domenica 26 ottobre 2014

La Stampa 26.10.14
Alla Cgil riesce la prova di forza contro il premier
La Camusso riempie piazza San Giovanni e avverte: “Avanti con lo sciopero generale”
di Roberto Giovannini


La piazza e la maglietta: «Io sono Marta» Sopra piazza San Giovanni gremita. A sinistra la Camusso indossa una maglietta con su scritto: «Io sono Marta». Marta è il nome di fantasia di una giovane evocata da Renzi come esempio di lavoratrice non tutelata dal sindacato. Ieri la replica sotto forma di t-shirt

Qualche timore c’era; ma il popolo della Cgil ha risposto all’appello. E soprattutto, ha funzionato la strategia di «svecchiamento»: giovani sul palco e negli inserti video, giovani (e tanti) nei due cortei e nei «flash mob» contro il Jobs Act. Per spiegare che anche «Marta» e «Giuseppe» – i due precari-tipo evocati da Matteo Renzi, beneficiari delle teoriche maggiori tutele che varrebbero l’abolizione dell’articolo 18 – in realtà non hanno nulla da guadagnare dalla riforma del lavoro.
Gli organizzatori della Cgil ancora una volta hanno mostrato la consueta professionalità, riempiendo con centinaia di migliaia di persone (un milione, si è detto dal palco) Piazza San Giovanni e le vie circostanti. Una folla che ha risolto senza troppi patemi d’animo – con ripetuti cori di «Renzi, Renzi, vaff…» - l’annoso interrogativo di tanti commentatori politici. Se cioè sia possibile che il popolo della sinistra tradizionale, da sempre giacimento elettorale del Pci-Pds-Ds-Pd, contesti il segretario del Partito/presidente del Consiglio. La giornata romana del 25 ottobre molto semplicemente dice che per questa gente, che nella sua stragrande maggioranza alle europee ha votato Pd, Matteo Renzi è un avversario. Perché ha scelto come referente «l’imprenditore che si spacca la schiena», e non vuole neanche simbolicamente ascoltare le ragioni di chi lavora. Non è Berlusconi: ma quasi.
Tutte queste cose naturalmente non le ha dette nel suo comizio finale il segretario generale Cgil Susanna Camusso, salita sul palco dopo il «Nessun dorma» intonato dai licenziati dell’Opera di Roma. «Noi non ci consegniamo al mito dell’impresa - ha detto - gli obiettivi di questo governo non li condividiamo: abbiamo un’altra idea di paese, il Jobs Act e la legge di Stabilità sono una delega in bianco alle imprese». Per il segretario, «c’è un’idea di lasciare le leve della politica economica ai padroni, che non sono generosi benefattori». Bisogna creare lavoro, «ma lavoro libero, con i diritti e il salario».
La Cgil chiede una patrimoniale sulle grandi ricchezze, «quel 5% di famiglie che devono darci le risorse per creare nuovi posti di lavoro, perché siamo l’unico paese in Europa senza una tassa sulle grandi ricchezze», e un piano di investimenti. Tasse e investimenti pubblici non piacciono alla Leopolda? Ma «l’uguaglianza è il motore del futuro», e il popolo di San Giovanni esplode in fischi contro il finanziere Davide Serra che vuole limitare il diritto di sciopero. La legge di Stabilità? «Non cambia verso rispetto all’austerità, continua ad essere costruita con qualche bonus in più». E sulla riforma del mercato del lavoro Camusso va all’attacco: «Nessuno in buona fede può dire che licenziando si crea occupazione. Non c’è equilibrio tra lavoratore e impresa, e un governo deve stare dalla parte di chi è più debole». Eliminando l’articolo 18, consentendo il demansionamento, puntando le telecamere sui lavoratori il lavoro moderno si trasforma in servile». Il sindacato non deve difendere solo le tutele di chi le ha già, ma puntare ad «estenderle a tutti». E «fare di più» per dare voce ai precari.
E adesso? Che ne farà la Cgil di questa piazza, di fronte a un premier intenzionato ad andare avanti comunque? «Questa non è una fiammata - ha affermato Camusso - non basterà mettere l’ennesima fiducia. Ci siamo e ci saremo, anche con lo sciopero generale; ma al momento e con il passo giusto».
Sì, per ora non è affatto alle viste uno sciopero, su cui peraltro Cisl e Uil sono freddine. «Serve fantasia e intelligenza», ha spiegato il segretario, che stamani spedirà davanti alla Leopolda per «dialogare» un centinaio di arrabbiati siderurgici della Ast di Terni. E poi nei primi giorni di novembre ci saranno due altre megamanifestazioni, con Cisl e Uil: il 5 i pensionati, l’8 i pubblici dipendenti.

il manifesto 26.10.14
Un milione con la Cgil
di Massimo Franchi

qui

il Fatto 26.10.14
Cgil, un milione in piazza. Il nemico è Renzi
Il premier ha un’opposizione
di Salvatore Cannavò


A SAN GIOVANNI SUSANNA CAMUSSO PROMETTE: “NON SI ILLUDA, NOI CI SIAMO E CI SAREMO ANCORA” E CHIAMA IL SUO POPOLO “AL LAVORO E ALLA LOTTA”

Camusso e Landini (vera star dei cortei) vincono la loro sfida in una piazza San Giovanni gonfia di slogan, tutti contro il presidente del Consiglio. Da Firenze, il finanziere renziano Serra provoca: “Limitiamo il diritto di sciopero”, ma la segretaria rilancia quello generale. Ora però la vera questione è la spaccatura nel Pd

Renzi non balla più da solo. Ieri la Cgil gli ha contrapposto una delle sue piazze più grandi di sempre. Più di un milione, secondo gli organizzatori. Probabilmente meno, in termini reali. Ma i numeri sono sempre politici e i tre cortei che hanno attraversato Roma non si vedevano da anni. Una fiumana composta da generazioni diverse, da lavoratori e lavoratrici, pensionati, giovani, studenti, dal nord al sud d’Italia. Una prova di forza pienamente riuscita, con una Cgil che ha affermato quello a cui teneva maggiormente: dimostrare di esserci e di essere un soggetto inaggirabile.
MA LA SORPRESA maggiore è che la piazza si è scoperta improvvisamente come l’alternativa più netta alla Leopolda e, quindi, all’idea che lo stesso Renzi ha della sinistra. Un’altra sinistra, un’altra identità, un’altra appartenenza. “Renzi, Renzi, vaffanculo” oppure “chi non salta alla Leopolda è”, sono slogan che nemmeno i manifestanti pensavano di poter pronunciare. Eppure hanno attraversato i cortei, scandito gli spezzoni fatti di gente vera, di lavoratori impegnati nelle loro vertenze, di sezioni cittadine venute a Roma per appartenenza, per darsi un’identità. La distanza con la Leopolda è totale. Susanna Ca-musso la sintetizza all’inizio del suo comizio: “Noi non abbiamo bisogno delle camicie bianche, abbiamo le nostre bandiere e i nostri vestiti da lavoro”. E sarà l’alterità rispetto a Renzi il leit motiv di un discorso che chiude una giornata lunga, fatta di cortei che non finiscono mai - quando parla il segretario della Cgil, la folla non riesce più a entrare in piazza San Giovanni da ore - e di interventi dal palco frutto di vertenze e lotte che costellano il paese. Da brividi l’esibizione del Coro dell’Opera di Roma con un Nessun dorma dalla Turandot di Puccini che riesce a zittire e a emozionare l’intera piazza. Prima c’era stato l’intervento della Ast di Terni, le acciaierie che rischiano il posto di lavoro e che avverte il premier: “Domani (oggi, ndr) saremo alla Leopolda per incontrarlo. Lui non viene da noi? E allora andiamo noi dai lui”. Oppure quello di Marta Alfieri, una “vera” Marta, già precaria e poi stabilizzata grazie al sindacato. E così via.
Quando tocca a Susanna Ca-musso, la Cgil dà prova di un pizzico di autoironia mandando il video dell’imitazione che della leader sindacale fa Maurizio Crozza. Poi, l’originale attacca subito il premier. Prima il riferimento alle camicie bianche poi l’affondo al finanziere Serra che alla Leopolda ha chiesto di limitare il diritto di sciopero. “Noi aspettiamo ancora che il mondo della finanza ci dica cosa vuol fare per fare tornare il mondo un mondo normale” risponde il segretario Cgil. E poi ancora: “Renzi è ossessionato dal numero 80, noi dai numeri della disoccupazione”. Fino alla domanda capovolta al segretario del Pd: smetta di chiederci dove eravamo noi quando cresceva la precarietà, ci dica dov’era lui”. Nessuno sconto sull’articolo 18 che, “semplicemente divide il lavoro servile dal lavoro moderno” fino a una promessa che è in realtà una minaccia: “Renzi non si illuda, noi ci siamo e ci saremo ancora”.
CAMUSSO HA FATTO di tutto per tenere la barra sindacale della manifestazione. Ha rilanciato, nel boato della piazza, lo sciopero generale “ma con il passo giusto, il nostro passo”, il che fa pensare a forme di lotta non immediatamente dirompenti. “Servirà fantasia e intelligenza” ha precisato per “articolare le forme di lotta”, facendo capire a Confindustria che la Cgil è pronta ad alzare la tensione nelle singole aziende. Ha precisato le prossime scadenze: la manifestazione dei pensionati il 5 novembre e poi quella del Pubblico impiego, unitariamente a Cisl e Uil, dell’8 novembre. Ha tenuto a bada i politici sottolineando che la manifestazione “è dei lavoratori e delle lavoratrici e non la passerella di chi c’è e di chi non c’è”. Ma il nodo politico della giornata non ha potuto tenerlo fuori. La manifestazione ha rappresentato il grande vuoto che Renzi ha creato a sinistra, il bisogno di rappresentanza e identità che si riversa sull’intero gruppo dirigente della Cgil. Il siparietto tra due militanti al termine del comizio è significativo: “Servirebbe una scissione, un partito di sinistra che magari resterà all’opposizione ma almeno avrebbe la sua identità”. E quando si tocca questo tasto le teste si voltano tutte verso Maurizio Landini, il segretario della Fiom.
La star mediatica della giornata è lui: i selfie non si contano, le strette di mano, le pacche sulle spalle, la richiesta univoca di tutto il corteo: “Non mollare, tieni duro”. Sia lui che Camusso vengono travolti dal bisogno di appartenenza che la politica presente non riesce più a offrire. I volti che sfilano sono quelli di Sergio Cofferati, Cesare Damiano, Stefano Fassina, Gianni Cuperlo, Nichi Vendola, Paolo Ferrero, Marco Revelli. Una coalizione tra tutti questi è auspicata da molti ma non sembra davvero potersi realizzare. Di politica si discute ovunque nel retropalco e le riunioni riservate si tengono quasi ogni sera: c’è chi propone che il leader sia Landini ma c’è anche chi, in Fiom, lo vede meglio alla segreteria della Cgil. Cofferati dà segni visibili di voler giocare un ruolo ma a una sua uscita dal Pd credono in pochi. La sinistra Pd di cui fa parte Guglielmo Epifani, ex segretario Cgil e una volta riferimento obbligato della segreteria Camus-so, spinge per portare lo scontro con Renzi sulla legge di Stabilità, dando ormai per persa la sfida sull’articolo 18.
Difficile prevedere cosa accadrà. Ieri la Cgil ha delimitato uno spazio, offerto voce a una parte del paese, costretto Renzi a fare i conti con un’altra campana. Da oggi inizia una marcia più o meno lunga lanciata dal grido finale di Susanna Camus-so: “Al lavoro e alla lotta”. Sullo sfondo, la Bella ciao dei Modena City Ramblers.

il Fatto 26.10.14
Attento, Matteo, non stare sereno
di Antonello Caporale


Non consiglieremmo a Matteo Renzi di star sereno dopo quello che è avvenuto ieri a Roma. Nascosti tra le bandiere rosse, hanno sfilato anche i suoi elettori o quelli che dovrebbero essere destinatari di una politica che guarda finalmente alla società infragilita e dispersa e le dà coraggio, speranza. La Cgil – è questa la novità – ha raccolto sotto le sue insegne non solo i garantiti, ma anche gli sfruttati, i disoccupati, coloro che hanno perso il lavoro e non lo ritrovano più. C’erano i nonni e i nipoti legati dallo stesso destino, i rivoluzionari di mestiere e le mamme senza futuro, gli studenti senza parte, gli operai senza più fabbriche, gli insegnanti senza cattedra, i militanti senza partito. Pensavano che Renzi fosse un amico e se lo ritrovano avversario. Pensavano che fosse cambiato il mondo e lo vedono a braccetto con Verdini e Marchionne. Non era facile, in questa Italia annichilita, rassegnata a una povertà di massa e a una nuova solitudine, scegliere di partire, giungere fino a Roma per mostrarsi, farsi sentire e finalmente farsi contare. Provi Renzi adesso a riempire piazza San Giovanni così.
“Respect”, diceva il cartello di un manifestante. Ecco, è parso che questo governo non abbia rispetto per il suo dolore e per i suoi diritti e non abbia alcuna connessione sentimentale con le sue passioni, la sua storia, la sua memoria, il modo stesso di intendere la vita. Eppure il Partito democratico è nipote di quel Pci (mai così tante bandiere del partito di Berlinguer come ieri) a cui ha preso molto e restituito niente.
Dire, come fa Renzi, che la piazza non troverà ascolto, mettere questi operai al pari dei tecnocrati che hanno dominato la politica e contribuito ad aggravare la crisi economica, è molto più di un affronto. È una analisi rozza che denota insieme l’identità e l’alterità del personaggio, la sua estraneità a un mondo anche grazie al quale egli è a Palazzo Chigi. Far rispondere dalla Leopolda a questo evento così politico, così popolare e così imponente al finanziere Davide Serra, magari esperto in subprime e derivati, sembra puro sfottò.
Ma la piazza, il premier lo imparerà presto, conta molto più delle sue slide colorate.

il Fatto 26.10.14
Visti da lontano Il segretario confederale
“Leopolda? Non ci piacciono gli Ogm”
di  Sal. Can.


Le sembra allegra questa piazza, allora? “Sì, molto”. Susanna Camus-so non ha dubbi. L’aveva detto alla vigilia che il successo della piazza si sarebbe misurato dalla sua allegria. E così è stato. Con lei parliamo poco prima del comizio finale, appoggiati alla balaustra che circonda il grande palco di Piazza San Giovanni. Oggi si concede molto ai fotografi, ai selfie, alle foto di gruppo.
delegate Cgil Napoli e le consegnano, un po’ emozionate, la maglietta con su scritto: “Matteo sta’ senza pensiero”. Citazione tratta da Gomorra e versione folkloristica di “Enrico stai sereno” coniato proprio dal presidente del Consiglio. La Cgil ha voglia di stare al passo del tempo. Lo si capisce quando Rosita, Giacomo e Giulia, i tre giovani chiamati a condurre il palco, presentano il segretario generale per il comizio. Prima che lei arrivi parte il video con l’imitazione fatta da Maurizio Crozza. Una concessione all’autoironia che piace molto alla piazza. Come se alla narrazione renziana occorresse rispondere ad armi pari. Ma guai a parlare di Renzi.
Questa piazza è dunque alternativa alla Leopolda?
È come mescolare le mele con le pere. A noi non piacciono i pasticci né gli organismi geneticamente modificati.
Le mele stanno con le mele e le pere con le pere? Come ci insegnavano da ragazzi?
Esattamente, l’esempio è quello.
Le sembra quindi una manifestazione riuscita?
Certo, non c’è nessuna cupezza o autorefenzialità. Siamo una parte significativa del paese.
Lei ha accusato Renzi di essere come Margareth Thatcher. Ma non temete voi di fare la fine che fecero i minatori inglesi e il loro leader Arthur Scargill?
No, noi non siamo Scargill. La nostra non è una vicenda di minatori chiusi e sulla difensiva. Qui c’è un pezzo del paese.
La Cgil si è sempre data l’obiettivo di uno sbocco politico.
Certo, bisogna darselo sempre, anche ora.
Questo significa che continuerete a insistere e pressare il governo. Non pensate che lo spazio che Renzi è disposto a concedervi sia praticamente inesistente?
Ma oggi è solo l’inizio.
Non le sembra che questa piazza chieda molta politica?
Questa piazza chiede innanzitutto delle risposte.

il manifesto 26.10.14
Il capitale della sinistra
di Norma Rangeri

qui

il Fatto 26.10.14
Ultimi appigli. Il rosso che si ritrova
Il popolo apolide inneggia a Landini
di Antonello Caporale


Sfilano gli apolidi della sinistra con le bandiere rosse in mano ma senza più un partito, un leader, un’idea a cui appenderle. La sinistra esiste ma non ha casa e oggi è popolo senza terra. Sono qui a contarsi come dopo quei cataclismi. Si toccano, si riconoscono: sono ancora vivi, nonostante la tombinatura renziana. Ondate di calore sommergono Maurizio Landini. Lui è il futuro? Lui potrebbe essere il leader? “Ma serve a noi, alla Cgil. Dopo Camusso c’è Maurizio, mi sembra chiaro”, annuncia Luciano, metalmeccanico di Carpi. Non è tutta la sinistra italiana questa, ma insomma è una buona rappresentanza. I soliti comunisti marxisti, i leninisti che ancora distribuiscono “Che fare”, poi gli altri di Rifondazione, infine il gruppo di Nichi Vendola. Gli organizzati rappresentano una quota di minoranza, sono gli altri, i berretti rossi della Cgil, le mamme di Padova, gli operai di Venezia, i nonni bresciani a non avere più la carta di identità.
“CHI SONO? Non lo so più. So che Renzi ci sta asfaltando con una inimicizia che mai avrei immaginato. Sembra proprio che gli stiamo sulle palle, guarda tu il destino. Quello lì si trova più a suo agio con Berlusconi che con noi. Di noi se ne fotte, siamo la società debole, antica, superata. Siamo la fotografia del Novecento, lui corre con le start up. Chi glielo dice che non ha capito niente? Che l’aziendina di internet fa un baffetto a quell'artigiano di Vicenza, quello lì lo vedi?, che con le serrande dà lavoro dal 1970 a dodici famiglie. Un salario tutti i mesi, sia in inverno che in estate. Oggi va di moda il cachemire, ma gli italiani hanno bisogno della lana. Per questo non mi piace Renzi, è troppo superficiale, un bamboccione che arrotola le maniche e gioca con la nostra vita”. Vincenzo, classe 1958, delegato di fabbrica a Torino, poi cassintegrato, poi prepensionato, poi esodato. Dal lavoro e dal partito. “Con che coraggio potrei votare Pd? Sarei un pazzo”. E che si fa dunque? Ci incamminiamo per piazza Vittorio, i vigili chiedono di alleggerire la pressione su via Merulana e sbucare a San Giovanni da sud. Matteo, da Palermo: “Sono metalmeccanico, ho un contratto di un mese. Un mese capisci? E quello parla di garantiti”. Ci vorrebbe qualcuno che rappresentasse le ragioni di Matteo, e che organizzasse le sue idee.
ALTRO MATTEO, studia a Pisa: “Ho votato Renzi, se non vanno le cose la colpa è della burocrazia. Lui fa quel che può. Però oggi bisognava esserci, anche per scoprire una cosa nuova”. Eccola la novità. Sono le bandiere del Pci, il partito di Enrico Berlinguer, lo conosci? “Ne ho sentito parlare, dicono che sia stato un brav’uomo, un grande leader”. “Grande? Grandissimo! ”. Sembra Crozza che fa la parodia di Landini, invece è Enea, portuale di Genova. “Un leader come lui e tornerei scalzo a Genova”.

il Fatto 26.10.14
“E adesso una nuova sinistra”
di Sandra Amurri


GIOVANI, PRECARI, DISOCCUPATI CHE NON HANNO CAMBIATO VERSO, CON LE BANDIERE ROSSE IN PIAZZA: “ABBIAMO LA TESSERA DEL PD, SIAMO LA BASE E STIAMO ACCANTO AI LAVORATORI”

Sono giovani e forti: e son vivi, più che mai. “Ho la tessera del Pd, oggi ho inviato un tweet a Renzi per dirgli che la base del partito è tutta qui per stare accanto ai lavoratori” dice Alessio, 24 anni, aquilano. Mara, 21 anni, è partita da Messina ieri con il pullman: “Renzi dovrà ascoltarci, vedete quanti siamo? ” “Io ho votato Sel, speravo che spostasse il Pd a sinistra, che delusione! ”, Lucia arriva da Palermo. Eccolo, eccolo, grida Marco, 25 anni, studente al secondo anno di Lettere a Bologna, nel vedere sbucare Maurizio Landini con Hartwig Erb, segretario di Igm, la Fiom tedesca. “Siamo con te, avanti così, sei il nostro orgoglio”. Perché ti piace così tanto Landini? “Perché è una persona seria, credibile, quando parla senti che le sue parole hanno un peso e ti puoi fidare”. Anche Renzi è un grande comunicatore: “Sì, del nulla”, replica secco.
Ore 11, piazza San Giovanni è già gremita. Il corteo è ancora lungo. Un ragazzo che indossa la maschera di Renzi, cammina stringendo la mano all’amico che indossa quella di Berlusconi. Renzusconi, eccola la fotografia del comune sentire che anima la manifestazione. Una intera famiglia: mamma, papà e due bimbi che indossano una pettorina con su scritto: “Maledetti toscani”, dal saggio di Curzio Malaparte. “E il riferimento a chi sta in ritiro alla Leopolda non è casuale”, spiega Luca mentre il bimbo sul passeggino si stropiccia gli occhi assonnati. Sono partiti in pullman all’alba da Firenze. Come Maria, sveglia dalle 2 di notte per raggiungere Roma dalla Calabria e sorreggere lo striscione: “La vera lotta da fare è alla corruzione e all’evasione”. In testa una corona d’alloro e il cartello: “Laureata disoccupata, per fortuna che nonno c’è”. Seguono le donne “pacco”, lavoratrici nel settore agroalimentare. Sfilano dentro barattoli di cartone di pasta, pelati e latte, ingredienti: tutele 25%, dignità 25%, qualità 25% e diritti 25%, totale 100 per cento lavoro. “L’articolo 18 è un baluardo che non va cancellato”, spiega Amelia. Dalla Leopolda il deputato renziano Davide Faraone dà degli ingrati ai manifestanti: “Mi sarei aspettato una piazza con i manifesti ‘viva Renzi’ con tutti i soldi previsti dalla legge di Stabilità”. “È vero, dovremmo essere grati a Renzi per essere riuscito a fare o’ miracolo di riportare il Paese in piazza” è il commento di Stefano, 35 anni, disoccupato di Napoli. E ai rottamatori che accusano la Cgil di essere un luogo di conservazione, risponde Francesca, 45 anni, precaria: “Conservatori sì, ma di coraggio”. Alla Leopolda si crea lavoro, dice Renzi. Là ci sono gli imprenditori. “Che senza di noi non sarebbero tali”, è il commento sarcastico di Maurizio, caschetto azzurro Ast-Terni. La quota rosa di governo, Maria Elena Boschi, da Firenze si dice “felice anche del successo di questa manifestazione”, dovrebbe far piacere qui in piazza. Si sovrappongono le voci di risposta delle operatrici di un call-center di Palermo: “Noi, invece, non siamo per niente felici di loro, magari bastasse essere donne per stare sulla stessa barca, la nostra sta affondando”. “Hanno distrutto la nostra ricchezza, il nostro orgoglio”, a parlare è Massimo, 30 anni, pugliese di Manduria, dopo il diploma da perito agrario, avrebbe voluto continuare a lavorare la terra arata prima da suo nonno, poi da suo padre, invece, per sfamare i figli, è dovuto emigrare in Germania. “Oggi sono qui per riconquistare il diritto a vivere del lavoro della mia masseria abbandonata”. “Nessun dorma... ”. Le note della Turandot di Puccini interpretata sul palco dai lavoratori licenziati del Teatro dell’Opera di Roma arrivano tra i manifestanti e suscitano lacrime di commozione. “È una grande giornata, ma se da qui non rinascerà la sinistra, sarà una occasione mancata”. È il leit motiv della piazza che applaude la Camus-so e guarda a Landini come al salvatore: “Lui è il solo capace di riunire e rinnovare la sinistra in un Paese che ha bisogno di crescere con il lavoro e la scuola” dice Maria, 40 anni, moglie di uno dei 576 operai della Thyssenkrupp di Terni, con la preoccupazione di dare un futuro ai suoi due figli adolescenti.

il Fatto 26.10.14
S. Giovanni era vuota, poi Matteo ha mandato gente dalla Leopolda
di Paolo Hendel


DISPIACE per Susanna Camusso, ma bisogna essere onesti, anche se in questo Paese dell’onestà non è mai importato niente a nessuno e anzi a essere onesti si fa pure brutta figura.Però,ecco,va detto: la manifestazione di ieri della Cgil è stata un colossale flop. Forse non tutti conoscono i retroscena , ma la verità è che in piazza San Giovanni non si era presentato quasi nessuno. Come mai, allora, la Cgil ha dichiarato che ieri a Roma c’erano un milione di persone? Ha forse mentito? No. Quelli della Cgil non mentono mai. Il merito di una così numerosa presenza è stato tutto di Renzi. Il nostro benamato premier, informato in tempo del clamoroso insuccesso di Camusso e soci, si è mosso a compassione e ha mandato a Roma sette/ottocento mila persone. Dove le ha rimediate? Ma è ovvio: alla Leopolda. Lì di gente ce n’era fin troppa e un milioncino in più o in meno non avrebbe cambiato nulla. Così Matteo ha dato ordine ai suoi fedelissimi di caricare su pullman e treni i partecipanti in eccesso, escludendo esponenti della finanza residenti alle Cayman, dirigenti di grandi banche, industriali o parenti di Oscar Farinetti. Insomma, un bel po’ di poveracci qualunque. E poi dicono che Renzi odia i sindacati. Tutt’altro! Tant’è che Matteo, proprio ieri sera, ha dato ordine di aprire un tavolo in più alla Leopolda dedicato alla Cgil. Luca Lotti si sta procurando un bel tavolo in legno massello e appena pronto lo aprirà sulla schiena dei primi sindacalisti che gli capiteranno a tiro.

La Stampa 26.10.14
La minoranza del Pd in corteo, più di lotta e meno di governo
La Bindi: Leopolda imbarazzante. Serracchiani: non capite
di Francesca Schianchi


Manca poco all’arrivo a piazza San Giovanni quando il drappello di parlamentari Pd incrocia un manifestante di Avellino. «Cuperlo, siamo gli ultimi dei mohicani!», apostrofa l’ex sfidante di Renzi alle primarie, sorridente quando gli chiedono una stretta di mano («Così il Pd non va bene», sospira una signora; «tutta colpa di chi ha perso le primarie contro Renzi…», è autoironico), ma anche quando qualcuno gli urla «cosa venite a fare se poi votate tutto» («non è detto…», risponde). Qualche passo ancora e il manifestante incontra Stefano Fassina, per mano al figlio di 4 anni: «Fassina!», lo riconosce. Lo abbraccia, si commuove: «Non dico di pugnalarlo alle spalle Renzi, ma qualche pugnalata…», gli chiede; «… a viso aperto», conclude Fassina, mentre quello gli spiega che è un ex iscritto Pd.
Capita così, lungo il corteo della Cgil affollato di democratici. Cuperlo, Fassina, Civati, alla partenza c’è pure Rosy Bindi che definisce «imbarazzante» la Leopolda (e dopo si scontra sugli schermi di Sky con la vicesegretaria Serracchiani, quando le dice di non aver visto «nessuna manifestazione organizzata dal Pd», e lei la accusa di «ignoranza su ciò che stiamo facendo»). Ci sono la deputata Monica Gregori che stoicamente fa tutto il corteo in stampelle, l’ex ministro Barbara Pollastrini, il bersaniano Alfredo D’Attorre. Sfilano in mezzo a operai, pensionati, cassintegrati, in mezzo a cori contro il premier, robe tipo «Renzi, Renzi vaffa…» o «chi non salta come Renzi è». Nessun imbarazzo? «E’ normale che in una piazza ci siano pulsioni anche radicali», minimizza D’Attorre, «e Renzi c’ha messo del suo per esasperare i toni…». Fassina inverte i pesi: i cori contro il suo segretario non lo imbarazzano, lo «preoccupano», perché «qui sta un pezzo del popolo del Pd. Si rischia una frattura profonda tra chi è qui e il partito: senza questa piazza il Pd non è più il Pd».
E sono parole come queste a evocare l’eterna suggestione di una scissione, di un altro partito a sinistra del Pd. «Spero e credo che non ci sia questo rischio», dice Cuperlo, e no, non se ne parla, garantiscono altri dem presenti, da Damiano a Cofferati a Epifani. Epperò i toni si alzano. «Essere in piazza con la Cgil e poi votare con il governo è una cosa da Dottor Jekyll e mister Hide», attacca il renziano Faraone: e infatti Fassina già fa sapere che il Jobs act, se resta così, lui non lo vota, «anche se c’è la fiducia». Civati attacca la Leopolda, «sembra una convention di turisti della destra repubblicana americana» e sul rischio scissione «così non reggiamo», ma «la spaccatura la vuole solo Renzi». Lungo il corteo in tanti li spronano: «Non votate quella legge». «Continuiamo la battaglia», promettono. Dove li porterà, ancora non si può saperlo.

La Stampa 26.10.14
Io verrei, non verrei ma se vuoi...
Dubbi e scuse, per i Democratici la difficile scelta tra le due piazze
di Mattia Feltri


C’è chi va, c’è chi viene, chi verrà. Forse. Per esempio c’è Cesare Damiano, per il quale la manifestazione della Cgil non è «contro questo o quello», è una manifestazione e basta. Infatti lui alla Leopolda ci potrebbe anche andare: c’è chi va, c’è chi viene, c’è chi verrà, e Damiano alla Leopolda conta di andarci, ma il prossimo anno e «se sarò invitato». Dunque non c’è incompatibilità fra un posto e l’altro, oppure l’incompatibilità c’è: dipende da chi parla. Ma, accidenti, si corre lungo il sottile filo logico che produsse, tempo fa, l’appassionante dibattito attorno al centrosinistra (o centro-sinistra), se fosse da scrivere con o senza trattino. Prendete questa conversazione fra Matteo Renzi, che ovviamente c’era, e il semi-contestatore Matteo Richetti, che è andato. «Bentornato», ha detto Matteo uno. «Non me ne sono mai andato», ha risposto Matteo due. Purtroppo alla fine non arriverà mai Stefano Fassina, che ieri era a San Giovanni con la Cgil e, come molti sanno, stamattina è allo zoo coi figli, «altrimenti sarei andato». Ma insomma, la disponibilità c’era e però è una disponibilità irrisolta e soprattutto non condivisa da Pippo Civati, che ieri non c’era ma c’era cinque anni fa, alla prima Leopolda. Adesso alla Leopolda non va più perché «le parole di Renzi sembrano quelle di Berlusconi», però viceversa sarebbe stato ottimo: «Renzi dovrebbe venire qui (a San Giovanni), se vuole alla stazione Termini vado a prenderlo io». Ci si sperava, ma niente. «Io lo avevo invitato, ma non è venuto», ha detto a sera Civati in risposta a Renzi che nel pomeriggio aveva detto: «La Leopolda è casa di Civati, ci venga».
C’è un po’ di mal di mare? E non è ancora finita. C’è chi ci sarebbe andato - alla Leopolda - se... Se un sacco di cose: se non ci fosse così tanta gente, come ha detto Arturo Parisi; se non fosse la prima manifestazione post-Pd, come ha detto Rosi Bindi. E c’è chi sarebbe andato nel senso opposto, dalla Leopolda a San Giovanni «se non fosse che oggi dobbiamo portare a casa la riforma del lavoro e la legge di stabilità», e questa è dell’europarlamentare Simona Bonafè. C’è chi alla Leopolda ci andrà oggi se nel frattempo Renzi non sarà andato dai disoccupati di Terni, e questo è il sindacalista umbro Stefano Garzuglia. C’è chi alla Leopolda non ci va perché spera che la Leopolda venga a lui, e questo è il radicale piemontese Igor Boni: «Servirebbe una Leopolda anche in Piemonte». Come venire fuori da una simile matassa di sfumature? L’idea giusta sarebbe di affidarsi a Gennaro Migliore, che da super castrista qualche settimana fa è andato al Leone Bruni, istituto super liberale, a sentire Mario Vargas Llosa, super nemico di Castro; sono i prodigi della politica italiana, e infatti Migliore ieri era col corpo alle Leopolda («è il momento di stare con Renzi») e col cuore a San Giovanni («ho aderito alla manifestazione»). Ma per uscire dalla teoria, perfetto sarebbe stato Guglielmo Epifani, alla mattina con la Cgil e al pomeriggio («perché no?», aveva detto) alla Leopolda. Poi purtroppo non lo si è visto, forse perché nessuno s’era eccitato all’annuncio: io verrei... non verrei... ma se vuoi...

il Fatto 26.10.14
“Renzi Renzi vaffanculo” Fassina e Cuperlo sfilano
di Fabrizio d’Esposito


NELLA PANCIA DEL CORTEO GLI SLOGAN SONO TUTTI CONTRO IL SEGRETARIO PD I DIRIGENTI DEMOCRATICI SI GIUSTIFICANO : “UN PEZZO DI PAESE È ARRABBIATO”

Stefano Fassina arriva al millesimo selfie, seguito da stretta di mano e pacca sulla spalla, “Stefano non mollare”, quando i compagni della Fiom di Varese intonano il coro della nuova resistenza: “Abbiamo un sogno nel cuore/ Renzi a San Vittore”. Dove per San Vittore è da intendersi il carcere storico di Milano. Fassina prosegue con lo sguardo dritto. Un paio di metri più dietro c’è Gianni Cuperlo. Due giovani del servizio d’ordine, con tanto di fascia al braccio, sorvegliano a vista lui e Fassina. Cuperlo viene attorniato da un gruppetto di esodati. “Noi siamo veri, non finti”. A Cuperlo viene rinfacciato il voto a Palazzo Madama contro l’articolo 18. Lui ribatte, in quanto deputato, non senatore: “Io non l’ho votato”. Finisce con una foto, tutt’insieme, sotto lo striscione degli esodati.
La goccia democrat nel mar rosso di Roma
Alle 8 e 45, tre quarti d’ora prima della partenza, piazza della Repubblica, più nota col nome fascista di piazza Esedra, è una distesa immensa di un solo colore. Cgil, Pci, Cobas, Rifondazione. I deputati del Pd sono una decina. Una goccia nel mar rosso che bagna Roma, in una meravigliosa giornata di sole. I già citati Fassina e Cuperlo, poi Alfredo D’Attorre, nuovo volto bersaniano, Barbara Pollastrini, Roberta Agostini e una stoica Monica Gregori, che farà tutto il percorso, fino a piazza San Giovanni, con una stampella. Pippo Civati, a conferma delle divisioni della minoranza del Pd, perde subito il contatto con il resto dei colleghi. “Cuperlo e Fassina dove sono finiti? Non li vedo più, li ho persi”. Su un camion, una gigantesca “cassa” diffonde un’imperiosa voce di donna: “In questa piazza ci vuole coerenza, qui i senatori del Pd che hanno votato contro l’articolo 18 non sono graditi”. Sono le 9 e 55. L’avanguardia del corteo sta svoltando in piazza Santa Maria Maggiore, per imboccare il tratto verso San Giovanni.
’O rottamatore bamboccione e i cori contro il premier
Ma il Jobs Act non è l’unico macigno che appesantisce il cammino dei deputati del Pd, nuovi cirenei di sinistra nell’anno primo della luminosa era renziana. La croce che inchioda il passo e lo rende faticoso e lento è lo stesso Renzi. L’avversario, anzi il nemico è lui. Ieri il Pregiudicato. Oggi lo Spregiudicato. “Renzi, Renzi, vaffanculo”. “Renzi, Renzi, vaffanculo”. È un popolo che vota in maggioranza per il Pd e che nell’ultimo sabato d’ottobre scandisce slogan contro il proprio segretario, peraltro inquilino di Palazzo Chigi. “Renzi, la senti questa voce: vaffanculo, vaffanculo”. I cori variano i motivetti musicali, non la sostanza. “Fassina non le fa effetto camminare sentendo questi cori? ”. “Certo che mi fa effetto, ma questa è una piazza arrabbiata che va ascoltata e compresa”. Più tardi, quando il corteo è finito e sul palco si alternano interventi e video, Fassina in una delle decine di interviste rilasciate dice: “Manifestazione contro Renzi? È una lettura sbagliata”. La decina del Pd, che comprende anche Guglielmo Epifani, Rosy Bindi e Cesare Damiano, è testimone oculare di uno strappo enorme tra questa piazza e la Leopolda. Altra scena. Alcuni operai napoletani raggiungono Cuperlo. “Gianni non votare contro l’articolo 18, te lo chiedo in ginocchio”. Cuperlo: “Non c’è bisogno di inginocchiarsi”. Un secondo dopo si alza un urlo primordiale. “’O rottamatore bamboccione addo stà? ”. “Il rottamatore bamboccione dov’è? ”. La risposta arriva da un altro urlo: “Viciè miettec ’o pesce in mano”. “Vincenzo mettigli il pesce in mano”. Dove il “pesce” in questione non è in senso ittico.
Il pianto del compagno sul petto di “Stefano”
L’ineluttabilità del dramma in corso tra la piazza rossa e la Leopolda senza colori avviene lontano dagli occhi del corteo. In via Tasso, laddove i nazisti torturavano i partigiani durante l’occupazione della Capitale, il servizio d’ordine invita i parlamentari del Pd a “tagliare” e abbreviare la parte finale del percorso. Fassina è raggiunto dalla moglie Rosaria, che ha in mano la bandiera della Cgil di Vicenza. Ci sono i due figli piccoli, Cecilia e Livio. Domani, per loro, dovrebbe essere il giorno dello zoo, in riferimento all’ormai nota risposta di Fassina all’invito della Boschi alla Leopolda. Oggi Cuperlo fa una foto all’intera famigliola ritrovatasi. A quel punto passa un anziano signore. Grida: “Gianni siamo gli ultimi mohicani”. Poi: “Oh, qua c’è pure Fassina”. L’anziano abbraccia Fassina, poggia il capo sul suo petto e scoppia in lacrime. È un pianto che dura più di un minuto. Anche Cuperlo partecipa all’abbraccio. L’anziano si asciuga gli occhi. “Sono Iannacchero Antonio, vengo da Avellino, sono un pensionato della Cgil e ho votato Pd fino al 2013. Adesso sono di Sel”. Rivolto a Fassina: “Tu sei una persona perbene. Mi devi promettere che a quello gli dai una pugnalata in fronte. Quello è un uomo di merda”. Ecco il punto: come far rimanere questo popolo nel recinto del Pd renziano?
L’assenza di Bersani e il tormento della scissione
Il fondamentale quesito tormenta la minoranza del Pd più del sole di questa mattinata. Tutti ripetono lo stesso ritornello: “Questo popolo è del Pd”. Ma gli assenti pesano. Bersani non c’è. Orfini, giovane turco, è in Cina. Mancano il capogruppo della Camera, Speranza, e i bersaniani della segreteria. Dice D’Attorre: “No, non ho sentito ancora Bersani. Non venendo, lui si è incaricato dell’unità del partito, a differenza del segretario”. L’obiettivo della “Ditta” rosso antico, Civati a parte, è quello di riprendersi il partito, non di andarsene. Per il momento la prossima trincea è il Jobs Act a Montecitorio. Il sussulto finale è di Cuperlo: “Oggi andrò a vedere Leop... ”. Silenzio. “Oggi andrò a vedere Leopardi al cinema”. La Leopolda è a una distanza siderale, non a un’ora e quarantacinque di treno.

Corriere 26.10.14
Fassina e Cuperlo alzano il tiro «Voteremo no al Jobs act»
Tra Bindi e Serracchiani litigio in diretta tv sulle due anime pd
di Monica Guerzoni


ROMA « Se uno di noi si smarca, si apre un caso disciplinare. Se siamo 40 o 50 e come me non votano Fassina, D’Attorre, Cuperlo, Damiano e altre personalità, è un segnale molto diverso». Sotto al palco della Cgil — mentre la Camusso spedisce alla Leopolda parole di sinistra come diritti, dignità, uguaglianza, libertà — Pippo Civati progetta lo strappo sull’articolo 18: «Spero che le varie anime della minoranza trovino una posizione comune in Parlamento».
Nella storica piazza riconquistata, prove di unità a sinistra. Stefano Fassina mostra di crederci: «No alla scissione, ma lavoriamo per costruire un’alternativa». La forza e la voce che fino a ieri non avevano, i dissidenti sentono di averle trovate in quel milione di persone e bandiere rosse, che ha visto sfilare anche Cofferati, Epifani, Damiano, Barbara Pollastrini. «La minoranza è caricata da questa straordinaria piazza — conferma Fassina —. C’è anche chi ci spinge alla rottura».
L’imbarazzo per la defezione di Bersani, Speranza e compagni è forte, eppure l’opposizione si prepara a offrire alla folla arrabbiata di San Giovanni una risposta all’altezza delle richieste. Cgil e Fiom annunciano una lunga stagione di lotta, fino allo sciopero generale e oltre? E la minoranza, da una piazza che fischia al nome di Renzi e grida «vaffa» contro il premier, si prepara a combattere. «Con noi dovranno fare i conti», avverte Maurizio Landini. Legge di Stabilità e Jobs act sono le frontiere sulle quali bersaniani e dalemiani indosseranno l’elmetto, pronti anche a bocciare alla Camera la delega del lavoro pur di «riportare il Pd sulla retta via», per dirla con Alfredo D’Attorre.
«Così com’è, io non la voto» ribadisce Fassina. E anche Gianni Cuperlo si sgancia dalla sinistra che alza la voce e poi si acconcia, per attestarsi sulla linea dura: «Senza questa piazza non c’è il Pd e io mi batterò in Parlamento perché venga ascoltata, non contro il governo ma nell’interesse del Paese». E se la delega resta com’è? «Di certo non la si può votare». Renzi lavora per scrivere nello Statuto che, chi non gli vota la fiducia, si mette fuori. Ma ora i dissidenti si mostrano pronti a correre il rischio. D’altronde Fassina lo aveva detto, quando a Palazzo Madama la sinistra si turò il naso e diede il via libera: «È l’ultima volta, la prossima otteniamo cambiamenti importanti oppure non votiamo».
Gli emendamenti bocciati al Senato saranno ripresentati e Pippo Civati ha chiara la traiettoria, o Renzi salva l’articolo 18 per i licenziamenti disciplinari o la minoranza non la vota: «Bisogna decidersi. Non si può più essere contro e al tempo stesso mediare. Rischiamo di consegnare il Pd a Berlusconi». Come voterà sul Jobs act? «Il testo non sarà modificato, quindi mi asterrò sulla fiducia e voterò contro la delega». Col rischio di finire fuori dal Pd? «Quando ci sarà il nuovo Statuto vedremo, se e come si concilia con l’articolo 67 della Costituzione sulla libertà di mandato». E Fassina, intestando ai renziani il fantasma dei 101 franchi tiratori: «La disciplina di partito è saltata nell’aprile del 2013, quando chi oggi la invoca votò in moto difforme sul Quirinale». Due anime diverse, ha detto Renzi. Due anime destinate a litigare come ieri, in diretta tv, Rosy Bindi e Debora Serracchiani. Su Sky Tg 24 la presidente dell’Antimafia definisce la Leopolda «una contro-manifestazione imbarazzante del post Pd». E la vicesegretaria: «Prendi atto che il Pd è diventato qualcosa di diverso da quello a cui eri abituata ».

il manifesto 26.10.14
Dissidenti Pd
Pochi fischi, ma un coro: «Stavolta non votatelo»
Democrack. Minoranze Pd in corteo. E dagli striscioni partono le richieste. «Cuperlo, guanta duro», «Fassina, lascia Renzi», «Sveglia, siamo gli ultimi mohicani»
di Daniela Preziosi

qui

La Stampa 26.10.14
Leopolda
Migliore già arruolato tra i leader


È iscritto al Pd da una manciata di ore, ma Gennaro Migliore, ex deputato di Sel, già coordina tavoli alla Leopolda. Ieri gli è toccato quello sulla «carta dei diritti digitali» (nel curriculum migliorista risulta un iPhone6). Nel frattempo, però, Migliore si ritaglia una sua identità, e quale modo più adatto se non quello di criticare l’ex partito? I vendoliani hanno prodotto un’interrogazione per fare chiarezza sui finanziamenti alla Leopolda, ma lui ha spiegato che «se qui ci fossero problemi di opacità, non ci sarebbe Raffaele Cantone».
[D. A.]

il Fatto 26.10.14
Serra spara sullo sciopero
Renzi-Cgil non finisce qui
di Wanda Marra


IL FINANZIERE INVOCA LIMITAZIONI AL DIRITTO AD ASTENERSI DAL LAVORO IL PREMIER: “A ROMA UNA BELLA MANIFESTAZIONE, MA PER IL PAESE DECIDO IO”

Ho fatto domanda per la tessera del Pd a Londra. Mi piace la Leopolda perché non è né di destra né di sinistra. E sì, questo Pd lo finanzierei”. Leopolda edizione 2014, la guest star è Davide Serra. Quello che nel 2012 Bersani chiamava “bandito” perché il fondo Algebris, con il quale gestisce circa un miliardo di euro, ha la sua sede alle isole Cayman, un paradiso fiscale. Sono passati due anni e adesso sembra lui il vero padrone di casa. Tavolo coordinato in mattinata, folla di telecamere che lo seguono in continuazione. Nulla di più lontano da Roma, dove c'è la manifestazione della Cgil. In piazza, la minoranza Pd. L'altro Pd? Il vecchio Pd? Il Pd autentico?
Matteo Renzi arriva di mattina presto alla Leopolda, sale sul palco. Niente bandiere di partito, come da tradizione. Mette se stesso di fronte alle telecamere per contrapporsi mediatica-mente alla piazza. Che in realtà è piena ed imponente. La linea ufficiale è quella che ripetono un po' tutti a Firenze, la Boschi in testa: “Grande rispetto per la manifestazione”. Ma ci pensa sempre Serra a rompere la pax apparente: “Il jobs act? L'avrei fatto più aggressivo. Il diritto di sciopero? Lo limiterei”. Il crinale è delicato. È lo stesso Renzi a chiedere alla neodeputata Silvia Fregolent, che presenta dal palco, di correggere la linea: “Il diritto allo sciopero è un diritto costituzionale". Il premier non vuole andare alla guerra esplicitamente. Visto che la guerra è nei fatti: nessuna intenzione di fare passi indietro, come chiarisce in serata, dando al Tg3 la linea ufficiale: “Ci confronteremo, poi andremo avanti: una piazza non può bloccare un Paese". Al solito, il nemico gli piace. E stavolta gli piace di più: può esibire alla Merkel come controprova delle sue riforme, che la gente va in piazza a protestare contro di lui. Anche se poi alla Leopolda molti sono (e sono sempre stati) sulla linea di Serra: “Avrebbe un senso limitare il diritto di sciopero agli statali, ma non si può dire”, i commenti. “Un milione? Chissà se erano così tanti”, dice il premier ai suoi.
MA LA FOLLA di San Giovanni in realtà stride con una Leopolda di governo, più stanca delle altre. Il garage alla Steve Jobs sul palco, più di 100 tavoli tematici, le interviste rimandate sui maxi schermi. Passarella di ministri che coordinano i tavoli (Madia, Boschi, Delrio, Pinotti, Franceschini). Interventi dal palco di imprenditori vari (da Patrizio Bertelli di Prada al re del cachemire Brunello Cucinelli). “In questa Leopolda è persino difficile entrare per questioni di sicurezza”, commenta un giovane deputato. Renzi è stato chiarissimo: “Dobbiamo fare un reset di quello che siamo stati fino a qui”. Leopolda rottamata? “La Leopolda è come uno specchio che ci costringe a ricordarci l'ideale della nostra giovinezza. Ma vogliamo cambiare l'Italia, non noi stessi”. Sotto al palco, l'umore è altalenante. “Non servono a niente questi tavoli. I documenti prodotti l'anno scorso sono rimasti dov'erano”, dice anche chi li conduce. Entusiasmo per il deputato emiliano Matteo Richetti, pungolo critico rispetto al governo, anche da parte di chi non si riconosce fino in fondo nel renzismo di oggi. Lui tiene la linea: “Alla Leopolda e non in piazza perché Renzi lo accoglie con un: “Bentornato vecchio”. L'altro: “Mai andato via, vecchio”. Pif a Renzi gliela mette così: “Quando ti vedo con Verdini mi vengono i brividi”. Il segretario-premier va avanti sparato. Sale e scende dal palco, e sta al telefono tutto il giorno con Padoan. Fa l'animatore, il dee-jay, come ha sempre fatto nella vecchia stazione fiorentina. Questa sarebbe casa sua, ma si vede che ha la testa altrove. Sembra più nervoso che su di giri. Si lascia andare ai progetti sul futuro: “Non penso di fare più di due mandati”. Tradotto: pensa di restare fino al 2023. Le polemiche da Roma rimbalzano per tutto il giorno. A sentir invocare la Bindi (che ha definito “imbarazzante” la Leopolda e per questo ha litigato con la Serracchiani in diretta Sky), il premier in serata al Tg3 si produce in smorfie. “Noi abbiamo bisogno di un Pd che possa discutere di idee diverse, ma non di chi semplicemente cerca di lavorare perché si costruisca un Pd che perde”. Insomma, che vadino e manifestino in pace. Poi, se vogliono, possono tornare. Ma lui va avanti come un treno. Come al solito.

Corriere 26.10.14
Arnaldo Forlani: «Renzi sembra il nipotino di Fanfani»

Il testimone storico di quasi quarant’anni di vita politica italiana si racconta a Milena Gabanelli. Domenica a Report l’intervista integrale, alle 21.45 su Rai3
qui

il Fatto 26.10.14
I “padroni” a Firenze
“Manca soltanto la destra americana”
di Davide Vecchi


LA BATTUTA DI CIVATI SINTETIZZA L’ATMOSFERA DELLA KERMESSE PIENA DI INDUSTRIALI

Si può sintetizzare con il riferimento di Pippo Civati, “mi sa che c’è anche una delegazione della destra repubblicana statunitense”, o esplicitare con la crudezza del presidente dei Popolari, Mario Mauro: “Gli operai in piazza e i padroni alla Leopolda”. Le due immagini fotografano quasi fedelmente la seconda giornata della kermesse renziana, segnata dalla presenza di finanziari, imprenditori e manager. David Serra, Patrizio Bertelli, Aldo Bonomi, Brunello Cucinelli, Andrea Guerra, Vincenzo Novari. E tanti altri delle pmi che rappresentano il capitalismo pulviscolare di Matteo Renzi. Poi ci sono i dirigenti amici come Fabrizio Landi, finanziatore della fondazione Open per 75 mila euro, oggi nel cda di Fin-meccanica, l’immancabile Marco Carrai, nel cda di Open con Luca Lotti e Maria Elena Boschi, nonché presidente di Aeroporti Firenze.
C’È ALBERTO BIANCHI, avvocato di Renzi e Carrai, anche lui nel cda della fondazione dell’ex rottamatore di cui è presidente e tesoriere, da pochi mesi entrato in Enel. O Marco Seracini, commercialista di fiducia del premier nonché tra i fondatori nel 2007 dell’associazione Link, la prima creata ad hoc per raccogliere soldi finalizzati all’ascesa politica del boy scout di Rignano. E non è soltanto il parallelo con la piazza romana della Cgil a rendere più netti i contorni di quello che sembra un workshop Ambrosetti governativo, ma anche gli interventi e le dichiarazioni di quanti hanno preso la parola. Renzi dal palco annuncia la volontà di “combattere corruzione ed evasione” ma affida il tavolo dedicato al rilancio delle pmi italiane a Serra, finanziere con residenza a Londra dal 1995, gestore del fondo speculativo Algebris che controlla anche la Algebris Investiments Ltd, società di servizi correlata con sede alle Cayman, noto paradiso fiscale. Non ha partecipato ai lavori ma è intervenuto dal garage allestito come sfondo della Leopolda, Patrizio Bertelli. Il patron di Luna Rossa nel dicembre 2013 ha trovato un accordo con il Fisco a seguito di accertamenti chiesti dai pm di Milano, Gaetano Ruta e Adriano Scudieri, titolari del fascicolo per “omessa o infedele dichiarazione dei redditi”. Analizzando dieci anni di bilanci i magistrati hanno ipotizzato una elusione fiscale di 470 milioni di euro. Bertelli e la moglie, Miuccia Prada, hanno siglato un accordo transattivo che “ha soddisfatto le richieste delle autorità fiscali italiane”, ha spiegato.
La distanza con la piazza romana sembra ridursi quando sul palco interviene Raffaele Cantone, presidente dell’autorità anticorruzione: “L’Italia nelle classifiche sulla corruzione è al 69° posto: proviamo a risalire dimostrando che c’è un’Italia migliore”. Poi Pierfrancesco Diliberto, noto come Pif, passa a salutare Renzi e ricorda al premier che la legge del governo sull’autoriciclaggio è “effettivamente una minchiata”. Poi andandosene aggiunge che nel Pd “fin quando ci sarà spazio per gente come Crisafulli (indagato con l’accusa di associazione mafiosa) le cose non cambieranno” e ammette che in effetti quando vede Renzi con Verdini “mi viene un brivido”. Nel frattempo sul palco della Leopolda sale Aldo Bonomi, vicepresidente di Confindustria. Manager, imprenditore e da tre giorni con una richiesta di rinvio a giudizio con l’accusa di falso per induzione. Secondo la procura di Brescia nel 2009 Bonomi, insieme ad altre cinque persone, avrebbe falsificato alcune tessere e una serie di firme per vincere le elezioni dell’Aci. Elezioni che Bonomi vinse con la sua lista ma che, secondo il procuratore Claudia Moregola, sono state falsate distribuendo gratuitamente tessere ad amici e conoscenti. Oggi, ultimo giorno di Leopolda, Renzi chiuderà i lavori a fine mattina e poi correrà a Campi Bisenzio per celebrare i 150 anni delle Officine Galileo, insieme all’amministratore delegato di Finmeccanica, Mauro Moretti.

il Fatto 26.10.14
Gran derby Cgil-Leopolda
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, il confronto, anzi lo scontro Leopolda-Sindacati scatenerà giudizi opposti. Chi rappresenta che cosa per il futuro? Posso dire la mia? Si tratta di forze e di poteri diversi che non si incontrano e non si sommano. Due mondi, ciascuno per la sua strada.
Marcella
CERTO, I MESSAGGI sono diversi. La manifestazione di piazza San Giovanni (anche se mancavano gli altri sindacati, errore grave per i loro iscritti) rappresenta un popolo senza un partito. Chi raccoglierà, rappresenterà e sosterrà in tutti i modi il senso e i diritti del lavoro? Dove, in che sede, con quali voci, oltre a quelle che, per quanto appassionate restano sulle piazze e non intaccano il voto? La Leopolda (che adesso non ha più niente a che fare con “l’antemarcia” delle origini) è un partito più coordinato e organizzato di un’impresa, è la manifestazione senza improvvisazioni di un governo con molti elettori ma senza popolo. Leopolda è in parte meeting tipo Cl, in parte giovani imprenditori di Santa Margherita, che dice senza ascoltare (o finge di ascoltare attraverso una ordinata distribuzione degli incarichi a voci sicure), anticipa frammenti di governo, dedica tributi al governo, e si compatta a testuggine come una legione romana, in modo da rendere efficiente l’offesa e impenetrabile la difesa. Ho detto “un governo con molti elettori ma senza popolo” perché alla Leopolda (mi riferisco alle buone cronache di Sky) non si sente un alito di vento nel senso di partecipazione, speranza, lavoro insieme, reclamo dei diritti, difesa del mondo povero o debole o escluso o in pericolo, progetto sognato di un mondo diverso. La realtà, limpida e ben definita nella mente delle voci che si ascoltano nell’ordine voluto dalla regia, confina da una parte con “innovazione” (di cui non ci viene mai detto se è spirito, creatività o brevetto) e dall’altra con “mercato”, strano meccanismo che non si lascia gestire e neppure minimamente associare alla politica, ma all’improvviso ti sorride fino a illuderti e poi ti abbandona fino al crollo, lasciando ai commentatori dei vari settori di inventare le ragioni per fatti tanto enormi quanto inspiegabili (o gestiti da una mano davvero invisibile). In ciò che ho visto in televisione sulla Cgil mi è parso di capire che un crudo realismo domina questa piazza che è la vera vita del lavoro: nessuno si arrende, e tutti sanno che la difesa è estrema. In una bella lettera del giorno prima, Citto Maselli (che ha filmato con tanti altri registi il corteo) mi ha chiesto l’adesione, senza sapere che l’avevo data fin dall’inizio. Dalle sequenze televisive della Leopolda ho imparato che la regia svelta e implacabile di Renzi ha controllato l’evento, gli interventi, le inquadrature, i dettagli, e lo ha fatto in persona e in video, in modo che non ci fossero dubbi su chi comanda. Dalla cattiveria che la Serracchiani, vicepresidente della Renzi Corporation, ha dedicato a Rosy Bindi per le sue critiche caute, ho capito che non sono previsti ingressi di favore. L’operazione è come disboscare prima di costruire la nuova città. Renzi non è in cerca degli abitanti del vecchio quartiere detto Pd, considerati, più o meno tutti, salvo i convertiti, abusivi troppo a lungo tollerati. Renzi sta preparando i suoi Fori Imperiali e la sua Eur. Perciò non cerca un popolo, cerca elettori. Se possibile azionisti. Renzi è bravo, ma la storia non comincia con lui, considerata la precoce e bene indirizzata operazione di mosse verso il potere in cui quasi non ci sono errori. Perciò resta nella testa di molti inguaribili dietristi, la domanda: a parte Rignano, da dove viene Renzi? Chi lo ha mandato (complimenti)?

Il Sole 26.10.14
Tra la Leopolda e Piazza San Giovanni
Fassina, l'euro e l'ombra della scissione
Emilia Patta


«La Leopolda e piazza San Giovanni sono due Italie contrapposte, penso che sia una contrapposizione irriducibile. Poi si possono fare "le sedute spiritiche", come quelli che stanno alla Leopolda ma si sentono spiritualmente a San Giovanni». È naturale che il leader di Sel Nichi Vendola soffi sul fuoco democratico. Ed è naturale anche che faccia ironia sul suo ex braccio destro Gennaro Migliore, alla Leopolda (invece che a San Giovanni) assieme all'ex di Scelta civica Andrea Romano, quasi a suggellare plasticamente il nuovo «partito della nazione» targato Matteo Renzi. Ma certo Vendola coglie nel segno quando sottolinea la forte contrapposizione andata in scena ieri tra la minoranza del Pd che in larga misura si rifà alla storia del Pci-Pds-Ds (ma non solo) e la maggioranza renziana. Quanto poi questa contrapposizione sia davvero non più ricomponibile è da vedere, e dipende anche da variabili non "ideologiche" come la data delle prossime elezioni politiche e la legge elettorale con la quale si tornerà al voto.
Bastava ascoltare ieri Pippo Civati, appena invitato da Renzi a tornare alla Leopolda «che è anche casa sua»: «Renzi ha detto cose gravi e inaccettabili: la Leopolda sembra una convention di turisti della destra repubblicana americana. Questa riforma del lavoro è quella che voleva Berlusconi, che voleva Sacconi». O Rosy Bindi, che dalla manifestazione della Cgil di Roma litigava in diretta tv con la vicesegretaria del Pd Debora Serracchiani collegata da Firenze: «La Leopolda è una contromanifestazione imbarazzante. È la prima manifestazione del post Pd, per andare oltre se stesso. Si capisce fin troppo. Io do la fiducia ad un governo che dibatte in una sede impropria dove prende finanziamenti da imprenditori che restano fuori dal Pd. Pensate che quelle politiche non influenzino poi le azioni di governo?». Ma è Stefano Fassina, ex portavoce economico di Pier Luigi Bersani, a gettare il cuore oltre l'ostacolo. Spostando l'asticella un po' più in là di quando fatto finora: «In Europa – dice – Renzi ha girato a vuoto, ha cercato piccoli spazi di flessibilità e non ha fatto l'operazione verità sulla insostenibilità dell'euro nel quadro del mercantilismo liberista». E ancora: «Senza una correzione di rotta - avverte Fassina – l'Europa andrà a sbattere, e le condizioni per questa correzione non ci sono. Quindi dobbiamo preparare una soluzione cooperativa per il superamento dell'euro». Ma che cosa si intende per superamento dell'euro, anche l'ipotesi di ritorno alla monete nazionali? «Non necessariamente – ci risponde Fassina –. Dipende da come rispondono gli altri Paesi». Va da sé che Fassina annuncia già il suo voto di sfiducia sul Jobs act se non ci saranno cambiamenti sull'articolo 18.
Ecco, quando qualcuno non proprio di secondo piano nel Pd arriva a mettere in discussione l'appartenenza dell'Italia all'euro qualcosa forse di definitivo è già avvenuto. Fu il fondatore dell'Ulivo e padre nobile del Pd Romano Prodi a traghettare il Paese nella moneta unica europea, e l'appartenenza all'euro e alla Ue è divenuta negli anni quasi fondativa del Pd. Può darsi che Fassina, così come Civati, si sia fatto trasportare dall'atmosfera di una piazza molto "contro". Ma sono in molti a pensare che i due dirigenti del Pd stiano davvero accarezzando l'idea di una "cosa" altra dal Pd. Una "cosa" che potrebbe fare da traino nel tempo anche all'allontanamento di alcuni bersaniani ora ancora dentro la logica di partito. Dipenderà molto da quando si andrà alle elezioni (più sono vicine più una scissione è possibile, dal momento che molti nella minoranza sono consapevoli che non saranno ricandidati) e da quale legge ci sarà quando si rivoterà (un Italicum con soglie alte scoraggerebbe una scissione, naturalmente). Anche se tra i renziani della strettissima cerchia la lettura è un'altra: «Il tema scissione non c'è: se Fassina uscisse dal Pd non lo ascolterebbe più nessuno – dice uno di loro –. Comodo fare il contestatore seduto sul 40% conquistato da altri...».
In ogni caso quella andata in scena ieri tra Roma e Firenze è la storia di due sinistre diverse, ormai molto lontane, come ha ammesso lo stesso Renzi. Da una parte chi difende «la vecchia cassetta novecentesca degli attrezzi», dall'altra chi punta a «un Pd 2.0», per dirla con lo storico liberal come Giorgio Tonini, ora nella segreteria renziana. Ritrovare le ragioni dello stare insieme non sarà facile, e sarà compito principalmente di Renzi, come lo invita a fare proprio dalla Leopolda il suo amico Oscar Farinetti. «Tocca a Renzi fare il primo passo e lui, che ha vinto, deve stare attento a non voler stravincere, glielo dico sempre», è il consiglio dell'inventore di Eataly.

Corriere 26.10.14
Le due sinistre parallele che non si appartengono più
di Aldo Cazzullo


La sinistra del futuro è il mungitore sikh con bandiera rossa o Fabio Volo con telecamera? I precari dei trasporti o il finanziere Serra che propone di impedire loro di scioperare? I tipografi dell’ Unità con la foto degli occhiali rotti di Gramsci o i nuovi alfieri del made in Italy Bertelli, Farinetti, Cucinelli?
La mattinata al corteo della Cgil e il pomeriggio alla Leopolda hanno mostrato che la scissione — anche cromatica — non è nelle volontà, è nelle cose. Mai vista a Roma una manifestazione così rossa, ognuno con la sua pettorina: chimici, tessili, agroindustria, costruzioni e legno, energia e manifattura, trasporti e Nil, Nuove identità di lavoro, che non si sa come chiamare. A Firenze in molti hanno avvertito l’opportunità di indossare la camicia bianca. Contro Berlusconi la Cgil sfilava in un’atmosfera di rabbia e di gioia, si sentivano tensione ed energia. Stavolta il sentimento prevalente è l’angoscia. Certo, si canta e si balla con gli inni tradizionali — Bandiera Rossa, Bella Ciao, Contessa — e la musica etnica. Ma i manifestanti raccontano storie di sconfitte e talora di disperazione, come quelle degli ex lavoratori dell’ex stabilimento Montana di Paliano, Frosinone: «Sono venuti di notte con i Tir, hanno portato via i macchinari e la merce, non abbiamo più trovato nulla. In 36 siamo rimasti senza lavoro». Alla Leopolda si tenta di rappresentare la fiducia e si finisce per esprimere soddisfazione, talora compiacimento. Rituale tra la convention Usa e la seduta degli alcolisti anonimi: «Mi chiamo Alfredo, sono il direttore di una piccola società di biotecnologia…». Slogan: «Il futuro è solo l’inizio».
Anche Landini con felpa Fiom dice che «questo corteo è solo l’inizio». Se Renzi ha conquistato il centro, è inevitabile che alla sua sinistra nasca un nuovo partito; e i punti di riferimento non saranno certo D’Alema e Bersani, cui neppure la minoranza Pd obbedisce più, e forse neanche la Camusso, che con tono lamentoso critica la prima manovra espansiva di un governo italiano da tempo. Landini appare il leader predestinato della sinistra che verrà, l’antagonista naturale di Renzi, cui lo avvicina un feeling personale ma da cui lo separa il sospetto di essere stato usato, anche in funzione anti-Cgil. In futuro potranno ancora rendersi utili l’uno all’altro: il premier confermerà di aver rotto con la sinistra tradizionale, il sindacalista di essere l’unico vero oppositore. Per Renzi il corteo non esprime odio ma estraneità, i pensionati della Spi imbacuccati contro il primo freddo ne parlano come di un nipotino deviato, i percussionisti africani in maglietta portano un cartello con la sua caricatura.
Renzi si improvvisa conduttore e chiama sul palco i «cortigiani» come li definisce Vendola, in realtà tra i più importanti imprenditori italiani, qualcuno sin troppo entusiasta. Cucinelli vaticina «un grande rinnovamento morale, civile, economico, spirituale». Oggi è atteso Farinetti: «Dirò che sono un renzista, non un renziano; fedele al metodo, non all’uomo». Dall’ultima Leopolda è cambiato tutto, Renzi è andato al governo, ha ricompattato il partito chiudendo l’accordo con Errani in Emilia e Rossi in Toscana, ha messo ai margini gli uomini del rinnovamento come Richetti, che è venuto lo stesso. La sinistra è al potere ma l’Unità ha chiuso, «il voto a tempo indeterminato non esiste più» dice del resto il premier, tra due anni potrebbe avere un Parlamento docile nelle sue mani con Salvini sindaco di Milano e la Meloni di Roma. Patrizio Bertelli, il signor Prada: «Io rispetto gli operai, ho passato la vita con loro, ma questo corteo mi è sembrato una liturgia, come la Pasqua e il Natale».
Alla fine si è andati o di qua o di là, nessuno ha osato farsi vedere sia al corteo sia a Firenze, neppure l’ex segretario del sindacato e del partito, Epifani: «Ho scelto Roma, non ce la faccio ad andare alla Leopolda, che comunque considero interessante. Il problema è come il Pd possa tenerla insieme con una piazza in cui la maggioranza l’ha votato». Un problema irrisolvibile. Non è come quando i ministri comunisti di Prodi protestavano contro il loro stesso governo: quella fu una contraddizione, o un’astuzia, subito punita dagli elettori. Ora ci sono due mondi separati, che non si riconoscono e non si appartengono più.

Il Sole 26.10.14
A Roma per esistere ancora, a Firenze per andare oltre il Pd
di Stefano Folli

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Il Sole 26.10.14
Cambiare o conservare: le due sinistre
Roberto D'Alimonte


Tre piazze e una stazione. Prima il M5S al Circo massimo, poi La Lega Nord a Milano e ieri - in contemporanea - le due anime della sinistra, una a Firenze alla Leopolda e l'altra a Piazza San Giovanni. Tutte manifestazioni politicamente molto significative. Le ultime due in modo particolare perché mettono a nudo i dilemmi della sinistra italiana.

Dilemmi antichi e non ancora del tutto risolti. Questa volta aggravati dal fatto che un pezzo di sinistra è al governo mentre un altro è all'opposizione anche se formalmente sostiene il governo. Perché questo è il punto: la Cgil è un pezzo della sinistra italiana che si è mobilitata contro un governo di sinistra. È questa la differenza fondamentale con l'altra manifestazione contro la riforma dell'art.18, quella del 2002 con Cofferati e i tre milioni di partecipanti. Allora l'avversario era Berlusconi. Oggi è Renzi. E fa una bella differenza.
Per la sinistra sindacale Renzi è un grosso problema. Alla Cgil e alla sinistra Pd stare al governo in realtà non interessa. Quindi vincere le elezioni non è una priorità. Anzi è un fastidio. Costringe ad alleanze scomode. E poi vincere vuol dire governare e oggi governare è sinonimo di cambiare. Meglio stare alla opposizione. Per chi deve tutelare lo status quo l'opposizione è il posto ideale, soprattutto di questi tempi. La strategia politica di Renzi invece è completamente diversa. Il premier vuole costruire una nuova sinistra pragmatica, riformista e vincente. Da qui l'obiettivo di fare del Pd un partito aperto, capace di sparigliare il gioco, di mettere in discussione vecchi miti, di attraversare confini oltre i quali la sinistra non è mai andata. Un partito destinato a governare l'Italia a lungo per cambiare veramente le cose. Approfittando anche della crisi della destra.
È dal 1948 che la sinistra italiana è stata una minoranza elettorale. Il quadro non è cambiato nemmeno negli anni della Seconda Repubblica. Anzi. La combinazione di sistema maggioritario e di discesa in campo di Berlusconi ha aggravato il problema. Dopo aver perso l'occasione nel 1994 di vincere a mani basse contro una destra divisa, per la sinistra e il suo maggior partito la strada è stata tutta in salita. In nessuna elezione a partire dal 1994 ha avuto più voti della destra. Nemmeno quando ha vinto. Infatti le sue vittorie nel 1996 e nel 2006 sono state il frutto della combinazione di ingegneria coalizionale, errori della destra e circostanze particolarmente favorevoli. E in ogni caso sono state vittorie di Pirro. Le troppe divisioni e i troppi dilemmi irrisolti si sono tradotti in governi deboli e instabili. E alla fine è arrivato il disastro del 25 Febbraio 2013. Quel giorno è morta definitivamente la vecchia sinistra. La mobilitazione di Piazza San Giovanni non la farà rinascere.
Il 25 Febbraio è stato un trauma per milioni di uomini e donne di sinistra. Il nuovo Pd è nato quel giorno. L'accettazione dentro il partito della necessità di un cambiamento radicale nasce da quella drammatica sconfitta che ha aperto la strada a Renzi e alla sua strategia di costruire un partito maggioritario in grado di attrarre consensi oltre il bacino tradizionale della sinistra. L'esito del voto europeo di Maggio dice che almeno per ora ci sta riuscendo. Successo straordinario. Il Pd ha preso addirittura più voti della Cdu-Csu della Markel. Ma come si vede nel grafico in pagina il Pd di Renzi non è quello che ha preso più voti in assoluto. Il record spetta a Veltroni. È lui che si è inventato l'idea del Pd e del partito a vocazione maggioritaria. E se i suoi oppositori ex-Ds non avessero fatto la mossa stupida di costringerlo alle dimissioni oggi ci sarebbe lui al posto di Renzi. Invece il bel risultato del Pd nel 2008 è stato buttato via. E non è un caso che molti dei responsabili della cacciata di Veltroni fossero ieri in Piazza San Giovanni.
Il Pd di Renzi però è diverso da quello di Veltroni. Quello dell'ex sindaco di Roma era un Pd che aveva fatto il pieno dei voti a sinistra. Invece, come si vede dai dati recentemente pubblicati da Itanes, quello di Renzi è un Pd che ha fatto breccia tra l'elettorato moderato, tra commercianti, artigiani, piccoli imprenditori. Anche in zone del Paese da sempre ostili alla sinistra. Ma sbaglia chi pensa che questi dati servano a dipingere Renzi come un leader di destra, in fondo non dissimile da Berlusconi. Come si fa a dire che non sia di sinistra la riduzione delle tasse ai redditi medio-bassi (gli 80 euro) quando contemporaneamente si sono aumentate le tasse sulle rendite finanziarie? E la semplificazione del divorzio è di destra o di sinistra? E i provvedimenti annunciati su unioni civili e cittadinanza agli immigrati? Senza tener conto del fatto che la maggioranza dei problemi sul tappeto che affliggono questo paese non sono etichettabili in base allo schema sinistra-destra. Sono semplicemente problemi da risolvere superando le resistenze di corporazioni varie, compresi i sindacati. Decisamente Renzi è un grosso problema per Cgil e minoranza Pd.
Insomma parlare del premier come se fosse un leader di destra è un alibi utile a confondere le acque. La realtà è che Renzi è il leader di una sinistra diversa, una sinistra che accetta la sfida del cambiamento. Non è detto che ci riesca. Ma almeno ci prova. Ed è questa la vera ragione della sua popolarità che resiste, nonostante tutto.

il Fatto 26.10.14
Piazza contro Leopolda

  
DIETRO IL PALCO FASSINA, FUORI ONDA SODDISFATTO
Dietro il palco di San Giovanni uno Stefano Fassina decisamente soddisfatto abbraccia il segretario Cgil Susanna Camusso. Le telecamere appostate nei pressi registrano: “È andata bene” dice lui. E la leader Cgil sorride: “Sì, ora possiamo respirare”.
PERCHÉ MANIFESTARE? TUTELE CRESCENTI E MATERNITÀ PER TUTTI
1) Il contratto a tutele crescenti deve eliminare tutti contratti precari. 2) Maternità e paternità, a prescindere dal tipo di contratto. 3) Indennità di disoccupazione per tutti i precari. 4) Contrasto alle false partite Iva 5) Rappresentanza votata da tutti
6) Se non c’è lavoro, cambiarne le regole è inutile.
CARTONI ANIMATI CAMUSSO CANTA “SUPER-MATTEO”
Susanna Camusso ha anche cantato ieri in corteo sulle note della sigla del cartone animato “Ufo Robot”. Obiettivo sempre il premier Matteo Renzi. “Mangia libri di cibernetica, insalate di matematica e al governo se ne sta... Ma chi è? Ma chi è? Super-Matteo”.
SERGIO COFFERATI IL GOVERNO DEVE ASCOLTARE
Fino a ieri era l’ultimo segretario sindacale ad aver portato milioni di persone in piazza contro l’articolo 18 (l’oceanica convocazione al Circo Massimo nel 2002). Il governo, dice oggi mentre sfila in piazza San Giovanni, deve “tenere conto di questa sollecitazione di questa piazza”.

La Stampa 26.10.14
Il duello delle due sinistre
di Federico Geremicca


Non aveva sbagliato, Matteo Renzi, quando si era detto certo del fatto che «la manifestazione della Cgil è contro di me». Ma forse nemmeno il premier avrebbe potuto immaginare quanto - e con che intensità - la giornata di protesta voluta da Susanna Camusso avrebbe appunto assunto questo profilo - questo carattere, diciamo - così personale. Ai leader della minoranza Pd che ieri hanno sfilato in corteo a Roma, è infatti toccato ascoltare slogan di una durezza forse inaspettata: «Un sogno nel cuore, Renzi a San Vittore».
Immaginabile l’imbarazzo, considerato che il premier è pur sempre il segretario del partito in cui continuano a militare...
La giornata di lotta contro le politiche del lavoro messe in campo dall’esecutivo è stata un successo (e non era scontato): un milione di persone - giunte per di più da ogni angolo d’Italia - non si muovono da casa per obiettivi sbagliati o poco sentiti. Ma il quinto raduno della Leopolda - per le presenze, i temi trattati e la vivacità del confronto - non è stato da meno. E questo, in tutta evidenza, costituisce un problema.
Il doppio successo, infatti, non facilita lo scioglimento del grumo polemico che ormai avvelena il Partito democratico: né i renziani né gli antirenziani - lo diciamo così per semplificare - appaiono in crisi di credibilità o a corto di argomenti. Il che, a prima vista, potrebbe sembrare un paradosso, ma invece non lo è: in maniera sempre più evidente, infatti, i primi ed i secondi parlano ormai a pezzi di società, a «pubblici», si potrebbe dire, del tutto diversi. Anzi: così diversi che è sempre più difficile immaginarne la coesistenza (e la rappresentanza) sotto una stessa insegna.
Questa diversità, questa distanza, ha avuto ieri - come sempre accade quando ci sono manifestazioni pubbliche - una rappresentazione addirittura plastica: in corteo a Roma con la Cgil, Cuperlo, Epifani, Bindi, Fassina, Cofferati e molti parlamentari Pd; alla tribuna o ai «tavoli tematici» della Leopolda, invece, imprenditori come Cucinelli, Bertelli e Farinetti, finanzieri come Davide Serra, e sei ministri del governo in carica. E per dirla ancor più chiaramente: mentre da piazza San Giovanni si preannunciava un possibile sciopero generale, dal «garage italiano» della Leopolda, si chiedeva la limitazione del diritto a scioperare (almeno nel settore pubblico...).
In che modo - e sulla base di quali compromessi - questa distanza, questa diversità, possano trovare un punto di sintesi è sempre più difficile da immaginare. Che una mediazione possa esser raggiunta affrontando il cosiddetto «merito delle questioni», sembra esser smentito - o quanto meno reso assai arduo - dalla cronaca recente, che ha visto «i due Pd» scontrarsi vivacemente proprio sul terreno delle cose da fare (dalla riforma del Senato fino al più recente Jobs Act, lo scontro è stato continuo). Né pare più semplice siglare una tregua alla vecchia (e spesso oscura) maniera: qualche poltrona in cambio della fine delle ostilità...
E’ per questo che l’ipotesi di una separazione rimane in campo, e sarebbe sbagliato metterla frettolosamente da un canto come una pura «fantasia». C’è chi sostiene, anzi, che l’eventualità acquisterebbe rapidamente maggior concretezza se il campo degli oppositori di Renzi avesse (trovasse) un leader capace di unire il fronte e competere (anche sul piano mediatico: paradosso dei paradossi...) con la forza d’impatto del premier-segretario. In presenza della perdurante indisponibilità di Maurizio Landini a cambiare mestiere, il problema - però - resta irrisolto: con il carico di confusione e incertezza che ciò comporta.
Confusione, incertezza e un muro contro muro di fronte al quale anche i comportamenti personali - in questo o in quell’altro fronte - si fanno oscillanti, difficili. Tra la piazza e la Leopolda, qualcuno (D’Alema e Veltroni, per dire) ha preferito restare a casa e qualcun altro (come i governatori Chiamparino e Rossi) ha deciso di rifugiarsi in questo o quel convegno. Scelte in fondo comprensibili considerato che da domani, voltata pagina, tutto tornerà come prima. Le manifestazioni e i convegni, è vero, non creano lavoro: e spesso, purtroppo, non risolvono nemmeno i problemi...

La Stampa 26.10.14
La destra che rischia la scomparsa
di Giovanni Orsina


Che cosa vuol dire «destra» in politica, oggi? E c’è davvero bisogno di partiti che si collochino a destra, e da destra ambiscano a governare, oppure potremmo benissimo farne a meno? Se osserviamo quel che è accaduto in Italia negli ultimi tre anni, le due domande ci appaiono più che legittime.
La «destra storica» – la destra berlusconiana che è vissuta dal 1994 al 2011, nella stagione della repubblica bipolare – si muoveva in sostanza lungo tre linee. La prima era quella, propagandata ben più che praticata, della «rivoluzione liberale»: meno Stato e più mercato. La seconda, appoggiata fra il 2001 e il 2008 agli Stati Uniti di Bush junior, era la politica estera atlantista. La terza, conservatrice sui temi sociali e bioetici e ispirata dal pontificato di Benedetto XVI, ha raggiunto il culmine nel 2005 col referendum sulla procreazione assistita. Le tre linee, inoltre, portavano la destra berlusconiana ad assumere un atteggiamento critico nei confronti dell’Europa, ma non antieuropeista.
Per varie e diverse ragioni – a cominciare dal cambio della guardia a Washington e in Vaticano – oggi in Italia un’identità conservatrice non può più fondarsi su quei pilastri. Non solo. La crisi economica e l’antieuropeismo montante hanno restituito una ragion d’essere robusta alla destra protestataria e radicale, gonfiandone l’elettorato – al di qua, ma anche al di là delle Alpi. Tanto che il problema di come tenere insieme in uno stesso schieramento moderati ed estremisti, se dal 1994 al 2008 in Italia ha tormentato soprattutto la sinistra, negli ultimi anni s’è spostato sul versante opposto. Oggi l’area elettorale e culturale di centro destra, oltre a essere in crisi di identità, si trova così schiacciata fra i «due Mattei»: Matteo Salvini da un lato, accampato sul terreno della destra ostile all’Europa; Matteo Renzi dall’altro, che sempre più dilaga al centro. E non è affatto impossibile che diventi irrilevante: «invenzione» di Silvio Berlusconi, prodotto della crisi di sistema dei primi Anni Novanta, il centro destra che non ha saputo riformare le istituzioni, organizzarsi in partito né dotarsi di una classe politica robusta potrebbe benissimo essere cancellato dalla nuova crisi di sistema che s’è aperta nel 2011 e dall’appassire del leader di Arcore.
Che così accada o non accada, dipenderà sia dalle strategie degli uomini di quella parte, sia dalla riforma del sistema elettorale. La linea che ha seguito Berlusconi negli ultimi mesi, schiacciata sul governo, non è certo la più adatta a proteggere lo spazio elettorale e politico fra i «due Mattei». Soprattutto le sue ultime iniziative sui patti di convivenza e sull’immigrazione, al contrario, sembrano fatte apposta per ridurre quello spazio ai minimi termini. Al di là del merito delle decisioni e del modo nel quale ci si è arrivati, sorprende il tempismo: che bisogno c’era di dare un colpo ulteriore all’identità già periclitante di Forza Italia, proprio nel momento in cui Renzi e Salvini, con manovra a tenaglia, danno l’assalto all’elettorato che fu berlusconiano?
Una prima possibile risposta a questa domanda è che Berlusconi, abbandonata ormai del tutto l’idea di poter tornare maggioritario, stia puntando a fare di Forza Italia il socio di minoranza del Pd – un po’ come i socialisti coi democristiani. Una seconda possibile risposta è che stia perseguendo un disegno lungimirante: un bipolarismo maturo fra due forze liberali, politicamente vicine l’una all’altra, al quale si arriverà quando il centro destra sarà stato del tutto rinnovato da un lungo periodo di opposizione. Le due ipotesi presuppongono leggi elettorali ben diverse: nel primo caso il mantenimento del proporzionale; nel secondo, al contrario, una riforma che dia vita a un sistema fortemente maggioritario. Altre possibili interpretazioni hanno poco a che vedere con la politica, ma sono o psicologiche – Berlusconi, in definitiva, potrebbe essere poco interessato al futuro del centro destra –, oppure aziendali.
La situazione è del tutto aperta, e bisognerà vedere nei prossimi mesi in quale direzione evolverà. Al termine di questo ragionamento, però, la seconda delle domande che ponevo in apertura è rimasta ancora inevasa: ma che cosa importa all’Italia che ci sia una forza robusta di centro destra moderato? Importa, in realtà, e molto. Per almeno due ragioni. In primo luogo perché il sistema politico che si sta delineando in questi mesi, imperniato sull’egemonia del Pd di Renzi e sull’opposizione vociante ma sterile di grillini e leghisti, è inevitabilmente destinato sul medio periodo a rivelarsi del tutto disfunzionale. In secondo luogo perché certe esigenze «di destra» diffuse nell’opinione pubblica – sulla sicurezza, ad esempio, o sull’immigrazione – sono destinate a farsi più forti nel prossimo futuro, ed è bene che trovino anche delle risposte moderate. Lasciare che se ne occupi soltanto la Lega – non per caso in crescita nei sondaggi, e pronta adesso a ritentare la conquista del Sud – non è indice di grande saggezza.

il Fatto 26.10.14
Renzi salva toghe e polizia dal blocco degli stipendi
di Marco Palombi


Ogni governo, predisponendo il bilancio dello Stato, fa politica: sceglie nel corpo della società chi sarà a pagare e chi a ricevere, si scontra con l’influenza di alcune categorie e corpi intermedi, tiene conto dei rapporti di potere esistenti nella società. È un fatto fisiologico e Matteo Renzi non fa eccezione. Il bonus di 80 euro – che propagandisticamente resta un bonus, cioè visibile in busta paga, e non diventa una detrazione come sembrava – individua una platea di beneficiari/elettori a cui il governo tiene, quello per chi fa figli pure, come ovviamente gli sgravi Irap e quelli sui nuovi contratti (e infatti Confindustria applaude). Anche bastonare qualcuno, d’altra parte, è fare politica: le Regioni, tanto per fare un esempio, sono un bersaglio facile agli occhi di certa opinione pubblica, come pure gli “statali fannulloni”, che si vedono bloccati per un altro anno i contratti al 2009. Una perdita secca che ormai – per un salario medio calcolato sui tabellari dell’Aran di circa 24 mila euro l’anno – vale circa 3 mila euro di retribuzione in meno e oltre 11 mila sottratti in totale nel quinquennio (a livello macro, significano 2-2,5 miliardi in meno all’anno). Renzi però, com’è altrettanto normale, con la sua manovra si preoccupa anche di fare politica più spicciola e infatti non tutti gli statali avranno il contratto bloccato. Le eccezioni sono rivelatrici di una manovra raffinata e anche di vuole ingraziarsi il governo.
ECCOVI L’ECCEZIONE nella prosa della Ragioneria generale dello Stato: la manovra prevede “con riferimento al personale non contrattualizzato in regime di diritto pubblico (professori e ricercatori universitari, dirigenti dei corpi di polizia e delle Forze armate, con esclusione del personale di magistratura), la proroga anche per l’anno 2015 del blocco dei meccanismi di adeguamento retributivo e la non utilità dello stesso anno ai fini della maturazione delle classi e scatti di stipendio, correlati all’anzianità di servizio”. Tradotto in italiano significa che chi lavora all’università, i dirigenti di polizia e dell’esercito avranno lo stipendio bloccato pure loro.
Chi si salva? Semplice: in primo luogo i magistrati. La battaglia con le toghe – o meglio con le correnti organizzate delle toghe – va bene sulla riforma della giustizia o frescacce come le ferie, ma è meglio non far arrabbiare giudici e pm su una cosa seria come lo stipendio: è appena il caso di ricordare che furono i ricorsi dei magistrati (accolti dai giudici della Consulta) a far saltare il contributo di solidarietà per chi guadagnava più di 90 mila euro. Meglio non ripetere l'esperienza.
L’altra categoria a cui viene concessa la grazia è la “truppa” di Polizia e Forze Armate. In sostanza – dopo le proteste contro il blocco degli stipendi – poliziotti, carabinieri eccetera vengono premiati, ma non tutti: al pane gettato ai livelli più bassi corrisponde, infatti, la mazzata per la dirigenza con una ricercata contrapposizione interna. Peraltro per i poliziotti “semplici” non mancano le brutte sorprese: niente riordino delle carriere nel comparto difesa-sicurezza (119 milioni di tagli), niente assunzioni per un altro anno (27 milioni), dimezzamento della rappresentanza sindacale e, soprattutto, la disdetta dell’accordo nazionale quadro che concede ai “responsabili degli uffici di impiegare il personale in turni di servizio diversi da quelli ordinari (...) con semplice informazione alle organizzazioni sindacali”.
DI FATTO l’amministrazione centrale s’è venduta lo stipendio dei suoi dirigenti e tiene buona la truppa sbloccandole lo stipendio mentre gli toglie tutto il resto, a partire dalla contrattazione su turni di servizio e orari con le organizzazioni sindacali (norma, peraltro, un po’ troppo micro-settoriale per una legge di Stabilità, ma tant’è). I sindacati non l’hanno presa bene. Basti citare Felice Romano, segretario del Siulp: “Non vorremmo che il mancato sblocco delle classi e degli scatti della dirigenza (...) sia stato il prezzo che il Dipartimento della P. S. abbia pagato a cuor leggero pur di avere le mani libere nello sfruttare, senza limiti temporali, i poliziotti rei di aver avuto, per solo merito del sindacato, lo sblocco totale del tetto salariale”.

il Fatto 26.10.14
Guerra alla burocrazia: Renzi non ha letto Kafka
di Furio Colombo


Renzi è un uomo di poche letture e questo gli giova. Poiché ha frasi rapide e felici, tutto il suo mondo gli sembra giovane e nuovo e profondamente originale. Lo è in parte, perché certo il giovane leader beneficia di una espressività efficace. Ma gli può capitare di inciampare in illustri rottami e di non saperlo. Per esempio è evidente l’estraneità di Renzi al mondo di Kafka, un grande profeta delle istituzioni di un mondo complesso e infido nel quale stiamo ancora vivendo. Non avendo incontrato Kafka, Renzi crede ancora che Potere, politica e burocrazia siano tre mondi diversi. E che, se abiti nel primo, il potere, hai poco a che fare con la politica, che devi tenere sotto, cambiando, se necessario, leggi e regolamenti. E devi scardinare, subordinare, ridurre, umiliare il terzo, la burocrazia, in modo che non sia un intralcio.
GLI È SEMBRATA una buona idea (e dal punto di vista del leader enfatico può darsi che lo sia) accorpare in un unico pianeta estraneo, la burocrazia europea e quella italiana. Per farlo, ha forzato il senso delle istituzioni e persino il senso delle parole. Chi, dall’Europa, parla a Renzi con rudezza e franchezza, è “burocrazia”, il disprezzabile male di cui ci si deve liberare (e si guarda intorno in segno di assenso) benché si riferisca a personaggi che sono politici due volte: per la loro vita e carriera nei rispettivi Paesi prima essere votati o nominati a Bruxelles, e per l’incarico, politico e non burocratico, con cui adesso parlano, a nome e per conto della Commissione europea o dei vari organi di controllo.
Dividerli in simpatici e antipatici, o in avversari prevenuti e persone sgradevoli benché competenti è legittimo. Schiacciarli nella definizione di “burocrati” non lo è, cambia le carte in tavola. Renzi si consegna a non essere capito o a non essere gradito, là dove cerca aiuto e, più o meno esplicitamente, vuole che chiudano un occhio. Ma ecco la dichiarazione con cui Renzi apre la sua guerra: “Loro pensano che io sia alla stregua di tutti i burocrati e i funzionari dell’Europa e pensano che io lo faccia (mi adegui, ndr). Ma si sbagliano. Loro cercano di ammazzare l’Italia, non sto parlando dei leader politici, ma di quella pletora di gente che prende i soldi per fare quello che fa, dei burocrati e dei funzionari. Capisco che fanno fatica a capire che io non sono fatto come loro, ma con me non passano, affari loro”. (Il Corriere della Sera, Maria Teresa Meli, 25 ottobre).
La guerra, però, come si è detto, non è solo contro la burocrazia europea e con chi gli getta il bastone fra le ruote (Renzi ne è sicuro). La guerra riguarda la burocrazia italiana, anzi è cominciata subito in Italia, ai primi atti di governo (in genere inventati sui due piedi o nel calore di un discorso, come il “bonus bebè”) quando qualcuno ha avuto l’imprudenza di fargli osservare che persino la vivace inventiva del nuovo e giovane presidente del Consiglio andava poi riorganizzata all’interno di certe regole. Ecco la risposta non molto istituzionale di Renzi: “Sono quei burocrati che, in Italia e all’estero, cercano di mettere alle corde il nostro Paese. A me tocca difenderlo perché faccio sul serio, a costo di pubblicare gli sprechi di Bruxelles e di fargliene vedere delle belle”. Ma, aggiunge, anche a Palazzo Chigi, le “resistenze burocratiche sono più forti di quanto si immagini”.
E quindi è guerra vera, in Italia come in Europa. “Sono sempre loro, i mandarini, che non vogliono che nulla accada. E ora occorre scardinare questo blocco, qui come altrove”. È a questo punto che diventa clamorosa l’assenza di Kafka nel mondo di Renzi. Avrebbe saputo che la storia del meno politico degli eventi, il processo incomprensibile di una impenetrabile macchina, è in realtà il racconto del potere che ha mille travestimenti, ma un solo fine: non rendere conto. E quel “non rendere conto” non è una invenzione delle “autorità” (ne Il processo di Kafka) o dei burocratici da estirpare in Europa e in Italia (ne “Le straordinarie avventure di Matteo Renzi nel Paese da rottamare”).
È IL CARATTERE tipico e radicato della politica affinché il potere, in alto, sfugga a ogni controllo. E in basso il potere e i suoi segreti siano accortamente pattugliati dai partiti fidati, messi finalmente in riga da una nuova e severa disciplina che rimuove (senza leggi) le prescrizioni costituzionali, come la mancanza di vincolo di mandato. A questo punto hai solo due definizioni a disposizione per l’infame burocrazia che vuole distruggere l’Italia. O è un potere autonomo, magari massonico che si governa e si finanzia da solo. O è il braccio esecutivo del potere politico, che sceglie, persona per persona (soprattutto a livello dirigente) i candidati a una funzione burocratica che prevede un certo grado di sottomissione e il destino del compagno di giochi del Piccolo Lord: in caso di indisciplina, viene punito lui e non il compagno di giochi nobile e potente, senza riguardo al vero colpevole. Ecco perché le invettive e la dichiarazione di guerra alla burocrazia non sono credibili.
Nessuno ha più potere del potere. In Europa si tratta di una aspra disputa sul futuro dell’Unione, e certo qualcuno sente troppi limiti al suo governo personale che, se fosse solo locale, e dato il silenzio stampa nostrano sui veri fatti politici, si potrebbe espandere e consolidare più in fretta. In Italia è un puro alibi. Si attacca la burocrazia per attaccare leggi e Costituzione che dividono ciò che si può fare da ciò che non si può fare. La strada più facile al momento è prima attaccare e poi sottomettere la burocrazia in quanto guardiana, e forse ultimo ostacolo, di ciò che sta per accadere.

il Fatto 26.10.14
Teste Napolitano, risponda: Solo lei nel ’93 non sapeva?
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza


LE DOMANDE CHE I PM TERESI E DI MATTEO FARANNO AL CAPO DELLO STATO SULL’ESTATE DELLE BOMBE, DEGLI ALLARMI E DEI “TENTATIVI DI DIALOGO”

Palermo. Lo scenario di crisi istituzionale dell’estate di fuoco del ’93, tra bombe alle chiese, attentati progettati ai presidenti di Camera e Senato, rapporti della Dia sulla trattativa in corso e revoche del 41 bis “in assoluta solitudine” da parte del ministro Conso l’ha aperto l’avvocato di Riina, Luca Cianferoni, ma la Procura di Palermo stava già lavorando a una serie di domande da rivolgere al capo dello Stato sugli eventi di quella stagione. Lo spunto l’ha offerto la lettera di Loris D'Ambrosio, il consigliere giuridico di Napolitano, che cita appunto il periodo ’89-’93: “In quelle poche pagine – scrive D'Ambrosio – non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi – solo ipotesi – di cui ho detto anche ad altri, quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”.
I pm arrivano a Roma lunedi Si saprà in aula se la Procura, che sembra avere affidato il compito di rivolgere le domande al capo dello Stato ai pm Vittorio Teresi e Nino Di Matteo, abbia deciso di affrontare anche tutti i temi relativi al periodo indicato da D’Ambrosio, certo è che per quanto riguarda l’estate del ’93 l’attenzione sarà concentrata su questi episodi:
26 giugno ‘93: l’informativa di Capriotti sul 41 bis
Quel giorno il capo del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) Adalberto Capriotti inviò al guardasigilli Conso una nota in cui suggeriva di non prorogare gli oltre trecento 41 bis che sarebbero scaduti da lì alla fine del ’93 per “non inasprire ulteriormente il clima all’interno degli istituti di pena” e dare “un segnale positivo di distensione”. I 41 bis furono effettivamente revocati nel novembre successivo da Conso in “perfetta solitudine”. Il presidente Napolitano, allora presidente della Camera, ne venne mai a conoscenza?
29 luglio ‘93: l’allarme Sismi per Napolitano e Spadolini
Il 29 luglio, a 24 ore dalle bombe di Roma e Milano, una nota riservata interna del Sismi alza improvvisamente il livello di allarme nei palazzi istituzionali: mafia e massoneria vogliono colpire il presidente della Camera Napolitano e quello del Senato Spadolini. A rivelarlo è un confidente. Il presidente Napolitano ne venne mai a conoscenza ?
4 agosto ‘93: la nota Sismi sul confidente attendibile
Sei giorni dopo il Sismi verifica “positivamente” l’attendibilità del confidente e trasmette la nota a due ministeri, ai corpi di polizia e al Sisde. La nota arriva sui tavoli dei ministeri della Difesa, dell’Interno, dei vertici del comando generale dei carabinieri, della Guardia di finanza e del Sisde. Il presidente Napolitano, in quel momento a capo della Camera, ne venne mai a conoscenza?
6 agosto ’93: il vertice sulla matrice delle stragi
Si riunisce al Viminale il Cesis insieme alle forze di polizia per analizzare modalità, obbiettivi e potenziali responsabilità delle bombe di Roma e Milano. Nel corso della riunione vengono formulate le ipotesi più varie: mafia, anarchici, terrorismo palestinese. Il Presidente Napolitano fu informato dell’esito di quella riunione?
10 agosto ‘93: l’informativa che parla di “dialogo”
Quattro giorni dopo la Dia guidata da Gianni De Gennaro indica un movente preciso: Cosa Nostra “voleva intavolare un tentativo di dialogo con lo Stato sul tema del 41 bis”. Il Presidente Napolitano ne venne mai a conoscenza?
21 agosto ‘93: la nota Sismi sull’allarme cessato
L’innalzamento del livello di protezione a Spadolini e Napolitano scongiurò l'attentato annunciato dalla nota del Sismi. Lo scrive lo stesso Sismi in una terza e ultima nota, anche questa diffusa a vari indirizzi istituzionali. Il presidente Napolitano ne venne a conoscenza?
8 settembre ‘93: la nota Sco con le stesse tesi della Dia
A settembre arriva una informativa dello Sco, il Servizio centrale operativo della polizia, che riprende e rilancia le tesi della Dia, denunciando una sorta di prova di forza di Cosa Nostra nei confronti delle istituzioni. Il presidente Napolitano ne venne a conoscenza?

Corriere 26.10.14
Napolitano risponderà a tutte le domande
di Marzio Breda


Alla deposizione come teste il presidente non si sottrarrà neanche ai quesiti dell’avvocato di Riina Nel mirino le minacce della mafia. L’ipotesi di andare a verificare informative e segnalazioni Nessun rifiuto, risponderà a tutti. Ai pubblici ministeri di Palermo, ma anche all’avvocato di Totò Riina. Si lascerà interrogare «tranquillamente», Giorgio Napolitano, nell’udienza convocata per dopodomani al Quirinale, nella quale la Corte d’assise raccoglierà la sua testimonianza per un capitolo in margine al processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. È smentito chi aveva cominciato a montare un giallo su quella specialissima (perché senza precedenti) deposizione, scommettendo su una «indisponibilità» del presidente a lasciarsi interrogare dall’avvocato Luca Cianferoni, difensore del boss dei boss di Cosa nostra. E smentita è pure l’alternativa, ventilata con altrettanta enfasi, di uno slittamento di almeno un anno del confronto.
Non sarà così, trapela adesso dal Colle, perché negare quel «controesame» processuale o prendere tempo non conviene a nessuno. In particolare al capo dello Stato, da troppi mesi sotto una forte pressione politico-mediatica per una faccenda in cui è stato tirato dentro per i capelli, e comunque solo da teste. Trascinato, in un primo momento, per alcune telefonate fattegli da Nicola Mancino, preoccupato per l’accusa di falso pendente su di lui. E poi per il passaggio sull’ipotesi di «indicibili accordi» accennata in una lettera indirizzatagli dal suo consigliere giuridico, Loris D’Ambrosio, destinatario di gran parte delle chiamate dell’ex ministro dell’Interno, anch’egli bersaglio della stessa campagna di stampa e alla fine stroncato da un infarto nel 2012. Ora, posto che sul punto per il quale è stata ammessa la deposizione (cioè la missiva di D’Ambrosio) il presidente ha già fatto sapere per iscritto ai giudici di non aver nulla da spiegare e che questo è quanto dovrebbe ripetere martedì, è sulle domande del legale di Riina — ammesse come «lecite» dalla corte — che qualcuno almanacca con malizia.
Tutto nasce da un rapporto steso dal servizio segreto militare nell’estate 1993, e ricomparso negli archivi della Procura di Firenze appena un paio di settimane fa, nel quale si riferiva la segnalazione di una «sottofonte» in cui si evocava un rischio d’attentati per Spadolini e Napolitano, all’epoca presidenti di Senato e Camera. Ecco su cosa l’avvocato di Riina intende verosimilmente far ruotare le proprie domande.
Il retropensiero che risulterebbe amplificato nell’udienza, è ovvio: suggerire (magari senza dirlo con questa brutalità) che, per sottrarsi alla minaccia, Napolitano — e, perché no?, pure Spadolini — possa aver in qualche modo sollecitato, e ottenuto, maggior protezione per sé e misure di favore per i mafiosi al cercare duro. Per cui, chissà: forse una mediazione tra pezzi dello Stato e le cosche potrebbe aver ricevuto anche una simile spinta.
Una tesi evidentemente insopportabile, per l’inquilino del Quirinale. Una tesi che, per chiunque conosca la memoria da elefante del Presidente, Napolitano vorrà sgombrare con l’aspro puntiglio di quando si tenta di trascinarlo (senza rispettare la carica costituzionale che ricopre) in polemiche infondate e strumentali. Lo farà, probabilmente, a partire da certi vecchi e dimenticati atti ufficiali, ancorché riservati. Si sa, ad esempio, che in quei mesi il Sismi e il capo della polizia Parisi non risparmiavano segnalazioni di pericolo da parte mafiosa per esponenti politici e delle istituzioni, salvo archiviarle una volta verificata la loro affidabilità. Erano iniziative dovute, d’ufficio, insomma. Tanto che Scalfaro, allora capo dello Stato oltre che amico personale di Parisi, quasi ci scherzava sopra, sdrammatizzando.

Corriere 26.10.14
Il processo che qualcuno non vorrebbe e il nodo delle diverse interpretazioni
di Giovanni Bianconi


Alla vigilia della «storica» testimonianza del presidente della Repubblica — blindata oltre ogni disposizione della corte d’assise e della procedura penale, su indicazione del Quirinale — basta la frase di un pubblico ministero palermitano a riattivare la fibrillazione. «È un momento difficilissimo, questo processo non è voluto da tutti, specie dai rappresentanti dello Stato», dice Francesco Del Bene, uno dei quattro rappresentanti dell’accusa al dibattimento sulla presunta trattativa fra la mafia e uomini delle istituzioni al tempo delle stragi, mentre riceve il premio «Paolo Borsellino» insieme al collega Roberto Tartaglia. Ovvio che tre giorni prima della deposizione di Giorgio Napolitano, foriera di polemiche prima ancora di essere resa, una simile affermazione rischi di provocare nuovi scompigli nei non semplici rapporti tra politica e magistratura (in particolare palermitana). Tanto che lo stesso pm, subito dopo, sente il bisogno di precisare: intendeva riferirsi «a esponenti della politica in senso generale, e nello specifico a nessuna carica istituzionale». Né Napolitano né altri. Probabile che intendesse, piuttosto, quegli esponenti parlamentari — soprattutto del Partito democratico — i quali si scandalizzarono per il parere della Procura favorevole alla presenza degli imputati all’udienza quirinalizia, nel timore di nullità del processo. Di tutti, a partire dall’ex ministro Mancino; ma l’enfatizzazione dell’ipotetica partecipazione in video-collegamento di Totò Riina fece gridare allo sfregio istituzionale. «Quasi che stessimo facendo il gioco del boss», si offesero i pubblici ministeri. Dunque Del Bene voleva sottolineare un clima di ostilità intorno al processo che per i pm è solo un atto dovuto. Ma è inevitabile, oltre che legittimo, che altri abbiano pareri diversi; il problema sono, semmai, le contrapposizioni strumentali o il travisamento dei fatti. In una vicenda giudiziaria in cui gli stessi documenti vengono letti in maniera opposta. L’appunto dei carabinieri datato 20 giugno 1992 su possibili attentati a Borsellino e ai due politici siciliani Mannino e Andò, ad esempio, per l’accusa è la riprova di come Cosa nostra impiantò la trattativa con lo Stato, tra un omicidio e una bomba. Ma quella segnalazione è frutto di un’informativa redatta il giorno precedente dall’allora comandante del Ros Antonio Subranni, che oggi si ritrova imputato di aver rafforzato, coi suoi comportamenti, il ricatto mafioso. Mentre per la difesa è la dimostrazione che gli investigatori dell’Arma non hanno mai nascosto nulla e si sono sempre mossi nel rispetto delle regole, segnalando a chi di dovere ogni informazione utile al contrasto alla mafia. Questione di interpretazioni.

il Fatto 26.10.14
“La stampa fuori? Imbarazzante”
Willan del Sunday Herald: “Le istituzioni non si tutelano escludendo i giornalisti”
di Alessio Schiesari


Davvero credono che nascondendo la deposizione si possa tutelare la dignità del capo dello Stato? ”. Philip Willan, corrispondente del Sunday Herald e collaboratore del Times, vive a Roma da oltre trent’anni. Conosce benissimo l’Italia e i suoi mille misteri, che ha raccontato nei suoi libri. Ma, da britannico, fatica a capire la nota del Quirinale che esclude al presenza di giornalisti e telecamere durante la deposizione di Giorgio Napolitano al processo sulla trattativa, una decisione contro la quale ha protestato l’Ordine dei giornalisti.
La deposizione sarà riservata alle parti del processo: questo il diktat del Colle. È una
misura che protegge l’autorevolezza dell’istituzione?
Ci sono due principi in contrasto: da una parte la dignità del capo dello Stato, che Napolitano teme di vedere lesa. Ma ce n’è un altro più importante: la giustizia è uguale per tutti, e questo è il principio che dovrebbe prevalere. Poi c’è l’oggetto del processo: la trattativa tra lo Stato e la mafia. Ecco, considerando questo scenario, il sospetto che sia avvenuto qualcosa di non solo illegale, ma anche di vergognoso, è viva .
Qual è il ruolo della stampa in questi casi?
Napolitano è un rappresentante politico di lunghissima data: se si avvalesse del diritto di non rispondere, confermerebbe l’impressione che c’è qualcosa di molto imbarazzante da nascondere. La stampa serve a questo: ad aiutare l’opinione pubblica a farsi un’idea su un passaggio cruciale della storia del Paese.
Nel Regno Unito sarebbe ipotizzabile una misura del genere?
No, gli unici casi di processi a porte chiuse sono quelli che riguardano la sicurezza dello Stato o quelli di minori vittime di abusi. Ma in entrambi i casi, lo si fa solo per tutelare l’incolumità dei testimoni, quindi non c’entra nulla. E, comunque, anche in questi casi la stampa ha protestato perché il controllo dei mezzi di informazione serve a scongiurare il rischio di decisioni arbitrarie e prese in segreto.
Ricorda situazioni simili in altri Paesi?
In Francia, nel processo a carico di Jacques Chirac. Credo però che per la salute della democrazia italiana debba prevalere il principio di uguaglianza davanti alla legge. Vede, più vengono invocati dei privilegi a tutela della dignità istituzionale, più quella dignità viene meno, perché diventa poi legittimo chiedersi cosa si cerca di nascondere. Tutto questo non è rassicurante per la democrazia.
Ci sono i precedenti di impeachment dei presidenti Usa, da Nixon a Clinton.
C’è una distinzione da fare: Napolitano non è imputato, ma deporrà come testimone. Detto questo, a Washington sarebbe impensabile per un presidente una deposizione a porte chiuse, non importa quale sia il segreto militare o storico da tutelare.
Lei ha scritto di tanti misteri nostrani: Ior, Moro, Ambrosiano. Vede analogie con questo processo?
In Italia ci sono troppi misteri che aleggiano sulla democrazia. E i misteri portano a ricatti, che condizionano i protagonisti della vita pubblica e politica del Paese. Questa vicenda rientra nello stesso filone: quello in cui lo Stato si comporta in modo ambiguo e cinico. Anzi, criminale.

La Stampa 26.10.14
Autobus divisi, i rom si ribellano all’apartheid
Ancora polemica sulla proposta del Comune di Borgaro di istituire linee di trasporto separate

I nomadi: «Anche noi siamo esseri umani, chiediamo rispetto»
qui

Corriere 26.10.14
Un italiano su due è contro gli sbarchi ma dice sì alla cittadinanza agli immigrati
La maggioranza di ogni orientamento ritiene siano troppi gli irregolari e vadano respinti
di Nando Pagnoncelli


Recentemente la questione dell’immigrazione è ritornata di grande attualità dopo essere finita in secondo piano negli ultimi anni sia nell’agenda politica, sia in quella mediatica, nonché nella gerarchia delle priorità dei cittadini, preoccupati dell’occupazione, dei problemi economici e delle tutele sociali più che degli stranieri presenti in Italia.
Il segretario Matteo Salvini ne sta facendo uno dei principali cavalli di battaglia della Lega Nord e sembra essere premiato da questa scelta in termini di popolarità personale e di consenso per il proprio partito. Beppe Grillo ha fatto dichiarazioni che hanno suscitato grande clamore, sostenendo che chi entra in Italia con i barconi debba essere immediatamente identificato: i profughi sono da accogliere mentre i clandestini sono da ris pedire a casa. Qualche settimana prima, scrivendo sul suo blog, rifletteva sul rischio di infezioni conseguente all’arrivo crescente di extracomunitari. Salvini e Grillo sono due leader che hanno un grande fiuto riguardo a quanto si sta muovendo nell’opinione pubblica e il sondaggio odierno lo conferma.
La maggioranza assoluta degli intervistati (56%), infatti, ritiene che gli immigrati in arrivo siano troppi e bisognerebbe rimandarne indietro molti; il 30% pensa che il loro numero sia adeguato ma si debbano impedire nuovi arrivi mentre il 9% ritiene che tutto sommato gli extracomunitari siano pochi, tenuto conto del contributo che possono dare al nostro Paese in termini di natalità e di lavori umili che gli italiani preferiscono non svolgere.
Secondo l’84% l’Europa ha lasciato solo il nostro Paese nel fronteggiare l’emergenza crescente degli sbarchi degli immigrati. Una ristretta minoranza è di parere opposto e pensa che l’Italia si lamenti troppo dato che il numero di immigrati presenti sul nostro suolo è inferiore rispetto a quello di altri Paesi.
Le opinioni si dividono nettamente rispetto alla politica adottata dall’Italia sugli sbarchi: un italiano su due è del parere che siamo stati troppo tolleranti e avremmo dovuto respingerli, mentre il 42% pensa che ci siamo comportati nel modo giusto, né troppo tolleranti né troppo rigidi; infine il 6% ritiene che siamo stati troppo rigidi, poco solidali e accoglienti. Le critiche all’eccesso di tolleranza prevalgono tra tutti gli elettori con l’eccezione di quelli del Pd. Ed è interessante sottolineare che tra i cattolici la percentuale di coloro che criticano la tolleranza è superiore (oltre 53%), nonostante le posizioni assunte da papa Francesco su questo tema a partire dalla simbolica visita a Lampedusa del luglio 2013. Va tuttavia ricordato che tra i cattolici prevalgono i segmenti più sensibili agli allarmi sociali (persone anziane, meno scolarizzate, residenti nei centri più piccoli, ecc.) e la paura determina spesso reazioni di chiusura.
Infine il tema dello ius soli: la proposta avanzata dal premier Renzi di riconoscere la cittadinanza ai figli degli immigrati che sono nati in Italia e hanno completato almeno un ciclo di studi scolastici incontra il favore del 43% degli italiani; un intervistato su quattro (26%) si mostra ancora più aperto, dichiarandosi favorevole a concedere la cittadinanza a tutti i figli di immigrati nati in Italia indipendentemente dalle scuole che hanno frequentato. E, al contrario, una percentuale di cittadini simile (27%) appare più chiusa, ritenendo sbagliato modificare le norme attuali e facilitare l’acquisizione della cittadinanza italiana. Gli atteggiamenti di chiusura prevalgono solo tra gli elettori di Forza Italia (45%), sebbene Silvio Berlusconi in settimana abbia sostenuto che è doveroso dare la cittadinanza ai figli degli immigrati.
In sintesi: gli italiani si dividono sul giudizio riguardante la gestione degli sbarchi, pensano che l’arrivo degli immigrati sia eccessivo, ritengono che l’Europa ci abbia lasciati soli ad affrontare il problema, sono prevalentemente favorevoli al riconoscimento della cittadinanza agli immigrati nati in Italia.
Il tema dell’immigrazione è molto complesso e suscita nella pubblica opinione reazioni ambivalenti, influenzate dalla prospettiva con cui viene affrontato. I cinque milioni di immigrati presenti in Italia non rappresentano un gruppo omogeneo, basti pensare ai Paesi di provenienza, alle condizioni lavorative, oppure al fatto che si tratti di stranieri di seconda generazione o arrivati da poco. Quanto più l’immigrato viene considerato come un fenomeno sociale indistinto tanto più prevalgono gli atteggiamenti di preoccupazione e di chiusura. Al contrario se si fa riferimento a persone straniere con cui si entra in contatto (dalle badanti ai compagni di scuola dei propri figli) le opinioni cambiano. La politica sembra esserne consapevole e per inseguire il consenso oscilla tra chiusure (i respingimenti) e aperture (ius soli), allo stesso modo dell’opinione pubblica.

Corriere 26.10.14
Gaggiano, l’Anpi ferma le band neonaziste di black metal
L’evento internazionale si dovrebbe tenere il 1° novembre, sul palco gruppi antisemiti come i polacchi Infernal War
di Olivia Manola

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La Stampa 26.10.14
Barbareschi verso la direzione dell’Eliseo


Luca Barbareschi dovrebbe essere il nuovo direttore artistico e gestire il Teatro Eliseo; gli abbonati, assicura, possono stare tranquilli: «La stagione è salva». L’attore è disposto a rilevare la quota di Vincenzo Monaci, attuale direttore, che però precisa che non è stato ancora raggiunto alcun accordo: «Ci vuole la maggioranza dei 4/5 delle quote (suddivise tra tre soci)» e lui non ha ancora dato il suo assenso. Sul teatro pende una minaccia di sfratto a fine mese

il manifesto 26.10.14
Striscia di Gaza
Shujayea, dopo le bombe il silenzio
Reportage dal quartiere di Gaza city distrutto in larga parte dai bombardamenti israeliani della scorsa estate
Le speranze di ricostruzione si scontrano con le promesse di finanziamenti che non si materializzano e le pesanti condizioni imposte da Israele
di Michele Giorgio

qui

La Stampa 26.10.14
Amos Oz
Sono un traditore e me ne vanto
Si intitola Giuda il nuovo romanzo dello scrittore israeliano “Sono in ottima compagnia: Geremia, Lincoln, Ben Gurion...”
intervista di Elena Loewenthal


Amos Oz è atteso a Milano per Bookcity, la kermesse in programma dal 13 al 16 novembre con 900 eventi in Italia oltre un milione e mezzo di copie
Il suo ultimo romanzo, Giuda (Feltrinelli, pp. 329, € 15,30), esce in questi giorni in Israele e in Italia. Amoz Oz è felice di questa coincidenza perché ama il nostro paese e ne è ricambiato. A più di dieci anni di distanza dall’indimenticabile Una storia di amore e di tenebra, che nel nostro paese ha venduto più di un milione di copie, lo scrittore israeliano torna ai suoi lettori con un romanzo di grande respiro. Pieno di malinconia e di ombre, di voci e silenzi. Un grande romanzo per il quale non si esita a usare la parola «capolavoro» perché non gli manca nulla per stupire e coinvolgere. Ora, dalla sua casa di Tel Aviv, Oz aspetta con serenità ma anche un poco di trepidazione le impressioni di critici e lettori, tanto in Israele quanto in Italia.
Anche Giuda è in fondo una storia «di amore e di tenebra» che intreccia una vicenda personale e quella nazionale. Quali sono le sue note dominanti?
«È una storia molto intima, da teatro da camera. Ci sono tre personaggi e molti spettri, che vivono nell’ultima casa di Gerusalemme, in fondo alla città. Siamo nell’inverno tra il 1959 e il 1960. Sono persone molto diverse fra loro: Shemuel ha 23 anni, è un rivoluzionario che vuole capovolgere il mondo e all’inizio ama perdutamente Che Guevara ma alla fine del libro un po’ meno. Gershom Wald è il suo contrario: un vecchio invalido disilluso, contrario a tutte le rivoluzioni, alla sola idea di redimere il mondo, ma non certo perché sia buono, anzi. Fare, secondo lui, significa irrimediabilmente guastare. Fra i due c’è Atalia, una donna di 45 anni, molto affascinante e sensuale ma delusa dalla vita. Ce l’ha con il mondo e in particolare con il genere maschile. Il romanzo è in fondo la cronaca di un miracolo: alla fine del libro i tre si vogliono bene. Non ero sicuro di riuscire a far succedere questo piccolo miracolo, quando ho cominciato a scrivere. Sono contento per loro, che sia successo. Sapevo che sarebbe stato difficile. Shemuel, come Giuda, è un traditore. Tradisce i genitori rifiutandoli, i professori abbandonando la ricerca. Ma in quei quattro mesi d’inverno impara ad amare la mamma. E ci va anche a letto, cosa che in fondo capita più o meno a tutti, idealmente…».
InGiudaGerusalemme torna al centro della storia. Che cosa è per lei questa città?
«Almeno sette-otto dei miei romanzi si svolgono qui, più o meno a metà del secolo scorso, quando la città è divisa fra Israele e Giordania, è accerchiata dal filo spinato e dalle mine. È una città dalla frontiera invalicabile. Assediata dal nemico, malinconica come poche altre. Ma è anche la città dei sogni di redenzione. A Gerusalemme tutti sono anche un po’ profeti e un po’ messia».
Al centro del romanzo, cominciando dal titolo, c’è il tema del tradimento. La sua scrittura esplora sempre i sentimenti più ardui da descrivere così come da confessare. Quale, per l’appunto, il tradimento. Perché l’ha scelto come filo conduttore?
«Sono sempre stato attratto dai traditori. Mi affascina la persona che gli altri chiamano “traditore” perché anticipa i tempi. È l’uomo che cambia mentre gli altri no e non capiscono, anzi temono il cambiamento. Anch’io sono stato chiamato e ancora mi chiamano traditore. Ma considero questo appellativo alla stregua di una medaglia! E sono in ottima compagnia, sa. Il profeta Geremia è chiamato traditore. Come Abramo Lincoln che ha abolito la schiavitù. Churchill che ha fatto a pezzi l’impero britannico e De Gaulle che ha posto fine al colonialismo francese sono stati accusati di tradimento. Per non parlare di Ben Gurion che nel novembre del 1947 ha accettato la spartizione della Palestina in due Stati, uno ebraico e uno arabo. Anwar el-Sadat, che ha fatto la pace con Israele, è stato ammazzato perché lo consideravano un traditore. Begin che ha restituito il Sinai all’Egitto, Rabin che ha fatto la pace con i palestinesi: anche loro sono stati chiamati traditori. In breve, è un club di cui sono fiero di fare parte. E in questo mio romanzo, tra i fantasmi che abitano l’ultima casa di Gerusalemme, c’è anche Giuda Iscariota, l’oggetto della tesi di laurea che Shemuel lascia bruscamente a metà. Giuda è un traditore, ma è anche il più fedele discepolo di Gesù. È, soprattutto, colui che lo ama più di ogni altro».
A proposito di fantasmi presenti - e assiduamente - nella casa di Gerusalemme in cui si svolge la storia, ce n’è uno non meno ingombrante. È il padre di Atalia, Shaltiel Abrabanel. Politico, pensatore eccentrico, teorico del sionismo o forse soprattutto sognatore?
«Shaltiel è molto vicino a Giuda, ma ancor più a Gesù: crede fermamente nell’amore universale. Auspica un mondo senza Stati e senza confini nazionali. Fatto di molte lingue, molte culture, molte comunità, ma senza eserciti né frontiere. È utopia, questa? La risposta la dà sua figlia Atalia, che di lui dice: non apparteneva a questo mondo. È vissuto troppo presto o troppo tardi. Per parte mia, sarei felice di sapere che i miei pronipoti e i nipoti dei miei nipoti vivranno in un mondo senza confini, in un mondo non dissimile da quello che Shaltiel ha sognato fino alla fine della sua travagliata vita, ancora una volta segnata dalla macchia del “tradimento”. Ma, venendo a temi più concreti e presenti, se mi chiedete: è possibile mettere nello stesso letto palestinesi e israeliani? Dire loro: adesso piantatela di odiarvi e amatevi? La risposta è chiara: no. Per ora no. La realtà non risponde al sogno. Per ora no».

il Fatto 26.10.14
Altro che alleato, l’Iran uccide Reyhaneh e torna all’anno zero
di Giampiero Gramaglia


INUTILI GLI APPELLI, COMPRESO QUELLO DEL PAPA. LA DONNA SI SAREBBE POTUTA SALVARE NEGANDO IL TENTATIVO DI STUPRO DA PARTE DI UN EX AGENTE DEI SERVIZI, MA NON L’HA FATTO

L’immagine agghiacciante di Reyhaneh Jabbari, 26 anni, che “danza sulla forca” impiccata all’alba, è da ieri un ostacolo in più al controverso riavvicinamento tra Teheran e l’Occidente: un percorso di per sé difficile, reso più accidentato da un intreccio di contraddizioni. L’Iran è presenza regionale ineludibile nella guerra al Califfato ed è partner commerciale ed energetico pesante per molti Paesi, fra cui l’Italia; ma è pure sospettato di volere l’atomica ed è nemico giurato degli Stati Uniti, ‘satana’ da combattere, così come Israele va distrutta.
E la natura teocratica dello Stato iraniano, la cui guida suprema è l’ayatollah Khamenei, è elemento d’ulteriore diffidenza. L’elezione alla presidenza, nell’agosto 2013, del moderato Hassan Rouhani ha creato i presupposti per migliori relazioni. Ma vicende come quella di Reyhaneh – o come quella a lieto fine di Sakineh Mohammadi Ashtiani – testimoniano, però, la distanza che resta fra l’Iran e l’Occidente e che innesca contraddizioni: Emma Bonino, che è stata recentemente a Teheran e sostiene la necessità di dare credito a Rouhani, è anche una convinta avvocata dei diritti umani.
C’È MOLTA PIETÀ e un po’ d’ipocrisia, nelle reazioni all’esecuzione di Reyhaneh: condanne unanimi, da ogni dove. La pena di morte non è un’esclusiva iraniana, neppure per giovani la cui colpa è incerta – negli Usa, ci volle la storia di Paula Cooper per svegliare le coscienze sulla questione, non troppo tempo fa –. L’impiccagione di ieri non fermerà il dialogo d’interesse con Teheran, ma alimenterà sottofondi di diffidenza.
La Jabbari uccise nel 2007, non ancora ventenne, un ex agente dei servizi segreti iracheni, Morteza Abdolali Sarbandi, che l’avrebbe stuprata: lo pugnalò alle spalle, un gesto che per i giudici avalla la tesi della premeditazione e indebolisce quella della legittima difesa. Per l'Alto Commissariato per i diritti umani dell'Onu, il processo del 2009 fu viziato da irregolarità: la confessione di Reyhaneh sarebbe stata estorta con minacce e pressioni. Sarbandi avrebbe attirato la Jabbari nel suo appartamento col pretesto di offrirle un incarico e avrebbe poi tentato di abusarne. La giovane, un’arredatrice d’interni, era da cinque anni nel braccio della morte. A suo favore, c'erano stati numerosi appelli internazionali: Papa Francesco, Amnesty International, il ministro degli Esteri Federica Mogherini e tanti intellettuali iraniani mobilitati dalla madre Shole Pakravan, un’attrice di teatro molto nota.
PROPRIO LA MADRE ha postato su Facebook quelle tragiche parole: “Mia figlia con la febbre ha ballato sulla forca”. La donna era fuori dal carcere, con un centinaio di persone, familiari, amici, attivisti dei diritti dell’uomo. La campagna per salvare la giovane ha scritto “Riposa in pace”. L’esecuzione della sentenza era stata fissata al 30 settembre, ma era stata poi rinviata, facendo sperare in un atto di clemenza. Venerdì, la madre aveva potuto visitare Reyhaneh per un'ora: segno che l'impiccagione era imminente. Amnesty aveva subito rilanciato la mobilitazione, questa volta senza esito. Nelle ultime settimane, una petizione per sospendere l’esecuzione era stata firmata da quasi 250.000 persone.
Il perdono della famiglia della vittima avrebbe salvato la giovane dalla forca, ma il figlio dell'uomo voleva che Reyhaneh negasse il tentato stupro e lei s’è sempre rifiutata di farlo. Per le leggi iraniane il perdono dei parenti della persona uccisa può evitare la legge del taglione al condannato. Il ministro Mogherini, voce italiana, ma ormai pure europea, ha espresso dolore per l'impiccagione di Reyhaneh, “vittima due volte” prima di uno stupratore e poi del sistema giudiziario. Questo “conferma che è proprio sulla difesa dei diritti fondamentali che il dialogo tra i Paesi resta più difficile. Eppure, la difesa dei diritti umani e l'abolizione della pena di morte sono battaglie fondamentali che l'Unione e l’Italia non rinunceranno mai a portare avanti in tutte le sedi”. Dopo la Cina, l’Iran, con circa 250 esecuzioni quest’anno, è la maggiore ‘fabbrica di omicidi legali’ al mondo, ben davanti agli Stati Uniti.

il Fatto 26.10.14
La giornalista Ramita Navai
“Teheran è la città delle bugie: se vuoi vivere, menti”
intervista di Michele Marelli


Nella prefazione del suo libro City of Lies: Sex, Death and the Search for Truth in Tehran (La città delle bugie: sesso, morte e ricerca della verità a Teheran”) Ramita Navai, giornalista anglo-iraniana di Channel 4 scrive: “Chiariamolo subito: per poter vivere a Teheran, dovete mentire. I principi morali non c’entrano niente: mentire, a Teheran, è una questione di sopravvivenza... Quando la verità viene condivisa, a Teheran, si tratta di un atto di estrema fiducia o di assoluta disperazione”.
Come è nata l’idea di questo libro?
Stavo lavorando a Teheran come corrispondente per The Times, quando il mio permesso stampa fu revocato. Questa cosa capita spesso in Iran, ogni giornalista lo sa: bisogna stare molto attenti a quello che si scrive. Io avevo parlato di un prigioniero politico che stava conducendo uno sciopero della fame e di un film, Marmoulak (la lucertola, ndr), al centro di feroci critiche da parte del clero sciita. In genere non ti viene chiaramente detto che il tuo permesso stampa è stato revocato. Nel mio caso, un ufficiale del Ministero della Cultura e della Guida Islamica mi fece capire che per un po’ non avrei potuto scrivere. Così decisi di iniziare a lavorare come volontaria in una scuola di Teheran Sud. I bambini, lì, erano afghani, zingari o figli di prostitute. Nessuno di loro aveva avuto la possibilità di ricevere un’istruzione. Nello stesso periodo, feci amicizia con una prostituta eroinomane che aveva contratto l’HIV. Entrambe le esperienze mi fecero scoprire un mondo nuovo.
Il sottotitolo del suo libro è Sex, Death and the Search for Truth in Tehran. Partiamo dal sesso. L’Iran è ritenuto un Paese conservatore. In teoria, il sesso fuori dal matrimonio è severamente punito.
L’intento del libro è mostrare, attraverso la discussione di alcuni temi nodali, e il sesso è uno di questi, l’adattabilità del popolo iraniano e il modo in cui questo è riuscito a sopravvivere in un ambiente così oppressivo. La vita sessuale degli iraniani è emblematica, in questo senso: un perfetto esempio di negoziazione con le regole, le leggi e le restrizioni sociali. Per molti il sesso sta diventando una forma di rivolta, di ribellione. Il governo esercita un controllo talmente capillare su ogni aspetto della vita quotidiana che solo attraverso il sesso i giovani riescono a sentire di avere ancora un controllo sul proprio corpo, di essere liberi. Ritengo che in Iran sia in corso un ‘risveglio sessuale’ tra le nuove generazioni e, aggiungo, questo fenomeno sta abbracciando tutti i settori della società.
A giudicare dalla sua descrizione, verrebbe da pensare che proprio l’intervento del governo sulla vita privata dei giovani stia spingendo questi verso il tanto stigmatizzato ‘peccato’.
Ovviamente non è una conseguenza voluta, ma è indubbio che in questo il regime abbia un’enorme responsabilità. Se ti proibisco una cosa, poi la vorrai ancora di più. Come l’alcol: è proibito dalle autorità, ma lo vendono ovunque.
Parliamo delle ragazze che sono le sue protagoniste.
Ho cercato di delineare alcuni profili completamente diversi. Si può trovare la ragazza fieramente religiosa – che indossa il chador, ama la Guida Suprema (Ali Khamenei, ndr) e supporta il regime – la ragazza benestante di Teheran Nord, la signora anziana, la ragazza che vive per conto proprio… Ognuna di loro si trova a fare i conti con i propri problemi e con il proprio mondo, un mondo in continua evoluzione. Nonostante le enormi differenze che le separano, sono donne.
Ha raccolto diverse storie. Ce ne vuole raccontare una che l’ha particolarmente colpita?
Vi parlerò di un ragazzo di nome Amir. Un giorno riceve una telefonata da un signore anziano che non conosce. “Possiamo incontrarci? ”, gli chiede il vecchio. I due si danno un appuntamento. Di fronte ad Amir l’uomo scoppia in un pianto disperato e chiede perdono. Viene fuori che era proprio lui il giudice che aveva fatto condannare a morte i genitori di Amir, durante la Rivoluzione Islamica. Secondo me, questa storia rappresenta magnificamente non solo il modo in cui l’Iran è cambiato, a partire dagli eventi del ’79, ma anche l’estrema umanità degli iraniani. C’è una profonda gentilezza, un’autentica umanità all’interno del cuore della società persiana.

La Stampa 26.10.14
Sulla Primavera di Tunisi incombe l’onda islamista
Qui iniziarono le rivolte arabe, ora gli estremisti sono sempre più forti
di Domenico Quirico

Un amico mi telefona dalla Tunisia, piatto, ingrugnato, irriconoscibile: «In Europa non c’è più interesse per noi, se ne parla a vanvera come se fossimo diventati un paese normale. E invece abbiamo abitato per quattro anni in una casa non finita e ora stanno ritornando in politica con le vele gonfie, tronfi, pieni di denaro i cacicchi del partito di Ben Ali il dittatore, e pretendono di prender posto, dicono che è cosa loro. La strategia della smemoratezza avanza, ci ingannano e ci inganniamo dicendo che in fondo la dittatura aveva lati buoni. Intanto gli islamisti armati continuano ad agire. In attesa del ritorno dei “siriani”. Andiamo a votare un’altra volta, già: ma a che serve?».
Penso allora a questi quattro anni: la libertà mantenuta a gran fatica, una Costituzione approvata, ma anche i delitti di stato, le provocazioni, i fantasmi di rozzi e balordi dogmatismi e il rischio che gli eroi del tempo della ribellione dei gelsomini si scorino, confondano, perdano il filo e la memoria. Oggi i tunisini andranno a votare per le legislative, per chiudere, finalmente, una transizione infinita cominciata nel 2011. Penso che la Primavera di questo paese, la prima nel tempo, la più pura, a guardarla ora, realizzata a colpi di coraggio e presentata al popolo, a cose fatte, in maniera insipidissima e con elementare semplicità e semplicioneria demagogica, ha favorito ben altra superstizione: che i fatti storici avvengano per prepotenti e fortunati miracoli di pochi e che gli Stati poi si reggano per occulti interessi e macchinazioni. Dei quali e delle quali sono sempre i tunisini a pagar le spese, ora che il benessere mille volte promesso dai democratici di questi anni, soprattutto da quelli abitudinari della moschea, è rimasto un sogno fuor che per un ceto ristretto di politici, di politicanti e di abbienti.
La cifra sicura del 50 per cento di astensione (la si deduce dalle magre iscrizioni alle liste elettorali), è l’unica che parli chiaro: bocciatura sonora per tutta la accozzaglia di partiti e partitini che si presentano ancora una volta a promettere, a garantire benessere, potere di acquisto, fine delle diseguaglianze tra regione e regione, accuratezza amministrativa, pulizia. Diserbante verbale: perché tutti sono poi senza veri programmi. Agli occhi dei tunisini, chiamati a esser sovrani senza aver avuto il tempo di diventare cittadini, la politica sta diventando in modo permanente la nemica del benessere e del benestare: stato, leggi, istituti, doveri e diritti, i concetti fondamentali della sovranità popolare, suscitano solo i sensi di una accidia crucciosa e sarcastica. E la primavera di quattro anni fa rischia con il passare del tempo di essere assimilata a una delle solite e triviali adulterazioni della Storia tirata a servire e ad esprimere passioni e fazioni del momento. Perché la miseria dopo quattro anni di fallimentare prova del partito islamico ma anche dei tecnici laici, è grande. I candidati alle legislative di oggi e ancor più quelli delle presidenziali del 23 novembre si sono gettati a colpi di parcelle milionarie sui servizi professionali di comunicazione: per colmare il vuoto di idee e di risultati. Ennahda, il partito islamico, trionfatore delle prime elezioni libere ma oggi in crisi di identità e di consensi, ha firmato il contratto con una prestigiosa agenzia londinese, Burson Marsteller, per la cifra di 14 milioni di euro. Non basteranno, pare, come la nuova frettolosa immagine di partito della riconciliazione e del dialogo, a far delirare le passioni e dissipare l’atono malumore dei tunisini. La previsione è quella di un governo di unità nazionale come invocano tutti, ma per necessità aritmetica e non per scelta ecumenica.
In Tunisia l’Islam conservatore, alla turca, a parole rispettoso delle regole democratiche ma indaffarato a occupare poltrone e società per roderla dall’interno, pare aver fatto fiasco: come in Egitto. Anche se non saranno, per fortuna, i carri armati a dissellarlo ma le urne. Ma ora il confronto è brutale. Perché restano gli Altri, gli islamisti più brutalmente totalitari con il kalashnikov e le bandiere nere.
Alle elezioni si arriva con l’attenzione distratta dall’assedio di una casa nella banlieue di Tunisi, a Oued Elil, dove un commando si è barricato con donne e bambini che usano come scudi umani. Un gendarme è stato ucciso. Sono le periferie in cui spropositavano nel 2011 con gran successo, le prediche di Abu Iyadh, il fondatore di Ansar al Sharia, versione indigena della settaria e barbara insurrezione islamista. Mentre politicanti di lungo corso e di avidissimi appetiti si attardano e temporeggiano, nei corridoi del Palazzo di Cartagine ci sono 5 mila tunisini, forse di più, che indossano funebri barracani e che si stanno battendo nei territori del califfato, in Siria e Iraq. Sono i delusi di rivoluzioni tradite, convertiti all’internazionale dei ribelli in perpetuità. Non li farà certo ravvedere da queste sanguinanti quaresime lo spettacolo del ritorno in politica dei pretoriani di Ben Ali e dell’avida Prima Coiffeuse. Uno di loro, ex ministro della Giustizia negli anni della più infuocata repressione, interrogato in tv sulle violazione dei diritti umani allora commesse, ha risposto: non me ne sono accorto.

Corriere 26.10.14
Tanti intrighi e poco Corano dietro lo Stato dell’Isis
di Giuseppe Sarcina

I tagliagola dello Stato islamico si presentano come uomini devoti, anzi come i musulmani più autentici, i più fedeli del pianeta. Il 29 giugno scorso, il loro leader, Abu Bakr Al Baghdadi, ha proclamato la rinascita del «Califfato» nell’antica mezzaluna tra i fiumi Tigri ed Eufrate: è l’Is, lo Stato islamico appunto, derivato dall’Isis, lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante.
Combattono in modo mostruosamente crudele e, nello stesso tempo, si richiamano a tradizioni e fondamenti coranici ispirati alla giustizia e alla tolleranza tra confessioni diverse. È una contraddizione che si può comprendere soltanto ripercorrendo il percorso storico, teologico e ideologico di questi nuovi leader islamici. Predicano il ritorno alle origini, all’età del profeta e dei suoi primi successori «ben guidati».
È un salto all’indietro, nell’Alto medioevo del VII secolo dopo Cristo: un avvitamento culturale, prima ancora che sociale e politico, inconcepibile per l’Occidente e per una larga fascia dell’intellettualità e dell’opinione pubblica musulmane. Ma questo è il progetto che s’avanza tra i kalashnikov e le bandiere nere. Si potrebbe dire Oltre la democrazia , come titola il suo ultimo libro Massimo Campanini, professore associato di Storia dei Paesi islamici all’Università di Trento. Il volume, appena pubblicato da Mimesis, raccoglie sette saggi dell’autore opportunamente riproposti oggi, perché, nonostante almeno 13 anni di attenzione costante (dall’11 settembre 2001 in avanti), risulta ancora difficile decifrare il mondo degli islamisti radicali.
Le basi politiche coincidono con quelle teologiche o forse sarebbe meglio dire il contrario: la religione detta i principi cardine anche nella sfera pubblica. Fa fede innanzitutto il Corano, naturalmente. Può sorprendere, ma nel testo sacro dell’islam i riferimenti espliciti alla dimensione politica sono solo due. Il primo è il «versetto dei potenti» ( Sura delle Donne , 4, 58-59): «Iddio vi comanda... quando giudicate fra gli uomini, di giudicare secondo giustizia... O voi che credete! Obbedite a Dio, al suo Messaggero e a quelli di voi che detengono l’autorità». L’altro passaggio, brevissimo, si trova nella Sura della Consultazione , la 42ª, versetto 38: «Coloro che obbediscono al loro Signore... delle loro faccende decidono consultandosi tra di loro».
Tutta la costruzione teorica e la propaganda dello Stato islamico poggia su questi esigui dettati coranici e sulla più cospicua raccolta di comportamenti e affermazioni del profeta, chiamata Sunna. Nel 622 Maometto lascia la Mecca e si insedia a Medina (è l’Egira, l’Emigrazione). Nella città, dominata da ebrei e pagani, l’inviato di Allah organizza i musulmani in una comunità-Stato, la Umma, regolata dalla parola del profeta e da poche norme confluite nella Costituzione medinese. Dieci anni dopo, nel 632, Maometto muore senza indicare chi dovesse essere il suo «califfo», cioè il «successore». All’inizio i contrasti tra le diverse fazioni vengono contenute con la scelta di Abu Bakr e Omar. Poi, nel 644, la Umma si lacera sul nome di Othman, che viene preferito ad Alì, genero e cugino del profeta. Seguono anni torbidi, di congiure e assassinii. Cade Othman, Alì sale al grado di califfo, ma anche lui, nel 661, viene ucciso.
Fin qui la ricostruzione di Campanini, che mostra come le implicazioni teoriche e pratiche di quella vicenda storica siano tornate cruciali negli ultimi anni. E non solo perché è in quel momento che compare la frattura, mai più ricomposta, tra i musulmani. Gli sciiti (i «frazionisti») si staccano dai sunniti, accusandoli di aver tradito la volontà del profeta, ostacolando l’ascesa di Alì al califfato. In realtà la concezione primigenia dell’Isis si sovrappone a quella del salafismo, l’anima più intransigente dell’islam che propone «i pii antenati» (i «salafi») come modello morale insuperato. Al Baghdadi e i nuovi leader vi aggiungono la dimensione politica del profeta e dei primi califfi. L’appello dell’Isis si rivolge alla totalità dei fedeli di Allah, perché fa riferimento alla «Fonte della Verità» che precede i conflitti che hanno portato alla distinzione tra sunniti e sciiti.
Le circostanze storiche, cioè l’instabilità in Siria e in Iraq, offrono un’occasione per ricostruire, combattendo furiosamente (cioè praticando la jihad nell’interpretazione più estrema), il Califfato di Medina del VII secolo, uno Stato interamente islamico ispirato dalla sharia , la «via maestra» del Corano, e organizzato secondo i due principi politici contenuti nel testo sacro e derivati dai comportamenti e dalle opinioni del profeta (Sunna e Hadith). I «veri» musulmani non devono farsi «corrompere» dalla democrazia. «L’obbedienza alle autorità» è imposta dal Libro, che prescrive anche «la consultazione» (la shurà ) tra i fedeli per temperare il potere decisionale.
La capacità di attrazione dell’Isis probabilmente deriva da una doppia crisi dell’islam. La prima è stata individuata, tra gli altri, dal grande arabista Bernard Lewis. Nella Crisi dell’Islam (pubblicato in Italia da Mondadori) Lewis analizza l’incapacità della cultura musulmana di comprendere e adattare alle proprie esigenze il modello democratico. Ne è seguita la devastante stagione del terrorismo guidato da Al Qaeda. A partire dal 2011 fioriscono le primavere arabe: sembrano la risposta allo scetticismo di Lewis e di tanti altri. Ma tre anni dopo il riformismo islamico risulta sconfitto in Egitto, in Libia, in Siria. Fa eccezione solo la piccola Tunisia.
L’egemonia moderata dei Fratelli musulmani pare evaporata; le sperimentazioni politiche spazzate via dagli scontri armati. Tra gli osservatori si ritorna a parlare di «incompatibilità» tra mondo arabo (e quindi islam) e democrazia. In Italia tra i primi a farlo, ancora nel pieno degli entusiasmi per le rivoluzioni di Tunisi o del Cairo, c’è Domenico Quirico con il suo Primavera araba (Bollati Boringhieri, 2011).
La dottrina dello Stato islamico si nutre di questi fallimenti, veri o presunti che siano, e le file dei suoi combattenti si ingrossano.

Corriere 26.10.14
«Un suicidio trasformato in spettacolo»
L’ultima settimana di Brittany divide gli Usa
Polemiche su una foto ritoccata in copertina. Lei: sto solo cercando di morire con dignità
di Massimo Gaggi


NEW YORK Un’anima coraggiosa che, trasformando in crociata i suoi ultimi giorni di vita, mette il dramma e i problemi dei malati terminali davanti a un’America che fin qui ha chiuso gli occhi illudendosi di essere immortale o di poter morire come dei film, l’ultimo respiro esalato senza grandi sofferenze? O una ragazza disperata che, nella civiltà della comunicazione e delle immagini, cerca febbrilmente di dare un senso alla fine della sua esistenza trasformandola in spettacolo? Gli ultimi giorni di vita di Brittany Maynard, la ventinovenne di San Francisco che, colpita da un cancro al cervello molto aggressivo, si è trasferita col marito Dan e la famiglia in Oregon per potersi suicidare in modo legale con l’assistenza di un medico, sono stati scossi da polemiche e accuse. Ad attaccare sono le associazioni che si battono per la tutela della vita sempre e comunque e i sanitari convinti che bastino le cure palliative per consentire ai malati terminali di morire con dignità. Attenti a non mettere sul banco degli imputati questa ragazza di rara bellezza che, appena sposata e con la vita davanti, è precipitata in un dramma che ha commosso l’America, trattano tuttavia Brittany da marionetta manovrata ai propagandisti dell’eutanasia.
«La discussione non ci spaventa» dice Annie Singer, la portavoce di «Compassion & Choices» che è in contatto quotidiano con Brittany. «La nostra missione è quella di sensibilizzare cittadini e sistema politico. Un dibattito, anche acceso, ci sta. Ma è falso e offensivo parlare di una Brittany telecomandata. È lei che ci ha cercato offrendosi come “testimonial” della nostra causa. E lo ha fatto solo dopo aver preso le sue decisioni, aver sentito i medici, esserci procurata i farmaci letali. Vuole offrire il suo esempio affinché la possibilità di ricorrere al suicidio assistito sia offerta a tutti i malati terminali che vogliono morire con dignità e non solo a chi ha i soldi per trasferirsi in Oregon o negli altri tre Stati che ammettono questa pratica».
La campagna ha funzionato: il video nel quale Brittany racconta la sua breve vita felice, l’amore per i viaggi, il desiderio di avere figli, il matrimonio con Dan e la scoperta, nel gennaio scorso, di essere condannata a morte da una malattia che le avrebbe devastato il corpo e la mente, è stato visto su YouTube più di otto milioni e mezzo di volte. Le televisioni si sono fatte una guerra spietata per accaparrarsi le ultime interviste con Brittany (solo la CBS ne ha avuta una vera), mentre lei è finita sulla copertina di «People», il settimanale popolare più diffuso d’America.
Ma è proprio questa sovraesposizione mediatica, unita al messaggio finale della Maynard — «esauditi i mei ultimi desideri, il primo novembre salirò in camera da letto e, circondata dai miei cari e dalla musica che amo, porrò fine alla mia esistenza» — che ha scatenato accuse a raffica: «Il suicidio assistito in Oregon esiste da 17 anni: stavolta fa notizia perché Brittany è bella». E ancora: «“People” ha ritoccato la foto della “cover story” per farla apparire ancor più affascinante: qui si cerca di rendere sexy la morte».
Brittany non ha replicato, cercando di vivere nel modo meno traumatico possibile il suo ultimo scorcio di vita. Tre giorni fa ha coronato anche il penultimo desiderio: visita al Grand Canyon, nonostante i frequenti mal di testa e gli attacchi quotidiani che le provocano convulsioni e le tolgono per un po’ la parola. Adesso vuole festeggiare il compleanno di Dan, il 30 ottobre. Poi, dice lei, sarà pronta lasciare questo mondo. Lo farà davvero? Kara Tippets, che ha scritto un libro sulla sua esperienza di malata terminale di cancro al seno, ha chiesto a Brittany di ripensarci e lo stesso hanno fatto molti altri pazienti incurabili convinti di poter morire con dignità anche senza eutanasia. Sulla «National Review» Wesley Smith ha scritto che a questo punto Brittany, anche se assalita dai dubbi, non può più tornare indietro, spinta da «Compassion & Choices» e dai media che aspettano la sua morte-spettacolo.
Brittany ha taciuto a lungo, ma quando Ira Byock, uno specialista in medicina palliativa, ha sostenuto in tv che lei potrebbe morire con dignità anche con questo tipo di cure se non fosse ormai prigioniera del partito dell’eutanasia, non ce l’ha fatta più e ha replicato con un secco messaggio su Internet: «Decido solo io. Avere in tasca il farmaco col quale posso togliermi la vita mi dà un po’ di libertà: non dipendo più totalmente dalla malattia che mi devasta. Amo la vita ma proprio per questo non voglio ridurmi in condizioni miserabili. Voglio morire con dignità».
Sapere se Brittany si ucciderà davvero sabato prossimo, in fondo serve solo a confezionare un titolo sulla sua ultima settimana di vita: «Se dopo il compleanno di Dan si sentirà ancora in condizioni accettabili andrà avanti» dice Annie Singer. «Decide lei. Potrebbe anche non usare mai la medicina che ha in tasca e aspettare la morte naturale: solo 752 dei 1.173 pazienti che in questi anni sono stati autorizzati a togliersi la vita, l’hanno fatto davvero. Quello che conta è dare al paziente la serenità che deriva dal sapere di avere a disposizione questa opzione estrema».

Corriere 26.10.14
Turchia, la Ue apra a un vicino prezioso
di Antonio Armellini


Ci sono volute le maniere forti di Obama perché il presidente turco Erdogan lasciasse passare i rinforzi curdi diretti a Kobane. Curdi iracheni e non turchi, per i quali rimane il veto. Il cinismo con cui ha lasciato che la tragedia della città assediata si svolgesse sotto lo sguardo indifferente dei carri armati di Ankara ha destato stupore e indignazione. Così come perplessità — a dir poco — ha destato l’ambiguità di un Paese Nato disposto a chiudere gli occhi davanti al passaggio dei «volontari» dell’Isis.
Il Kurdistan è l’ultima delle eredità avvelenate della Prima guerra mondiale. Avrebbe dovuto essere ritagliato da Turchia, Siria, Iraq e Iran nel quadro della dissoluzione dell’Impero ottomano; non ha mai visto la luce e la promessa mancata ha destabilizzato l’intera regione. La tensione si è andata riducendo là dove la minoranza curda era tutto sommato modesta, come in Siria e Iran, e là dove la sostanziale scomparsa dello stato ha permesso una indipendenza di fatto, come in Iraq. Non in Turchia però: la minoranza curda è stata sempre vista come un pericolo mortale per il centralismo nazionalista della repubblica voluta da Ataturk. La guerriglia del Pkk continua ad essere una spina nel fianco e l’impasto di populismo e di intolleranza su cui fonda il suo consenso Erdogan non permette cedimenti, che lui stesso probabilmente non vuole. Che Ankara accetti di comparire come l’anello debole della campagna contro il terrorismo fondamentalista, pur di non correre il rischio di ridare fiato al movimento indipendentista del Pkk, può apparire come un errore al limite dell’autolesionismo. È possibile che prima o poi si riveli tale, ma sulla posizione turca pesano anche altri fattori.
Molta acqua è passata sotto i ponti da quando la Turchia era il baluardo della Nato lungo il fianco sud dell’Alleanza, contro la minaccia posta da repubbliche sovietiche che avevano storicamente fatto parte della sua sfera di influenza. Caduto il muro, la minaccia si è trasformata in opportunità: Ankara ha potuto stabilire un rapporto privilegiato con i nuovi stati emersi dal crollo dell’Urss, giocando sul recupero di un patrimonio di lingua e tradizioni comune. A questo si è aggiunta una crescente attenzione verso l’insieme dell’area mediorientale, in una logica di autonoma proiezione di potenza regionale.
La nuova articolazione della politica estera della Turchia — «neo-ottomana» come è stata definita — avrebbe potuto fornire alla Nato degli strumenti importanti rispetto ad aree di grande instabilità, dalle quali proviene il grosso della nuova minaccia. Essa è stata invece vista con diffidenza, quasi come prefigurasse un abbandono delle regole dell’Alleanza per inseguire disegni geopolitici dai contorni incerti quando non proprio antitetici. E tuttavia, se la Turchia può forse sentire meno bisogno della Nato, per la Nato la sinergia rimane preziosa.
L’ Unione europea è stata per anni l’altro pilastro della collocazione occidentale del Paese, ma lo stallo infinito del negoziato ha smorzato gli entusiasmi. Una adesione piena della Turchia all’Ue non sarà immaginabile ancora a lungo, ma nell’architettura europea che si va delineando — a gironi, centri concentrici o quant’altro — per la Turchia dovrebbe essere non solo possibile, ma necessario fare posto. Non facendolo, si rinuncerebbe a dotare l’Europa di una chiave di lettura responsabile e di un ponte verso quella dimensione musulmana che, piaccia o non piaccia, ne sta diventando una componente ineliminabile.
Ankara si appresta a diventare sempre più un vicino e meno un alleato, mentre sarebbe importante ricucire i fili. Nascono da qui le ambiguità con Siria ed Egitto, la crisi con Israele e i giochi pericolosi con fondamentalismi vari. L’orgoglio offeso, alimentato dalla deriva islamica e anti-occidentale di Erdogan, spinge verso un maggiore isolazionismo. Sta soprattutto a noi contrastare questa evoluzione di cui solo ora cominciamo a valutare le conseguenze: impresa forse non impossibile, ma ogni giorno più difficile.

Corriere 26.10.14
Tutta la verità sul caso Piegari profeta gramsciano umiliato dal Pci
di Corrado Stajano


Nel suo gran libro, Mistero napoletano , Ermanno Rea l’aveva lasciata volutamente nella penna, almeno in parte, la tragica storia di Guido Piegari, uomo di genio, vittima dello stalinismo del Pci degli anni Cinquanta. Ai tempi di quel romanzo-verità pubblicato nel 1995, vincitore l’anno seguente del Premio Viareggio, allora sotto la guida di Cesare Garboli, Piegari era ancora vivo: morì nel 2007 e fu l’umana pietà, il rispetto del dolore, a trattenere lo scrittore dal raccontare compiutamente la vita di quell’uomo di alta qualità intellettuale umiliato e offeso, espulso dal Pci di Togliatti pressato da Giorgio Amendola.
Piegari aveva creato a Napoli il gruppo Gramsci che di potere ne possedeva poco, ma di idee molte, dissonanti da quelle del partito e le discuteva nell’affollata aula IV della facoltà di Lettere dell’Università. Davano noia, o meglio erano considerate eversive, pericolose, frazioniste perché contestavano la linea amendoliana di stampo salveminiano che puntava soprattutto sull’alleanza con le forze locali. Piegari e il suo gruppo, nemici di ogni compromissione, nella patria di tutti i trasformismi, erano invece fedeli alla lezione di Gramsci: la Questione meridionale è questione nazionale fondata sulla saldatura tra la classe operaia del Nord e i contadini e i sottoproletari del Sud. Fuori da quei principi si favoriva soltanto la disunità d’Italia.
Com’è rispuntato nella mente e nel cuore di Ermanno Rea il fantasma di Guido Piegari? È stata la scoperta di un quaderno nero, con gli angoli e il dorso di tela rosso fiamma — cinese? — ritrovato nella libreria di casa, pieno di appunti scritti al tempo del suo famoso romanzo, a risvegliare passioni e anche tormenti. E ne è nato un nuovo libro, una lucertola che riannoda la sua coda spezzata: Il caso Piegari. Attualità di una vecchia sconfitta (Feltrinelli). Il libro può anche esser letto come una lezione in quella famosa aula IV: l’attualità cui accenna il sottotitolo è acclarata in questo mezzo secolo e più trascorso da allora, dal localismo compromissorio stalinista al migliorismo, alla compiaciuta attenzione alle pratiche craxiane, alle larghe intese del berlusconismo di oggi. Non fu una sconfitta, si può dire, quella del profetico gruppo Gramsci.
Chi era Guido Piegari? Laureato in Medicina, biologo, stimato scienziato dell’oncologia, uditore dell’Istituto di studi storici del Croce che ammirava molto la sua intelligenza, marxista ventenne alla ricerca di una nuova visione della Storia, tra l’Europa delle rivoluzioni ottocentesche e del Romanticismo e il Risorgimento italiano. Il fascino del personaggio, la sua capacità di proselitismo erano riconosciuti nell’appassionata Napoli del secondo dopoguerra, avida di saperi, di voglia di capire e di discutere, in misura persino maggiore alla naturale vocazione al ragionamento dei napoletani.
Il lunedì sera, in quegli anni, era sommo il fervore nel seguire all’Università le varie relazioni: tra le tante, la Rivoluzione del 1799, l’Unità politica, l’Italia del primo Novecento. I temi si incastravano l’uno nell’altro, ma era il presente, sempre, a far da protagonista — la contemporaneità — anche se gli argomenti parevano lontani. L’autoritarismo, l’ansia di libertà, i sistemi usati dallo stalinismo affioravano di continuo nell’evocare il passato. In quegli anni cupi della Guerra fredda i nodi col Pci vennero rapidamente al pettine. Con brutalità. Non fu neppure concessa una libera discussione coi dissenzienti.
Rea racconta quel che allora accadde. Piegari non fu solo espulso dal partito — evento che tacque nel Mistero napoletano — fu insultato, ferito a morte. Commenta ora lo scrittore: «L’eretico va delegittimato, calunniato, vilipeso. Soprattutto va dichiarato pazzo. Piegari è pazzo, dissero infatti gli agit prop della potente macchina da guerra ortodossa. E tanto dissero finché il povero Piegari sentì effettivamente vacillare il proprio equilibrio, scoprendo gli incubi della mania di persecuzione».
C’è un’altra storia dolorante nel libro di Rea che provoca accoramento in chi legge. Quella di Gerardo Marotta, il presidente dell’Istituto italiano per gli studi filosofici che fu al fianco di Guido Piegari. Ermanno Rea descrive in belle pagine il volto scavato, l’aria affranta, la grande malinconia dell’amico. Avvocato amministrativista di grande talento e successo, finita l’avventura del Gruppo Gramsci, ha dedicato la vita a creare una biblioteca famosa in tutto il mondo di trecentomila volumi, una sorta di ponte culturale con il mai dimenticato Gruppo Gramsci. Si è svenato negli anni, l’avvocato Marotta, a comprar libri (dieci miliardi di lire, secondo i più illustri biblioteconomi). Carlo Azeglio Ciampi, colto presidente del Consiglio, destinò finanziamenti notevoli e necessari all’Istituto, il governo Berlusconi li bloccò del tutto. I libri, che nel Palazzo Serra di Cassano davano lustro e vanto a Napoli e all’intero Paese, sono ora ammucchiati in un capannone di periferia.
È «una tragedia antropologica» quella che si consuma sotto i nostri occhi, scrive Ermanno Rea. Una vergogna nazionale, un simbolo dell’irrilevanza della cultura, della memoria, della Storia spazzato via da una furia iconoclasta.

Nel Bronx un’immagine del «Gramsci Monument» realizzato da Thomas Hirschhorn a Forest Houses, nel Bronx (New York). L’opera, temporanea, è stata creata dall’artista insieme ai residenti di Forest Houses, uno dei numerosi complessi di case popolari a New York, ed è una sorta di villaggio gramsciano con bar, biblioteca, museo, archivio, una stazione radio, uno spazio per i workshop eunoperle esposizioni

Corriere 26.10.14
Wallenberg, lo svedese che salvò gli ebrei
risponde Sergio Romano


 In biblioteca ho trovato il volume di Domenico Vecchioni Raoul Wallenberg, l’uomo che salvò 100.000 ebrei. Nella prefazione di Giovanni Spadolini, la storia della vita di Wallenberg appare complessa ed enigmatica. Le giro alcuni degli interrogativi posti da Spadolini rimasti senza risposta: «Perché i sovietici arrestarono un diplomatico di un Paese neutrale, un diplomatico che tanto aveva fatto per contrastare la furia omicida dei nazisti?» e «Perché il governo svedese non reagì immediatamente per ottenere la liberazione?».
Andrea Sillioni Bolsena (Vt)

Caro Sillioni,
Possiamo fare soltanto qualche supposizione. Wallenberg fu probabilmente vittima del suo coraggio e della sua intraprendenza. Accettò di andare a Budapest nel marzo del 1944 perché una organizzazione umanitaria degli Stati Uniti (il War Refugee Board) era alla ricerca di un cittadino neutrale, possibilmente svedese, a cui affidare il compito di assistere e proteggere ciò che restava della grande comunità ebraica ungherese: 700.000 persone, di cui 230.000 vivevano ancora nella capitale. Wallenberg sembrava perfettamente tagliato per l’incarico. Apparteneva a una ricca famiglia di banchieri e industriali, molto autorevole nel suo Paese e in Europa. Aveva buone conoscenze negli ambienti economici ungheresi. Era energico, efficiente, spregiudicato, pronto a sposare con passione una grande causa umanitaria. Per garantirgli uno status diplomatico il governo svedese lo nominò Primo segretario della sua Legazione a Budapest, ma Wallenberg, non appena cominciò il suo lavoro, scrisse a Stoccolma che non aveva alcuna intenzione di sottostare al trantran della burocrazia diplomatica e che avrebbe agito in piena autonomia.
La rappresentanza diplomatica svedese non era la sola che cercava allora di sottrarre gli ebrei ai piani genocidi di Adolf Eichmann. In quella di Spagna un uomo d’affari italiano, Giorgio Perlasca, dette prova in quei mesi di fantasia e di coraggio. Ma Wallenberg non esitava a stampare lasciapassare di dubbia autenticità, a comprare funzionari corrotti, a sfidare le sentinelle tedesche per rincorrere gli ebrei fin sui treni che li avrebbero portati nei campi di concentramento. A Budapest creò trenta case svedesi, con stemma e bandiera del Regno, che servivano da ostelli per ebrei sfuggiti all’arresto. Quando Budapest fu conquistata dall’Armata Rossa, Wallenberg avrebbe potuto attendere nella Legazione di Svezia che la situazione si normalizzasse. Ma sembra che abbia sollecitato un incontro con il comando sovietico e abbia lasciato Budapest con il suo autista per una destinazione da cui non sarebbero ritornato. A una richiesta d’informazioni giunta forse tardivamente da Stoccolma, fu risposto, dopo una lunga attesa, che era stato stroncato da un infarto nel luglio del 1947 mentre era detenuto nel carcere della Lubjanka, sede moscovita del Nkvd, predecessore del Kgb. Secondo altre fonti, invece, sarebbe stato fucilato.
È probabile che agli occhi dei suoi carcerieri Wallenberg non appartenesse ad alcuna delle categorie con cui i servizi sovietici avevano familiarità. Sospettarono che fosse una spia degli americani e non poterono dimostrarlo, ma lo trattennero sino al giorno in cui restituirlo vivo sarebbe stato più imbarazzante che farlo scomparire.
Nel ricordare questo straordinario personaggio, caro Sillioni, aggiungo che esiste un altro Raoul svedese che operò nello stesso periodo e non fu meno benemerito. È Raoul Nordling, console generale di Svezia a Parigi, l’uomo che riuscì a impedire la distruzione della capitale francese, quando i tedeschi abbandonarono la città nell’agosto 1944, e salvò parecchie migliaia di prigionieri politici dalla deportazione e dalla morte.

La Stampa 26.10.14
Macaluso, l’affaire Moro è un giallo a chiave
Scritto nell’81 dall’allora dirigente del Pci, ora ripubblicato: descrive un sistema che in fondo non è cambiato
di Marcello Sorgi


Nell’estate del 1981 sul tavolo di Emanuele Macaluso, allora alto dirigente del Pci, arrivò una strana richiesta del direttore di Panorama, Carlo Rognoni: scrivere un giallo da allegare al settimanale. Rognoni era rimasto colpito da un editoriale di Macaluso su Rinascita, dedicato a «I Santuari», che diede il titolo al giallo ripubblicato in questi giorni con una prefazione di Massimo Bordin da Castelvecchi (pp. 92, € 12), e contenente un’originale analisi delle forze oscure che solo tre anni prima avevano condizionato l’esito del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro. Il giallo doveva partire da lì, per mettere in evidenza, sotto forma di «racconto a chiave» ciò che era intuibile, ma non dimostrabile, dell’inquietante faccia nascosta della realtà italiana.
La tesi di Macaluso, tendenzialmente anti-dietrologo – scettico, cioè, sulle diffuse scuole di pensiero che mirano a spiegare le opacità di molti aspetti della vicenda italiana in termini di servizi segreti deviati, pressioni internazionali, ingerenze di Stati stranieri – era che sì, certamente questi agenti sotterranei intervenivano sul corso degli eventi nazionali; ma il fondamento di tutto ciò non andava cercato al di fuori del sistema, bensì al suo interno. E più specificamente dentro la crisi della Democrazia cristiana, che per più di trent’anni – in un contesto di lotta di correnti e di leadership alternativamente emergenti e sconfitte – aveva retto gli equilibri del Paese. E da un certo punto in poi aveva originato al suo interno una sorta di «Superpartito», sciolto da qualsiasi controllo democratico come quelli a cui, volenti o nolenti, i democristiani dovevano sottoporsi, e dominato da una «Triade» di mafia, servizi segreti e massoneria, solidamente radicata in Italia.
Una tesi come questa, che Macaluso aveva svolto in termini realistici, indicando la crisi del centrosinistra a partire dal 1968 e la nascita delle Regioni e di una nuova disinvolta classe dirigente locale nel 1970 come punti di partenza della degenerazione del sistema, ben si prestava in effetti a uno sviluppo giallo. Che l’autore realizzò volentieri, come s’intuisce leggendolo, imitando un po’ lo stile di Leonardo Sciascia e distribuendo nel suo racconto una serie di personaggi indicati con qualifiche allusive ma perfettamente riconoscibili da chiunque avesse avuto a che fare con la politica italiana in quegli anni: il «Ministro Militare deferito», cioè Mario Tanassi, il socialdemocratico responsabile della Difesa processato per lo scandalo Lockheed; il «Ministro Mercantile inquisito», cioè Giovanni Gioia, responsabile della Marina, prima ancora di Salvo Lima, che cadrà per mano di killer mafiosi nel 1992, accusato di essere lo snodo tra cosche e Dc; l’«Altro Siciliano accantonato», alias Franco Restivo, il ministro dell’Interno dei giorni della strage di piazza Fontana, bruscamente e inspiegabilmente messo da parte. E poi «Alta Finanza», cioè Michele Sindona, il finanziere fatto fuori in carcere dopo anni di proficua amicizia con la corrente andreottiana, l’«Elemosiniere ricercato» Giuseppe Arcaini, direttore di Italcasse e protagonista del primo scandalo per il finanziamento illecito dei partiti, «Quello della chimica esiliato», cioè Eugenio Cefis, presidente dell’Eni sparito a sorpresa senza spiegazioni e rifugiatosi in Sudamerica, e così via.
Nel racconto di Macaluso, e nel colorito bestiario che lo animava, ogni personaggio aveva un suo ruolo e una sua responsabilità. Tal che rileggere quella storia oggi, a trenta e più anni di distanza, serve a farsi un’idea di un passaggio importante della storia recente: quando appunto cominciò a deteriorarsi il potere senza alternative della Dc, architrave della cosiddetta democrazia bloccata italiana, in cui il bipolarismo era impedito dalla presenza del maggior partito comunista dell’Occidente. E un assetto immutabile, che poteva sembrare eterno, diede vita alla corruzione del sistema democratico che sarebbe arrivata al terremoto della fine della Prima Repubblica.
Ma c’è un’altra ragione per cui vale la pena di leggere, o di rileggere, il giallo di Macaluso. Pur essendo strettamente ancorato a fatti e personaggi di trent’anni fa, descrive un sistema che al fondo non è cambiato. In due parole, Macaluso, sicilianamente, ha disegnato una metafora. E Castelvecchi, ripubblicandola dopo tanto tempo, l’ha capita perfettamente.

La Stampa 26.10.14
Legione straniera, l’epopea degli eroi dannati
Un libro di Gianni Oliva: tra gli italiani anche Pisacane e il papà di Emile Zola
di Mario Baudino

C’è il contabile fiammingo che si arruola dopo essere stato abbandonato dalla moglie, fuggita col figlio piccolo. E c’è il tenente che vent’anni dopo cade al suo fianco in una scaramuccia coi Tuareg. Ma quando i compagni raccolgono i loro resti, trovano nel portafoglio del più anziano la foto di una bellissima sposa; e in quello del tenente l’immagine della stessa donna, invecchiata. Erano padre e figlio, non l’avevano mai saputo perché nella Legione straniera nessuno parla, o parlava, del proprio passato.
Ora è un corpo d’élite come tanti. E si aggrappa al mito, a quasi due secoli di avventura che hanno nutrito cinema, romanzo, memorialistica e pubblicità. Un libro di Gianni Oliva (Fra i dannati della terra, Mondadori) ricostruisce questa epopea di sangue, di eroismi, di sbandati, di sconfitti e di eroi per caso legati da un vincolo potentissimo, insomma l’essenza misteriosa del soldato. È una storia poco nota, con una presenza italiana che culmina, si fa per dire, con Giuseppe Bottai, l’ex ministro fascista dell’educazione che nel ’44 si arruola, soldato semplice: e alla fine della guerra farà il presentatarm a De Gaulle.
Uno dei primi legionari fu però Carlo Pisacane, il martire risorgimentale finito sui banchi della scuola dell’obbligo grazie a una poesia di Luigi Mercantini («Eran trecento, eran giovani e forti / e sono morti»). La sua è una grande storia romantica: ufficiale dell’esercito borbonico, di alto lignaggio e di grande avvenire, fugge non per politica ma per amore, portando con sé l’amatissima Enrichetta Di Lorenzo, moglie però di un cugino. L’esilio è esaltante e durissimo, fra arresti e persecuzioni. Per di più non ci sono soldi. Così, per mantenere Enrichetta e il figlio, Carlo Pisacane si arruola, nel 1847; per lui è una scuola di guerriglia, in attesa delle battaglie italiane.
In quel momento la Legione ha già un passato interessante: per esempio ha concluso la lunga e difficile campagna per il controllo dell’Algeria, lo scopo del resto per cui era stata creata da Luigi Filippo d’Orléans, il re liberale del 1830. Aveva infatti ereditato dal regime assolutista un problema politico ed economico: l’invasione dell’Algeria, ultima e impopolare decisione del predecessore Carlo X. Il corpo di spedizione non riusciva però a domare la guerriglia, era arenato. E il nuovo sovrano, anziché ritirarlo, creò un reparto di volontari stranieri da spedire in Nord Africa, a vedersela con l’inferno.
Il successo fu sbalorditivo: i candidati arrivavano da ogni parte, sempre più numerosi. Si chiedeva loro, in cambio di una nuova identità e di una protezione assoluta, un’età tra i 18 ai 40 anni, un fisico robusto e una ferma di almeno tre anni. Nient’altro. Nell’Europa della restaurazione e dei moti liberali, ufficiali napoleonici, carbonari e rivoluzionari videro nella Legione non un semplice esercito, ma la Francia liberale, quella da cui tutto poteva ripartire. La feroce repressione in Africa non li turbava: era considerata una «missione civilizzatrice».
Il più noto tra i primi legionari è Raffaele Poerio, aristocratico calabrese antiborbonico che diventerà colonnello, per tornare in Italia dopo 17 anni, nel ’48, ancora a combattere. Fra le assolate colline Africa, fino almeno a questa data (dopo la quale per i liberali c’è un posto sicuro: il Piemonte) non saranno pochi i legionari imprevedibili. Per esempio l’ingegnere veneziano Francesco Zola. Protagonista di un brutto scandalo - ad Algeri rubò un abito per donarlo alla donna amata - venne rispedito a Parigi. Fu un dono anche quello, ma alla letteratura: l’ingegnere mise su famiglia, ed ebbe un figlio a nome Émile.

Corriere La Lettura 26.10.14
Žižek in pantofole tra Marx e il porno
Il filosofo di Lubiana ha completato una rilettura lacaniana di Hegel
Non guadagna quanto Negri, fa vacanze a Dubai e parla un italiano «triviale»
«I sindacati difendono i privilegi, sto con i precari
Le icone sexy? Materne: Sandrelli e Rossellini»
intervista di Luca Mastrantonio


Quando Slavoj Žižek ci accoglie davanti casa sua, tra la stazione e la clinica universitaria di Lubiana, ride già sotto i baffi. Sciorina notizie precise sul nostro albergo, giocando al poliziotto informato sui fatti: «Dormito bene? Lì ci lavora Luka, parente della mia prima ex moglie. Lui ha chiamato lei e lei ha chiamato me. Ho ancora un ottimo rapporto». Con i genitori, invece, non doveva essere dei migliori. Non si è occupato del loro funerale, non li va a trovare al cimitero. È legatissimo ai figli, due, frutto di quattro matrimoni: «Io scrivo qui», indica una poltrona in un angolo della sala, spalle al balcone, «mentre lei guarda la tv». Sugli scaffali mostra un paio di stivali di pelle: «Lei è un po’ feticista», sorride, «e anch’io», aggiunge prendendo in mano i mini-busti di Marx e Lenin. Gira in ciabatte e pantaloncini, con una maglietta che gli dà l’aria da ragazzo di 65 anni. È di Melville press, nera: «Dicono che è da fascista! Io rispondo con un motto di Mussolini, “Cari amici soldati, i tempi della pace sono passati”».
Mentre sistema tende e lampade per le luci dell’intervista video, sembra chiaro che il ritorno da Marx a Hegel, attraverso la psicoanalisi di Lacan, suggerito da Žižek nel secondo volume di Meno di niente (Ponte alle Grazie) è materialismo dialettico in versione Cabaret Voltaire. A fine intervista, dopo aver scattato il suo primo selfie — controvoglia, perché «odio me stesso e le foto, rubano l’anima» — e sfoggiato barzellette italiane apprese da Giorgio Agamben sul rapporto tra colori del vino e caratteristiche falliche (rosso/grosso, bianco/stanco), ci esorta a manipolare le sue risposte: «I giornalisti bravi», spiega, «ti fanno dire, con parole tue, quello che non pensi». Ma il problema sono le domande: rispetto alle sue risposte fluviali, suonano fuori tema. Perché non sembri un dialogo tra sordi, vanno ricalibrate. Lo scampanare invadente della chiesa vicina («pazzesco!», impreca) dà l’assoluzione.
Cosa significa dirsi marxisti oggi?
«Io sono uno di sinistra e bla bla bla... ma qui ho avuto problemi con i sindacati. Sono nelle mani di lavoratori, come quelli statali, che difendono i propri privilegi, e non i diritti dei poveri: precari, giovani, disoccupati. E se li tocchi dicono che sei un neoliberale, ma chiedere che il sistema sia più equo non è un’idea di destra. È triste: oggi è un privilegio essere uno sfruttato con un impiego permanente».
Sono classi sociali senza coscienza?
«Ecco perché tornare a Hegel, senza la teleologia proletaria di Marx. Per lui, fallita la rivoluzione francese, non bisognava perderne gli ideali. La situazione è simile: oggi, falliti comunismo e socialdemocrazia, con il capitalismo in crisi permanente, dobbiamo trovare una strada».
Come? Qual è il suo Stato ideale?
«Sogno un super-Stato contro le derive di finanza e biogenetica...».
Hegel vide in Napoleone lo spirito dei tempi. Chi lo incarna oggi?
«Lee Kuan Yew, padre di Singapore, lì il capitalismo è efficiente. Per Deng Xiaoping era il modello per la Cina. È il futuro».
Lei riscrive l’idealismo di Hegel con Lacan. “Meno di niente” è un libro di «self help» psicoanalitico?
«Sì. Ma per capire meglio il mondo, non per vivere meglio. La mia filosofia è scary, spi azzante, distrugge le illusioni. Non credo alla conoscenza di se stessi: la psicoanalisi mi ha salvato la vita, quando dopo una delusione amorosa volevo uccidermi, perché mi ha aiutato a dilatare il desiderio di autodistruzione attraverso il rapporto burocratico con l’analista».
Lei è un’icona antiliberista globale. Avesse vinto l’Urss, chi sarebbe oggi ?
«L’Urss non poteva vincere, non sarebbe riuscita a integrare la rivoluzione digitale. Comunque, e dico una cosa orribile, al liceo scelsi, oltre all’inglese, non il tedesco o il francese, ma il russo: per parlare la lingua dei vincitori. Da dissidente e poi candidato nel 1990 ho combattuto il comunismo, ma gli devo molto: se negli anni Settanta non mi avessero assunto all’Istituto di Sociologia dell’Università di ricerche di Lubiana, che mi permette tuttora di fare quello che voglio, sarei diventato uno stupido locale professore di filosofia».
Quanto guadagna?
«Non lo dico, in genere, per questioni fiscali. Però il netto è 2 mila euro mensili qui all’Istituto, poi altrettanti a Londra, e 10-15 mila euro annui negli Usa, per i talk . Dai libri arriva poco, si diventa ricchi con 100 mila copie: Toni Negri con Impero mi ha detto che ci è riuscito. Io no, e controllo i miei libri in classifica su Amazon».
Lei si riconosce come brand filosofico, icona antiliberista di successo?
«Io icona? Comunque ambigua. Mi odiano, mi danno del fascista di sinistra, dello stalinista, mi accusano di plagi. Accetto però il rischio di venire frainteso con le mie dichiarazioni problematiche».
Per esempio?
«Quando ho scritto, nel libro Violenza , che Hitler non fu abbastanza violento nei cambiamenti sociali. E sa dove mi hanno capito? In Israele. Quello sì che è un Paese aperto al dissenso. Io infatti sono per il boicottaggio dei prodotti commerciali, ma contesto anche gli amici che dicono che non bisogna andare in Israele. Sbagliato. Soprattutto in Europa, poi ti trovi alle manifestazioni antisemite coi nazisti».
Quali sono i progetti per il futuro?
«Mi piacerebbe fare un libro su personaggi da rivalutare, come Cesare Borgia o Galeazzo Ciano: l’Albania fascista con lui visse un’età d’oro. Ma devo fare lavori seri, come Trouble in Paradise , che racconta la crisi con il film di Lubitsch; ogni libro può essere l’ultimo, sono malato di cuore, per il diabete, e perché sono un workaholic ».
Ha uno stile di vita vizioso?
«Gli psichiatri che vedono il tic di toccarmi il naso pensano al crack, ma è nervosismo! Sono l’unico della mia generazione a non essersi drogato. Non fumo né bevo, per non farmi sorprendere dal nemico: sono uno stalinista! Controllo l’alimentazione, dormo 9 ore... sa qual è il mio lusso?».
No.
«Una volta all’anno vado col mio figlio adolescente, o mia moglie, ma separatamente, a Dubai, nell’hotel... curvo (al Burj al-Arab, ndr ). Trovo offerte speciali, da mille dollari a notte. E lì, non faccio nulla: vado al cinema, faccio shopping, scrivo mentre mio figlio gioca al computer. Pura decadenza. E sa cos’è per me la felicità?».
No.
«A 18 anni una volta mi chiama una voce che aveva sbagliato numero: chiede di Maria, e da me non c’era nessuna Maria. Ho sentito la tentazione di dire no, mi spiace, Maria ha avuto un attacco di cuore. Certo. Non l’ho fatto; ma l’idea di causare una catastrofe da una posizione totalmente invisibile, be’ questa è libertà... E poi mi piacerebbe vivere in Islanda, è quasi come essere l’ultimo uomo sulla terra».
Che rapporto ha con le donne?
«Sono eticamente rigido in amore. Sto con una donna solo se siamo liberi entrambi. A Lubiana è facile sapere con chi sono stato: in genere poi la sposo; quattro volte su dieci è successo. Mi piacciono le cattive ragazze, su di loro puoi fare affidamento nei momenti difficili. Quelle buone vanno solo in Paradiso, quelle cattive dappertutto, come dice il proverbio tedesco».
Cosa pensa del porno?
«Non credo sia una rivoluzione, un progresso, ma nemmeno una semplice mercificazione della donna; in genere è lei a rompere una delle basiche convenzioni del cinema: guarda in camera, è presente, non è solo oggetto, ma soggetto attivo».
Cosa ne pensa del fenomeno virale delle mamme sexy, le Milf?
«Un regalo inconsapevole del femminismo. Prima la donna poteva essere solo madre o prostituta. La mia preferita è Stefania Sandrelli, ma forse la prima donna materna sexy è Isabella Rossellini in Blue Velvet di David Lynch».
Cosa le piace del cinema italiano?
«Peplum, spaghetti western e commedie sexy. La mia preferita è Conviene far bene l’amore di Campanile (1975). In un futuro prossimo, alla crisi dei carburanti si risponde con una specie di teoria di Wilhelm Reich: non disperdere l’energia prodotta dai rapporti sessuali. Ma la condizione è che non ci siano sentimenti, e la Chiesa cattolica si adegua: condanna l’amore come peccato. Lo Stato attraverso i lavoratori controlla la produzione di energia umana, come in uno Stato socialista».
Ma è un sogno o un incubo?
«Entrambi. Oggi il sesso è un dovere. Un osceno dovere del nostro superego».

La Stampa TuttoLibri 25.10.14
Il vento anarchico soffia forte all’alba del terzo millennio
Da Graeber a Chomsky, da Occupy Wall Street alla Primavera araba, come si progetta la libertà individuale al di là dei lacci capitalisti
di Giorgio Fontana


Occupy Wall Street, Anonymous, l’Esercito zapatista di Liberazione nazionale, gli Indignados, la Primavera araba (ormai spentasi in una lunga estate di repressione), il Movimento 15M, i No TAV: cosa c’è in comune fra queste lotte che attraversano il pianeta da una ventina d’anni? Non è sempre facile orientarsi nei meandri del nuovo attivismo globale, né di valutarne con obiettività le teorie. Giunge in aiuto una raccolta a cura di Salvo Vaccaro,  Agire altrimenti. Anarchismo e movimenti radicali nel XXI secolo. Quattordici contributi da quattordici pensatori o gruppi di lavoro che hanno sempre posto grande attenzione alla prassi: da Chomsky a Graeber, passando per nomi meno celebri come Uri Gordon o Ruth Kinna.
Secondo il curatore, la radice comune che anima esperienze così eterogenee sta in un nucleo di idee anarchiche: dalla critica alla delega al privilegio dell’azione diretta, dalla diffidenza verso ogni logica gerarchica alla valorizzazione della libertà individuale al di là dei lacci del capitalismo. Insomma, un «ethos collettivo che diviene rivoluzione senza farsi istituzione della rivoluzione».
Il libro si apre con un’intervista a David Graeber, uno dei principali animatori di Occupy Wall Street. A giudizio dell’antropologo, «uno degli aspetti rivoluzionari del movimento Occupy è che sta cercando di creare spazi prefigurativi in cui sperimentare nell’immediato il tipo di struttura istituzionale che esisterebbe in una società libera dallo Stato e dal capitalismo». Lungi dall’essere una semplice forma di protesta, l’occupazione ha posto in atto delle modalità di aggregazione libere e innovative. Per Graeber, inoltre, l’immagine di una «totalità capitalista» che pervaderebbe ogni aspetto del reale è in realtà un’astrazione: gran parte della nostra vita è già regolata da schemi libertari; si tratta solo di espanderli.
Anche Noam Chomsky ritiene che il merito di Occupy sia di aver messo in pratica un’idea di mondo possibile fieramente opposta all’accumulazione sfrenata di beni. Sulle stesse linee Michael Albert, per cui «il trucco è di proporre obiettivi che non solo abbiano una qualche possibilità di vittoria, ma che siano anche in grado di galvanizzare il sostegno ed espanderlo continuamente». Una sana convivenza tra la prassi e ciò che Miguel Abensour chiamava utopia persistente: sempre irraggiungibile, sempre vivificante.
Passando dagli Usa all’Europa, di particolare interesse è la lettera di alcuni anarchici spagnoli agli Indignados: fra i molti spunti, i libertari ricordano l’importanza del dialogo con persone non radicali. Un monito contro l’auto-ghettizzazione: con gli altri si discute sempre per convincerli della bontà delle proprie idee, possibilmente senza un linguaggio da pamphlet.
In tal senso anche i suggerimenti di Sainz Pezonaga, per cui se difendiamo l’idea di un’assemblea aperta, dobbiamo tenerla aperta davvero: un anarchico non pensa a chi se ne va come a un traditore. L’adesione è sempre parziale e congiunturale, nel rispetto del bene più alto: la libertà, appunto. Per questo il Movimento 15M i primi giorni cantava «Poliziotto unisciti a noi»: la logica del nemico irriducibile gli è aliena, proprio perché è una logica che vorrebbe svuotare di senso.
Gabriella Coleman offre invece un’analisi di Anonymous, la cui identità è definita proprio dalla sospensione continua fra puro trolling e azione di impegno sociale; mentre Williams e Thomson riflettono sul pericoloso fascino della violenza. Nella prospettiva insurrezionalista il rischio infatti è quello di chiudersi in una dipendenza dalla rivolta in quanto tale: il porno-riot, il desiderio morboso di sfasciare tutto, si sostituisce alla sete di cambiamento. Questo rimette sul campo la questione dei mezzi adeguati allo scopo. La maggioranza degli anarchici non rifiuta lo scontro, ma ne critica radicalmente l’esaltazione. Anche per tale motivo le pratiche di tali movimenti sono non-violente: accettano, e solo quando necessari, il sabotaggio e la distruzione di oggetti; ma non si rivolgono contro esseri umani.
Molto pregevole il saggio conclusivo di Saul Newman, tratto da The Politics of Postanarchism. L’autore si sofferma sulla necessità di inventare sempre nuove pratiche libertarie, al riparo da qualsiasi passatismo. Dal sogno di un evento rivoluzionario giungiamo così a un anarchismo di stampo differente, più diffuso e gradualista: una serie di lotte e comunità «le cui esistenze sono spesso fragilissime», ma che testimoniano la possibilità di un’esistenza alternativa, di «pensare l’altrove».
In sintesi: in Agire altrimenti il lettore troverà una mappa interessante della galassia post-anarchica e movimentista che sta infiammando gli ultimi anni. Un valido strumento per apprezzarla o criticarla con maggiore coscienza, a seconda dei propri orientamenti.

Corriere La Lettura 26.10.14
Mussolini in forma di Augusto
di Dino Messina


Il bimillenario della morte dell’imperatore Augusto (63 a.C.-14 d.C.), celebrato a Roma giovedì 23 e venerdì 24 scorsi con un appuntamento di studio, rimanda al bimillenario della nascita, che cadde durante il regime fascista. Di questo parallelo e del mito della romanità come fattore fondante del Ventennio hanno discusso al convegno internazionale dell’Istituto di studi romani alcuni tra i maggiori storici contemporanei, a partire da Emilio Gentile. Da segnalare la relazione, nella sessione conclusiva dedicata agli ambiti espositivi, della studiosa Paola Salvatori, allieva di Andrea Giardina, autore del fondamentale saggio Augusto fra due bimillenari .
Salvatori sottolinea l’importanza dell’inaugurazione, il 23 settembre 1937, della mostra augustea al Palazzo delle esposizioni, cui, assieme a molti gerarchi, partecipò lo stesso Benito Mussolini in divisa da comandante della Milizia. Nella figura del Duce la propaganda vedeva sintetizzati i tratti di alcuni grandi romani: «Come Silla egli aveva marciato su Roma; con Cesare (...) aveva in comune la supposta clemenza e lo spirito di azione e di conquista; di Augusto voleva eguagliare il genio politico; al pari di Costantino, infine, era stato l’artefice della conciliazione con la Chiesa». Siamo al culmine, nel 1937, della celebrazione di Mussolini costruttore di imperi, dopo l’impresa etiopica che aveva isolato l’Italia dal mondo. Non a caso il filologo Goffredo Coppola, cui Luciano Canfora ha dedicato pagine importanti nel saggio Il papiro di Dongo , scrisse che «romanità significa civiltà romana: è una conquista dello spirito, anticipata e annunziata dalla conquista e dalla vittoria delle legioni e non già dall’usura borsistica». Evidente polemica con le sanzioni e con l’impero britannico.
Il parallelo tra Roma imperiale e il fascismo fu evidente, osserva Salvatori, anche nella contestuale inaugurazione, sempre il 23 settembre 1937, della seconda edizione della Mostra della rivoluzione fascista che si era tenuta nel 1932. Ma questa, che vide pure la presenza del Duce, passò in secondo piano rispetto alla mostra augustea. In primo piano c’era il rispecchiarsi tra l’impero di Augusto e quello di Mussolini. L’apice di una costruzione propagandistica.

Il Sole Domenica 26.10.14
150 anni di internazionale
Quando Marx non era marxista
di Giuseppe Bedeschi


Il 28 settembre 1864, dunque 150 anni fa, nella sala del St. Martin's Hall, un edificio situato nel cuore di Londra, accorsero circa duemila lavoratori per ascoltare il comizio di alcuni dirigenti sindacali inglesi e di un piccolo gruppo di operai provenienti dal Continente. Da quella affollatissima riunione, e da altre successive, sorse l'Associazione internazionale dei lavoratori, più nota come Prima Internazionale. Alla sua fondazione partecipò Karl Marx, in posizione eminente: infatti egli redasse fra il 21 e il 27 ottobre del 1864 l'Indirizzo inaugurale dell'Associazione, il cui testo venne approvato all'unanimità dal Consiglio Generale. Il concetto fondamentale dell'Indirizzo e degli statuti (parimenti redatti da Marx), era espresso con queste parole: «L'emancipazione della classe operaia deve essere opera della classe operaia stessa». Perciò l'Internazionale si proponeva di diventare un mezzo di collegamento e di collaborazione fra le associazioni operaie esistenti nei diversi Paesi, le quali avevano il medesimo scopo, «e cioè la difesa, il progresso e la completa emancipazione della classe operaia».
L'Internazionale ebbe subito un largo successo a Londra (in Inghilterra gli aderenti superavano i 12.000), a Parigi, nel Belgio, in Svizzera.
Il fatto che Marx avesse una posizione eminente nell'Internazionale (faceva parte del suo Consiglio generale), e che a lui fosse stata affidata la redazione dell'Indirizzo inaugurale e degli statuti, ha molto contribuito alla leggenda che tale associazione fosse una organizzazione marxistico-rivoluzionaria: la prima grande organizzazione con questo orientamento. Ma si tratta, appunto, di una leggenda. Ha scritto il biografo di Marx B. Nikolaevskij: «Se per programma s'intende una costruzione dottrinale elaborata fin nei suoi dettagli, allora l'Internazionale non aveva un programma. Marx aveva voluto che gli statuti fossero di carattere abbastanza generale, in modo da consentire a tutti i gruppi socialisti l'adesione all'associazione». In ciò il rivoluzionario di Treviri aveva mostrato molta abilità e molta saggezza. Infatti le varie componenti dell'Internazionale erano assai eterogenee sotto il profilo ideologico, e certo non inquadrabili all'interno del marxismo. Il centro motore era il sindacalismo inglese, i cui dirigenti, quasi tutti riformisti, pensavano soprattutto a questioni di carattere economico, per il miglioramento della condizione operaia, che era venuta sempre peggiorando. I francesi, a loro volta, erano profondamente influenzati dalle teorie di Proudhon: essi erano contrari allo sciopero come strumento di lotta, erano fautori di un sistema cooperativo su base federalistica, e ritenevano possibile modificare il capitalismo mediante un equo accesso al credito per le cooperative operaie. In Italia avevano aderito alcune società operaie di ispirazione mazziniana, assolutamente contrarie alla lotta di classe. In questo quadro i marxisti aderenti alla Prima Internazionale costituivano piccole aggregazioni, capaci di un'influenza assai circoscritta.
Ciò risulta ampiamente dal libro, impeccabilmente curato da Marcello Musto, Prima Internazionale. Lavoratori di tutto il mondo, unitevi! Indirizzi, risoluzioni, discorsi e documenti, edito da Donzelli. Del resto, anche nelle risoluzioni (redatte da Marx) del Congresso di Bruxelles dell'Internazionale (1868) - Congresso che viene indicato dai più come una svolta in direzione collettivistica - si parla sì di collettivizzazione delle cave, delle miniere, dei bacini carboniferi e delle ferrovie, e del trasferimento della terra a cooperative agricole, ma non si parla di statizzazione delle industrie e degli stabilimenti industriali.
Marx si era dunque mosso nell'Internazionale con molta moderazione. Evidentemente egli pensava che le sue idee avrebbero trionfato in futuro, con il diffondersi della grande industria (fino ad allora affermatasi solo in Inghilterra) in tutta Europa. Senonché, diverse sue previsioni circa lo sviluppo capitalistico non si realizzarono: poco più di trent'anni dopo la fondazione dell'Internazionale uno dei massimi esponenti della socialdemocrazia tedesca, stretto collaboratore di Engels, Eduard Bernstein, mise in discussione le previsioni marxiane e sottolineò la grandissima estensione della forma della società per azioni, che permetteva un vasto frazionamento (dal punto di vista della proprietà) di capitali e la creazione di azionisti piccoli e medi; il fatto che in tutta una serie di branche industriali la grande azienda non assorbiva le piccole e medie aziende, le quali mostravano una indubbia vitalità; infine, un notevole sviluppo delle classi intermedie. La società capitalistica, insomma non si semplificava affatto in due sole classi, come Marx aveva sostenuto nel Manifesto, ma si complicava, e in essa i sindacati potevano conseguire grandi miglioramenti della condizione operaia, grazie all'enorme aumento della produttività del lavoro. Bernstein apriva così quella "crisi del marxismo" che avrebbe travagliato i più eminenti teorici socialisti e comunisti. Come affermò il nostro Antonio Labriola (che si era ritenuto un marxista ortodosso), «le ardenti, e vive, e frettolose aspettazioni di alcuni anni fa danno ormai di cozzo nelle più complicate resistenze dei rapporti economici, e nei più intricati ingranaggi del mondo politico».

Marcello Musto (a cura di), Prima Internazionale. Lavoratori di tutto il mondo, unitevi! Indirizzi, risoluzioni, discorsi e documenti, Edizione del centocinquantennale, Donzelli editore, pp. XIV-256, euro 25,00

Il Sole Domenica 26.10.14
Vocabolario e metodo, la lezione cinese del Politecnico
di Roberto Napoletano


Sono andato di prima mattina, giovedì 16 ottobre, al Politecnico di Milano, nella cittadella dell'innovazione, per seguire una giornata di lavori molto speciale iniziata con gli interventi del primo ministro cinese, Li Keqiang, e italiano, Matteo Renzi, e il sorriso stampato negli occhi del rettore, Giovanni Azzone, e del suo prorettore per il territorio cinese, il nostro Giuliano Noci. Mi sono rimaste dentro tante piccole cose che vale la pena di raccontare, sensazioni e mezze frasi, l'entusiasmo degli studenti italiani e cinesi, il senso globale di un ateneo che scommette da sempre sulla fabbrica e sulle capacità tecniche per competere nell'arena mondiale, l'incontro quasi naturale tra territori, grande ricerca e piccola innovazione, giovani e impresa. Ho in mente la carica espressiva degli occhi di Li Keqiang quando racconta la sua visita del giorno prima al museo della Galleria di villa Borghese, a Roma: «Vorrei ringraziare pubblicamente la signora che mi ha accompagnato in questo viaggio emozionante tra i capolavori del Bernini, ho capito che cosa significa la creatività e che cosa significa la bellezza». Una sosta breve, e torna sullo stesso punto: «Ha una grande responsabilità questa signora, dietro la luminosità di quelle opere ho visto e toccato con mano la forza della creatività italiana che viene dalla storia ed è alla base della rivoluzione industriale. Bisogna custodire quei valori e sono certo che se mettiamo insieme creatività e innovazione possiamo fare grandi cose».
Il presidente della Bank of China, Tian Guoli, è stato ancora più diretto e, a suo modo, sorprendente: «Ho detto ai miei dipendenti che lavorano qui, nelle filiali del vostro Paese, che non si può continuare così. Devono sapere che l'italiano non è una lingua piccola e se vogliono capire davvero la cultura devono conoscere e parlare questa lingua, dietro questo vocabolario ci sono un grande passato e una grande storia culturale. Vorrei che parlassero in cinese con noi e in italiano con voi; l'anno prossimo faremo la prima verifica, e sono certo che, se sarà così, molti italiani apriranno da noi il loro conto corrente. Anzi, vi dico: perché non lo fate subito?». Poi, una sosta, e un mezzo sorrisetto che accompagna il messaggio più forte: «Voglio esprimermi con fatti concreti perché mi devo far capire. In Cina spopolano i vini francesi, ma i cinesi hanno scoperto dopo vent'anni che il vino italiano è buono, molto buono, e per questo vi invito ad avere metodo, dovete avere un sistema come quello francese che arriva direttamente al nostro consumatore, dovete essere pragmatici e avrete di certo grandi risultati. Sono venuto qui per dirvi che voglio portare la vostra torta nel mio piatto, sono pronto a farvi da ponte e da guida, dobbiamo superare il blocco linguistico, avere metodo e tutto il resto verrà da solo».
Non c'è praticamente una grande azienda italiana, di servizi, bancaria, industriale, dove i cinesi non abbiano messo una fiche e non abbiano voluto che si sapesse, prendendosi sempre cura di superare la soglia del 2%, ma ciò che conta è il disegno industriale, l'intento dichiarato di stringere alleanze, dall'energia all'agricoltura fino ai macchinari, per mettere insieme capitali e innovazione e scommettere su un certo modo di fare manifattura, servizi e aprire le porte di un mercato immenso che non siamo stati ancora capaci di cogliere in casa e fuori. Ricordo le parole di Vincenzo Novari, un uomo che guida un'azienda di telecomunicazioni (H3G), dove l'azionista cinese ha investito in Italia 13 miliardi di euro in 13 anni, sempre quella mattina sempre al Politecnico, quando racconta la storia di Taranto: «Dobbiamo rimetterci in gioco e cambiare. Avevamo scommesso sull'Italia come testa di ponte tra Europa e Asia e avevamo investito sul porto per attrarre e consolidare un mercato enorme come è quello del traffico dei containers. Il protocollo d'intesa a Taranto è stato firmato nel 2008, ma poi non è successo niente. Nel frattempo un milione di containers si sono spostati nel Pireo e i dipendenti del porto sono finiti in cassa integrazione». Passa per la via della tutela dei brevetti e delle alleanze con il capitalismo italiano e occidentale in generale un futuro di democrazia e di diritti umani che la Cina deve essere in grado di costruire nel suo interesse, ma passa da noi, solo da noi e dalle nostre capacità politiche, tecniche e decisionali, la possibilità di cogliere questa straordinaria opportunità. L'allargamento al mercato cinese può essere per l'Italia di oggi quello che fu per l'Italia di ieri l'allargamento al mercato europeo e americano. Nelle aule del Politecnico di Milano ce n'era piena consapevolezza e si respirava l'aria giusta. Non bastano, ma almeno partiamo con il piede giusto.

Il Sole Domenica 26.10.14
Matteo Ricci. Il primo «mandarino» d'Occidente
Nella Cina vide il Paese che aveva eletto la scrittura, la letteratura, la filosofia e le sue «sterminate antichità» a mezzi di un buon governo
di Michela Catto


Vestire, mangiare, parlare «alla cinese». Questa l'intuizione avuta da Matteo Ricci a Macao, alle porte della Cina, nell'unico luogo in cui gli stranieri erano autorizzati a risiedere. Lì maturò la convinzione che mai si sarebbe «entrati nella Cina» senza indossare la seta cinese, far crescere lunghe barbe e mettere sul capo il cappello da mandarino. Non più la tonaca buddista, non più accostarsi a quei monaci che per abitudini di vita – il celibato – e tipologie di culto erano parsi all'inizio così simili ai religiosi venuti dall'Occidente, mossi dal desiderio di fare una breccia nell'Impero di mezzo.
Ancora una volta l'intuizione; questa volta quella dell'inesorabile decadenza che il buddismo stava vivendo in Cina. Non era appaiandosi in esso che il cristianesimo poteva acquisire quell'autorità, e autorevolezza, necessaria per convertire. Da questo momento le critiche non furono risparmiate ai bonzi cinesi: rozzi, ignoranti, simulatori di pratiche sistematicamente violate nel privato, astinenze e digiuni in pubblico, abbuffate e ricche bevute nel privato dei loro templi in mezzo ai loro idoli.
I bonzi e la loro dottrina furono sistematizzati nel pensiero degli occidentali e inseriti tra le innumerevoli idolatrie e superstizioni che già i missionari avevano incontrato nel mondo, tutto ricondotto ai culti malvagi che il demonio aveva riservato per sé e che i missionari erano impegnati a estirpare. Ma non proprio tutto poteva essere disprezzato, sostituito e conquistato.
In quella terra meravigliosa, destinata a diventare per alcuni il modello di società perfetta, qualcosa e qualcuno sembrava sottrarsi ai canoni universali della superstizione e dell'idolatria. Erano quei mandarini e letterati che governavano la Cina, il Paese che aveva eletto la scrittura, la letteratura, la filosofia e le sue «sterminate antichità» a mezzi di un buon governo e di una società civilizzata, come mai prima, scrivevano i gesuiti, si erano incontrati.
Erano strani e bizzarri questi mandarini, con le loro cortesie, i loro codici comportamentali, le loro mille maniere dai significati spesso esattamente speculari agli usi europei, ma sembravano reggere il loro governare su principi morali e questi erano contenuti nei loro antichi testi filosofici, dalla dottrina del loro santo, il venerato Confucio.
E a ben guardare il santo uomo era venuto dall'Est, come il Messia, e il suo pensiero «nel suo essentiale non contiene niente contra l'essentia della fede catholica», scriveva Ricci. Così iniziava l'avventura del cristianesimo in terra cinese ma anche il viaggio a ritroso: la Cina giungeva in Occidente.
Tratteggiata dalle penne dei gesuiti essa pareva riproporre all'Europa i medesimi nessi e le stesse questioni insite nell'eredità del suo passato pagano, ritornato di grande attualità dopo la rottura del mondo cristiano, quando ogni confessione rivendicò per sé il titolo di autentica erede del vero cristianesimo.
L'interpretazione che Matteo Ricci aveva fornito della Cina, dei suoi costumi e delle sue religioni infatti non ebbe solo l'effetto di dare inizio, quasi subito dopo la sua morte (1610), a una delle più grandi querelle, quella sul significato e la legittimità dei riti cinesi, che – insieme a giansenismo e a molto altro – contribuì a gettare le premesse per la soppressione della Compagnia di Gesù (1773).
Discutere sui riti cinesi, sostenere la natura religiosa o politica delle cerimonie agli antenati e di Confucio, voleva dire parlare dell'esistenza di una morale, quella che reggeva e governava la società cinese e che si rinnovava continuamente con la pratica dei suoi riti, indipendente dalla religione e dalla Rivelazione, porre dubbi sul messaggio di salvezza portato da Cristo.
O almeno così fu fatto da alcuni. Sfuggì di mano alla Compagnia di Gesù il mito gesuitico della Cina. Matteo Ricci, il primo codificatore, non poteva certamente immaginare che le sue descrizioni sarebbero state usate da libertini e illuministi per tentare di rompere l'indissolubile legame tra morale e religione.
Da Matteo Ricci in poi, la Cina divenne protagonista per lungo tempo della cultura europea e le notizie provenienti dal l'Estremo Oriente furono la più grande importazione culturale di cui fu protagonista l'Europa di età moderna: comparare le antichità cinesi per riconciliarle con l'autorità della Bibbia e delle storia sacra; conciliare il modello della società cinese con le teorie politiche elaborate dagli intellettuali europei; ravvivare il dibattito sulla relazione tra religione e morale che da allora non si sarebbe più spento.

Il Sole Domenica 26.10.14
Estate '89: breccia nella cortina di ferro
Nel luglio dell'89 decine di cittadini della DDR scappavano lungo il confine austro-ungherese, dopo il segnale dato dai ministri degli Esteri dei due Paesi: il Muro cominciò a cadere lì
di Flavia Foradini


Mentre sul far del l'estate i media internazionali hanno cominciato a riempirsi di approfondimenti sul centenario dello scoppio della Prima guerra mondiale, Vienna, che aveva dedicato all'argomento fiumi di inchiostro e una miriade di mostre fin dall'inverno scorso, ha spostato decisamente e non a caso l'attenzione sul 25° del 1989, un anno che nella capitale austriaca si ricorda molto bene, perché in quella mite estate si respirò di nuovo improvvisamente aria di Storia.
Come nel 1956 magiaro, come nel 1968 cecoslovacco, in quell'ultimo scorcio degli anni Ottanta Vienna fece solo da sponda agli eventi, però significativamente. E solo ora, a distanza di due decenni e mezzo dal fremito che guizzò lungo tutta la cortina di ferro e la fece crollare, quei fatti vengono illuminati più sistematicamente per l'opinione pubblica, grazie a nuove rivelazioni e rievocazioni di cittadini e di politici, allora spesso opportunamente taciute o espresse con reticenza.
Con quello che a posteriori appare come un preciso piano a tappe ravvicinate, forti dell'assicurazione di non ingerenza data loro da Gorbaciov nel 1988, fin dalla primavera del 1989 gli ungheresi avevano cominciato a sferrare sostanziali colpi alla cortina di ferro, sotto lo sguardo attento di Vienna, che per ovvio interesse nazionale osservava molto precisamente ogni dettaglio di quegli sviluppi alle proprie frontiere.
I magiari cominciarono innanzitutto a smantellare unilateralmente la striscia della morte lungo il confine austriaco, adducendo come motivazione il fatto che quelle attrezzature, mal conservate da decenni, erano obsolete: «Un'operazione cosmetica», aveva detto il 6 maggio il ministro della difesa della DDR Heinz Kessler al suo capo Erich Honecker, per tranquillizzarlo. E invece in quell'azione, di cosmetico c'era assai poco.
I due passi seguenti furono schiettamente politici: a Budapest, l'8 maggio Janosz Kadar, considerato assai più l'artefice dell'invasione russa del 1956 che il promotore del «comunismo gulasch» o della «allegra baracca comunista», come veniva chiamata l'Ungheria degli ultimi decenni, venne sollevato da ogni residuo incarico, sgombrando del tutto la strada ai riformisti.
E il 12 giugno il Paese aderì alla Convenzione di Ginevra del 1951, impegnandosi a non rimpatriare rifugiati minacciati di ritorsioni.
La successiva azione bipartisan fu invece genuinamente mediatica, e lanciò un forte e chiaro segnale globale. In un incontro bilaterale austro-ungherese, i due ministri degli Esteri Alois Mock e Gyula Horn, concordarono di trovarsi il 27 giugno sul condiviso confine nei pressi di Sopron, e, tenaglioni alla mano, sotto i flash di dozzine di fotografi tagliarono gioiosamente pezzi di filo spinato.
Pur col retrogusto di una certa perplessità degli osservatori politici, quelle immagini fecero il giro del mondo e il passaparola fornì ai cittadini della DDR la preziosa notizia che laggiù, proprio in quei luoghi dove di solito trascorrevano le vacanze estive, c'era un buco nella cortina di ferro, che sembrava fatto apposta per il loro desiderio di libertà, annichilito per l'ennesima volta ancora qualche mese prima. Nel gennaio del 1989 Erich Honecker aveva infatti improvvidamente detto: «Il Muro ci sarà ancora fra cent'anni».
Complice l'inizio delle ferie, le prime fughe avvennero già pochi giorni dopo quel plateale, apparentemente spensierato taglio austro-magiaro. A luglio erano decine ogni notte, coloro che passavano i canneti vicino al lago di Neusiedl e nei boschi tra Sopron e il Burgenland. Ad agosto i fuggiaschi erano centinaia al giorno e la macchina dei soccorsi austriaca a pieno ritmo. Nella località turistica di Mörbisch, nei grandi tendoni piantati per offrire una prima accoglienza, vedevi arrivare alla spicciolata famiglie con bambini e gruppi di ogni età: trafelati, un po' macilenti per le lunghe marce nei canneti e nei boschi, si buttavano esausti sulle panche, ma i più cominciavano subito a raccontarti emozionati e ancora increduli, le loro piccole odissee.
In quel lembo d'Austria a 50 km dalla capitale, la popolazione locale, in parte formata da profughi della rivolta ungherese del 1956, si era organizzata presto, segnando il cammino sugli alberi nei boschi circostanti o addirittura scortando i fuggiaschi: «Ho perso 9 chili in 3 settimane, non facevo altro che andare avanti e indietro a prendere gruppi anche di 20 persone alla volta», ricorda oggi Martin Kantisch.
«Correvamo come matti, finché abbiamo sentito una voce tra gli alberi, che ci diceva: tranquilli, tranquilli! Siete in Austria», rievoca una donna tornata in visita in questi giorni per festeggiare.
Risvegliata dal suo torpore da città di confine del mondo occidentale, Vienna prese a organizzare con efficacia raccolte di generi di prima necessità; si aprivano ai profughi ostelli e mense municipali e davanti all'ambasciata tedesca, giorno dopo giorno vedevi lunghe, festanti file di tedesco-orientali in attesa di ricevere i documenti per espatriare. Poi, via verso la repubblica Federale con gli autobus della Croce Rossa o con treni speciali.
Neutrale dal 1955, l'Austria agevolava quei movimenti con diplomatica discrezione, mentre dietro le quinte, colloqui di Miklos Nemeth, Gyula Horn e Helmut Kohl, e consultazioni trilaterali Budapest-Vienna-Bonn, monitoravano la situazione. I media della DDR tacevano, Michail Gorbaciov si atteneva alla sua «dottrina Sinatra» di non intromissione.
Quando poi il 19 agosto, in un altro punto del confine vicino a Sopron si svolse il "picnic" che il Movimento Paneuropeo aveva organizzato con il patrocinio di Otto d'Asburgo, figlio dell'ultimo imperatore austro-ungarico, e del Forum Democratico di Budapest, a Vienna si ebbe la basita certezza che quell'estate di fremiti aveva in serbo ben di più. Un volantinaggio nei campeggi ungheresi aveva informato che la manifestazione comprendeva anche una pacifica, conviviale apertura per 3 ore di quella sperduta frontiera nel Burgenland, e successe l'inevitabile: 600 cittadini della DDR ne approfittarono per fuggire all'Ovest, senza che un solo colpo venisse sparato dalle guardie di confine ungheresi e austriache. Poco più in là, provvidenziali autobus pronti per l'uso, portarono i fuggiaschi a Vienna.
Nelle settimane successive il flusso verso l'Austria continuò immutato. Per tutta risposta, prendendo ancora una volta l'iniziativa, il 10 settembre l'Ungheria annunciò che avrebbe lasciato espatriare in massa le migliaia di villeggianti della DDR ancora titubanti nei campeggi. E un minuto dopo la mezzanotte aprì i cancelli.
I cittadini tedesco-orientali che passarono per Vienna in quei quattro mesi precedenti alla caduta del Muro, vennero stimati dall'allora ambasciatore tedesco in Austria, Dietrich Graf Brühl, in 40mila.
Anche per la capitale austriaca, per decenni un cul de sac dell'Occidente all'ombra della cortina di ferro, quegli eventi dell'estate del 1989 prefigurarono un nuovo inizio. Lo sa bene chi ricorda la grigia, appisolata Vienna dei primi anni Ottanta e quella aperta e frizzante, del decennio dopo.

Il Sole Domenica 26.10.14
John Dewey. Tutti a scuola di esperienza
Il discernimento critico e la capacità di ragionare alla base dei sistemi educativi che vogliono dirsi progressisti
Il metodo scientifico è la vera palestra dell'intelligenza
di John Dewey


Ci si dice che le nostre scuole, vecchie e nuove, falliscono nel loro compito fondamentale. Non sviluppano, si dice, il discernimento critico e la capacità di ragionare. L'attitudine a pensare, si aggiunge, è soffocata dal cumulo delle informazioni disparate mal digerite, e dalla pretesa di acquistare forme di perizia da operare immediatamente negli affari e nel commercio. Si afferma che questi guai derivano dall'influsso della scienza e dall'eccessivo peso dato alle esigenze del presente a scapito dello sperimentato retaggio culturale trasmessoci dal passato. Se ne deduce che la scienza e il suo metodo devono tenere un posto subordinato; che dobbiamo tornare alla logica dei principi primi quali sono formulati nella logica di Aristotele e di san Tommaso, perché i giovani possano disporre di un saldo punto di appoggio nella loro vita intellettuale e morale, e non siano alla mercé di ogni soffio di brezza passeggera.
Se il metodo della scienza fosse stato adoperato con maggiore coerenza e continuità nel lavoro quotidiano della scuola, in tutte le materie, sarei maggiormente impressionato da questo appello appassionato. In fondo non vedo che due alternative fra cui l'educazione deve scegliere, se non vogliamo andare alla deriva senza meta.
L'una consiste nel tentativo di indurre gli educatori a ritornare ai metodi e agli ideali intellettuali che sorsero secoli e secoli prima che apparisse il metodo scientifico. L'esortazione a farlo può avere un successo temporaneo in un periodo in cui l'inquietudine generale, tanto sentimentale e intellettuale quanto economica, è al colmo.
In queste condizioni risorge vivo il bisogno di affidarsi a una salda autorità. Tuttavia, esso è così estraneo a tutte le condizioni della vita moderna che considero stoltezza cercare la salvezza in questa direzione. L'altra alternativa è la sistematica utilizzazione del metodo scientifico considerato come modello e ideale dell'intelligente esplorazione e sfruttamento delle possibilità implicite nell'esperienza.
Il problema si pone con una forza particolare per le scuole progressive.
Se non si dedica un'attenzione costante allo svolgimento del contenuto intellettuale delle esperienze e al conseguimento di un'organizzazione incessantemente crescente di fatti e idee, in fondo non si fa che rafforzare la tendenza a un ritorno reazionario verso l'autoritarismo intellettuale e morale. Non è questo né il momento né il luogo per approfondire la natura del metodo scientifico. Ma certi tratti di esso sono così strettamente legati con qualsiasi progetto educativo basato sull'esperienza che essi non possono non essere noti.
Anzitutto, il metodo sperimentale della scienza dedica non minore, ma maggiore importanza alle idee in quanto idee di qualsiasi altro metodo. Non ci può essere quel che si dice esperimento in senso scientifico senza un'idea che diriga l'azione. Il fatto che le idee adoperate siano ipotesi e non verità definitive, è la ragione per cui le idee sono più gelosamente esaminate e verificate nella scienza che altrove. La ragione di esaminarle scrupolosamente cessa soltanto dal momento in cui sono accolte come verità. Come verità definitivamente fissate devono essere ricevute e non se ne parla più. Ma sino a che sono ipotesi devono essere costantemente soggette alla verifica e alla revisione. Il che implica che esse siano accuratamente formulate.
In secondo luogo, idee o ipotesi sono verificate dalle conseguenze che provoca la loro attuazione. Il che significa che occorre osservare con cura e discernimento le conseguenze dell'azione. Un'attività che non è arrestata per osservare quali sono le sue conseguenze può suscitare gioia per un momento. Ma intellettualmente non reca nessun frutto. Non fornisce conoscenza sulle situazioni in cui si compie l'azione e non può condurre al chiarimento e all'espansione delle idee.
In terzo luogo, il metodo dell'intelligenza quale si manifesta nelle diverse tappe del procedimento sperimentale esige che si conservino tracce delle idee, delle attività e delle conseguenze osservate. Conservare tracce significa che la riflessione riconsideri e compendi operazioni che comprendono tanto il discernimento quanto il ricordo dei tratti significativi di un'esperienza in corso.
Riconsiderare significa riesaminare retrospettivamente quel che è stato fatto in modo da estrarne i significati netti, che sono il capitale di cui si vale l'intelligenza nelle esperienze future. È qui il cuore dell'organizzazione intellettuale e della disciplina mentale.
Sono stato costretto a esprimermi in termini generali e spesso astratti. Ma quel che è stato detto è strettamente connesso con la seguente richiesta: le esperienze per essere educative devono sfociare in un mondo che si espande in un programma di studio, programma di fatti, di notizie e di idee. Questa condizione si soddisfa solo a patto che l'educatore consideri insegnare e imparare come un continuo processo di ricostruzione dell'esperienza.
Questa condizione a sua volta può essere soddisfatta solo a patto che l'educatore guardi lontano dinanzi a sé, e consideri ogni esperienza presente come una forza propulsiva per le esperienze future. So che l'accento che ho posto sul metodo scientifico può dar luogo a erronee interpretazioni; si può supporre che io intenda riferirmi alla tecnica speciale delle ricerche di laboratorio come è esercitata dalla gente del mestiere. Ma il risalto che io ho dato al metodo scientifico ha poco a che fare con le tecniche degli specialisti. Vuol significare soltanto che il metodo scientifico è l'unico mezzo autentico a nostra disposizione per cogliere il significato delle nostre esperienze quotidiane del mondo in cui viviamo.
Vuol significare che il metodo scientifico offre un modello efficace del modo in cui e delle condizioni sotto le quali sono adoperate le esperienze per ampliare sempre più il nostro orizzonte.
L'adattare il metodo agli individui di vari gradi di maturità è un problema dell'educatore, e i fattori costanti del problema sono la formazione delle idee, operanti sulle idee, l'osservazione delle condizioni che ne risultano, e l'organizzazione di fatti e idee per l'uso futuro. Né le idee, né le attività, né le osservazioni, né l'organizzazione sono le medesime per un individuo di sei, di dodici o di diciotto anni, per tacere dello scienziato adulto. Ma in tutti i gradi, se l'esperienza è effettivamente educativa si constata un processo d'espansione dell'esperienza. Ne consegue che, quale sia il grado dell'esperienza, non abbiamo altra scelta: o agire in conformità del modello che essa ci offre o trascurare la funzione dell'intelligenza nello sviluppo e nel controllo di un'esperienza vivente e propulsiva.

Il Sole Domenica 26.10.14
Van Gogh a Milano
Con Vincent nella sua terra
La rassegna «Van Gogh. L'uomo e la terra», aperta a Palazzo Reale, esplora il tema (molto vicino a quello di Expo) dell'agricoltura e dei suoi umili protagonisti
di Ada Masoero


«Zappatori, seminatori, aratori, uomini e donne, che ora devo disegnare continuamente.
Devo osservare e disegnare tutto ciò che fa parte della vita di un contadino, come molti altri hanno fatto e stanno facendo. Non sono più così inetto come un tempo davanti alla natura». Quando van Gogh scrive queste parole al fratello Theo è il 1881. Con un rosario di fallimenti alle spalle – studente scioperato prima, ragazzo di bottega e aspirante mercante d'arte poi, infine predicatore mancato – ha ormai preso una decisione: sarà un artista.
Non che Vincent, che ha 27 anni (molti, per i tempi), sia uno sprovveduto: è da sempre un lettore vorace e di ottime letture e, come denuncia anche quello scritto, conosce bene l'arte contemporanea, oltre a quella antica, praticata assiduamente nei musei di Amsterdam e Anversa e dell'Aja e Londra, dove ha lavorato nelle filiali di Goupil. E proprio per aver lavorato in quell'importante galleria (solo perché lo zio Cent è socio), conosce il mercato e sa quanto i «quadri con gli zoccoli», come li chiama lui, possano essere apprezzati dai borghesi nei loro appartamenti cittadini.
Ma a spingerlo in quella direzione sono soprattutto la venerazione per Jean-François Millet, il cantore della vita rurale, che resterà il più duraturo dei suoi idoli, e l'amore costante per la natura – in cui era cresciuto –, da lui sempre intrecciato all'evangelica attenzione per gli umili: specie per i contadini che, a contatto come sono con la natura, incarnano ai suoi occhi la più autentica etica del lavoro. Commentando i Mangiatori di patate, del 1885, scriverà infatti di aver voluto trasmettere in quel dipinto, tanto ambizioso quanto allora poco apprezzato, l'idea che quei contadini abbrutiti dalla fatica avessero «guadagnato onestamente il loro cibo». Perciò aveva dipinto e ridipinto i loro volti in cerca di un colore «simile a quello di una patata polverosa, non pelata. Ho ripensato a ciò che è stato detto così giustamente di Millet, i suoi contadini che sembrano dipinti con la terra che seminano».
La mostra «Van Gogh. L'uomo e la terra» esplora questo tema, così vicino a quello di Expo. E lungi dal volersi presentare come una grande antologica di van Gogh, si propone invece come un affondo sulla spiritualità dell'artista, davvero "impastata" della terra dei campi, ma con la sua cinquantina di opere finisce per diventare anche una ricognizione, concisa ma efficace, del suo lavoro di disegnatore e di pittore nei dieci anni in cui fu artista.
Perché se la terra olandese e i suoi miseri lavoratori sono il soggetto esclusivo del cupo periodo "nordico", tra Olanda e Belgio, l'amore per la campagna non viene meno neppure a Parigi, di cui non ritrae l'animazione dei boulevard o il pubblico elegante dell'Opéra ma gli orti e le stradine sterrate e i mulini, così simili a quelli olandesi, della collina di Montmartre, dove vive con Theo dal 1886 al 1888.
Ovvio che l'amore totalizzante per la natura e per la terra – mai selvatica, sempre trasformata dalla fatica dell'uomo – torni con anche maggiore intensità in Provenza, nel corso di quel viaggio dal quale tanto si attendeva ma che si rivelerà l'ennesimo "naufragio", e che perduri poi ad Auvers-sur-Oise, borgo agricolo del Nord della Francia che gli rammenta la terra d'origine e dove morirà suicida nel luglio del 1890.
Dopo l'autoritratto inquietante e "inquisitorio" del Kröller-Müller Museum di Otterlo (da cui viene la gran parte delle opere, integrate da alcuni prestiti internazionali), la mostra si apre con una sequenza di disegni ancora acerbi del 1881, l'anno della lettera citata: sono contadini dai grossi zoccoli, i pantaloni sformati, i berretti sudici, da lui nobilitati attraverso i gesti antichi del seminare, dello zappare, dello spigolare. Poi si affacciano i disegni già incredibilmente "espressivi" (questo cercava nel suo lavoro) del 1883 e 1885, con i corpi tracciati con gli stessi segni secchi e legnosi con cui delinea gli alberi spogli, qui accostati ai dipinti a olio che, sulla parete di fronte – curva e ricoperta di iuta come l'intero percorso, nel bell'allestimento di Kengo Kuma – sono abitati dalle stesse figure corrose dalla fatica.
La lunga, laboriosa avventura dei Mangiatori di patate è riassunta da alcune Teste a olio (strepitosa la donna di profilo, "sbagliata" ma incredibilmente potente. Lui del resto scriveva di aver cercato «non una testa matematicamente corretta ma l'espressione complessiva. La vita insomma»).
Poi tocca ai ritratti, con quello, folgorante, del postino Roulin, la lunga barba ricciuta, fiero e nobile come un profeta. E di seguito le splendide nature morte di ortaggi e frutti, tutti poveri: le mele tristi, quasi incolori, e le piccole zucche del dipinto del 1885, quando ancora è in Olanda; le patate (un vero tour de force cromatico, di vibrante bellezza) del 1888, quando a Parigi ha ormai scoperto il colore degli impressionisti e le stampe giapponesi, e poi i limoni in un canestro un po' sciupato e le cipolle in un piatto di terraglia, tutti dipinti con il puntinismo pausato, denso e materico che è solo suo. Sono i paesaggi a chiudere il percorso: Arles, Saint-Rémy, Saintes-Maries-de-la-Mer, Auvers... Tutti magnifici ma uno più di tutti: è il Paesaggio con covoni e luna del luglio 1889, in cui nessun colore è verosimile ma nel quale tutto, dalle pennellate convulse alla cromia alterata, esprime lo stato d'animo perturbato del pittore, ormai alla fine della sua avventura, pronto a lasciare il Midi per l'ultima tappa, a Auvers-sur-Oise.

Il Sole 26.10.14
Parole giuste per dipingere
Le missive inviate dal pittore al fratello Theo e agli artisti a lui contemporanei permettono di conoscere la vita, il pensiero e le fasi di produzione artistica del maestro
di Marco Carminati


Vedere esposte alla mostra di Milano una piccola selezione delle 900 lettere di Vincent van Gogh è un piccolo colpo al cuore. Provoca emozioni non meno intense di quelle che si provano di solito davanti ai suoi disegni e ai suoi quadri. È facile capire perché. Nessun artista che si è affacciato sino a oggi sul proscenio della storia ci ha lasciato una testimonianza epistolare così vasta, intensa e appassionata. Vincent era – tra l'altro – uno scrittore di grande talento e le centinaia di lettere inviate al fratello Theo e ad altri amici artisti come Gauguin, Seurat, Signac o Bernard, vergate con grafia chiara e regolare, rappresentano un sorprendente racconto di vita e una chiave eccezionale per interpretare le sue opere. Queste lettere ci permetterono di ricostruire in dettaglio i passi dell'esistenza di Vincent e ci permettono anche di smontare molti luoghi comuni venutisi a creare attorno al suo personaggio. Van Gogh aveva ricevuto un'ottima educazione e nelle lettere è in grado di esprimersi in diverse lingue: olandese, francese e inglese. In alcune missive, addirittura mescola tutte queste lingue. Questo preziosissimo materiale epistolare ci permette, altresì, di conoscere nei minimi particolari i suoi pensieri sull'arte, propria e altrui. Inoltre, parlando dei suoi quadri, van Gogh affianca spesso alle descrizioni verbali dei dipinti piccoli e accurati disegni, dai quali è possibile desumere come siano nate e si siano sviluppate le idee figurative di molti dei suoi capolavori più celebri. Infine, ci possiamo rendere conto delle sue non comuni capacità di narratore, della finezza dei suoi giudizi, del gusto per gli aforismi. Di contro, attraverso questi scritti, van Gogh ci permette di entrare anche nel suo intimo, ci fa partecipi con grande lucidità della sua condizione esistenziale, dei suoi disagi e della malattia mentale che lo porterà alla morte per suicidio.
Di recente i lettori italiani hanno potuto disporre di ben due antologie di lettere di van Gogh, una edita nei Millenni Einaudi a cura di Cynthia Salzman (pagg. 764, € 85,00) e una nella Biblioteca Donzelli a cura di Leo Jansen. Hans Luijten e Nienke Bakker (pagg. 1.070, € 55,00). Si tratta di strumenti di conoscenza davvero preziosi per entrare nel mondo di van Gogh.
«Molti immaginano che le parole siano niente. Invece non è così. Dire bene una cosa è altrettanto interessante e altrettanto difficile che dipingere una cosa». Questo scriveva Vincent a Emile Bernard il 19 aprile del 1888. Oltre a essere un prolifico scrittore van Gogh era anche un grande lettore. Aveva familiarità con la Bibbia, con Shakespeare e con i romanzieri del suo tempo. Amava Balzac e Zola, e così ebbe a scrivere: «Comincio a sentirmi sempre più attratto da Daumier. C'è in lui qualcosa di vivo e di meditato... In Balzac o in Zola ci sono brani – per esempio nel Pére Goriot – in cui nelle parole si trova un simile livello di passione incandescente». Leggendo le sue lettere, si avverte che egli ebbe accesso agli scritti di Théophile Thoré, Charles Blanc, Baudelaire e alla vasta produzione di Gautier. Inoltre, oltre ai romanzi amava anche i celebri Salons e la letteratura di viaggio.
Nelle lettere Vincent non può fare a meno di comunicare – soprattutto al fratello Theo – le sue infatuazione per gli artisti. Nel gennaio 1874 informa Theo: «Ecco l'elenco di nomi di pittori che amo particolarmente. Scheffer, Delaroche, Hébert, Hamon. Leys, Tissot, Lagye, Boughton, Millais, Thijs Maris, Degroux, De Braekeleer Jr. Millet, Jules Breton, Feyen-Perrin, Eugène Feyen, Brion, Jundt, George Saal. Israëls, Anker, Knaus, Vautier, Jourdan, Jalabert, Antigna, Compte-Calix, Rochussen, Meissonier, Zamacois, Madrazo, Ziem, Boudin, Gérôme, Fromentin, De Tournemine, Pasini. Decamps, Bonington, Diaz, T. Rousseau, Troyon, Dupré, Paul Huet, Corot, Schreyer, Jacque, Otto Weber, Daubigny, Wahlberg, Bernier, Emile Breton, Chenu, César de Cock, Mlle Collart. Bodmer, Koekkoek, Schelfhout, Weissenbruch, e last but not least Maris e Mauve».
Si tratta di una "galleria" molto personale che egli formò nella sua mente attraverso le visite ai musei, gli acquisti, le letture di libri e riviste illustrate, il suo lavoro da Goupil. Notiamo che nella lista manca Manet. Ma di lui inizierà a interessarsi durante il primo soggiorno parigino tra il 1875 e il 1876.
Ciascun artista di questo "museo privato" fluttuerà nella valutazione di Vincent, sarà cioè esposto a cali di entusiasmo o, addirittura, al declassamento. In questo modo van Gogh si disamorerà di Henri Leys, di James Tissot e dei preraffaelliti. Ma chi resisterà a questa erosione sarà soprattutto Millet. Millet sarà uno dei pochissimi artisti a non decadere mai da quell'autorità che van Gogh gli aveva conferito nel 1874: «Sì, questo quadro di Millet, L'Angelus della sera, è pieno di ricchezza e di poesia». L'ammirazione per Millet – prima ancora di essere rafforzata dalla lettura dell'agiografia di Alfred Sensier – è intrisa di un religioso rispetto verso l'uomo, presunto modello di una probità morale, e verso l'opera, considerata un vero e proprio vangelo. Visitando la prima retrospettiva di Millet all'Hôtel Drouot di Parigi (1875) van Gogh – in preda all'emozione – così dichiarò: «Ho sentito qualcosa come: "toglietevi le scarpe, state calpestando una terra santa"».
Van Gogh vide in Millet un pittore «autentico», proprio quando le avanguardie cominciavano a dimenticarlo, ma anche e soprattutto un pittore «dell'autentico», una sorta di santo moderno che esaltava la propria fede in mezzo ai villici di Barbizon. Poco importa che l'autore dell'Angelus fosse un totale agnostico, e non tenesse alcuna considerazione dei contadini di Barbizon.
Nelle lettere, e in particolare in quelle indirizzate all'amatissimo fratello Theo, Vincent van Gogh riesce a raggiungere vette di autentico lirismo. Leggiamo cosa scrive nel giugno del 1880: «Uno ha un grande fuoco nell'anima ma nessuno viene a scaldarsi, i passanti non scorgono che un po' di fumo al comignolo e se ne vanno per la loro strada. E allora che fare, ravvivare questo fuoco interiore, avere del sale in sé, attendere pazientemente – ma con quanta impazienza – attendere il momento in cui, mi dico qualcuno verrà a sedersi davanti a questo fuoco, e magari vi si fermerà».
In una lettera, il nostro tormentato maestro si trasforma quasi in un profeta: «Caro Theo, non posso farci nulla se i miei quadri non si vendono. Ma verrà un giorno in cui varranno più del colore che io ci metto, e della mia stessa vita».

Il Sole Domenica 26.10.14
I testi
«Caro Theo, sto studiando Millet»


A Theo van Gogh: Londra,
inizio di gennaio 1874
«Sono felice che ti piaccia Millet, perché "ci siamo proprio". Si, quel quadro di Millet L'angelus della sera "ci siamo proprio". È ricco, è poesia. Come vorrei parlare con te ancora di arte, ma ora possiamo solo scriverne spesso l'uno all'altro: "trova cose belle" più che puoi, la maggior parte della gente trova "troppo poca bellezza". Continua sempre a camminare e ad amare la natura, perché è questo il vero modo per imparare ad amare l'arte sempre meglio. I pittori comprendono la natura e la amano e "ci insegnano a vedere". E poi ci sono pittori che non fanno altro che cose buone, che non possono mai sbagliare, così come ci sono persone normali che non combinano mai nulla di buono»...
* * *
A Theo van Gogh: Amsterdam,
lunedì 18 e martedì 19 febbraio 1878
«Ieri sera mi sono visto un'intera annata della rivista L'Art. Mi hanno colpito particolarmente delle xilografie da disegni di Millet, inclusi La caduta delle foglie (Pastore che cura il suo gregge), Stormo di corvi, Asini in una pianura sotto la pioggia, I taglialegna, Donna che scope la sua casa, Cortile (effetto notturno) eccetera, anche un'incisione di Corot, La duna, e da Breton, La festa di San Giovanni e altri, e anche da Millet I fagioli».
* * *
A Theo van Gogh: L'Aia,
sabato 11 marzo 1882
«Non ho mai sentito un buon sermone sulla rassegnazione, né sono mai stato capace di immaginarne uno salvo questo quadro di Mauve e l'opera di Millet. Si tratta proprio di rassegnazione, ma quella vera, non quella dei preti. In questo dipinto trovo una filosofia così alta, pratica, priva di parole, sembra dire di sapere come soffrire senza lamentarsi, questa è l'unica cosa pratica, è questa la grande abilità, la lezione da imparare, la soluzione ai problemi della vita.
Mi sembra che questo quadro di Mauve sarebbe uno dei rari dipinti davanti a cui Millet sosterebbe a lungo, borbottando tra sé e sé, ha un buon
cuore quel pittore».
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A Theo van Gogh: Nuenen,
lunedì, 26 gennaio 1885
«Sono ogni giorno più convinto che quelli che non fanno del combattere con la natura il loro impegno principale "non" ci arrivano. Penso che se si cerca di seguire i maestri attentamente, li si incontra tutti a un certo punto, radicati nella realtà. Voglio dire, quelle che sono chiamate le loro "creazioni", si vedono anche nella realtà, se si ha uno sguardo simile al loro, un simile sentimento.
Ciò che Michelangelo ha detto in una metafora di somma bellezza, penso lo dica Millet senza metafora, e uno può forse imparare meglio a vedere attraverso Millet e trovare "una fede".
Se farò lavori "migliori" più avanti, non lavorerò però in modo diverso da adesso. Voglio dire, una mela è sempre una mela, solo più matura; io stesso non volterò le spalle a ciò in cui ho creduto fin dal principio. Perché il grano è il grano, anche se di primo acchito sembra erba alla gente di città.
In ogni caso, che la gente ami o meno ciò che faccio e come lo faccio, da parte mia non conosco altro modo che combattere con la natura fino a che non mi svelerà il suo segreto».
* * *
A Theo van Gogh: Nuenen,
mercoledì, 2 settembre 1885
«Quando penso a Millet,
allora trovo l'arte moderna grandiosa quanto Michelangelo e Rembrandt – il vecchio infinito e anche il nuovo infinito – il vecchio genio, il nuovo genio.
Per quanto mi riguarda sono convinto che in questo campo si possa credere nel presente.
Il fatto che io abbia precise convinzioni sull'arte, significa anche che so cosa voglio ottenere nella mia opera e che cercherò di ottenerlo anche se morirò tentando».
A Theo van Gogh: Saint-Rémy-de-Provence,
venerdì, 20 settembre 1889
«Al momento ho 7 copie su dieci dei Travaux des champs di Millet. Ti posso assicurare che mi interessa tantissimo fare copie, e, non avendo modelli, per ora questo farà sì che non perda di vista la figura. In più mi fornirà una decorazione per lo studio, per me o per un altro. Metto dinnanzi a me i bianchi e neri di Millet come modelli. Poi improvviso il colore, ma, trattandosi di me, non improvviso completamente, ma cercando il ricordo dei "loro" dipinti. Ma la memoria, la vaga consonanza dei colori, che sono dello stesso sentimento, se non esatti, ecco la mia interpretazione personale. Un sacco di gente non copia. Un sacco di gente copia. Per quanto mi riguarda, lo faccio per caso e scopro che mi insegna e sopra ogni cosa che, a volte, mi consola».
* * *
A Theo van Gogh: Saint-Rémy-de-Provence,
25 ottobre 1889
«Finalmente ieri sera sono arrivate le riproduzioni di Millet e ne sono molto lieto. M. Peyron (il medico che dirigeva l'ospedale psichiatrico di Saint Rémy de Provence) mi ha ripetuto ancora che ci sono miglioramenti significativi e che è ottimista. Però, molto spesso mi prende una malinconia violenta, e inoltre, più la mia salute migliora, più la mia mente è in grado di ragionare molto lucidamente, più mi pare una follia realizzare dipinti che ci costano così tanto e che non ci fruttano nulla, neanche il costo di produrli, una cosa completamente senza senso».

Il Sole 26.10.14
Roma

La mostra per avere i numeri
di Armando Massarenti


C'è una mostra da non perdere a Roma, a Palazzo delle Esposizioni, realizzata in collaborazione con Codice a cura di Claudio Bartocci e Luigi Civalleri. Si intitola Numeri. Tutto quello che conta da zero a infinito, ed è di quelle che possono cambiare la vita, soprattutto a coloro che pensano di odiare la matematica, o che non riescono a vederne l'intreccio con le altre dispipline o, più semplicemnete, con la vita di ogni giorno. Così scopriranno che George-Louis Leclerc, conte di Buffon (1707-188), famoso per la sua monumentale Histoire naturelle, coltivava, accanto ai prevalenti interessi biologici e geologici, una passione per la matematica. Tradusse in francese il trattato di Newton sulle «flussioni» e le serie infinite ed ebbe una fitta corrispondenza col matematico ginevrino Gabriel Cramer. Nella memoria del 1733 Sur le jeu de franc-carreau - un gioco d'azzardo in cui si getta una moneta su una tavola quadrettata e si scommette se essa toccherà o meno una linea divisoria - Buffon usa gli strumenti del calcolo differenziale e integrale per calcolare le probabilità di vincita. Queste idee sono riprese nell'Essai d'arithmétique morale del 1777, dove propone il famoso «problema dell'ago», una variante del gioco del franc-carreau la cui analisi «richiede di un po' di geometeria in più»: «Supponiamo che in una stanza, il cui parquet è diviso soltanto da giunzioni parallele, si lanci in aria una bacchetta e che un giocatore scommetta che la bacchetta non incrocerà nessuna delle parallele del parquet, mentre l'altro, al contrario, che essa incrocerà qualche parallela; si domanda quale sia la probabilità di vincita di questi due giocatori». Il problema ha una soluzione sorprendente che fa entrare in gioco pi greco: data una lunghezza L della bacchetta e la distanza tra due giunture del parquet D, con D maggiore di L, la probabilità che la bacchetta incroci una parallela è calcolata da una formula ben precisa. Abbinando l'analisi matematica e le leggi del caso a considerazioni geometriche, Buffon proponeva un originalissimo metodo di calcolo, che si prestava oltretutto a essere verificato sperimentalmente. Da quelle intuizioni nascerà un nuovo settore della matematica applicata, la simulazione stocastica, che nel '900, con l'avvento dei computer, avrebbe acquisito un'importanza fondamentale nelle scienze fisiche e nell'ingegneria. Ma, con questa idea, nella mostra di Roma ci potete giocare: in un exhibit interattivo il visitatore può lanciare dei bastoncini di plastica in una specie di piccola pista da bowling segnata da righe orizzontali: un computer collegato a una telecamera conta quanti bastoncini intersecano le righe orizzontali e da ciò estrapola un valore approssimato di pi greco. I visitatori rimangono stupefatti di fronte a questo sortilegio: il numero irrazionale astratto studiato a scuola si materializza, approssimato, come per magia. La matematica abbandona l'empireo delle idee platoniche e diventa tangibile, concreta.

Il Sole 26.10.14
Corrado Augias
Il lato oscuro del lettino
Nel primo romanzo dello scrittore, il resoconto psicoanalitico si intreccia a una trama noir
di Vittorio Lingiardi


«O mio cuore dal nascere in due scisso,/quante pene durai per uno farne!/Quante rose a nascondere un abisso!». Un breve componimento di Umberto Saba accompagna i miei pensieri mentre leggo il romanzo di Augias. Dove pochissime sono le rose e spalancato è l'abisso sulla tenebra del cuore, che è sessualità, che è inconscio. Qui soprattutto femminile. Un regno che Freud aveva definito «continente nero» e su cui Lacan aveva implorato un'illuminazione, si dice addirittura inginocchiandosi di fronte a una psicoanalista per chiederle conto del godimento della donna. Tiresia pagò con la cecità (ma fu poi ricompensato con la preveggenza) la rivelazione di questo segreto. Interpellato da Zeus ed Era su chi in amore provasse più piacere, se l'uomo o la donna, Tiresia disse infatti che il godimento è composto di dieci parti di cui nove appartengono alla donna e solo una all'uomo.
Dopo le indagini sui segreti delle grandi città e le inchieste sulla religione, Augias approda agli umani con l'erudizione e la fermezza che gli abbiamo sempre conosciuto. Per questa inchiesta si serve di un espediente letterario spesso fallibile che lui riesce a rendere infallibile grazie alla padronanza con cui governa temi teorici e riferimenti storici. Trama noir (c'è di mezzo un omicidio) e cronache di disperazione amorosa s'intrecciano infatti con il resoconto psicoanalitico. Le parole dello scrittore si specchiano in quelle della sua eroina-alter ego, Clara, dottoranda di psicoanalisi, psicoterapeuta agli esordi, compagna incerta e leale di Corrado, filologo sentenzioso ma buono. Clara e Corrado, dunque, a rappresentare non solo l'inevitabile intreccio dei generi sessuali, ma anche il legame ineludibile tra caso clinico e romanzo. Che fa della psicoanalisi un territorio impervio e mai del tutto esplorato, disseminato di trappole e tesori nascosti. Al punto da portare molti scrittori a temerla e disprezzarla. Nabokov, per esempio: «Se gli ingenui continuano a credere che tutti i malanni mentali si possono guarire con un'applicazione quotidiana di vecchi miti greci alle parti intime, facciano pure. La cosa non mi tocca». Clara non ha alcuna pretesa di guarire i malanni mentali, semmai prova a curarli, come ogni bravo terapeuta, cercando di rendere possibile una loro narrazione. Ed è all'incrocio di narrazioni diverse, per storia e per tempo, che la trama del romanzo s'irrobustisce e incammina. Storie di donne che, senza saperlo, hanno raccontato la psicoanalisi proprio quando erano gli uomini a scriverla. Terapeute come Sabina Spielrein, Toni Wolff, Lou von Salome (l'eccezione dominatrice), e pazienti come Bertha Pappenheim, Anna O e naturalmente Dora, cioè Ida Bauer, «uno dei peggiori smacchi di Freud – scrive Clara – che del resto aveva sempre capito poco circa la sessualità femminile». Non a caso Clara e Corrado (Augias) dedicano belle pagine alla coppia Freud-Schnitzler. «Perché Freud non aveva capito il trauma di Dora?». Perché «aveva falsato i risultati introducendo il filtro della sua cultura, della sua biografia, lo spirito dei tempi». C'era riuscito invece Schnitzler con Signorina Else, invenzione letteraria capace di incarnare la verità dell'oltraggio sessuale, dell'umiliazione. Se pensiamo a Else e Dora (due casi su cui il pensiero femminista, da Cixous a Muraro, è spesso tornato) ci accorgiamo di come Schnitzler sia più attento e partecipe, mentre Freud, per sua stessa ammissione, del desiderio femminile sembri capire ben poco. Di Dora, in fondo, "non si fida".
Che cosa studia Clara? «Ricostruisco e racconto il momento di passaggio dalla medicina alla psicologia, dall'esame del corpo alla ricerca dell'anima, o meglio della mente. Dalle patologie dell'organismo a quelle della coscienza … Le isteriche, le ipnotizzate, le sonnambule, le analizzate in pubblico, nude su un lettino, catatoniche o squassate dagli spasmi muscolari: sono quasi sempre le donne a dare spettacolo negli anfiteatri medici di mezza Europa». Temi assiduamente frequentati già negli anni '70 (la vicenda di Clara si svolge, direi, a cavallo tra anni '80 e '90), quando iniziano a prendere consistenza accademica i gender studies. Gli anni di Carol Gilligan, Juliet Mitchell, Luce Irigaray. Clara studia il lato oscuro del cuore delle donne quando incontra quello degli uomini e da questo incontro si genera un dominio sul corpo che è dominio sulla mente, assoggettamento, negazione. Ma in che modo il dominio è radicato nel cuore di chi è dominato? Questo è il tema di un libro che appassionerebbe Clara, un saggio scritto proprio in quegli anni dalla psicoanalista americana Jessica Benjamin: Legami d'amore (a lungo introvabile, tra un paio di mesi verrà ripubblicato da Cortina).
Quando le pazienti di Charcot, Breuer, Freud e Jung iniziano a stancarla, per un imprevisto della vita Clara si trova a raccogliere, in un setting improvvisato e sospeso tra psicoterapia e conversazione, le parole-corpo di una donna devastata, Wanda, masochisticamente coinvolta in una storia di violenze maschili, umiliazioni, ricatti. «Potevo dire di essere stata violentata? Un uomo m'era venuto addosso a casa mia, sul mio letto. Era sicuramente violenza. Però mi aveva anche provocato un piacere mai provato prima, cancellando qualunque altra cosa». E qui attenzione a non sovrapporre la figura sessista della vis grata puella a quella clinica di una personalità borderline che ripete il suo trauma.
In mezzo a tanto sesso, Augias riesce a trovare un equilibrio insperato, lasciando che le parole tacciano e i silenzi parlino. In alcuni punti la sua scrittura appare di gentile antica maniera, con "falci di luna" e "lame di luce". Alcuni dialoghi ci sorprendono per la comparsa inattesa, talora bizzarra, di riferimenti a Vitruvio o Cavour nel mezzo di conversazioni domestiche. Dalla bocca di un lenone senza scrupoli può uscire un apprezzamento sull'"insellatura delle reni". Stilemi che tuttavia non disturbano, ricercatezze difensive della lingua per fronteggiare la materia primitiva, inarticolata e brutale, di cui è formato il lato oscuro del cuore.
Augias racconta una storia per mezzo della psicoanalisi e la psicoanalisi per mezzo di una storia. Facendoci capire che la psicoanalisi non è un corpus dottrinario, ma un lavoro continuo di elaborazione sulla condizione umana che nasce dall'esperienza della relazione terapeutica. Una disciplina che assume su di sé tutta l'incertezza e la complessità del dialogo, e dunque dell'ascolto e del riconoscimento interumano. Due persone che parlano in una stanza. Due persone, diceva Bion, piuttosto spaventate: «se non sono spaventate, c'è da domandarsi perché si prendono il disturbo di scoprire quello che tutti sanno».
Corrado Augias, Il lato oscuro del cuore, Einaudi, pag. 280, € 19,00

La Stampa 26.10.14
Domingo, Nunez, Pappano, indovina chi vedi al cinema
In sala la stagione del Covent Garden
di Sergio Trombetta


«Vedere il Winter’s Tale al cinema mi ha dato emozioni mai provate in teatro. Sembrava di essere sul palcoscenico fra i danzatori. La ringrazio per questa sensazione unica». In realtà la lettera di questa anziana ballettomane entusiasta per avere visto al cinema Racconto di Inverno, da Shakespeare, di Christopher Wheeldon con il Royal Ballet, è lunga e dettagliata: tre pagine. Ma Alex Beard, chief executive della Royal Opera House, ne legge soltanto dei passi. Con soddisfazione: perché vuol dire che proiettare in diretta i balletti e le opere dal Covent Garden è una operazione vincente. «Nella stagione 13/14 – commenta – il nostro pubblico al cinema è arrivato a 700 mila spettatori. Per certi spettacoli, come Giselle o Schiaccianoci si è dovuto ricorrere a una seconda sala di proiezione».
Per la prima della nuova stagione Beard e Kevin O’Hare, direttore del Royal Ballet, hanno presentato sullo schermo, e dal vivo al Covent Garden, Manon, preziosa specialità della casa inglese, balletto di Kenneth McMillan nato 40 anni fa, su musica di Massenet. Due protagonisti di eccezione: Maria Anela Nunez nel ruolo del titolo e il nostro Federico Bonelli fascinoso Des Grieux. Curiosamente due Manon hanno chiuso e aperto la passata e la nuova stagione. Puccini, con Jonas Kaufman sexy superstar e McMillan con l’altrettanto sexy Bonelli. È stato visto, il balletto, da circa 57 mila persone nella sola Inghilterra, mentre le sale nel mondo sono circa 1200, compresa l’Italia dove distribuisce la Qmi, (qmi.it, o roh.org.uk/cinema). Che anche questo sia un modo per diffondere la cultura?
Certo ci vogliono grandi nomi e titoli di sicura presa e compagnie rinomate. Mercanzia che da queste parti non manca. Placido Domingo, Jonas Kaufman, Netrebko, Natalia Osipova, Bryn Terfel in scena. Antonio Pappano, Daniele Rustioni e molti altri sul podio. In tutto undici titoli, quattro balletti e sette opere
Dopo Manon si parte con l’opera: Domingo, Pappano e Verdi con I due Foscari il 27 ottobre. Dopo un Elisir d’amore con Vittorio Grigolo, Lucy Crowe e Terfel, ecco Alice nel paese delle meraviglie: a sorpresa, sarà il balletto di Natale invece dello Schiaccianoci. Ma lo spettacolo di Christopher Wheeldon è un hit delle ultime stagioni, una meraviglia di danza e con scene e costumi spettacolari. Lauren Cuthbertson è Alice, ma la Regina di Zenaida Janovsky, perfida e bellissima, è un ruolo indimenticabile. Poi naturalmente Kaufman sarà Chenier, bello e con-dannato alla ghigliottina, Terfel è l’olandese volante. «Show me the way to the next whiskey bar» cantano in coro: già perché al Covent Garden non rinunciano neanche a mostrare al cinema un capolavoro come la Mahagonny di Brecht e Kurt Weill. E poi Netrebko sarà Mimi in Bohème e Guglielmo Tell chiuderà la stagione a luglio con Pappano sul podio.