci o no, arriverà il nunzio controllore da Roma. L’arcivescovo Adriano Bernardini dopo essere stato in Bangladesh, Laos, Brunei e Argentina, sbarcherà ad Albenga. Con Oliveri, compagno di seminario, non è mai andato d’accordo.

La Stampa 23.10.14
Stragi naziste, la Consulta apre la strada ai risarcimenti
Giudicata incostituzionale la norma che recepisce la sentenza dell’Aja sull’immunità della Germania: lede i diritti inviolabili dell’uomo e il diritto di difesa
Un deportato: “Volevo fosse affermato un principio, passati 70 anni, ma non posso dimenticare”

qui

il Fatto 23.10.14
70 anni per la giustizia
“La Germania ripaghi i crimini nazisti”
di Mariateresa Totaro


Per una volta potrebbe essere la Germania a pagare. Anzi a risarcire le vittime italiane del nazismo. La Consulta ha dichiarato incostituzionali le norme che impediscono di agire in giudizio contro la Germania perciò, le vittime italiane dei crimini del nazismo, potranno chiedere e ottenere i risarcimenti. Secondo la Consulta “Il principio dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati, generalmente riconosciuto nel diritto internazionale, non opera nel nostro ordinamento, qualora riguardi comportamenti illegittimi di uno Stato qualificabili e qualificati come crimini di guerra e contro l’umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona garantiti dalla Costituzione”. La sentenza afferma di fatto che si impediscono l’accertamento giurisdizionale della responsabilità e dell’eventuale diritto al risarcimento dei danni subiti dalle vittime, si violano gli articoli 2 e 24 della Costituzione.
LA DECISIONE ARRIVA dopo decenni di polemiche, processi e battaglie legali. A portare la questione giuridica all'attenzione della Consulta è stato l’avvocato Joaquim Lau, che segue la vicenda fin dagli anni Novanta. “Si è seguita la strada della giustizia. La sentenza della Corte Costituzionale è una lezione di umanità per tutti. Questa sentenza riconosce che il cittadino può ancora avere una voce contro odiosi crimini di guerra”, ha commentato soddisfatto Valter Merazzi, presidente del Centro studi “Schiavi di Hitler”.
“Una sentenza importantissima e molto attesa sia dalla magistratura militare, sia dai familiari delle vittime. Credo possa riaprire la dolorosa pagina dei risarcimenti negati ai familiari delle vittime del nazismo e anche agli internati militari italiani”, secondo il procuratore militare di Roma, Marco De Paolis, il magistrato che ha istruito il maggior numero di processi a criminali di guerra nazisti per le stragi compiute in Italia.
Il 12 agosto scorso, in occasione dell'anniversario dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema (in cui vennero uccisi 560 civili per mano delle SS), la corte federale tedesca aveva annullato la decisione della procura generale di Stoccarda di non procedere contro l'imputato Gherard Sommer, ex ufficiale dell'esercito tedesco, condannato in Italia. Una decisione che aveva lasciato ben sperare.
Oggi, oltre alle condanne, le vittime potranno pretendere un risarcimento, che resta comunque simbolico rispetto alla gravità della tragedia vissuta.
E la sentenza potrebbe avviare una reazione a catena da parte di altri paesi europei. Primo fra tutti la Grecia, dove da tempo si discute in tema di crimini nazisti. Con la crisi politica ed economica, quest'estate i greci erano scesi in piazza, per il 70° anniversario del massacro di 218 persone nel villaggio di Distomo, chiedendo “indennizzo immediato per le vittime dei crimini nazisti greci”. Secondo un gruppo di lavoro greco, l’importo del risarcimento ammonterebbe a circa 162 miliardi di euro. Cifra che la Germania potrebbe essere alfine costretta a pagare.

Repubblica 23.10.14
Consulta: “Le vittime del nazismo potranno chiedere risarcimenti”
di Ma. Bo.


FIRENZE Le vittime del nazismo possono chiedere risarcimenti alla Germania, le norme che lo vietano violano la Costituzione. Lo ha sancito ieri la Consulta, stabilendo che «il principio dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati, generalmente riconosciuto nel diritto internazionale, non opera nel nostro ordinamento qualora riguardi comportamenti illegittimi di uno Stato qualificabili e qualificati come crimini di guerra e contro l’umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona e garantiti dalla Costituzione». È un verdetto che per i sopravvissuti alle stragi naziste, e per i loro eredi, riapre la strada delle richieste di risarcimento, sbarrata in passato da norme e sentenze di segno opposto, come quella della Corte internazionale dell’Aja che nel 2012 aveva decretato la carenza di giurisdizione del giudice italiano.
È stato invece, successivamente, il tribunale di Firenze a esprimere dubbi di liceità delle norme che negano la giurisdizione del giudice italiano e a rinviare la questione alla Corte Costituzionale. Che l’ha trattata in udienza pubblica a palazzo della Consulta il 23 settembre scorso. Ieri la decisione, capace di rasserenare gli ultimi sopravvissuti alle stragi. «Sono contentissimo, è un passo avanti», è stata la prima reazione di Duilio Bergamini, 94 anni a gennaio, di Ferrara, una delle vittime dei lager nazisti, che — assistito dall’avvocato Joaquin Lau — ha contribuito a portare la querelle alla Consulta e che adesso ottiene soddisfazione. «I soldi? Il risarcimento? non mi interessano, non ci penso — dice Bergamini — Penso piuttosto a quel mio amico ucciso dai tedeschi a tradimento, a bruciapelo. Sono passati 72 anni e lo ricordo come fosse oggi ».
Una sentenza «importantissima» e «tanto attesa» ha definito il verdetto della Corte Costituzionale il procuratore militare di Roma, Marco De Paolis, il magistrato che ha istruito il maggior numero di processi a criminali di guerra nazisti per le stragi compiute in Italia. «Credo che possa riaprire la dolorosa pagina dei risarcimenti negati ai familiari delle vittime del nazismo e anche agli internati militari italiani. Sentenza importantissima, la comunità internazionale non potrà ignorarla». ( ma. bo.)

il Fatto 23.10.14
Firme false sulla risoluzione, ma al Senato va bene lo stesso
Per evitare il voto segreto su una mozione la maggioranza rifila al Parlamento un testo con finte sottoscrizioni dei capigruppo
di Carlo Tecce


Quello che è accaduto ieri mattina a Palazzo Madama non sarà ricordato per i 37 minuti di Matteo Renzi, un vago discorso su economia e ambiente, senza neppure replicare ai senatori prima di partire per il Consiglio europeo di oggi a Bruxelles. Ma perché il Senato ha sancito che si possono proporre e votare e poi serenamente approvare risoluzioni falsificate perché falsificate sono le firme in calce. Così Renzi, già pronto per il secondo giro alla Camera e per una colazione di lavoro al Quirinale, se n’è potuto andare presto, agevolato da una “finta” votazione che ha raccolto 152 sì, ben sotto la soglia di sopravvivenza per il governo. E chissà se ha ringraziato i cinque senatori coinvolti, che poi sono i cinque capigruppo di maggioranza, Luigi Zanda (Pd), Maurizio Sacconi (Ncd), Karl Zeller (Svp), Lucio Romano (Pi) e Gianluca Susta (Sc).
MERCOLEDÌ 15 OTTOBRE, appena saputo dell’intervento di Renzi al Senato, negli uffici di Palazzo Madama è arrivato un testo stringato con gli autografi fasulli di Zanda&C.
I capigruppo avevano fretta e dunque non si sono presi la briga di utilizzare la penna (neanche uno su cinque), perché dovevano blindare la visita di Renzi in un’aula sempre pericolante, anticipare i colleghi pronti a imboscate e pure il regolamento: la risoluzione è stata consegnata senza che fossero in programma il dibattito e la conseguente votazione. Si tratta di lungimiranza, almeno.
Ripescando gli autografi sempre di Zanda&C. all’ordine del giorno per lo slittamento del pareggio di bilancio al 2017 – passato la scorsa settimana grazie a Luis Orellana, ex Cinque Stelle, e ai dissidenti dem – ieri il Fatto ha dimostrato che le firme per la risoluzione pro Renzi sono palesemente farlocche. Mentre il presidente di turno Linda Lanzillotta (Sc) stava per ordinare la votazione elettronica sul documento di Zanda&C, il leghista Roberto Calderoli è intervenuto sventolando il foglio apocrifo: “Non possiamo esprimerci, l’assemblea non può dire sì o no su questa evidente violazione. Qui ci sono firme false. Non ho capito se mi sta dicendo che la partenità di queste firme è stata accertata o procederà in seguito”. Lanzillotta, un po’ in imbarazzo: “La Presidenza presume l’autenticità fino a prova contraria. Non possiamo fare una perizia calligrafica, questa è la prassi. I diretti interessati non hanno contestato”. Calderoli ha invitato i cinque capigruppo a spiegare: silenzio. Non è servito a nulla lo spettacolo offerto da Salvatore Di Maggio (Pi), applaudito da mezzo emiciclo: “Truccati sono i regolamenti parlamentari che animano la nostra discussione; truccate sono le riforme che sono al di là dal realizzarsi e che vengono sempre annunciate; truccati, anzi, truccatissimi sono i conti del nostro Stato! Ma che alla fine fossero truccate anche le carte che noi guardiamo in quest’aula vuol dire, e lo segnalo alla sua presidenza, che se lei dovesse avallare questo comportamento, truccate possono essere domani le carte nei tribunali, nelle prefetture, nelle caserme”.
ALLORA, impassibile, Lanzillotta ha letto la risoluzione: “Il Senato, udite le comunicazioni del presidente del Consiglio relative alla riunione dei capi di Stato e di governo del 23 e 24 ottobre a Bruxelles, le approva”. Calderoli non s’arrende: “La questione non è più oggetto di questa sede”. La speranza dei leghisti è che la diatriba sia risolta dai magistrati. Con una precisazione di cinque secondi cinque, il ministro Maria Elena Boschi, che ha parlato in sostituzione di Renzi, ha accolto la mozione trappola di Calderoli (213 sì), pronto a proporre lo scrutinio segreto se il governo l’avesse bocciata. Che cosa conteneva la proposta di Calderoli? Lo racconta stupito lo stesso leghista: “La paura di cadere al Senato è talmente forte che i colleghi, senza neanche accorgersene, hanno votato la mia proposta, di forte marca leghista, che ribadisce l’estradizione: a casa mia significa respingimento e rimpatrio dei clandestini”.
Al resto del lavoro, ci hanno pensato Zanda&C. E anche questa pratica è risolta. Tace Zanda, tace Sacconi e il biellese Susta dice che non vuole dire nulla. Il centrista Romano, contattato al telefono, prova a fornire una versione convincente: “Vi è chiara la vicenda, no? ”. In che senso? “Io posso soltanto aggiungere che mi riconosco in quella firma”. Insomma, chi ha plagiato Romano quantomeno s’è impegnato, è stato bravo. Oppure ha chiesto il permesso al titolare dell’autografo.

Corriere 23.10.14
La Ragioneria e quei conti che non tornavano
I dubbi sulle coperture indicate dal governo
Il lungo esame, poi il vertice decisivo per le correzioni
di Mario Sensini


ROMA Forse, come dice qualcuno al ministero dell’Economia, dipende dal fatto che Pier Carlo Padoan ha scelto di difendere il confine esterno, di coprire il fronte con l’Unione europea. Il ministro, del resto, ha sempre mantenuto distinto il suo ruolo tecnico da quello politico di Matteo Renzi, cui ha lasciato completamente mano libera nella messa a punto della legge di bilancio. Anche se le cose non sono filate in maniera molto liscia.
Il via libera della Ragioneria dello Stato, che deve certificare i numeri della manovra, e verificare la quadratura del bilancio con le nuove entrate e le nuove uscite, è arrivato solo ieri sera, esattamente una settimana dopo l’approvazione formale del governo. Ed è arrivato, sembra, dopo parecchi rimaneggiamenti, in certi casi dovuti alla stima sbagliata del costo di alcune misure, in altri all’incertezza sulle coperture, cioè sulla reale efficacia dei provvedimenti con i quali vengono recuperate le risorse per finanziare il piano di rilancio.
Ieri mattina si sono visti al Tesoro il ministro Padoan, il viceministro Enrico Morando, tutti i sottosegretari, i tecnici del Gabinetto del ministro, e il Ragioniere generale, Daniele Franco, per un’ultima verifica sui numeri. Nell’occasione Franco non ha fatto rimostranze, ma tutti i presenti hanno avvertito il disagio di chi si è trovato davanti all’ultimo minuto — dopo che la manovra era lievitata da 18, a 23, e poi a 35 miliardi nel giro di 24 ore, proprio mentre il ministro Padoan era impegnato in Lussemburgo — dei numeri anche bizzarri.
Come quelli sui costi del bonus bebè di 80 euro alle neo mamme, valido per tre anni, saltato fuori dalla manovra domenica, tre giorni dopo il via libera, con l’annuncio di Matteo Renzi a Canale 5 . A Palazzo Chigi hanno stimato un costo, e provveduto a trovare le relative coperture, per 500 milioni l’anno nel prossimo triennio. Peccato che il bonus, per come è scritta la norma, costi 500 milioni nel 2016, un miliardo nel 2016, uno e mezzo l’anno dopo, poi ancora uno nel 2018 e 500 milioni nel 2018.
A conti fatti sono tre miliardi di differenza, mica pochi. E così, a posteriori, è scattato il tetto, fissato a 90 mila euro di reddito lordo annuo familiare. Problemi analoghi ci sarebbero anche sulla decontribuzione per i nuovi assunti a tempo indeterminato. Lo stanziamento appare esiguo, si dice, rispetto a quanto potrebbe costare effettivamente lo sgravio dei contributi. Altre perplessità ci sarebbero sulle coperture legate al recupero dell’evasione, tanto che fino a ieri non si escludeva di sostituirle con un più classico e affidabile aumento delle accise.
Solo con l’arrivo della manovra alla Camera si capirà esattamente la portata delle modifiche concordate con la Ragioneria rispetto al testo approvato dal governo, anche se gli aggiustamenti sarebbero stati fatti cercando di non rimettere in discussione la portata complessiva della manovra di bilancio. Come è successo con il bonus, che poteva essere cassato, ma è stato mantenuto in vita anche se un po’ ridimensionato.
In questa fase, secondo alcune indiscrezioni, ci sarebbero stati anche problemi di comunicazione tra la Ragioneria e la sua luogotenenza a Palazzo Chigi, che tuttavia nessuno conferma. Anche se è chiaro che stavolta i canali istituzionali attraverso i quali tradizionalmente si sviluppa la messa a punto della legge di bilancio sono andati completamente in corto circuito.

Corriere 23.10.14
Italia e Ue, le incomprensioni e la grande sfida sul deficit
Le parole del premier e l’irritazione dei tecnici europei
di Luigi Offeddu


BRUXELLES Nel Belgio che è la patria del cioccolato, esistono cioccolati neri come l’inchiostro della seppia, e altrettanto amari perché contengono il 70-80% di cacao. Ieri ha avuto un po’ lo stesso sapore, in qualche stanza della Commissione europea, il primo commento di Matteo Renzi alla lettera (non ancora) inviata da Bruxelles sul piano di Stabilità italiano. Documento di «genere letterario emblematico», e meritevole dell’auspicio del nostro primo ministro: «Vorrei che le nuove istituzioni europee mostrassero un po’ più di coraggio e orgoglio per la nostra appartenenza a questa comunità..». Scesa la notte, la lettera non era ancora partita da Bruxelles e nessuno l’aveva vista. Ma le parole di Renzi che la pre-commentavano, erano state lette dagli esperti che in quelle ore passavano al setaccio il piano di Stabilità italiano, e seguivano le trattative con Roma. Mentre, proprio da Roma, arrivavano in tempo reale voci inquietanti: la notizia del ritardo del via libera da parte della Ragioneria generale dello Stato, i dubbi sulla copertura finanziaria del piano. Era come se qualcuno giocasse a ping-pong fra le due capitali, riportando le parole più elettriche. Qualcuno che avesse buoni legami in entrambi le città. A Bruxelles giravano anche due nomi: Antonio Tajani e Franco Frattini. Tajani, oggi eurodeputato ed ex commissario Ue all’Industria, ha smentito: «Non ho parlato con nessuno, e poi in questi giorni sto sempre a Strasburgo, non a Bruxelles». Non è stato invece possibile avere un commento da Frattini, in serata irraggiungibile al telefono.
Ad ogni buon conto, l’invito di Renzi che chiede alla Ue di «avere un po’ più di coraggio», o il suo monito «niente diktat esterni», sono stati subito deposti dalle agenzie di stampa sulle scrivanie della Commissione: come tante altre parole che negli anni hanno composto e alimentato un certo vecchio malumore dell’Ue verso l’Italia. Perché sarà certo un caso, ma da altri Paesi — Francia a parte — parole così arrivano assai raramente.
È un malumore, quello europeo verso l’Italia, sempre smentito ufficialmente, e sempre realmente esistito nei fatti e negli atteggiamenti, fin dai tempi bruxellesi di Silvio Berlusconi. È un umor grigio alimentato da queste frasi e anche da certe sinuosità della politica italiana, per Bruxelles a volte indecifrabile. Esempi più citati: l’alleanza, vera o finta che fosse, proclamata solo pochi mesi fa fra Matteo Renzi e François Hollande per rilanciare il tema della crescita, e poi sbiadita, perdutasi per strada, mentre Hollande si rifugiava tra le forti mura di Berlino; o il rapporto caloroso fra l’Italia e la Russia, che almeno nei primissimi tempi dell’era Mogherini ha fatto diffidare vari Stati Ue, gli stessi che considerano il Cremlino un’entità pericolosa o nemica. Perfino il tema delle sanzioni contro la Siria è stato per qualche ora avvelenato da pettegolezzi britannici che attribuivano a Roma la volontà di «rompere il fronte» della solidarietà contro Assad: poi Roma ha votato con tutti gli altri Stati, ma intanto un dubbio ulteriore era stato seminato.
Ora che si spalancano pentoloni roventi come quelli del deficit o del debito pubblico, i malumori e le diffidenze contano forse ancor di più. Negli ambienti della Commissione si dice che, data ormai quasi per scontata la lettera con la richiesta di chiarimenti a Palazzo Chigi, questa non si trasformerà in una vera e propria «bocciatura» del governo italiano: José Manuel Barroso, presidente uscente della Commissione, potrebbe forse anche ammetterla, ma dopotutto è già entrato negli «8 giorni» che precedono la fine del mandato; mentre Jean-Claude Juncker, suo successore, teme che una caduta di Renzi possa aprire anni di vuoto a Roma come a Bruxelles. La destabilizzazione per mancanza di alternative; mentre lui, Juncker, avrebbe tutto l’interesse a trovarsi davanti un interlocutore conosciuto e non il caos, nei prossimi cinque anni di mandato. E così, dicono, la pensa anche una signora che abita a Berlino.

Corriere 23.10.14
il rischio della manovra. È il deficit di credibilità
di Daniele Manca


In quello che sta accadendo attorno alla bozza della legge di Stabilità c’è molto poco di ragionevole. Si è già detto, scritto e riconosciuto del coraggio che è stato necessario per scrivere una Finanziaria incentrata sulla parola «crescita».Nei prossimi giorni l’Europa farà domande, esprimerà indicazioni e giudizi. Ci troveremo a discutere di percentuali e percorsi di risanamento più o meno rispettati. Ma la vera sfida sarà combattere l’aumento di un parametro ben più insidioso, pericoloso e in drammatico aumento: il deficit di credibilità.
Ricevere una richiesta di chiarimenti è già indizio di inosservanze più o meno gravi delle regole che si è data l’Unione Europea. Il governo italiano eccepirà e fornirà delucidazioni rendendo possibile il via libera. Ma non sarà una promozione.
Sulla spinta di una crisi che stava mettendo a rischio la stessa Europa, nel novembre 2011 si decise di cambiare le regole per i bilanci dei Paesi Ue. Nel riscrivere le norme era chiaro che da quel momento Bruxelles non si sarebbe impiccata ai decimali di punto di questo o quel parametro.
Il governo di Matteo Renzi ha messo l’asticella del deficit al 2,9%. Ha scelto di camminare su una lastra di ghiaccio finissima. Potremo usare tutta la flessibilità che ci è permessa dal fatto di restare sotto il tetto del 3%. Ma impegnandoci a rispettare altri parametri.
La bozza della legge di Stabilità è arrivata alla Ue il 15 ottobre, con quella francese, 5 giorni dopo quella tedesca, 13 dopo la finlandese. Particolari ininfluenti forse. Ma a distanza di una settimana a Bruxelles sanno che il Quirinale ha ricevuto la bozza solo ieri. Che la Ragioneria dello Stato avrebbe messo in discussione alcune coperture. E che i numeri potrebbero cambiare.
Il via libera, se arriverà, più che sulle cifre sarà sugli impegni e quindi politico. Ma lo spettacolo di queste ore a quanto avrà fatto salire il deficit di credibilità? E quanto ci costerà? Le altalenanti piazze finanziarie sono sempre pronte ad abbandonare chi non rispetta i vincoli che si è dato, cambia numeri o mostra incertezza nelle scelte. E sono i mercati che acquistano i titoli del debito italiano, non Bruxelles.

Repubblica 23.10.14
Daniel Gros
“Roma e Parigi sullo stesso piano ma voi rischiate molto di più nonostante il bilancio corretto”
di Eugenio Occorsio


ROMA . «La lettera della commissione è un atto dovuto. Per ora si chiedono solo chiarimenti, e Francia e Italia sono ancora sullo stesso piano. Il secondo stadio sarà quello più importante, e cioè l’affermazione o meno che qualcosa non va, e qui la posizione dell’Italia comincia un po’ a scivolare nei confronti della Francia. Il terzo stadio è l’apertura della procedura d’infrazione, e scommetto che non ci si arriverà per la Francia. Sull’Italia non mi sbilancio». Daniel Gros, direttore del Center for European Policy Studies di Bruxelles, è un economista tedesco del fronte anti-austerity: sostiene la posizione italiana e francese verso il rigore della Germania ma ci tiene a fare professione di realismo. «L’Italia sarà anche meglio posizionata sul fronte della correttezza di bilancio, ma di fatto rischia di più in sede comunitaria».
Perché?
«Guardiamo alla Francia. D’accordo, ha sforato il deficit e per di più su questo ha sfidato l’Europa. Però, ci piaccia o no, è sempre un Paese grande e forte, una potenza nucleare, e ha una relazione speciale con la Germania che malgrado tutto tiene anche se non è più come ai tempi di Kohl e Mitterrand. Ma ora ha un’altra insperata arma: Marine Le Pen. Gli antieuropeisti fanno paura a tutti, soprattutto all’Europa».
Non è un incredibile paradosso?
«Certo, però è realpolitik.
Guardate che se l’Italia avesse Grillo ante portas sarebbe anch’essa avvantaggiata dal fattore- paura. Non vi stupite. Detto questo, l’Italia potrà far valere il fatto che bene o male sta sotto il 3% sia pure di pochi centimetri. È l’unico dato incontrovertibile e preciso. Allora bisognerà studiare con la massima attenzione l’atteggiamento della nuova Commissione, perché essa avrà un fortissimo potere discrezionale sugli appunti e le eventuali sanzioni contro il vostro Paese».
Nella relazione privilegiata Germania-Francia rientra l’incontro dell’altro giorno fra i ministri delle Finanze dei due Paesi con la promessa tedesca di fare finalmente investimenti pro-crescita?
«Certo, però non bisogna farsi illusioni. Il ministro tedesco Gabriel, non a caso leader della Spd, ha promesso investimenti aggiuntivi in gran quantità, ma ha volutamente omesso di dire due cose: la Germania non ha più quel grande surplus, anzi lo ha ridotto a zero vista la crisi dei partner, con cui finanziare spese pubbliche. Dovrebbe finanziarle con le tasse, ma allora non si vede quale sarebbe il contributo alla crescita visto che le tasse, come sappiamo, mortificano qualsiasi spinta ai consumi. Secondo, la maggior parte degli investimenti pubblici non è appannaggio dello Stato bensì dei comuni e dei Laender, e convincere le autorità locali potete capire quant’è difficile. Resta l’ipotesi di incentivi e sgravi per i privati, però anche in questo caso costringere per decreto gli industriali tedeschi a investire in nome dell’Europa non è un gioco da ragazzi».

il Fatto 23.10.14
Lo Sblocca Italia a pezzi, ma resta il peggio
Il Tesoro cassa decine di emendamenti approvati senza copertura, però le porcate volute dal governo ci sono tutte
di Marco Palombi


Decine di emendamenti senza copertura. Questo è il risultato dello screening della Ragioneria generale dello Stato sulle modifiche al decreto Sblocca Italia approvate dalla commissione Ambiente della Camera nella notte di venerdì. Micro e macro-norme, magari anche giuste, infilate in tutta fretta nel provvedimento senza aspettare i pareri del Tesoro e persino della commissione Bilancio. Risultato: ieri il provvedimento, inviato in aula la scorsa settimana, è dovuto tornare indietro per essere depurato delle leggi di spesa non coperte per centinaia di milioni di euro.
DENTRO c’è un po’ di tutto. Bocciato, ad esempio, anche uno dei pochi emendamenti del Movimento 5Stelle adottati dalla maggioranza: la riduzione dell’Iva al 4% per le ristrutturazioni che beneficiano dell’ecobonus e del bonus casa pagato con l’aumento al 10% di quella per i nuovi immobili (che pesa sui costruttori). La manovra non è bilanciata, dice la Ragioneria, nel senso che lo sgravio costa di più dell’aumento di tasse: le associazioni dei palazzinari, ovviamente, festeggiano. La mannaia del Tesoro è caduta pure su tutta una serie di provvedimenti di spesa sparsi per l’intera penisola: niente da fare, per dire, per l’Autostrada Cisalpina, progetto della regione Emilia Romagna che non sarà pagato dallo Stato nonostante l’emendamento della relatrice Chiara Braga (Pd). Stesso destino per l’Autostrada Ferroviaria Alpina, quella del Fréjus, roba di Fs per cui erano stati messi da parte circa 100 milioni di qui al 2025.
Bocciato pure la modifica al sistema di finanziamento della strada Telesina (nel beneventano) e dell’Autostrada Termoli-San Vittore, arterie - dicono in Parlamento - care al sottosegretario sannita alle Infrastrutture Umberto Del Basso De Caro. Neanche i provvedimenti per la ricostruzione de L’Aquila e i 50 milioni in due anni per l’Emilia Romagna sono riusciti a sfuggire al vaglio dei tecnici del Tesoro. Anche i signori delle autostrade - che comunque hanno incassato il regalone governativo della proroga al 2038 delle concessioni - hanno visto cassato il regalino proposto da Ncd sulla defiscalizzazione degli investimenti. Bocciato a metà, infine, l’aumento del Fondo per le emergenze di palazzo Chigi: avrà 50 milioni in più nel biennio anziché cento.
Tutto questo non è stato senza effetto. Come detto, infatti, il decreto non è nemmeno approdato in Aula che è dovuto tornare in commissione: prima la Bilancio, ieri sera, ha formalizzato le sue richieste di stralcio delle norme scoperte e poi l’Ambiente, stamattina, dovrà rivotare il nuovo testo “depurato” per l’assemblea di Montecitorio. Sempre oggi, infine, il governo porrà la solita fiducia su un testo comunque pessimo: del favore ai concessionari delle autostrade s’è detto, ma restano pure le semplificazioni sugli appalti (per Bankitalia c’è un “rischio corruzione”), i poteri fuori controllo al ministero delle Infrastrutture sul via libera alle opere in aree archeologiche (Metro C di Roma), la svendita del demanio pubblico, lo status di “opere strategiche” a trivelle e inceneritori (per cui il Tesoro potrà usare pure 20 miliardi di Cdp), la distruzione dei vincoli paesaggistici e molto altro ancora.
Ora, peraltro, il Senato non avrà neanche il tempo per analizzare a fondo questo miscuglio di norme indigeribili: la Camera lo approverà in via definitiva la prossima settimana e lo Sblocca Italia scade l’11 novembre. Un paio di settimane al massimo e senza poter fare modifiche per non disturbare il manovratore. Il verso è sempre lo stesso, ma lo si prende con molta più velocità.

Repubblica 23.10.14
Premio di maggioranza alla lista?
L’ultimatum del premier “Silvio decida subito o mi rivolgo ai grillini”
di Francesco Bei, Carmelo Lopapa


ROMA Riapre il doppio forno. Dopo mesi di silenzio reciproco, Matteo Renzi ha deciso che è arrivato il momento di ristabilire un canale di comunicazione con i grillini anche sulla legge elettorale. Di fronte alla melina di Forza Italia sull’Italicum e all’indecisione di Berlusconi, il premier ha capito che deve sparigliare. «Se vogliamo chiudere questa partita entro l’anno dobbiamo parlare con tutti», è la linea dettata da Renzi. Se ne è parlato anche ieri nel vertice a Palazzo Chigi dove si è stabilito l’obiettivo di tirare fuori il prima possibile la legge dalle secche della prima commissione di Palazzo Madama. E di fronte all’obiezione di Anna Finocchiaro — «È inutile iniziare la discussione se non sappiamo che cosa vuole Berlusconi » —, il capo del governo ha replicato tranquillo: «Con lui ci parlerò io. Ma se dobbiamo andare sul premio di maggioranza alla lista è giusto anche sentire gli altri. Si decida presto, basta temporeggiare oppure ci rivolgeremo altrove». Ovvero proprio a quei Cinque stelle con i quali il dialogo è interrotto dal giugno scorso, dopo la riunione in streaming tra Renzi e Di Maio.
Che il premier usi i pentastellati come grimaldello tattico per superare la titubanza del Cavaliere e indurlo a più miti consigli è probabile. Il fatto è che, se davvero il Pd arrivasse a proporre un premio di maggioranza al singolo partito anziché alla coalizione (come previsto dall’attuale versione dell’Italicum), c’è la concreta possibilità che l’offerta non venga lasciata cadere. Anzi. «Certo, sarebbe un miglioramento — ammette l’esperto M5S Danilo Toninelli — ma non basterebbe a farci votare a favore dell’Italicum. Servirebbero anche altre modifiche, a partire dall’abbassamento delle soglie di sbarramento all’introduzione delle preferenze ». Il fatto è che proprio questi punti sono nel menù anche di Ncd e della minoranza Pd. Per cui non è impensabile che si possa saldare un fronte vasto che escluda Forza Italia e punti ad approvare una riforma elettorale molto diversa da quella partorita al Nazareno. Tanto è vero che ieri mattina, nella riunione con Renzi e i vertici parlamentari del Pd, il ca- pogruppo Roberto Speranza (Areadem), ha messo le mani avanti: «Per me il capolista bloccato e le preferenze solo per gli altri candidati è un’ipotesi irricevibile. Rischiamo di ritrovarci una Camera con l’80 per cento di nominati dalle segreterie ». Una critica molto simile molto simile a quelli avanzata dai grillini.
Così, il rischio di essere isolato sulla legge elettorale ha iniziato a impensierire Berlusconi. Per la prima volta, anche Verdini lo ha invitato alla prudenza con Renzi, forte di una proiezione fresca di giornata sull’ipotesi di premio alla lista. Ultimi sondaggi alla mano, il gruppo di Forza Italia alla Camera sarebbe più che dimezzato: dagli attuali 70 a non più di 30 deputati, una Caporetto. L’ex Cavaliere in assemblea ha dovuto fare argine ai senatori impauriti. «Ma vi rendete conto o no che Renzi ci vuole portare al voto in primavera? Sta pure mettendo il bonus pannolino, più chiaro di così..», irrompe Augusto Minzolini: «Almeno non concediamogli la legge elettorale a lui più congeniale ». «Minzo, sei il solito str...» lo bolla sorridendo Berlusconi, che però invita alla calma: «Non gli regaleremo nulla, tratteremo». In ogni caso, chiarisce a fine incontro il capogruppo Paolo Romani, «Renzi si metta in testa che la riforma varrà solo per la Camera, che dunque sarà inutilizzabile per un eventuale voto anticipato e che comunque ci sarà molto da lavorare». Come dire, altro che approvazione entro fine anno. Per Berlusconi e i suoi c’è un precipizio elettorale da scongiurare a tutti i costi.

Corriere 23.10.14
Una confusione che alimenta il rischio di elezioni
di Massimo Franco


Matteo Renzi sostiene che un’eventuale lettera di richiamo dell’Unione Europea all’Italia non sarebbe una tragedia. Anzi, «è naturale» e non basterebbe per «parlare di bocciatura». Non è esattamente quanto sosteneva in passato. Ma è possibile che l’ottimismo derivi anche dal «sì» che ieri la Ragioneria generale dello Stato ha dato alla legge di Stabilità preparata dal governo: sette giorni dopo la sua presentazione; e dall’udienza che il premier e alcuni ministri hanno avuto ieri al Quirinale con Giorgio Napolitano in vista del Consiglio europeo di oggi e domani. Viene solo da chiedersi che cosa sia accaduto nel frattempo, e che idea ci si sia fatti a Bruxelles del ritardo tra versione non «bollinata» e testo definitivo della Legge. Il presidente del Consiglio è convinto che l’Europa stia parlando un linguaggio più italiano, perché si discute di investimenti.
La volontà è di fare apparire il semestre della nostra presidenza diverso dagli altri. Si tratta di un’ambizione sacrosanta, contraddetta da una confusione paradossalmente in aumento. Il caso della legge di Stabilità approvata in ritardo dalla Ragioneria ne è solo un esempio. Fa il paio con la riunione tra governo e Regioni, in subbuglio per i tagli decisi da Palazzo Chigi, prima data per annullata e poi riconvocata per questa mattina; e con le nuove ipotesi di riforma elettorale lanciate da Renzi, e bocciate dal suo principale interlocutore Silvio Berlusconi. Le opposizioni additano il premier come un moltiplicatore di tasse e di annunci.
E promettono fuoco e fiamme.
Non si vedono, tuttavia, minacce per la stabilità del governo. L’impressione, semmai, è che i troppi fronti aperti da Renzi stiano producendo esiti contraddittori; e mettano in tensione lo stesso patto del Nazareno con FI. Il consigliere berlusconiano Giovanni Toti lo definisce più o meno carta straccia, dopo che il premier ha parlato di un premio alla lista di un partito: un Pd dato vincente. In realtà, l’ex Cavaliere è più cauto e si limita a ribadire che la riforma del sistema elettorale va concordata tra Renzi e lui. Berlusconi sa, infatti, di non potersi permettere rotture col capo del Pd. In teoria, non conviene neppure al capo del governo.
Ma le aperture al Movimento 5 Stelle sull’elezione dei giudici costituzionali, frustrata da tre mesi di nulla di fatto, segnala una spregiudicatezza e una voglia di mani libere che FI teme. Il timore è che preluda a prove di intesa a oggi altamente improbabile. In grado di emergere, però, se aumentassero il caos e l’impossibilità di arrivare a risultati concreti sulla legge di Stabilità e su altre riforme. A quel punto, lo sbocco di un voto anticipato potrebbe quasi apparire il male minore, anche in assenza di un nuovo sistema elettorale; e cogliere il centrodestra impreparato come non è stato mai da anni. La strategia del Pd come «partito pigliatutto» è esplicita. E la riunione fiorentina di domani alla vecchia stazione della Leopolda serve a consacrarle tra i mugugni altrui. Quando Berlusconi si dice convinto che «non si andrà a votare prima del 2018», mira a rassicurare il proprio partito. In realtà, cerca di esorcizzare le urne.

La Stampa 23.10.14
Torna l’ombra del voto anticipato ma Napolitano resta contrario
di Marcello Sorgi


L’ombra delle elezioni anticipate continua ad aleggiare su un quadro politico che si fa di giorno in giorno più complicato. Sono sensazioni, più che fatti veri e propri, ed anzi tutti gli interessati continuano a smentire. Renzi ieri ha chiesto a un vertice del suo partito convocato ad hoc di accelerare l’iter per l’approvazione definitiva della legge elettorale, concepita con il premio di lista e non più di coalizione, nei termini in cui l’ha anticipata alla direzione del Pd. Il nuovo Italicum dovrebbe essere varato entro l’anno, superando lo slalom affollato di provvedimenti a cui le Camere sono sottoposte: prima il voto del Senato, poi un nuovo passaggio a Montecitorio per il sì finale. E poi? Fatta la legge, di solito si va a votare, presto o tardi, e più presto che tardi stando ai precedenti più recenti.
Da Forza Italia, l’altro contraente del patto del Nazareno che ha portato alla prima approvazione dell’Italicum, arrivano dei no ufficiali (ribaditi, ieri, dal capogruppo dei senatori Paolo Romani) e dei ni ufficiosi, come quello che lo stesso Berlusconi ha pronunciato nell’intervista di martedì sera al Tg5. In sintesi: l’ex-Cavaliere, benchè sconsigliato dai suoi più stretti collaboratori, non sarebbe del tutto contrario a trasferire il premio di maggioranza dalla coalizione alla lista che prende più voti. Ma a patto che le soglie di sbarramento per l’ingresso dei partiti minori in Parlamento restino alte o altine, come prevede il testo votato in prima lettura. Si può discutere che il 4,5 per cento attualmente previsto scenda fino al 4, ma non più giù, perchè altrimenti l’obiettivo di Berlusconi di riportare a casa la maggior parte dei transfughi dal suo partito diventa più difficile da raggiungere. Ai suoi parlamentari preoccupati che un nuovo appuntamento alle urne riduca ulteriormente la pattuglia degli eletti, l’ex-Cav ha detto che non prevede che si voti almeno fino al 2018. Ma quando ha aggiunto di sentirsi di nuovo in campo e di voler concludere la sua carriera politica con una vittoria, a chi lo ascoltava è venuto in mente qualche dubbio.
Ai blocchi di partenza, la discussione sul nuovo Italicum e su un eventuale appuntamento elettorale anticipato e ravvicinato si presenta dunque con gli stessi schieramenti e gli stessi limiti del precedente, tormentato, confronto alla Camera: Renzi e Berlusconi potrebbero ricostruire il loro patto, ma a condizione di far scattare la tagliola per i partiti più piccoli. Di qui all’apertura effettiva delle urne, tuttavia, ce ne corre. E l’ostacolo maggiore resta la contrarietà del presidente Napolitano: piuttosto che siglare un nuovo scioglimento delle Camere, metterebbe la firma sulla lettera di dimissioni.

La Stampa 23.10.14
Giorgio Tonini
«Basta tessere. Ormai siamo il partito del Paese»
di Francesca Schianchi


«Il partito del Paese». Così il senatore veltroniano Giorgio Tonini, membro della segreteria Renzi, definisce il Pd per come si sta trasformando.
Cosa intende con questa definizione?
«È un modo suggestivo per definire la vocazione maggioritaria. Per definire un partito che esce dai confini storici della sinistra italiana con l’ambizione di competere per avere la maggioranza. Di fatto, le ragioni di fondo per cui è nato il Pd».
Nella minoranza del partito però si teme di mettere insieme di tutto e annacquare le ragioni della sinistra…
«Negli angusti confini della sinistra tradizionale non c’è di tutto, ma a volte non ci sono le cose che dovrebbero esserci: alle elezioni del 2013, il Pd è stato il terzo partito tra gli operai. Nel 2014 siamo il primo. Il Pd che vogliamo è quello dove non stanno solo gli intellettuali e i dipendenti pubblici, ma anche quelli che stanno sul mercato, un pezzo di mondo che ora finalmente ci guarda con interesse».
Dal punto di vista organizzativo non è un problema il fatto che siano calati i vostri tesserati?
«L’idea del partito delle tessere è in declino in Europa da decenni. Noi abbiamo immesso in quel corpo stanco il sangue nuovo delle primarie, che hanno ridato linfa facendo apparire vecchio il modello del partito mediatico di Berlusconi. Ora, certo, le tessere più sono e meglio è, ma fondamentale è che siano iscritti veri, a cui offriamo anche un percorso nel partito e che fanno da elemento catalizzatore del popolo più vasto dei nostri elettori».
In due parole: è il modello del partito liquido?
«Quella è un’espressione denigratoria che rifiuto. Noi non abbiamo mai parlato di partito liquido, ma aperto. Il Pd è stato un big bang che ha creato situazioni impreviste: ora tutto questo va trasformato in un’organizzazione matura. Ma partendo da un dato di fatto: il Pd è un’esperienza di successo».
Nel partito aperto ci sta pure la Leopolda? O è inopportuna, come dice la minoranza?
«Renzi ha vinto la competizione interna al Pd anche grazie alla mobilitazione del popolo della Leopolda: se oggi, da segretario e premier, avesse detto “Ora non mi interessate più”, allora sì che avrebbe fatto un danno al Pd. La Leopolda non va guardata con gelosia, ma con orgoglio, espressione di un Pd che sa comunicare in tanti modi».

La Stampa 23.10.14
Il premier corona il sogno di Veltroni e si intesta il modello americano
Tutto (e tutti) dentro lo stesso contenitore, e basta liti di coalizione
di Mattia Feltri


Da una decina d’anni qualche osservatore sottolinea il paradosso che gira attorno al Pd e alle coalizioni di sinistra, che si chiamassero Gad, Unione o roba simile: che senso ha mantenere la struttura del partito se la legittimazione al leader discende dal voto popolare attraverso le primarie? Cioè, che senso ha l’intermediazione del partito se il rapporto con l’elettore è diventato diretto, ed è l’elettore a scegliere il candidato sindaco, il candidato governatore, il candidato premier? Se ne discusse un poco fra il 2007 e il 2008, quando il Pd nacque con l’investitura (mediante primarie) di Walter Veltroni, che al partito voleva consegnare una vocazione maggioritaria. Si parlava di partito liquido - con le conseguenti ironie di chi soprattutto non pareva attrezzato a cogliere l’aria mutata - cioè di un partito che abbandonasse l’armamentario di tessere, quadri, sedi, e si muovesse agilmente in un mondo dall’andamento frenetico. Si impegnavano paragoni con i partiti americani, quello repubblicano e quello democratico, che tessere e quadri e sedi non sanno che siano, e hanno giusto un’organizzazione da comitato elettorale permanente. Poi Veltroni non ce la fece, troppe opposizioni interne, non poche titubanze, e mediazioni disastrose come quella che lo condusse a metà del guado fra la sua idea di bipartitismo e quella prodiana di grande ammucchiata: si alleò con Antonio Di Pietro, che subito dopo le elezioni istituì in Parlamento il gruppo dell’Idv, e si portò con sé i radicali, con cui il filarino non andò benissimo.
Però la direzione era giusta e se n’è avuta conferma alla direzione del Pd, quando Matteo Renzi ha appoggiato l’ipotesi di attribuire alla lista e non alla coalizione il premio di maggioranza, e non per caso lo ha notato e sottolineato Europa. Se il premio di maggioranza va alla lista, e dunque al partito, la coalizione non ha più ragioni sociali: inutile mettere insieme quella carovana fracassona con comunisti, verdi, cattolici, giustizialisti, garantisti, società civile, professionisti della sezione, tutti concentrati sull’impresa di dare un senso al loro simboletto, se necessario con la guerriglia. Invece di aprire la coalizione, l’idea di Renzi è di aprire il partito: dentro chi vuole, lo spazio c’è, dentro gli ex vendoliani di Sinistra e libertà, dentro i cattolici di Per l’Italia, dentro Scelta civica, e se vuole benvenuto a Marco Pannella, a ex grillini e, per gli amanti del prontuario medico della politica, benvenuti a ex Api, Centro democratico, socialisti, popolari di centrosinistra... Tanto ora si può fare perché la vera novità del dominio renziano è che dal partito si è esteso al governo e si è preso tutto. Pareva l’errore madornale, mai nessuno aveva conservato da Palazzo Chigi la leadership del partito. Una cosa era il segretario e un’altra il premier. E invece Renzi si è preso il modello americano per cui il candidato alla presidenza (sempre via primarie) è automaticamente il leader del partito, lo sarà anche dalla Casa Bianca e, finché dura, spadroneggia. E Renzi spadroneggia di già, e lo teorizza, perché ha vinto le primarie e ha preso il 41 per cento alle Europee.
E’ sempre complicato paragonare la nostra politica con qualsiasi altra, ma il Pd che frulla nella testa di Renzi ha sempre più l’aria del partito americano: un capo indiscusso, che decide priorità e dottrina, e una lista sostenuta e finanziata da gruppi di varia ispirazione, religiosa o economica o sociale o generazionale, e infatti nei democratici di Barack Obama convivono liberisti, pro-gay, antiabortisti, apostoli irriducibili del possesso privato di armi, interpreti di interessi territoriali. Un’organizzazione del genere qui è ancora improponibile, perché c’è una solida tradizione partitica e di fazione, e perché prevede una totale assenza di mandato parlamentare: senatori e deputati americani rispondono soltanto all’elettore, non certo al Matteo Renzi di passaggio e alle sue esigenze. E però si guarda da quella parte. Nei prossimi giorni, Renzi sarà a due cene in cui il posto a tavola costa mille euro, e il cui obiettivo dichiarato è raccoglierne un milione per il Pd, un sacrilegio berlusconiano per la sinistra, una strategia anticamente americana per il premier: si comanda se ti danno il voto, e se ti danno di che campare si comanda anche meglio.

La Stampa 23.10.14
Pd-democratici Usa
A dicembre in Italia un’iniziativa comune
Il politologo Browne: Renzi cambia anche il modo di finanziarsi
di Paolo Mastrolilli


«Tre punti sono fondamentali, nella trasformazione del Pd che sta conducendo Matteo Renzi: primo, l’evoluzione ideologica verso un partito moderno di centrosinistra; secondo, l’alleggerimento della struttura; terzo, la comunicazione e l’uso dei nuovi media non solo per diffondere il messaggio, ma soprattutto per coinvolgere più persone e spingerle a mobilitarsi nella pratica».
Matt Browne, Senior Fellow alla think tank democratica di Washington Center for American Progress, sa di cosa parla per almeno due motivi: primo, l’esperienza che ha avuto al fianco di Tony Blair nella trasformazione del Labour Party in Gran Bretagna; secondo, il lavoro che sta facendo ora per sviluppare la collaborazione tra il Partito democratico americano e il Pd italiano. Il 9 e 10 dicembre, infatti, questi due partiti terranno un convegno in Italia, proprio per discutere i loro obiettivi comuni e le strategie per raggiungerli.
Seguiamo i suoi punti. Cosa significa evoluzione ideologica?
«Prendiamo il dibattito in corso sulla riforma del mercato del lavoro: è l’esempio più simbolico di un partito che si sta spostando dalle posizioni ormai sterili del passato, a quelle più moderne ed efficaci. Il Pd deve muoversi in questa direzione, diventando una formazione moderata di centro sinistra che parla ad un pubblico più ampio del passato. Un altro segnale importante è quello che Renzi ha dato quando ha invitato Andrea Romano ad andare con lui. La tradizione della sinistra era la divisione e l’esclusione, che l’hanno sempre danneggiata: questa invece è la “Big Tent” di cui parlava sempre Blair, cioè la grande tenda che cerca di includere più persone possibili».
Cosa significa alleggerire la struttura?
«Il primo problema è pratico: l’era dei grandi finanziamenti pubblici è finita, e quindi i partiti devono trovare nuove forme per sostenersi. Bene ha fatto Renzi a tagliare i rami secchi».
Ma il finanziamento della politica attraverso le donazioni dei privati sta provocando grandi polemiche negli Usa.
«Perché finora si è basato sul modello di inseguire i grandi donatori, che poi hanno troppa influenza sulla politica. Dobbiamo invece puntare ad avere più donatori, che danno meno soldi, perché questo è un sistema più democratico che incoraggia la partecipazione di tutti».
E il secondo problema organizzativo qual è?
«La definizione della struttura, a partire dalle primarie. So che su questo sistema ci sono polemiche, ma è sempre meglio di quello in cui si cresceva in base all’abilità di muoversi dietro le quinte nel partito, e non della capacità di parlare agli elettori».
Passiamo al terzo punto: la comunicazione e l’uso dei nuovi media. Cosa intende?
«Renzi è già bravissimo nella comunicazione, e forse è il politico italiano più brillante sui social media. Il passo successivo da fare è utilizzare meglio questi strumenti per allargare la base attiva del partito».
Come?
«Il Pd e il premier hanno moltissimi seguaci sui social media e su internet, ma comunicare con loro non basta più. Bisogna trasformare questi simpatizzanti in attivisti, contattandoli e chiedendo loro di diventare attori della strategia del partito. Una strada è spingerli a donare o raccogliere fondi, scrivere lettere a chi ostacola l’azione del governo, partecipare all’organizzazione. Un’altra è trasformali da utenti del messaggio in messaggeri, scavalcando così i media tradizionali per arrivare sempre più direttamente al pubblico. Sono tutte strategie su cui il Pd deve e sta lavorando».

il Fatto 23.10.14
Turbosvolte
Qualcuno era un po’ comunista
di Daniela Ranieri


“Sono sempre stato un po’ di sinistra”, dice Andrea Romano, esecutore testamentario della trapassata Scelta Civica, per giustificare la salita sul carro-Renzi. Come quelli che lasciano il posto in banca per aprire un ristorantino ai Caraibi: “Sono sempre stato un po’ cuoco”.
In effetti Romano, livornese, barbuto, passato da D’Alema a Monti via Montezemolo, dava giusto adito al sospetto di essere di sinistra. Invece lo era solo un po’. Il giusto. Tanto da meritarsi nel 2006 le lodi di un giovanissimo presidente della provincia della Margherita: “Stasera per commentare il discorso di Tony Blair il tg dell’ammiraglia Rai ha scelto un giovane editorialista, Andrea Romano, e l’Italia ha scoperto che ci sono teste pensanti anche tra chi ha meno di quarant'anni”, consegnò all’Ansa uno sconosciuto Matteo Renzi mezz’ora dopo la sigla.
E adesso Romano gli restituisce la cortesia. Renzi gli deve essere sembrato un liberatore degli istinti rivoluzionari sopiti e, come Fantozzi grazie al comunista Folagra, può finalmente indossare la sciarpa rossa senza vergogna. D’altra parte, per entrare nel Pd di Renzi quel “po’” basta e avanza, anzi.
Guarda Civati, che sta più di là che di qua. E i riflessi biondi di Cuperlo, con cui scoloriscono le mechés dell’amalgama non riuscito, secondo la sagace definizione di D’Alema, di suo reticente a dire cose di sinistra. Ma il Pd è fatto così. Veltroni precisava di non essere mai stato comunista mentre il principale esponente dello schieramento a lui avverso irrideva: “Io sono più di sinistra di loro”.
Essere di sinistra è stato in questi anni onta, marchio, lasciapassare, autocertificazione falsa e sinonimo avulso del bene, come quando D’Alema celebrò il ribaltone del primo governo B. in combutta con Bossi appellando la Lega “costola della sinistra”. Del resto oggi l’erede di quella costola, Salvini, si dice comunista.
BERSANI a Ballarò l’altra sera ha tentato una resistenza: “La sinistra esiste in natura”; vero, come i virus del Bertinotti di Corrado Guzzanti condannati a scindersi in eterno. E “un partito è un collettivo politico che sopravvive al suo leader”, cioè alla caduta eventuale del suo capo, ma non alla sua ascesa.
Ma il Pd è ancora un partito? Ci sono le direzioni, certo, quella specie di meeting aziendali in cui volendo possono parlare pure i tecnici, gli impiantisti e gli uscieri, ma a decidere della “ditta” è quello il cui selfie occupa il vertice dell’organigramma.
Il sospetto è che il Pd si chiami ancora così per assecondare la transizione verso quel partito della Nazione dall’istinto aggregante, totalitario, che è la negazione del partito inteso come associazione fondata sulla comunanza di intenti e sulla differenza rispetto a tutti gli altri. Nel sottinteso di “unicità” e nel richiamo al nazionalismo, non bastasse il patto del Nazareno, c’è il requiem di quel partito “pulito e diverso” di Berlinguer, in cui serviva essere un bel po’ di sinistra per condividere valori non negoziabili e una visione della vita e del mondo inconciliabile con quella di chi era pure un po’ di destra. Si era comunisti, come cantava Gaber, perché Berlinguer era una brava persona, e Andreotti no.
Renzi ha scalato il Pd lavorando di fino sulla dialettica: quella che temporeggiava coi dibattiti interni, perdeva tempo coi sindacati e si accaniva contro B. era la sinistra cattiva, e infatti perdeva; la sua, chimera liberista-populista, stravincente e cazzuta, è la sinistra buona.
OGNI VOLTA che ne spara una ci tiene a precisare, in modo troppo zelante per non essere sospetto, “questa è una cosa di sinistra”, “se non è di sinistra questo”, “siamo il governo più di sinistra degli ultimi anni”. Forse perfino più di sinistra dei governi Berlusconi.
Uno che nel 2010 si diceva “cresciuto con Kennedy e Mandela nel cuore”, oggi vende le sue riforme negli studi di Canale 5, dove peraltro è televisivamente nato, tra i baciotti fucsia di Barbara D’Urso e le pentole di Mastrota, e con un forcing mediatico senza pari sterza nella landa post-ideologica di una nuova sinistra, ribaltata, ambigua, inventata da lui. Una sinistra che va al potere portandosi appresso il proprio cadavere (l’operazione è perfettamente riuscita, ma il paziente è morto). Così l’essere un po’ di sinistra di Romano non desta solo ironie e non ricorda solo la finta svolta di B., che per accreditarsi presso l’elettorato gay friendly sarebbe capace pure di dire “sono sempre stato un po’ frocio”. Ma riassume la temperie drammatica di un mondo in rovina, in cui qualcuno era (un po’) comunista, ma non si ricorda perché.

il Fatto 23.10.14
Democratici?
Riforme Il Paese chiede un partito con la D’Urso
di Francesca Fornario


Ma che pretende da Renzi la Ragioneria dello Stato?! Che trovasse le coperture per la manovra?! E quando, se nell’ultimo mese è stato in tv per 77 ore?! (Violata la par condicio: bisognava dare spazio anche al centrosinistra). Quando, se da premier e segretario del Pd doveva lanciare il cronoprogramma, emanare le slide, promulgare gli hashtag, stabilire le linee guida, approvare gli slogan, promettere le unioni gay (“Le faremo un minuto dopo aver approvato la legge elettorale e la riforma della Costituzione”. O completato la Salerno-Reggio Calabria, scegliete voi), invitare a pranzo Oprah Winfrey (per poi scoprire che non c’è gusto a dare del tu a un giornalista in una lingua dove non esiste il “Lei”), pensare alla scenografia della Leopolda? (Boschi: “Ricorderà un garage”. Perché i numerosi invitati non sanno dove parcheggiare il suv). Trovare le coperture è compito della vecchia politica, quella che preferiva dare ai ricchi o ai poveri invece che promettere a entrambi. Quella che si divideva in vetusti partiti portatori d’interessi di parte: gli operai o le grandi imprese, le scuole pubbliche o quelle private. Questi steccati appartengono al passato, quando la sinistra credeva al tale che voleva realizzare il socialismo in un solo paese. Non era quella la soluzione! La soluzione è realizzare il bipolarismo in un solo partito. Un partito nel quale ci sia spazio per Gennaro Migliore e Angelino Alfano (che allo scopo ammette: “Dobbiamo cambiare nome alla nostra formazione”. “Nuovo Centro Destra” potrebbe servire a Renzi), un partito che piaccia a Baricco e a Barbara D’Urso: “Con Matteo mi è venuto spontaneo darci del tu!”. Hanno un amico in comune. Barbara ha anche fatto a Renzi una proposta: “Matteo, quando smetti di fare il premier, facciamo un programma insieme?”. Mancava: “Il mio capo vuole sdebitarsi con te!”. Un partito che pretenda di stare con i lavoratori precarizzando il lavoro, come ci ha chiesto di fare Angela Merkel, e con le famiglie tagliando i servizi: il Governo ha ridotto le tasse. Tagliando i trasferimenti agli enti locali. Che aumenteranno le tasse. Ma Renzi è soddisfatto, perché su Twitter entra solo la prima parte della frase). Finalmente, “Un partito della nazione”. La Germania.

«se becchiamo la fidanzata di Berlusconi nuda la pubblichiamo»
Corriere 23.10.14
«Farò dell’Unità un giornale popolare Io di sinistra? Lo ero»
di Alessandro Trocino


ROMA «Abbiamo raggiunto un fantastico accordo con il Pd. Entro la fine di ottobre faremo un’offerta per l’acquisizione dell’ Unità ». Guido Veneziani — editore di riviste non esattamente politiche come Stop , Vero , Rakam e Miracoli (nell’ultimo numero, «Satana non voleva che papa Wojtyla diventasse santo») — conferma l’anticipazione del Corriere della Sera e si dice pronto a prendere il timone del quotidiano fondato da Antonio Gramsci e a farlo rinascere.
Ci sono 30 milioni di debiti e 56 giornalisti.
«Non credo che pagheremo 30 milioni di debiti, ma ci assumeremo il nostro compito in modo importante. È prematuro parlare di organico, ma sarà più snello».
Cosa pensa della vecchia «Unità»?
«C’è una montagna di interregionali, con forti radici nel territorio: l’Unità è l’unico vero quotidiano nazionale. E ha un potenziale incredibile. Si sono messi d’impegno per ridurlo così».
Come si concilia un editore di riviste di gossip con un quotidiano politico?
«Lei mi offende se parla di gossip. Vero è una rivista familiare, di intrattenimento e approfondimento, con firme importanti. Poi, certo, la Clerici la mettiamo in copertina perché vende».
Come si immagina la nuova «Unità»?
«Io voglio fare un giornale popolare, nell’accezione positiva del termine. Non sarà il Sun , naturalmente: per intenderci, non ci saranno le donne nude. Certo, se becchiamo la fidanzata di Berlusconi nuda la pubblichiamo».
Farà informazione e approfondimento?
«Oggi siamo tempestati di informazioni e l’approfondimento politico dei quotidiani lo trovo un filino noioso. L’Unità si occuperà di politica e di sociale, con un linguaggio giovane, adeguato ai tempi moderni. Anche la cronaca, non nera, avrà un grande spazio».
Si punterà su uno sviluppo multimediale?
«Ci sarà la versione per tablet, ma mentirei se le dicessi che credo molto in queste cose. A me piace la carta, mi piacciono le edicole».
Lei è di sinistra? In che rapporti è con il Pd?
«Sono un cittadino, un imprenditore. Ho avuto trascorsi di sinistra e giravo con in tasca l’Unità , ma anche il manifesto e Cuore . Ora è diverso. Lei davvero pensa che in questo Paese ci sia ancora chi si dichiara di sinistra, di centro o di destra? Ma poi: lei pensa che Renzi sia di sinistra?»
Me lo dica lei.
«Eh. Comunque, Renzi mi piace moltissimo. È bello, sveglio, ha una gran dialettica ed è uno dei pochi politici che si capisce quando parla».
Ha già in mente un direttore?
«Il nome lo decideremo insieme. A me piacerebbe uno molto giovane, dinamico, innovatore. Non un vecchio trombone della nomenclatura. I miei direttori sono tutti sotto i 35 anni».

il Fatto 23.10.14
Edicole
Miracoli, dal catalogo dell’Ikea al ritorno in edicola de l’Unità
Guido Veneziani, a capo di un impero di periodici che supera i 200 milioni di ricavi, si prende il quotidiano


Unità. Stop. Vero. Non è un titolo vecchio della scorsa estate, quando il quotidiano fondato da Antonio Gramsci “è stato tolto dalle edicole”, come ha scritto il suo ultimo direttore, Luca Landò. Unità. Stop. Vero. E Miracoli. Sono alcune testate della scuderia del nuovo editore che arriva nell’anno primo dell’era renziana: il cinquantenne torinese Guido Veneziani, a capo di un impero che tra periodici e stampa (tra cui quasi 21 milioni di copie del catalogo Ikea) supera i 200 milioni di ricavi. L’Unità passa dal rosso antico al rosa del gossip, ma le battute contano fino a un certo punto quando si tratta di salvare posti di lavoro. Perché l’offerta del gruppo Gve (Guido Veneziani Editore) è stata accolta benissimo dai giornalisti del quotidiano. Dal comunicato di ieri: “Dopo lunghe settimane di silenzio il Pd rompe gli indugi e annuncia di aver individuato una soluzione solida e credibile per riportare in edicola in tempi brevi il giornale di Antonio Gramsci”. Il cdr giudica “positivamente” l’operazione anticipata ieri dal Corriere della Sera.
Un anno fa tentò l’assalto (fallito) anche a La7
Guido Veneziani da un anno tentava il grande salto nell’editoria, pur vantando ben 17 periodici familiari e rosa, una propria concessionaria di pubblicità, la maggioranza di Rotoalba (che stampa i giornali dei Paolini, in primis Famiglia Cristiana) e la proprietà delle Grafiche Mazzucchelli di Seriate, le prime al mondo ad avere una rotativa Goss Sunday a 96 pagine. Un anno fa ha infatti tentato invano l’assalto a La7, poi presa dal suo competitor (anche nel settore della stampa nazionalpopolare) Urbano Cairo. Insomma, un signor editore, che il Pd renziano ha preferito alla berlusconiana Daniela Santanchè e soprattutto alla coppia formata dal banchiere Matteo Arpe e dal giornalista Paolo Madron, direttore di Lettera 43, quotidiano online. La svolta è stata concordata con Matteo Renzi dall’attuale tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi. Che al Fatto spiega che non c’è stato alcun “no” politico ad Arpe, di cui si malignava per la sua presunta vicinanza a Massimo D’Alema. Sostiene Bonifazi, che ieri ha incontrato i giornalisti dell’Unità: “L’offerta di Veneziani è la migliore anche perché è un editore puro, con Arpe non ci sono stati problemi politici e abbiamo conservato un grande rapporto di amicizia, ci tengo a dirlo”. Inizialmente, il gruppo di Veneziani verserà 10 milioni di euro che serviranno a evitare il fallimento (la data ufficiale per la presentazione delle proposte è il 31 ottobre) e a chiudere “in bonis” la liquidazione. Tutto il resto verrà dopo. La trattativa sul rilancio, i numeri della redazione (probabilmente rimarranno in 30, la metà dell’organico di oggi) e il nome del direttore. Quest’ultimo è una delle questioni più delicate. Veneziani ha fama di editore tosto e decisionista ma dovrà certamente tenere conto delle preferenze politiche del potere renziano. E ai vertici del Pd il nome che gira di più è quello di una donna. La favorita, come già trapelato un mese fa, è la firma di punta del Corsera per le cose di sinistra, Maria Teresa Meli. Bisognerà capire se la scelta rimarrà questa, nelle prossime settimane, e soprattutto se lei accetterà. In alternativa, potrebbe spuntare un volto noto di La7, Gaia Tortora, che i renziani qualche tempo fa hanno dato in corsa per una direzione a Viale Mazzini. L’Unità a Veneziani vuol dire anche un nuovo assetto editoriale del Pd. Il partito diventerà socio del quotidiano con una quota del 5 per cento che sarà detenuta da una fondazione. Secondo lo schema di Bonifazi, questa fondazione, a sua volta, nascerà per controllare la tv Youdem e l’altro quotidiano di partito che esce clandestinamente in forma cartacea: Europa di Stefano Menichini. Nella fondazione, che sarà minoranza nel giornale di Antonio Gramsci, entrerà anche uno dei soci della vecchia Unità, Maurizio Mian.
“Ha vinto tra tantissime offerte arrivate”
Continua Bonifazi: “Evitate ogni tipo di congettura politica, dietro l’offerta di Veneziani non c’è nessuno. È stato lui a presentarsi, nessuno di noi lo conosceva. In queste settimane sono arrivate tantissime offerte. La sua è la migliore ed è quella che garantisce di più l’autonomia dei giornalisti”. Per la cronaca queste le principali testate di Gve dopo l’aggiornamento di ieri: Vero, Vero Tv, Stop, Rakam, Confessioni Donna, Vero Cucina, Vero Salute, Donna al Top, Miracoli, Unità.
fd’e

La Stampa 23.10.14
Dal gossip all’Unità Veneziani: “Voglio che sia popolare e facile”
Il nuovo editore: il direttore dovrà essere un giovane
intervista di Alberto Mattioli


Cos’hanno in comune «Vero», «Stop», «Miracoli», «Rakam» e «l’Unità»? Il proprietario. Guido Veneziani è l’uomo che riporterà in edicola il quotidiano fondato da Antonio Gramsci e affondato dal Pd. Torinese trapiantato a Milano, 41 anni, Veneziani ha costruito un imperino editoriale (cinque settimanali, quindici mensili, un canale satellitare, 75 milioni di fatturato) basato sul gossip, i soliti noti della tivù, Padre Pio, Al Bano, l’uncinetto, insomma sul nazionalpopolare, per usare un termine, guarda caso, gramsciano. Che c’azzecchi con l’ex giornalone del Pci, Veneziani lo spiega in questa intervista.
Intanto, la notizia. Conferma che l’accordo con il Pd è fatto?
«Certo. Ma sarà concretizzato solo all’inizio del mese prossimo».
Però è deciso? E lei sarà il socio di maggioranza?
«La risposta è sì in entrambi i casi».
Quindi è lei il nuovo padrone dell’«Unità».
«Visto che l’affare deve ancora essere chiuso, lo prendo come un augurio».
Cosa se ne fa dell’«Unità»?
«Io sono un editore puro. Se voglio “l’Unità” è perché credo che sia un affare».
Un giornale di carta? E per di più fallito?
«Da rilanciare con le opportune operazioni di marketing, d’accordo. Ma con un marchio ancora forte e un bacino di lettori veramente ampio. Specie adesso, con il segretario del Pd che è il primo ministro e un comunicatore perfino più efficace di Berlusconi».
I lettori dell’«Unità» hanno traslocato a «Repubblica» e al «Fatto quotidiano» da quel dì...
«A “Repubblica” può darsi, al “Fatto” non credo. Ma il punto non è questo».
E qual è?
«Io vorrei che “l’Unità” diventasse un grande quotidiano popolare, che spieghi quel che succede nel mondo con un linguaggio semplice».
Oddio, «l’Unità» come «Vero»?
«Guardi che popolare non vuol dire né povero né gossipparo. È vero che “Vero” ha molto intrattenimento, ma tratta anche dei temi che sono culturali in senso lato. Io voglio dei giornali che usino un linguaggio accessibile a tutti».
E i contenuti?
«Diversi da quelli degli altri quotidiani, che o raccontano quello che la gente ha già visto in tivù o su Internet oppure ospitano le pompose opinioni di gente che si parla addosso. E infatti sono noiosissimi».
«L’Unità» dei bei tempi non era esattamente briosa...
«Infatti non la rifaremo così. Ma mi ricordo di quando andavo in edicola a comprare “Topolino” e c’era la gente che faceva la fila per “l’Unità”. Ecco, bisogna recuperare la storia popolare del giornale».
Dica chi le piacerebbe come direttore.
«Nemmeno sotto tortura. Però io di direttori ne ho sei, il più vecchio ha 34 anni e sono tutti dinamici e innovativi. Lo vorrei così anche per “l’Unità”».
Sta dicendo che darà «l’Unità» a un direttore del suo gruppo?
«Sto dicendo che non lo escludo. E che di certo sarà un giovane».
Ma «l’Unità» resterà il giornale del Pd?
«Certamente».
Lei è iscritto, simpatizzante o semplice elettore?
«Io non sono mai stato iscritto a un partito e li ho votati quasi tutti. Alle ultime elezioni, in effetti, il Pd».
Piddino forse no, ma renziano sicuramente sì.
«Esatto. Mi piace chi è giovane, energico e prova a fare quel che tutti non considerano fattibile».
E allora faccia fare il direttore a Renzi. Tanto ormai in Italia fa tutto lui...
«Magari! Venderei una montagna di copie».

Repubblica 23.10.14
L’Unità verso il ritorno in edicola intesa col nuovo socio Veneziani


ROMA Il Pd ha trovato la soluzione per l’Unità che nei prossimi mesi potrebbe tornare in edicola. La proposta è stata presentata ieri al comitato di redazione del giornale e ha trovato un’accoglienza positiva. È pronto a entrare nella compagine azionaria l’editore Guido Veneziani, che già pubblica alcune riviste di gossip, e lo farà prima del 31, giorno in cui la società sarebbe fallita. «Siamo felici che l’assemblea dei giornalisti e dei lavoratori de L’Unità abbia apprezzato lo sforzo del PD e il punto di arrivo di una vicenda difficile e dolorosa», dice il grande artefice dell’operazione, il tesoriere Francesco Bonifazi.

Corriere 23.10.14
Il cda dell’Opera apre uno spiraglio «Vogliamo evitare i licenziamenti»
Il vertice del Teatro passa la palla ai sindacati: facciano loro una proposta alternativa utile a risolvere i problemi economici e finanziari dell’azienda
di Paolo Foschi

qui

il Fatto 23.10.14
Su MicroMega
Giustizia, la malattia italiana: sintomi, bugie e possibili cure


Esce oggi il numero speciale di MicroMega dedicato alla giustizia. Se duecento pagine vi sembran poche, per il principale morbo della malatissima Italia... Tutti quelli che sono passati al governo – centrodestra, centrosinistra, ammucchiate di varia natura – hanno provato a metterci le mani, quasi mai con le migliori intenzioni. Le ultime nuove sono l'epocale riforma taglia-ferie ai magistrati e la rapida introduzione dell'autoriciclaggio (reato che avrebbe dovuto essere previsto dal 1999, anno in cui l'Italia ha ratificato la Convenzione di Strasburgo sulla corruzione) con la clausola di esclusione nei casi “godimento personale”. Mentre è allo studio del governo l'ennesima riforma, la rivista diretta da Paolo Flores d'Arcais prova a fare il punto, con un numero speciale che ospita vari contributi: numerosi magistrati (Roberto Scarpinato, Piercamillo Davigo, Gian Carlo Caselli, Bruno Tinti, Mario Almerighi, Nicola Gratteri, Armando Spataro, Piegiorgio Morosini, Pasquale D'Ascola, Felice Lima, Paolo Borgna, Rita Sanlorenzo), avvocati (Caterina Malavenda, Daniela Ghergo), giornalisti (Furio Colombo, Marco Travaglio) e un saggio di Franco Cordero, professore emerito di Procedura penale alla Sapienza. Dunque diversi punti di vista, molte considerazioni nate dall’esperienza sul campo. E un prontuario, utile per sbugiardare le numerose menzogne che la politica spaccia per incontrovertibili verità.
La diagnosi, numeri alla mano, è impietosa. Scrive Davigo: “Il rapporto annuale Doing business della Banca mondiale del 2011, dedicato alla classifica dei paesi dove conviene investire, indica l'Italia al 157° posto, su 183 paesi, per la durata dei procedimenti e per l'inefficienza della giustizia, preceduta da Togo, Isole Comore, Indonesia e Kosovo. In Italia occorrono 1.210 giorni per il recupero di un credito commerciale, in Germania appena
394. Al 30 giugno 2011 la massa dell'arretrato era di quasi 9 milioni di processi (5,5 milioni nel settore civile e 3,4 milioni in quello penale), mentre sono cresciuti a dismisura i tempi medi necessari per la definizione di una causa: nel civile 7 anni e tre mesi (2.645 giorni) e nel penale 4 anni e nove mesi (1.753 giorni) ”. E fin qui gli allarmanti sintomi. Le cause? Davigo ne individua sostanzialmente due: la prescrizione
– che non s'interrompe nemmeno dopo la condanna in primo grado – con un meccanismo piuttosto singolare che alla fine è “un potente incentivo per condotte dilatorie e per la presentazione di impugnazioni pretestuose da parte degli imputati o dei loro difensori, perché, se si riesce a far passare il tempo previsto dalla legge, si evita la condanna”. La seconda macro-causa è appunto il sistema delle impugnazioni: nel processo penale impugnare conviene perché non si corrono rischi, visto che vige il divieto di peggiorare la posizione dell'imputato se è solo lui appellante, e non anche il pm. La Corte d'appello non può aumentare la pena inflitta in precedenza: non ci sono rischi a proporre appelli infondati e meramente dilatori. Altri numeri li dà Mario Alme-righi: il 98 per cento delle sentenze di condanna di un tribunale sono sottoposte all'impugnazione, nei due gradi di giudizio superiori. E il 93 per cento dei condannati in primo grado non va in carcere, dato che sono considerati ancora imputati in attesa di giudizio. “Quindi, la pena irrorata da un tribunale è, nella maggior parte dei casi, del tutto fittizia”. Da uno studio comparativo con la giustizia inglese è risultato che, nonostante la percentuale dei condannati con pena detentiva definitiva sia decisamente superiore a quella britannica (125.398 in Italia, 60 mila nel Regno Unito), “la maggioranza degli individui carcerabili si perde per strada fino a ridursi a una presenza effettiva in carcere dopo il terzo grado di giudizio di 37.915 condannati, solo il 30 per cento contro l'85 per cento della Gran Bretagna”. A perdersi per strada, guarda un po’, sono soprattutto i colletti bianchi (autori di reati quali bancarotta, corruzione, peculato, usura, associazione a delinquere comune o di stampo mafioso). “È assai frequente che la pena non venga mai eseguita perché magari, prima che la Cassazione si pronunci, vi è stato un condono o un'amnistia. Ma l'ipotesi più probabile è che il reato, dato il tempo trascorso, sia dichiarato prescritto”.
SiT

Corriere 23.10.14
L’esercito di custodi del satiro danzante
Diciotto dipendenti non riescono a garantire a Mazara del Vallo l’apertura quotidiana di un museo di una sola stanza
Alla Cappella degli Scrovegni di Padova ne bastano quattro
di Gian Antonio Stella


Possibile che diciotto custodi non possano tenere aperto tutti i giorni un museo di una sola stanza imperniato su un solo pezzo d’immenso valore cioè il Satiro Danzante? Quando la soprintendente Paola Misuraca gli ha sottoposto un piano di chiusure per quello che è il fiore all’occhiello della cittadina, il sindaco di Mazara del Vallo Nicola Cristaldi, ha preso fuoco come un cerino: «Mi ha proposto di chiudere quattro domeniche, cinque sabati e il pomeriggio di Natale perché non ha personale! Cosa? Non stiamo parlando del Louvre: si tratta di un solo grande salone dotato per di più di sei telecamere (sei!) per la videosorveglianza! E ci lavorano in 25! Cioè 18 custodi più qualche altro dipendente part-time più i “pulizieri” dell’impresa esterna pagata a parte perché i custodi, se cade un fazzolettino lo lasciano lì perché non tocca a loro raccoglierlo…».
E spiega: «Visto che con meno custodi teniamo aperti tutti i giorni il teatro Garibaldi, la chiesa del Carmine, il museo del Collegio dei Gesuiti, la chiesa di Sant’Ignazio, la biblioteca Corridoni, la galleria d’Arte Contemporanea e il museo Mirabilia Urbis, ho detto alla Regione: datelo a noi, il Satiro. Voi risparmiate più di un milione di euro e noi teniamo aperto 365 giorni l’anno».
La soprintendente nega: «Da un anno in qua il museo non ha mai chiuso ma purtroppo il contratto prevede che i custodi possano lavorare un massimo di 17 domeniche e 4 festività l’anno. Finite quelle...». «Non ha mai chiuso perché abbiamo tappato noi i buchi con personale nostro», ribatte il sindaco. «Non ce l’ho coi custodi: ce l’ho col loro contratto. Insomma: non hanno studiato storia dell’arte, stanno lì e sanno solo dire: “niente fotografie!”, “niente fotografie!”, “niente fotografie!”... Non possono dare una scopata, non possono tenere puliti i bagni, non possono cambiare una lampadina. Deve andare uno dei nostri anche per la lampadina!». «Può essere successo...», sospira la soprintendente, «per quelli del Comune è più facile... Sono già a Mazara, noi dobbiamo mandare il “consegnatario” con la lampadina da Trapani dopo tutta una procedura: devo rivolgermi alla Consip, individuare la copertura finanziaria… Infatti al museo diverse lampadine da un po’ sono spente...».
AAA. Cercasi anima buona disposta regalare lampadine al museo del Satiro Danzante. Anzi, potrebbe donare, per quell’opera finita nelle reti di un peschereccio e considerata tra le più belle statue bronzee del pianeta, anche dei detersivi. L’ultima volta che la Regione non ha pagato i «pulizieri» esterni costringendo il sindaco a mandare una «comunale», i detersivi li ha pagati di tasca sua Paola Misuraca. Grazie.
Come andrà a finire lo scontro fra Comune e Regione? Vedremo. Ma quel contratto, che costrinse l’ex assessore alla Cultura Mariarita Sgarlata a un braccio di ferro per spostare provvisoriamente da altre parti i custodi della Palazzina Cinese e del Museo Abatellis di Palermo mentre questi erano chiusi per restauro, va cambiato. Lo dice il buon senso. Lo dicono un paio di confronti.
Per tenere aperta tutto l’anno da mattina a sera l’Arena, immensamente più grande del prezioso ma minuscolo museo mazarese, il Comune di Verona impiega, biglietteria compresa, quattro (quattro!) custodi. Che accolgono complessivamente (lirica a parte) 800 mila visitatori l’anno: 24 volte più di quanti vedono il Satiro. Paragone improprio? Prendiamo allora la Cappella degli Scrovegni di Padova: per tener d’occhio i turisti in visita agli affreschi di Giotto (240 mila l’anno cioè sette volte più che a Mazara ma solo perché il numero è contingentato) i custodi sono quattro. Col rinforzo di qualche pensionato, volontario a 3,5 euro l’ora...

Assolto perché troppo ubriaco: è giusto?
La sentenza della Corte d’appello di Lecce, che ha cancellato la condanna di primo grado per omicidio fa discutere


La Stampa 23.10.14
“Lo stadio terminale equiparato alla pazzia, saggia regola liberale”
Grosso: dal 1930 nessuno l’ha messa in dubbio
intervista di Giuseppe Salvaggiulo


Carlo Federico Grosso, avvocato e professore di diritto penale all’università, com’è possibile che l’ubriachezza salvi un omicida?
«Il solo fatto di bere alcol, se l’ingestione è consapevole, non incide sulla imputabilità. Di più: se l’ubriachezza è abituale, c’è un’aggravante».
Come mai, allora, in questo caso si assolve?
«Il codice considera la cronica intossicazione da alcol o sostanze stupefacenti come una malattia. Come un pazzo, l’ubriaco cronico incapace di intendere e volere non è responsabile del reato».
Ubriaco abituale condannato, ubriaco cronico assolto: come si fa a distinguere?
«La sorte del processo si è giocata sulla perizia medica. Evidentemente ha accertato che il soggetto non era solo dedito all’alcol, ma aveva raggiunto lo stadio cronico. Dunque in concreto anche un solo bicchiere di vino gli provocava un’alterazione associabile alla malattia di mente. In ogni caso, l’assoluzione comporta l’applicazione di una misura di sicurezza: l’omicida non resta libero, viene curato in specifiche strutture».
C’è controversia sul tema indottrina e giurisprudenza?
«No. Questa distinzione compare già nel codice Rocco e dal 1930 non è mai cambiata. Rocco volle dare una disciplina particolarmente aggressiva per coloro che si ubriacavano o assumevano stupefacenti, punendoli comunque sulla base della presunzione che un barlume di consapevolezza c’è sempre. Era una scelta di politica criminale per combattere l’acolismo, il che spiega la deroga - propria di un codice autoritario - al principio di colpevolezza, che rivive per l’ubriachezza cronica».
Che cos’è questo principio di colpevolezza?
«E’ un caposaldo del diritto penale liberale: nessuno può rispondere di condotte illecite se non è consapevole di ciò che fa. Un pazzo non è in grado di discernere, dunque non va punito».
Ma, scusi l’argomentazione grossolana: un pazzo è un pazzo; invece un ubriaco cronico se l’è cercata, no?
«Certo, ma quando commette il reato l’alcol ha talmente inciso sulle cellule cerebrali che gli ha provocato una sorta di pazzia derivata. Quando il bere diventa malattia, e pertanto chi beve non è più in grado nemmeno di evitare di avvicinarsi all’alcol, scatta la non punibilità».
Si potrebbe cambiare regola, condannare anche l’ubriaco cronico omicida?
«Certo, con una scelta di politica criminale ancora più repressiva. Ma né Rocco, pur autore di un codice autoritario, né altri dopo di lui l’hanno mai proposto. E questo equilibrio finora ha funzionato».

La Stampa 23.10.14
“I giudici cambiano idea ma la discrezionalità non è una patologia”
Maddalena: valutazioni diverse, il sistema funziona
intervista di Grazia Longo


Marcello Maddalena, procuratore generale della Corte d’Appello di Torino, com’è possibile un simile stravolgimento del verdetto?
«Il nostro diritto prevede tre gradi di giudizio ed è quindi assolutamente fisiologico un ribaltamento delle sentenze».
In che senso fisiologico?
«Prima di addentrarmi nella questione devo precisare che per esprimere un parere specifico occorrerebbe leggere attentamente le motivazioni, di cui in questo momento non siamo a disposizione. Nonostante ciò è comunque possibile avanzare delle considerazioni in merito a un capovolgimento radicale come quello registrato in Puglia. A partire dal fatto che ogni caso giudiziario è un caso a sé, che va studiato e valutato a prescindere da sovrastrutture generali. Vanno presi in esame i fatti, gli elementi che ci sono. Ed è dunque possibile che la loro valutazione sia differente nei tre gradi di processo».
Esiste dunque una discrezionalità del giudice?
«Certamente. Va però ribadito che si tratta di una discrezionalità fisiologica: può accadere che una sentenza di primo grado venga modificata, se non addirittura stravolta in appello. Può essere giusta quella del primo grado o viceversa, questo non si può sapere prima di conoscere le motivazioni. Ma è senz’altro frutto di una discrezionalità “sana”, che nulla ha da spartire con la discrezionalità patologica che si verrebbe a creare nel caso di un sistematico e costante ribaltamento delle sentenze. Questo sarebbe negativo, ma non è questa la realtà del nostro Paese. Quando le decisioni dei giudici di primo e secondo grado, fino ad arrivare alla Cassazione che non entrano ovviamente nel merito, sono diverse dipende dalla valutazione complessiva del caso».
In che cosa consiste esattamente?
«In un’attenta analisi dei comportamenti umani, la verifica delle prove, l’attendibilità o meno dei testimoni. Ed è dunque possibile che l’esame si differenzi nei vari gradi di giudizio, senza per questo cadere nel patologico».
Fa però un po’ effetto scoprire che quest’uomo ubriaco pugliese viene assolto dall’accusa di omicidio perché ritenuto incapace di intendere e di volere, mentre a quella madre sarda che ha lasciato sola la figlia per cercare lavoro al Nord hanno impedito di rivederla. Non trova?
«Ogni episodio ha la sua storia, non dico quale sia più giusto o meno rispetto all’altro, ma i giudici hanno il compito di studiare gli atti e decidere di conseguenza. Il ricorso in appello esiste proprio per una nuova opportunità di giudizio».

La Stampa 23.10.14
La baby-escort di Cuneo
“Meglio andare coi grandi. I coetanei ti rovinano”
La confessione: “I miei genitori? Non sapevano nulla”
intervista di Lodovico Poletto


«Meglio andare con i grandi che con i ragazzini. Se ci stai con i tuoi coetanei, rischi che, quando tutto è finito, quelli vadano in giro a sputtanarti con i loro amici. E sai che bella vita fai dopo. Con i grandi no, questo rischio non c’è. E poi, alla fine, che c’era di male in ciò che facevo?»
Eccola qui la baby squillo che fa arrossire la Provincia Granda, come chiamano da queste parti il Cuneese. Eccola qui la diciottenne che per due anni ha fatto la «vita dei grandi», che guadagnava forse più di suo padre, grazie a quel giro di «amici» con cui si prostituiva. Sesso e soldi. E cocaina, a un certo punto, quando ormai la storia era diventata qualcosa di più che una trasgressione. Lei, adesso, racconta tutto, quasi tutto, ma l’unica cosa che chiede è l’anonimato assoluto. Non il nome, non un dettaglio che possa farla riconoscere.
Partiamo da qui, da questa casa in centro a Cuneo, camera bagno e cucina. Era questa l’alcova?
«Ma assolutamente no. Qui ci abito io, è casa mia. Ma siamo matti?».
E dove andavate?
«Da un amico. Che, adesso, è finito pure lui nel tritacarne di questa storia. È in un paese qui vicino. Me la prestava. Hanno detto che gli davo dei soldi, ma la questione è diversa. Pagavo le spese. E qualche volta sono andata anche a casa dalle persone che incontravo».
Il suo amico è il primo. Quanti sapevano che faceva nel suo tempo libero?
«Per carità, nessuno dei miei amici sapeva nulla. E nessuno deve sapere nulla. È stato un errore, lo ammetto. Io in questa città ci vivo e se qualcuno viene a sapere il mio nome, cosa faccio nella vita di tutti i giorni, sono finita».
Ma neanche i suoi genitori sapevano o almeno dubitavano?
«Loro meno di chiunque altro. Dubitare? Perché mai avrebbero dovuto».
E il suo fidanzato, quello con cui è in atteggiamenti innocenti e casti nelle foto su Facebook ?
«Neanche lui. E anche oggi non sa ancora tutto. Quando è esplosa questa storia ha intuito qualcosa, ma mi è sempre rimasto accanto senza fare troppe domande».
Però sapeva la sua amica, quella più grande di lei che l’ha agganciata quando era ancora minorenne. Era lei che la sfruttava?
«Non è vero che mi ha agganciata e che mi ha portata lei in quel giro lì. Ci siamo entrate insieme, e insieme abbiamo fatto tutto. Quello era il nostro segreto. E non parli di sfruttamento: guadagnavamo qualcosa insieme».
Più che segreto una doppia vita. Ma i clienti sapevano che lei era minorenne. Non è vero?
«Non tirate in ballo quella gente, per favore. Sono tutti delle bravissime persone. Hanno una bella famiglia, un lavoro onesto e importante e con me si comportavano bene. E poi loro che ci potevano fare? Io dicevo che ero maggiorenne. Se hanno commesso uno sbaglio è stato quello di non chiedermi la carta d’identità. Ma per il resto non posso che parlarne benissimo. Mi hanno sempre rispettata. Sempre».
Insomma, lei aveva 16 anni. Non capivano che era poco più di una bambina?
«Guardi che agli incontri non andavo mica vestita così, in tuta, eh. L’abbigliamento aiuta in certe circostanze. E loro non facevano domande».
Aiutavano anche le sue foto, decisamente esplicite, che pubblicava su Facebook. Perché le ha lasciate ancora lí?
«Perché mi sono dimenticata. È stato un errore, è vero, devo cancellarle. Da quelle si potrebbe risalire a me».
Quante storie fa adesso sulla su identità. Prima non ci ha mai pensato?
«Faccio storie perché adesso sono disperata. Non so se qualcuno mi riesce a capire. Io ho messo nei guai delle persone per bene».
Perché parla dei suoi clienti in modo così entusiastico? Nessuno le ha mai fatto del male?
«Io ho sempre scelto le persone con cui stare. Quelli che non mi piacevano li allontanavo».
E oggi ha pura di loro?
«Di loro assolutamente no. C’è soltanto una persona di cui ho paura davvero. Che potrebbe rovinarmi la vita. Ma non è un cliente».
Si riferisce all’uomo che le vendeva la cocaina? La consuma ancora?
«Chi è non lo dico. E per quanto riguarda la cocaina io non la adopero più. Con quella roba lì ho chiuso per sempre. Non sono andata in comunità per smettere. Ho fatto tutto con l’aiuto degli psicologi».
Ha iniziato per quello a prostituirsi?
«Ho iniziato perché mi andava e poi mi davano dei soldi. E io potevo permettermi delle cose che altrimenti mi sarei solo sognata».
Pentita?
Silenzio.

La Stampa 23.10.14
L’illusione di non fare nulla di male
di Elena Loewenthal


Alla fine, che c’era di male in quello che facevo? Meglio i grandi che i ragazzini, che vanno in giro a sputtanarti. Così dall’alto dei suoi diciotto anni appena compiuti, la baby squillo di Cuneo ha giustificato la vendita del proprio corpo quand’era ancora minorenne e lo faceva in cambio di (molti) soldi e qualche sniffata. Spiegando a tutti noi una cosa sconcertante: l’oscenità della prostituzione, intesa come «fuori dalla scena», al riparo della visibilità, appare più dignitosa del finire su quella piazza mediatica dove tante ragazzine si esibiscono in cambio di niente o poco di più. E’ una morale discutibile quella che trasforma l’ipocrisia della discrezione in un valore aggiunto agli occhi di una sedicenne che si prostituisce in autogestione, o almeno così pare.
Ma la questione va certamente al di là di un giudizio etico scontato da parte di quella società civile in cui ci riconosciamo come benpensanti. Perché negli ultimi decenni il sesso ha attraversato una girandola di definizioni davvero spiazzante. Prima era peccato tout court, il distillato di tutti i tabù. Due generazioni fa ci è stato insegnato che è un’esperienza positiva, ma imprescindibile dall’amarsi. Che senza amore non ha senso, ed è sbagliato. Poco dopo si è scoperto che sta in piedi da solo, che va scoperto e praticato per quello che è. Oggi stiamo imparando, non tanto a spese di noi adulti quanto di chi si sta formando nell’onda lunga di tutte queste metamorfosi, che nel passaggio da un’idea all’altra qualcosa di forse irreparabile s’è perso per strada. Che fra il sesso come tabù e il sesso come esercizio di libertà dovrebbe stare un tassello importante. Quello che manca alla storia e alle parole di una sedicenne che si prostituisce perché crede di averlo scelto ma si sbaglia e con lei sbagliamo tutti noi che prepariamo per i nostri figli un terreno infido e paludoso, dove si affonda con i piedi e con il cuore e con la testa.
Perché la libertà – e in particolare quella di considerare e praticare il sesso – non ha senso senza la consapevolezza e il senso di responsabilità che in sostanza significa avere, per se stessi e per il mondo che ci circonda, un minimo di lungimiranza. La coscienza, cioè, che le nostre azioni e i nostri pensieri portano inevitabilmente delle conseguenze. Come quella di compromettere la tua libertà di considerare e praticare il sesso in futuro, associandolo o meno all’amore, dopo che a sedici anni ti sei prostituita non perché qualcuno ti ha obbligato a farlo, ma per una presunta libertà di scelta. Che altro non è se non incosciente sfruttamento di sé. Anche se il cliente ti paga, e pure bene. Anche se «non fa nulla di male» se non stravolgere l’idea che a sedici anni ci si dovrebbe formare del sesso, dell’amore, dei rapporti fra le persone, di se stessi come persona.
Ricavare denaro e beni tangibili dal «libero» sfruttamento del proprio corpo ha varcato il confine del tabù: per le giovanissime generazioni assomiglia sempre di più a una specie di normalità. Non di consuetudine, ma quasi. Certamente non stupisce più di tanto, purtroppo: né quando si esercita con la colpevole omertà del cliente adulto né quando esce quasi allo scoperto nel folto della trama mediatica, sugli schermi dei cellulari, sulle pagine dei social network. Tocca all’educazione stabilire dei confini netti, e non tanto appigliandosi a una moralità astratta e scivolosa quanto puntando su quel senso di responsabilità verso se stessi che sta alla base di ogni libertà. Anche e soprattutto quella di pensare e praticare il sesso.

Corriere 23.10.14
I festini agricoli e gli aborti delle mille schiave romene
Arrivate per fare le braccianti, vivono in baracche senz'acqua potabile accanto alle serre. Alcune finiscono a fare le prostitute nelle discoteche rurali, la maggior parte resta intrappolata in un concubinato con i padroncini
di Dario Di Vico

qui

Repubblica 23.10.14
“Non usiamo più la parola socialismo” Valls, intervista-shock divide la gauche

PARIGI «Bisogna farla finita con la sinistra passatista, quella che si appiglia a un passato perduto e nostalgico, ossessionata dal marxismo»: con un’intervista al settimanale Nouvel Observateur il primo ministro francese Manuel Valls ha suggerito di mandare in archivio la parola «socialista». «Serve una sinistra pragmatica, riformista e repubblicana», riunita in una «casa comune con tutte le forze progressiste», sostiene il premier. La polemica di Valls è diretta soprattutto contro la sinistra del partito, che non condivide la linea “social-liberale” del governo e martedì è arrivata ad astenersi - con 39 deputati - al voto sul bilancio 2015.

La Stampa 23.10.14
Milioni di carte verdi
Così Obama prepara il blitz sull’immigrazione
di Paolo Mastrolilli


L’immigrazione sta diventando un paradosso della politica americana. Da una parte i repubblicani trascurano gli ispanici, perché secondo alcuni modelli possono fare e meno dei loro voti per vincere le elezioni Midterm del 4 novembre. Dall’altra la Casa Bianca si prepara ad una offensiva per sbloccare la questione degli illegali, perché i democratici puntano proprio sui latini per vincere le presidenziali del 2016, e creare una nuova maggioranza stabile e duratura.
Il primo punto sta nell’analisi pubblicata nel blog del «New York Times» TheUpshot. Secondo questo studio, se il 4 novembre il Gop non prendesse neanche un voto tra gli ispanici, conserverebbe comunque la maggioranza alla Camera, e probabilmente conquisterebbe lo stesso quella al Senato. Il motivo sta nella distribuzione della popolazione e nella mappatura dei distretti. La maggior parte degli ispanici vive in zone dove i democratici già vincono le elezioni parlamentari, e quindi l’incremento dei loro voti non cambia di molto il numero dei deputati conquistati dai due partiti. Al massimo, se proprio tutti i latini voltassero le spalle al Gop, i repubblicani perderebbero una decina di seggi e manterrebbero la maggioranza. Al Senato invece si vota su base statale, ma la maggior parte delle sfide decisive quest’anno non avviene in regioni dove gli ispanici sono dominanti. Questo si riflette sul tipo di campagna condotta dai candidati repubblicani, che hanno trascurato i temi cari ai latini per conservare il sostegno decisivo dei bianchi e di altri gruppi a loro favorevoli.
Il discorso però cambia, se si rivolge lo guardo al 2016. Il peso degli ispanici è stato determinante nel 2012 per la vittoria di Obama, e probabilmente lo sarà ancora alle prossime presidenziali, negli stati già democratici come New York e California, in quelli che lo stanno diventando come Nevada, Colorado o New Mexico, e soprattutto nel Texas, che se tornasse a votare per i democratici consegnerebbe loro la Casa Bianca per almeno una generazione. Il presidente lo sa e sta meditando un blitz da attuare dopo le elezioni Midterm, per scavalcare il Congresso repubblicano e riformare l’immigrazione a colpi di ordini esecutivi. Lo US Citizenship and Immigration Services ha già preparato il contratto per acquistare tra 5 e 9 milioni di carte verdi all’anno, per un massimo di 34 milioni nell’arco del prossimo quinquennio.
Al momento ne emette 3 milioni all’anno, e questo significa che la Casa Bianca sta pensando di raddoppiarle. Una rivoluzione dell’immigrazione, per rivoluzionare anche gli equilibri politici negli Usa.

La Stampa 23.10.14
“L’esercito israeliano uccide quanto Isis”
L’accusa della deputata arabo-israeliana
Haneen Zoabi, del partito Balad, in un’intervista tv dice: “Lo Stato Islamico uccide una persona alla volta usando i coltelli mentre l’esercito israeliano uccide dozzine di palestinesi spingendo dei bottoni”
I laburisti chiedono “provvedimenti severi”
di Maurizio Molinari

qui

La Stampa 23.10.14
Attentato a Gerusalemme
Muore bimba di tre mesi
Un palestinese vicino ad Hamas investe i passanti. Netanyahu: è terrorismo
di Maurizio Molinari


L’uccisione di una bambina israeliana di 3 mesi da parte di un palestinese di Hamas spinge Benjamin Netanyahu ad accusare Abu Mazen di «responsabilità nell’incitamento all’odio contro gli ebrei di Gerusalemme». Tutto inizia quando a Gerusalemme sono passate da poco le 18 di ieri e sulla strada che costeggia la Collina delle Munizioni - lungo il percorso della linea verde che separava la città fino al giugno 1967 - un’auto esce dalla corsia di marcia per gettarsi a tutta velocità sui passeggeri che sostano alla fermata del treno leggero. Alla guida della vettura c’è Abed al Rahman al Shloody, palestinese di 21 anni, residente a Silwan, e investe una folla di persone. Nove i feriti, che vengono ricoverati negli ospedali cittadini e nelle più gravi condizioni versa una bambina di 3 mesi, travolta mentre era con la madre. I medici dell’«Hadassah Hospital» lottano per due ore nel tentativo di salvarle la vita ma la piccola è troppo fragile per reagire alle ferite subite alla testa.
Appena la notizia della morte si diffonde, arriva la reazione del premier israeliano Benjamin Netanyahu che punta l’indice verso il presidente palestinese Abu Mazen: «Queste sono le conseguenze del discorso che ha pronunciato solo pochi giorni fa, incitando all’odio contro gli ebrei di Gerusalemme» avendo adoperato l’espressione «mandrie di bestiame» contro gli ebrei che salgono sulla Spiana delle Moschee «commettendo un sacrilegio». Ma non è tutto perché l’identità del killer - con alle spalle due arresti per terrorismo - spinge Netanyahu ad andare oltre: «Appartiene ad Hamas e questi attentati dimostrano come operano i partner di Abu Mazen» protagonisti dell’accordo di unità nazionale fra Hamas ed Al Fatah.
L’attentatore (ferito gravemente) è stato catturato dalla polizia pochi attimi dopo l’attacco e Micky Rosenfeld, portavoce degli agenti, parla di «indagini in corso per appurare la genesi dell’attacco», ovvero se ha eseguito degli ordini e se ha avuto dei complici. Hamas da Gaza non nega la paternità dell’azione: «È una reazione naturale ai crimini dell’occupazione». L’episodio è avvenuto a breve distanza da dove, a fine agosto, un altro palestinese di Gerusalemme Est alla guida di un trattore attaccò un autobus di linea e dei passanti uccidendo un uomo di 29 anni.
Il ripetersi di scontri e violenze a Gerusalemme Est porta il sindaco della città, Nir Barkat, a chiedere al governo di «schierare la polizia nei quartieri arabi», ma il ministro della Sicurezza Interna Yitzhak Aharonovich obietta: «Non siamo davanti a una terza Intifada ma a singoli atti di terrorismo». La provenienza del killer da Silwan porta l’attenzione su un quartiere arabo a ridosso della Città Vecchia teatro di tensioni a seguito dell’insediamento di nove famiglie ebraiche in due edifici acquistati da privati. Gruppi di arabi hanno attaccato questi edifici con molotov e petardi, ingaggiando scontri con le forze di sicurezza e ciò ha portato i portavoce palestinesi da Ramallah a parlare di «battaglia in corso per Gerusalemme».

Corriere 23.10.14
Sorpasso a Pechino, gli investimenti all’estero superano i capitali in entrata
di Giovanni Stringa


MILANO Dal 2% in Mediobanca al Waldorf Astoria, lo shopping dei capitali cinesi all’estero — acquisto dopo acquisto — arriva ora alla tappa del «sorpasso». Per la prima volta gli investimenti cinesi in uscita oltre confine potrebbero superare quelli stranieri in entrata nel Paese del Dragone. La stima, per il 2014, è stata fatta da un funzionario cinese. Dietro i calcoli c’è il balzo del 21,6% degli investimenti cinesi diretti all’estero — a 75 miliardi di dollari — nei primi nove mesi del 2014 rispetto allo stesso periodo dell’anno prima. Il sorpasso? «E’ solo una questione di tempo, se non succede quest’anno accadrà in un futuro molto prossimo», ha detto Zhang Xiangchen, viceministro del commercio a Pechino, al «Financial Times». «La Cina è già un Paese che esporta capitali — ha aggiunto — e adesso è pronta a diventare un esportatore netto». In altre parole: presto (se non già ora) Pechino investirà all’estero più di quanto l’estero investa a Pechino. E tra le mete preferite c’è l’Italia. Nella lista degli acquisti tricolore ci sono, per esempio, il 35% di Cassa depositi e prestiti Reti (la holding che controlla Snam e Terna) e le quote intorno al 2% in Eni, Enel, Fiat, Telecom Italia e Prysmian.

Corriere 23.10.14
L’attentato di Ottawa
Difendersi da nemici senza volto
di Massimo Gaggi

qui

Repubblica 23.10.14
Il nemico in casa
di Federico Rampini


L’ALLEATO più fedele degli Stati Uniti, il Canada, vive una giornata di terrore che rilancia l’incubo del “nemico in casa”.
LA capitale Ottawa in stato d’assedio per il tiro a segno di Michael Zehaf-Bibeau, canadese convertito all’Islam. Il Parlamento bersagliato da raffiche di spari, una fortezza assaltata. Tutto il Nord America si riscopre di colpo vulnerabile. In centinaia di milioni, dal Canada agli Stati Uniti, seguono la cronaca minuto per minuto come un incubo che si ripete, le prove generali di un nuovo 11 settembre. L’angoscia è accentuata dalle immagini dei parlamentari canadesi che fuggono all’impazzata; mentre altri sono costretti a rinchiudersi negli uffici del Congresso, luci spente e tapparelle abbassate per non diventare bersagli di un tiro a segno. Il comunicato sul “premier Harper evacuato in un luogo sicuro, con i capi dell’opposizione”, riporta alla memoria proprio quel che accade l’11 settembre con George W. Bush, il presidente “scomparso e nascosto” a lungo. Washington soffre per la capitale gemella, quel che accade a Ottawa sembra un sinistro presagio di minacce che incombono anche sugli Stati Uniti. Nelle reazioni a caldo, sono gli ame- ricani i primi a puntare l’indice verso la pista islamica. Prima ancora che giunga la conferma ufficiale del Canada, l’Fbi sospetta un jihadista, e ne trae le conseguenze immediate anche sul territorio Usa: il Pentagono mette in stato di massima allerta l’intero comando aereo nordamericano (Norad), controlli speciali scattano alle frontiere e attorno alle sedi diplomatiche a Washington. Gli americani hanno visto giusto subito, grazie a un accumulo di indizi, coincidenze, segnali inquietanti. Anzitutto c’è il precedente di 48 ore prima, quando un recente convertito all’Islam ha investito due soldati canadesi, uccidendone uno. C’è il fatto che proprio ieri sera il premier Stephen Harper doveva presiedere una cerimonia per il conferimento della cittadinanza onoraria a Malala Yousafzai, l’adolescente pachistana invisa ai talebani, che ha ricevuto il Nobel della pace per la sua difesa del diritto all’istruzione per le donne. C’è il ruolo canadese nella coalizione anti-Stato islamico. C’è infine il fatto che numerosi cittadini canadesi di origine islamica hanno raggiunto i ranghi dei jihadisti in Siria e in Iraq: una legione straniera dalla quale possono emergere terroristi di ritorno, pronti a colpire in Occidente. Anche le modalità dell’attacco evocano analogie, parallelismi tutt’altro che rassicuranti. L’assalto armato a un Parlamento è una scenografia che fece le prove generali in India, a New Delhi, appena due mesi dopo l’11 settembre 2001. E, sempre in India, la strage di Mumbai (26 novembre 2008) avvenne come una scorribanda da un obiettivo all’altro: come ieri a Ottawa gli attacchi sono avvenuti prima in un monumento ai caduti, poi nella sede dell’assemblea legislativa. La dimensione dell’attacco a Ottawa è molto più piccola, il bilancio delle vittime modesto, ma l’effettopanico è enorme. Conferma i timori che da mesi l’intelligence Usa sta mettendo a fuoco. Dopo le decapitazioni di ostaggi occidentali da parte dello Stato islamico, avvisano gli esperti dell’anti-terrorismo, la tappa successiva nell’escalation può portare l’attacco in casa delle potenze occidentali. La logica è identica a quella delle decapitazioni: il “castigo” contro coloro che intervengono a contrastare il progetto del Grande Califfato. Si sa che nelle zone della Siria e dell’Iraq controllate dai jihadisti, si confrontano due anime e due strategie: coloro che privilegiano un progetto di conquista locale, di espansione in Medio Oriente; e le fazioni che vogliono continuare l’opera di Osama Bin Laden colpendo l’Occidente in casa sua. La pericolosità della “legione straniera” è stata sottolineata con la decisione di Washington di introdurre nuovi controlli mirati negli aeroporti, in vista di esplosivi “invisibili” alle attuali tecnologie. Una delle ragioni che convinsero Obama a dare il via libera ai bombardamenti sulla Siria, fu proprio la prospettiva di un andirivieni di jihadisti con passaporti americani, canadesi o inglesi, liberi di portare l’attacco dove vogliono. Ieri sera il profilo di Zehaf-Bibeau sembrava piuttosto quello del “lupo solitario”, un ex tossicodipendente convertito all’Islam, non necessariamente il membro di una cellula organizzata. Ma c’è anche questo effetto “copycat”, la sindrome dell’imitazione, tra i pericoli reali nelle frange estreme delle comunità islamiche. E l’Occidente è costretto comunque a fare i conti con tutte le proprie insicurezze.

Corriere 23.10.14
Quella rete planetaria di «lupi solitari»
Isis è riuscita dove Al Qaeda ha fallito: volontari arruolati con i video, connessi con i social media
di Lorenzo Cremonesi


ISTANBUL Lo Stato Islamico (Isis) potrebbe riuscire dove Al Qaeda oltre dieci anni fa aveva provato con successi solo parziali: la creazione di una rete di «lupi solitari» e cellule isolate in grado di organizzare e mettere in atto azioni terroristiche in ogni angolo del mondo. L’attentato di ieri sera a Ottawa è ancora troppo fresco per essere chiarito nei dettagli. Mentre scriviamo, le operazioni sono in corso e la polizia canadese resta impegnata per identificare i responsabili.
Eppure, le dinamiche dell’incidente tendono a confermare i timori più gravi espressi ormai da tempo tra le forze di sicurezza occidentali: Isis ha messo in atto un complesso, articolato meccanismo di propaganda utilizzando i social media più diffusi con il fine di reclutare simpatizzanti e attivisti in grado di lanciare la «guerra santa» a ogni livello e contro qualsiasi obiettivo ritenuto interessante dai suoi autori.
L’ultimo grido di allarme era arrivato chiaramente a metà settembre da Bill Bratton, commissario della polizia di New York. Allora sui siti più utilizzati dai simpatizzanti dei jihadisti in Siria e Iraq era apparso un video titolato: «Ai Lupi solitari in America, come preparare una bomba nella tua cucina». La polizia americana ne aveva immediatamente ordinato la censura. E Bratton si era detto molto preoccupato. «Si tratta di un’evoluzione pericolosa nel mondo del terrorismo. La diffusione dei video delle decapitazioni in Siria, i tweet con le foto delle esecuzioni di massa dei prigionieri, sono tutti strumenti per fomentare le fantasie dei lupi solitari in ogni angolo del pianeta», aveva commentato.
Se andiamo a vedere la storia recente dell’estremismo islamico troviamo che l’idea di creare «quinte colonne» e «cellule dormienti» nella maggiori capitali occidentali pronte ad agire autonomamente in ogni momento ha almeno una ventina d’anni. Ma la novità sta bel fatto che Isis usa con sapienza, perizia e continuità tutti i possibili strumenti offerti dalle tecnologie più recenti della comunicazione.
Vai sui loro account Twitter e Facebook e scopri che ormai ogni accadimento viene documentato, fotografato, diffuso con dovizia di particolari. I jihadisti si fanno i «selfie» con le teste decapitate dei nemici in mano, tenute per i capelli, nel momento in cui le impalano sulle palizzate. Una volta i criminali nascondevano le prove dei crimini. Loro, al contrario, ne fanno una vera apologia della violenza. I loro video su Youtube sono una forma perversa di pornografia dell’orrore.
«Venite con noi, qui ci si diverte un sacco», gridavano in inglese nei video i volontari anglosassoni in giugno seduti sui carri armati nel centro di Mosul appena catturata con le dita verso la telecamera a «V» di vittoria. Tre giorni fa mostravano felici alcune casse di bombe a mano e munizioni lanciate dagli americani ai curdi di Kobane e cadute per errore nei quartieri tenuti dai jihadisti. In altri video indugiavano invece sui cadaveri insanguinati di giovani combattenti curdi mentre li prendevano a calci urlando «morte ai cani comunisti che non riconoscono Allah».
Il loro messaggio è terribilmente semplice: Dio è con loro, prova ne è che vincono. Si sentono nel giusto e combattono la corruzione dell’Occidente. Ora offrono persino schiave sessuali a chi si arruola. Sono la risposta più facile e veloce alla complessità del mondo contemporaneo. Forniscono identità e forza a qualsiasi tipo di follia e perversione. Offrono certezze ai confusi, danno sicurezze a chi non ne ha. C’è da attendersi che i «lupi solitari» crescano ancora, prima di cominciare a diminuire.

Corriere 23.10.14
Gli spiriti di un popolo
Etruschi, la vita «normale» dell’aldilà e sui diritti civili arrivarono per primi
di Eva Cantarella


La parola che un tempo tornava più spesso quando si parlava della civiltà etrusca era «misteriosa». A contribuire a questa fama stava, in primo luogo, il problema delle sue origini: chi era, da dove veniva quel popolo stanziato nel II millennio a.C. nell’attuale Toscana? Per Erodoto si trattava di genti venute dall’Asia minore, mentre secondo Dionigi di Alicarnasso erano una popolazione indigena.
Ma la dottrina moderna ha risolto il mistero: la civiltà etrusca (la cui la lingua, registrata in una scrittura simile al greco, è da tempo decifrata) nacque dalla fusione tra correnti migratorie anatoliche e popolazioni indigene prelatine. A livello popolare, poi, torna spesso l’idea, alimentata dalla gran quantità dei monumenti sepolcrali lasciati dagli etruschi, di un misterioso rapporto di questi con la morte.
Ma la spiegazione di questa abbondanza è semplice: le tombe erano costruire con materiali più nobili e dunque meno deperibili di quelli usati per le case di abitazione, che quindi sono andate perdute. Quella che può sembrare una singolare attrazione per l’aldilà (popolato di demoni non diversamente da quello dei greci e dei romani) è solo la conseguenza del modo in cui gli etruschi concepivano la vita oltre la morte: per loro, infatti, era una vita assolutamente identica a quella terrena, con la sola differenza che era eterna. Nelle tombe dunque nulla di quello che il defunto aveva avuto e di cui aveva avuto bisogno in vita doveva mancare: dalle suppellettili agli oggetti di uso quotidiano, dagli abiti ai segni del potere. Insomma, l’ideologia funeraria degli etruschi era tutt’altro che inquietante. In definitiva, non è il mistero quello su cui val la pena riflettere, ma qualcosa di più importante: è il problema dei possibili influssi della loro cultura su quella della vicina Roma — sulla quale, sul finire dell’età regia dominarono ben tre re etruschi.
Cominciamo, dal campo del diritto criminale: un’antichissima legge voleva che il colpevole di perduellio (alto tradimento) venisse sospeso con una corda a un arbor infelix (albero infelice) e fustigato a morte. Ebbene, al di là del fatto che la distinzione tra alberi felici e infelici (di buono e di cattivo auspicio), era etrusca, come scrive Cicerone questa legge venne introdotta dal re etrusco Tarquinio il Superbo. Passiamo alle pratiche sociali: anche i giochi gladiatori erano stati importati dall’Etruria, dove venivano praticati durante i funerali in onore del defunto. Ma quel che più interessa è vedere se e come la cultura etrusca agì sulle strutture fondamentali della civitas romana e in particolare sulla famiglia, che i romani consideravano il fondamento della stabilità dello Stato. Per ragionare su questo tema, bisogna ricordare che originariamente, sia in Grecia sia a Roma, le donne erano totalmente subordinate ai maschi della famiglia, e che in Grecia la situazione rimase praticamente immutata fino all’età ellenistica. A Roma, invece, verso la fine della repubblica, le donne nel campo del diritto privato avevano raggiunto una quasi totale parificazione con i diritti maschili. È lecito pensare che alla base di questo fenomeno stia l’influsso del mondo etrusco, dove le donne godevano di ben altra libertà e ben altri diritti?
Sia ben chiaro. Non si intende, con questo, riesumare la teoria da tempo ampiamente superata del cosiddetto matriarcato etrusco, né quella, indimostrata, che parla della sua matrilinearità (trasmissione del nome e del patrimonio in linea femminile). Ma questo non toglie che le donne etrusche, a differenza di quelle romane, fossero parte attiva della vita sociale: ad esempio, partecipavano ai banchetti stando sdraiate e non sedute, come le romane, che tra l’altro erano ammesse solo alla prima parte della cena, quando non si beveva vino.
Erano «coltivate», godevano di autonomia patrimoniale; disponevano liberamente dei loro beni. È possibile che il progressivo riconoscimento di diritti alle romane (in particolare, quello di ereditare il patrimonio paterno insieme e al pari dei fratelli, cosa mai concessa alle ateniesi) fu conseguenza dell’influsso etrusco? Difficile provarlo ma l’ipotesi è più che plausibile. A ben vedere, gli etruschi ci sono molto meno estranei di quanto siamo soliti pensare.

Corriere 23.10.14
Vasi, sculture e ologrammi Come si ricostruisce la storia
Accanto ai reperti, il sarcofago degli Sposi virtuale
di Andrea Rinaldi


Come negli scritti di Tito Livio, dove Felsina, l’antico nome di Bologna, si era guadagnata il rango di insediamento più importante tra i 12 che costituivano la confederazione etrusca della pianura Padana. Come allora, il capoluogo emiliano torna al centro dell’Etruria del Nord Italia con una mostra che, nei temi e nell’allestimento vuol segnare uno spartiacque nel tradizionale racconto del passato.
Fino al 22 febbraio, infatti, Palazzo Pepoli-Museo della Storia di Bologna sarà il teatro di Il viaggio oltre la vita. Gli etruschi e l’aldilà tra capolavori e realtà virtuale , un allestimento dove i reperti, alcuni dei quali provenienti dal museo di Villa Giulia di Roma, dialogheranno con musica, design e soluzioni di avanzata tecnologia. «Abbiamo sempre ritenuto che il multimediale fosse importante per integrare quello che viene fatto con le parole e le immagini, cioè per sposarsi con il tradizionale, con il libro, con la lettura, anche se non può essere esclusivo», argomenta Fabio Roversi Monaco, presidente di Genus Bononiae, il circuito dei musei a cui fa capo Palazzo Pepoli.
Realizzata da Genus Bononiae, Fondazione Carisbo e Museo Villa Giulia, l’esposizione presenterà reperti per la prima volta fuori dal museo romano come alcune ceramiche figurate, due sculture in pietra da Vulci e Cerveteri, vasi attici da tombe etrusche come il Cratere di Euphronios, trafugato e poi restituito all’Italia dagli Stati Uniti e la trasposizione della Tomba della Nave di Tarquinia, le cui pareti sono state rimontate su pannelli così da ricreare nelle sale del Palazzo l’ambiente sepolcrale viterbese. Ci saranno anche tre stele felsinee figurate, due di più antico rinvenimento e una di più recente scoperta, tutte e tre importantissime per la ricostruzione dell’immaginario funerario della città e per la rappresentazione del viaggio del defunto verso l’aldilà. Ma c’è un’altra ricostruzione, questa virtuale. È l’installazione, firmata dal regista Giosuè Boetto Cohen e realizzata dal Cineca, che riproduce il famoso Sarcofago degli Sposi, simbolo della civiltà etrusca e di cui esistono solo due esemplari, uno appunto a Villa Giulia e uno al Louvre. Nella Sala della Cultura di Palazzo Pepoli, dove si potrà assistere allo spettacolo a gruppi di 30 persone, 21 proiettori illustreranno la storia degli antichi villanoviani su tre pareti, giocando quindi su uno schermo di 38 metri per 12, mentre in una teca al centro comparirà l’ologramma del Sarcofago a grandezza naturale e in ogni suo dettaglio. Lo spettacolo è in 4 atti e dura 11 minuti, scandito dalle musiche di Marco Robino, già al lavoro con Peter Greenaway, e di un quintetto d’archi (il musicista suonerà oggi all’inaugurazione). «Tutti i musei hanno il problema di comunicare con un pubblico oggi che non parla più la loro lingua colta. Chi vuole consegnare qualcosa deve farlo con mezzi nuovi. Ecco la nostra sfida», osserva Boetto Cohen a proposito di questa narrazione innovativa.
Tant’è che oltre al progetto del Sarcofago, il regista ha curato anche un film per illustrare il legame tra Etruria del Sud e quella del Nord. Boetto Cohen già nel 2011, per conto di Genus Bononiae, aveva realizzato un corto 3d sulla Bologna villanoviana, in cui a dar voce al piccolo etrusco Apa era stato Lucio Dalla. Adesso invece il testimone passa a Sabrina Ferilli, che farà parlare una donna etrusca in «Ati alla scoperta di Veio». Il corto verrà proiettato all’interno della mostra e rimarrà nella collezione permanente di Villa Giulia.

Corriere 23.10.14
E Lariza riaccolse Xestes sulla tomba
«Così staremo per sempre insieme»
di Mariangela Cerrino


Il sole era al tramonto, e la facciata del Tempio della Dea Uni ne assorbiva lo splendore. Non era mai stato tanto magnifico. Il suo riflesso si stemperava nella vasca colma di acqua purificatrice, appena al di fuori del recinto interno, ma era distorto dal vento che ne increspava la superficie, e i colori erano confusi. Xestes evitò di soffermarsi sulle immagini mutevoli che si creavano: potevano portargli presagi infausti.
Xestes si voltò, perplesso, a guardarlo. Pyrgi, la bella città-porto di Xaire, era traboccante di vita, di suoni, di marinai e di mercanti indaffarati. Lui riusciva a distinguere le vele ripiegate delle holkades alla fonda, cullate dalle onde, ma le banchine gli apparivano deserte, e il ricco quartiere appena oltre giaceva nell’oscurità. Perché i servi tardavano ad accendere i lumi? Perché le innumerevoli locande non avevano dinanzi alle soglie le torce e i bracieri accesi? Eppure c’era una musica... un suonatore di doppio flauto, nascosto, era così abile che la melodia si espandeva in ogni dove. Tuttavia era inconsueta e toccando toni ora acuti ora gravi si ripeteva, sempre uguale, trascinando la mente in una sorta d’incantamento.
Xestes rabbrividì. Perché era lì, sul finire del giorno? Lui era di Tarchna e Pyrgi non era la sua città, così come non lo era Xaire. La sua famiglia era imparentata con i Tarquini e lui ricopriva una carica importante. Ma provava un senso di smarrimento, pensandoci. Qual era la sua funzione nella sua città? Non riusciva a ricordarlo. Tutto quello che sapeva era che aveva compiuto le sue dieci settimane di sette anni ciascuna e che, come insegnava la Disciplina di Tagete, il legame con gli Dei creato al momento della sua nascita si era dissolto. Forse per questo gli era così difficile ricordare?
Poi la vide. Forse era uscita dal Tempio, di certo non gli era passata accanto. Sostava immobile sul lato opposto della vasca e l’ultimo bagliore del sole la coronava di luce. Il chiton leggero brillava come se fosse cosparso d’oro. I capelli scuri erano raccolti in due trecce pesanti a ogni lato del viso, ma sulle spalle erano liberi. Quanto aveva amato quei capelli!
Gli sembrò che il cuore mancasse un battito e che, di rimando, l’intero universo restasse immobile. «Lariza?» mormorò. Lei gli sorrise, muovendosi per raggiungerlo. Gli sembrò più giovane dell’immagine che aveva nella mente. Ma poi la donna gli arrivò accanto, e intrecciò le mani alle sue. «Ti ho atteso, come mi avevi chiesto di fare», disse, e Xestes la attirò contro di sé, e sentì il suo calore avvolgerlo, e la felicità colmarlo. «Te l’ho chiesto? Quando?» «Quando hai voluto i nostri corpi modellati per la nostra tomba. Ricordi quello che hai detto? Niente potrà dividerci. Saremo insieme per l’eternità, e quello che andrà per primo aspetterà nel giorno senza tempo che l’altro lo raggiunga». Xestes ora ricordava. Avevano persino riso quando l’artista (fatto venire da Tarchna!) aveva infine mostrato loro l’opera compiuta.
«Questi sposi non ci somigliano poi così tanto...», era stato il suo commento d’allora. Ma poi aveva compreso. Non era solo argilla. Avevano voluto trattenere uno dei loro tanti momenti felici e un frammento della loro essenza si era amalgamato alla materia, e vi sarebbe rimasto infuso, fino alla fine del Tempo del Mondo.
Lariza sorrise, prendendolo per mano. «Ricordi il giorno delle nostre nozze? Abbiamo chiesto alla Dea Uni di custodire il nostro amore come un tesoro prezioso. Proprio qui». Xestes annuì. Era stato il giorno più bello della sua vita! Ricordava che per lei aveva scelto di lasciare la sua città, e di rinunciare agli onori dovuti alla sua famiglia, accettando l’incarico più modesto di zilath a Xaire. «Sei pentito di quella scelta?» sussurrò Lariza, con un sorriso. «Di aver passato la mia esistenza con te a Xaire? Non me ne sono mai pentito e non me ne pento ora». Le passò un braccio intorno alla vita; scesero fino alla battigia e sedettero sulla sabbia. «Così, siamo finalmente insieme nel giorno senza tempo», comprese Xestes. «Sono morto». Lariza gli poggiò la testa sulla spalla. L’onda lieve lambiva loro i piedi e il cielo si era chiuso in una sfera brillante di stelle. «I nostri figli hanno appena deposto le tue ceneri unendole alle mie, nel sarcofago», sussurrò la donna. «Ora siamo sposi nell’eternità».

Corriere 23.10.14
Il viaggio nel tumulo di un antico nocchiero


La mostra «Il viaggio oltre la vita. Gli Etruschi e l’aldilà tra capolavori e realtà virtuale» propone anche una visita all’interno di una vera tomba etrusca. Nella foto, ecco la Tomba della Nave, una tomba dipinta di Tarquinia, le cui pareti affrescate sono state «strappate» dalla camera originaria e rimontate in appositi pannelli in maniera tale da ricostruire interamente l’ambiente tombale all’interno del Museo della Storia di Bologna. Il tumulo risale alla metà del V secolo a.C. e prende il nome dalla grande nave
da carico dipinta all’inizio
della parete di sinistra. Forse indicava la professione del defunto. Nei pressi della poppa c’è una coppia di remi che fa
da timone e sulla sommità di uno degli alberi c’è una coffa per avvistamento. Sulla parete di destra è illustrata una scena del banchetto. La tomba è
stata scoperta nel 1927 presso la Necropoli di Monterozzi (Tarquinia, vicino a Viterbo).

Corriere 23.10.14
Musei web e social Italia ancora indietro
di Francesca Bonazzoli


Conservatorismo, atteggiamento elitario, impreparazione dei dirigenti, assenza di spirito innovativo e imprenditoriale, carenza di energia propositiva. Sono questi i motivi per cui i musei italiani sono vergognosamente indietro nello sfruttamento del web. Le possibilità per cambiare la situazione senza troppa spesa e senza grandi rivoluzioni ci sono. È la mentalità che manca. Se alla mostra di Bologna lo spettacolo digitale del Sarcofago degli Sposi è stato accolto con entusiasmo dai responsabili del museo, a Milano una mostra multimediale su Leonardo che ha avuto grande successo di pubblico, è stata snobbata dai «leonardologi istituzionali» proprio perché racconta il genio da Vinci con video interattivi. Con l’Expo alle porte, la maggior parte dei nostri musei si presenta ancora attraverso siti statici, scarsa interazione via Facebook e Twitter e senza la versione inglese. Un nativo digitale sa che il vecchio refrain della mancanza di fondi non tiene: per fare un bel sito bastano 5 mila euro e per tenerlo attivo basterebbero alcuni delle migliaia di giovani creativi a spasso. Il sito svegliamuseo.com , «nato per svegliare i musei italiani online sfruttando il potere del web», racconta come a Madrid il museo del Romanticismo sia rinato grazie alla presenza su tutti i social. La Tate di Londra ha redatto The Digital Strategy 2013-2015 sull’uso degli strumenti digitali. Noi siamo indietro di almeno cinque anni anche se qualche buona iniziativa si comincia a vedere. L’Associazione Amici dell’Arte Moderna a Valle Giulia e la GNAM di Roma hanno lanciato #Selfiedautore, un hashtag che serve a diffondere il patrimonio culturale. È la strada giusta. Senza arrivare al video capolavoro fatto per la riapertura del Rijksmuseum (si trova su youtube e ha oltre 5 milioni di visualizzazioni), ci si può promuovere anche solo con un osso, come hanno fatto a Francoforte (lo si può vedere qui: youtube.com/watch?v=irXBtk2sEYE). Centinaia di giovani videomaker sono disponibili nel nostro Paese a basso costo. Coinvolgiamoli!

Repubblica 23.10.14
Tra “Il Capitale” e Piketty, letteratura e politica, Africa e global: il neocuratore di Venezia racconta come sarà questa 56esima edizione
Enwezor: “La mia Biennale con Marx”

“Parlare esclusivamente del mercato ci distrae da tutte le realtà che accadono nel sistema dell’arte”
di Dario Pappalardo


VENEZIA LO spettro di Karl Marx si aggira per la Biennale di Venezia. La lettura ininterrotta del Capitale è una delle idee che Okwui Enwezor porterà in laguna nell’edizione numero 56, in programma dal 9 maggio al 22 novembre 2015. All the World’s Futures , questo il titolo, darà conto delle «fratture che oggi ci circondano e che abbondano in ogni angolo del panorama mondiale, rievocano le macerie evanescenti di precedenti catastrofi accumulatesi ai piedi dell’angelo della storia nell’ Angelus Novus.
Come fare per afferrare appieno l’inquietudine del nostro tempo, renderla comprensibile, esaminarla e articolarla?». Citando Walter Benjamin e l’opera-simbolo di Paul Klee che lo ispirò, Enwezor spiega la sua “mostra”. Con le parole di Marx come ronzio di sottofondo. A Venezia torna la politica. «Ricordiamo però che si tratta di una esposizione d’arte e non di un convegno di economisti e politologi», ribadisce più volte il presidente della Biennale Paolo Baratta, durante la presentazione di ieri (presenti 56 Paesi) a Ca’ Giustinian. Anche se poi anticipa che in laguna ha invitato l’economy star Thomas Piketty.
Oggi però la stella è Enwezor. Nato in Nigeria nel 1963, è il primo africano a guidare la Biennale d’arte: l’unico, dopo il curatore Harald Szeemann, ad aver firmato anche la rassegna Documenta di Kassel, nel 2002. Ha lo sguardo afropolitan: origini black ed esperienze global. Vanta un lungo curriculum accademico americano, nel 1994 ha fondato N-KA, rivista diventata punto di riferimento per l’arte africana contemporanea e ora dirige la Haus der Kunst di Monaco di Baviera. La sua Biennale sarà una disordinata radiografia dello «stato delle cose», come dice lui: metterà insieme artisti e attivisti. Non c’è un unico tema, «uno solo non è possibile», ma tre filtri guida: “Vitalità: sulla durata epica”, un programma di performance live sempre “accese” per sette mesi; “Il giardino del disordine”, ai Giardini, al Padiglione centrale e all’Arsenale, dove «gli artisti sono stati invitati ad elaborare delle proposte che avranno come punto di partenza il concetto di giardino, realizzando nuove sculture, film, performance e installazioni per All the World’s Futures ». Ultimo filtro: “Il Capitale: una lettura dal vivo”, la lettura di Marx che inizierà al Padiglione centrale, dal primo istante di apertura della Biennale.
Mr Enwezor, perché ha scelto di portare Marx alla Biennale?
«Perché Il Capitale non è solo un libro, è un monumento. Nulla come quest’opera ha anticipato il dramma della contemporaneità. La stessa parola “capitale” rappresenta il centro della vita di oggi. La lettura del testo sarà inframmezzata da altre letture e interpretazioni. Verranno invitati a misurarsi sul tema artisti, compositori, drammaturghi. A ispirarmi in modo decisivo è stato Althusser con il suo Leggere il capitale ».
Che Biennale dobbiamo aspettarci?
«Una Biennale ambiziosa, confusionaria, politica — sì — , sensuale, visiva, letteraria. Deve provocare esperienze, provare a mettere in relazione i media dell’arte in modo diverso. Creare nuove intersezioni ».
Come sta scegliendo gli artisti?
«Voglio artisti da guardare in faccia. Niente Skype o telefonate. Forse, dati i tempi, sono ambizioso, ma voglio poter discutere con loro fisicamente, dialogare, scontrarmi, condividere l’esperienza di fare la mostra insieme».
Quindi non ci saranno opere del passato, come è accaduto nelle edizioni precedenti?
«Non posso fare nomi. Mi viene impedito (ride ndr), ma saranno meno degli artisti della scorsa Biennale. Quanti erano? Li sto ancora contando».
Quanta Africa ci sarà?
«Non ragiono in questi termini: ci sarà tutto il mondo. La Mongolia esordirà. Oggi una Biennale d’arte non può ignorare quello che accade in Siria, Iraq, Palestina. Questo pianeta, cento anni dopo il primo colpo che portò alla Grande guerra, è di nuovo in disordine. Viviamo conflitti e pandemie. Cercheremo di darne conto. Dobbiamo farlo. E poi, sì, ci sarà anche l’Africa, è normale che ci sia. Ma porterò alla mostra inevitabilmente tutta la mia biografia intellettuale: l’Africa, l’Europa, l’Occidente e quello che non è Occidente ».
Questa settimana Vuitton sta aprendo il suo museo a Parigi. Cosa pensa dei marchi della moda coinvolti nell’arte contemporanea?
«Dico: perché no? Prada vanta un eccellente sistema di mostre, pubblicazioni, collezione. Il punto è, se tutto è fatto per le ragioni giuste, perché no? Se questo mette in circolo idee e artisti, perché no? L’arte può essere strumentalizzata, certo. Ma anche questo fa parte della sua storia. La Chiesa, la politica lo hanno fatto. In quanto a Vuitton, per ora c’è solo un interessante sigillo di vetro nel Bois de Boulogne. Vedremo se la programmazione sarà altrettanto interessante».
Alcuni critici sostengono che l’arte contemporanea sia ormai solo in mano al mercato. È così?
«Penso che sia semplicistico dire così. Il mercato è solo un aspetto. La letteratura non esiste solo perché c’è Amazon. Parlare esclusivamente del mercato ci distrae da altro. Da tutte le realtà che accadono nel sistema dell’arte. Il mercato è solo un anello di questo ecosistema».
Lei si definisce un autodidatta. C’è una mostra o un artista che ha cambiato il suo punto di vista sul mondo dell’arte?
«È stato tutto un accumulo di esperienze. Arrivato a New York, nel 1982, sono stato investito dalla creatività del periodo. C’era una incredibile vitalità, c’erano le gallerie, un certo Jean-Michel Basquiat che stava esplodendo. Tutti quelli che erano spazi off poi sarebbero diventati spazi ufficiali e riconosciuti. Non è importante un nome o una mostra. Ma tutta l’energia che si accumula quando mondi diversi si incontrano. Pensiamo agli artisti che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del XX secolo scoprirono l’arte primitiva. Pensiamo alla prima volta in cui una maschera africana è entrata al MoMA. Questo mi interessa: mettere insieme i mondi».
Ha citato Marx, Benjamin, Althusser. Cosa sta leggendo adesso?
«Sto finendo Il 1-8 Brumaio di Luigi Bonaparte di Karl Marx. È incredibile!».
Lei è nato in Nigeria come Teju Cole e Chimamanda Ngozi Adichie. Cosa pensa di questi autori?
«Li ho letti tutti. L’Africa sta vivendo un momento straordinario dal punto di vista culturale. Finalmente. Questi scrittori, tra cui voglio citare anche Chris Abani, raccontano l’Africa fuori dall’Africa, restituendole una nuova complessità. L’emergere di questa nuova generazione mi entusiasma. È accaduto tutto in un solo decennio. Prima sembrava impensabile. Internet ha aiutato tanti a rompere gli steccati e a diffondere cultura. Non dimentichiamo anche i musicisti. Spero proprio di riuscire a portare a Venezia alcuni di questi nuovi autori. Devono esserci».


Repubblica 23.10.14
Amore, scandali e champagne nella villa di Göring
Lui ufficiale nazista, lei contessa svedese. La storia tragica nel nuovo libro di Buttafuoco
di Elena Stancanelli


IL CORPO di lui, oscenamente pesante, sformato dall’abuso di morfina e l’angoscia, il corpo di lei, leggerissimo, corroso dalla malattia, tradotto, fino a diventare polvere, di sepoltura in sepoltura. La storia d’amore tra Carin von Fock, la donna più bella di Svezia, e Hermann Göring, eroe della prima guerra mondiale poi nazista capo della Gestapo — condannato a morte al processo di Norimberga, si uccise con una capsula di cianuro che, pare, gli fosse stata consegnata da un ufficiale americano — è soprattutto una storia di corpi. La racconta Pietrangelo Buttafuoco nel suo ultimo romanzo, I cinque funerali della signora Göring (Mondadori). A partire da una fotografia, la stessa della copertina del libro, e da un luogo, le rovine di quella che fu Carinhall, l’enorme villa costruita per lei, in onore di lei, per farle dimenticare la povertà alla quale lui, l’ex pilota dello squadrone del Barone Rosso, l’aveva costretta nei primi anni del loro amore. Divenne invece la sua tomba. Carin era già malata e già sposata quando conobbe Göring. Il 20 febbraio 1920 lo vide in gara col suo aereo, dalle finestre del palazzo Rockelstad, residenza dei von Rosen. Io vi amo, vi voglio, le disse lui quella sera stessa. E lei lo seguì, abbandonando il figlio Thomas col padre, l’ufficiale Niels Gustav von Kantzow. Carnhall non c’è più, la fece saltare in aria lo stesso Göring alla fine della guerra, per evitare che lo facessero i vincitori. Pare che nelle cantine fossero nascoste 87 milioni di bottiglie di champagne... Buttafuoco cammina su quelle rovine, della villa e di molte altre cose, e dipana una storia d’amore che è già stata un bestseller una volta. Il romanzo scritto dalla sorella di lei, Fanny von Wilamowitz-Moellendorff, e intitolato Carin Göring, usci nel 1941 e vendette quasi quanto il Mein Kampf. Ne fecero anche un film, L’amore al tempo degli dei , e fu Hitler in persona a suggerire l’attrice per il ruolo della protagonista: Inga Ley. La donna che, nella foto della copertina del libro di Buttafuoco, siede con naturalezza, le gambe raccolte sotto di sé, accanto al Führer. Ma sono già passati dieci anni dalla morte della contessa Carin. E come accadde a Evita Perón — secondo quanto racconta Tomás Eloy Martínez in Santa Evita — il suo corpo diventerà uno scandalo. Il cadavere imbalsamato della moglie del presidente argentino per essere sottratto al culto dovette essere nascosto per vent’anni (una decina dei quali trascorse anche in un cimitero di Milano). Nello stesso modo le spoglie di Carin rischiavano di essere scempiate, profanate, o peggio ancora adorate. Così, dissepolte dallo stesso Göring nel 1945 prima di far saltare tutto, nascoste in una foresta e affidate alla fedeltà di Erich Oven, vagheranno ancora a lungo, prima di trovar pace nella tomba della famiglia di lei a Lovo, in Svezia. Buttafuoco attraversa questa storia d’amore, tenendola accesa grazie a una prosa calda e carnale, ma non dimentica che sta passeggiando sopra un cimitero. Così scrive un romanzo malinconico e commovente, una struggente elegia dell’impossibile e dell’impresentabile.

Oggi alle 1-8 alla libreria Notebook dell’Auditorium Parco della musica di Roma Francesco De Gregori e Annalena Benini presentano I cinque funerali della signora Göring di Pietrangelo Buttafuoco
IL LIBRO I cinque funerali della signora Göring di Pietrangelo Buttafuoco ( Mondadori, pagg. 180, euro 18)

il Fatto 23.10.14
Ciak si gira
Gramellini al cinema. Lo porta Bellocchio

Dopo aver completato il montaggio del film “La prigione di Bobbio” Marco Bellocchio ha ultimato con lo scrittore Edoardo Albinati (già sceneggiatore de “Il racconto dei racconti” di Matteo Garrone) la prima stesura di “Fai bei sogni”, il nuovo progetto che dirigerà l’anno prossimo per il produttore Beppe Caschetto portando sullo schermo l’omonimo romanzo di Massimo Gramellini incentrato sul percorso interiore dell’autore per superare il dolore e il senso di abbandono dovuto alla morte della madre avvenuta quando aveva 9 anni.

La Stampa 23.10.14
Israele, ritrovata iscrizione dedicata ad Adriano

qui

La Stampa 23.10.14
Cairo, l’Italia aiuta il museo islamico a rinascere

qui