venerdì 24 ottobre 2014

il manifesto 24.10.14
E domani tutti a San Giovanni
Cgil. La Cgil a caccia di pullman. Sul palco due sorprese e la sola Susanna Camusso Alla manifestazione parleranno tanti lavoratori: dall’operaio di Terni alla giovane partita Iva. Landini passerà da un corteo all’altro
di Massimo Franchi

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L’Huffington Post 24.10.14
Manifestazione Cgil 25 ottobre: dalla Lucchini ad Almaviva, tutte le vertenze di piazza San Giovanni
di Andrea Carrugati

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il manifesto 24.10.14
25 ottobre con la Cgil, “storico” sì dei giornalisti di Stampa Romana

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Repubblica 24.10.14
Videoforum con Maurizio Landini segretario generale Fiom-Cgil
Sabato 25 ottobre a Roma manifestazione nazionale della Cgil: ''Lavoro, Dignità, Uguaglianza. Per cambiare l'Italia''

Il sindacato di Camusso e Landini propone un deciso cambio di politica economica per affrontare la vera emergenza che riguarda il lavoro
Tra le richieste, l'attuazione di investimenti pubblici e privati, l'estensione dei diritti, l'allargamento universale delle tutele
Venerdì 24 ottobre alle 14.30 il segretario generale della Fiom ospite di Repubblica tv risponde alle domande dei lettori. Conduce Silvia Garroni

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Repubblica 24.10.14
I nuovi oligarchi
di Alfredo Reichlin


CARO direttore, vedo che Matteo Renzi parlando del partito che ha in mente si richiama alla espressione “partito della nazione” che io cominciai a usare discutendo con Pietro Scoppola sul fondamento identitario da dare al Pd, quando già si intravedeva la dimensione storica della crisi italiana. Non mi pare però che pensiamo le stesse cose e vorrei chiarirlo. Io parto dalla necessità che sento, acutissima, di dare al Paese uno strumento politico forte capace di arrestare la decadenza non solo della sua economia ma del suo organismo statale, della sua tenuta sociale, della sua identità civile e morale. Parto, insomma, dalla crisi della nazione come maggiore danno per tutti ma in specie delle classi lavoratrici. E penso, quindi, che sta qui la funzione “nazionale” del Pd, il suo essere l’opposto di un partito “pigliatutto” e delle avventure personali che da anni ci affliggono. Ma come svolgere questa “missione”? Con chi, contro chi, e come? Questo è il punto.
Confesso che mi sono cascate le braccia quando ho sentito Renzi dire che il punto fondamentale della sua idea di partito, è quello di garantire le “pari opportunità”. Ma in che mondo egli vive? Si, certo, lo so anch’io che non c’è più la vecchia società classista e che i grandi partiti novecenteschi (il Pci ma anche la Dc) non ci sono più e non torneranno più. Ma qualcuno ha informato Renzi che è finita anche l’epoca di Tony Blair, cioè quella dei “liberal” e delle “pari opportunità”? Parlo di qualche decennio fa quando il sistema non era certo ugualitario ma in compenso funzionava ancora “l’ascensore sociale” per cui il povero di oggi poteva diventare — se intelligente e laborioso — il ricco di domani. L’epoca dello Stato nazione e dei diritti uguali. Ben altre sono oggi le logiche dell’economia finanziaria in cui siamo immersi: l’economia del debito e delle grandi speculazioni del denaro fatto col denaro. Lasciamo stare le dispute tra economisti. Un politico serio non può fingere di non vedere questa gigantesca ondata di denaro che non rende conto a nessuno e che sta percorrendo il mondo arricchendo enormemente una ristretta oligarchia ma creando al tempo stesso nuove povertà. Una parte dei ceti medi è già stata declassata. Viene colpita la funzione stessa dell’imprenditore, dell’ingegnere, del capitano d’industria. I poveri, anche quelli che non diventano più poveri, diventano plebe. Mi scuso per la sommarietà di queste osservazioni ma che tipo di società umana si va formando? La domanda più importante, parlando di un partito, è questa. Perché è solo a partire da questo fondamentale interrogativo che una forza che voglia riaccendere il campo del riformismo può ridefinire la sua funzione storica, riuscire ad essere l’incontro di forze e culture diverse e mettersi in condizione di leggere il mondo con categorie nuove rispetto anche a quelle classiste. Stiamo attenti perché sta avvenendo qualcosa che cambia le ragioni dello stare insieme e il senso della convivenza civile.
Perciò io penso che noi, invece di oscillare tra un “nuovismo” inconsistente e l’accettazione rassegnata dall’uomo solo al comando dovremmo cominciare a riflettere meglio sulle ragioni di fondo di un partito nuovo. E ciò partendo dal fatto che il conflitto si sposta parecchio oltre la sfera economica e distributiva, per investire i modelli di vita, la qualità dell’organizzazione sociale, l’auto affermazione dell’individuo. Io penso che in realtà siamo di fronte a un allargamento del conflitto e di conseguenza a una domanda di progettualità che non può più essere separata dalla politica. Altro che partito degli eletti e non più dei militanti. Altro che disprezzare i “corpi intermedi”. E mi sia consentito di dire agli amici della “Leopolda” che il terreno vero del “cambiamento” sta nel mettere in relazione le ragioni della libertà individuale con quelle della comunità, nel costruire una comunità contro le spinte dissolutive e nel difendere l’autonomia e la dignità della persona.

Repubblica 24.10.14
Pd, da Cuperlo a Bindi la sinistra va in piazza
Delrio: nessun nemico ma le riforme si votano
Dal corteo Cgil riparte la battaglia per l’art.18
Bersani e D’Alema non vanno
Boschi: alla Leopolda un’altra Italia
di Giovanna Casadio

ROMA La sinistra dem e Pippo Civati lanciano l’appello: «Pierluigi vieni anche tu...». Ma Pierluigi Bersani, l’ex segretario, non sembra tentato dalla piazza Cgil di domani. Né ci sarà Massimo D’Alema, che non è a Roma. Mezzo Pd tuttavia parteciperà alla manifestazione del sindacato contro il Jobs Act e la riforma del mercato del lavoro voluta dal governo. Non saranno soltanto in piazza San Giovanni a Roma, ma anche con iniziative e presenze simboliche. Roberto Speranza il capogruppo dem a Montecitorio ad esempio, è a Matera e andrà a salutare i compagni sui pullman in partenza per Roma; a Bari lo stesso farà Dario Ginefra. Mentre Rosy Bindi, Stefano Fassina, Cesare Damiano, Gianni Cuperlo si sono dati appuntamento in piazza della Repubblica per non perdersi di vista. La piazza Cgil potrebbe essere la prima tappa di una mobilitazione che porti poi allo sciopero generale. Almeno secondo il segretario Fiom, Maurizio Landini.
Il governo sa che dalla manifestazione parte la riscossa per cambiare la riforma del mercato del lavoro e per bloccare l’abolizione dell’articolo 18. Renzi non lancia anatemi, ma invita ad andare a Firenze alla Leopolda, l’appuntamento renziano, che si svolge nel fine settimana. Lo illustra il ministro Maria Elena Boschi e ecumenicamente commenta: «È legittimo protestare in piazza in modo pacifico, ma alla Leopolda c’è un’altra Italia che si confronta su cento temi diversi, a tavoli di lavoro dove è forse più facile parlarsi e dirsi anche quello che si sta sbagliando. Ho letto che Fassina va allo zoo, peccato perché l’avevo invitato personalmente ». Per il governo parla il sottosegretario Graziano Delrio e dice che «la manifestazione Cgil sarà contro i provvedimenti del governo ma tutti si sentano liberi, non vogliamo negare i diritti di nessuno e nemmeno dare permessi ma essere lì può creare qualche imbarazzo ». È l’affondo. Comunque l’importante è che poi «le riforme si votino». Avverte Delrio. In pratica nessuno pensi in Parlamento a forme di dissenso. E però precisa: «Non siamo nemici di quella piazza, il nostro cuore è con loro».
Tutte le correnti della sinistra dem hanno messo nero su bianco le ragioni della loro adesione alla manifestazione Cgil, magari smussando toni e piattaforma. Sindem, la corrente di Cuperlo, aderisce perché - scrive - «il Pd e la sinistra sanno ascoltare. E scegliere dove stare. Ci saremo perché quella piazza può dare forza al cambiamento dalla parte giusta. Ci saremo per costringere governo e Parlamento a correggere e migliorare il Jobs Act...». Documento anche dalla corrente Area riformista - che difende il ruolo del sindacato e chiede correzioni anche sulla manovra - e primi firmatari sono tra gli altri Stefano Fassina, Damiano, Stumpo, Zoggia, Agostini, Amendola, Bruno Bossio. Civati e i civatiani sono sulle barricate contro il Jobs act ma anche «in difesa del ruolo del sindacato ». Civati reagisce alle critiche: «Non capisco perché dovrei smettere di andare in piazza, il Pd deve essere coerente con la storia e la politica della sinistra ». Defilato Enrico Rossi, il governatore della Toscana, che annuncia: «Non vado ma ascolto sia la piazza Cgil che la Leopolda ». Torna all’attacco della kermesse renziana una parte della sinistra. Alfredo D’Attorre accusa Renzi: «Bersani credo non vada in piazza con la Cgil per la funzione che ha svolto di segretario e per tutelare il Pd e la sua unità. Certe volte sembra che il Pd l’abbia più a cuore l’ex segretario che il segretario attuale ». Un errore, ribadisce, organizzare la Leopolda quest’anno perché sembra «che non creda al progetto Pd».

Repubblica 24.10.14
Epifani
“Certo che ci sarò, anche a difesa del sindacato”
Contro Renzi? È dal 1975 che non manco a una manifestazione della Cgil
intervista di G. C.


ROMA «Andare in piazza un attacco a Renzi? Io non ho mai mancato a una manifestazione della Cgil in vita mia dal 1975 da quando ho cominciato nel sindacato con ruoli secondari... ». Guglielmo Epifani chiede cambiamenti sul Jobs Act e dice di non avere pensato affatto di disertare la manifestazione di sabato, lui che fino al 2010 della Cgil è stato segretario generale, ex segretario Pd, ora presidente della commissione attività produttive di Montecitorio.
Epifani, va in piazza quindi?
«Certo che vado alla manifestazione».
Però non ha firmato la lettera-appello degli ex segretari Cgil. Perché?
«Perché ho oggi una funzione diversa, e ho sottoscritto un documento che abbiamo voluto come corrente dem di “Area riformista”. La considerazione che abbiamo di quella manifestazione l’abbiamo messa nero su bianco in quella nota».
Anche se il documento si smarca dalla piattaforma della Camusso, non c’è un conflitto tra votare la fiducia al governo e poi manifestargli contro?
«Spesso ci sono e ci sono state polemiche su questo. Ma la piazza è un luogo dove ci sono giovani, studenti, operai pensionati, quella piazza è una parte del paese e del nostro elettorato. Questo è il punto da tenere presente».
Non teme la contraddizione?
«La strada maestra dei rapporti tra sindacati e partiti è lastricata appunto di decine e decine di confronti e anche di discussioni polemiche. Non c’è nessuna contraddizione se quella piazza si ascolta e se si lavora per difendere lo spazio dei corpi di rappresentanza sociale, a prescindere da quello che dicono, nella loro funzione essenziale».
La funzione dei sindacati appunto, va difesa?
«Oltre al merito della manifestazione, nella nota di Area riformista abbiamo voluto battere un colpo sull’importanza dei corpi intermedi e della loro funzione Se si indeboliscono i corpi intermedi si dà spazio al radicalismo, alla violenza, alla chiusura corporativa. Nella crisi drammatica che stiamo vivendo un formidabile compito di coesione è stato rappresentato dai sindacati. Anche il ruolo del sindacato ha contribuito a tamponare la crisi in Italia».
Non è quello che pensa Renzi
«È quello che penso io».
Andrà alla Leopolda?
«Quest’anno no, ma l’anno scorso sono andato ed è stato interessante».
In Parlamento sul Jobs Act cosa farete?
«Accanto a interventi giusti per l’uguaglianza dei diritti, la valutazione sulle modifiche all’articolo 18 è negativa e come Area riformista ripresenteremo le modifiche già proposte al Senato. Comprendono tra l’altro la questione di preservare il reintegro almeno per i licenziamenti discriminatori e disciplinari. Naturalmente non c’è solo il Jobs Act, ma nella manifestazione ci sono anche temi che riguardano la legge di stabilità e la necessità di interventi per la crescita. Il paese ha bisogno di una politica di sviluppo e di fare ripartire gli investimenti pubblici e privati» Con lei in piazza vanno anche molti altri dem?
«Abbiamo deciso tutti assieme come Area riformista che con diverse modalità, in vari luoghi saremo presenti e quindi parteciperemo ».
Qualcuno anche sul palco?
«No, mai da politico»

Repubblica 24.10.14
il deputato pd Edoardo Fanucci
“Alla Leopolda c’è dialogo lì un monologo di protesta”
“All’appuntamento partecipa anche chi non verrebbe mai a un appuntamento Pd”
intervista di Goffredo De Marchis


ROMA . Non ci sarà, non ci può essere un dialogo tra la Leopolda e la manifestazione della Cgil. «Da una parte si partecipa, dall’altra si urla», dice Edoardo Fanucci. Deputato, 31 anni, nato a Pescia, Fanucci è uno dei quattro organizzatori dell’appuntamento annuale dei renziani a Firenze. Un giovanissimo rottamatore che, come il premier, sembra poco incline alla pace. «Per carità, le nostre porte sono spalancate. Se domenica i manifestanti, che rispettiamo, vogliono fare un salto a Firenze sono benvenuti». Ma non per tenere il piede in due scarpe: «Sono modi molto diversi di intendere la politica. Da noi c’è grande partecipazione, i tavoli di confronto, i massimi esponenti delle istituzioni ministri e governatori e sindaci parlano con i cittadini e le imprese. In piazza si svolge il monologo del sindacato che invece di pensare una riforma alternativa del lavoro contesta quella del governo».
Stavolta alla Leopolda va in scena un’iniziativa giocoforza legata al governo. Non vi siete snaturati?
«L’evento mantiene la sua autonomia. Ci aspettiamo anche il contributo di critiche».
Critiche a Renzi?
«Non arriveranno dai politici forse. Ma sono previsti gli interventi di cittadini, studenti, imprenditori e non abbiamo idea di quale sarà la loro linea. Io comunque escludo azioni alla Grillo che ha espulso i contestatori saliti sul palco. La penso come Pertini: libero fischio in libero Stato».
Non si capisce perché anche quest’anno cancellate il simbolo del Pd.
«Confermo: non si vedranno né simboli né bandiere del Pd».
Bandiere, aveva detto Maria Elena Boschi, sì.
«Noi non rinneghiamo il Pd, la Leopolda però dev’essere uno spazio aperto a chi non parteciperebbe mai a un evento del Partito democratico».
Ma Renzi è il segretario del Partito democratico.
«Abbiamo preso il 40,8 per cento grazie a Renzi e grazie alla Leopolda nel senso di tutti quelli che ci votano anche se non verrebbero mai a un appuntamento del Pd. Magari un giorno riusciremo a tesserarli tutti ma adesso non possiamo disperdere il valore aggiunto della Leopolda».
In cosa il governo assomiglia alla manifestazione fiorentina e in cosa no?
«Il Jobs act era nel programma della Leopolda. Come l’abolizione del Senato, il taglio dei costi della politica, la fine delle province, la semplificazione e la lotta alla burocrazia. Per esempio, il 740 pre-compilato e inviato a casa era un’idea della Leopolda. Le larghe intese invece le avevamo contestate. Mi ricordo bene l’intervento di Renzi l’altr’anno: mai più larghe intese».
Invece governate con Alfano: meglio votare presto?
«Intanto spingiamo per la nuova legge elettorale che non prevede né inciuci né accordicchi. Oggi non è possibile, domani lo sarà».

il Fatto 24.10.14
Se non dovete andare allo zoo oggi al via la quinta Leopolda
Boschi contro Fassina: “Non viene, deve portare i figli a vedere gli animali”
di Wanda Marra


Al centro c'è lei. La madrina. La maestra. L'ammaestratrice. Giacca giallo canarino sparato, maglia nera. Capelli tirati indietro, fronte scoperta. Sorriso smagliante, che tende al fisso. È il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, in conferenza stampa in una sala dell'Hotel Minerva di Roma, a due passi dal Pantheon, a presentare la quinta Leopolda. Attorno a lei ci sono quattro deputati, rigorosamente due uomini e due donne. “Un gruppo di amici cresciuti e formati alla Leopolda”, li presenta lei, col tono soave di chi smussa gli angoli e controlla tutto. La presentatrice-Giaguara dell’anno scorso ha fatto strada. E adesso presenta i presentatori. Gruppetto eterogeneo, con una veterana della politica, come Lorenza Bonaccorsi, classe ‘68 di Roma, cresciuta con Paolo Gentiloni, e tre nuovi “astri” da lanciare nel firmamento della politica, come Edoardo Fanucci, toscano di Pescia classe ‘83, Luigi Famiglietti, classe ‘75, Frigento in provincia di Avellino, Silvia Fregolent, Torino classe ‘72. Loro, i quattro, sono visibilmente nervosi. Finiti i tempi delle Leopolde della rottamazione, con tanta organizzazione collettiva e tanta improvvisazione ed energie, anche impreviste, a raccolta. Finiti i tempi in cui era lo stesso Matteo Renzi con gli allora “sodali” (Pippo Civati, Matteo Richetti, Giorgio Gori, a seconda degli anni) a lavorare fino all'ultimo alla manifestazione. Quest'anno, Renzi ha altro da fare, fra Bruxelles e Palazzo Chigi.
ECCOLI QUI, in 4, scelti dall'alto e calati in un ruolo di nome e non di fatto. Gli “organizzatori” in realtà presenteranno gli interventi, coordineranno i tavoli di discussione. Non decidono e non organizzano nulla. L'assaggio è la conferenza stampa. Parlano per slogan, quando lei, la “zarina” (soprannome nato tra Palazzo Chigi e Parlamento) dà il via. Ripetono più che altro, a parole loro (ma manco tanto) le cose che va dicendo Renzi da giorni. Ecco Fanucci, per dire: “La manifestazione della Cgil è un’iniziativa cui guardiamo con attenzione. Non c'è contrasto né contrapposizione. Le porte della Leopolda non sono aperte, ma spalancate. Magari chi va sabato in piazza a Roma, domenica venga da noi”. Ecumenico, come il capo.
A condurre le danze, ovviamente, Maria Elena. L’ambientazione è in un garage, le iscrizioni sono già 5000. Nonostante questo, come sarà la Leopolda di governo? “Così la definite voi giornalisti”, risponde piccata a chi glielo chiede. Poi, la versione ufficiale: “Quest'anno ci vuole ancora più coraggio perché oggi abbiamo una responsabilità grande e proprio per questo abbiamo bisogno delle proposte dei cittadini”. Ma insomma chi ci sarà? Non risponde il ministro, ma la Fregolent. Legge nervosamente da un foglio di carta, una lista piuttosto deludente. Il commissario anticorruzione Raffaele Cantone e il direttore dell’Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi. E poi gli imprenditori, Patrizio Bertelli, Brunello Cucinelli, Renzo Rosso. Alla domanda del Fatto, se ci sarà Sergio Marchionne, la Boschi tradisce nervosismo: “No. Mi dispiace deludervi. Non ci sarà né lui, né Della Valle”. Mette le mani avanti: “A meno che non arrivino, senza avvertirci”. E quindi, “peccato, dovrete trovare un'altra apertura del giornale”. Eccola che si apre una crepa nella compostezza del Ministro. Che parla di qualsiasi argomento come se lo dovesse spiegare agli alunni di una scuola elementare. Per dire che Davide Serra, il finanziere di Algebris, condurrà uno dei 100 tavoli di studio è lei a intervenire. Pure per dare i nomi dei membri del governo (Andrea Orlando, Roberta Pi-notti, Dario Franceschini, Marianna Madia, Giuliano Poletti, Maria Carmela Lanzetta, Graziano Delrio). La star è e resta Renzi, presente per tutti e tre i giorni. Ma qualche sorpresa arriverà di certo. Si lavora all'ospite d'onore, direttamente da San Francisco, il Ceo di Twitter, Dick Costolo. Prende la parola Famiglietti, e prova a buttarla in politica: “Non è vero che il Pd non raccoglie soldi. Nei prossimi 6 e 7 novembre, a Roma e a Milano, si terranno le prime due cene del Pd per la raccolta dei fondi. Ogni deputato dovrà portare cinque finanziatori che pagheranno 1.000 euro a testa”. Progetto ancora in fieri e sul quale già si sprecano le ironie: ci sarà Renzi, e dunque paghi per cenare con Matteo. I soldi. Eccola la Boschi: “Non abbiamo sponsor o finanziatori istituzionali per la Leopolda - spiega - Non credo avanzeranno risorse ma se accadesse andranno alla Fondazione”. La Open, quella che fa capo a lei, all’avvocato Alberto Bianchi, a Lotti e a Carrai. Su chi dà i soldi per la Leopolda esiste da sempre un velo di mistero. Ai sensi della privacy per carità. Il resto sono ordinarie polemichette all'italiana. “Ho invitato personalmente Stefano Fassina, ma mi ha detto che domenica doveva portare i figli allo zoo”, dice la Boschi. Ogni accostamento non è puramente casuale. La sala ride. La Ministra si rilassa. I quattro aspettano guardinghi che finisca.

il Fatto 24.10.14
Oggi
L’Usb: lavoratori in piazza per il lavoro


L'UNIONE dei sindacati di base (Usb), l’Or.sa e l’Unicobas hanno proclamato per oggi uno sciopero generale di 24 ore contro Jobs Act e Legge di stabilità. Manifestazioni e cortei occuperanno, dalle prime ore del mattino, le piazze di Genova, Alessandria, Campobasso, Torino, Milano, Trieste, Trento, Novara, Venezia, Vicenza, Bologna, Firenze, Napoli, Potenza, Bari, Catanzaro, Catania e Cagliari. Possibili i disagi per chi usa i mezzi pubblici (treni, aerei, trasporti marittimi e mezzi del trasporto locale), ma gli orari variano da città a città. Lo sciopero potrebbe creare un blackout a tutti i servizi pubblici, non solo ai trasporti. Potrebbero funzionare a singhiozzo anche uffici sanitari e amministrativi e gli istituti scolastici. I macchinisti dell’Or.sa aderiscono alla protesta dalle 9 alle 15. Sciopero revocato a Torino, per ordine della Commissione di garanzia, mentre a Roma un corteo partirà intorno alle 9.30 da piazza dell’Esquilino e arriverà a Santi Apostoli, per poi proseguire lungo i Fori Imperiali. Alla manifestazione sono attesi anche i lavoratori di Meridiana e dell’Ast di Terni. Nella Capitale tram e bus sono garantiti da inizio corsa alle 8.30 e dalle 17 alle 20. 0). E questo il giorno prima dell’altra manifestazione, quella di sabato indetta dalla Cgil, sempre per il lavoro: in piazza per "smascherare le bugie del governo", per "una sfida che verrà misurata: ci conteranno uno ad uno", dice la leader della Cgil, Susanna Camusso.

Repubblica 24.10.14
Sergio Staino
“La nuova Unità? Speriamo non la diriga Barbara D’Urso”
La vorrei a sinistra come il Papa, o almeno come Famiglia Cristiana, ma con questo editore non so che giornale sarà
Oggi dovendo fare una scelta andrei sui cattolici
intervista di Silvio Buzzanca


ROMA. Buonasera Staino. L’Unità riapre. Bobo sarà contento...
«La prendo con molta cautela. Questi annunci mi sembrano molto aleatori. Anche perché ci sarà ancora molto da fare. Prendo la notizia come un annuncio di buona volontà e non mi sento di dire che sicuramente riaprirà ».
Facciamo l’ipotesi che questi problemi si risolvano...
«Se queste cose saranno risolte, con un editore di gossip così mi ritrovo subito a pensare che tipo di giornale sarà...».
Non è che Bobo si ritrova in pagina con la Pascale nuda?
«Soprattutto, visto l’andazzo di Renzi, e visto che questa cosa nasce sotto il suo segno, non vorrei ritrovarmi con Barbara D’Urso come direttore dell’ Unità ».
Veneziani, il futuro editore, il direttore lo vorrebbe under 35...
«E questo mi fa già fa paura. Avesse detto vorrei come direttore un Veltroni già mi andava meglio, mi avrebbe tranquillizzato di più. Come se avesse detto: voglio uno legato alla sinistra. Con uno che la mette solo sull’età, nel Pd abbiamo già dato».
Ma lei tornerebbe a lavorare per l’Unità ?
«In teoria sì, visto che sono la firma che ha più caratterizzato il giornale negli ultimi anni; uno visibile e fra i più vecchi rimasti. Ma ci vogliono certe garanzie. Come Renzi vuole le sue, io voglio le mie».
Che intende per garanzie?
«Che l’Unità vada ad occupare quello spazio che esiste a sinistra fra Repubblica e il Fatto con un giornale che sia più dichiaratamente di sinistra e più legato al Pd di quanto possa essere Repubblica. È più serio di quanto non sia il Fatto ».
Veneziani considera la politica un filino noiosa e vorrebbe puntare molto sulla cronaca...
«Non me lo ordina il dottore di fare le vignette sull’Unità, La mia scelta è dettata dalla passione. E oggi dovendo fare una scelta andrei sui cattolici. L’Avvenire e soprattutto Famiglia Cristiana mi sembrano quelli più vicini all’ Unità di un tempo. Si occupano dei nuovi poveri, dei migranti, delle guerre. L’altro giorno il Papa ha fatto un messaggio alla Fao che mi viene da dire: l’avesse fatto uno della nostra sinistra un messaggio così!».
Ma lei Renzi lo sente?
«Ci mandiamo messaggi in continuazione: l’altro giorno mi ha scritto ”vieni alla Leopolda a parlare male del governo”. Gli ho risposto “cercherò di venire”. In realtà sono ad Aversa per il premio Bianca D’Aponte e poi a Napoli per la mostra delle vignette anticlericali».
Ma allora sarebbe andato alla Leopolda?
«Ci sarei andato per la curiosità. Ci sono stato la prima volta, molto arrabbiato con Bersani che non si era presentato. Credo che quel giorno Bersani abbia dato il primo grande aiuto alla marcia di Renzi, regalandogli su un piatto di argento una platea tutta giovane, volenterosa, incazzata».
E la Cgil in piazza?
«Ecco, avendo tempo sarei stato in imbarazzo su dove andare. Ma a Piazza San Giovanni comunque Bobo ci sarà. Ho preparato tutto il materiale per le delegazione toscana».

La Stampa 24.10.14
Il modello-Fondazione Open ecco la cassaforte liquida
“Organizziamo anche incontri culturali”. Di cui non c’è traccia
di Jacopo Iacoboni

qui

La Stampa 24.10.14
Leopolda al potere
Boschi: un’altra Italia rispetto alla Cgil
Tanto governo, assenze polemiche dal Pd
Farinetti: “Vado, è un posto dove non ci si lamenta”
di J. I.


Che qualcosa di profondo sia cambiato, che si contino (anche) i primi delusi del renzismo originario, è palese, e Maria Elena Boschi, con sincerità, non se lo nasconde, se è vero che ieri, presentando la quinta edizione che parte stasera, ha detto: «Non venire alla Leopolda non vuol dire essere contro il governo, perché non è una iniziativa del governo. È ragionevole anche avere altri impegni. Ho invitato personalmente Stefano Fassina, che mi ha detto di aver promesso ai bambini di portarli allo zoo domenica mattina. Non per questo non faremo la Leopolda». Quasi come se la questione, adesso, non fosse più l’entusiasmo, la rottamazione, la prossima fermata Italia, il Big Bang, il futuro, ma, assai più prosaicamente: non farsi dire troppi no.
In effetti la Leopolda 2014 è cominciata con alcune defezioni - motivate a volte da disillusione, altre volte dal sibillino «ho altri impegni», o «non mi è possibile»: da Alessandro Baricco ad Andrea Guerra. Persino «il magic touch della Mari» ha dovuto lavorare molto, ma i risultati non sono disprezzabili, dal punto di vista degli innesti: ci saranno per esempio Patrizio Bertelli di Prada, Renzo Rosso di Diesel, c’è la conferma - non era affatto scontata - di Oscar Farinetti, che alla Stampa spiega: «Alla Leopolda si respira aria di “trovare soluzioni”. È un posto dove ci si lamenta poco mentre ciascuno esprime con sintesi le proprie idee di soluzione. Da lì son sempre tornato a casa con idee nuove e speranze, e spero anche stavolta». Se non compensa le uscite pesanti su menzionate, è comunque qualcosa che aiuta la squadra di Renzi ad attutire il colpo. E potrebbe anche esserci qualche sorpresa, alla quale si sta lavorando.
È chiaro che questa non è comunque più la Leopolda della speranza, ma della gestione anche machiavellica del potere; magari un potere per cambiare, questo si vedrà. Certo colpisce la fotografia di tanti ministri, sottosegretari, parlamentari, qualcosa che, se ci pensate, a quelli della Leopolda 2010 (quella Renzi-Civati) avrebbe fatto venire l’orticaria. Gente che all’epoca faceva fuoco e fiamme contro Renzi, oggi non solo ci sarà, ma avrà posti di prima fila.
Il governo arriva in forze, Graziano Delrio, Roberta Pinotti, Dario Franceschini, probabilmente Orlando, mentre altri pezzi di Pd (non solo Fassina) saranno altrove, Cuperlo per esempio in piazza con la Cgil. Non Walter Tocci, che non ritira le dimissioni da senatore. Dice Boschi: «È legittimo protestare in piazza in modo pacifico. Alla Leopolda c’è un’altra Italia che si confronta su cento temi diversi, a tavoli di lavoro dove è forse più facile parlarsi e dirsi anche quello che si sta sbagliando». Una rivendicazione orgogliosa assieme alla velata promessa di un’autocritica.

Corriere 24.10.14
Così il leader pd ha spaccato la sinistra La linea morbida dei pensionati Cgil
L’idea di lasciare la direzione dell’Unità a un esponente non necessariamente renziano
di Maria Teresa Meli


ROMA In questi ultimi giorni ha avuto altro da fare, impegnato com’è in un braccio di ferro con «la banda di funzionari dell’Europa».
Ma da oggi, pur continuando a tenere un occhio vigile sulla Ue, Matteo Renzi riprenderà a tessere le fila del Partito democratico che verrà, a metà tra il modello di quello statunitense e il Labour Party, forze politiche che sono una sorta di grandi contenitori che riescono a tenere insieme moderati, liberali riformisti e anche esponenti della sinistra radicale.
La Leopolda, in fondo, è stata e sarà anche questo: uno spazio libero e aperto dove si incontrano per discutere tra di loro e confrontarsi personalità che vengono da tradizioni e culture diverse.
Certo, stavolta, almeno in apparenza, l’ex stazione di Firenze non avrà le porte spalancate come un tempo. Questioni di sicurezza: il prefetto e le forze dell’ordine del capoluogo toscano preferiscono usare la massima cautela, vista la presenza del presidente del Consiglio e di mezzo governo. Anche perché l’affluenza prevista per la quinta Leopolda è nettamente superiore a quella delle altre edizioni. Per questo motivo a tutti coloro che si sono già registrati viene «gentilmente chiesto di non portare bagagli», «sia per questioni di spazio, che per questioni di sicurezza».
Ma questi sono dettagli di ordine organizzativo. Il «grande Pd» versione Renzi è invece un progetto politico ancora in costruzione, che impensierisce alcuni esponenti della minoranza interna. Non si tratta, almeno nelle intenzioni del suo ideatore, di un partito «pigliatutto», ma del «partito degli italiani». Che resta lontano anni luce da Susanna Camusso, ma che, invece, è disponibile a dialogare con altre figure di sindacalisti. Si è già detto e scritto dello scambio regolare di sms tra il premier e la leader della Spi Cgil (i pensionati) Carla Cantone, la quale non ha mai negato di trovare «Renzi simpatico», anche se è pronta a contestargli alcune misure, come quella sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori o l’esclusione dal bonus degli 80 euro.
Ma adesso c’è qualcosa di più, come rivelava l’altro ieri il sito «Lettera 43»: per domani la Spi ha deciso di tenere una linea morbida. In piazza, sì, «ma senza essere il braccio armato di nessuno» e senza «fare opposizioni pregiudiziali, tanto meno al governo Renzi. Se c’è da dialogare, dialoghiamo: la Spi non è la Fiom».
Una linea, quella del dialogo e della contrarietà ai «no» pregiudiziali che è la stessa adottata dalla neo segretaria della Cisl Annamaria Furlan. Anche per quel sindacato, che pure non ha intenzione di fare sconti a Renzi, la parola concertazione non ha più senso, esattamente come non lo ha più per il presidente del Consiglio.
C’è quindi un vasto mondo a cui il Pd versione Renzi può guardare. Tant’è che c’è chi sospetta che il premier abbia voluto scientemente spingere Camusso nelle braccia della Fiom, costringendo la leader della Cgil ad adottare la linea dura e pura di Landini.
Eppure anche nell’area della sinistra più radicale il Pd potrebbe trovare nuovi interlocutori, nonché nuovi elettori, e in questo modo mettere in difficoltà il tandem Camusso-Landini, oltre che la minoranza interna. E non si sta parlando solo degli ex grillini, che ormai al Senato, danno una mano alla maggioranza nei momenti di difficoltà. È in questo quadro che da due giorni, nel Transatlantico di Montecitorio, filtra la notizia che ad andare a dirigere l’Unità potrebbe essere proprio uno dei rappresentanti di spicco di un mondo che finora è stato assai più vicino a Landini che a Renzi. È circolato anche il nome di Michele Santoro, benché non vi sia nessuna conferma.
Insomma, è proprio un nuovo partito quello che potrebbe nascere, un partito che, come dice il senatore Giorgio Tonini, potrebbe «realizzare il progetto che Veltroni non era riuscito a mandare in porto».
Un partito che potrebbe persino arrivare non negare la tessera a Marco Pannella. A patto, chiaramente, che il leader radicale non chieda di iscriversi al Pd per provocazione e per continuare la sua guerra quotidiana contro Renzi, a cui non ha perdonato ancora la bocciatura di Emma Bonino alla Farnesina. Ma forse per questo passo clamoroso ci vorrà ancora un po’ di tempo. Quello che serve per rimarginare le ferite e dimenticare i livori del passato.

Repubblica 24.10.14
Berlusconi, svolta renziana sì su gay, ius soli, Italicum
Ma in Forza Italia è rivolta
L’ex premier: “Pronti a votare col governo anche su altro”
Fitto: quando abbiamo cambiato linea? L’ira di Salvini
di Carmelo Lopapa


ROMA Silvio Berlusconi evita giusto di annunciare la sua presenza alla Leopolda nel fine settimana a Firenze. Perché per il resto delinea una svolta renziana che travalica ogni previsione e che Forza Italia incassa come si può incassare un pugno nello stomaco.
Spiazzati, i deputati, tenuti a rapporto per un’ora anche loro, dopo i senatori. E ancor più lo saranno dopo la conferenza stampa fiume del leader a Montecitorio: sì alle unioni civili sul modello tedesco, sì allo ius soli per i bambini dopo un ciclo scolastico, sì ai due giudici costituzionali donne, per finire con l’apertura (confermata) al premio alla lista nella riforma elettorale proposto dal premier Renzi. E così, quando dopo l’assemblea coi suoi l’ex Cavaliere si chiude nello studio di Renato Brunetta per una veloce colazione e parla in totale relax — testimoni Giovanni Toti, Annagrazia Calabria, Mariastella Gelmini, Laura Ravetto e Stefania Prestigiacomo — l’ultima sortita non sorprende più nessuno: «Mi rendo conto che sia difficile da spiegare la nostra linea responsabile dall’opposizione, ma dobbiamo andare avanti e se Renzi ha bisogno di una maggioranza più ampia ci possiamo confrontare anche su altro, ovviamente se a noi va bene ». Tradotto, il patto del Nazareno all’occorrenza si può anche estendere ai provvedimenti economici, per esempio.
Ma il tema del giorno è la svolta sulle unioni civili. Berlusconi si presenta davanti a giornalisti e telecamere al fianco di Mara Carfagna, nuova responsabile del Dipartimento sui diritti civili, e dei capigruppo Romani e Brunetta. «La famiglia tradizionale resta il cardine, ma l’amore conta di più», è la sintesi berlusconiana del via libera alle unioni gay. «Il modello tedesco (proposto da Renzi, ndr) è un giusto compromesso», spiega il leader. Anche se «presto avremo una nostra proposta, accettiamo la sfida della società», annuncia la Carfagna. L’argomento aveva tenuto banco non senza tensioni anche all’assemblea di gruppo, in cui l’apertura era stata estesa alle adozioni “interne” per le coppie omosessuali. «Con tutto il rispetto, presidente, a questo punto io mi batto per le adozioni dei single », dice Laura Ravetto. E il berlusconiano di ferro Antonio Palmieri: «Io non sono d’accordo, presidente, spero che ci lasci libertà di coscienza». Col capo che a quel punto taglia corto, dice che «una posizione ufficiale ancora non c’è». Mentre fuori dal partito Giorgia Meloni sferza pesante, «dopo il Nazareno siamo al patto del Gay Village».
Altra svolta, altra grana. Quando un giornalista gli chiede dello ius soli nella formulazione renziana, Berlusconi non esita: «Era una nostra proposta, siamo d’accordo e riteniamo che dare la cittadinanza a un figlio di stranieri sia doveroso, quando questa persona ha fatto un ciclo scolastico». Matteo Salvini contrattacca subito: «L’emergenza al momento non è regalare cittadinanze o diritto di voto, ma il lavoro». Dall’interno Raffaele Fitto mette già l’elmetto. «Devo essermi perso il momento in cui abbiamo discusso e deciso questo cambio di linea anche sull’immigrazione ». Intervengono i “pompieri”, il consigliere Giovanni Toti («Berlusconi è stato chiaro, no a strumentalizzazioni») e poi Mariastella Gelmini («Nessun regalo, la cittadinanza sarà un percorso»). Ma a destra la frittata ormai è fatta. Perché poi in conferenza stampa Berlusconi ha detto sì premier anche sulle due giudici costituzionali donne, rivelando che Forza Italia avrebbe selezionato tre docenti universitarie. Non fa i nomi ma circolano quelli di Augusta Iannini, giudice, membro dell’authority per la Privacy e moglie di Bruno Vespa, dell’avvocatessa Grazia Volo, compagna di Paolo Liguori, di Marzia Ferraioli, ordinario di procedura penale a Tor Vergata. Ma anche quello della senatrice Annamaria Bernini.
Il leader riesce solo in parte a sedare le paura dei deputati, «non si vota prima del 2018, Renzi vuole la riforma solo per tenere a bada i suoi», perciò sul premio alla lista lui apre: «Non è negativo, ci stiamo ragionando, l’importante è che si giunga a un sistema bipolare». Sì, ma quando cederà il 20 per cento di Mediolanum, come imposto dai giudici, gli chiedono a fine conferenza stampa. «È una delle ultime cose che mi hanno fatto, se ne occupano i miei avvocati. Non bastava la Standa, lasciamo stare...».

Il Sole 24.10.14
Ue: sui conti deviazione significativa
La lettera di Katainen all'Italia: risposta entro 24 ore, diteci come rispetterete i patti
di Beda Romano


BRUXELLES. Tra drammatizzazioni giornalistiche, confusione istituzionale e nervosismo politico, il negoziato tra Roma e Bruxelles sul futuro del bilancio previsionale italiano per il 2015 appariva ieri particolarmente difficile. La Commissione europea ha inviato una lettera al ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan, chiedendo chiarimenti sulla Finanziaria. Pur dal tono legalistico e formale, per molti versi la missiva lascia comunque la porta aperta a una intesa.
Nella lettera, resa pubblica ieri dal governo Renzi e firmata dal commissario agli affari economici Jyrki Katainen, si legge che il bilancio previsionale è «in violazione (…) del Patto di Stabilità e di Crescita» perché rinvia il pareggio di bilancio dal 2015 al 2017 e perché porta a «un rallentamento del ritmo di riduzione del debito pubblico». La Finanziaria prevede per il 2015 un aggiustamento strutturale dello 0,1% del prodotto interno lordo, rispetto a un obiettivo europeo di almeno lo 0,5% del Pil.
Katainen ha chiesto a Padoan come intenda assicurare «il pieno rispetto» degli obblighi del Paese, dando tempo al governo fino a oggi per rispondere, cosa che il ministro ha detto farà. Il commissario precisa di volere continuare «un dialogo costruttivo» con Roma. Soprattutto non dice quale dovrebbe essere l'aggiustamento italiano nel 2015, una scelta che avrebbe legato le mani a entrambe le parti: «Si lascia la possibilità all'Italia di fare una offerta migliore», spiegava ieri un funzionario comunitario.
Inoltre, nella lettera non si precisano eventuali appunti sulle coperture di alcune poste di bilancio. Ancora ieri, il portavoce di Katainen, Simon O'Connor, ha spiegato che «la lettera non pregiudica» l'analisi della Commissione, che secondo le regole europee ha fino alla fine del mese per respingere nel caso la Finanziaria. Nel negoziato, sia Bruxelles che Roma vogliono difendere la loro immagine. La Commissione teme di mettere a rischio la credibilità del Patto, chiedendo quindi sforzi maggiori.
Dal canto suo, il premier Matteo Renzi ha fatto della revisione delle regole un cavallo di battaglia politico. Ieri ha detto: «Stiamo discutendo di due miliardi di differenza. Noi possiamo metterli anche domattina». Questa somma, ha detto, è da recuperare dalla riserva di 3,4 miliardi già messa da parte dal Tesoro. Basterà per convincere la Commissione? Probabilmente no, tanto che Renzi ha aggiunto di voler discutere con gli altri leader la possibilità di attenuanti legate alle circostanze economiche eccezionali.
Il presidente della Commissione José Manuel Barroso ha criticato una certa stampa italiana, che lo ha accusato di avere la mano pesante contro l'Italia per rafforzare la sua credibilità nel suo Paese, il Portogallo, nel quale coltiverebbe ambizioni politiche e che ha subito una grave cura d'austerità: è «altamente disonesto e nocivo presentare le posizioni della Commissione come posizioni personali». Ha anche criticato la scelta italiana di pubblicare la lettera inviata da Katainen su cui c'era scritto "strettamente riservata".
Molti protagonisti di questa vicenda hanno notato confusione nella Commissione. Sull'invio stesso della lettera i segnali sono rimasti incerti fino all'ultimo mercoledì sera. Le ragioni di questa confusione sono molte: il momento di transizione tra la Commissione Barroso e la Commissione Juncker che entrerà in funzione il 1° novembre, ma anche incertezze sul grado di flessibilità nell'applicazione delle regole che governi nazionali e istituzioni comunitarie sono pronte ad accettare.
Spiegava ieri il cancelliere Angela Merkel: «Credo sia importante associare crescita dell'economia e risanamento del deficit. Abbiamo avuto tempi in Europa con deficit altissimi e nessuna crescita. Dobbiamo imparare dal passato. Spero che troveremo una soluzione condivisa». L'Unione è stretta tra il desiderio di evitare una resa dei conti e la necessità di difendere il Patto. Precisava sempre ieri un diplomatico: «C'è spazio per trovare una buona strada. Basta volerlo».

Il Sole 24.10.14
Scossa utile ma attenti ai rischi
di Adriana Cerretelli


Matteo Renzi cerca di sparigliare le carte in tavola a Bruxelles provando a strapazzare protagonisti, palazzi e salotti buoni del potere europeo alla stessa maniera spudorata e guascona con cui a Roma ha attaccato, con determinazione e successo, quelli italiani.
«Per un Paese come il nostro che ogni anno versa al bilancio europeo 20 miliardi e ha fatto una manovra da 36, uno o due miliardi in più non saranno un grande sforzo», spiega il presidente del Consiglio al suo arrivo al vertice Ue, minimizzando le contestazioni della Commissione Ue alla legge di bilancio per il 2015, ricordando che il Trattato prevede attenuanti per circostanze eccezionali, difendendo, in nome della trasparenza verso i cittadini, la decisione, criticata invece da José Barroso, di pubblicare la lettera confidenziale ricevuta da Bruxelles. Chiarendo, infine, che non tratterà con il presidente uscente della Commissione ma con il nuovo, Jean-Claude Juncker, in carica dal 1° novembre.
L'Europa non è abituata ad avere a che fare con un'Italia polemica e combattiva, che ribatte punto su punto e senza complessi alle reprimende Ue che fin troppo spesso le piovono addosso. Ma un'Italia più presente e partecipe nella squadra europea è un bene per il Paese e per l'Europa.
Però non sempre brillanti show mediatici e negoziati ad alta voce sono gli strumenti migliori per centrare gli obiettivi. Sono cinque i Paesi che hanno ricevuto lettere con richieste di informazioni e chiarimenti sulle leggi di stabilità. A parte l'Italia, nessuno ha levato gli scudi né ha pubblicato i contenuti.
Invece tutti, Francia per prima, si limitano a trattare cercando di tirare acqua al proprio mulino, di smussare gli angoli dei patti europei a proprio vantaggio. «Le regole vanno interpretate con il massimo di flessibilità per incoraggiare il rilancio degli investimenti», ha ripetuto anche ieri il francese François Hollande. Che, dopo aver flirtato con Renzi inseguendo ambiziosi patti europei per la crescita, per ora solo immaginari, sembra aver ripiegato con discrezione sulla realpolitik di sempre: intesa con la Germania nel tentativo di massimizzarne lo scudo sui mercati con il minimo sforzo in termini di riduzione del deficit e di riforme da fare. Berlino non si fida di Parigi ma non può permettersi di tirare troppo la corda rischiando di scatenare una nuova tempesta sull'euro.
Proprio perché vuole riasserire la credibilità delle regole europee, pur sapendo che nell'attuale scenario di recessione e deflazione un eccesso di severità avrebbe effetti controproducenti per tutti, Angela Merkel si muove decisa ma senza clamori. Le stentoree prese di posizione di Renzi disturbano le sue manovre con Hollande ma, soprattutto, rischiano di fare dell'Italia il materasso delle concessioni ai francesi: non per cattiveria o arbitrario accanimento ma per dare ai mercati l'esempio di una coerenza nel rispetto dei patti europei che pure alla fine non ci sarà.
Quando Renzi evoca a gran voce le circostanze eccezionali per attenuare i morsi del rigore di bilancio fa il suo mestiere. Ma quando liquida in 1 o 2 miliardi l'entità dello sforzo aggiuntivo che gli verrà richiesto corre il pericolo di venire smentito. Perché è vero che l'economia italiana boccheggia e ha un disperato bisogno di crescita e investimenti ma è altrettanto vero che nel 2014 non ha rispettato l'impegno a una correzione strutturale dello 0,7%, la stessa prevista per il 2015, ma ha registrato un aumento del deficit dello 0,3. Visto che nella prossima Legge di stabilità lo sforzo si riduce allo 0,1%, lo scostamento di cui si discute ammonta all'1,6% del Pil, una cifra superiore ai 20 miliardi. Le circostanze eccezionali, che ci sono tutte, abbatteranno l'impegno richiesto: fino a 2 miliardi è forse è sperare troppo.
Che il cambio della guardia a Bruxelles porti più comprensione per le ragioni italiane appare un grosso azzardo: ricorda quello della sinistra europea quando contava sull'avvento della Spd al governo in Germania per scardinarne i dogmi rigoristi e dare una forte sterzata alla crescita. Juncker crede con convinzione nei benefici insiti nelle politiche di austerità e riforme ma ritiene altrettanto fondamentale rimettere in moto lo sviluppo con un piano da 300 miliardi in 3 anni. Però non è chiaro quali saranno i suoi reali margini di manovra. A sentire ieri la Merkel si direbbe sempre gli stessi: «I deficit più alti non aiutano la crescita, lo dimostra l'esperienza del passato. Dobbiamo coniugare sviluppo e consolidamento di bilancio». Decisamente la partita di Renzi in Europa rischia le sabbie immobili.

il Fatto 24.10.14
Lettera UE, la guerra di Renzi
Il premier pubblica il documento con le critiche alla manovra in polemica con Bruxelles
I calcoli dell’Europa
I numeri che non tornano sul deficit
di Stefano Feltri


La critica della Commissione europea riguarda uno dei punti fondanti della legge di Stabilità: il rinvio del pareggio di bilancio (in gergo “Obiettivo di medio termine”, MTO) dal 2016 al 2017 e la sua diretta conseguenza, cioè la riduzione del debito pubblico più lenta di quanto dovrebbe essere secondo il patto di Stabilità rafforzato. L’Italia “pianifica una deviazione significativa dal percorso di aggiustamento richiesto”, si legge nella lettera firmata dal commissario agli Affari economici Jyrki Katainen, spedita mercoledì sera a commento della bozza di legge di Stabilità arrivata a Bruxelles lo scorso 15 ottobre.
ALL’INIZIO dell’anno, il governo si era impegnato a ridurre il deficit strutturale, cioè quello che non considera gli effetti della recessione, di mezzo punto di Pil, circa 7,5 miliardi. Ma nella Nota di aggiornamento al Def che fissa i numeri della legge di Stabilità, invece, ha detto che si limiterà soltanto a 0,1 per cento, meno di 1,5 miliardi. Ma per i bizantinismi delle regole europee, peggio va la crescita, maggiore è l’aggiustamento complessivo richiesto (perché un Pil basso rende il debito più pesante). L’aggiustamento complessivo nel triennio 2013-2015 passerebbe quindi da 0,9 punti di Pil a 1,4, cioè da 13,5 miliardi a 21 miliardi. Il governo quindi sostiene che ci siano le condizioni, previste dal quadro di regole, per invocare la sospensione dell’aggiustamento, fare una manovra espansiva che rimetta in moto il Pil e assicurare il rispetto degli obiettivi di finanza pubblica entro il 2017 invece che entro il 2016.
Il commissario Katainen chiede al governo di spiegare “perché l’Italia prevede di non rispettare il patto di Stabilità e crescita nel 2015”. Ed è una richiesta sorprendente, perché il nostro esecutivo era convinto di averlo già spiegato in maniera sufficientemente chiara. In sintesi: nel 2014 la crescita è negativa (-0,3 per cento) e molto inferiore a quanto era atteso (+0,8) e l’output gap è superiore al 4 per cento, che tradotto significa che l’economia italiana è molto lontana dal suo potenziale. La combinazione di questi due requisiti legittima – anche in base alle regole europee – la sospensione dell’aggiustamento di 0,5 punti di Pil.
Tutto a posto, quindi? No: perché il Fiscal compact, il Six Pack e il resto della gabbia fiscale sono così rigidi che se un Paese per un anno sospende l’aggiustamento, ma l’anno successivo se la passa appena un pochino meglio, subito deve rimettersi in pari. Quindi l’Italia potrebbe rivendicare qualche margine sul 2015, ma non sul 2016, perché il prossimo anno la crescita del Pil è prevista positiva e l’output gap inferiore al 4 per cento. L’Ufficio parlamentare di bilancio guidato da Giuseppe Pi-sauro ha segnalato questa stortura, lasciando intendere che sarebbe molto più sensato prevedere un aggiustamento graduale invece che l’approccio attuale del “tutto o niente”. Ieri sera, al Consiglio europeo, si è iniziato a discutere di un’ipotesi di compromesso: aggiustamento strutturale per il 2015 di 0,3 punti di Pil, una via di mezzo tra lo 0,5 previsto dalle regole e lo 0,1 offerto dal governo italiano.
MA PERCHÉ la Commissione europea chiede di motivare il rinvio del pareggio di bilancio al 2017, visto che è già stato spiegato? Trattandosi di numeri e non di interpretazioni, l’unica possibilità è che a Bruxelles non si fidino delle cifre fornite dall’Italia. C’è un indizio di questo nella lettera di Katainen, visto che la “significativa deviazione” dell’Italia viene riscontrata “secondo la nostra analisi preliminare, sulla base del ricalcolo fatto dai servizi della Commissione usando una metodologia su cui c’è accordo condiviso”. Quanto sono diversi i numeri della Commissione da quelli del Tesoro? Per ora non lo sappiamo.

Corriere 24.10.14
I conti, le promesse e l’Europa
Non è questione di spiccioli
di Antonio Polito

qui

Corriere 24.10.14
L’ira dietro le quinte di Bruxelles: quello sforamento è «premeditato»
di Luigi Offeddu


BRUXELLES La frase era in alto, a sinistra, tutta in lettere maiuscole, pubblicata con la massima evidenza nella missiva indirizzata a Roma dalla Commissione europea. E la cosa che deve aver più sconcertato il mit-tente, cioè il commissario Jyrki Katainen, è stato il modo in cui l’Italia l’ha ignorata. «Strictly confidential», «strettamente confidenziale», era ed è anche una formula diplomatica vincolante, soprattutto se indirizzata da un governo (e la Commissione in un certo senso lo è) a un altro. Ma già di primo mattino, ieri, quel testo che avrebbe dovuto aprire un dialogo riservato era su tutti i dispacci delle agenzie di stampa, diffuso dal nostro ministero dell’Economia. Per un mondo formale come quello delle istituzioni della Ue, molto più che una gaffe: un incidente diplomatico, o perfino — e qualcuno qui lo dice chiaro e tondo —, una mancanza di rispetto inspiegabile.
Questi sono gli umori che si respirano ai piani alti della Commissione, il giorno dopo il gran temporale. Oggi ci saranno altre spiegazioni, quasi certamente si troverà un compromesso: nessuno ha interesse a un silenzio prolungato. Ma mai, neppure ai tempi più bollenti di Silvio Berlusconi, i rapporti Roma-Bruxelles erano giunti a una temperatura così incandescente. Forse era inevitabile, anche perché la famosa lettera dell’altro ieri — un elenco di appunti e domande sulle mancanze del piano di stabilità italiano — conteneva messaggi molto chiari, al di là dell’euro-linguaggio diplomatico.
Tutto ruota intorno al verbo inglese to plan — pianificare, programmare, avere intenzione di — usato non certo a caso. E usato nel significato più o meno implicito di un atto volontario, se non premeditato. Nella lettera, compare per quattro volte. Quella che sembra suscitare l’eco più pesante, al di sotto della cortesia formale, è verso la fine: «Le scrivo per consultarla sulle ragioni per le quali l’Italia pianifica ( plans ) di non obbedire (letteralmente: «la non-obbedienza») al Patto di stabilità e di crescita». Chi scriveva avrebbe potuto usare altri verbi, dicendo che l’Italia risks , rischia, o may , «potrebbe» violare il Patto. Queste espressioni avrebbero racchiuso in sé il concetto di un errore tecnico, invece traspare il sospetto della premeditazione.
All’altro capo della lettera, cioè all’ottava riga, altro bis: «La bozza del piano di bilan-cio italiano pianifica (ancora plans ) di infrangere i requisiti spettanti all’Italia sotto il braccio preventivo del Patto di stabilità». Il Patto ha infatti una sorta di zona d’allarme con norme e allarmi ben codificati, il braccio preventivo, che serve a bloccare un eventuale slittamento dei bilanci. Se il governo richiamato non agisce, si passa al «braccio correttivo», cioè alle sanzioni. Ma qui si lascia intendere che l’Italia ha in programma di violare già da subito gli stessi requisiti del Patto. Volgarizzando al massimo, è come se Bruxelles dicesse a Roma: state già pensando di fare i furbi, prima ancora che cominci la partita, e non certo per distrazione.
Alla decima riga, altra stangata appena velata dalla cortesia del protocollo, ma chiarissima nel contenuto: «L’Italia programma una deviazione significativa dal percorso di aggiustamento richiesto verso il suo obiettivo di bilancio a medio termine». Ora la parola passa ai mediatori. Che però chiederanno una procedura strictly confidential , nella speranza di essere ascoltati.

La Stampa 24.10.14
Bonus bebè mensile
Fondi più che dimezzati
Gli 80 euro solo per 200mila mamme. Assegno da chiedere all’Inps
di P. Bar.


La coperta per il bonus mamma si fa più corta. Il passaggio della legge di Stabilità sotto la lente delle Ragioneria generale dello Stato ha lasciato il segno: già era stato introdotto un tetto di reddito complessivo per la famiglia pari a 90 mila euro, ma anche lo stanziamento è stato rivisto in maniera molto significativa. Domenica scorsa in tv il presidente del Consiglio Matteo Renzi aveva annunciato la novità spiegando che col nuovo anno alle neo-mamme sarebbe stato assegnato un bonus mensile di 80 euro finanziati coi 500 milioni di euro già stanziati a favore delle famiglie. In questo modo, secondo i primi calcoli, praticamente tutti i nuovi nati (che in media sono giusto 500 mila all’anno) avrebbero beneficiato del contributo.
La versione finale della legge di Stabilità in realtà ridimensiona in maniera significativa lo stanziamento. Per il 2015 non si parla più di 500 milioni a disposizione ma di 202 (i restanti 298 vanno ad un fondo ad hoc destinato sempre alle politiche familiari), quindi anziché 500mila i bonus finanziabili saranno meno della metà, 200 mila. Per il 2016 sono invece previsti 607 milioni, 1012 per il 2017 e per il 2018, e ancora 607 per il 2019 e 202 per il 2020.
Perché questo «taglio»? Perché nella versione originaria della proposta, quella lanciata domenica dal premier, il bonus bebè triennale - partendo da una spesa 2015 di mezzo miliardo - nel 2016 sarebbe costata 1 miliardo e addirittura a 1 miliardo e mezzo l’anno seguente. Troppo, per i severi controllori del Bilancio. Di qui l’intervento calmieratore: l’anno prossimo si parte con 200 milioni destinati poi a salire in maniera progressiva negli anni seguenti ma insufficienti comunque a coprire l’intera platea. Con la dotazione messa a disposizione nella versione finale del ddl, infatti, solo 4 neonati su dieci avranno diritto al bonus l’anno prossimo, diventeranno poi 6 su 10 nel 2016 e quasi sette su 10 nel 2017.
Il nuovo articolo 13 della legge di stabilità mette poi nero su chiaro tutti i dettagli del provvedimento. «Al fine di incentivare la natalità e contribuire alle relative spese per il sostegno – recita la norma - per ogni figlio nato o adottato a decorrere dal 1° gennaio 2015 fino al 31 dicembre 2017, è riconosciuto un assegno di importo annuo di 960 euro erogato mensilmente a decorrere dal mese di nascita o adozione». Inoltre è previsto che l’assegno non concorra alla formazione del reddito complessivo sottoposto a tassazione Irpef e che venga corrisposto «fino al compimento del terzo anno d’età ovvero del terzo anno di ingresso nel nucleo familiare a seguito dell’adozione». Varrà per i figli di cittadini italiani o di uno Stato membro della Ue di cittadini extracomunitari con permesso di soggiorno, residenti in Italia. Come detto è previsto un tetto di reddito di 90.000 euro, limite che non vale più a partire dal quinto figlio (o adottato) in su. All’Inps, ente al quale le neo-mamme dovranno inoltrare le domande, spetterà anche il compito effettuare un monitoraggio e nel caso «si verifichino o siano in procinto di verificarsi scostamenti rispetto alla previsione di spesa» è già previsto che il governo possa rideterminare sia l’importo annuo, riducendolo rispetto ai 960 euro di partenza, sia il tetto di reddito dei 90 mila euro.

il Fatto 24.10.14
Alluvione di Genova, Renzi rimane a secco: zero euro
Dopo due settimane il Cdm non delibera lo stato di emergenza né concede soldi
E si scopre che il fondo per le calamità è dimezzato a 50 milioni
di Giampiero Calapà


Genova non merita lo stato di emergenza per calamità naturale e l’invio dei relativi fondi per rimettersi in piedi. Dopo quattordici giorni, due settimane, ancora niente dal Consiglio dei ministri presieduto dal premier che cambia verso, sblocca l’Italia, ma non trova i soldi in una ricerca disperata che coinvolge il ministero dell’Economia. “Non vi lasceremo soli”, disse Matteo Renzi a poche ore dalla disastrosa alluvione che il 9 ottobre ha sconvolto la città ligure, portandosi via anche una vita. E non solo, neppure l’annunciata visita del primo ministro è ancora avvenuta, nonostante le assicurazioni delle prime ore: “Verrò appena passata la prima fase di emergenza”, disse Renzi. Quattordici giorni dopo, appunto, prima, seconda e terza emergenza sono archiviate, i genovesi hanno spalato il fango da soli e si sono sentiti e si sentono ancora molto soli.
SEMBRA una beffa, ma il Consiglio dei ministri di due giorni fa uno stato di emergenza per calamità naturale l’ha deliberato, con un assegno di 10 milioni e mezzo, trovati dal ministero dell’Economia e delle Finanze che ha dovuto raschiare il fondo del barile. Si tratta di quello per la provincia di Foggia, colpita da un’alluvione tra il 1° e il 6 settembre, e che comunque ha dovuto aspettare quasi due mesi per veder placata la giustificata rabbia del Gargano per l’assurda e prolungata attesa. Vista l’eccezionalità dell’evento ligure il governo, con due Consigli dei ministri riuniti nel frattempo, non avrebbe potuto provvedere subito anche a Genova? Certo sono lontani i tempi delle vacche grasse quando Guido Bertolaso otteneva da Silvio Berlusconi stati d’emergenza nel giro di poche ore, un esempio su tutti il terremoto de L’Aquila dell’aprile 2009, con 30 milioni stanziati subito, doverosamente. Ma anche per l’alluvione sarda del 2013 passarono soltanto pochi giorni per la dichiarazione dello stato d’emergenza.
Lo stesso governo Renzi, al suo primo Consiglio dei ministri, nel giorno stesso dell’insediamento, il 14 febbraio, sbloccò i fondi per i danni del maltempo che aveva colpito la Toscana solo pochi giorni prima, l’11 febbraio. Il problema è il fondo per le emergenze nazionali, riempito con 70 milioni dalla legge di stabilità 2013 e poi prosciugato dalle varie emergenze che si sono susseguite fino ad arrivare a quota zero euro. Lo “Sblocca Italia” prevede di rimpinguare il fondo con 50 milioni (cento con un emendamento della relatrice della legge, ma la Ragioneria generale dello Stato non ha dato il via libera). Per il presidente della commissione Ambiente della Camera Ermete Realacci “i fondi così sono insufficienti”.
La Regione Liguria, nel frattempo, ha già fatto le prime stime dei danni, come conferma l’assessore alla Protezione civile Raffaella Paita: “Solo per le prime emergenze servono almeno 60 milioni, in tutto più di 250”. Quindi, solo per l’immediato, più di quelle che saranno a disposizione dal fondo con lo Sblocca Italia. Cosa farà il governo? “Ci hanno promesso – risponde Paita – un provvedimento ad hoc, non possiamo che essere fiduciosi perché ne abbiamo bisogno, non c’è alternativa”.
QUALCOSA, si spera, alla fine il governo s’inventerà, ma con il dimezzamento della cifra per il fondo di emergenza nazionale la strada si fa difficile e irta di ostacoli. Se c’è una somma anche nelle pieghe della legge di Stabilità appena firmata dal presidente Giorgio Napolitano non è dato sapere. Al capomissione contro il dissesto idrogeologico di Palazzo Chigi, Erasmo D’Angelis, non risulta, il consigliere economico di Renzi, Yoram Gutgeld, interrogato sulla questione, risponde così: “Mi trova impreparato, credo ci fossero un centinaio di milioni”. E stride leggere, nella stessa legge di Stabilità, un capitolo di spesa accanto alla parola “Genova”: 400 milioni per il contestato terzo valico dell’alta velocità ferroviaria tra Milano e la Liguria. I soldi per i buchi nelle montagne ci sono, insomma, quelli anti-dissesto idrogeologico, invece, sono molto difficili da trovare.

il Fatto 24.10.14
Lo Stato insolvente non ha soldi per Genova
Deve 30 miliardi a coop, Asl e impreseNessuna dichiarazione di calamità per l’alluvione. La Ragioneria concede 50 milioni invece di 100: ne servirebbero subito 60
Intanto, dopo il caso delle coop che assistono i minori ma non sono state pagate, il conto dei mancati versamenti pubblici sale a 30 miliardi
di Carlo Di Foggia


L’ITALIA HA TANTI CREDITORI. E PALAZZO CHIGI STANZIA POCHI SOLDI E RISCHIA DI NON RIUSCIRE A PAGARE

“Tutto risolto”, spiegò Pier Carlo Padoan il 27 agosto scorso. Sui debiti della Pa, il titolare del Tesoro ce l'ha messa tutta per non contraddire i tweet del premier, ma la triste saga dello Stato che non paga i suoi fornitori continuerà. Dietro, c'è un mondo variegato che lancia segnali disperati in vista della legge di Stabilità: dalle imprese che lavorano con le Asl all’edilizia, alle cooperative sociali. Quelle che si occupano dei minori stranieri non accompagnati che sbarcano in Sicilia, per dire, sono allo stremo: i costi vengono anticipati dalle strutture, ma a oggi non sono mai stati rimborsati. Per loro, come ha rivelato ieri il Fatto raccontando la denuncia contro tre ministri del governo Renzi presentata da una ventina di centri sparsi nella Penisola, anche se lo Stato è insolvente “non commette reato” visto “il progressivo deterioramento delle finanze pubbliche ” (la Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione).
Dai tecnici di Monti in poi: arriva sempre di meno
Il fallimento è nei numeri. A oggi solo metà dei 60 miliardi certificati dal Tesoro (ma per Bankitalia arrivano a 75) è stata saldata. Nonostante questo, al vertice Asem di Milano il premier ha spiegato che “mancano solo 3 miliardi per completare ilpagamento”. Breveriassunto: dal 2012 a oggi il governo di Mario Monti ha messo 40 miliardi, quello di Enrico Letta 7,7 e Matteo Renzi 9,3. Il totale fa 57 miliardi. Soldi, però, solo “stanziati”. Tradotto: non si tratta di risorse effettivamente erogate, né di pagamenti effettuati ma solo di capitoli impegnati. A settembre scorso, le prime si sono fermate a 38,4 miliardi e i secondi a 31,3: poco più della metà del totale (già sottostimato considerando tutti quei debiti fuori bilancio). All’appello mancano circa 30 miliardi. Sempre a settembre, il Tesoro aveva provato a dare una boccata d’ossigeno liberando risorse per i debiti in conto Capitale (quelli cioè che impattano sul deficit e che necessitano quindi di coperture): 200 milioni di euro, da escludere dal patto di stabilità interno. Il resto? Stando ai piani del governo, arriverà dalla cessione dei crediti alle banche attraverso una garanzia pubblica. Un sistema complesso che finora non ha dato risultati incoraggianti e fra sette giorni il verdetto sarà ufficiale: il 31 ottobre, infatti, scadrà il termine ultimo del complesso meccanismo messo in piedi da Renzi e Padoan per chiudere la partita (e disinnescare le sanzioni europee). Funziona così: chi vanta un credito si registra su una piattaforma, l’Ente debitore (Asl, Regione etc.) verifica se l’ammontare è reale e, nel caso, lo certifica. Lo stato rilascia una garanzia pubblica e l’impresa può farsi “scontare” le fatture in banca. (costo dell’operazione: 1,90 percento per importi fino a 50 mila euro, 1,60 per cifre superiori). Stando ai dati del Tesoro, finora alla piattaforma elettronica si sono registrate 18.348 imprese per un ammontare di 7 miliardi di euro. Le imprese creditrici dello Stato, però, sono oltre 100 mila. Com’è possibile? Secondo Confartigianato più della metà delle imprese non sa neanche dell’esistenza della piattaforma. Non è detto poi che tutti gli importi verranno confermati: gli Enti hanno 30 giorni per “bollinare” il credito (o respingerlo) e finora la percentuale si è attestata intorno al 25 per cento delle richieste: a conti fatti, i crediti rimborsati potrebbero non superare i 2 miliardi. Un flop.
Le proteste dell’Ance e i Comuni con la cassa vuota
A rischio ci sono migliaia di imprese, a partire dall’edilizia. Secondo l’Ance, l’associazione di categoria, ci sono 10 miliardi di debiti in conto capitale delle pa ancora da pagare. Il decreto Sblocca Italia che verrà licenziato oggi dalla Camera (andrà al Senato) consente a Regioni e Comuni di sforare dal Patto di Stabilità interno per saldare i debiti non di parte corrente. Ma a oggi dei 200 milioni promessi a settembre ne sono stati stanziati solo 170. Del miliardo chiesto dai Comuni ne mancano ancora 922 milioni, buona parte dei quali chiesti da Lazio (424 milioni), Campania (140) e Lombardia (59). I fornitori del Servizio sanitario nazionale non se la passano meglio, l’arretrato che supera i 5 miliardi di euro. Poi ci sono le cooperative sociali: nel 2013 i crediti vantati dalle imprese del terzo settore superavano i sei miliardi.

il Fatto 24.10.14
La cooperativa pugliese
“Giocano sulla pelle dei bambini”
intervista di Rino Angellotti


Ci hanno abbandonati: un rimpallo di responsabilità vergognoso sulla pelle dei bambini”. Per comprendere quanto lo scontro tra Governo e Enti locali sui tagli miliardari della legge di stabilità non sia solo una diatriba politica, ma riguardi la carne viva dei servizi sociali, basterebbe ascoltare Rino Angellotti, presidente della cooperativa “Il Sipario” di Gravina di Puglia. Il centro di Angellotti raccoglie 8 comunità di migranti. Nel luglio scorso, insieme a una ventina di strutture (soprattutto siciliane) aveva denunciato tre Ministeri (Interno, Economia e Lavoro) per insolvenza. Motivo? Il pagamento delle rette per l’assistenza dei minori stranieri non accompagnati che sbarcano in Sicilia, anticipate dalle cooperative e mai saldate. Come ha raccontato il Fatto, dopo aver indagato i ministri Angelino Alfano, Pier Carlo Padoan e Giuliano Poletti, la Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione (l’avvocato Francesca Conte ha fatto ricorso al tribunale dei ministri). “Chi ci rimette sono i ragazzi - spiega Angellotti - Sono schiacciati dalle scelte sbagliate fatte dallo Stato”.
Non sono i Comuni a dovervi pagare?
Sì. Stando alla legge dovrebbero farlo i Comuni dove i minori sbarcano, quindi quelli siciliani. Solo che loro non hanno soldi e scaricano i costi su di noi.
Non hanno i soldi o non vogliono farlo?
Non ce li hanno proprio. C’è da capirli. Prendiamo il nostro caso. La maggior parte dei minori viene da Augusta (Siracusa), dove a oggi sono arrivati 3200 ragazzi. Non è che i migranti sbarchino tutti lì, semplicemente ci approdano le navi di Mare Nostrum dopo averli soccorsi. Il Comune subisce una scelta fatta da altri, e tra l’altro è in pre-dissesto finanziario: ha 50 milioni di debiti.
La Regione Sicilia non contribuisce?
È completamente assente, e loro cercano di scaricare il problema altrove.
Se loro non pagano, tocca a voi.
È quello che il ministero ha provato a fare, ma qui ci sono Comuni con poche centinaia di abitanti che dovrebbero accollarsi costi per milioni di euro per mantenere 30 ragazzi. In pratica lo Stato gli chiede di violare la legge perché non vuole accollarsi i costi dell’accoglienza.
Oltretutto lancia segnali contraddittori.
Quali?
Decide di far sbarcare tutti i migranti in alcuni Comuni siciliani, poi visto che non ce la fanno ad accoglierli, dirottano i minori (9.820 quelli arrivati nei primi otto mesi dell’anno, ndr) nelle comunità di accoglienza sparse per l’Italia. Decide poi di non cambiare la legge e in caso di problemi pretende che a pagari siano gli Enti che li accolgono. Che, ribadisco, non hanno chiesto di farlo: gli è stato imposto dai Prefetti perché la Sicilia non ce la fa.
I Comuni delle altre Regioni non potrebbero fare uno sforzo?
Mi creda, gli Enti locali versano in condizioni paurose. Se un piccolo Comune deve assistere 30 minori - che costano circa 1,5 milioni di euro - è costretto a tagliare i servizi, a partire dagli asili nido e dal trasporto pubblico e alzare le tasse. Tutto questo per adempiere a un principio di solidarietà tra popoli e tra istituzioni: una bestialità.
Come si risolve il problema?
Lo Stato intervenga direttamente. Non molleremo: stiamo facendo incontri fino a tarda notte al Ministero delle Politiche sociali per sbloccare la situazione. Devono impegnarsi loro per primi.
Per quanto tempo può andare avanti una situazione del genere?
Poco. A me devono 700 mila euro, ma ci sono centri che non vengono pagati dal 2009.

il Fatto 24.10.14
Sanità, malati di demenza: per il governo sono cittadini o ‘vuoti a perdere’?
di Cittadinanzattiva

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il Fatto 24.10.14
Avastin-Lucentis
Alla guerra di Big Pharma si “arruolano” i pazienti
di Chiara Daina


FEDERANZIANI ATTACCA AVASTIN (20 EURO), A FAVORE DI LUCENTIS (1.000 EURO) E GLI OCULISTI LA DENUNCIANO: “PROCURATO ALLARME, METODO NON SCIENTIFICO”

Il caso Avastin-Lucentis non è chiuso. Contro ogni aspettativa, almeno dei medici. Si credeva che Roche e Novartis, produttrici dei rispettivi farmaci, fossero ormai con le spalle al muro e che Avastin, il medicinale più economico per la cura della maculopatia (20 euro per iniezione) venisse preferito al costosissimo Lucentis (mille euro per iniezione). E invece no.
Non è valsa a nulla la multa da 180 milioni di euro dell’Antitrust ai due giganti svizzeri per il presunto cartello volto a favorire l’uso del secondo al posto del primo (il Tar si pronuncerà i 5 novembre). Non ha importanza che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) abbia inserito Avastin nella lista dei farmaci indispensabili per la vista. Non ha contato neppure il Consiglio superiore di sanità, interpellato dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin, che il 15 maggio ha dichiarato che i due farmaci sono del tutto equivalenti a livello di efficacia e sicurezza. Che il 28 maggio lo Stato abbia chiesto il risarcimento di 1,2 miliardi di euro a Roche e Novartis per il danno economico subito (circa 45 milioni di euro nel 2012, 540 nel 2013 e 615 nel 2014). Che a settembre la Cochrane Collaboration, una delle più serie autorità scientifiche al mondo, a seguito di una revisione di nove studi abbia ribadito che non c’è alcuna differenza negli effetti collaterali. Certezze come foglie al vento.
STUPISCE, INVECE, che questa volta siano i pazienti a insistere sulla “maggior efficacia” del prodotto più costoso e non i medici, di solito facili prede di Big Pharma. Federanziani, tre milioni di iscritti over 65, l’8 ottobre ha chiesto all’Aifa e ai carabinieri del Nas di sospendere immediatamente l’impiego di Avastin in campo oftalmologico per via degli effetti avversi riscontrati negli anziani che hanno telefonato al numero verde istituito prima dell’estate: oltre 245 chiamate in 40 giorni, scrivono, in cui il 17,8 per cento ha dichiarato di aver avuto reazioni avverse, tra cui gravissime emorragie (25 per cento), perdita della vista (15 per cento), bruciore o fastidio (60 per cento). Ma il metodo scelto lascia a desiderare parecchio. “Ci vuole il parere del medico, non di un operatore di call center – sbotta Matteo Piovella, presidente della Soi (società oftalmologica italiana), promotrice dell’indagine dell’Antitrust –. A fronte di una terapia che riguarda 500 mila intravitreali l’anno, Federanziani ha raccolto reazioni avverse nello 0.00004 per cento dei casi, un dato ridicolo, non attendibile, su cui però fondano la richiesta di sospensione del farmaco”. C’è dell’altro. “Il numero verde è stato pubblicizzato nelle farmacie, nei centri anziani, non però negli studi degli oculisti – sottolinea Piovella – e al telefono promettono assistenza legale a chi vuole citare in giudizio il medico, pazzesco”.
LA SOI HA DENUNCIATO Federanziani alla Procura di Torino per procurato allarme e diffusione di notizie false e tendenziose. Alla domanda se Federeranziani riceva finanziamenti da Novartis, produttrice del Lucentis, il presidente di Federanziani Roberto Messina risponde: “Ogni anno ci dà un contributo per il meeting nazionale”. L’associazione ha espulso la Soi dall’Advisory board per le maculopatie annunciando una manifestazione con migliaia di pazienti durante il congresso nazionale della società a Roma, dal 21 al 24 novembre.
I pazienti stanno dando manforte all’Aifa, che ha inserito Avastin a carico del Servizio sanitario nazioanale solo per degenerazione maculare senile (non per quella diabetica o per il glaucoma neovascolare) e in esclusiva alle strutture pubbliche (mentre il Lucentis è ammesso anche in quelle private). Contro questo provvedimento Aiudapds (Associazione italiana unità private di day surgery) e Soi hanno fatto ricorso. “Aifa insiste sulle gravi reazioni avverse di Avastin. Significa che la somministrazione negli ospedali pubblici è dannosa per il paziente? ” domanda con ironia l’avvocato di Aiudapds, Giorgio Muccio. “Il problema dei costi folli della cura non è risolto – conclude -. Il 40enne affetto da maculopatia deve usare il Lucentis e in generale, in caso di lunghe liste d’attesa, dovrà rivolgersi agli ambulatori privati, spendendo molto di più”.

il Fatto 24.10.14
Scelte di vita
Tranfa, la dignità di un giudice
di Antonello Caporale


Un giudice di 69 anni va in pensione. Lo fa dopo aver compiuto l’ultimo dei suoi doveri professionali: sottoscrivere le motivazioni di una sentenza. Sceglie di non accompagnare neanche con una parola quella sua decisione privata, personale.
Quel silenzio condanna invece Enrico Tranfa, presidente della Corte di appello che ha assolto Silvio Berlusconi nel cosiddetto processo Ruby. Quel silenzio, così prezioso e degno, così raro nel quotidiano frastuono con cui la magistratura dibatte e contesta, si loda e s’imbroda, assolve e punisce, polemizza e accusa, lo inchioda alla colpa, deturpa la sua storia professionale, ne decreta la faziosità.
I protagonisti di questo processo alle intenzioni, di questo clamoroso cumulo indiziario secondo il quale il contegno assunto, la totale riservatezza esibita, diviene prova d’accusa, sono i suoi stessi colleghi giudici. Il presidente della Corte d’Appello di Milano Giovanni Canzio definisce quelle dimissioni così limpide e così intime “non coerenti con le regole ordinamentali e deontologiche, se dettate dal motivo di segnare personale dissenso rispetto alla sentenza”.
FERMIAMOCI al “se”. È infatti quel se che fa paura, che intimidisce e offende. Che viola il registro elementare dei rapporti civili. Il giudice Canzio rende pubblica una sua personale sentenza che riguarda l’onore, la correttezza, la probità di un collega prendendo come indiscutibile, assoluta e provata dichiarazione d’infedeltà alla toga un fatto che non può provare in nessun modo.
Magistrale l’intervento che ne è seguito. Il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, un democristiano d’Abruzzo fino all’altroieri sottosegretario all’Economia, come primo atto di investitura sceglie di incolpare il dimissionario Tranfa, ormai ex giudice: “Credo che tutti possiamo riconoscerci nella posizione espressa dal presidente Canzio, che io sottoscrivo integralmente”. Legnini dunque sottoscrive il “se”, acquisisce il periodo ipotetico come prova certa, restituisce all’indizio la certezza del dolo, all’allusione il valore di una prova, all’ombra la luce. Capovolge il mondo e le stesse parole di cui si è cibata la politica.
“Il magistrato deve parlare per atti”. “Non deve comparire”, “Non deve rilasciare dichiarazioni ai giornali”, “Non si deve conoscere il suo volto”. Una montagna d’ipocrisia, l’enorme castello delle facce di bronzo che il gesto di Tranfa mette finalmente a nudo. Tranfa ha parlato solo per atti, non ha divulgato alcun suo pensiero personale su Berlusconi e ha esercitato un suo diritto esclusivo con ogni riservatezza.
Ma non basta se c’è Silvio di mezzo. E in questo caso il riserbo subisce la manomissione, la figura professionale viene deturpata. Ricordate la vicenda del giudice Mesiano? Anche allora c’era il Cavaliere a imporre uno scrutino alternativo delle prove d’accusa e Mesiano, che era stato chiamato a dirimere il conflitto in sede civile tra Fininvest e Cir, si trovò a venire incolpato per i suoi calzini bianchi.
FU IL FISICO del magistrato a essere posto sotto processo, a essere monitorato e indagato da una telecamera Mediaset. Con lo stesso evidente scopo di screditarne la qualità professionale, ridicolizzarne l’immagine, ridurre a zero ogni credibilità. Oggi, rispetto a ieri, c’è che questi rilievi alla integrità morale di un giudice sono condotti dai suoi (ex) colleghi e per mezzo della stampa.
Rispetto ad allora c’è un salto di qualità, un di più di persecuzione. L’enorme gravità del gesto è che questa manomissione non proviene dal Parlamento, dai partiti, dallo staff del Cavaliere. Si accusa Tranfa di aver segnalato con le dimissioni la sua dissociazione dal verdetto che ha assolto Berlusconi. E che razza di accusa sarebbe questa? Egli ha presieduto una corte, e la corte ha deciso. All'unanimità? A maggioranza? La conta non è pubblica, solo la sentenza lo è. Tranfa ha firmato la motivazione dell'assoluzione. Stop. Basta? No che non basta. Deduciamo la sua dissociazione dalla scelta di andare in pensione.
Ma è una deduzione giornalistica e risponde all'esercizio legittimo e libero del diritto di cronaca. Non risulta che il dottor Tranfa abbia mai accettato di spiegare a giornali e tv il motivo delle sue dimissioni. Ecco che il silenzio diviene macchia. Ecco l’untore.

il Fatto 24.10.14
Trattativa sul colle
Ingroia: Le domande che farei a Napolitano (e i Pm non possono fare)
di Antonio Ingroia


IL PROCURATORE CHE NEL 2000 ISTRUÌ L’INCHIESTA, OGGI NON PIÙ MAGISTRATO, SPIEGA COME INTERROGHEREBBE IL CAPO DELLO STATO MA AVVISA: CON LE REGOLE FISSATE È DIFFICILE ARRIVARE A QUALCOSA

RAPPORTI AMICALI. Perché quando il senatore Nicola Mancino La cercò al telefono Lei non ritenne di astenersi dal mantenere rapporti con un indagato?
IL DUBBIO. Quale segreto aveva così tanto tormentato un uomo di Stato come D’Ambrosio da farlo morire di crepacuore?

Ora che il momento della deposizione del presidente Napolitano al processo sulla “trattativa Stato-mafia” è arrivato, è giusto chiarire ai lettori del Fatto Quotidiano, italiani fortunati a essere stati costantemente informati di questo processo oscurato dai media, cosa è lecito attendersi da questa udienza che si svolgerà in pompa magna nientedimeno che al Quirinale, sede della più alta carica dello Stato. E credo di poter rivendicare, per la mia storia e il ruolo che in quel processo ho svolto, il diritto di poter dire la mia in virtù di un doppio vantaggio. Il primo è quello di conoscere bene quell’indagine dall’inizio, avendola io avviata nell’ormai lontano 2000, fino alla sua impostazione costruita con i pm che oggi se ne occupano a dibattimento. Il secondo vantaggio è quello di essere un ex-magistrato, e quindi poter dire ciò che oggi a un magistrato non è consentito, visto che a colpi di procedimenti disciplinari, reprimende quirinalizie e adeguamenti obbedienti di un Csm trasformato da presidio dell’autonomia e indipendenza della magistratura a sede naturale dell’omologazione di giudici e pm, i magistrati sono stati ormai ridotti a cittadini di serie B, spogliati della libertà di espressione e del diritto di critica, se la critica investe la politica. In virtù di questo doppio vantaggio, vi dico perché un’udienza che poteva e doveva essere indispensabile, se non decisiva, per l’accertamento della verità, ragion per cui la Corte d’Assise l’ha disposta quasi sfidando l’evidente riottosità del capo dello Stato, rischia di essere un’udienza inutile, perfino dannosa per l’accertamento della verità. Messa a rischio non certo dalla magistratura, ma – ancora una volta – dalla politica, una politica irredimibile, espressione di una classe dirigente troppo allergica al principio di responsabilità.
IO NON SARÒ in quella sala del Quirinale trasformata in aula di udienza perché non sono più pm della Procura di Palermo, e non lo sono più anche perché ho ritenuto non vi fossero più le condizioni per un pieno accertamento della verità. E credo che la sorte di questa udienza ne sarà una riprova, così come la distanza fra le domande che avrei voluto fare io e quelle che i pm potranno fare al Presidente Napolitano.
La prima domanda che farei al Presidente Napolitano sarebbe: perché quando il senatore Nicola Mancino la cercò al telefono direttamente, e anche indirettamente tramite Loris D’Ambrosio, Lei non ritenne di astenersi dal mantenere rapporti e contatti con il senatore Mancino, che si sapeva essere in quel momento coinvolto nell’indagine sulla trattativa? Perché, anzi, assicurò il suo interessamento, facendo intendere a Mancino che avrebbe assecondato il suo disegno di sottrarre alla Procura di Palermo la direzione dell’indagine sulla trattativa? Lo fece solo per non dispiacere un vecchio amico e collega, o piuttosto lo fece per una superiore ragion di Stato? E quale, di grazia, era questa ragion di Stato? Peccato che questa domanda oggi sarebbe inammissibile, grazie alla politica, le ragioni della politica che l’hanno indotta, signor Presidente, a sollevare un conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo. Le stesse ragioni della politica che poi hanno “indotto” la Corte costituzionale a darLe ragione, così coprendo di una malintesa immunità presidenziale tutte le Sue attività intorno a quella vicenda. Domanda respinta perché non consentita.
La seconda domanda, collegata, sarebbe di chiederLe perché non ritenne di contattare i pm palermitani per informarli dei contatti impropri attraverso i quali Mancino cercava di interferire sulle indagini in corso. Ma immagino che anche questa domanda mi sarebbe inibita dal presidente della Corte d’Assise in virtù di quella stessa sentenza politica della Corte costituzionale. Domanda respinta perché non consentita.
E ancora peggior sorte avrebbero le mie domande sulle telefonate “indicibili”, essendomi sempre chiesto perché Napolitano, se fosse stato davvero convinto che le telefonate intercettate con Mancino non contenessero nulla di inquietante e indicibile, non ha fatto nulla per sgombrare il campo da malignità e dietrologie, facendo in modo che quelle telefonate diventassero pubbliche, anziché addirittura imporne la distruzione. Domanda respinta perché non consentita.
E ancora: è certo, signor Presidente, che il conflitto di attribuzione sollevato davanti alla Corte costituzionale contro la Procura di Palermo abbia aiutato la ricerca della verità e non l’abbia invece ostacolata? Domanda respinta perché non consentita. E infine: è certo che il tentativo di sottrarsi alla testimonianza dichiarandola preventivamente inutile sia stato un modo per aiutare la ricerca della verità? Domanda respinta perché non consentita. In ultimo, con impertinenza: perché non ha mai espresso solidarietà ai magistrati del “pool trattativa” minacciati dalla mafia, da ultimo il pm Antonino Di Matteo, destinatario di messaggi di morte da parte di Totò Riina? Domanda respinta perché non consentita e provocatoria.
MA AVREI INSISTITO. Del resto, mi è già accaduto a Palazzo Chigi, quando andai a interrogare Silvio Berlusconi nel corso del processo Dell’Utri, di provare a insistere con le domande nonostante Berlusconi, come oggi Napolitano, avesse fatto sapere alla Corte di non avere notizie utili da riferire, e alla fine venne costretto ad avvalersi della facoltà di non rispondere. Facoltà invece non consentita al Presidente Napolitano. E perciò, insistendo, avrei chiesto al Presidente quali fossero i segreti su certi “indicibili accordi” che Loris D’Ambrosio aveva rivelato solo a lui e mai ai magistrati, come lo stesso D’Ambrosio scrisse nella lettera del 18 giugno 2012 indirizzata a Napolitano. Quel segreto che aveva così tanto tormentato un uomo di Stato come D’Ambrosio da farlo morire di crepacuore (se solo crepacuore fu, visto che non è
mai stato disposto alcun accertamento medico-autoptico). Un segreto che solo Lei, sig. Presidente, può rivelare alla Corte. Se il Presidente avesse risposto di non sapere nulla di questi “segreti di Stato”, allora la domanda conseguente sarebbe stata: signor Presidente, pensa che Loris D’Ambrosio abbia scritto il falso rievocando un colloquio riservato con Lei in cui l’aveva messo a conoscenza di quei segreti? E perché avrebbe dovuto scrivere il falso in una lettera riservata a lei indirizzata?
Ma so che anche queste domande rischierebbero di non essere ammesse. Qualche autorevole opinionista, investito di quirinalizie preoccupazioni, sostiene che domande del genere sarebbero impedite dalle supreme prerogative presidenziali. Io credo, invece, che sono domande che attendono risposta già da troppo tempo. Il presidente Napolitano ha la possibilità di fare chiarezza, sgombrando finalmente il campo da opacità e sospetti, dando un contributo decisivo nell’accertamento dei fatti e delle responsabilità in una vicenda ancora avvolta da troppi misteri, ancora ostaggio di troppi depistaggi di Stato, di troppi “non so” e “non ricordo” di fonte istituzionale. Dopo più di 20 anni di silenzi, depistaggi, connivenze, omertà di Stato deve arrivare il momento della verità. Lo si deve a tutte le vittime delle stragi di mafia, lo si deve ai loro familiari. Solo con la verità l’Italia potrà dire di essersi meritata il sacrificio di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino e dei tanti altri italiani caduti fra guerre e trattative con Cosa Nostra.
LE MIE DOMANDE sarebbero impertinenti? Forse. Ma sono le domande di chi ha giurato sulla bara di Paolo Borsellino che avrebbe fatto di tutto per scoprire tutta la verità sulla morte sua e di tante altre vittime innocenti, e oggi sappiamo anche della trattativa. Di tutto. Anche a costo di uscire dalla magistratura, e quindi a costo della propria carriera. A qualsiasi costo. Provando a emulare l’irriducibilità e l’intransigenza di un vero uomo come Paolo Borsellino. Ma siamo in Italia. Le cose vanno diversamente. Quelle domande sarebbero ormai dichiarate inammissibili. Il Presidente non risponderà a nulla di tutto questo. E, oltre il danno la beffa, l’intero processo rischia pure di essere dichiarato nullo perché, con un’ordinanza assai dubbia sul piano del diritto e della Costituzione, la Corte di Palermo, pur di non aprire un altro conflitto col capo dello Stato, ha estromesso gli imputati dalla partecipazione all’udienza che Napolitano ha preteso avvenisse in Quirinale. E la verità si allontana. In Italia c’è chi regna sovrano e chi ha scarsa memoria, cantava Rino Gaetano, ma il cielo è sempre più blu. E – aggiungo io – l’Italia va sempre giù. Tanto per fare la rima.

Corriere 24.10.14
Gli avvocati di Riina
«Napolitano riferisca sull’allarme del ‘93»


Totò Riina non sarà collegato con il Quirinale per decisione dei giudici, ma il suo difensore salirà sul Colle più alto con l’intenzione di porre al presidente della Repubblica qualche domanda in più rispetto agli argomenti già ammessi.
La testimonianza di Giorgio Napolitano nel processo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia, fissata per martedì prossimo, potrebbe arricchirsi di un nuovo capitolo rispetto a quello già previsto (la lettera del suo ex consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, morto nel 2012); per volontà degli avvocati Luca Cianferoni e Giovanni Anania, che assistono il «capo dei capi» di Cosa nostra, i quali hanno colto al volo l’occasione offerta dai pubblici ministeri con il deposito, nei giorni scorsi, dei documenti dei servizi segreti che nell’estate del 1993 lanciarono l’allerta per un possibile attacco verso lo stesso Napolitano, all’epoca presidente della Camera.
Come hanno scritto nell’istanza presentata ieri alla corte d’assise, i legali di Riina vorrebbero sapere dal capo dello Stato «se nel luglio-agosto-settembre 1993, e anche successivamente, sia stato notiziato, e posto dunque in condizioni di maggiore tutela, rispetto a un possibile specifico attentato attinente specificamente la sua persona, nell’ambito di pressioni e specifiche condotte minatorie nel periodo 1993/94 come riferite alla sua persona».
L’allarme del Sismi, come si chiamava a quel tempo l’agenzia di informazioni militare, era già venuto alla luce nel 2002 nell’indagine del magistrato fiorentino Gabriele Chelazzi e riguardava le confidenze di una «sottofonte» secondo cui «elementi della mafia, in accordo con elementi della “politica massonica”, dovrebbero perpetrare una strage e in seguito portare a termine un attentato ai danni probabilmente del senatore Spadolini (allora presidente del Senato, ndr ) o dell’onorevole Napolitano».
I pubblici ministeri palermitani hanno ottenuto questi documenti la scorsa settimana dalla Procura di Firenze, e hanno chiesto alla corte d’assise di farli entrare nel processo, in modo da poterli anch’essi utilizzare — eventualmente — per porre altre domande a Napolitano su un periodo precedente allo svolgimento delle sue funzioni di presidente della Repubblica. Ma spetta ai giudici valutare l’ammissibilità delle domande.
Secondo l’accusa l’argomento è importante perché proprio in quei mesi si sarebbe consumata la fase della cosiddetta trattativa culminata nella revoca del «carcere duro» per oltre trecento detenuti; per Riina, invece, che si trovava in prigione al «41 bis» dal gennaio del 1993, il progetto di attentato a Napolitano sarebbe da attribuire — scrivono i suoi avvocati — «a persone diverse, indipendenti dal Riina medesimo, e piuttosto a un sistema complesso di potere che vede, specificarlo è bene, lo stesso Napolitano (come Spadolini) tra i buoni, non certo tra i cattivi».
Considerazioni che per qualcuno possono suonare provocatorie, in vista di un appuntamento inedito, carico di aspettative e anche di tensioni; come quelle emerse nella Procura di Palermo dopo la decisione del capo «facente funzioni», Leonardo Agueci, di partecipare alla deposizione di Napolitano insieme ai quattro pm — Teresi, Di Matteo, Del Bene e Tartaglia — che rappresentano l’accusa.
Quanto alla possibilità di un collegamento in diretta video o audio con la sala dove si svolgerà l’udienza a porte chiuse, autorizzata dalla corte d’assise salvo diverse determinazioni del Quirinale, gli uffici presidenziali avrebbero deciso e già comunicato ai giudici con una lettera di non concedere questa opportunità, affidandosi a una rapida trascrizione (e diffusione) del verbale della testimonianza.

il Fatto 24.10.14
Divieto di chiedere lumi pure sulle Stragi del ‘93
di Giuseppe Lo Bianco


L'AVVOCATO DI RIINA tira fuori la “mossa del cavallo” per mettere in imbarazzo sia la Corte sia il Presidente Napolitano, ma la sua richiesta di interrogare il capo dello Stato anche sulle minacce subìte nell’agosto del ‘93 dopo l’acquisizione agli atti delle note del Sismi trova il fuoco di sbarramento sia dei pm, che dell’Avvocatura dello Stato ai quali si associa perfino il legale di Marcello Dell’Utri, Giuseppe Di Peri.
La Corte si è riservata di decidere, e lo farà probabilmente nell’udienza di stamane ma appare assai improbabile che scelga di abbandonare il rigido rispetto del capitolato di prova già fissato al termine di un’estenuante e tormentata interlocuzione con il Quirinale, che ha cercato di evitare a tutti i costi la prova testimoniale per il capo dello Stato, in previsione, facile, della risonanza mediatica. Al punto, anche, da ipotizzare (è una voce circolata nei giorni scorsi), che i giornalisti seguano l’evento in una sala della Prefettura di Palermo, collegata in video conferenza con il Colle e relegando così l’udienza quirinalizia a un episodio locale. L’audizione del capo dello Stato è prevista per il prossimo 28 ottobre al Quirinale: Napolitano dovrà deporre sulle missiva ricevuta da Loris D’Ambrosio il 18 giugno 2012, in cui l’ex consigliere giuridico del Quirinale, raccontava al Presidente i suoi dubbi circa l’ipotesi di essere stato “utile scriba d’indicibili accordi”, alla fine degli anni 80, quando era in servizio all’Alto Commissariato Antimafia.

La Stampa 24.10.14
Maturità, il giallo dei commissari esterni
Il Miur aveva annunciato la riforma, membri di commissione solo interni per risparmiare più di 100 milioni di euro, ma nella Legge di Stabilità non ce n’è traccia

qui

La Stampa 24.10.14
Bus separati per i rom
Proposta choc di Pd e Sel nella periferia torinese
di Lodovico Poletto e Nadia Bergamini


C’è un bus a Torino che ha una fermata davanti ad uno dei campi nomadi più grandi della città. Il bus 69: percorso piazza Stampalia, arrivo a Borgaro, primissima cintura della città. Quel grosso autobus giallo è da anni al centro di polemiche, proteste, petizioni, pagine Facebook che ne denunciano la pericolosità. «Gli zingari ci aggrediscono». «Hanno tagliato i capelli ad una ragazzina». «Ci sputano addosso». «Nessuno interviene». Questione calda. Anzi, caldissima. E adesso il sindaco di Borgaro, uomo pragmatico e stufo di ascoltar proteste, ha preso una decisione. Costringere Atm, la società che gestisce il servizio di trasporto pubblico, a sdoppiare la linea.
Ovvero: lasciare che il «69» compia lo stesso tragitto di sempre. E mettere un secondo mezzo che da piazza Stampalia, andando in parallelo al 69, giunga soltanto al campo nomadi, e si fermi lì. Capolinea due passi dalle baracche lungo il fiume. E ritorno. «Così si risolverà il problema senza che ci rimetta nessuno» dice adesso Claudio Gambino, sindaco Pd, alla guida di una lista civica che ha imbarcato tutto il centrosinistra. «È la soluzione migliore per tutti» gli fa eco il suo assessore ai trasporti, Luigi Spinelli, un ragazzone di Sel che, su questo tema, s’infervora, spiega, e racconta.
Due linee. Una per i rom e l’altra per la gente di Borgaro. Applausi. Che arrivano da un’assemblea convocata nel pomeriggio di ieri, nel salone del municipio. Nessun tentennamento. «Non è razzismo, è soltanto un modo per risolvere un problema che va avanti da troppo tempo» dicono gli amministratori. Che raccontano di episodi di violenza continui. L’ultimo? Il tentativo di rapina prima dello zaino, poi del cellulare ai danni di una tredicenne, al suo primo anno di liceo, a Torino. «Ma di episodi ce ne sono a decine» insistono. E giù a raccontare di quella volta che tagliarono i capelli ad una ragazza. E di quell’altra che tentarono di incendiare la chioma ad un’altra. E ancora delle molestie, dei furti, dei danni al bus. Un elenco infinito. Condito anche da un po’ di letteratura, da «si dice» che non trovano conferme da nessuna parte. Cose che, raccontate qui, in questa sala strapiena, fanno scaldare gli animi della gente: «È ora di intervenire».
La cronaca di questi anni racconta anche di vigili spediti sui mezzi a scortare i passeggeri. Un esperimento durato due settimane o poco più e abortito. E poi ci sono le di petizioni. E i volantinaggi su quella tratta da parte dei ragazzi di Borgaro: «Chiediamo alle autorità di intervenire». Tutto inutile.
Ora arriva la proposta choc del sindaco piddino di Borgaro: «Due linee, una per noi e una per loro». Applausi in sala. «Ne parlerò con il Questore, questa mi sembra l’unica soluzione» insiste. La gente è soddisfatta: «Speriamo».

Repubblica 24.10.14
La meglio gioventù dei nuovi italiani. "Non siamo stranieri"
Francesca Caferri indaga la "generazione Balotelli", un milione di ragazzi cresciuti nel nostro Paese
di Maria Novella De Luca

qui

La Stampa 24.10.14
Risarcimenti per gli eccidi. Berlino gela ancora l’Italia
Il governo tedesco non accetta la sentenza della Consulta e si appella alla decisione favorevole dell’Aja del 2012

qui

La Stampa 24.10.14
I reduci: “Dalla Germania ce lo aspettavamo, ora un accordo fra Stati”
di Flavia Amabile


Carlo Smuraglia, presidente dell’Anpi, l’associazione nazionale partigiani, ha invitato alla cautela dal primo istante. Meglio non farsi prendere da facili entusiasmi, aveva avvertito subito dopo la sentenza della Corte Costituzionale che apre la strada ai risarcimenti per le stragi naziste. Le parole del ministero degli Esteri tedesco, quindi, non lo colgono impreparato.
La Germania rivendica la sua immunità sulla base di quello che aveva affermato la Corte Internazionale dell’Aja nel febbraio del 2012.
«Non era immaginabile che la Germania si arrendesse dopo essersi opposta a ogni richiesta di risarcimento. Chi vorrà continuare il percorso giuridico potrà farlo, ma andando incontro a difficoltà notevoli».
Che cosa cambierà, quindi, dopo la sentenza della Corte Costituzionale?
«Questa sentenza è molto importante innanzitutto perché stabilisce un principio: quando in un conflitto si colpiscono i civili si va oltre l’orrore della guerra, si colpiscono i diritti umani. Da questo principio dovrebbe discendere la responsabilità civile della Germania perché i soldati combattevano per l’esercito della loro nazione. Molti vorranno andare avanti nelle richieste di risarcimento, infatti, ma io credo che dopo la sentenza potrebbe essere più facile che venga accolto l’invito contenuto nella sentenza dell’Aja a trovare accordi fra gli Stati».
Che tipo di accordi potrebbero concludere Italia e Germania?
«La strada da seguire e, in parte, già seguita, è di ottenere delle forme di riparazione non di risarcimento. In Italia, ad esempio, si sta realizzando un atlante di tutte le stragi che sono state compiute tra il 1943 ed il 1944. La Germania ha accettato di finanziarle. Oppure ha accolto le richieste di alcuni comuni la cui popolazione è stata particolarmente colpita».
Carlo Smuraglia, presidente dell’Anpi, l’associazione nazionale partigiani, ha invitato alla cautela dal primo istante. Meglio non farsi prendere da facili entusiasmi, aveva avvertito subito dopo la sentenza della Corte Costituzionale che apre la strada ai risarcimenti per le stragi naziste. Le parole del ministero degli Esteri tedesco, quindi, non lo colgono impreparato.
La Germania rivendica la sua immunità sulla base di quello che aveva affermato la Corte Internazionale dell’Aja nel febbraio del 2012.
«Non era immaginabile che la Germania si arrendesse dopo essersi opposta a ogni richiesta di risarcimento. Chi vorrà continuare il percorso giuridico potrà farlo, ma andando incontro a difficoltà notevoli».
Che cosa cambierà, quindi, dopo la sentenza della Corte Costituzionale?
«Questa sentenza è molto importante innanzitutto perché stabilisce un principio: quando in un conflitto si colpiscono i civili si va oltre l’orrore della guerra, si colpiscono i diritti umani. Da questo principio dovrebbe discendere la responsabilità civile della Germania perché i soldati combattevano per l’esercito della loro nazione. Molti vorranno andare avanti nelle richieste di risarcimento, infatti, ma io credo che dopo la sentenza potrebbe essere più facile che venga accolto l’invito contenuto nella sentenza dell’Aja a trovare accordi fra gli Stati».
Che tipo di accordi potrebbero concludere Italia e Germania?
«La strada da seguire e, in parte, già seguita, è di ottenere delle forme di riparazione non di risarcimento. In Italia, ad esempio, si sta realizzando un atlante di tutte le stragi che sono state compiute tra il 1943 ed il 1944. La Germania ha accettato di finanziarle. Oppure ha accolto le richieste di alcuni comuni la cui popolazione è stata particolarmente colpita».

Corriere 24.10.14
La dignità dell’uomo viene prima degli Stati
di Dino Messina


La sentenza della Corte costituzionale italiana sulle stragi naziste sancisce il principio che i diritti umani vengono prima dell’immunità degli Stati. E quindi ribalta la decisione del febbraio 2012 con cui la Corte internazionale di giustizia dell’Aia negava ai singoli cittadini deportati e ridotti in schiavitù durante la seconda guerra mondiale, in violazione della convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra, il diritto di ricorrere contro uno Stato. Si tratta di un passo di enorme importanza, come ha sottolineato il giurista Carlo Smuraglia, presidente dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia, che riapre il contenzioso fra un centinaio di cittadini italiani e lo Stato tedesco.
Nei fatti cambierà poco: primo perché le sentenze della Corte dell’Aia sono inappellabili, secondo perché la Germania farà sicuramente resistenza contro nuove azioni giudiziarie da parte degli ex deportati (furono circa seicentomila i militari italiani messi ai lavori forzati) o da parte dei superstiti (e dei familiari delle vittime) delle stragi naziste sul territorio italiano. Un decisivo passo avanti però è stato compiuto. E ribadire il principio del primato dei diritti umani rafforzerà la strada di una collaborazione tra gli Stati tedesco e italiano che la stessa sentenza della Corte dell’Aia auspicava.
Stiamo parlando non del risarcimento delle singole vittime, su cui peraltro la Consulta non si pronuncia, ma di atti riparatori tesi a rafforzare l’amicizia tra i Paesi attraverso la costruzione di una memoria comune. Il ministero degli Esteri tedesco ha per esempio stanziato un fondo di quattro milioni di euro con cui vengono finanziati alcuni progetti importanti: una mappa delle stragi naziste in Italia tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 affidata al maggiore esperto della materia, lo storico Paolo Pezzino; un museo degli Internati militari da realizzare in Italia, con una succursale a Berlino.
L’auspicio è che la sentenza della Consulta favorisca altre iniziative sulla memoria, sul modello di conciliazione che è stato realizzato nel Sudafrica del post-apartheid.

Repubblica 24.10.14
Responsabilità civile, il Csm boccia il governo
“Così si lede l’indipendenza dei magistrati”
di Liana Milella


Manca poco più di una settimana alla prima visita del Guardasigilli Orlando al Csm di Giovanni Legnini, ma il biglietto da visita che toghe e laici, tutti assieme, presentano al ministro della Giustizia non è certo dei migliori. Una secca bocciatura della nuova legge sulla responsabilità civile dei giudici. Testo a cui Andrea Orlando tiene molto, su cui ha lavorato da mesi, e che invece il Csm liquida così: «La trama di fondo sembra orientata a un uso atipico dell’istituto della responsabilità civile per finalità ad esso non proprie». Ancora: «La responsabilità civile non può essere utilizzata per mettere sotto pressione i magistrati al fine di aumentare la diligenza del singolo e la qualità della giurisdizione ». Critiche pesanti alla filosofia stessa del testo che, com’è scritto nella relazione del Guardasigilli, nasce «dall’esigenza del riequilibrio delle posizioni politico-istituzionali e del superamento definitivo di un conflitto ancora in corso». Ovviamente si parla dello scontro tra toghe e politica. Ma secondo il Csm non è attraverso la riscrittura della legge sulla responsabilità civile che si può raggiungere un risultato del genere. Supposto che davvero si debba farlo. Aveva sintetizzato Renzi a palazzo Chigi, «chi sbaglia paghi», ma il Csm replica picche.
Molti giorni di approfondimento nella sesta commissione del Csm, quella che si occupa di valutare il peso delle riforme legislative. Alla fine un testo di 22 pagine, di cui sono relatori il presidente della Sesta Piergiorgio Morosini e l’ex ministro Renato Balduzzi, su cui tutti gli altri componenti — Giuseppe Fanfani, Rosario Spina, Claudio Maria Galoppi, Luca Palamara — sono d’accordo. Oggi il testo, che Repubblica anticipa, sarà sul tavolo di Napolitano, il presidente del Csm. Il quale autorizzerà il suo vice Legnini a tenere un plenum straordinario. Mercoledì 29. A quel punto il parere rimbalzerà al Senato, dove Orlando già sta sostenendo una battaglia contro il socialista Salvo Buemi e Forza Italia che vogliono un testo ancor più draconiano. Il Csm liquida Buemi in due note, ritenendo inammissibile la proposta di una conseguenza disciplinare per i ricorsi dei cittadini contro i magistrati, e dando un parere negativo sull’ipotesi che i giudici debbano attenersi alle sentenze delle sezioni unite della Cassazione.
Bisogna partire dalle prime pagine del parere per comprendere lo spirito di fondo delle critiche del Csm. In ballo, nella faccenda della responsabilità civile, «ci sono interessi di rango costituzionale» che vanno tutelati. Quando si tocca la legge Vassalli dell’88 non si deve mai dimenticare che un ricorso «può costituire un forte elemento di condizionamento del merito delle scelte di una toga che devono essere assunte in assoluta indipendenza, soggette solo alla legge». Il magistrato deve essere e sentirsi libero, non condizionato dalle «inevitabili rivendicazioni di chi non abbia visto le proprie ragioni condivise».
Invece, per il Csm, il ddl Orlando apre una porta proprio in questa direzione. Laddove nel testo è scritto che «costituisce colpa grave la violazione manifesta della legge e del diritto dell’Unione Europea ovvero il travisamento del fatto o delle prove». Questo, per il Csm, «mette a repentaglio l’autonomia e l’indipendenza della funzione giurisdizionale, potrebbe determinare un inesauribile contenzioso da parte di chi, attore, convenuto, chiamato in causa, imputato, parte offesa, sia comunque rimasto soccombente nella vicenda processuale ». Insomma, chi perde fa ricorso. In assenza di un adeguato filtro ciò finirebbe per diventare «una fonte di ulteriori rallentamenti della macchina giudiziaria e di possibili ingiustizie».
Il ddl Orlando butta via proprio il filtro sui ricorsi previsto dalla Vassalli. Già l’Anm era stata critica. Ora il parere di Morosini e Balduzzi sottolinea la gravità del passo. Ricordando che proprio la Consulta, in varie sentenze (2/1968, 26/1987, 468/1990), «ha riconosciuto il rilievo costituzionale di un meccanismo di filtro per escludere azioni temerarie e intimidatorie ». Per il Csm deve restare solo «una valutazione sommaria di ammissibilità» che sgombri il campo da «iniziative sfornite di seria considerazione ». Infine quel lungo termine, ben tre anni rispetto ai 12 mesi di oggi, per ricorrere contro una toga. Il Csm lo interpreta come «un’eccessiva penalizzazione per il magistrato coinvolto» che resta esposto per un periodo così lungo.

Repubblica 24.10.14
La Consulta: se il figlio è piccolo la madre non può stare in cella


FIRENZE La Consulta “libera” la madre dal carcere e il figlio di sei anni, cresciuto con lei nel penitenziario, ora può sperare di uscire. La madre, condannata per riduzione in schiavitù e tratta di persone, potrà essere ammessa alla “detenzione domiciliare speciale” per mamme di figli con meno di 10 anni. La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’articolo che vietava il beneficio alle madri condannate per reati particolarmente gravi. Per la Consulta la detenzione domiciliare speciale «tutela il preminente interesse del figlio». Il bimbo, Giacomino, cresciuto nel carcere di Sollicciano è stato intanto affidato a un istituto minorile.

Repubblica 24.10.14
Il Papa contro l’ergastolo “Pena di morte nascosta” E critica il carcere preventivo
“No all’abuso della custodia cautelare, le condanne non si anticipano” L’anatema contro la corruzione: “È un male più grande del peccato”
Il senatore Manconi
“Mai un leader così avanti la giustizia non è vendetta”
intervista di Maria Elena Vincenzi


ROMA «Un discorso di grandissima qualità giuridica ed etica che, tra l’altro, critica a fondo il populismo penale. Ovvero l’idea della sanzione come vendetta che utilizza la pena per affrontare le contraddizioni della vita sociale». Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani, è ammirato dall’intervento del Papa.
Senatore, partiamo dal no all’ergastolo.
«Il Pontefice ricorre a una formula simile a quella che il pensiero giuridico più critico ha utilizzato per contestare il giustizialismo. Il discorso non è solo contro la pena di morte, ma anche contro l’ergastolo, la tortura e tutti i trattamenti inumani e degradanti. Francesco utilizza la lingua delle convenzioni internazionali e ricorda come il codice del Vaticano abbia abolito anche l’ergastolo, definito “una pena di morte nascosta”».
E le critiche contro il regime carcerario?
«La straordinaria modernità del ragionamento emerge proprio nell’analisi di tutti gli istituti che noi siamo abituati, pigramente, a vedere solo nel carcere. Il Papa indica gli istituti per minori, gli ospedali psichiatrici giudiziari e quei “campi” che, nelle legislazioni europee e per la mia esperienza, non possono essere altro che i Cie per migranti. Questo è importante perché il moderno sistema del sorvegliare e punire passa attraverso molti luoghi di imprigionamento».
Altre cose che l’hanno colpita?
«Due formidabili richiami: quello alla dignità della persona, criterio da affermare prima e a prescindere dalla condanna. E quello alla “cautela nella pena”, che, nel linguaggio giuridico laico, corrisponde alla necessità di evitare ogni pena che possa comportare sofferenza maggiore di quella che la pena stessa intende riparare».
Che conseguenze avrà questo discorso?
«Nessun leader europeo ha mai detto cose simili. Il messaggio alle Camere del presidente Napolitano andava nella medesima direzione e rimase inascoltato. Mi auguro con tutto il cuore che non accada lo stesso per questo messaggio di così radicale forza morale ».

il Fatto 24.10.14
Benvenuti a Calais, la “Lampedusa” francese
Il ministro dell’Interno Cazeneuve manda 100 agenti in più
Sono frequenti gli scontri fra etnie come etiopi ed eritrei
di Luana De Micco


IL PORTO È UNA POLVERIERA, MIGLIAIA DI MIGRANTI VOGLIONO A TUTTI I COSTI ANDARE IN GRAN BRETAGNA E PRENDONO D’ASSALTO I TIR

Parigi Blindare il porto di Calais per frenare la drammatica corsa dei migranti che tentano il tutto per tutto pur di attraversare la Manica e raggiungere il Regno Unito; a centinaia si arrampicano sulle barriere di sicurezza delle zone di imbarco del porto e prendono d’assalto i traghetti in partenza per Dover , disposti a pagare sotto banco fino a mille euro per un nascondiglio nel container di un tir. Si parla sempre più spesso di Calais come di una “polveriera sul punto di esplodere”. Il ministro francese dell’Interno, Bernard Cazeneuve, ha annunciato ieri l’invio di rinforzi: 100 uomini supplementari, di cui 70 destinati esclusivamente alla sicurezza del porto in preda al caos. Una risposta agli appelli dei poliziotti in servizio lì che, il 13 ottobre scorso, per la prima volta erano scesi in strada per manifestare, con il sostegno di tanta gente del posto: “Come proteggere gli abitanti se siamo concentrati sui migranti?”, denunciava il sindacato SGP Police-FO. Stando agli ultimi dati della Prefettura della regione Pas-de-Calais, sono circa 2300 i migranti approdati nella “Lampedusa del Nord” dopo essere sbarcati prima sulle coste dell’isola siciliana e quindi aver attraversato la frontiera a Mentone. Erano 1500 alla fine dell’estate. Vengono dal Sudan e dall’Eritrea. Sempre di più da Siria, Afghanistan, Iraq. Ancora una volta, lunedì, in 300, forse 400, si sono gettati sui camion fermi ai controlli nell’attesa di imbarcare.
HANNO APPROFITTATO di una fila più lunga del solito. Il caos ha obbligato gli agenti di polizia a intervenire con i lacrimogeni. Anche la convivenza tra migranti diventa difficile. Alcune risse sono scoppiate tra il campo degli etiopi e quello degli eritrei facendo diversi feriti. Il quotidiano Le Figaro ha reso noto che una ragazzina etiope di 16 anni è morta accidentalmente due giorni fa, investita da un’auto, mentre attraversava l’autostrada di notte, insieme ad altri migranti. Sul fronte della sicurezza, a settembre, la Francia è riuscita a firmare un accordo storico con il Regno Unito. Da anni Parigi faceva infatti pressioni su Londra perché il governo britannico assumesse la sua parte di responsabilità. Il sindaco di Calais, Natacha Bouchart, aveva persino minacciato di bloccare il porto se da Londra non si fossero decisi a fare “un gesto forte”. Ma alla fine un compromesso è stato firmato e la Gran Bretagna si è impegnata a versare 15 milioni di euro in tre anni per un “fondo comune” destinato a finanziare una serie di misure per “blindare” il porto di Calais. Il ministro Cazeneuve ha annunciato la prossima costruzione di nuove barriere di sicurezza agli imbarchi e la creazione di ulteriori posti di blocco. Sarà inoltre aperto un centro per l’accoglienza diurna dei migranti. E questo dodici anni dopo esatti lo smantellamento del campo di Sangatte, noto come “la Giungla”, dove, nelle tende installate dalla Croce Rossa francese naufragavano migliaia di esiliati di passaggio. Una decisione che il governo francese prese per “ragioni sanitarie”, cedendo nei fatti alle pressioni di Londra e di Euro-tunnel.

La Stampa 24.10.14
Marsiglia, droga e sharia. La via per la Siria passa da qui
La città di tutti i traffici centro di smistamento per i mille francesi arruolati dall’Isis
di Francesca Paci


«Eravamo a cena quando è arrivata la telefonata di un uomo che in buon francese c’informava di aver atteso invano Samia all’aeroporto. Io sapevo che era andata a un matrimonio. Ho richiamato, era un cellulare turco. Da mesi Samia indossava il velo integrale, ripeteva di voler vivere in un Paese regolato dalla sharia ma nessuno immaginava che partisse». Papà Hafez racconta una storia che la polizia di Marsiglia ha già sentito più volte. La figlia 19enne, fermata sabato ad Ankara e rimpatriata, nega d’essere diretta in Siria. Ma la versione della turista naïve non convince né l’intelligence né i parenti barricati oggi nella casa di La Viste, distretto XV, il cuore dei famigerati quartieri Nord a cui la seconda città di Francia deve la fama di capitale del crimine. Qui, all’ombra delle infinite torri popolate da famiglie di origine maghrebina, il racket controlla il mercato della droga e, a patto di salvaguardare il business da 12 milioni di euro al mese, lascia agli imam quello delle anime.
I marsigliesi in Siria non sono tanti. Ma hanno visto passare parecchi dei mille connazionali arruolati dall’Isis. L’attentatore del museo ebraico di Bruxelles Nemmouche, arrestato su un pullman proveniente da Amsterdam. I 3 sospetti jihadisti atterrati un mese fa a Marignane in barba agli 007 appostati a Parigi. Sahra Mehenni e Assia Saidi, due delle 100 francesi sedotte dal Califfato.
«Ha lavorato qualche giorno qui, diceva che sarebbe rimasta poco, aveva la carta di credito» ammette riluttante una ragazza dietro al banco del McDonald’s dove 20 giorni fa mamma e papà Saidi hanno trovato in extremis Assia, tra il commissariato del vecchio porto e quella stazione Saint Charles alle cui spalle sfumano le luci di Marsiglia Capitale della Cultura 2013 e inizia il distretto III, il primo girone della periferia riservata ai musulmani, il 40% degli abitanti e la metà dei disoccupati.
«Marsiglia è un centro di smistamento per la Siria perché da qui si raggiunge facilmente la Turchia in aereo, nave o treno» ragiona Omar Djellil, 44 anni, titolare della moschea al Taqwa e controcanto della comunità passato da SOS Racisme a Jean Marie Le Pen. Si è allontanato dal Fronte Nazionale quando Marine ha paragonato i fedeli carponi sui marciapiedi di Francia all’occupazione nazista: «Dall’11 settembre 2001 noi musulmani dobbiamo sempre giustificarci. E il clima di diffidenza amplifica la nostra tendenza a evitare le responsabilità. Il problema della radicalizzazione c’è e cresce nonostante gli imam lavorino con la polizia. Da un lato le politiche d’integrazione per le banlieues hanno investito milioni di euro in corsi di jambè anziché di francese. Dall’altro il Consiglio francese del Culto Musulmano e il Consiglio regionale, le 2 creature di Sarkozy, non insegnano come dovrebbero l’islam nei quartieri ma si limitano a pianificare pellegrinaggi alla Mecca. Le periferie sono in mano al racket e la nuova immigrazione le sta riempiendo di fondamentalisti che aizzano i giovani. I musulmani lo sanno, 6 su 10 mandano i figli alle scuole cattoliche e molti votano a destra».
A Les Eglantiers, Clos la Rose, nei 100 blocchi di grigi grattacieli marsigliesi detti «cité», le moschee sono un rifugio. Non c’è altro dove l’attivista Amal aspetta il 25, l’unico bus per Downtown. Zero negozi, nessuna farmacia né campi di calcio sebbene nella vicina Castellana sia nato Zidane. «Come fa una donna a tornare qui di sera? Ti veli. Almeno gli spacciatori ti rispettano», dice Amal. La notte escono ratti e «chouf», gli adolescenti in felpa e cappuccio che piantonano le strade. Uno di loro siede accanto al garage che il venerdì trabocca fedeli: «Ovvio che vado in moschea. Lavoro, mica faccio cose illegali. Porto a casa 70 euro al giorno».
Criminalità ed estremismo religioso non sono vie convergenti ma parallele, spiega l’assistente sociale Nil Baalad, pilastro dei quartieri Nord: «A Marsiglia c’è di tutto. I francesi reduci dall’Algeria, anima del Fronte Nazionale. Spacciatori e predicatori radicali che, ognuno a suo modo, intontiscono i giovani con la droga e con un salafismo ignorante fatto solo di divieti. C’è discriminazione e islamofobia. Oggi i musulmani laureati se ne vanno in America o a Monreal e qui restano quelli che scambiano il Corano per il codice civile». Tra chi resta ci sono pure i pendolari del jihad.
Parigi che indaga la legione francese in Siria temendo il boomerang dei «lupi solitari» non può ignorare Marsiglia. L’avveniristico Museo del Mediterraneo, icona dei nuovi docks, si specchia nel suk domenicale di rue de Lyon, l’arteria delle banlieues Nord dove la lavanda svapora nella menta del tè. «Le bombe uccidono i musulmani in mezzo mondo e in Francia ci ammazzate con la droga» accusa l’ambulante tunisino Walid cresciuto a Busserine, dove il figlio dell’imam è stato freddato in un regolamento di conti tra gang. Il connazionale 21enne Hassan è arrivato da Lampedusa dopo il carcere per spaccio a Catania e ha sposato una 36enne francese convertita e assai velata. Nessuno dei 2 sogna la Siria: «La Palestina, allora sì». Ma entrambi sono potenzialmente sul mercato.
Le moschee dei sobborghi di Marsiglia danno legittimità rispetto alla droga, nota l’islamologo Gilles Kepel. Il reclutamento avviene sul web come dovunque. Per la laica Francia però, la sovrapposizione di carità e criminalità è un gioco rischioso: «Gli jihadisti partono più da Tolosa, Lione o Roubaix. Ma Marsiglia è una città estrema dove oggi, come durante gli scontri del 2005 in banlieues, il sistema malavitoso controlla il territorio meglio dello Stato».
Gli investigatori ipotizzano che la mala scoraggi i mujaheddin locali e assicuri a quelli in transito velocità e discrezione per tenere lontani i riflettori.
«Potrebbe esserci una rete logistica che assiste i terroristi perché qui è facile mimetizzarsi» rivela una fonte della polizia. Tutto si muove sotto traccia: «Le moschee sono sorvegliatissime ma sappiamo che i radicali vanno, studiano i soggetti deboli e li agganciano all’esterno».
L’arresto del killer di Bruxelles a giugno ha alzato l’allerta, nota Louis Caprioli, ex anti-terrorismo e consulente della Geos: «Marsiglia non è un focolaio jihadista ma è strategica. È possibile che Nemmouche, reduce della Siria e già radicalizzatosi in carcere, sia andato a Marsiglia per ritrovare eventuali complici e preparare, solo o con altri, operazioni terroristiche».
Se le moschee sono bypassate online, le carceri, dove il 70% degli ospiti è musulmano, restano critiche. Il sindacalista dei secondini regionali Bruno Boudon racconta la metamorfosi di Nemmouche a Tolone nel 2012: «Iniziò disertando il parlatorio, pregava, niente più tv. Volle un televisore solo quando Merah fece strage alla scuola ebraica di Tolosa. Il penitenziario in cui ho visto più persone entrare normali e uscire con la barba è Marsiglia Baumettes, dove ogni guardia segue 145 detenuti».
«La ville est tranquille» è un film del 2000 in cui il regista Guédiguian narra come la Marsiglia post-proletaria non sia affatto tranquilla. «In una città operaia come questa l’islam radicale cresce anche sulle ceneri del comunismo, del punk e delle mille varietà di ribellismo giovanile, perché dove droga e salafismo hanno la stessa origine sociale è percepito come l’unica voce contro lo Stato», chiosa Patrick del Front de Gauche. Samia Ghali, prima sindaco musulmana di Marsiglia, ha un bel rivendicare i suoi natali nei quartieri Nord: quasi impossibile qui trovare chi l’applauda.
«Eravamo a cena quando è arrivata la telefonata di un uomo che in buon francese c’informava di aver atteso invano Samia all’aeroporto. Io sapevo che era andata a un matrimonio. Ho richiamato, era un cellulare turco. Da mesi Samia indossava il velo integrale, ripeteva di voler vivere in un Paese regolato dalla sharia ma nessuno immaginava che partisse». Papà Hafez racconta una storia che la polizia di Marsiglia ha già sentito più volte. La figlia 19enne, fermata sabato ad Ankara e rimpatriata, nega d’essere diretta in Siria. Ma la versione della turista naïve non convince né l’intelligence né i parenti barricati oggi nella casa di La Viste, distretto XV, il cuore dei famigerati quartieri Nord a cui la seconda città di Francia deve la fama di capitale del crimine. Qui, all’ombra delle infinite torri popolate da famiglie di origine maghrebina, il racket controlla il mercato della droga e, a patto di salvaguardare il business da 12 milioni di euro al mese, lascia agli imam quello delle anime.
I marsigliesi in Siria non sono tanti. Ma hanno visto passare parecchi dei mille connazionali arruolati dall’Isis. L’attentatore del museo ebraico di Bruxelles Nemmouche, arrestato su un pullman proveniente da Amsterdam. I 3 sospetti jihadisti atterrati un mese fa a Marignane in barba agli 007 appostati a Parigi. Sahra Mehenni e Assia Saidi, due delle 100 francesi sedotte dal Califfato.
«Ha lavorato qualche giorno qui, diceva che sarebbe rimasta poco, aveva la carta di credito» ammette riluttante una ragazza dietro al banco del McDonald’s dove 20 giorni fa mamma e papà Saidi hanno trovato in extremis Assia, tra il commissariato del vecchio porto e quella stazione Saint Charles alle cui spalle sfumano le luci di Marsiglia Capitale della Cultura 2013 e inizia il distretto III, il primo girone della periferia riservata ai musulmani, il 40% degli abitanti e la metà dei disoccupati.
«Marsiglia è un centro di smistamento per la Siria perché da qui si raggiunge facilmente la Turchia in aereo, nave o treno» ragiona Omar Djellil, 44 anni, titolare della moschea al Taqwa e controcanto della comunità passato da SOS Racisme a Jean Marie Le Pen. Si è allontanato dal Fronte Nazionale quando Marine ha paragonato i fedeli carponi sui marciapiedi di Francia all’occupazione nazista: «Dall’11 settembre 2001 noi musulmani dobbiamo sempre giustificarci. E il clima di diffidenza amplifica la nostra tendenza a evitare le responsabilità. Il problema della radicalizzazione c’è e cresce nonostante gli imam lavorino con la polizia. Da un lato le politiche

Repubblica 24.10.15
Dal monumento ai caduti alla maratona di Boston, il jihadismo tramuta in simbolo qualsiasi segno della vita che odia e intende piegare. I luoghi della memoria e della democrazia diventano così “obiettivi sensibili”: dove nuocere di più al “nemico” e servire meglio alla propaganda
Colpire dove batte il cuore dello Stato ecco il bersaglio del lupo solitario
di Adriano Sofri


BASTA poco oggi per fare un terrorista jihadista. Un rancore frustrato promosso a guerra di religione, un’arma — anche un fucile da caccia, come a Ottawa, o un’automobile pacifica, con cui investire i passanti — e la scelta di un bersaglio, a piacere: le nostre metropoli sono un’ininterrotta esposizione di bersagli. La vanità dell’attentatore, che sia un affiliato o uno sbandato, mira al bersaglio più grosso, più eloquente e più impressionante. Non quello che nuoccia di più al “nemico” in termini materiali: là la sproporzione è ancora troppo forte, anche se le centrali nucleari sono fatte per eccitare gli appetiti. Del resto l’ambizione dei terroristi islamisti sfidò la smisuratezza, e riuscì oltre le speranze, nell’attacco alle Torri gemelle e al Pentagono.
Di qualunque rango, il terrorista sceglie il colpo che nuoccia di più al “nemico” in termini simbolici, e serva meglio alla propaganda postuma di sé e della propria bandiera. Quattro persone assassinate nel museo ebraico di Bruxelles, due soldati un rabbino e tre bambini alla scuola ebraica di Tolosa: ci sono i morti, e c’è il teatro ideale. Il monumento ai caduti, e poi il Parlamento, a Ottawa: ci sono i vivi e i morti, i caduti del passato e la loro indifesa sentinella sull’attenti. Per il terrorismo, che è una pubblicità, tutto è soprattutto simbolo, anche le persone. I bersagli simbolici sono quelli che le polizie chiamano “obiettivi sensibili”. A ridosso del disastro di Ottawa, Washington ha moltiplicato la vigilanza sul cimitero di guerra di Arlington. I simboli sono importanti per ogni comunità: ad Arlington, credo, la tomba del Milite ignoto è restata vuota, dopo che furono identificati i resti di chi vi era stato sepolto e non ricevettero il cambio; il che non attenua la reverenza per quel monumento.
Chi voglia far violenza a un “nemico” ha gioco facile nella scelta dei bersagli: quelli che il “nemico” ha simbolicamente più cari. La memoria, i luoghi della libertà di culto, le istituzioni della democrazia, le scuole: è lì che bisogna raddoppiare la vigilanza. Se fosse così, sarebbe già un’impresa immane. In realtà, la campagna che vuole terrorizzare non mira soltanto alle personalità e ai luoghi delegati della democrazia, ma alle persone e ai luoghi ordinari di un modo di vita: democrazia e modo di vita sono inseparabili l’una dall’altro. Il bersaglio più comune, una maratona di Boston amatoriale e festosa, diventa, una volta colpito, simbolicamente importante quanto la sede di un Parlamento. In uno batte il cuore dello Stato (purché lo Stato abbia un cuore), nell’altra batte il cuore della gente.
Il terrorismo — oggi quello del fanatismo jihadista — tramuta in simbolo qualsiasi segno della vita che odia e che intende piegare: un abbigliamento o una capigliatura o un’effusione o una rinfusa di persone ferme ad aspettare un autobus. Oggi, dico: perché l’analogia fra l’andamento dell’assalto di Ottawa e quello della strage di Breivik in Norvegia è impressionante, al punto di far trascurare l’opposta ispirazione. Il farabutto Breivik si proclamava investito della missione di difendere la biondezza nordica dall’invasione musulmana; il “lupo solitario” di Ottawa si voleva in missione per il Califfato. In ambedue le circostanze, sia pure con un risultato di sangue incomparabile a favore del norvegese, gli attentatori hanno potuto muovere indisturbati da un luogo all’altro del loro piano: Breivik dal centro di Oslo e la prima strage davanti a un ufficio governativo, all’isola del massacro di ragazze e ragazzi; Bibeau dal monumento ai caduti al Parlamento.
Si è parlato per il Canada, come già per la Norvegia, della perdita dell’innocenza: l’aveva perduta la Svezia la sera in cui il primo ministro Olof Palme era stato assassinato mentre tornava a piedi dal cinema sottobraccio a sua moglie. La formula vale da consolazione, perché vuol dire che oggi i canadesi e ieri i norvegesi e l’altro ieri gli svedesi non si aspettavano una violenza così inconsulta domestica e intima, e dunque non la meritavano. Quanto agli americani, hanno perso tanti Presidenti che nessuna innocenza potrebbero invocare, e la questione è ridiventata drammatica anche per Obama. Ma il fatto è che quel misto di ingenuità e arrugginimento cui allude la formula sulla perdita dell’innocenza è solo una faccia della medaglia; l’altra consistendo in un’impreparazione psicologica e culturale, in quel disarmo che è diventato “in Occidente” una seconda natura, un ingrediente essenziale del nostro modo di vita.
Che la democrazia sia imbelle è un luogo comune, e le democrazie — ma con la Russia di Stalin — sconfissero il nazifascismo. È un luogo comune la contrapposizione dell’America marziale all’Europa venerea, se non altro per quel superstizioso esorcismo della Casa Bianca dopo Bush, del “non mettere gli stivali sul terreno”: che sta dando prova di sé a Kobane, dove una sconfitta dura e rapida inflitta al sedicente Is avrebbe avuto davvero, oltre al resto, un peso simbolico decisivo a mortificarne la propaganda di terrore vittorioso. Noi possiamo triplicare la guardia ai nostri cimiteri di guerra, ma ci sentiamo a disagio di fronte agli assassini invasati che ci accusano di amare troppo la vita per volerla mettere a rischio. Nell’andamento delle cose della coalizione pesano anche, e non solo per lo scassato esercito iracheno, viltà e paura. Noi guardiamo costernati i nostri fratelli, padri, figli, catturati dagli sgherri jihadisti, che recitano la denuncia dei propri Paesi prima d’essere decapitati a fil di coltello, e ci chiediamo costernati se sapremmo fare altro.
Noi ci ricordiamo di aver reagito con fastidio se non con disprezzo alla voce che un nostro connazionale, il quale aveva accettato di campare proteggendo la sicurezza altrui in Iraq, aveva detto: «Vi faccio vedere come muore un italiano », o qualcosa di simile. Noi guardiamo stupefatti il signor Kevin Vickers, 58 anni, funzionario in costume del Parlamento canadese, che ha saputo andare a prendere una pistola da un cassetto, ha sparato l’assaltatore e ha telefonato alla mamma per dirle: «Sto bene».
Noi non dobbiamo diventare feroci per smettere di essere inermi e di cascare dalle nuvole se un disgraziato ci apre il fuoco addosso: dobbiamo solo risolvere un piccolo malinteso nei confronti del modo di vita, ragazze che vanno a scuola e decidono dei loro capelli, di cui non faremmo a meno, ma di cui avevamo dimenticato che era in affidamento e in prova. Abbiamo fatto tesoro di una delle opportunità più preziose di quel modo di vita: di pensarne e parlarne male e anche malissimo. Dimenticando il limite, segnato dalla frasetta famosa, che la democrazia è il peggiore dei regimi, tranne tutti gli altri. Potete scommettere che i prossimi giorni e mesi moltiplicheranno le occasioni di riparlarne.

Repubblica 24.10.14
Sfregiate con l’acido perché poco velate Proteste a Isfahan “Ora fate giustizia”
Manifestazioni dopo gli attacchi alle donne Ma in Parlamento i conservatori premono per una legge a favore dei censori dei costumi
di Vanna Vannuccini


«FERMATE la violenza sulle donne! Non si diffonde la virtù con l’acido!». Migliaia di iraniani sono scesi in piazza a Isfahan per protestare contro gli attacchi all’acido contro le donne, ufficialmente quattro o sei, ma secondo diversi siti web iraniani già molti di più. I manifestanti si sono radunati davanti al ministero della Giustizia protestando per il lassismo degli inquirenti. Troveremo e puniremo i colpevoli, hanno assicurato le autorità, ma per i manifestanti «sono menzogne ». Sui social media molti commentano come gli attacchi all’acido restino impuniti mentre i quattro ragazzi che cantavano Happy sono stati identificati e condannati a tambur battente.
Tutto questo mentre i conservatori in parlamento, a dispetto del presidente Rohani che inutilmente ha tentato di fermarli, stanno discutendo una legge che restringerà i confini della liberà personale garantendo la pressoché totale immunità a coloro «che s’impegnano perché abbia corso il bene e sia vietato il male», in altre parole che correggeranno chi viola i codici di comportamento e di vestiario prescritti a loro parere dalla legge coranica. L’hijab, il velo per le donne, è uno dei due pilastri dell’identità rivoluzionaria iraniana e da sempre gli Ansar e Hezbollah in Iran hanno fermato per strada le ragazze con i vestiti stretti e i foulard che lasciavano vedere i capelli. Ma queste hanno continuato a prendersi sempre maggiori libertà e negli ultimi tempi gli interventi censori si sono fatti più rari.
Gli attacchi all’acido a Isfahan sono cominciati tre settimane fa. Soheila Jurkash, 27 anni, aveva fermato la macchina al lato della strada per rispondere a una telefonata della madre, e non si era accorta dei due in motocicletta che si avvicinavano e dal finestrino aperto le gettavano l’acido addosso. Ora ha viso braccia e gambe bruciate. Il ministro della Sanità, che è chirurgo degli occhi, è venuto a visitarla. Un occhio è perduto, per l’altro le possibilità di salvarlo sono venti su cento. Dopo Soheila, i casi sono continuati.
A Zanjan, dove è in visita, Rohani ha ancora una volta criticato la legge in discussione al parlamento: «L’appello alla virtù non spetta a un gruppo di persone che si considerano i difensori della morale. È compito di tutti i musulmani esercitare l’amore e il rispetto per gli altri e per la dignità umana. Il vero male sono la povertà, la disoccupazione e seminare la discordia», ha detto il presidente.
I conservatori sono all’attacco sui “costumi” anche perché costretti a limitare le critiche sull’altro punto che considerano fondante dell’identità rivoluzionaria, l’antiamericanismo, messo in discussione dal negoziato sul nucleare. Finché Rohani continuerà ad avere su questo punto l’appoggio (sia pure con riserva) del Leader supremo Khamenei, sono costretti a tacere. Ma per Rohani la strada è stretta: se la conclusione del negoziato si allontana, con le ricadute positive sull’economia, la sua promessa di rendere l’Iran un paese più libero e più aperto sarà difficile da mantenere. Il presidente ha in mano il governo, ma gli altri centri di potere restano nelle mani dei conservatori. «Che non venga un giorno in cui qualcuno possa condurre il nostro paese sulla strada dell’insicurezza, seminando la discordia e provocando divisioni in nome dell’Islam», ha detto il presidente a Zanjan, ed è sembrato uno scongiuro.

Repubblica 24.10.14
Il reportage.
L’economia stenta a decollare i giovani sono stretti fra disoccupazione e il richiamo della jihad Domenica si vota e il Paese si chiede: la primavera è già finita?
L’inverno di Tunisi tra rabbia e speranza “Così la rivoluzione è rimasta a metà”
di Giampaolo Cadalanu


TUNISI QUANDO i blindati della polizia montano sui marciapiedi di Avenue Bourghiba, per allontanare i dimostranti assiepati di fronte al ministero dell’Interno, sembra una scena già vista. Ma i giorni della rivoluzione, tre anni e mezzo fa, sono lontani: non ci sono urla, sassi, e tanto meno lacrimogeni o spari. Tutto si svolge nella calma. «Ora andiamo via. Abbiamo chiesto l’autorizzazione per due ore di manifestazione. È questione di rispetto delle regole», dice senza scomporsi Radhia Nasraoui, avvocatessa specializzata in diritti umani e moglie di Hamma Hammemi, leader del Fronte popolare. Cammina rapida, quasi lasciando indietro il robusto poliziotto in borghese che la scorta. Entrambi i coniugi vivono sotto protezione dopo gli omicidi di Chokri Belaïd e Mohamed Brahmi, due politici laici colleghi nel fronte della sinistra.
Le foto dei politici assassinati sono quelle brandite più in alto dai militanti che si ritrovano a chiedere giustizia davanti al ministero una volta alla settimana, accanto a quelli che vogliono la fine della tortura nelle carceri. «Dal punto di vista della repressione è cambiato poco. In Tunisia c’è un regime di impunità», dice la Nasraoui: «Non ci sono punizioni nemmeno per chi ha commesso abusi ai tempi di Ben Ali. Il nuovo regime non vuole che la gente usi i suoi diritti fino in fondo. Insomma, la rivoluzione non è finita, dobbiamo continuare».
In vista delle elezioni politiche, domenica prossima, e in attesa delle presidenziali di novembre, in Tunisia è il momento di un primo bilancio della rivoluzione nata dal sacrificio di Mohamed Bouazizi, il venditore che si era dato fuoco a fine 2010 e aveva dato via all’incendio dei paesi arabi. «I giornali l’hanno chiamata rivolta dei Gelsomini, a me piace chiamarla rivoluzione della dignità», dice la blogger Lina Ben Mhenni, protagonista di quei giorni del 2011, e aggiunge: «Sento sempre più persone rimpiangere Ben Ali, venditori del mercato ma anche docenti all’università ». La democrazia ha portato tanto entusiasmo, ma anche minore sicurezza e prezzi alti. Persino il tradizionale tè alla menta è diventato un lusso, perché i pinoli che lo guarnivano adesso costano troppo. E sotto i ficus del centro i caffè con i tavolini preferiscono servire bibite importate.
Accanto all’avvocatessa in tailleur, le madri dei detenuti morti in carcere sfilano in abito tradizionale, tenendo le foto basse, con maggior timidezza ma uguale determinazione. Anche per loro la rivoluzione ha cambiato poco. È così per Zakia Gazmi, madre di Ali Khemais Louati, lavoratore a giornata con qualche precedente per piccoli furti, morto a 27 anni nel carcere di Borj el Amri. Zakia non ha quasi più lacrime, si lamenta piano mostrando le foto del figlio, nella casa poverissima di Hammam Lif. A lei le autorità carcerarie hanno detto che Ali ha avuto un ictus, no, un infarto, no, si è suicidato tagliandosi i polsi con la stagnola dello yogurt. Chi ha lavato il corpo dice di non aver visto nessun segno sulle braccia. E il caso di Ali, denunciano Amnesty International e Human Rights Watch, è solo uno dei tanti.
Se non è finita la conquista dei diritti civili, è incompleta anche la transizione verso l’economia di mercato. Persino la Banca Mondiale ha voluto intitolare il suo rapporto sulla Tunisia «la rivoluzione incompiuta». Vi si legge che il paese ha le potenzialità per diventare una “Tigre del Mediterraneo”, ma l’esplosione economica è rallentata da fattori storici ancora decisivi: la burocrazia asfissiante, la corruzione diffusa e la mancanza di reale concorrenza. Il sistema è semplice: le aziende statali e quelle che appartenevano al clan del dittatore Ben Ali godevano di facilitazioni assolute, e anche adesso che sono passate di mano, in parte persino ri-privatizzate, non devono affrontare meccanismi di mercato corretti. In altre parole, chi non ha “buoni contatti” si scontra con il muro di gomma della autorizzazioni e alla fine con continue richieste di pagamenti “extra”.
«Questa situazione non ha solo conseguenze economiche, ma anche sociali, molto significative», spiega Antonio Nucifora, che firma il rapporto della World Bank: «È un sistema che di fatto esclude chi non ha contatti politici e crea risentimenti. È stato così anche per Bouazizi: questo senso di esclusione è una delle ragioni principali della rivolta ». Insomma, all’economia tunisina serve un’apertura vera, rivolta all’interno, non soltanto agli investitori internazionali che finora avevano la possibilità di produrre in Tunisia a condizioni favorevoli purché destinassero la produzione ai mercati internazionali e lasciassero in pace il feudo di Ben Ali e il suo mercato interno. Il documento della Banca Mondiale sottolinea anche l’altissima disoccupazione giovanile, che supera la metà fra i diplomati e raggiunge il 65 per cen- to fra le ragazze.
È fra i 350 mila giovani senza lavoro né prospettive che vanno a pescare gli imam radicali in cerca di carne da cannone per la guerra santa in Iraq e Siria. Tremila combattenti tunisini tra Is e Fronte al Nusra, novemila bloccati alle frontiere ma comunque pronti al sacrificio, segnali di irrequietezza anche interna (è di ieri l’ultimo scontro fra uomini armati e forze di sicurezza, con un morto a Oued Ellil, nella periferia della capitale): la Tunisia è il primo fornitore di aspiranti martiri per l’integralismo islamico. Ma la spinta iniziale non è certo quella del fanatismo, in un paese diventato simbolo dell’islam moderato.
«Le partenze numerose verso il fronte sono un risultato delle politiche di tre anni di governo Ennahda», dice senza mezzi termini Beji Caïd Essebsi, leader dei centristi di Nidaa Tounes e candidato favorito per la presidenza della Repubblica, a novembre: «Il partito islamico ha incoraggiato politicamente i movimenti jihadisti ed estremisti, e si è svegliato solo quando questi hanno cominciato a minacciare il suo potere». E quando i giovani ritorneranno, addestrati militarmente e dunque molto più pericolosi, secondo il leader centrista la prima risposta per neutralizzarli non può che essere «uno Stato di diritto, giusto ma forte». Essebsi lo ripete con chiarezza: «Non è solo un problema di sicurezza, è un problema politico e sociale, che va affrontato su più piani: serve una strategia a livello regionale, di tutto il Maghreb, magari con il sostegno dell’Europa ». Per bloccare la deriva fanatica dei più fragili, e allo stesso tempo frenare le partenze dei più disperati verso l’Europa, Essebsi conta su un piano di rinascita economica sostenuto dai paesi del G8 che dovrebbe creare 450 mila posti di lavoro e una crescita fino all’8 per cento entro il 2019. Essebsi conta sulla delusione degli elettori di Ennahda per puntare alla poltrona presidenziale ed è favorito nei sondaggi. Ma nella Tunisia di oggi, libera dalle censure di Ben Ali, le stime troppo ottimistiche sono accolte con un sorriso: nel caso di Essebsi è una risata, quella di Hatem Karoui, protagonista in teatro e nello “slam”, le gare di poesia improvvisata in musica. Dopo la rivoluzione, Karoui ha portato in giro i suoi spettacoli in tutta l’Europa francofona, sghignazzando sulle paranoie dei militanti di Ennahda. Adesso prende di mira il grande favorito delle elezioni con un irresistibile video su YouTube in inglese che ironizza sul «candidato sexy, nato all’inizio dell’umanità» (Essebsi è del ‘26). Dice Karoui: «Altro forse non avremo avuto dalla rivoluzione, ma la libertà di espressione ormai non ce la possono più togliere».

Corriere 24.10.14
La Cina insegue lo Stato di diritto, ma «comunista»
di Guido Santevecchi


L’agenzia Xinhua ha lanciato ieri sera la sua Breaking News in inglese con il titolo «Il Partito comunista cinese nel Plenum fissa lo schema per uno Stato di diritto». Erano mesi che la stampa preparava il terreno per la «grande svolta». Nella versione inglese è scritto «rule of law», ma non è lo «Stato di diritto» dei sistemi democratici. «Sia chiaro che il “rule of law” non può essere in conflitto con la guida del Partito», spiega l’agenzia. Quindi, il sistema giudiziario in Cina resterà soggetto all’interesse supremo della politica, cioè del regime.
Che cosa è successo allora nei quattro giorni del Plenum, tenuto nel segreto di un albergo gestito dall’esercito? Xi Jinping sta accentrando ulteriormente il potere, anche nel campo giudiziario, non vuole certo una magistratura indipendente. Vuole però dare uniformità a un sistema legale che lontano da Pechino, nelle province dell’impero, è stato finora amministrato dai vari potentati locali, corrotti. Per questo, nello schema compare anche l’istituzione in via sperimentale di «tribunali mobili» diretti dalla Corte suprema di Pechino, da utilizzare nelle province. Giudici scelti e istruiti dal centro e non manovrati dai ras di città e di campagna. L’obiettivo principale dell’innovazione varata dal Plenum è il rafforzamento della campagna anticorruzione. Stato di diritto significa andare avanti con la grande purga dei funzionari che pretendono tangenti per ogni progetto, per ogni promozione di sottoposti. In realtà, il grande protagonista di questo «Plenum cruciale» è la Commissione centrale per la disciplina del partito, la Santa inquisizione comunista.Tanto è vero che il secondo comunicato della Xinhua ieri conteneva i nomi di sei alti funzionari espulsi dal Pcc. Tra loro un generale. La battaglia in corso è dura, coinvolge anche l’Esercito. La Commissione militare ammonisce che sono emerse divisioni tra i ranghi degli ufficiali, una confusione ideologica «eccezionalmente acuta e complessa», perché in tempo di pace è facile che i militari dimentichino le regole. Insomma, Xi promette di governare con la legge: non è lo Stato di diritto occidentale, ma è sempre meglio che governare fuori dalla legge.

Il Sole 24.10.14
Finanza. Rischia di slittare l'integrazione Hong Kong-Shanghai
Pechino cerca il passo giusto sulle riforme strutturali
di Rita Fatiguso


PECHINO Il Quarto Plenum del Partito comunista si chiude senza indicazioni nette sul da farsi, a parte la dichiarazione solenne, riferibile direttamente al presidente Xi Jinping, che la Costituzione cinese sarà pienamente realizzata grazie all'introduzione di un sistema di supervisione, appunto, costituzionale. Il tema era il ruolo della legge, e il Plenum ha sottolineato l'importanza dell'indipendenza dei giudici e del rispetto della legge.
Ma è l'economia altalenante ad affliggere il Paese e i segni contraddittori di questi ultimi tempi rafforzano le preoccupazioni che implementare una strategia adeguata sia sempre piu' difficile.
Certo, la produzione industriale a settembre è lievemente migliorata, ma per fugare le preoccupazioni sulla più grave frenata del Pil cinese degli ultimi tempi è dovuto scendere in campo direttamente il ministro delle finanze Lou Jiwei. Quel 7,3% nel terzo trimestre, ha detto Jiwei, «è all'interno delle nostre previsioni». La Cina non è più un'economia pianificata, ma l'obiettivo è «circa il 7,5%». Inoltre, ha registrato una crescita nel settore dei servizi e degli investimenti privati, per Lou Jiwei è segno che l'economia cinese sta cambiando.
Nelle stesse ore il viceministro del commercio Zhang Xiangchen annunciava che gli investimenti di Pechino all'estero cresceranno del 10% nei prossimi 5 anni, la Cina diventerà ben presto un esportatore netto di capitali: gli investimenti all'estero supereranno quelli stranieri in Cina. Merito della nuova politica più favorevole appena adottata dal ministero del Commercio per ridurre l'accumulo delle riserve estere, aiutando le imprese cinesi a comprare all'estero risorse e asset. Quest'anno gli investimenti diretti della Cina all'estero dovrebbero toccare i 120 miliardi di dollari, un decimo di quelli Usa in Cina e la metà di quelli giapponesi.
Resta il fatto che per ridare impulso all'economia la Cina è costretta ad approvare progetti per 150 miliardi di yuan (24,5 miliardi di dollari) per la costruzione di 5 aeroporti e 3 ferrovie. L'agenzia per la pianificazione economica parla di otto progetti infrastrutturali finalizzati a sostenere la crescita economica, tra i quali la costruzione di una ferrovia che dovrà collegare la città di Zhengzhou nello Henan a Wangzhou vicino Chongqing.
Non è esattamente quello di cui la Cina ha bisogno. In questi giorni, al contrario, rischia di incassare una sconfitta sul fronte delle riforme finanziarie, il link tra le borse di Hong Kong e Shanghai che secondo alcuni rumors sarebbe dovuto partire il 27 ottobre potrebbe slittare e a chiedere lo slittamento sarebbero stati proprio alti esponenti della finanza di Hong Kong.
Nell'ex protettorato la situazione resta molto calda, l'apertura del tavolo della trattativa tra Governo di Hong Kong e Federazione degli studenti non ha fugato i timori di rivolte sociali.
Morale: la speculazione sullo yuan è ripartita fino ai livelli più alti dal marzo scorso, si scommette su possibili misure di risanamento ma quali esse siano di preciso nessuno lo sa.
Per la verità si favoleggia anche sulla sorte di Zhou Yongkang, il responsabile della sicurezza interna a riposo, accusato di corruzione, il Plenum non ne ha fatto parola. Ma è a un altro Zhou, Zhou Xiaochuan, il Governatore della Banca centrale, che si dovrebbe guardare. L'uomo delle riforme finanziarie che la politica cerca costantemente di fermare.

Corriere 24.10.14
Daniel Barenboim, Inno alla Gioia «A Berlino dirigo Beethoven come 25 anni fa Licenziare le orchestre è mancanza di cultura»
intervista di Giuseppina Manin


«Sono andato a letto in una Berlino divisa in due, mi sono svegliato in una città riunificata. Non riuscivo a credere ai titoli dei giornali: il Muro non c’era più. Ho perfino svegliato mia moglie che, pensando a una delle mie battute, ha brontolato: lasciami dormire, non sei divertente».
Invece il Muro era caduto davvero...
«Quel giovedì notte di 25 anni fa, senza preavvisi, come se il destino avesse deciso per conto suo — ricorda Daniel Barenboim, direttore d’orchestra, pianista, uomo di pace —. Quando sono sceso in strada mi sono guardato intorno come si guarda qualcosa mai vista, sono volato alle prove con i Berliner con il cuore pieno di felicità».
E lì è nata l’idea di un evento straordinario.
«Un concerto aperto ai cittadini dell’Est. Lo annunciammo per domenica alle 11 ma già dalle 4 del mattino la gente era in fila davanti a quella Philharmonie fino a tre giorni prima così vicina e irraggiungibile. Suonammo la Settima di Beethoven».
E stavolta, il 9 novembre alla Porta di Brandeburgo, dirigerà la Nona con la sua Staatskapelle.
«Il Coro ci teneva a partecipare e l’Inno alla Gioia è quanto di più appropriato. Solisti d’eccezione: Renée Fleming, Elina Garanca, Jonas Kaufmann, René Pape».
Ma 25 anni dopo, la riunificazione è completata?
«Non del tutto, ma siamo sulla buona strada. I tedeschi sono bravi a ricostruire dalle loro macerie. Nessun Paese ha saputo fare come loro i conti con il passato. Né la Francia, né l’Italia, né il Giappone. La Germania non ha paura di scoprire le zone oscure della sua storia. Come ebreo non avrei mai potuto vivere da 23 anni a Berlino se questo non fosse accaduto».
Quale altro Muro vorrebbe veder cadere?
«Quello di Gerusalemme. Ma la speranza è sempre più flebile, tutti hanno perso di vista i vantaggi della pace. Gaza soffre e Israele non vince. Una partita di sangue in eterno pareggio».
Il 10 novembre, la sera dopo il concertone di Berlino sarà già a Milano, ad aprire la stagione della Filarmonica della Scala.
«In programma Ciaikovskji. Il Concerto per violino e orchestra con la bravissima Lisa Batiashvili e la Patetica. Me l’ha suggerita Ernesto Schiavi, direttore artistico della Filarmonica, visto il successo riscosso con la Quinta. Il segreto per Ciaikovskji è tenere il suono quanto più freddo possibile. Sotto il ghiaccio il fuoco divampa meglio, diceva il grande Mravinskij».
Un concerto che darà il via alla sua maratona scaligera...
«Dal 6 novembre riprendo il Simon Boccanegra , dal 12 dirigerò la Nona di Mahler e il Concerto n.27 di Mozart per piano e orchestra».
Con lei anche solista. E al piano la risentiremo a dicembre alla Scala con l’integrale delle Sonate di Schubert appena incise.
«È stata una scoperta tardiva. Studiandole e registrandole in studio sei ore al giorno, mi sono reso conto di quanto siano straordinarie. Se Mozart ti colpisce per chiarezza, Beethoven per profondità, Schubert è maestro nella misteriosa arte dell’insinuare».
E poi ci sarà «Fidelio».
«La mia ultima apertura di stagione da direttore musicale. Ma con la Scala non sarà un addio. Solo un arrivederci».
Cosa pensa delle recenti burrasche negli enti lirici italiani?
«Licenziare le orchestre non è una soluzione. Rivela solo la mancanza di cultura di chi lo decide. Come in politica, i conflitti non si risolvono con la forza ma con il dialogo. Altrimenti a farne le spese non saranno solo i musicisti ma l’intero Paese».
Dopo tanti anni di felice bigamia tra il podio e la tastiera, potrebbe mai fare una scelta?
«Sono nato pianista, mai ho pensato di lasciare il piano. Anzi. Dopo il concerto tenuto lo scorso giugno a Berlino diretto da Rattle, mio figlio mi ha chiesto: visto il successo come solista, perché ti ostini a dirigere? Sul podio puoi salire anche a 90 anni, il piano invece pone limiti di età. Aveva ragione. Prossimamente mi dedicherò di più al piano. Il podio può attendere».

La Stampa 24.10.14
Al centro dell’Europa la persona
di Vladimiro Zagrebelsky


Nelle difficoltà del tempo presente, l’originaria finalità economica dell’Europa comunitaria, prende il sopravvento. Non si parla che della crisi e del ruolo che gioca l’Europa di Bruxelles.

E la formula che spesso i governi usano, dicendo che «ce lo chiede l’Europa», assume un sapore sgradevole, minaccioso, che spinge al rifiuto in blocco di tutto ciò che l’Europa oggi significa. I vincoli economici non sono però l’unico carattere della comunità di Stati europei di cui l’Italia è parte, parte fondatrice. Per ricordare l’importanza di tutto il resto, e parlarne ai giovani che non hanno vissuto il lungo processo di costruzione dell’Unione, il presidente Napolitano ha voluto che fossero organizzati al Quirinale tre incontri con studenti dei licei di ogni parte d’Italia. A partire da oggi, si discuterà dell’Europa dei diritti e poi dell’Europa della scienza e dell’Europa della cultura.
La storia dei diritti fondamentali delle persone è una storia lunga ed è una storia europea. All’origine di ogni discorso di diritti fondamentali della persona – della persona in quanto tale - c’è la rivoluzionaria affermazione che «non c’è più giudeo, né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo, né donna …». La persona umana è divenuta centrale, affermandosi nel corso di un’evoluzione che è passata per la libertà intellettuale rivendicata dall’uomo del Rinascimento, per l’Illuminismo e la Rivoluzione francese e per la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Progressivamente si è affermata la concezione di diritti della persona, che lo Stato non «concede», ma è tenuto a «riconoscere» a tutti, non solo ai suoi cittadini. Il fondamento giuridico di una simile concezione è discusso. Norberto Bobbio era giunto a concludere che non valesse più tanto la pena di dividersi sull’origine, ma che occorresse invece impegnarsi perché i diritti della persona fossero effettivamente protetti. Questo è ciò che, dopo la tragedia europea delle due guerre mondiali (tragedia innanzitutto morale), si è voluto fare con la Dichiarazione universale e, subito dopo, con la Convenzione europea dei diritti umani. Più recentemente si è aggiunta la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, che ha gli stessi contenuti della Convenzione per i diritti che sono comuni a entrambe le dichiarazioni. Il rispetto della persona umana e il rifiuto di assoggettarla alla ragion di Stato vennero nel 1949 posti a base della Convenzione dei diritti umani, per un’Europa che, allontanandosi dalla propria civiltà, aveva prodotto l’oppressione dei fascismi, del nazismo e del comunismo sovietico. La ricostruzione dunque doveva certo riguardare l’economia, ma anche la democrazia, i diritti umani, le libertà fondamentali.
Il primo articolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione pone il rispetto della dignità della persona umana a base di tutti gli altri diritti. Qui parliamo dei diritti fondamentali. Si tratta del diritto alla vita, del divieto di tortura, della sicurezza contro arresti arbitrari, della possibilità di ricorrere a un giudice per difendere i propri diritti, della legalità delle pene, del rispetto della propria vita privata e familiare, della libertà di religione, della libertà di espressione e di associazione, del diritto di proprietà, del diritto all’istruzione, e di altri ancora.
La dimensione delle libertà economiche, all’origine del processo di unificazione dell’Europa – libertà di movimento dei lavoratori, delle merci, dei capitali e dei serviz i- ha incontrato inevitabilmente quella delle libertà civili e politiche e quella dei diritti sociali. Per effetto soprattutto della straordinaria influenza della Corte di giustizia dell’Unione, l’Europa dei suoi 28 Stati membri non è più solo un area economica comune. Essa nei suoi trattati fondativi e nelle sue istituzioni protegge la sicurezza dei suoi cittadini, i loro diritti e le loro libertà. E i cittadini dei Paesi dell’Unione sono anche cittadini europei.
L’influenza dell’Unione europea e delle sue Carte dei diritti si vede nella vita quotidiana. Nessuno Stato membro, nessuna società può più isolarsi dall’Europa in cui viviamo. E allora in Italia il Parlamento modifica la legge sul divorzio, semplificandone e abbreviandone la procedura. I diritti delle coppie che devono procreare con l’aiuto della scienza medica vengono ora assicurati anche in Italia, perché non regge a lungo l’imposizione di divieti in una Europa fondata sulla libertà. Anche in Italia i figli, tutti i figli, comunque nati, sono eguali, perché le discriminazioni non sono ammesse in Europa. L’Italia, spinta e costretta dalle sentenze dei giudici europei ha iniziato a riformare la sue carceri, perché in Europa sono vietati i trattamenti inumani, nei confronti di chiunque. I criminali che ignorano le frontiere possono essere ricercati e perseguiti efficacemente in Europa, perché i Paesi dell’Unione collaborano e riconoscono reciprocamente le sentenze dei loro giudici. Se l’Italia dovrà adattarsi a regolare le discariche dei rifiuti in modo da non danneggiare la salute delle persone, è perché la Corte di giustizia è intervenuta sanzionando le insufficienze dell’azione italiana. Ecco alcuni esempi dell’influenza non astratta, ma concreta ed efficace dell’Europa dei diritti. Le carenze sono tuttavia ancor gravi; ne è un aspetto la debolezza della politica comune in materia di migrazioni, di cui le tragedie che si consumano nel Mediterraneo sono l’aspetto più drammatico. Ma riconoscere le mancanze serve a stimolare la ricerca di soluzioni che aumentino l’efficacia dell’Unione europea, non a negare i risultati positivi già raggiunti.
Di tutto questo discuteranno i ragazzi dei licei che verranno accolti al Quirinale nel corso di incontri che serviranno a rendere più consapevole e completa l’idea di Europa. Alla scuola italiana è affidato il compito poi di comprendere e non lasciar cadere il messaggio lanciato dall’iniziativa.

Corriere 24.10.14
La casa comune dei diritti europei
di Antonio Carioti


Spesso l’Unione Europea e le sue istituzioni vengono dipinte come entità verticistiche, dirette da una tecnocrazia il cui operato sarebbe avulso dai problemi dei cittadini. Ma si tratta di un’immagine quanto meno parziale e stereotipata, che non regge a un esame approfondito, in specie per quanto riguarda la tutela dei diritti. Non tutti però ne sono davvero consapevoli e proprio per questo assume un rilievo particolare l’incontro in programma oggi al Quirinale, cui partecipano 130 ragazzi provenienti da scuole di tutta Italia, come esordio del ciclo «L’Europa siamo noi», con interventi di Marta Cartabia, giudice della Corte costituzionale, e di Vladimiro Zagrebelsky, ex membro della Corte europea dei diritti umani.
L’Unione oggi può fare molto per tutelare i singoli che non si sentono garantiti dagli ordinamenti nazionali. È a tutti gli effetti una «Europa dei diritti», come recita il titolo dell’incontro odierno. Ed ha acquisito questo ruolo proprio grazie a un giurista italiano, al quale Marta Cartabia rende omaggio: Alberto Trabucchi.
Bisogna risalire indietro nel tempo di oltre mezzo secolo, per l’esattezza al 1963, quando i Paesi dell’Europa comunitaria erano soltanto sei: Italia, Francia, Germania Ovest, Belgio, Olanda e Lussemburgo. Allora il vincolo che li univa era di natura meramente economica, l’impegno a costruire un mercato comune. Ma questo significava anche che gli Stati non dovevano porre limiti alla circolazione dei beni. E quando un’azienda olandese sollevò un problema di dazi doganali, che riteneva contrari alle norme comunitarie, Trabucchi, allora giudice della Corte di giustizia europea, prese spunto da quella controversia, apparentemente secondaria, per fissare un principio d’immensa portata: affermò che dagli obblighi che gli Stati contraenti si erano assunti con i trattati di Roma del 1957 derivavano per i loro cittadini diritti che essi potevano far valere in sede giurisdizionale davanti alla Corte europea.
Venne così superata, nota Marta Cartabia, la concezione per cui il diritto internazionale era materia concernente solo i rapporti tra gli Stati: per la prima volta veniva attribuita voce in capitolo alle persone in carne e ossa. Si partiva dalla libertà di circolazione degli individui, delle merci, dei servizi e dei capitali, ma si ponevano le premesse per un graduale e fecondo ampliamento ai diritti fondamentali, che la Corte europea più avanti ritenne rientrassero nell’ambito dei princìpi fondamentali di cui le spettava garantire l’osservanza. Un’evoluzione giurisprudenziale che poi è stata pienamente recepita e completata dalla Carta dei diritti dell’Ue approvata a Nizza nel 2000 ed entrata in vigore alla fine del 2009 con il trattato di Lisbona.
Oggi ci sono cittadini europei che ricorrono alla giustizia dell’Unione contro norme ritenute discriminatorie, per esempio nei confronti delle donne, oppure per difendere il proprio diritto alla riservatezza dall’invasività delle tecnologie digitali. Un meccanismo di tutela reso possibile dal principio di centralità della persona, ma non sempre ritenuto pacifico, poiché si tratta spesso di contemperare esigenze differenti e di valutare normative nazionali che sono a volte frutto di secolari sedimentazioni storiche.
Ecco perché l’iniziativa assunta dal capo dello Stato Giorgio Napolitano, nell’ambito del semestre italiano di presidenza europea, ha un significato concreto e attuale. Sono in primo luogo le nuove generazioni che devono acquisire coscienza delle opportunità che la giustizia europea offre, ma anche dei conflitti che il ricorso a quelle istanze può generare. Di certo la riflessione promossa dal Quirinale evidenzia che l’Europa non è una fredda costruzione burocratica, ma un terreno d’impegno per tutti. In primo luogo per i giovani.

Repubblica 24.10.14
Il secolo breve che generò le carestie “politiche”
Nel ’900, nell’Urss come in Cina, lo statalismo feroce affamò intere popolazioni
Stalin in Ucraina usò la mancanza di cibo come arma di distruzione di massa
Anche il “Grande balzo” di Mao provocò una tragedia. Costringendolo al mea culpa
Ma solo ora si studia il rapporto tra privazioni e potere
di Andrea Graziosi


IL Ventesimo secolo è stato segnato da carestie terribili: tranne quella del 1943 in Bengala, si è trattato in genere di carestie politiche, causate da scelte statali. Se si escludono quelle organizzate dal nazismo contro le popolazioni slave, le altre hanno avuto luogo in paesi socialisti. Tre sono quelle sovietiche: 1921-22 (circa 1,5 milioni di morti); 1931-33 (6,5-7,5 milioni, concentrati in Ucraina, con 4 milioni, e Kazachstan, con quasi 1,5 milioni); e 1946-47 (1,5). Vi sono poi la carestia del 1983-85 in Etiopia; quella del 1994-98 in Nord Corea, e soprattutto la carestia cinese del 1958-62, forse la maggiore della storia con 30-45 milioni di vittime.
Queste grandi carestie politiche sono state a lungo poco studiate perché era difficile concepire la possibilità di carestie causate da decisioni umane e l’associazione tra fame e comunismo sembrava una contraddizione in termini. Solo oggi, grazie ai progressi della ricerca, appaiono i primi tentativi di comparazione ma, specie in Italia, la conoscenza di questi eventi è ancora limitata e persino il Grande balzo in avanti di Mao, sfociato in una tragedia che è persino difficile immaginare, viene ancora citato come un evento positivo.
La situazione dovrebbe migliorare: Adelphi sta per pubblicare il saggio Tombstone, The Great Chinese Famine, 1958 1-962 , scritto da uno dei maggiori studiosi cinesi dell’argomento, Yang Jisheng, che si spera avrà maggior successo della traduzione del Saggiatore del bel libro La rivoluzione della fame di Jasper Becker (1998). Anche se lavori come Mao’s Great Famine di Frank Dikötter o le memorie del medico di Mao, Zhisui Li, restano da noi sconosciuti e poco si pubblica anche sulle carestie sovietiche. In Francia sta ora per uscire da Gallimard La Récidive di Lucien Bianco, che analizza analogie e differenze tra le carestie di Stalin e quella di Mao, e su questi temisi è appena svolto a Toronto un convegno, intitolato appunto Communism and Hunger , a cui hanno partecipato anche studiosi della carestia kazaca del 1931-33, provocata dalla decisione degli stalinisti di usare il bestiame dei nomadi per garantire le razioni di carne a Mosca e Leningrado, come ha dimostrato Niccolò Pianciola in Stalinismo di frontiera , edito da Viella.
Sia le maggiori carestie sovietiche che quella cinese dipesero da tentativi di trasformare dall’alto la struttura socio-economica di due paesi arretrati: la Grande svolta di Stalin (1929) e il Grande balzo di Mao (1958). Essi si basavano sull’idea di usare il piano, e quindi lo Stato, per socializzare e quindi modernizzare nel più breve tempo possibile, e provarono invece il naufragio della pianificazione centrale che, eliminando ogni contrappeso, aprì la via al collasso sistemico. In entrambi i casi, inoltre, il piano si trasformò da dispositivo economico in strumento della volontà di due despoti che per loro stessa ammissione non sapevano nulla di economia. L’economia socialista divenne così un sistema soggettivo, dominato da scelte politiche e personali che, in Urss come in Cina, si fondavano sull’idea che fosse possibile far pagare alle campagne la rapida trasformazione del paese, sequestrando quote crescenti di prodotto agricolo per sfamare città in rapida espansione e procurarsi, con l’esportazione, parte della valuta necessaria all’acquisto di macchinari e tecnologia. In entrambi i casi si sostenne che la socializzazione avrebbe causato un tale aumento della produttività agricola da permettere quello del livello di vita dei contadini, malgrado il maggior tributo loro imposto.
Al di sotto di queste impressionanti somiglianze vi furono tuttavia differenze cruciali. I due paesi erano guidati da due despoti, ma come Montesquieu ha osservato, una volta che un despota si è impadronito del potere la sua personalità diventa un fattore decisivo, e Stalin e Mao erano davvero diversi. La Cina era inoltre più povera dell’Unione sovietica, il suo equilibrio alimentare era più fragile, e una sua rottura catastrofica era quindi più probabile.
Soprattutto, come ci indicano i dati sulle vittime e la loro distribuzione, la “questione nazionale” giocò nella carestia sovietica un ruolo che non ebbe in quella cinese, malgrado la sua coincidenza con la rivolta tibetana del 1959. In particolare, in Urss i picchi di mortalità furono stretta- mente associati alla nazionalità, e non a caso che dopo il 1991 la “memoria” della carestia è divenuta in Ucraina un importante strumento di costruzione e legittimazione statuale. In Cina quei picchi dipesero invece dalla maggiore o minore possibilità del centro di sfruttare questa o quella regione, per esempio grazie alla presenza di ferrovie, nonché dall’estremismo di alcuni dirigenti locali. Si spiega così il peso molto maggiore avutovi dalla brutalità dei quadri, la cui crudeltà è sorprendente persino per chi ha letto i rapporti sulle violenze anti-contadine dei primi anni Trenta: le commissioni di inchiesta del 1960-61 parlano di contadini sepolti vivi, costretti a nutrirsi dei loro escrementi, mutilati e uccisi e si calcola che le vittime dirette di queste violenze siano state alcuni milioni.
Anche la distribuzione cronologica della mortalità mette in rilievo differenze importanti. Mentre in Cina e nella carestia pan-sovietica si morì nell’arco di diversi mesi, a loro volta suddivisi tra più anni, in Ucraina milioni di persone perirono in poche settimane tra marzo e giugno 1933, un dato che lascia intravedere una decisione politica di usare la fame come strumento per “risolvere” uno specifico problema nazionale e sociale, una decisione confermata da altri indicatori e che non trova riscontri in Cina.
Qui però le dimensioni della tragedia furono di gran lunga superiori, la rottura del sistema centrale più drammatica, e la reazione della leadership alla catastrofe molto diversa da quella sovietica. Mentre Stalin vinse la sua battaglia domando i contadini e l’Ucraina, e consolidò la sua presa sul paese, dove nel 1934 celebrò il congresso dei “vincitori” e nel 1936-38 liquidò con facilità i suoi presunti nemici nei grandi processi-spettacolo, Mao dovette, anche se a malincuore, ammettere la sconfitta delle sue politiche. Nel 1962 egli riconobbe la propria responsabilità per una tragedia di cui altri leader, come Deng Xiaoping, parlavano apertamente. Il suo potere ne fu indebolito e per riconquistare le posizioni perse egli fu costretto a lanciare tre anni dopo una Grande rivoluzione culturale chiamata a bombardare il “Quartier generale”, vale a dire il gruppo dirigente del partito.
Differenze essenziali si manifestarono anche sul lungo periodo. Nel 1956, tre anni dopo la morte di Stalin, nel suo rapporto segreto al XX congresso Krusciov condannò lo Stalin delle purghe e del terrore, ma esaltò la Grande svolta del 1929 che aveva posto le basi del socialismo sovietico, e ignorò le carestie del 1931-33. Due anni dopo la morte di Mao, con le quattro modernizzazioni, Deng e i dirigenti cinesi, che tra loro discutevano della carestia, fecero invece la scelta opposta, ribaltando le politiche economiche del grande timoniere ma formalizzandone al contempo il culto per consolidare il potere del partito. La Grande svolta e il Grande balzo, e le tragedie da essi causati, furono quindi eventi cardine anche per la storia successiva dei due paesi, ma in modi diversi e persino opposti.

Repubblica 24.10.14
Il campione del mondo di rugby con i mitici All Blacks
Il segreto di Kirwan “Così ho battuto la depressione”
di Massimo Calandri


JOHN Kirwan sembrava un uomo felice. La vita lo aveva trattato coi guanti. Era una montagna di muscoli e talento puro. Uno degli atleti più forti e veloci della storia del rugby, campione del mondo con i mitici All Blacks. Bello, biondo, solare. Amato. Ambasciatore di una nazione, la Nuova Zelanda, giovane e determinata come lui. Prima giocatore e poi allenatore, da un campo all’altro del pianeta. Parlava correntemente italiano e giapponese, aveva sposato Fiorella ed era padre di tre bambini splendidi. Leggeva Platone, Conan Doyle e Confucio. Raccontava barzellette, sapeva cucinare. Sì, John sembrava un uomo felice. Aveva tutto, tranne una cosa: il diritto di piangere davanti agli altri. Perché gli All Blacks non piangono. Neppure quando per 15 anni precipiti in un abisso buio di disperazione e solitudine, vittima di un mostro che si chiama depressione. «Un giorno mi sono svegliato e l’angoscia era semplicemente lì, accanto a me. Scoppiavo a piangere senza motivo, non riuscivo a dormire. Inquieto, insicuro. Senza capire il perché. Gli allenamenti, il rugby, prima e anche durante le partite: tutto era avvolto in una nebbia. Mi sentivo spezzato. Terrorizzato».
Nella foto di copertina, John Kirwan cammina sull’infinita spiaggia nera di Kerikeri. Con un bastone ha tracciato un’enorme parola che sembra resistere alle onde: hope, speranza. «Anche gli All Blacks piangono» (Ultra editore) è il libro che ha dedicato alla sua malattia ed alla guarigione. Lo ha pubblicato la prima volta in Nuova Zelanda, ed è stato uno shock per il paese. Che, scoperta la debolezza del suo eroe, subito gli si è stretto accanto. «Avevo paura di rovinare tutto quello che avevo costruito. Invece, gettare la maschera ha nuovamente cambiato la mia vita ». John è diventato testimonial della lotta alla depressione. Protagonista di campagne televisive, punto di riferimento di un sito web (www.depression. org.nz). Lo hanno premiato con l’onorificenza dell’Ordine dell’Impero Britannico. E oggi Sir John Kirwan, 50 anni sempre ovali (è allenatore degli Auckland Blues), ha tradotto la sua storia anche in italiano. «L’obiettivo è sempre lo stesso: aiutare a liberarsi da quella paura nera che è maledettamente democratica, può colpire il ricco come il povero. Se ci riuscirò anche con una sola persona, ne sarà valsa la pena». La nuova edizione si è arricchita di molti capitoli rispetto all’originale. «Avevo tanti aneddoti da raccontare, mi sento per metà italiano: Treviso, gli azzurri. Fiorella. E tutti voi, senza saperlo, mi avete dato una grande spinta ad uscire dal tunnel, manifestando liberamente le emozioni, mentre io da anglosassone - ero abituato a tenermi tutto dentro». Come ci si libera dal mostro? «All’inizio con le medicine, perché servono a guadagnare tempo per evitare di essere annientato. Poi la lotta, con una consapevolezza: questa è solo la malattia, non io». Aprirsi, parlarne con le persone che ti sono vicine. «Ricordarsi che la vita è bella, che sono importanti i tanti piccoli momenti felici, osservare il sole, godersi un istante in più l’abbraccio dei propri figli. Ascoltare i racconti degli amici. Trovare il coraggio di dire a qualcuno che lo ami, piangere davanti a lui. Non mentire, mai. Perché si può davvero essere felici ».

Corriere 24.10.14
Lo studio su un femore di uomo ritrovato nel 2008 in Siberia
Neandertal-Sapiens: l’incrocio di Dna avvenne 50-60 mila anni fa
In europei e asiatici c’è meno patrimonio genetico neandertaliano di quanto finora ritenuto
Il «mescolamento» avvenne probabilmente in Medio oriente
di Paolo Virtuani

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Repubblica 24.10.14
Iraq, la scoperta 'italiana': ritrovati 500 siti archeologici a 20 km dalla guerra dell'Is
Una equipe di archeologi dell'università di Udine ha portato a segno una scoperta epocale e lo ha fatto lavorando a due passi dal territorio messo a ferro e fuoco dallo Stato Islamico
di Emiliano Trovati

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Repubblica 24.10.14
“Finalmente è lei l’abbiamo trovata Ecco la vera Maddalena dell’ultimo Caravaggio”
Mina Gregori, la più grande esperta dell’artista, rivela a “Repubblica”
“È l’originale, l’opera che Merisi aveva con sé poco prima di morire”
di Dario Pappalardo


FIRENZE Quando Mina Gregori si è ritrovata davanti agli occhi la Maddalena in estasi di Caravaggio, ha detto solo: «Finalmente, è lei». Il dipinto sparito nel nulla. Quello che Michelangelo Merisi aveva sulla barca in direzione Porto Ercole, ultimo viaggio. Almeno otto esemplari in giro per il mondo. E uno solo autentico. Questo. La massima studiosa di Caravaggio, l’allieva di Roberto Longhi, l’ha scoperto in una collezione europea. L’immagine che pubblichiamo in queste pagine non si è mai vista prima. La testa abbandonata all’indietro, gli occhi semichiusi, la bocca appena aperta, le spalle scoperte, le mani giunte, i capelli sciolti, il bianco della veste e il rosso del manto. Mina Gregori è sicura: «L’incarnato del corpo di toni variati, l’intensità del volto. I polsi forti e le mani di toni lividi con mirabili variazioni di colore e di luce e con l’ombra che oscura la metà delle dita sono gli aspetti più interessanti e intensi del dipinto. È Caravaggio ».
Non ci sono solo i colori e la tecnica, però. L’olio su tela, che misura 103,5 cm x 91,5, nasconde un altro indizio. Dietro il dipinto c’era un foglietto con grafia seicentesca che recita: «Madalena reversa di Caravaggio a Chiaia ivi da servare pel beneficio del Cardinale Borghese di Roma». Secondo la Gregori: «Questo documento conferma in modo definitivo l’identificazione e l’attribuzione del quadro». E allora bisogna riavvolgere il nastro della storia. Caravaggio muore di “febbre” il 18 luglio 1610, dopo l’approdo a Porto Ercole. In una lettera di qualche giorno dopo — il 29 luglio — ritrovata solo nel 1994 da Vincenzo Pacelli nell’Archivio Segreto Vaticano, Diodato Gentile, vescovo di Caserta e Nunzio Apostolico del Regno di Napoli, scrive al cardinale Scipione Borghese, grande collezionista e protettore di Ca- ravaggio. Gentile informa Borghese della morte dell’artista e della “feluca”, la barca su cui viaggiava il pittore, che conteneva tre quadri: “doi S. Giovanni e la Maddalena”. Morto Caravaggio, l’imbarcazione fa rotta verso Napoli e le ultime tre opere di Merisi vengono date in custodia a Costanza Colonna, la marchesa amica del pittore che abita proprio nel quartiere di “Chiaia” a cui si fa riferimento nel biglietto sul retro della Maddalena ritrovata adesso. La nobildonna ha il compito di fare arrivare a Borghese le tele. Una, forse, giungerà a destinazione: secondo gli storici, è il San Giovanni esposto alla Galleria Borghese. Dell’altro San Giovanni si perdono le tracce. La Maddalena , invece, per Mina Gregori, è proprio questa. Le avventure del quadro dal 1610 al 2014 sono di difficile ricostruzione. Di sicuro, rimane a Napoli per qualche anno. È qui che, nel 1612, un caravaggesco fiammingo, Louis Finson (1580-1617), ne realizza la copia diretta, la firma e poi la data. Questa versione è ora al Musée des Beaux Arts di Marsiglia. Da qui deriva un dipinto di identico soggetto che fu nella collezione Carvalho del Castello di Villandry, nella Loira. Un’altra copia ancora è la Maddalena Klein , che ora si trova in una collezione romana: è stata esposta in più mostre con il nome di Caravaggio, anche con il placet del ministero dei Beni culturali, ma solo secondo alcuni storici dell’arte, è l’originale. Tesi che ora sembra smentita definitivamente. Secondo la Gregori: «La Maddalena Klein rappresenta una donna non più giovinetta, quella qui rappresentata, invece, raffigura una giovane poco più che adolescente, la stessa che riprende poi Finson nella sua copia a Napoli. E un’altra differenza è nelle pieghe lunghe della camicia, ottenute con una sola pennellata vigorosa, larghe e libere, tipiche di Caravaggio ». La Maddalena in estasi “ autografa” da Napoli deve essere passata a Roma. Lo testimonia un timbro di ceralacca della dogana di terra della città papale apposto sulla tela. «Quel timbro — precisa Gregori — era in uso soltanto dalla fine del Seicento. Quindi, intorno a quegli anni, o all’inizio del secolo dopo, la Maddalena è a Roma». Poi più nulla. Finisce nella collezione di una famiglia europea, di generazione in generazione. C’è chi pensa possa essere di Caravaggio e contatta la massima autorità del campo: Mina Gregori, presidente della Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi di Firenze. Una vita intera spesa intorno a Caravaggio, alla ricerca delle opere certe: come Il Martirio di Sant’Orsola, che la studiosa assegnò all’artista sin dal 1973, ancora prima che venissero fuori i documenti. Ora lei dice: «È solo nelle collezioni private che si possono scoprire ancora i veri capolavori. Non sul mercato. Questa famiglia, al momento, non vuole pubblicità. Temono i furti, è ovvio. Non credo abbiano intenzione di vendere, non sono nemmeno grandi collezionisti. Avevano un’idea sull’autore dell’opera. Speravano che fosse Caravaggio, certo, ma non avevano nemmeno decifrato la scritta seicentesca ». Nel paese in cui si trova, conferma la Gregori, il quadro è stato sottoposto a una pulitura e agli esami di laboratorio per datare la tela. Vedremo mai la Maddalena in mostra? «Bisogna capire se i proprietari lo vogliono. Di certo desiderano conservarla ancora in casa e non rinchiuderla in una banca. È magnifica». Negli ultimi anni, il destino di Caravaggio ha conosciuto improbabili ritrovamenti di ossa, attribuzioni discutibili, mostre con anche un’opera sola pur di fare cassa, marketing e manie. «C’è la tendenza a proporre un’attribuzione per cambiare il valore di un quadro. Solo per ragioni di mercato. Passare da un anonimo a Caravaggio cambia tutto. Spesso, però, i risultati sono discutibili». Ma stavolta è un caso diverso. «Sono sicura al cento per cento — dice la storica — Ho notato dapprima quelle mani intrecciate, poi ho valutato l’assoluta novità del soggetto, nessuno aveva dipinto prima una Maddalena così... Ho ravvisato i modi del Caravaggio. Se hai appreso come un pittore muoveva il pennello sulla tela, allora lo riconosci. È la scuola di Longhi: è stato lui a insegnarmi a guardare così. A leggere l’immagine».

LE COPIE
La Maddalena copiata dall’originale di Caravaggio da Louis Finson a Napoli, nel 1612; in alto, la “Maddalena Klein”, ora in collezione romana, che solo secondo alcuni storici dell’arte è da attribuire a Caravaggio

Repubblica 24.10.14
Etruschi
Viaggio alla ricerca della civiltà che sconfisse la morte
di Giuseppe M. Della Fina


«LA necropoli continuava la città, e l’uomo, morendo, non faceva che cambiar quartiere, passando dai quartieri del centro a quelli della periferia, più salubri e signorili. Il paese di Utopia gli Etruschi non lo confinavano in terre inaccessibili, in isole lontane, ma nella morte che è accessibile a tutti. Idea savissima». L’osservazione è di Alberto Savinio in Dico a te, Clio e torna alla memoria avvicinandosi a questa mostra nata da un’idea di Genus Bononiae Musei nella Città, Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna e Museo Nazionale di Villa Giulia a Roma: Il viaggio oltre la vita. Gli Etruschi e l’aldilà tra capolavori e realtà virtuale a Bologna (da domani fino al 22 febbraio), presso Palazzo Pepoli dove si trova il museo della storia della città. Le fa da pendant un’esposizione a Roma, proprio negli spazi di Villa Giulia, partner del progetto. Il tema individuato dai curatori dell’esposizione, Giuseppe Sassatelli e Alfonsina Russo Tagliente, offre la possibilità di avvicinarsi alla civiltà etrusca da un’angolazione particolare come è quella rappresentata dalla documentazione proveniente dalle necropoli.
Ma privilegiata per la straordinaria attenzione che gli Etruschi dettero al culto degli antenati durante l’intero arco di durata della loro civiltà, che ebbe la forza di attraversare quasi per intero il I millennio a.C. e di sapersi misurare con il mondo greco, magnogreco e fenicio-punico. Come pure di interagire con gli altri popoli presenti nella penisola italiana. C’è un’immagine – stavolta dello scrittore e poeta Vincenzo Cardarelli – che illumina bene la loro azione: «… essi recarono la luce mediterranea fin nelle più remote caverne dell’Appennino » (in Il cielo sulle città).
Va detto, inoltre, che nell’arco degli ultimi due decenni è profondamente mutata la maniera di guardare ai documenti riferiti alla sfera funeraria, a partire dall’eccezionale repertorio figurativo rappresentato dalla pittura etrusca, e di questo cambiamento di approccio viene dato puntualmente conto in mostra.
Le stesse due sedi scelte non sono casuali: Roma accoglie il museo più importante al mondo per le antichità etrusche (a volte lo si dimentica) e Bologna è stata la città-stato di riferimento per la presenza etrusca nella pianura padana (a volte si mostra di non saperlo). Una presenza tra l’altro né sporadica né di breve durata, anzi: la zona padana va considerata tra le aree più ricche dell’Etruria per via dell’ingente produzione agricola, dovuta alla fertilità della terra e ai saperi dei contadini che la lavoravano, e al fatto di rappresentare il collegamento privilegiato con il mondo dei Celti. Senza dimenticare l’importanza, soprattutto a partire dal V secolo a.C., del porto di Spina dove era presente anche una forte comunità greca.
Nella mostra il tema dell’aldilà etrusco è esaminato attraverso la documentazione archeologica e non poteva essere altrimenti dato che altre fonti non sono giunte sino a noi, o risultano condizionate dall’interpretazione che ne venne data nel mondo greco e, soprattutto, in quello romano. L’ingente patrimonio di immagini pervenuto consente di entrare nei dettagli: la tomba, innanzitutto, sino almeno al IV secolo a.C., nonostante l’attenzione posta nella sua costruzione e il corredo funerario che vi veniva deposto, non era ritenuta la dimora stabile del defunto.
L’idea di un suo viaggio verso sfera oltremondana lontana da quella dei viventi e affine, in una qualche misura, a quella degli déi – come ha notato Giovanni Colonna – appare attestata sin dai secoli di formazione. Lo segnalano la presenza nei corredi funerari di modellini di barche e di carri, come pure la raffigurazione frequente del disco solare e di uccelli d’acqua, che alludono ad anatre, aironi, cigni, ritenuti intermediari tra la terra e gli spazi celesti.
Una trasmigrazione di cui poco si sapeva, ma che sembra avere previsto un percorso di terra ed uno su acque marine o meno frequentemente fluviali. Il pericoloso viaggio poteva essere affrontato a piedi, a cavallo, su un carro con tiri a due o a quattro animali, su una biga, su una quadriga (in alcuni casi trionfale), in nave o essendo trasportati da esseri favolosi come gli ippocampi. Nelle raffigurazioni giunte sino a noi, animali reali e fantastici sembrano segnalare la difficoltà della strada da percorrere, mentre alcuni demoni svolgono la funzione di accompagnatori.
La documentazione archeologica offre anche un’idea di come fosse immaginato il soggiorno nell’aldilà: una simbiosi piena con la natura, alla quale allude bene la decorazione della tomba tarquiniese della Caccia e Pesca; una ricomposizione dell’unità familiare aperta agli antenati; una vita armoniosa e senza privazioni come traspare dalla serie infinita di simposi e banchetti raffigurati – nel caso delle tombe di- pinte – prima nei frontoni e poi sulle pareti di fondo della camera principale, accompagnati spesso da scene di danza e di giochi proposte sulle pareti laterali.
Vediamo, comunque, il percorso più da vicino partendo da Bologna: vi figurano gli affreschi, distaccati al momento della scoperta, della tomba tarquiniese della Nave incentrati proprio sul viaggio per mare del defunto; tre stele funerarie – una di rinvenimento recente ed esposta per la prima volta al pubblico – testimonianza diretta dell’ideologia funeraria degli Etruschi di Bolouna gna; una serie di vasi provenienti dal Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia tra cui un cratere a calice attico a figure rosse realizzato da Eufronio; due notevoli sculture in pietra da Vulci e Cerveteri. Infine si può vedere una video installazione realizzata appositamente con tecnologie all’avanguardia sul Sarcofago degli Sposi, vale a dire uno dei capolavori assoluti dell’arte etrusca. Della stessa opera è stata eseguita una copia esposta sempre in mostra, realizzata dalla Italdesign Giugiaro. A Roma, sono proposti altri due eccezionali vasi di Eufronio, una stele funeraria proveniente da Bologna e la ricostruzione virtuale della celebre Situla della Certosa. Nel museo romano, inoltre, viene proiettata la nuova versione del film di animazione realizzato dal Cineca con la regia di Giosuè Boetto Cohen. Nell’originale che da due anni è presentato a Bologna, Lucio Dalla dà la voce all’etrusco del nord Apa. Al cantautore scomparso ora si aggiunge Sabrina Ferilli, che “interpreta” l’etrusca del sud Ati.

Repubblica 24.10.14
Arte e banchetti nel culto degli antenati
I rituali per l’oltretomba erano contenuti nei preziosi e perduti Libri Acheruntici
Sul passaggio verso l’aldilà vegliava un démone femminile
di Maurizio Bettini


SECONDO gli autori romani gli Etruschi possedevano certi Libri Acheruntici, ossia libri che avevano per oggetto l’oltretomba. Possiamo immaginare che essi contenessero in particolare i rituali che venivano praticati al momento della sepoltura e le credenze o le rappresentazioni che riguardavano il mondo di là. Purtroppo di questi preziosi libri ci sono pervenuti solo piccoli frammenti, citati da autori che, oltre tutto, li inserivano in un contesto filosofico, o teologico, che di certo non era più il loro.
Uno di questi frammenti, però, in particolare colpisce. In questi libri si sarebbe detto che gli Etruschi praticavano sacrifici animali capaci di trasformare in divinità gli spiriti dei defunti: questi avevano il nome di dii animales, dèi animali, e sarebbero stati in qualche modo simili ai Penati dei Romani, le divinità tutelari della famiglia. Ma a parte queste testimonianze, tanto suggestive quanto scarse, sono soprattutto le rappresentazioni figurate, quelle che ci vengono dalle tombe o dai sarcofagi dell’Etruria, a darci un’idea di come questo popolo immaginò il mondo di là. Nelle raffigurazioni che rimandano al periodo classico e a quello ellenistico, ossia posteriori al VI — V secolo a. c., l’elemento certo più caratterizzante è costituito dalla presenza di una porta. Nel sarcofago di Hasti Afunei, proveniente da Chiusi, un démone femminile di cui ci viene detto anche il nome, Culsu, è rappresentato nell’atto di uscire da tale porta: sembra essere lei ad avere l’incarico di aprirla e chiuderla, e di vegliare sul passaggio. Un altro démone femminile, Vanth, attende invece al di là di essa. Sul lato opposto un terzo démone femminile spinge la defunta, Hasti Afunei, verso il passaggio, mentre fra lei e la fatidica porta stanno numerosi personaggi. Osservando questa raffigurazione possiamo concludere che, nelle credenze degli Etruschi, il mondo dei morti era separato da quello dei vivi, ma ad esso congiunto attraverso un passaggio, vegliato da démoni. Un’altra cosa che immediatamente colpisce, nella rappresentazione del sarcofago di Hasti Afunei, è la presenza di un corteo funebre che accompagna la defunta verso la porta degli Inferi. Esso può forse richiamare la pompa funebris della tradizione romana, il corteo che si svolgeva in occasione del funerale: ma c’è almeno una differenza importante. Nella processione rappresentata sul sarcofago di Hasti Afunei, infatti, ai vivi che vi partecipano si mescolano démoni infernali, lo spazio in cui si muove il corteo è immaginato come contemporaneamente umano e oltremondano. Ma che cosa attende il defunto dall’altra parte di quell’ingresso? Un démone femminile, nel caso di Hasti Afunei, ma possiamo immaginare che di là stessero altri defunti: ossia i personaggi che, in numerose rappresentazioni, sono raffigurati a banchetto assieme ad altri démoni. È questa, forse, l’istantanea più celebre, e più conosciuta, della morte etrusca: il banchetto, l’aldilà come un luogo di allegria e godimento. Ad attendere il defunto ci sono i membri della sua famiglia, del suo gruppo sociale, già raccolti al simposio, mentre il nuovo arrivato li raggiunge per unirsi a loro. Altre rappresentazioni figurate mettono poi in evidenza forme differenti del cruciale passaggio, che comunque però prevedono uno spostamento del defunto, un viaggio verso il mondo che lo attende. Esso può essere di tipo marino, segnalato dalla presenza di mostri o di onde; altre volte si tratta invece di un cammino più complesso, che il defunto sembra compiere prima a cavallo poi raccolto da un mostro marino, che lo attende. Un viaggio non scevro di pericoli, peraltro, come indica la presenza del démone Tuchulcha, volto a becco d’uccello e serpenti che da lui si snodano. Nel tempo di questo trasferimento verso il mondo di là, possiamo supporre, i parenti del morto compivano sacrifici per propiziargli un felice viaggio. E forse per garantirgli lo stato di deus animalis, come spiegavano i Libri Acheruntici.

La Stampa 24.10.14
L’anniversario su Rai 5
Luca De Filippo: “Mio padre Eduardo non finisce mai”
di Simonetta Robiony


«Perché Eduardo piace tanto ai giovani? Forse perché ha sempre detto le cose come stanno». Gli studenti dell’Università Federico II abbracciano Luca De Filippo, chiedono selfie e autografi sulle pagine della Cantata dei giorni pari e dispari, che raccontano oggi più che mai Napoli e l’Italia. Il 31 ottobre sono 30 anni dalla morte del grande teatrante e le iniziative per ricordarlo si moltiplicano: «Mio padre - dice Luca - ha sempre avuto attenzione enorme ai giovani, anche nelle compagnie. Oggi sono contento che torni all’Università, studiato».
Eduardo, con Titina e Peppino, è il più celebre dei tre fratelli figli di Scarpetta, altro teatrante napoletano ai suoi tempi assai popolare, in palcoscenico fin da ragazzino con la famiglia. Alla morte era ormai riconosciuto universalmente un genio del teatro, nominato senatore a vita, ricordato durante il funerale in piazza san Giovanni da Dario Fo. E proprio il 31 ottobre, alle 11 del mattino, su Rai5 ci sarà una diretta dal Parlamento intitolata Cantata delle parole chiare, con la lettura di brani di Eduardo e musiche di Nicola Piovani. La sera, invece, Rai5 propone un documentario su di lui di Francesco Saponaro che, partendo da alcuni testi de I giorni dispari, tenta un ritratto dell’uomo impegnato in difesa dei più deboli, specie i giovani sfortunati chiusi nel riformatorio Filangieri e in quello di Nisida, a Napoli. E poi la lunga battaglia per ricostruire il teatro San Ferdinando, le meravigliose lezioni alla Sapienza su La tempesta, il costante disprezzo per l’ipocrisia borghese.
La Rai ha messo in cantiere un’operazione complessa: Un anno con Eduardo intende non solo riproporre le sue commedie, ma anche le tante interpretazioni che ne hanno dato altri attori, altri registi, altre compagnie, a volte stravolgendo il testo, altre volte rispettandolo alla lettera. Fausto Russo Alesi, uscito dal gruppo di Ronconi, due anni fa, a Milano, ha proposto un Natale in casa Cupiello in forma di monologo, usando una ironia amara per tutti i personaggi. Il primo di questi spettacoli di «Eduardo dopo Eduardo» verrà trasmesso sabato: si tratta di Padre cicogna, un racconto per voci e orchestra con Luca protagonista, cui farà seguito un balletto con Carla Fracci da Filumena Marturano eseguito nel 1996 a Napoli. Poi ci saranno Servillo e Anna Bonaiuto, Ranieri e la Melato, Glejeses e Mastelloni. Accanto a questa proposta, a partire da lunedì 27, sempre su Rai5, un ciclo con i grandi testi scritti, interpretati, diretti e eseguiti per la Rai da Eduardo, da Ditegli sempre di sì a Gli esami non finiscono mai. Per la tv Eduardo aveva registrato molte delle sue commedie più famose allo scopo di garantirne la sopravvivenza: i nastri di due commedie furono però cancellati e riutilizzati: questo lo addolorò e indignò tanto che, anni dopo, rifece una delle due commedie sparite. Tra le proposte fatte in questa occasione anche due opere musicali: Napoli milionaria di Nino Rota che debuttò al festival dei Due Mondi nel 1977 e La pietra di paragone di Rossini di cui De Filippo curò allestimento e regia. Ma che padre è stato Eduardo, sempre dietro il suo lavoro? «Un padre - dice Luca -. Mi ha educato ai suoi valori senza dirmi fai questo o quello. Certo non sarei ciò che sono senza di lui. E’ stato un esempio. E poi, non dimentichiamocelo, l’Italia ha avuto solo tre drammaturghi nel ’900: Pirandello, Fo, Eduardo».