lunedì 27 ottobre 2014

il Fatto 27.1.14
Sergio Cofferati
“È solo l’inizio dello scontro”
intervista di Carlo Tecce


I milioni di italiani in piazza, l’ex sindacalista Sergio Cofferati, li portava al Circo Massimo, adesso li accompagna, li sostiene, li celebra: “Sabato ho avvertito la stessa atmosfera di 12 anni fa, tanti, tantissimo giovani. Tante, tantissime cose belle al raduno Cgil: il colore rosso, le richieste, le proposte”. E adesso? Cofferati risponde da europarlamentare dem, un fondatore del prodiano partito democratico, ci tiene a precisare: “Ora inizia la partita, non è finita sabato con il confronto a distanza tra la manifestazione Cgil e la renziana Leopolda. Susanna Camusso ha dato prova di autonomia, ha illustrato le sue ragioni nonostante il governo sia di centrosinistra. Lo scontro sarà ancora più netto nei prossimi giorni, quando sarà valutato l’effetto dei tagli, l’impatto di questa legge di Stabilità che avrà ricadute sui servizi ai cittadini”.
In piazza, e così la provoco, i renziani dicono che non si crea il lavoro.
Non mi spavento: io replico che a San Giovanni c’erano lavoratori, disoccupati, pensionati e giovani. Vi sembra banale? Spero di no, questa è l’immagine di una nazione che deve subire le conseguenze di un dramma industriale ancora in atto.
Renzi vi informa che il posto fisso non esiste, non più. Cofferati, ride?
No, mi limito a evidenziare che ci sono un paio di contraddizioni in questa affermazione. La prima: il suo ministro Giuliano Poletti ha ribadito che la riforma del lavoro garantirà più contratti a tempo indeterminato. La seconda: le aziende vogliono certezze, vogliono poter pianificare il futuro, a basso costo fiscale sì, ma non con le porte girevoli, le finte collaborazioni.
Questa piazza romana che rapporti ha con il Nazareno, inteso come la sede di un partito, non di un patto sottoscritto con Silvio Berlusconi?
Io ho incontrato diversi elettori dem, forse la maggioranza sono nostri elettori, mescolati a quelli che hanno smesso o non hanno mai cominciato a votarci. E sono tutti, nessuno esclusi, interlocutori prima di Renzi presidente del Consiglio e poi di Renzi segretario. Mi sembra, però, che Renzi stia ignorando la Cgil, e dunque stia ignorando anche gli elettori che sabato sono sfilati per le strade di Roma .
Oltre a una protezione sindacale, quella piazza sembra alla ricerca di un partito, un movimento, un leader di sinistra...
Di fatti, direi.
Che ne pensa di Maurizio Landini?
È un bravissimo sindacalista, e c’è ancora molto bisogno di Maurizio. Farà le sue scelte, vedremo.
Stefano Fassina e Gianni Cuparlo, deputati di minoranza, annunciano il no alla Camera al testo Poletti (jobs act), che ipotesi può fare: scissioni o espulsioni?
Escludo. Le battaglie, anche le più dure, vanno fatte all’interno. E con sicurezza, vi dico, che battaglia sarà.

La Stampa 27.10.14
Rosy Bindi
“Matteo sta svuotando tutto. Diventerà il partito di Serra”
intervista di Francesca Schianchi


«Stia tranquillo Renzi: ha rottamato tutto, la Bindi non è più in partita. Ma da bordo campo a volte si vedono meglio gli errori, e ora deve confrontarsi sulle idee e rispondere alla piazza di sabato».
Presidente Rosy Bindi, si sente una reduce?
«Altro che reduce, sono una combattente, ho avuto l’onore di metà discorso conclusivo della Leopolda! Ma spero di non essere stata un diversivo per evitare di parlare dei problemi reali del Paese…».

Renzi dice che non lascerà il partito a quelli del 25%.

«So bene che il partito lo guida lui e non esiste per nessun altro possibilità di scalarlo. Il problema è: dove lo sta portando?».

Per questo ha parlato di Leopolda imbarazzante?

«Trovo imbarazzante che la classe dirigente del Pd fosse da un’altra parte rispetto al Pd, a fare una manifestazione finita su tutti i media quando in un anno non ne ha mai organizzata una di partito che avesse la stessa risonanza e le stesse possibilità di confronto. Perché si va alla Leopolda a elaborare il progetto per l’Italia? Perché Renzi prima occupa una casa e poi la svuota?».

Perché, secondo lei?

«La risposta che mi do è che ci sia un altro progetto in campo: come molti hanno detto, questo è il partito della nazione».

Franceschini sostiene che il Pd è nato sabato.

«Allora ci comunichi di quale partito è stato segretario nel 2009. Franceschini è sempre stato bravissimo a giustificare i suoi cambi di posizionamento, ma anche questa è una prova che c’è stata una rottura tra Pd e Leopolda».

Presidente, non è che voi «reduci» parlate così perché siete stati messi da parte?

«Neanche per idea. Io non ho votato contro Renzi al congresso, non ho sostenuto nessun candidato. E ho anche troppo da fare con l’Antimafia, ho già annunciato che ho fatto le nozze d’argento col Parlamento, non mi ricandiderò. Ma il Pd deve saper interpretare la piazza della Cgil, in cui stava una parte consistente del Paese reale e della sinistra».

Ma la vocazione maggioritaria non era l’obiettivo del Pd?

«Io infatti ho riconosciuto a Renzi di aver saputo interrompere il continuismo Pci-Pds-Ds. Ma anche il partito a vocazione maggioritaria non esce dai confini di centrosinistra. Il mio partito non può diventare il partito di Serra e dire no alla piazza di sabato. Se è così, si sbaglia e si aprono praterie a sinistra, perché nel Pd molti si sentono più vicini alle ragioni di Landini che a Serra, che ha annunciato l’iscrizione al Pd dicendo cose fuori dal nostro Dna. Il rischio non è il Pd di D’Alema, ma quello di Serra».

Se diventa il partito di Serra lei lascia il Pd?

«In quel caso è il Pd che esce da se stesso. Vedremo, io mi batterò perché il partito non rinneghi le radici dell’Ulivo. Io voglio che al governo ci sia il Pd, non un post Pd, un partito nazione senza basi culturali».

Quindi lei lo vede un rischio scissione.

«Scissione non è la parola giusta: è evidente che di fronte allo svuotamento, alla mutazione genetica di un progetto, si riaprono partite nel panorama politico. La piazza di sabato che tipo di rappresentanza troverà se il Pd è quello di Serra?».

Cosa dovrebbe fare Renzi?

«Riprendere la legge di stabilità e vedere come si può cambiare a saldi invariati. Riprendere il Jobs act e discuterne con i sindacati. Lui ha fatto dell’art. 18 uno strumento ideologico».

Aggrapparsi all’art.18, dice Renzi, è mettere il rullino in una macchina digitale.

«Io non metto il rullino nella macchina digitale, ma si ricordi Renzi che con questi strumenti si può anche manipolare la realtà anziché vederla meglio: ecco, stia attento a non farlo».

La Stampa 27.10.14
Matteo Orfini
“Il rischio scissione è reale. Bisogna cercare di evitarlo”
intervista di Francesca Schianchi


Il Pd in piazza con la Cgil e quello della Leopolda «sono lo stesso partito. Non drammatizziamo la divisione di sabato», predica il presidente dell’Assemblea del Pd, Matteo Orfini, appena rientrato da un bilaterale in Cina con i dirigenti comunisti. Che però aggiunge: «Abbassiamo i toni».

Si riferisce allo scambio tra Bindi e Renzi?

«Penso che la Bindi abbia usato argomenti non convenzionali e irricevibili. Non sono mai stato alla Leopolda ma definirla “post Pd” e alludere al fatto che chi governa possa essere influenzato dai finanziatori della Leopolda non le fa onore».

E Renzi che definisce «reduci» la vecchia classe dirigente?

«Dovremmo smetterla di usare il “noi” e “voi”: la contrapposizione interna alimentata per ragioni di visibilità rischia di distruggerlo un partito».

E’ quello di cui si discute: è normale sfilare in un corteo che intona cori contro il segretario?

«Io ero in Cina ma non sarei andato alla manifestazione della Cgil. E per uno con la mia storia, non andarci non è una scelta facile. Ma non si può usare quella piazza come una passerella: c’è un’enorme dose di strumentalità da parte degli esponenti del Pd che ci sono andati. Ciò detto, non credo che quella piazza sia alternativa a quello che fa il governo».
Nemmeno sull’articolo 18?

«Anch’io non avrei cambiato l’art. 18, e ho accettato la correzione solo perché è parte di un provvedimento che va nella direzione dell’ampliamento dei diritti dei lavoratori. Trovo sbagliata anche la definizione di Renzi del gettone da mettere nell’iPhone, perché i diritti non scadono e il tema è estenderli. Ma non accetto che si faccia passare la politica del governo in continuità con quella della destra. Lo scontro aperto in Europa sulla legge di stabilità dimostra la discontinuità».

Fassina dice che il Jobs act così com’è non lo vota.

«Mi stupisce che Fassina non abbia ritenuto in contrasto col suo mandato da parlamentare votare la fiducia a un governo con Berlusconi o fare servizi fotografici posati insieme a Brunetta inneggiando alle larghe intese…».

Che succede se nella minoranza non votano il jobs act?

«Dobbiamo discutere nei gruppi parlamentari il modello del nostro stare insieme. Io penso che si debbano rispettare le decisioni prese a maggioranza».

Chi non lo fa è fuori dal Pd?

«Non dobbiamo mettere fuori nessuno, ma se ci sono scelte difficili da fare non può essere che una parte si carica le responsabilità e l’altra si mette in posa davanti alle telecamere».
Il rischio scissione è reale?

«Il semplice fatto che se ne parli così di frequente significa che il rischio c’è. Per questo dobbiamo evitare discussioni strumentali e cercare di recuperare il senso di comunità che stiamo perdendo».

L’obiettivo è il partito della nazione?

«Dobbiamo allargare il Pd, ma non lo chiamerei partito della nazione. Siamo il Pd, che sta nel Pse, questi sono i nostri confini: se vieni nel Pd lo fai per fare una battaglia di sinistra. E non per ridurre il diritto di sciopero».

Lo ha proposto Serra, che si iscrive al Pd.

«Se pensa quello che ha detto, forse ha sbagliato partito».

La Leopolda è un partito parallelo, come teme Cuperlo?

«No: in tutte le democrazie la politica si fa anche nelle fondazioni e nelle associazioni. Credo che Cuperlo, come me, consideri una palestra formativa importante il lavoro fatto ad Italianieuropei (la fondazione presieduta da D’Alema, ndr.)».

Se non fosse stato in Cina ci sarebbe andato alla Leopolda?

«Credo di no. Sa, sono un po’ vintage: faccio fatica a parlare solo 5 minuti…».

Corriere 27.10.14
«Scissione? Sarebbe colpa di Matteo»
Cuperlo: ora la sinistra ha il dovere di organizzarsi per un nuovo inizio
Con le sue parole sull’articolo 18 Renzi ha offeso il milione di persone in piazza a Roma
Per intervenire alla Leopolda bisogna inviare il testo, Togliatti era più liberale
intervista di Monica Guerzoni


ROMA Gianni Cuperlo, per il premier la sinistra di piazza San Giovanni è roba da museo delle cere.
«Io non ho nostalgia di nulla, ma un partito deve dire con chi sta e per chi si batte».
La piazza dei «reduci» e la Leopolda dei «pionieri», per dirla con Renzi, prefigurano due diversi partiti?
«Ho più rispetto io per la Leopolda di quanto non ne abbia mostrato Renzi verso i lavoratori e i giovani che hanno riempito San Giovanni. Però mi sembra che da quel palco Renzi osservi il mondo con i google glass. È la scelta di un mondo parallelo depurato da rabbia, paura, speranza».
Non sono i leopoldini a coltivare la speranza?
«Nell’impianto della Leopolda c’è un’idea della politica dove l’impulso del leader prevale sulla forza del diritto. Però questa non è concretezza, è una radice del populismo».
Renzi populista?
«Quando usa l’articolo 18 e dice che parlare delle norme che tutelano dal licenziamento è come voler mettere un gettone nell’iPhone, offende il milione di persone che hanno riempito le vie di Roma. Questo non va bene. Il punto è se tu, per uscire dalla crisi più grave del secolo, lavori per unire il Paese e non per dividerlo».
Il premier spacca il Paese?
«Descrivere la piazza come quelli che girano col telefono a gettoni è non capire che usciremo da questa crisi solo tutti assieme e non l’impresa contro il lavoro, una generazione contro l’altra, il Nord contro il Sud. Chi guida il Paese dovrebbe unirlo, non denigrarlo».
La scissione è in atto?
«Io voglio innovare il Pd e per questo voglio correggere una linea dai riflessi antichi. La scissione sarebbe una sconfitta del progetto nel quale abbiamo creduto e sta a tutti evitare di precipitare lì, ma è chiaro che Renzi ha una responsabilità enorme».
Vuole spingervi fuori?
«Spero non sia così, ma il premier non può spezzare il filo che lega milioni di italiani a una speranza che nasce. La sinistra da immaginare vivrà dentro parole come dignità, diritti umani globali e non nel mito di un futurismo senza visione».
Si sente a casa nel Pd del finanziere Davide Serra?
«Se il Pd diventa quello di chi dice che bisogna mettere dei paletti al diritto di sciopero, il Pd non esiste più. La sinistra è di fronte a una prova decisiva. Ho chiesto a Renzi “che cos’è la Leopolda?” e non mi ha risposto. E se è vero che per intervenire bisognava inviare il testo scritto agli organizzatori, il partito di Togliatti era una avanguardia di liberalismo. A proposito di innovazione...».
Leopolda partito parallelo?
«Con Renzi il Pd rischia di diventare una confederazione e in un modello simile le diverse culture hanno il dovere, non il diritto, di organizzarsi. Il congresso è finito, c’è un’altra storia tutta da scrivere. La sinistra deve porsi questa sfida e io la vivo come un nuovo inizio. Se la Leopolda è una corrente organizzata attorno al premier è evidente che si organizzerà anche un’altra parte, che non è nostalgica del passato, ma che ha un’altra idea di modernità».
L’area di Bersani ci sta?
«Io so che questa è l’esigenza che abbiamo oggi. Io ho cominciato a farlo con SinistraDem, ma la sfida riguarda tutti in un campo aperto».
Per tornare al 25 per cento?
«No, il punto è che dividendo il Paese è Renzi che quel 40% rischia di sciuparlo. Per rimanere lassù c’è bisogno di una sinistra completamente ripensata, che non può liquidare il popolo di San Giovanni come arnese di un passato duro a morire».
L’articolo 18 è la coperta di Linus della sinistra?
«Il nodo è come assumere, non come licenziare. Serve un patto sociale per la crescita e su questo terreno quel popolo è pronto a fare la sua parte. La piazza di sabato parlava anche con le lacrime di chi non ce la fa più. Chi liquida quel mondo morale come un vizio del passato offende il popolo senza il quale il Pd cessa di esistere e nasce un’altra cosa. Io mi batto perché non accada».
Se il Jobs act non cambia, lei vota la fiducia o se ne va?
«Intanto mi batto perché quella delega cambi. La voglio più coraggiosa. Se poi il testo dovesse rimanere quello uscito dal Senato, per me si aprirebbe un problema di coscienza. Così com’è non lo condivido».

Repubblica 27.10.14
Pippo Civati
“Matteo punta al voto Lasciare il partito? Un mese per decidere”
“Più mi spingono ad uscire più mi accanisco a stare dentro. Io il Jobs Act e lo Sblocca Italia così come sono non li voto”
intervista di Tommaso Ciriaco


ROMA Chiaro, quasi brutale: «Decido se andare via dal Pd nelle prossime settimane. Ma la verità è che è già tutto deciso, ha già scelto Renzi... Ci porterà al voto, altrimenti non avrebbe ingaggiato un duello del genere con il suo partito». Pippo Civati, con un piede già fuori dal Pd, entro un mese deciderà il suo destino.
Da Firenze volano ceffoni contro i “reduci” dem..
«Doveva essere la Leopolda della maturità, è stata quella storicamente più a destra, disinvolta e aggressiva. Il premier ha provocato, usando espressioni molto corrive. Un approccio destrorso, in linea forse con la pancia del Paese. L’iPhone e il gettone, ma può trattare così chi non la pensa come lui? Come fosse gente del paleolitico? Comunque ho provato con il mio iPhone, il gettone non entra...».
Renzi è stato chiaro: chi vuole, può andarsene.
«Più mi spingono, più mi accanisco a stare dentro... Battute a parte, è difficile restare perché Renzi stressa sempre di più la situazione. E però per la prima volta esorcizza la paura che l’unità non regga. Perché sa, a sinistra lo spazio è grande...».
Scusi Civati, ma lei quando decide se lasciare il Pd?
«Vedo se è possibile discutere di Sblocca Italia, articolo 18 e legge di stabilità, altrimenti... Insomma, non mi sono candidato al martirio. Per capirci, fiducia o meno io il Jobs act e lo Sblocca Italia, così come sono, non li voto».
Si muoverà assieme al resto della minoranza dem?
«Guardi, è il momento delle scelte. Io l’ho già fatta. Non mi permetto di dare giudizi, però si decidano. Chiedo loro un atteggiamento volitivo. Non possiamo andare in piazza e poi dire “stai sereno, la fiducia te la voto lo stesso”. In Francia trentuno socialisti non l’hanno votata e non sono stati cacciati dal partito».
Ma esiste lo spazio per una forza rilevante alla sinistra di Renzi? Finora non è stato così.
«Senta, anche Rutelli andò nel 2002 al Circo Massimo dalla Cgil, invece sabato... Quella piazza non è più rappresentata. Magari non prenderemo il 41%, ma non è possibile perdere quel patrimonio».


Corriere 27.10.14
Sel, anti renziani e società civile. Tutti i teorici del partito di Landini
Airaudo: c’è una domanda politica. Il leader Fiom: più nego, più la gente non ci crede
di Tommaso Labate


ROMA «Se Landini si candida a fare politica? Lei è il numero 180. Dalla fine della manifestazione di sabato, ho sentito questa domanda 180 volte. E più io nego, più dico che non lo faccio, più la gente non ci crede». Alla fine della frase, Maurizio Landini si abbandona a un sorriso rilassato. Il leader della Fiom ha aspettato che la polvere di Piazza San Giovanni si togliesse dalle suole delle scarpe. Ha atteso anche che Matteo Renzi celebrasse la fine della Leopolda. E, anche se questo non lo dice, è convinto che da oggi si parlerà del «partito di Landini». Di quella forza che — magari sfruttando anche la scissione di un pezzo del Pd, magari no — potrebbe sfidare da sinistra il premier.
Giorgio Airaudo, deputato di Sel dopo una vita nella Fiom, che di Landini può dirsi «un fratello», la mette così: «Precisiamo una cosa. Questo è un momento troppo delicato per i metalmeccanici, che non possono permettersi di perdere una guida come Maurizio». Ma, a precisazione fatta, Airaudo — che è il primo teorico di un partito del «Lula italiano» — ammette che «c’è una “domanda” politica molto consistente che incontra la figura di Landini. La gente s’identifica con lui per la sua credibilità e la sua coerenza. Più che il numero di vittorie ottenute, conta la sua capacità di resistere di fronte a qualsiasi tipo di battaglia».
E dire che Landini, fino a due mesi fa, escludeva persino nei colloqui con gli amici la possibilità di mollare il sindacato per candidarsi. Poi è successo qualcosa che ha cambiato le carte in tavola. Il 27 agosto scorso, dopo il faccia a faccia con Renzi a Palazzo Chigi, il leader Fiom spezza anche all’interno del sindacato qualche lancia in favore del premier. «Vedrete», è la confidenza che fa, «farà delle cose di destra ma anche di sinistra. E soprattutto, mi ha garantito che non toccherà l’articolo 18». La presentazione del Jobs act, e con essa la rappresentazione plastica di quella promessa mancata, forse ha cambiato il corso degli eventi. E Landini, in privato, adesso non escluderebbe nulla.
«Landini farà quello che deciderà lui stesso», scandisce Nicola Fratoianni, numero due di Sel. E «qualsiasi cosa deciderà di fare», aggiunge, «la farà con grande efficacia». Per il coordinatore del partito di Vendola, però, «stavolta un processo politico sarà anticipato da un processo sociale. E questo è un tema da sottoporre subito».
Fratoianni è l’uomo che cura i rapporti con gli anti renziani del Pd, a cominciare da Pippo Civati. Quest’ultimo sostiene che «più Renzi picchia la sinistra, più si apre uno spazio a sinistra. È presto per fare nomi. Certo, Landini è uno dei soggetti più interessati a questo cambiamento». Perché il cambiamento potrebbe essere più rapido del previsto. «Se ci sarà la scissione nel Pd», dice sempre Civati, «non sarà certo colpa mia. E comunque, se Renzi dice di non aver paura della Cgil e della sinistra, si vede che un po’ di paura ce l’ha».
Dal partito di Vendola ai democratici che erano in piazza con la Cgil, passando per quella società civile non grillina che provava a far eleggere Stefano Rodotà al Quirinale. Tutti sicuri che, quando sarà l’ora di sfidare Renzi, toccherà a Landini. L’ora X? «Ribadisco che non c’è una manovra politica», giura Airaudo. Ma quando gli si chiede del timing del battesimo della Nuova Sinistra, il deputato di Sel confida che «non si può fare alle Regionali. Il momento della verità sono sempre le Politiche». Le stesse che Renzi, secondo la sinistra parlamentare extrarenziana, vorrebbe anticipare.
Gli anti renziani del Pd stanno alla finestra. «Se il Pd fa il Pd», sussurra Rosy Bindi, «a sinistra non ci sarà spazio. Ma se il Pd farà il post-Pd come alla Leopolda, lo spazio a sinistra si apre eccome. Quello che farà Landini? Dipende da lui». Poi, a chiunque gli chieda se lei starebbe più in un post-Pd o in un partito di sinistra, l’ex presidente dei Democratici risponde con un sorriso. «Fate i bravi...». Non dice sì, non dice no.

Repubblica 27.10.14
Maurizio Landini
“Non farò il capo della sinistra Il lavoro garantito? Non c’è mai stato”
“Il premier dice che il modello fordista è finito, non sa proprio come si lavora in un call center”
intervista di Umberto Rosso


ROMA «Mi richiama al telefono fisso?».
Segretario, non sa dove mettere il gettone nell’iPhone?
«Mi dispiace per Renzi, ma l’iPhone io lo uso da anni. E pure la macchina fotografica digitale. Mi sa che è lui che ha difficoltà, forse a trovare i gettoni...».
Allora, Landini, non siete così arcaici come dice il premier?
«Qui se c’è qualcosa di vecchio, è la politica del governo. È diventato la spalla della Confindustria».
Per questo alla manifestazione di San Giovanni è “nato” un nuovo partito di sinistra, con lei alla guida?
«Sciocchezze. Chi dice che la nostra è stata una iniziativa politica accampa scuse. Cerca alibi. Per non dar risposte alle precise richieste che una grande, nuova e molto variegata manifestazione ha posto al governo».
E chi lo dice?
«Matteo Renzi nel suo discorso di chiusura alla Leopolda. Se una parte del Pd accorre al nostro corteo, è un problema suo. Se non riesce a tenerli uniti, è una faccenda che riguarda il suo ruolo di segretario».
Il segretario è arrabbiato per i vuoti alla Leopolda?
«È evidente che c’è un Pd in crisi. Se a Firenze mancava una fetta del partito, non può mica scaricare su di noi la responsabilità, accusandoci di un’operazione politica. Noi chiediamo risposte al presidente del Consiglio, non al segretario del Pd».
Però si dice che Landini prepari il gran salto dalla Fiom alla leadership di un nuovo partito, con l’ala dissidente del Pd.
«Ma che c’entra? Ecco, così si tenta di spostare su un altro terreno, di delegittimare le rivendicazioni del corteo di San Giovanni. Abbiamo presentato un programma su tutto: dalla occupazione alla precarietà, alla corruzione, alla rappresentanza sindacale. Ma si vede che non sono più abituati all’autonomia del sindacato dalla politica. E poi io sono e resto il segretario dei metalmeccanici».
Siete scesi in piazza a difendere un posto fisso che non esiste più, è la risposta di Renzi.
«Non si è accorto, ovviamente, che in realtà il posto fisso in Italia non è mai esistito. In qualsiasi momento gli imprenditori hanno sempre potuto licenziare. Il punto, con la difesa dell’articolo 18, è la tutela individuale della dignità dei lavoratori quando senza giustificazione ti mettono alla porta. Non è questione di posto fisso allora, ma di lavoro con diritti o senza diritti. Del resto, Renzi di svarioni ne ha fatti tanti nel suo discorso».
Per esempio?
«Venirci a raccontare che il modello fordista è morto. Ma vada nei call center, dove se in un’ora non rispondi almeno a 12 telefonate, parte il richiamo del capo. Allora, semmai il modello fordista si è allargato, è uscito dalla fabbrica, tracima».
Dalla Leopolda vi accusano anche di difendere solo i garantiti, gli occupati, e lasciare senza tutela i precari.
«Se il lavoro lo creano loro, mi aspetto che da domani tutti i problemi siano risolti a Terni, alla Thyssen, alla Nokia o all’Italtel, per citare solo alcune aziende della lunga lista nera della crisi. Comunque, oggi è convocato il tavolo del governo con i sindacati sulla legge di stabilità, a quanto pare senza Renzi. Vedremo. Se i segnali sono questi che arrivano da Firenze, la vedo brutta».
Che vuol dire?
«Se la ricetta è rendere facili i licenziamenti, abbassare il salario, tagliare le tasse alle imprese, il governo se ne assume la responsabilità. Perché noi andremo avanti. Con lo sciopero generale e con l’occupazione delle fabbriche, se necessario».
Anche col rischio di far cadere il governo?
«Fiducia o non fiducia in Parlamento, se Renzi non rilancia una politica industriale, il paese non lo cambia mica. Il vecchio è lui».

Repubblica 27.10.14
Camusso attacca: non ha argomenti

Oggi l’incontro governo-sindacati

ROMA È in agenda per oggi a Palazzo Chigi un incontro tra il governo, ci saranno i ministri Poletti e Padoan, e i sindacati, per discutere delle misure previste dalla legge di stabilità. «Speriamo che abbiano buone intenzioni di discutere», ha detto ieri Susanna Camusso, il giorno dopo la manifestazione del sindacato in piazza San Giovanni contro il Jobs act all’esame del Parlamento. A Torino per una tavola rotonda al Salone del Gusto, il segretario generale della Cgil ha attaccato l’azione dell’esecutivo: «Mi pare che il governo Renzi abbia bisogno ogni giorno di affermare che i suoi principali ispiratori sono gli imprenditori. E mi sembra evidente - ha insistito Camusso - che il presidente del Consiglio non abbia argomenti per contrastare le cose che abbiamo sostenuto ieri in termini di cambiamenti della delega del lavoro».

La Stampa 27.10.14
Leopolda, tutti sull’arca di Noè verso il “partito Nazione”
Per convinzione, per la ricerca di un posto al sole, per contare. E il Pd attrae gli opposti
di Jacopo Iacoboni


Qualcuno dice elegantemente Big Tent - la grande tenda alla Tony Blair - qualcun altro Arca di Noè, Andrea Romano cita Jovanotti, «sogno una grande chiesa, da Che Guevara a Madre Teresa», Renzi dice «siamo quelli delle porte aperte, non quelli che ti cacciano fuori», comunque sia una circostanza clamorosa al Cibali c’è: un centrosinistra che si espande. Fino al rischio dell’ossimoro.
A produrre un effetto del genere possono concorrere molte motivazioni, più sottili della banale corsa sul carro del vincitore o del bisogno del tepore di un potente, per esempio la volontà di fare battaglie culturali «da dentro», la voglia di incidere, spostare il baricentro di Renzi nei limiti del possibile, o il semplice orrore del naufragio, la paura di sentirsi escluso. Fatto sta che nel partito a vocazione maggioritaria chiamato Leopolda-2014 c’è posto per tutti. Se il leader del Labour aveva, a riflettere sull’evoluzione del concetto di sinistra, Anthony Giddens e Peter Mandelson, qui c’è pur sempre Gennaro Migliore: «Qualcuno pensa che la sinistra sia il ragù della mamma». È domenica, e in effetti l’ora di pranzo si avvicina.
Migliore sta indirettamente rispondendo a Nichi Vendola che gli ha dato del «cortigiano» e vede nella Leopolda «una moglie per il Gattopardo». E così escogita la storia del ragù - citazione di Eduardo De Filippo -, critica a chi si affida solo a rassicuranti certezze. La cosa più bella che ha trovato qui, sostiene, è «la parola benvenuto».
Poi certo, è tutto un altro discorso vedere se ci sia spazio reale per le idee da cui lui proviene. Frasi come «il diritto di sciopero non è un diritto qualunque, è il primo dei diritti», che Migliore pronuncia non senza qualche emozione, fanno registrare uno degli applausi più tiepidi e rituali di tutta la Leopolda di quest’anno. Qualcosa che verrà potentemente travolto dal Renzi de «il posto fisso non esiste più». Altre espressioni sono invece molto in sintonia con la platea, per esempio la proposta di Andrea Romano, anche lui nuovo iscritto al Pd, reduce dall’esperienza di Italiafutura e poi di Scelta civica con Monti, del «partito della nazione»: «Siamo una nazione adulta, che ha contribuito a fondare l’Unione europea, non dobbiamo avere remore a difendere l’interesse nazionale. La nazione siamo noi. Quelli che sono qui e quelli che sono fuori da qui». Il patriottismo non è conservatorismo, diceva Orwell. Il cui vero nome era, appunto, Blair.
Pazienza se un «partito» della Nazione può sembrare contraddizione in termini, il sincretismo di Renzi se ne frega serenamente. Attrae opposti. Sabato il prosaico Davide Serra, ieri il poetico astronauta Luca Parmitano, che ha proiettato in sala la foto dell’Italia scattata dallo spazio, con questo commento: «I confini li abbiamo inventati noi, vedete? Dall’alto non ci sono, i confini sono interiori, sono quelli che dobbiamo superare».
Sicuramente uno come il giovane Matteo Cuscela accede all’Arca perché - come dice dal palco - crede che «la mia generazione è quella che, né più né meno, cambierà il mondo». Ma a pochi metri c’è anche Fabrizio Landi, finanziatore della Fondazione Open, poi nominato nel cda di Finmeccanica, un corpaccione che alle parole del giovine sogghigna scettico, appoggiato a una colonna. 
Renzi, pure in un discorso in cui è andato dritto come un treno sulla Cgil e gli oppositori interni al Pd, ha usato l’aggettivo «affettuoso» per descrivere l’atteggiamento che c’è qui. Il che, unito all’ineffabilità del potere, magnetizza persone diverse, Raffaele Cantone («la corruzione ci ruba il futuro») e lo sceneggiatore di Gomorra Stefano Pises, Patrizio Bertelli di Prada e il capo dell’Agenzia per le entrate Rossella Orlandi che, con qualche conflitto, chiama «Matteo» il premier. Da Madre Teresa a Che Guevara c’è spazio per tutti e un caffè caldo per il sindaco di Roma Ignazio Marino, ormai più renziano di Renzi: «Ha fatto un discorso che è il futuro».

La Stampa 27.1.14
Il nuovo partito comincia qui
di Elisabetta Gualmini


Il messaggio di Matteo Renzi dalla prima Leopolda di governo è, come di consueto, chiaro e netto, senza troppe sfumature. Gli obiettivi polemici, le promesse di cambiamento, il frame comunicativo sono sempre gli stessi, ma ora il progetto si va componendo. Quella che a tanti pareva boria vanagloriosa ha dimostrato d’essere, che piacciano o meno i risultati, effettiva capacità di esercitare la leadership, a livelli che l’Italia non ha conosciuto per decenni.
Nel mirino c’è sempre l’indistinta nebulosa composta da professori-gufi, tecnocrati, politici di lungo corso, dall’establishment, insomma, che ha portato l’Italia al collasso e continua a pontificare, che «rosica», e teme che i «ragazzi della Leopolda» possano riuscire dove loro hanno fallito. Ma, ovviamente, il bersaglio grosso della Leopolda5 è l’altra sinistra. Quella «minoritaria, identitaria e nostalgica», pronta sempre a dire no. Nei confronti della quale ora la sfida è aperta: potete pure protestare, riempire le piazze, fare un partito: sarà bello vedere chi vince; quello che non vi consentiremo è di riprendervi il Pd (applausi scroscianti).
Può dirlo perché ora i pezzi del mosaico si stanno, appunto, mettendo al loro posto. La «narrazione» (parola-mantra alla Leopolda) c’è sempre stata sin dal primo appuntamento, nel 2010 (solo noi che abbiamo oggi trent’anni possiamo guidare il cambiamento, non certo chi di fronte a uno smartphone cerca il foro in cui mettere il gettone), poi è arrivato «il programma» (in larga parte preso in prestito da professori-gufi che ora è meglio nascondere, come Pietro Ichino, principale mentore del contratto a tutele progressive), poi «il partito» (a cui Renzi inizialmente, sottovalutando la «teoria» che legava doppio incarico, primarie e vocazione maggioritaria, non era tanto interessato), subito dopo «il governo», e naturalmente a cucire tutto insieme «il leader». 
In effetti, il Pd di Renzi va oltre le più rosee aspettative dei fondatori. La reinterpretazione renziana della sinistra supera molti steccati, qualsiasi ottusa polarizzazione tra destra e sinistra diventa secondaria rispetto alla realizzazione degli obiettivi. Più che Blair, Matteo è il Clinton che guarda al centro, diffonde ottimismo, promette crescita, e tutele per quelli che non le hanno mai avute. Poletti su questo punto è il suo migliore testimonial. Sfiora la tenerezza quando ammette che la sua testa è stata costruita «in quegli anni lì» e che talvolta lui va più lento, ma è il più efficace nel rivendicare le virtù del Jobs Act. E poi le riforme della macchina istituzionale per far diventare il nostro paese una democrazia normale, capace di funzionare e di rispondere. E infine la sfida all’Europa, che solo un Pd maggioritario può sostenere, attraverso il match continuo con i tifosi dei vincoli e del rigore, e il ripristino della centralità della politica estera, per troppo tempo ancillare agli altri settori. Qui Mogherini docet.
Dalla Leopolda esce infine la rappresentazione del nuovo Pd guidato da Renzi. La racconta Maria Elena Boschi con la sua storia, di una giovane volontaria, un avvocato, diventata ministro a 33 anni, e anzi di più, simbolo del cambiaverso. Come a dire tutto è possibile. 
E poi c’è il leader. Sempre più forte, spietato nella sua determinazione, con la sicurezza smisurata di aver fiutato lo spirito dei tempi e di saperlo cavalcare alla perfezione, per di più solo e incontrastato. Il leader che si definisce a scadenza, ma che intanto si immagina lì fino al 2023. 
Sì, certo, lo «stile Leopolda» può anche lasciare perplessi. Più che un incontro politico sembrava una diretta radiofonica con il richiamo martellante dell’hashtag da twittare (per forza è diventato trending topic ...) e conduttori yé-yé, che parevano pronti a lanciare canzoni su richiesta con dedica alla fidanzata o a sottoporre al pubblico un frizzantissimo quiz (quale è la capitale dell’Azerbaijan? Lei riconosce questo rumore?). 
Già si immaginano i commenti schizzinosi di autorevoli opinionisti, teste che si scuotono, bocche storte, della serie «tutto marketing», «spiccicato a Berlusconi». I difetti ci sono, le incoerenze pure, come la promessa non mantenuta della rivoluzione basata sul merito, sostituita da nomine in gran parte all’insegna di lealtà pre-politiche e prossimità personale. Ma per ora il disegno regge. Eccome se regge.

Il Sole 27.10.14
La Bad Godesberg di Renzi
di Stefano Folli


Alla Leopolda di Firenze abbiamo assistito alla Bad Godesberg di Matteo Renzi. S'intende che non c'era molto in comune con il processo appassionato e persino drammatico di revisione politica e ideologica del 1959.
Un processo che portò la socialdemocrazia tedesca di Willy Brandt a rompere con il marxismo e ad accettare la logica dell'economia capitalista. Stavolta i conti con la storia si sono fatti in forme assai più sbrigative e mediatiche. Ma si capisce. Non solo il marxismo, ma anche un certo modo di intendere la funzione sindacale e partitica sembrano reperti di un passato remoto. Tutto è stato più o meno già scritto e certe intransigenze sembrano volte a difendere la sopravvivenza di un ceto politico piuttosto che a difendere una prospettiva per il domani.
Le polemiche di Rosy Bindi o di Stefano Fassina ormai non alimentano alcun vero dibattito e al leader del 40,8 per cento appaiono solo punture di spillo indisponenti. La Cgil in piazza con i suoi slogan "retro" gli fa gioco: esalta la supposta modernità del messaggio innovativo che entra ogni giorno, con metodo scientifico, nelle case degli italiani.
In ogni caso la Bad Godesberg renziana costituisce un passaggio significativo. Finisce un mondo. Non solo quello in cui la Cgil e la sinistra di derivazione comunista erano titolari dell'unico potere inattaccabile nell'Italia sfilacciata dell'ultimo ventennio: il potere di veto. Finisce anche il Pd così come l'aveva immaginato e costruito Romano Prodi. Un Pd che teneva insieme, magari in modo velleitario, diverse culture politiche e si sforzava di essere la "casa comune" di ex comunisti, cattolici di sinistra, più qualche liberal-democratico e altrettanti socialisti. Gente che non arrivava mai oltre il 25 per cento, dice oggi sprezzante il premier che è anche segretario di un nuovo Pd in rapida trasformazione, già oggi totalmente diverso da quello di uno o due anni fa.
Agli ultimi rappresentanti di quella stagione, agli ex comunisti che di tanto in tanto rialzano la testa con l'idea di contare ancora qualcosa, Renzi fa capire che possono andarsene o restare: l'importante è che non si illudano di poter gestire uno spicchio di potere, seppure minimo. Su questo punto, niente da fare. Il loro elettorato è minoritario, come è minoritaria la Cgil al giorno d'oggi, quando anche i giovani si rendono conto che non è più tempo di posto fisso. Del resto, la manifestazione di Roma era una sfida aperta al premier e non c'è da meravigliarsi che la risposta sia stata altrettanto dura.
Fin qui tutto chiaro e persino prevedibile. Quello che si capisce meno è quanto siano solide le radici del nuovo Pd renziano. Una volta fatta la Bad Godesberg e saldati i conti non con Karl Marx, bensì con la Bindi, l'interrogativo è: bastano le parole d'ordine nuoviste e un discorso spavaldo per sedurre e catturare l'elettorato di centro e di centro-destra, quello a cui esplicitamente Renzi guarda? Forse sì, data l'assoluta assenza di alternative. Ma le incognite della svolta non sono poche. E non riguardano la malinconica sopravvivenza di un piccolo mondo antico, bensì la capacità di governare l'Italia in tempi calamitosi, quando un certo grado di populismo è inevitabile, ma un eccesso di demagogia può essere fatale.

Repubblica 27.10.14
La mano tesa del premier “Di certo non caccio nessuno pure se non votano il jobs act” La sinistra frena sulla scissione
di Goffredo De Marchis


Il presidente del Consiglio dà ormai per scontato lo sciopero generale ma è convinto che la minoranza interna bluffa sull’ipotesi di uscire “Io non sono Grillo e non espello ma va tolto il potere di veto ai frenatori La gente mi dice di andare avanti, di non sottostare ai diktat della Bindi”

FIRENZE «Io sono convinto che sia un bluff. Ma voglio andare a vedere». Con questo spirito Matteo Renzi ha sfidato l’altra sinistra: per verificare se esiste, se sa farsi partito. Nelle mosse della Cgil da tempo il premier vede una deriva politica e non solo sindacale. Come in quelle di Maurizio Landini, l’unico leader che il premier considera possibile per quell’area. E’ il momento di capire se hanno le basi per creare un soggetto alternativo al Pd. La mano di poker che si è giocata in questo week end ha previsto una doppia prova di forza: la piazza di sabato e le parole durissime della Leopolda sui reduci e la nostalgia. I rapporti sono sempre più logorati, nessuno ha più il timore di pronunciare la parola scissione. Ma non è finita fin quando non è finita. E non siamo ancora arrivati al traguardo. Che però è vicino. Il terreno di scontro decisivo è il Jobs Act in discussione alla Camera. Ossia il lavoro, il tema dei temi per capire se la sinistra cambia nel profondo, se si dà un nuovo profilo culturale.
Ai suoi collaboratori il premier ha detto che non vuole cambiare «nemmeno una virgola del Jobs Act a Montecitorio». La piazza e le sue richieste verranno saltate a pie’ pari. «Credo che alla fine lo sciopero generale ci sarà, ma non mi fermo». Perché crede nella riforma e non solo. Esiste un problema di tempi. «Dobbiamo approvarla in fretta. I decreti delegati sono già pronti e il primo gennaio del 2015 scatteranno gli incentivi per le nuove assunzioni a tempo indeterminato. E’ una massa di denaro che non ho nessuna intenzione di tenere ferma, che va messa in circolo nell’economia». La paura di Palazzo Chigi è che le opposizioni interne al Pd e fuori da quel perimetro puntino a guadagnare tempo, a organizzarsi con un po’ di calma e a dimostrare, dati alla mano, che l’azione del governo non porta a risultati concreti, tanto più sull’occupazione. Esattamente l’esito che Renzi vuole evitare a ogni costo. Da qui il desiderio di “vedere” il prima possibile quello che considera un bluff. Il conflitto va risolto subito.
Per questo ha usato tutta la sua forza dialettica dal palco della Leopolda. «Io non sono Grillo», ripete ai fedelissimi. «Io non caccio nessuno e non ho fatto il mio discorso per spingere Fassina e Civati fuori dal Pd. L’ho fatto però perché voglio togliere il potere di veto ai frenatori». Renzi ricorda il periodo in cui lui era in minoranza. «Tanti dei nostri avevano degli strani pensieri. Dicevano: andiamocene. Matteo Richetti per esempio. Io ho sempre tenuto la barra dritta: non andiamo da nessuna parte». Adesso, è il senso, tocca agli altri rispettare le regole dentro il Pd. «Quindi figuriamoci se mando via qualcuno, anche se qualcuno non dovesse votare i provvedimenti alla Camera. Saranno sì e no una decina, non mi pare un problema».
E se la scissione alla fine si realizza? Il premier crede che i dissidenti non sappiano «dove andare». Ma non esclude la possibilità. «Esco dalla Leopolda ancora più convinto che stiamo facendo le scelte giuste per l’Italia — dice ai collaboratori —. La gente mi dice “andate avanti” e chiede dei risultati. Vagli a spiegare che poi in Parlamento ci sono la Bindi e Gotor che impediscono il cambiamento e che dobbiamo fare i conti anche con loro». Le persone normali, è il ragionamento di Renzi, «non di- stinguono il nostro Pd dal Pd che si mette di traverso. Ed è naturale che sia così. Non stanno lì a pensare che in Parlamento il Partito democratico non è quello del 41 per cento ma quello del 25 per cento, datato febbraio 2013». Allora i passaggi chiave per capire se è fattibile un allineamento delle anime democratiche senza strappi, senza un nuovo partito a sinistra che Renzi non teme, sono tre e si deve fare chiarezza entro l’anno: la legge di stabilità, la riforma elettorale e il Jobs Act. Su queste scadenze si gioca il futuro del Pd e probabilmente della legislatura.
Naturalmente, la minoranza scava la trincea. «Non faremo il regalo della scissione a Renzi», afferma Alfredo D’Attorre. Ma Stefano Fassina la evoca chiaramente in un’intervista all’Huffington Post, regalo o non regalo. Si è capito che ieri mattina la rottura ha avuto un’accelerazione, che Renzi sta forzando il momento delle scelte. La piazza San Giovanni dimostra anche che «l’atomo da scindere è piuttosto grosso», dice Pippo Civati in risposta alle polemiche alimentate dalla Serracchiani. Insomma, non mancano le condizioni per decidere se l’Italia può avere due sinistre o una sola.

il Fatto 27.1.14
Moretti, Picierno, Paita, l’infornata del nuovo potere Pd
Donne che non aiutano le donne
Ma queste donne fanno davvero bene alle donne?
di Ferruccio Sansa


Ma queste donne fanno bene alle donne? Finalmente la politica non è più solo cosa da uomini. Nelle aule del potere dovrebbero trovare voce la sensibilità, la ricchezza emotiva e una visione della vita equilibrata, che gli uomini talvolta non hanno.
Eppure viene il timore che le quote rosa si traducano spesso in poltrone rosa. Lasciamo perdere il centrodestra dove la selezione è stata talvolta guidata da manie e patologie dei capi. Leggi le ultime notizie – l’infornata di governatrici o aspiranti tali del Pd – e il dubbio si alimenta. Capocordata è stata Debora Serracchiani; abbandonato il piglio da pasionaria, Serracchiani ha occupato ogni poltrona libera sul suo cammino. A volte due per volta. Era parlamentare europea e ha mollato la carica per diventare governatrice del Friuli. Ora, come se non le bastasse, è anche nella segreteria Pd.
In fondo, c’è di peggio. Che dire di Alessandra Moretti, altra regina dei talk show? Nel 2013 approda alla Camera. Passa un anno e molla tutto per presentarsi alle europee. Ora si vuole candidare a Governatore del Veneto, quasi che i 230.188 voti per Bruxelles fossero carta straccia. Nel frattempo da bersaniana è diventata bandiera di Renzi. W la coerenza.
E Pina Picierno che alcuni nel Pd - forse lei stessa - vorrebbero alle regionali della Campania? Non importa che milioni di italiane abbiano un curriculum più ricco del suo. Che – altro fulgido esempio di coerenza – sia stata definita demitiana, franceschiniana, bersaniana, lettiana prima di ritrovarsi sul carro dei vincitori. Non importa nemmeno che, pure lei, dovrebbe mollare l’impegno assunto a Bruxelles (224.003 voti). Una nuova Casta sostituisce la precedente. Completa la carrellata Raffaella Paita, candidata unica del Pd alle regionali in Liguria. Paita è una politica di professione che non ha praticamente altro curriculum. In compenso vanta titoli che dovrebbero indurre molte cautele: assessore alla Protezione Civile nei giorni dell’alluvione, è scomparsa mentre Genova affondava nel fango. Non solo: è moglie del presidente del Porto di Genova, due poltrone chiave sotto lo stesso tetto. E ancora: a sostenerla si è mosso quel che resta del potere scajoliano, soprattutto legato alla Curia genovese. Il peggio che ha condotto la Liguria allo sfacelo. Ma non importa: Paita va candidata, per volere del Sultano (Burlando).
Sono le donne per prime che si devono indignare perché queste signore non le rappresentano. Non rappresentano le tante manager delle imprese; le madri che, senza poltrone garantite, si dividono tra famiglia e lavoro; le ricercatrici costrette a emigrare; le volontarie che in Africa combattono l’Ebola. È una grave mancanza non avere donne in politica. Ma non è molto meglio avere donne scelte dagli uomini. E con i loro stessi difetti.

il Fatto 27.1.14
Grande scoperta di Renzi: “Il posto fisso non c’è più”
Il premier attacca i dissidenti: “Sono quelli del 25%”.
Azzanna la Cgil “Mai più posto fisso”
Oggi l’incontro con i sindacati
di Wanda Marra


Nel 2014 aggrapparsi ad una norma del 1970 che la sinistra di allora non votò è come prendere un I-phone e dire ‘dove metto il gettone del telefono? ’ O prendere una macchina digitale e metterci il rullino”. La Leopolda stracolma si produce in risate e applausi scroscianti quando Matteo Renzi, sul palco, pronuncia la frase clou. Cravatta da presidente del Consiglio, camicia bianca e jeans da rottamatore, nel suo intervento finale il premier fa un comizio sul lavoro in diretta tv, senza controprogrammazione di piazza, e asfalta in una volta sola Cgil e minoranza. Anzi, sfida la sinistra del partito, la invita alla scissione: “Se le manifestazioni che abbiamo visto in questi giorni sono politiche, io le rispetto e non ho paura che si crei a sinistra qualcosa di diverso. Sarà bello capire se è più di sinistra restare aggrappati alla nostalgia o se è più di sinistra prevedere il futuro, innovare, cambiare. Staremo e vedere, decideranno i cittadini qual è la sinistra capace di vincere”.
Quando Renzi sale sul palco della Leopolda, quello che c’è stato prima, la serata inaugurale con l’invito del premier a lasciarsi alle spalle il “come eravamo”, la giornata di sabato, tra tavoli di rappresentanza e toni soft, sembra solo una preparazione. Prima di lui c’è la passerella dei ministri. La Leopolda di governo va in scena secondo una scaletta preparata nei dettagli. Sale sul palco quel che sarà il partito della nazione: Gennaro Migliore, ex Sel appena iscritto al Pd e Andrea Romano (Sc ancora per poco) che scandisce “La nazione siamo noi”.
POI LA SFILATA. Comincia Franceschini, segue Mogherini. Il ministro del Lavoro Poletti viene qui a chiarire: “Il cuore della riforma che è il contratto a tutele crescenti per noi è il perno”. Prima dell’intervento della Boschi i video trasmettono immagini del premio Nobel per la pace, Malala. Stavolta il giubbotto di pelle ce l’ha Maria Elena, alla quale da copione tocca la mozione degli affetti. Voce che sembra rompersi per l’emozione: “È possibile che un avvocato trentenne diventi ministro”. Chiude Roberta Pinotti.
E poi, arriva lui. Il piglio è quello da premier. “Mi chiamo Matteo e sono il Presidente”, sembra dire, parafrasando un film americano. Declinandolo: sono il Pd, sono il governo, sono la sinistra. Sono l’Italia. Tono altissimo.
Dal palco rivendica il fatto che ci sia un Matteo prima e un Matteo dopo: “Questa è la Leopolda, il luogo è lo stesso ma noi siamo al governo, io, noi, e non è per occupare una sedia, ci tocca cambiare il paese, perché quella bicicletta ce la siamo andati a prendere”. Poi, il leit motiv sulla battaglia europea, ma la guerra stavolta è tutta interna. Se il premier ha lasciato agli avversari ieri qualche prima pagina, a questo punto è deciso a riprendersela con gli interessi. Se qualcunoaveva creduto che i toni bassi potessero preludere a una qualche mediazione, ha sbagliato. Pura tattica. Quando parla del jobs act, si contorce, si piega, gesticola: “Le tutele non possono valere solo per chi lavora in aziende con più di 15 dipendenti, ma per tutti”. E dunque: “Stop a co.co.co e co.co.pro, contratto unico: questa è la sinistra”. E “la maternità è un diritto per tutti”. Il chiarimento: “Noi incentiviamo il contratto a tempo indeterminato”, ma “il posto fisso non c’è più perchè è cambiato il mondo”. Susanna Camusso gli risponde nel tardo pomeriggio: “Il premier non ha argomenti. Se uno pensa che il contratto di lavoro deve essere a tempo indeterminato deve anche avere le rispettive tutele”. Più che un incontro quello di oggi tra governo e sindacati sarà un muro contro muro.
Se con i sindacati è deciso, con il Pd di piazza Renzi è feroce: “Non consentiremo a chi ha detto che la Leopolda è imbarazzante (Bindi, ndr) e a quella classe dirigente che ha portato il Pd al 25% di riprendersi il Pd perché possa riportarlo al 25%. Non consentiremo di fare del Pd il partito dei reduci”. Quasi non si sente, con la sala che si entusiasma. Il tempo di una difesa di Napolitano, chiamando l’applauso (“tante menzogne su di lui”) e un siparietto da presentatore (“Se dico diamo 80 euro sono il Giorgio Mastrota de noantri, se parlo complicato divento un intellettuale organico. Dite come volete: noi facciamo un’operazione di giustizia sociale”). Poi conclude. Il grande show della Leopolda è finito, gli oppositori di certo possono stare sereni.

Repubblica 27.10.14
Renzi archivia i reduci della vecchia sinistra “Il posto fisso non esiste più”
“Gli intellettuali sono come i pensionati che guardano i lavori in un cantiere e dicono: non ce la faranno mai”
Il premier: “Non temo la nascita di un altro partito” E difende Napolitano: “Su di lui solo menzogne”
di Concita De Gregorio


FIRENZE I reduci. Quelli del telefono a gettoni e del rullino nella macchina fotografica. Quelli che in fondo in fondo sperano che tu fallisca perché “se non ce l’abbiamo fatta noi figuriamoci loro”. Quelli che come il pensionato affacciato al cantiere scuotono la testa e dicono questa strada non si farà mai. Quelli che si aggrappano agli striscioni come alla coperta di Linus. La coperta ideologica di un mondo scomparso. Non si combatte il precariato con le manifestazioni né coi convegni, dice Matteo Renzi al milione di piazza San Giovanni e agli “intellettuali” col sopracciglio alzato («non applaudite, chi applaude è intellettuale», risate in platea). Difendete pure i diritti di chi ha il posto fisso, l’articolo 18 sui licenziamenti, «le leggi del 1970 che la sinistra di allora non votò» ma sappiate che il posto fisso non c’è più. È sparito, per chi arriva oggi al mondo, dal mondo. State solo difendendo voi stessi dall’eventualità che qualcun altro che non siete voi voglia e sappia cambiare le regole che tutelano il lavoro e «io non ho paura — grida — che nasca a sinistra qualcosa di diverso». Non ho paura della scissione della sinistra radicale perché «sarà bello sapere se è più di sinistra rimanere aggrappati alla nostalgia o prevedere il futuro». Infine, a Rosi Bindi per tutti: «Potete definire la Leopolda imbarazzante, ma io non consentirò a quella classe dirigente di riprendersi il Pd per riportarlo dal 41 al 25 per cento».
Dunque: i pionieri contro i reduci. I nostalgici contro i visionari costruttori di futuro. Il museo delle cere contro quelli che lo sanno eccome che nell’Iphone non entra il gettone, nella macchina analogica non ci va il rullino. «È finita l’Italia del rullino». Protestate pure, provate a infilarlo nella vostra macchina fotografica, sì, continuate pure a provare. Risate, applausi. Ora sì, potete applaudire.
È un attacco durissimo, quello di Renzi, all’altra sinistra. Quella di lotta che ha manifestato in piazza e per la quale ha proclamato rispetto, sabato, ma che ora in chiusura dei lavori della Leopolda di governo liquida come un retaggio novecentesco e minoritario, un sussulto del passato che non muore incapace di ammettere i suoi errori e guardare il mondo com’è diventato. È tranquillo, Renzi. Della scissione non ha paura perché non ci sarà, dice ai suoi e a Firenze ripetono tutti: finchè non c’è aria di elezioni non ci saranno scissioni e se il Capo dello Stato resiste al suo posto di elezioni non si parla. Da qui il passaggio politico più rilevante di tutto il suo discorso, a dieci minuti dalla fine: la difesa appassionata e la chiamata a sostegno solidale di Napolitano «attaccato da mille menzogne» all’antivigilia della deposizione sulla Trattativa Stato-mafia, in mezzo al guado dello stallo per l’elezione dei giudici della Corte. Un grazie dalla Leopolda al capo dello Stato, che resti dov’è e continui a garantire stabilità e governo.
È questo il giorno, del resto, nel quale sotto la Grande Tenda del Pd che piace a Renzi, «quello dove c’è posto per tutti, se volete venire, noi siamo quelli delle porte aperte. Lo eravamo anche quando volevano cacciare noi», è il giorno in cui arrivano sul palco la destra della sinistra — Andrea Romano, ex Scelta civica — e la sinistra che preferisce «essere minoranza che essere opposizione», quella di Gennaro Migliore e dei suoi undici fuorusciti da Sel che oggi presenteranno una lettera collettiva per entrare, come gruppo, nel Pd. Tutti tranne Claudio Fava, in dissenso con le politiche antimafia del governo. Un neo, questo dell’antimafia, che insidioso si affaccia e riaffiora a livelli altissimi e più popolari, ne parlava sabato qui anche Pif. Migliore difende dal palco il diritto di sciopero, «non uno ma il primo dei diritti perché l’ultimo ad essere esercitato come arma di difesa», e diventa ufficialmente garanzia e compensazione dell’effetto Serra inteso come Davide, il banchiere. Più Cucinelli, l’imprenditore che investe nella dignità del lavoro, meno finanza per quanto effettivamente creativa di profitti. Del resto Landini non farà il leader della sinistra, dicono attorno a Migliore i vecchi ex comunisti che pure ci sono, alla Leo- polda: Landini farà il leader della Cgil e allora chi resta, se perde Matteo, a darci speranza? Chi c’è in Italia, oltre a lui? Chi avanza, a parte — a destra — Salvini?
Questo il quadro, questa la cornice dentro la quale il premier si lancia in un’ora di discorso a braccio che parte dall’Europa, passa dalla Siria e dall’Iraq, attraversa il Mozambico e i grandi laghi, plana su Angela Merkel («la sua ossessione», dice uno dei suoi uomini ridendo) per ricordare che lei, Angela, ha preso 10 milioni e 600 mila voti, «noi 11 e 2».
Va in picchiata sul Jobs act, infine, per attaccare chi difende il posto fisso dicendo che «noi la maternità la vogliamo difendere per tutti, non per chi ha già un posto di lavoro. C’è qualcuno in dissenso?». Ovazione.
È diventato negli anni molto bravo, Renzi, nell’oratoria dal palco. Fa ormai persino il controcanto di se stesso, ogni tanto si ferma come se assistesse al discorso e si giudica, “oh, Matteo come sei invecchiato”, “Oh Matteo come l’hai presa alla larga”. Si commenta in diretta, parla alle ministre in jeans chiamandole per nome come compagne di scuola, passa dall’io al noi al voi per tornare all’io che comprende il voi, «quello che dobbiamo fare davvero, voi ed io, è vincere la nostra paura e ridare speranza e fiducia». Passa dalla Libia alla fila per il bagno, dove ha parlato con tanta gente e capito tante cose, nell’attesa — risate — riprende le parole di Giuliano Poletti che «se c’è una lattina per terra non bisogna domandarsi chi non l’ha spazzata ma chi è quel cretino che ce l’ha buttata». Annuiscono nelle prime file Ignazio Marino, Giorgio Gori, quello che ha tirato su la nave Concordia e quello che studia il vaccino contro Ebola, vecchi e nuovi amici della Leopolda, tanti arrivati ora che serve ma tantissimi che c’erano da prima e lui lo sa, chi sono. Ha la data della carta d’imbarco di tutti. Maria Elena Boschi, che all’inizio qui era solo una volontaria, parla sulla scia e sull’onda del video commoventissimo di Malala premio Nobel per la Pace, dissolvenza ed effetto traino per l’applauso. Gli ultimi arrivati salgano pure, pazienza se con meno effetti speciali, c’è posto anche per loro. Il partito del 51 per cento. Questo annuncia la quinta Leopolda. Il partito a cui non c’è alternativa, guardatevi attorno. Se poi volete ancora una volta distinguervi e fare la sinistra radicale, «che da decenni in questo paese si scinde poi perde e poi fa perdere tutti» accomodatevi, uscite pure. Risate.
Per il momento sono più quelli che arrivano che quelli che escono, dalla vecchia stazione di Firenze travestita da garage. Renzi promette di trovare in Mozambico risorse energetiche fino al 2046 e di governare fino al 2023. Se c’è qualcuno in giro che può promettere di meglio è il suo momento, si faccia avanti. In politica la scelta dei tempi è tutto, o almeno parecchio. Nella lunga lista di quelli che Renzi chiama reduci sono in tanti a saperlo.

Repubblica 17.10.14
Il Ri-partito della nazione
di Ilvo Diamanti


MATTEO Renzi, nella vecchia stazione della Leopolda, è ri-partito. Anche se non si è mai fermato, fino ad oggi.
NON è nel suo stile, nel suo temperamento. Ma ha chiarito meglio a quale “partito” guardi. Il PdR, il Partito di Renzi, è, appunto, un “ripartito”. Un partito in continua ri-definizione, riguardo a obiettivi, parole d’ordine, riferimenti sociali. In continua ri-partenza, verso nuove stazioni. È questo il principale messaggio, il messaggio dei messaggi, lanciato a Firenze. Il “suo” partito guarda avanti. E, per questo, non ha un “popolo” specifico di riferimento. Ma sa “contro” chi muovere. Anche perché i suoi “nemici”, per primi, hanno scelto Renzi, il suo governo e la convention di Firenze come “nemici” contro cui mobilitarsi. I “nemici” di Renzi sono quelli che hanno sfilato a Roma, contro il Jobs act, contro le politiche sul lavoro del governo. “Convocati” dalla Cgil. E, non a caso, “contro” di loro e ciò che rappresentano si è rivolto Matteo Renzi, nel suo intervento conclusivo alla Leopolda. Li ha “etichettati”, politicamente, come nostalgici di un passato che è passato. E ha accostato — per molti versi, assimilato — la manifestazione della Cgil all’iniziativa delle sinistre arcobaleno. Il PdR, invece, guarda altrove. E, per questo, insiste sull’articolo 18. Simbolo del passato. Bandiera del Pd e della sinistra con la quale Renzi intende tagliare i ponti. Perché «è una regola degli anni Settanta che la sinistra allora non aveva nemmeno votato, siamo nel 2014». Così la questione, sollevata da Renzi, è «capire se è più di sinistra restare aggrappati alla nostalgia o provare a cambiare il futuro». Un’alternativa, ovviamente, retorica. Perché, come scandisce Renzi «non permetteremo a nessuno di far tornare il Pd al 25%». Il PdR, per questo, si definisce “in opposizione all’opposizione”. Ai “nemici”, che Renzi continua a scegliere con cura, per precisare la sua differenza. Dagli “altri”. Per intercettare gli elettorati che hanno sempre guardato la sinistra con sospetto. Sul piano politico: i moderati di centro, già assorbiti. Quelli di centrodestra e di destra, in gran parte collaterali. Dal punto di vista sociale: gli imprenditori, grandi e piccoli, i lavoratori autonomi del Nord. Componenti tradizionalmente ostili e anticomuniste. Renzi li ha “convocati” alla convention di Firenze. Raccolti intorno al premier e “contro” coloro che manifestavano a Roma. Un popolo di operai, certamente non giovani, insieme ai pensionati (oltre a molti lavoratori immigrati). Secondo il premier: il passato. E “contro” la Cgil, in quanto sindacato, con cui, come ha già detto altre volte, non intende “concertare”. Si tratta di argomenti e discorsi già sentiti. Renzi li ha espressi, apertamente, altre volte. Ma questa volta li ha raccolti e presentati insieme, alla sua convention, nella sua capitale: Firenze. Ne ha fatto una sorta di manifesto del PdR. Che, tuttavia, solleva alcuni dubbi. Principalmente due.
Il primo riguarda l’identità del partito. Il PdR, o il PdN, il Partito della Nazione, come l’ha battezzato Renzi. Tutto proiettato verso il futuro. Alla novità, all’innovazione. In contrasto con ogni nostalgia e con ogni richiamo al passato. Ebbene, a rischio di condividere i vizi e i vezzi di “un certo ceto intellettuale” (anche se mi offenderei: intellettuale a chi?), mi riesce difficile immaginare la costruzione del futuro senza coltivare il passato. Vanificando i valori e le narrazioni della storia comune e condivisa. Della quale, per il centrosinistra, fa parte il riferimento agli operai e allo stesso sindacato.
In secondo luogo, liquidare la manifestazione della Cgil come una mobilitazione della Sinistra arcobaleno mi pare, a maggior ragione, riduttivo. Fra coloro che hanno sfilato contro il governo e contro Renzi vi sono molti elettori del Pd. E molti elettori del Pd, comunque, ne condividono la protesta. Possiamo tentare, con qualche approssimazione, di stimarne il peso elettorale (base: Oss. Elettorale Demos, ottobre 2014) concentrandoci su coloro che esprimono moltamoltissima fiducia nella Cgil. Fra gli elettori del Pd sono circa il 25%. Cioè, se facciamo riferimento alle elezioni europee di maggio, intorno al 10% del voto. Appare, quindi, azzardato trattare questa componente come fosse esterna ed estranea. E se è vero che gli iscritti al sindacato sono, per la maggior parte, pensionati e lavoratori anziani, è altrettanto vero che proprio questi settori, alle ultime elezioni (politiche ed europee), hanno costituito lo zoccolo duro del voto al Pd.
Per questo conviene rammentare che, se, effettivamente, il Pd, prima di Renzi, si era fermato al 25%, il Pd di Renzi ha superato la soglia del 40% non perché abbia “abolito” il passato, ma perché, al contrario, lo ha incanalato nel suo progetto. Come ho già scritto, Renzi ha sommato i voti del PdR a quelli del vecchio Pd. Il suo post-partito e la “ditta”. In altri termini, ha intercettato i consensi di coloro che hanno votato per Renzi “nonostante” il Pd. Ma anche gli elettori che hanno votato per il Pd “nonostante” Renzi.
Per queste ragioni penso che Renzi debba guardarsi dalla prospettiva segnalata da Mauro Calise: presentarsi come un “antipartito”, raccolto intorno al suo leader. Che stigmatizza il passato e la memoria, in nome del “nuovo” ad ogni costo. Ma rischia, in questo modo, di perdersi nel presente.

Corriere 27.10.14
Le mosse per dividere la Cgil e mettere la sinistra all’angolo
di Maria Teresa Meli


FIRENZE Che fosse così, Matteo Renzi lo ha sempre saputo: «Ho voluto la bicicletta e adesso devo pedalare». Che avrebbe incontrato ostacoli nei «conservatorismi trasversali di tutti i tipi», anche: «C’è chi ha paura di mollare il potere che ha da più di vent’anni e ci farà una guerra senza esclusione di colpi».
Sono i burocrati, «l’aristocrazia dei ceti dominanti», quei «mandarini» che adesso nei ministeri si vedono arrivare gli uomini della nuova squadra del premier a gestire direttamente le pratiche più scottanti, sulla scia di ciò che succede negli Usa con lo staff del presidente, e non hanno più quella libertà incondizionata di cui godevano prima. E non c’è un uomo solo al comando, anche se, come sostiene Renzi, a un certo punto, «è giusto che la squadra mandi avanti il proprio leader a tagliare il traguardo». Ci sono le ministre e i ministri giovani (anche quelli assenti alla Leopolda per cause di forza maggiore, come l’alluvione di Genova, cioè Andrea Orlando) che sono determinati quanto il premier. E i meno giovani lo sono forse anche di più: basti pensare che il discorso più applaudito di ieri (a parte, ovviamente, quello di Renzi) è stato l’intervento di Giuliano Poletti.
Però ci sono anche degli «avversari» che non sembrano far paura premier. Anzi gli fanno gioco. Sono i rappresentanti della minoranza interna che sabato hanno sfilato a Roma. Ecco, loro, per Renzi non rappresentano un problema. Primo perché «non avere nemici a sinistra» o, quanto, meno «concorrenti», non è mai stato il suo assillo. Secondo, perché il premier non crede che Maurizio Landini formerà con quest’area un nuovo partito. E non solo perché Renzi, nonostante sia lontano anni luce dal leader della Fiom, lo considera «una persona seria». E quindi gli crede quando dice, quasi infastidito, che a lui «interessa lavorare nel sindacato» e non «occuparsi di politica». Ma perché ritiene che comunque non imbarcherebbe quella compagnia.
Perciò, per dirla con le parole di un renziano dai modi spicci, «mena come un fabbro contro la vecchia guardia e la minoranza alla Bindi e Fassina». Il succo del suo ragionamento infatti è questo: «Non andranno da nessuna parte». Con sommo dispiacere di chi vorrebbe volentieri fare a meno di loro. Basta sentire che cosa dice Beppe Fioroni, che fa capolino anche lui alla Leopolda: «Penso che Matteo abbia veramente cambiato verso al partito e quindi a questo punto i vari Fassina & company dovrebbero andarsene con la Cgil, scindersi invece di restare qui con noi».
Ma il sogno di Fioroni non si avvererà. Anzi chi ha studiato bene le mosse di Renzi nei confronti della Cgil in questo periodo ha tratto l’idea che il premier abbia scientemente spinto Susanna Camusso all’inseguimento del leader della Fiom per consentire a Landini di portare avanti il suo vero progetto, ossia quello di lanciare un’Opa sulla Cgil. Già, perché infatti, ormai tra Renzi e Camusso sembra quasi una questione personale.
I due si stanno antipatici. Mentre nelle realtà territoriali gli uomini di Renzi collaborano con la Cgil, o, meglio, con lo Spi (il sindacato dei pensionati). La governatrice del Friuli-Venezia Giulia Debora Serracchiani sta scrivendo la riforma sanitaria della Regione insieme allo Spi. E con lo Spi collabora in Piemonte Sergio Chiamparino, a Firenze il sindaco Dario Nardella, in Lombardia Lorenzo Guerini.
E non doveva essere un caso se ieri, nel giorno dell’intervento finale di Renzi, alla Leopolda, in avanscoperta c’erano i portavoce di Landini, Giorgia Fattinnanzi, e della leader dello Spi, Carla Cantone, Lorenzo Rossi Doria.

il Fatto 27.1.14
Saluti da Finmeccanica
Moretti il renzianissimo: “Bene, basta darsi la zappa sui piedi”


IERI IL PRESIDENTE del Consiglio Matteo Renzi, lasciata la Leopolda, è andato a Campi Bisenzio, vicino Firenze, per festeggiare i 150 anni delle Officine Galileo. E poichè le Officine Galileo sono oggi un pezzo di Finmeccanica Selex, oltre al presidente del Consiglio, al sottosegretario Luca Lotti e alle istituzioni locali, a fare gli onori di casa c’era anche il presidente di Finmeccanica Mauro Moretti, ex amministratore delle Ferrovie con un passato anche da dirigente della Cgil Trasporti. Chiesto di un parere sul Jobs Act, Moretti ieri ha detto un paio di cose che non devono essere piaciute molto agli ex compagni confederali. La prima rivolta a Renzi: “Lei lavora molto per rendere il lavoro molto più flessibile e fa bene. Speriamo che la sua iniziativa di semplificare gli ostacoli faccia sì che le imprese abbiano parità di condizioni rispetto alle altre imprese europee”. La seconda è una risposta relativa ai “piagnoni” (copyright di Matteo Renzi), ed è la seguente: “La mia posizione è anche più radicale: c’è gente che ha addirittura piacere che l’Italia vada male. È come darsi la zappa sui piedi - ha aggiunto - dobbiamo invece usare la zappa per dissodare il terreno e metterci delle buone semente per produrre cose nuove e non sempre guardare indietro”. Ai dirigenti della Cgil saranno fischiate le orecchie.

La Stampa 27.10.14
De Rita: il Jobs Act va nella giusta direzione
“Persino il pubblico impiego ormai ha paura del futuro. La pensione? Un’incognita”
intervista di Giacomo Galeazzi

qui

Corriere 27.10.14
Migliore, la sinistra e il ragù della mamma: «C’è chi pensa che sia l’unico»
L'ex di Sel spiega la sua scelta di passare con Renzi

il video qui

La Stampa 27.10.14
Rinnovamento please
di David Allegranti

Una giovane donna si avvicina in zone proibite della Leopolda. Viene fermata subito dal servizio d’ordine. «Lei da qui non può passare senza il pass stampa». «Ma io faccio parte del governo!». Infatti, era il ministro Marianna Madia, scambiata per una giovane reporter. Madia, poi, parlando con i giornalisti muniti di tesserino, si è ritirata in un ministeriale riserbo: «Le vostre domande non sono di rinnovamento».

La Stampa 27.10.14
Niente microfono al sindacalista

Alla fine non l’hanno fatto parlare, Daniele Calosi, il segretario della Fiom di Firenze. Motivo? Si è rifiutato di mandare il testo scritto anzitempo all’organizzazione della Leopolda. A fine convention, il sindacalista e Matteo Renzi si sono trovati a Campi Bisenzio, dove il premier è andato per i 150 anni delle Officine Galileo. Renzi lo ha abbracciato e, rivolto ai fotografi, ha detto: «Fate una foto adesso, così gli rovinate la carriera». [D. A.]

Repubblica 27.10.14
Governo e sindacato battano un colpo
di Tito Boeri


HA RAGIONE Renzi a sostenere che non saranno le grandi manifestazioni, ma gli atti concreti, a sconfiggere il precariato. Per questo, bene che il suo governo vada al di là degli slogan.
EDICA cosa vuol fare concretamente con la legge delega su cui è orientato a chiedere la fiducia anche alla Camera. Paradossalmente sia i volantini della Cgil per la manifestazione di sabato che molti interventi alla Leopolda hanno perorato la causa del contratto a tutele crescenti che dovrebbe rappresentare l’asse portante delle politiche di stabilizzazione del precariato.
Ma, a quanto pare, tra Roma e Firenze si sono scontrate due concezioni molto diverse di questo contratto e di queste tutele crescenti. Bene che gli italiani e non solo gli iscritti al Pd siano messi al corrente dei termini della tenzone e possano valutare cosa vuol fare il governo e cosa propone il sindacato maggioritario a riguardo. Fondamentale fare in fretta in questa opera di “sdoganamento” perché il tempo a disposizione è davvero molto poco: il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti dovrà vedere la luce entro Natale per beneficiare dei potenti sgravi contributivi previsti dalla legge di Stabilità. Se non godrà di questi sgravi rischia di non decollare affatto perché verrà spiazzato dai contratti a tempo determinato, quelli che il decreto Poletti varato ai primi atti del governo Renzi, ha reso una specie di periodo di prova di tre anni. Al tempo stesso, gli effetti della manovra sull’occupazione rischiano di venire fortemente ridimensionati da una mancata approvazione entro fine anno del Jobs Act. I datori di lavoro aspetteranno di sapere quanto avviene ai contratti di lavoro, prima di procedere a nuove assunzioni. Presumibilmente stanno già agendo in questo modo e avremo un calo delle assunzioni a novembre e dicembre e un picco a inizio anno, ma solo a Jobs Act approvato.
Le sorti della legge di Stabilità e del cosiddetto Jobs Act sono perciò strettamente intrecciate, per certi aspetti indissolubili. Eppure la discussione parlamentare dei due provvedimenti procederà su binari separati, in diversi rami del Parlamento (il Jobs Act andrà alla Camera, la legge di Stabilità andrà prima alla Camera e poi al Senato) e in commissioni distinte (Bilancio e Lavoro). Fondamentale invece che il confronto parlamentare sui due provvedimenti proceda in modo coordinato alla luce dei chiarimenti che il governo deve dare circa le sue effettive intenzioni sul Jobs Act. Paradossale se la Camera fosse chiamata a votare a occhi chiusi un testo ultragenerico quando in realtà il governo avrà già predisposto un decreto attuativo con misure molto specifiche sulla materia più spinosa, quella che riguarda i costi dei licenziamenti dai contratti a tempo indeterminato.
Il coordinamento nell’iter parlamentare dei due provvedimenti è necessario non solo per una questione di metodo. Il fatto è che, alla luce della legge di Stabilità, c’è un rischio non piccolo di rendere il nuovo contratto a tempo indeterminato una nuova forma di lavoro precario, anziché una misura di stabilizzazione dei rapporti di lavoro. Infatti la manovra introduce sgravi contributivi molto forti, tali da ridurre di circa un terzo il costo del lavoro per l’impresa. Questi sgravi, a differenza del contratto che li sorregge, non sono a tempo indeterminato, ma scadono tutto d’un colpo, tre anni dopo l’avvio del contratto. Il Jobs Act, invece, dovrebbe permettere alle imprese di licenziare un lavoratore pagando una somma stabilita per legge e gradualmente crescente nell’anzianità aziendale, senza discontinuità. Se il modo con cui questa tutela monetaria cresce all’aumentare dell’anzianità aziendale dovesse essere inferiore agli sgravi contributivi, c’è un rischio non indifferente di alimentare un carosello di lavori temporanei sui contratti a tempo indeterminato. Prendiamo il caso di un lavoratore assunto col nuovo contratto a tempo indeterminato e supponiamo che le tutele che il governo è intenzionato a introdurre comportino un mese di indennità all’anno in caso di licenziamento, oppure due giorni e mezzo per ogni mese passato in azienda con quel contratto. Al termine dei primi sei mesi, il datore di lavoro potrà licenziare il dipendente pagando 15 giorni di retribuzione e assumere un altro lavoratore che costa due mesi di retribuzione in meno di chi se ne è andato (essendo che il conteggio dei tre anni parte 6 mesi più tardi). In altre parole, se i costi crescenti dei licenziamenti dovessero essere di molto inferiori a un terzo della retribuzione sin lì ricevuta dal dipendente, il rischio di queste sostituzioni non è da escludere, soprattutto in mansioni che hanno un forte grado di stagionalità. È perciò fondamentale affrontare i due provvedimenti in modo coordinato, magari rendendo gradualmente decrescente la decontribuzione oppure rafforzando il modo con cui le indennità monetarie crescono al passare del tempo oppure ancora imponendo il requisito dell’addizionalità, vale a dire che l’azienda che utilizza gli sgravi debba aumentare l’occupazione anziché sostituire chi era già assunto. Quel che è certo è che questi intricati dettagli (ci scusino i lettori!) non sono materie da piazze e da convegni. Ma sono maledettamente importanti. Speriamo che tra chi ci governa e chi rappresenta i lavoratori prevalga perciò il senso di responsabilità e la voglia di confrontarsi su questioni molto concrete. Il tempo per le adunate dei sostenitori è scaduto questo fine settimana.

il Fatto 27.1.14
Ubriacature elettorali
Lega o Pd, chi brinda con la Moretti?
di Francesco Chiamulera


Io amo la mia terra, come Flavio”, ha detto ammiccando, ospite su La7 di una trasmissione cui partecipava anche il leghista Tosi. “Il Pd dovrà vincere la battaglia delle regionali”, ha proseguito, “perché finalmente il Veneto è diventato contendibile”. Dove in quel “finalmente contendibile” c’è tutto il progetto - e l’ambizione - di Alessandra Moretti, probabile futura candidata del Partito Democratico alle Regionali 2015 nella terra ora governata da Luca Zaia. Ma, oltre all’avanzata personale e politica di Moretti - eletta alle Europee con 230.188 preferenze, la prima nel Nord-Est e la quarta in Italia - c’è nei democratici la speranza, mai sopita, di un intero partito: che una terra tradizionalmente moderata e conservatrice come il Nordest abbia cambiato pelle, o persino ossatura. È davvero così? Quella stessa campagna “bianca” e cattolica che fece intitolare ironicamente a Luigi Meneghello (vicentino di Malo) il suo capolavoro “Libera nos a Malo” ha subito una mutazione?
La prima ubriacatura democratica è venuta nel 2008. A Vicenza, città sacrestia d’Italia per eccellenza, dove ancora negli anni Settanta comunisti e socialisti non arrivavano insieme al 20%, viene eletto un sindaco di centrosinistra, Achille Variati. Sono i tempi in cui l’imprenditore Massimo Calearo è cooptato nella nouvelle vague veltroniana, e poi Giuseppe Bortolussi, storico leader antitasse, è candidato alla presidenza del Veneto per il Pd. “La sinistra deve cominciare a parlare alle partite Iva del Nord” è il mantra democratico che si innesca allora. Nel 2013, poi, mentre Debora Serracchiani diventa governatrice del Friuli Venezia Giulia, cade l’altro bastione psicologico: a Treviso, dopo vent’anni di amministrazioni leghiste (Gentilini e poi Gobbo), è eletto sindaco un esponente del centrosinistra, Giovanni Manildo. Infine, la sbornia è completa nel giugno 2014. Elezioni Europee: un rotondo 38 per cento persino nella terra che solo quattro anni fa regalava il 60 all’alleanza Lega Nord-PdL.
INTANTO VA IN ONDA il film di Alessandra Moretti. Vicentina, nel 2008 entra in consiglio comunale a Vicenza proprio con Variati, ricevendo 192 preferenze. Diventa vicesindaco. Poi il sostegno a Bersani - del quale è portavoce - alle primarie del Pd; nel 2013 è parlamentare Pd, sempre con i bersaniani. Alle Europee 2014 è candidata in quota Renzi, che nel frattempo è diventato segretario. Matteo la sceglie come capolista per la circoscrizione Nordest. In Europa, come si diceva, fa il pieno di preferenze. D’altra parte, Moretti non è sola. È la celebratissima carica delle donne renziane, non solo in Veneto: Picierno, Mosca, Bonafè, Chinnici. Ma anche Madia, Boschi, Mogherini. Così, alla tradizionale dialettica regionale PdL/Lega Nord - molto “maschile” nel senso che i leader erano quasi tutti uomini - si è sostituita, in quest’ultimo anno, anche nel Nordest, una nuova consorteria democratica in rosa. Verrebbe quasi da dire un gineceo, se non fosse che il termine si colora di sgradevoli tinte maschiliste. Da Simonetta Rubinato, deputata e già sindaco di Roncade (Treviso) e principale contendente alla nomination democratica, a Laura Puppato, senatrice ed ex sindaco di Montebelluna (poche decine di chilometri da Roncade), a Rosanna Filippin, ex segretaria regionale del Pd. Di stretta (e mai rinnegata) osservanza bersaniana, quest’ultima, interpellata sulla possibilità che Moretti fosse la candidata del Pd alle Regionali, ha dichiarato: “perché no? Alessandra è brava e bella. Ci aiuterà a vincere”. Ma oltre alle previsioni elettorali, il Veneto ha cambiato davvero pelle? E’ diventato terra progressista, liberal e antileghista come vorrebbe il nuovo credo?
NELLE SOLIDE CONVINZIONI PD, si insinuano dubbi larghi come il Canal Grande. E’ vero, c’è l’esempio sopra ricordato di Treviso e di Vicenza. Ma in Veneto le città sono sempre state più di sinistra delle province (come ha ricordato Mario Isnenghi). E poi, soprattutto, sia Variati che Manildo, i due nuovi sindaci, non sono di centrosinistra, ma di fatto esponenti democristiani. La Balena bianca insomma è ancora in piedi. E Manildo, accolto nel 2013 al suono di “Bella Ciao” cantato in piazza dei Signori dai ragazzi della sinistra trevigiana - la stessa piazza del film di Pietro Germi - sta già faticando parecchio, dopo l’iniziale suggestione di rinnovamento: i trevigiani non hanno mai smesso di amare Gentilini, il centrosinistra secondo alcuni sarebbe come l’amante della scappatella una tantum, che ci si fa per noia, per celia, ma resta, appunto, una scappatella. E il blocco di potere gentiliniano starebbe resistendo acerrimamente. La Lega, intanto, proprio mentre il Pd andava forte alle Europee, ha appena vinto la simbolica piazza di Padova, dove (se si eccettua una breve parentesi “azzurra” tra il 1999 e il 2004) la sinistra governava da vent’anni. E l’altra “cittadella” progressista del Veneto, l’area che fa capo a Venezia e al polo di Mestre-Marghera, è stata travolta da due ondate: la prima è la vittoria dei Cinque Stelle a Mira e in altri centri nel 2013; la seconda, che più che un’onda è stato uno tsunami, è la vicenda giudiziaria che ha visto implicato il sindaco Giorgio Orsoni, accusato nell’ambito dell’inchiesta Mose di avere accettato finanziamenti illeciti a sostegno della sua campagna elettorale. Restando nel veneziano, si fa avanti un’ipotesi che fa paura a Moretti e company: e se scendesse in campo Felice Casson, il magistrato democratico che ha indagato su Gladio, amianto e inquinamento industriale, “scoprendo” a sinistra il Pd?
SOPRA A TUTTI I TURBAMENTI, le eccitazioni e le retromarce del centrosinistra restano, granitiche, le certezze della Lega Nord. Ovvero quei sondaggi che, pur nel calo di consensi per il partito, segnalano come immutata la popolarità personale di Luca Zaia: uno dei governatori di regione più amati in Italia, a prescindere da come la si pensi. Tornando a Pietro Germi, non è un caso se proprio in Veneto e in Sicilia sono ambientati alcuni dei film di maggiore successo del grande regista (“Signore & Signori”, “Sedotta e abbandonata”, “Divorzio all’italiana”). Perché se c’è una cosa che accomuna queste due terre così distanti e diverse l’una dall’altra è forse proprio l’attitudine, dietro alla commedia, alla farsa e alla moina, dietro alle mezze illusioni, all’ipocrisia e a un po’ di fanfara, a che tutto, come nei suoi film, torni circolarmente e beffardamente come prima.

Corriere 27.10.14
TRattativa con la mafia
Meglio l’udienza pubblica
di Marzio Breda


Arrivati a questo punto — e a nostro avviso non bisognava proprio arrivarci, se non altro per le pesantissime ricadute che era inevitabile ne scaturissero — conviene davvero che l’udienza di domani al Quirinale escluda la stampa? Soprattutto, conviene alla massima istituzione del Paese? Chi rischia di ricevere maggior danno dalla blindatura che è stata decisa? Certo, se si sta a quanto prevede il codice di procedura penale (articoli 502 e 147, ultimo comma), in casi speciali come questo le riprese e le trasmissioni dei dibattimenti a porte chiuse «non possono essere autorizzate».
Un ostacolo giuridico che sarebbe però bene superare. Stavolta, infatti, davanti a un evento come la trasferta romana dei giudici di Palermo per raccogliere la testimonianza del presidente della Repubblica su un capitolo (peraltro assai marginale) della presunta trattativa tra pezzi dello Stato e la mafia, garantire l’esercizio «dal vivo» del diritto di cronaca sarebbe, oltre che sacrosanto, opportuno. Anche per Giorgio Napolitano. Il quale, dopo aver fornito ai magistrati per iscritto un anno fa ogni spiegazione su ciò che ora si vuole ripeta, da mesi punta l’indice contro le interpretazioni strumentali, le illazioni fuorvianti, gli inquinamenti della realtà suggeriti da una campagna culminata nella morte per infarto del suo consigliere, Loris D’Ambrosio, e in una sfida tra poteri. Una sfida che aveva costretto il capo dello Stato a sollevare un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale, dalla quale ha avuto ragione.
Una sfida che è proseguita con la provocatoria pretesa, per fortuna poi lasciata cadere, di far addirittura «entrare» in videoconferenza nello studio del presidente i boss Riina e Bagarella. E che adesso, con la salita sul Colle di una Corte d’assise impegnata su un’ipotesi processuale così devastante, segna l’ultimo passaggio di una prova di forza senza precedenti. Potenzialmente in grado di lesionare il prestigio e l’autorevolezza del supremo organo costituzionale.
Si sa che, a cose fatte, la deposizione del capo dello Stato sarà resa disponibile per intero, con verbali e registrazioni Dvd cui i cronisti potranno accedere. Ma, visto che al Quirinale si è sempre recriminato, e con buoni motivi, sui pericoli di una spettacolarizzazione del processo (il che potrebbe da domani tradursi in letture manipolate e virali del senso di un sospiro, di una risposta a voce incrinata, di un silenzio), perché non lasciar «parlare le parole», insieme alle immagini? Perché non consentire ai cittadini di seguire l’udienza in diretta, alla tv o su Internet, e di confrontarla con i resoconti e gli approfondimenti dei quotidiani, in maniera che si formino una libera opinione? Non sarebbe il modo per togliere alibi a certi professionisti di una controinformazione a caccia di scandali, a costo di inventarli piegando la verità senza riguardo per nessuno, e che da giorni strepitano su una censura preventiva, studiata per oscurare chissà quali patti e complicità? E su questo piano, basta pensare che la testimonianza del presidente è stata accostata perfino al caso Clinton-Lewinsky.
Lo ripetiamo: nonostante le «porte chiuse», non ci sarà alcun segreto sulla deposizione di Napolitano. Ma chi ha esperienza del mondo e della politica sa che il quarto potere, quando gioca sul vittimismo, può trasformarsi in un contropotere pronto a deragliare perfino dalle regole base della deontologia.

La Stampa 27.10.14
Caso Ilaria Alpi: i rapporti dello 007 sbianchettati a Roma dal Sismi
Dagli atti resi pubblici emergono i depistaggi dei Servizi sull’omicidio della giornalista
di Francesco Grignetti


Mogadiscio, Somalia, 23 marzo 1994. Vent’anni fa. Tre giorni prima erano stati uccisi a sangue freddo la giornalista Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin. Un’esecuzione in piena regola. Quel 23 marzo, da Mogadiscio, un agente del Sismi scriveva, tra le altre cose: «Appare evidente la volontà di Unosom (il comando Onu retto dall’ammiraglio statunitense Jonathan Howe, ndr) di minimizzare sulle reali cause che avrebbero portato all’uccisione della giornalista italiana e del suo operatore». Il documento, scritto a mano, pieno di cancellature, emerge dal mazzo di nuove desecretazioni appena disposte dal governo e reperibili sul sito della Camera e si porta dietro una scia di interrogativi irrisolti. Il principale: perché il Sismi, a Roma, si affrettò a sbianchettare i rapporti del suo agente in Somalia? «È quanto ci domandiamo anche noi da tempo», commenta l’avvocato Domenico D’Amati, legale della famiglia Alpi. Ed è dolente la voce della mamma di Ilaria, la signora Luciana, che in questi giorni sta esaminando anche lei, chiusa in casa, i documenti appena resi pubblici: «Dopo vent’anni, ormai sono pessimista e mi pare di avere buone ragioni per esserlo. È troppo tempo che grido che ci sono stati depistaggi, né vedo grandi novità da queste desecretazioni. È una vergogna che per buona metà siano pagine bianche. I segreti restano segreti». 
Ma torniamo a Mogadiscio. Nei giorni in cui fu uccisa la Alpi, il contingente italiano era quasi andato via dalla città. Con gli ultimi soldati, si imbarcò anche la cellula degli agenti segreti che li aveva assistiti nella missione. Restava indietro, con base all’ambasciata, un ultimo 007. Nome in codice, «signor Alfredo». Ebbene, il signor Alfredo tutte le sere, via fax, inoltra il suo rapporto a Roma. Qui, allo stato maggiore del Sismi, lo mettono in bella e lo battono a macchina. E puntualmente scompaiono i riferimenti all’omicidio. Anche le seguenti parole furono sbianchettate. «Unosom sta orientando le indagini sulla tesi (inizialmente il signor Alfredo aveva scritto: “Sta continuando a battere la pista”) della tentata rapina e della casualità dell’episodio». 
Una cosa sola, a Mogadiscio, fu invece chiarissima da subito: era stata una brutale esecuzione e bene organizzata. Il signor Alfredo annotava che, al contrario, il comando dei Caschi Blu faceva finta di non capire. Per concludere: «Non trascurando, tuttavia, particolari che (in una prima versione era: “Trascurando chiari particolari che”) indicherebbero il contrario». 
Cosa accadeva lungo le linee gerarchiche della Difesa? «Anche da Roma è giunto a Scalas (l’ufficiale dell’Esercito che aveva il compito di tenere i rapporti con i giornalisti, ndr) esplicito divieto di trattare l’argomento e di avanzare ipotesi sui probabili mandanti, ricordando che tale compito spetta soltanto a Unosom al termine degli accertamenti del caso». 
Tutte queste parole giunte a Roma da Mogadiscio non sono mai finite nei rapporti del Sismi. Perché? Il pm che indagava sull’omicidio, Franco Ionta, ha provato invano a capire quale linea di comando decise di sbianchettare i rapporti del signor Alfredo. C’è agli atti un’inutile lunga corrispondenza tra la procura e il Sismi. Il classico muro di gomma. Insiste ora l’avvocato D’Amati: «L’agente operativo che era rimasto a Mogadiscio fece coscienziosamente il suo dovere. Ma i suoi rapporti finirono nel cassetto. Da me interrogato al processo, uno dei capi del Sismi sostenne che il servizio segreto non si occupa di un omicidio. Figurarsi, se non si occupano del delitto di una giornalista della Rai a cui si vuole chiudere la bocca, di che cosa si devono occupare?». Gli fa eco la presidente della associazione Ilaria Alpi, l’ex onorevole Mariangela Gritta Grainer: «Sappiamo di altre sbianchettature. Il giorno dopo l’omicidio, il “signor Alfredo” scriveva: da fonte attendibile risulta che a Bosaso la giornalista è stata minacciata di morte. Frase puntualmente omessa».

Corriere 27.10.14
Il concorso al contrario per professori
Vale meno chi viene da Harvard o Yale
di Gian Antonio Stella


Anche l’ultimissimo «World University Ranking» del Times Higher education vede nelle prime 200 addirittura 74 università statunitensi, 29 britanniche, 12 tedesche, 11 olandesi, 8 canadesi, 8 australiane, 7 svizzere, 7 francesi, 5 giapponesi, 4 turche (quattro!) e una sola italiana. Cioè la Normale di Pisa che si piazza al 63º posto e, nella classifica pro capite, tenendo conto del numero degli studenti, starebbe molto più in alto. Seguono, nella seconda fascia, l’ateneo di Trieste e la Bicocca di Milano: nelle prime 250, a dispetto di tutte le vanità sulla «patria della cultura», non abbiamo altro.
Domanda: allora come mai, se le università italiane sono così scarse, i nostri ragazzi appena mettono il naso al di là della frontiera fanno spessissimo un figurone in tutto il mondo? Risposta: perché evidentemente, nonostante tutti i difetti, tutti i concorsi truccati, tutte le Parentopoli, nelle nostre aule si insegna e si impara meglio di quanto si pensi. Il problema della reputazione, però, resta. Ed è pesante: come possiamo rassegnarci ad avere tra le prime 400 università d’Europa solo 17 italiane?
Fatto sta che, non contentandosi di contestare la sacralità di queste classifiche, l’Università del Salento ha deciso di andare oltre. E di valutare di più i curriculum «caserecci» che non quelli di profilo internazionale. Lo dice il bando di selezione «per la copertura di 16 posti di professore universitario di ruolo di 2ª fascia» firmato dal rettore Vincenzo Zara.
Già il documento, va detto, è un capolavoro del delirio burocratese in cui affoga l’Italia: prima di arrivare al nocciolo, la delibera vera e propria, elenca infatti 42 «visto» e «vista» (da «vista la legge 23 agosto 1988 n.370 - esenzione dell’imposta di bollo…» a «vista la legge 9 maggio 1989 n.168-istituzione del ministero dell’Università…») più due «considerato» e un «ritenuto» per un totale di 189 righe di logorrea «codicillica». Il seguito, però, è perfino peggio.
Già alla prima delle cattedre messe in palio, infatti, quella di Archeologia, il massimo riconosciuto per l’«attività di docenza svolte in Italia» è di 20 punti, quello per le «attività di docenza e attività di ricerca all’estero» compresi gli «incarichi o fellowship ufficiali presso atenei e centri di ricerca esteri di alta qualificazione» e la «partecipazione a convegni internazionali in qualità di relatore», solo di 4. Cinque volte di meno.
Col risultato, ad esempio, che se un fuoriclasse celebre nel mondo come Andrew Stewart, specializzato in «Ancient Mediterranean Art and Archaeology», volesse prendersi lo sfizio di lasciare l’Università di Berkeley per venire a Lecce (ammesso che fosse accettato nonostante il passaporto straniero) avrebbe per la sua esperienza didattica 4 punti rispetto ai 20 riconosciuti a un ipotetico professor Tizio Caio che abbia insegnato in un’università telematica di Rocca Cannuccia. Assurdo. Tanto più di questi tempi, coi docenti delle «telematiche» che paiono (ma ci torneremo) moltiplicarsi miracolosamente.
E se può essere spacciato come una scelta sensata lo squilibrio (16 punti agli «italiani», cinque agli «stranieri») per la cattedra di letteratura italiana contemporanea, anche se ci sono fior di stranieri che la conoscono meglio di tanti italiani, appare folle la sproporzione, ad esempio, per la cattedra di Econometria (20 punti a 10), di «Meccanica applicata alle macchine» (30 punti a 10), di Botanica (20 punti a 5) o di «Misure elettriche ed elettroniche» dove lo squilibrio è ancora quintuplo: 10 punti ai «casalinghi», 2 agli eventuali acquisti dall’estero. Un terzo del punteggio che l’aspirante professore potrebbe guadagnare dimostrando di sapere l’inglese! E non è tutto. Un ricercatore ha generalmente un punteggio uguale a quello del capo-ricerca e in alcune discipline perfino più alto. Peggio: a «Progettazione industriale» chi ha avuto la «responsabilità scientifica di progetti di ricerca, nazionali e internazionali ammessi al finanziamento sulla base di bandi competitivi» ottiene un punto. Chi ha solo partecipato ne ottiene nove! Che razza di criterio è?
Per carità: evviva l’Italia ed evviva gli italiani! Ma se all’estero vanno a cercarli apposta gli stranieri (compresi moltissimi dei nostri, soprattutto giovani) per dotare il proprio ateneo di una classe accademica più variegata e internazionale e multiculturale possibile, perché mai noi dobbiamo fare il contrario? A Flavia Amabile che ne ha scritto nel blog de La Stampa , il direttore del dipartimento di fisica leccese ha spiegato che era importante «avere personale docente con esperienza didattica in Italia che possa da subito svolgere al meglio i corsi e, eventualmente, ricoprire cariche accademiche» (testuale!) e che c’era da «valorizzare i ricercatori (italiani e non) che in questi anni di blocco dei concorsi hanno consentito il normale svolgimento delle attività didattiche». Per carità, sarà anche vero… Ma all’estero come la vedranno, questa faccenda? Ci farà guadagnare o perdere altri punti nelle classifiche?

il Fatto 27.1.14
Qui Chongqing
La “Gotham” cinese: 33 milioni di abitanti
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Pechino Oltre 33 milioni di abitanti, presumibilmente l’area urbana più popolosa dell’intero pianeta. All’intersezione del fiume più lungo dell’Asia, il Fiume Azzurro, e di un suo affluente, il Jialing, la città si estende su un terreno così caratterizzato da dislivelli che lo storico americano John King Fairbank la definì, già nel 1942, “il più sfortunato habitat umano”. È Chongqing, la Gotham City d’oriente. Umidità, nebbia e smog. Quando arriviamo intravediamo appena una foresta di gru e di orribili grattacieli. Eppure doveva essere una città bellissima, soprattutto la zona centrale. Intricati vicoli, saliscendi e scorciatoie nascoste a gradini diseguali. Ma su quel che rimane della vecchia città è stato scritto il carattere chai: abbattere.
Cibo ovunque e un brulichio di umanità che a Pechino non esiste quasi più: lucidascarpe, venditori ambulanti, ramazza foglie, operai, raccoglitori e raccoglitrici di carta, vetro, plastica. E soprattutto di quel che resta degli isolati distrutti: ferro, mattoni integri, sanitari. E ovunque i bangbang, l’esercito dei portatori: un corto bastone di bambù sulla spalla con due enormi pesi legati alle estremità. Una densità incredibile di palazzoni orribili e grattacieli nuovi fiammanti. Si dice che quando ti affacci alla finestra a Chongqing, non vedi che altre finestre. Coltre di smog permettendo, verrebbe da aggiungere.
Un brulichio di umanità
“Chongqing è stata scelta 17 anni fa come motore della crescita dell’interno del paese, una città in cui provare a ridurre il divario tra campagne e città” ci spiega il console Sergio Maffettone che a inizio 2014 ha aperto qui il consolato italiano. Nel 1997, per cercare di gestire la massa di umanità che si sarebbe spostata in città a seguito delle evacuazioni forzate per permettere la costruzione della diga delle Tre Gole, a Chongqing è stato assegnato lo status di municipalità, ovvero una città direttamente controllata dal governo centrale. È il sogno di ogni metropoli cinese: miliardi di yuan che piovono per lo sviluppo urbanistico. Da allora la pianta della città viene ristampata ogni tre mesi e addirittura, nel 2012, il governo ha cominciato a trasformare il distretto di Liangjiang in un’area che aspira ad essere una Zona economica speciale: tasse, investimenti, politiche commerciali e territoriali specifiche.
Esistono già un porto franco e una sperimentazione che non hanno paragoni in tutta la Repubblica popolare. Dieci chilometri quadrati, unici nel loro genere. Si tratta della prima Zona cloud speciale. Un immenso centro dati fisicamente isolato dalla rete internet domestica e quindi non soggetto alla censura del cosiddetto “Grande Firewall”. Collegato con fibre ottiche direttamente alla rete internet internazionale, è un'isola dove si può scaricare qualunque programma o accedere a qualsiasi informazione semplicemente facendo una ricerca sul browser. Come in qualsiasi altra parte del globo. Per questo già dagli inizi del 2013 ha attirato 4,8 miliardi di euro di investimenti di aziende cinesi e non che operano nel settore. E la pianificazione cinese non si ferma a questo. Chongqing aspira ad essere un grande snodo dei trasporti. È già il più grande porto fluviale della Cina e ora, che una linea ferroviaria la collega con Duisburg nel cuore dell’Europa, aspira a diventare l’hub delle infrastrutture della Cina interna.
Chongqing è “in piccolo” la summa delle contraddizioni del paese. Nella sua inimmaginabile crescita urbanistica ha inglobato 23 milioni di contadini delle aree rurali, la maggior parte dei quali ora lavora in città e consuma. Non solo. È stata il teatro del più grosso scandalo politico che la storia della Repubblica popolare ricordi dai tempi di Mao. L’affaire Bo Xilai o, come l’avevano giustamente etichettato i media, il Chongqing Drama. Un principino carismatico e populista fatto fuori nella corsa al potere dell’attuale presidente, Xi Jinping. Fino al 2012 la città di cui Bo Xilai era segretario di partito era il “modello Chongqing” ovvero la via del ritorno al socialismo per risolvere le contraddizioni sociali che la corsa della Cina verso il progresso aveva innescato.
Il “modello Chongqing” era quello che proclamava di voler dividere la torta fra tutti, quello degli alloggi popolari e delle politiche sociali, quello che spediva gli sms con le citazioni del libretto rosso e mandava dagli altoparlanti delle piazze le canzonette del periodo maoista. Nel 2011 vantava un tasso di crescita del 16,4 per cento e un disavanzo di oltre 10 miliardi di euro. Era la città che per prima aveva lavorato su una vera e propria riforma degli hukou - il sistema che vincola la popolazione cinese al proprio luogo d’origine distinguendo i diritti destinati alla cittadinanza rurale da quelli destinati a quella urbana – che avrebbe permesso di scambiare i diritti sulla terra degli hukou rurali in cambio del welfare garantito dagli hukou urbani. Politiche che di fatto hanno incoraggiato chi viveva in campagna a trasferirsi in città. E di cui almeno dieci milioni di “nuovi cittadini” hanno già beneficiato.
Ma era anche la città delle mafie. Bo Xilai aveva fondato il suo consenso politico proprio sulla lotta alla criminalità organizzata. Anche in questo campo numeri da record: 9mila indagati e quasi 5mila arresti in dieci mesi. Una vicenda che aveva appassionato l’intera Cina, ma che troppo spesso aveva superato i limiti della legalità: confessioni estorte a mezzo tortura, avvocati difensori minacciati e, si è scoperto solo dopo, avversari politici di Bo Xilai gettati nel mucchio dei colpevoli. È una vicenda che, ad anni di distanza, ancora pesa sulla narrazione della città. Ogni tanto le notizie di cronaca riportano di alcuni dei poliziotti che all’epoca avevano condotto le indagini che oggi si scoprono collegati alla criminalità organizzata o morti in circostanze misteriose.
Il paradiso delle multinazionali
Non sono mai state rese pubbliche le informazioni sull'ammontare dei beni confiscati, su quelli restituiti, su quante persone sono state condannate e su quali basi processuali. Quello che sembra evidente è che l'efferata lotta alla mafia portata avanti dall'amministrazione Bo Xilai è servita a consolidare il potere di chi già lo deteneva e ad oliare i rapporti tra il mondo politico e quello degli affari. Inoltre, quando le cose si mettono male, le mafie sono il capo espiatorio perfetto. E infatti il sindaco Huang Qifan - nonostante i quasi due anni d scandali che hanno dilaniato la città fin quando l'ex Segretario generale Bo Xilai non è stato condannato all'ergastolo – è stato riconfermato nella sua posizione.
Così Chongqing continua ad essere il punto cardine del progetto governativo per salvare la Cina dalla trappola del reddito medio, ovvero portare benessere, industrie e urbanizzazione nelle ancora poco sviluppate regioni occidentali. Così aziende e multinazionali si sono continuate a trasferire qui. Gli ultimi dati sono quelli del 2013. Un pil di quasi 15 miliardi di euro, una crescita del 12,3 per cento, 4,6 punti percentuali superiore alla media nazionale. Crescono i consumi (+40 per cento negli ultimi due anni), gli investimenti e gli export. È questa la ricetta cinese per il cuore della Cina. Una sorta di città-Stato che occupa una superficie più o meno pari a quella dell’Austria, che grazie anche alla pianificazione cinese e agli investimenti cinesi e stranieri, sta diventando una delle realtà più dinamiche di tutta l’Asia. Peccato solo che gli intrecci tra mafie, politica e mondo del business non siano stati sciolti. Ma solo nascosti sotto al tappeto della crescita economica.

il Fatto 27.1.14
La pianificazione
Cina e cemento: più megalopoli per tutti
L’obiettivo è avere 900 milioni di residenti urbani entro il 2005
di C. A. G.


Urbanizzazione. Il cavallo di battaglia del premier Li Keqiang. Più megalopoli, metropoli e città. E tanta, tanta gente che lascia villaggi e campagne. Più consumatori e meno contadini, più terziario e meno produzione. È questo l’ambizioso obiettivo che si pone l’attuale leadership: 900 milioni di residenti urbani entro il 2025, 250 milioni in più rispetto a oggi. Se i calcoli del governo sono giusti, il mercato interno della Cina guiderà i consumi mondiali. Ma le case per i consumatori del futuro le hanno già cominciate a costruire da qualche anno. Un dato ormai noto: nel biennio 2011-2012 la Cina ha prodotto più cemento di quanto abbiano fatto gli Stati Uniti in tutto il Ventesimo secolo.
CENTRI STORICI DISTRUTTI e ricostruiti, periferie metropolitane sempre più vaste e, soprattutto, piccoli centri urbani trasformati in città. Sì, perché sempre nel 2011 c’è stato un interessante cambio di tendenza. Per la prima volta sono stati più i lavoratori migranti che hanno trovato lavoro nelle principali città della loro regione che non quelli costretti ad andare molto lontano, nelle metropoli o nelle città costiere. Per le terre lontane dai centri nevralgici della nazione significa poter muovere denaro e occupazione. E le autorità locali, che devono raggiungere gli obiettivi che il governo centrale gli impone senza per questo ricevere aiuti economici, non si sono lasciate sfuggire l’occasione.
Così lo sviluppo immobiliare è stata una delle soluzioni preferite dai governi locali per fronteggiare il debito. Questi ultimi fanno cassa vendendo terreni ai cosiddetti sviluppatori immobiliari e poi appalti e indotto (e spesso mazzette) spingono i pil delle regioni che amministrano verso gli obiettivi stabiliti dalla lontana Pechino.
C’è un altro problema che i governi locali hanno brillantemente risolto. Dal 1996 al 2013, 150 milioni di acri di terra sono stati inghiottiti per sempre dalle città. Si tratta dell’8 per cento dei terreni coltivabili. Il governo oggi ha limitato drasticamente la percentuale di terre edificabili e la quantità di terreni a uso agricolo è vincolato da Pechino. Così si è cominciato a concentrare i cittadini in verticale. Un modo per far spazio ai palazzinari che costruiscono più abitazioni del necessario. Complessi residenziali e di lusso che aumentano notevolmente il valore del lotto di terra originario. Il risultato sono le innumerevoli “città fantasma”, conglomerati urbani di recente costruzione nati in previsione della massa di popolazione che si dovrebbe trasferire in città. Molte di queste realtà non si sono mai riempite, e più passa il tempo e meno probabilità hanno di esserlo. Costruzioni tirate su in fretta e spesso con materiali scadenti che non hanno alcuna possibilità di durare nel tempo. Soprattutto se sfitte.
LA PIÙ FAMOSA CITTÀ fantasma è quella di Ordos, nella Mongolia interna. È ancora lì dal 2010, pronta ad ospitare oltre un milione di persone. Ma quattro anni dopo sono abitati appena il 2 per cento degli edifici e sulla sua architettura futuristica tutta vetro e acciaio ormai si è posata la povere del deserto che circonda la città. Oggi il problema è ancora più evidente. Già sono in molti a dubitare che la Repubblica popolare raggiunga l’obiettivo che si era prefissato della crescita al 7,5 per cento. E anche il mercato immobiliare sta implodendo. Nelle cosiddette città di terza fascia, ovvero quelle che dovrebbero ospitare il nuovo ceto medio, quelle su cui si punta di più, l’invenduto delle recenti costruzioni sfiora il 15 per cento e si prevede che salirà al 20 nel biennio 2015-2016. Anche se non ci sono dati precisi, diversi analisti del settore hanno notato che molti di quelli che si erano trasferiti in queste new town sono tornati dei villaggi d'origine. Se le città rimangono deserte gli affari non vanno e il terziario non decolla.
Il mercato immobiliare cinese di oggi ha troppa offerta, è troppo caro e, sicuramente, è stato sovrastimato. L'Ufficio di statistica nazionale a luglio ha stimato che i prezzi delle case sono calati in 64 città sulle 70 esaminate. Sono i peggiori dati dal 2005, quando si è cominciato a registrare l'andamento del mercato immobiliare. La Cina del 2014 ha bisogno sopratutto di alloggi popolari ma, poiché la sua terra è stata dato in pasto ai palazzinari, negli ultimi anni ne sono stati costruiti troppo pochi. Dalle campagne continueranno a trasferirsi in città. Ma se i consumi non decollano nelle provincie più lontane dalla capitale, molti dei complessi residenziali costruiti rimarranno città fantasma. Con buona pace dei palazzinari.

il Fatto 27.1.14
L’arte di costruire
Il senso di Jinping per Koolhaas
di Valentin Blum


Il peso di una figura pubblica si misura dal consenso che si raccoglie intorno a questa ma talvolta anche dalla caratura dagli avversari che le si contrappongano, soprattutto quando la ricerca della polemica ne caratterizza l’azione. Il fatto che Xi Jinping, il presidente della Cina, abbia esplicitamente menzionato la sede della televisione cinese a Pechino, progettata da Rem Koolhaas/Oma, come un esempio dell’architettura eccentrica e dalle forme strane che si augura non sia più costruita in futuro, è la definitiva consacrazione della statura culturale di Koolhaas. Due settimane addietro questa rubrica era dedicata alla borsa di Shenzhen degli stessi progettisti, che curiosamente sembra anticipare le parole del presidente con una forma piuttosto sobria e controllata. Nel sistema rigidamente verticista della Cina, le conseguenze saranno immediate: a ogni cambio politico dei vertici sono sempre seguite azioni coerenti. Nel caso di Jinping la lotta alla corruzione, già significa per l’Europa un crollo titanico dell’esportazione dei prodotti di lusso e adesso un richiamo a una maggiore modestia e semplicità in architettura modificherà le strategie dell’industria della costruzione. Una conseguenza di questa posizione sarà una riduzione nell’uso di studi stranieri, scelti come firme di prestigio, e invece un’attenzione ai progettisti locali, che dimostrano già di possedere le qualità per immaginare le città cinesi del futuro. Ironicamente il discorso di Jinping è stato rilanciato con notevole enfasi dal giornale di Stato, la cui sede sembra un gigantesco pene in erezione.

il Fatto 27.1.14
5000 anni di storia
Ogni uomo sogna la prosperità
15 novembre 2012, discorso di insediamento alla guida del partito comunista cinese
di Xi Jinping


Il desiderio del popolo per una vita buona e bella è l’obiettivo per cui dobbiamo prosperare. Noi abbiamo appena eletto gli organi del nostro partito. Noi dobbiamo essere all’altezza della grande missione che ci è stata assegnata. La grande fiducia che viene nutrita nei nostri confronti e le grandi aspettative del popolo non sono soltanto un formidabile incoraggiamento a fare bene, ma anche un fardello molto pesante sulle nostre spalle. Questa grande responsabilità è la responsabilità verso la nostra nazione. Che è una grande nazione. Durante la sua storia di oltre cinquemila anni, la nazione cinese ha dato un incancellabile contributo alla civilizzazione e all’avanzamento del genere umano.
Nei tempi moderni, la nostra nazione ha sperimentato ostacoli e difficoltà. Ha vissuto momenti molto pericolosi. Da allora un numero infinito di persone con ideali indistruttibili ha cercato di realizzare una grande rinascita del popolo cinese, resistendo e combattendo, ma molti hanno fallito. Dalla fondazione del Partito Comunista, abbiamo unito e condotto un popolo perché avanzasse e combattesse tenacemente. Perché trasformasse la povera la Vecchia Cina in una Nuova Cina, che diventi prospera e sempre più forte.
La grande rinascita della nazione cinese ha aperta prospettive brillanti che non avremmo mai immaginato.
La nostra responsabilità è raccogliere e guidare tutto il partito e il popolo di tutte le etnie a trovare un nuovo modo di pensare, insistendo con le riforme. La nostra responsabilità è di unire e condurre il popolo perché si mostri sempre più fermo e potente tra tutte le nazioni. Dobbiamo dare un contributo sempre più grande allo sviluppo del mondo.

Repubblica 27.10.14
La vendetta di Pechino contro le star pro-Occupy
Sponsor in fuga e fine dei contratti: così la Cina oscura i “vip” schierati con gli studenti di Hong Kong
di Giampaolo Visetti


PECHINO LA CINA spegne le stelle che hanno scelto di brillare sopra gli studenti che da un mese lottano per la democrazia a Hong Kong. Attori, musicisti, registi e scrittori schierati con la “Rivoluzione degli ombrelli” si sono visti cancellare spettacoli e conferenze, stracciare contratti, o sono stati banditi da teatri, televisione e librerie. Intimiditi anche sponsor e aziende, costretti a interrompere senza spiegazioni ricche campagne pubblicitarie. La repressione del partito comunista si è spinta fino a compilare una “lista nera delle star”, diffusa ad agenti dello spettacolo e produttori, con l’indicazione di troncare ogni rapporto «con chi sputa nel piatto dove mangia e offende la patria che lo ha allevato».
Per ritrovarsi al bando non è stato necessario essere attivisti nelle manifestazioni che chiedono per Hong Kong un vero voto a suffragio universale nel 2017. Si è rivelato sufficiente essere fotografati nei quartieri occupati dell’ex colonia, o aver postato sui social network messaggi di sostegno ai teenager democratici. Nell’elenco di proscrizione di Pechino sono finiti tra gli altri la cantante pop Denise Ho, autrice dell’inno Alzate gli ombrelli , il musicista Anthony Wong, o altre celebrità di Taiwan, come Chow Yun-Fat, Tony Leung e la regista Shu Key.
La sera in cui Denise Ho ha cantato per la prima volta il suo inno alla democrazia, in piazza Tamar nel quartiere di Admiralty, oltre centomila ragazzi hanno alzato al cielo i loro cellulari accesi. Il video, subito censurato, è stato visto sul web anche nel resto della Cina e le autorità hanno tuonato contro «chi si arricchisce sulla pelle della nazione». Dal giorno successivo Denise Ho si è trovata disoccupata: fine dei contratti con la casa discografica, stop al live tour, in fuga gli sponsor. «Il potere vuole tapparci la bocca — ha denunciato Anthony Wong — perché ha paura di opinioni diverse e teme che i giovani imparino a pensare con la propria testa».
Artisti che fino a un attimo prima di dichiarare il loro sostegno al movimento “Occupy Central” erano tempestati di chiamate da ogni regione della Cina, non ricevono più una telefonata da settimane e rischiano la carriera. Aziende e produttori temono che ignorare la lista di Stato delle “pecore nere” possa costare l’accusa di “sovversione politica”, punita con l’ergastolo.
Un incidente diplomatico è scoppiato dopo che il sassofonista Usa Kenny G ha postato sul suo profilo un’immagine che lo ritrae sorridente con i ragazzi di Hong Kong. Pechino ha protestato formalmente con Washington, intimando agli Stati Uniti di «stare alla larga da questioni interne» e ripetendo l’accusa contro «i Paesi stranieri che alimentano le proteste di Hong Kong per frenare l’ascesa globale della Cina». Kenny G, imputato di «voler distruggere» il principio “un Paese due sistemi” che dal 1987 regola i rapporti tra Pechino e Hong Kong, è stato costretto a cancellare le foto e a smentire il sostegno alla causa democratica. Altri cantanti e attori sono stati emarginati dai popolarissimi show della Cctv con la motivazione di «essere sleali verso la patria», mentre il poeta Lin Xi e lo scrittore Giddens Ko hanno visto sparire i loro libri dagli scaffali.
La caccia del regime contro gli artisti schierati con i manifestanti dell’ex Victoria, è stata scatenata dopo che il presidente Xi Jinping ha invitato i personaggi pubblici a «diffondere solo i valori contemporanei cinesi». Il clima di terrore minaccia ora anche gli studenti di Hong Kong. Ieri e oggi avrebbero dovuto votare al referendum indetto per decidere come proseguire le proteste, scegliendo tra le linea dura e il compromesso con le autorità. Il movimento però si è spaccato, abolita la consultazione. Lapidario il commento dei media governativi: «La democrazia non funziona nemmeno per chi la sogna».

La Stampa 27.10.14
Dilma per un soffio. L’erede di Lula resiste alla rimonta
I risultati definitivi confermano la presidente in carica Ma il rivale di centrodestra Neves la insidia da vicino
di Emiliano Guanella


Per poco più di tre milioni di voti, su un totale di cento milioni, Dilma Rousseff viene rieletta presidente del Brasile superando il candidato di centrodestra Aecio Neves. Una vittoria difficile e non affatto scontata la sua, in quelle che sono state senz’ombra di dubbio le elezioni più combattute e incerte dal ritorno della democrazia. Cruciale lo stato natale di Neves, Minas Gerais, che gli ha voltato le spalle e ha votato, con una differenza di 4 punti, l’attuale Presidente. Il Brasile appare ancora una volta spaccato in due, il sud industriale a centrodestra, il nord schierato a sinistra. 
Dilma si afferma con il 51,56% dei voti dopo una campagna elettorale avvincente, scossa agli inizi di agosto dalla morte di Eduardo Campos, attraversata dall’ascesa e dal tonfo dell’ambientalista Marina Silva, che si è conclusa poi con la riproposizione del classico duello fra la sinistra del Partito dei Lavoratori e il centrodestra del Partito socialdemocratico.
Al primo turno Dilma Rousseff si era concentrata soprattutto nel fermare la crescita della Silva, ex compagna di partito e ministra del primo governo Lula, capace di agglutinare intorno a sé le simpatie di ex militanti delusi della sinistra, di parte dei correligionari evangelici e di molti giovani. Sgonfiato il fenomeno Marina, quei consensi sono migrati in parte su Aecio Neves che ha avuto il merito di resistere in una corsa che a un certo punto pareva perduta, puntando soprattutto sulla voglia di cambiamento dopo 12 anni di governo dello stesso partito. È riuscito ad ottenere l’appoggio della Silva e ha scatenato una campagna aggressiva contro la sua avversaria, fiancheggiato dalla stampa da sempre schierata contro il governo. 
La parola d’ordine è stata la corruzione con le rivelazioni di Paulo Roberto Costa, ex direttore della compagnia petrolifera statale Petrobras, che ha rivelato uno schema di mazzette che finivano direttamente nelle casse del Partito dei Lavoratori. Alla vigilia del ballottaggio il settimanale «Veija» ha pubblicato le rivelazioni di un altro pentito, il faccendiere Alberto Youssef, secondo il quale la Rousseff e lo stesso Lula erano al corrente di un maxi giro di riciclaggio di denaro per 3 miliardi di euro proveniente anche dalla Petrobras. Ultime scintille di una guerra che non è bastata a far crollare Dilma. 
La rielezione di Rousseff è l’ennesimo trionfo di Lula. Nel 2010 l’ex Presidente era riuscito a consegnarle parte dell’enorme popolarità che aveva al termine del suo mandato, ora si è impegnato per recuperare terreno negli Stati più difficili e l’ha poi preparata per gli ultimi dibattiti. Anche se con un’oratoria decisamente peggiore rispetto al suo avversario, Dilma è riuscita a trasmettere l’immagine della «continuità sicura» superando la prova più difficile da quando la sinistra brasiliana è al potere. 
Lo scenario che si apre ora per il suo nuovo mandato non è, comunque, incoraggiante. I trend economici non sono positivi come in passato: se da un lato il Brasile vanta ancora oggi uno dei tassi di disoccupazione più bassi fra le grandi potenze mondiali (7%) pesa la crescita rallentata e soprattutto la mancanza di grandi investimenti esteri, dovuti alla crisi mondiale, ma anche all’eccessivo protezionismo e l’alto costo operativo locale. La politica interventista decisa nel 2009, con uno Stato molto presente per stimolare il consumo interno e la forza lavoro con le politiche di aiuti sociali alle famiglie con basso reddito e i sussidi per le imprese nazionali, deve essere rivista. 
Difficile anche il quadro politico. Il Partito dei Lavoratori ha perso molti seggi e dipenderà ancora di più dagli alleati di centro, che chiederanno ancora più rappresentatività in un governo che oggi conta la bellezza di 39 ministeri. Dopo le grandi proteste di piazza del 2013 Dilma aveva promesso una riforma politica che dovrebbe portare ad uno sbarramento del 5% per entrare in Parlamento e a una legge per il finanziamento pubblico dei partiti, per mettere fine all’influenza delle grandi compagnie private nella politica. Promesse difficili da mantenere se non si arriverà ad accordi con l’opposizione che esce da queste elezioni rafforzata. Passata la festa per la sofferta vittoria ottenuta, la sinistra brasiliana dovrà, ancora una volta, reinventarsi e c’è già chi chiama in causa Lula come salvatore della patria fra 4 anni, quando Dilma non potrà più candidarsi.

Corriere 27.10.14
Sorpresa a Tunisi: la rivoluzione ha voglia di votare
Code ai seggi nel Paese della transizione riuscita
I laici: «Noi avanti». Il silenzio degli islamici
di Francesco Battistini


TUNISI Lost in transition? La Tunisia, no. La rivoluzione non russa, anzi è bella sveglia, e quattro anni dopo Ben Ali la prima delle primavere arabe vota senza spari.
Code come nessuno s’immaginava, affluenza al 60 per cento, simile a quella del 2011. La paura del terrorismo, la disillusione per la crisi, la delusione della rivoluzione incompiuta non la spuntano.
Nella notte i laici di Nida Tunis, partito nato solo due anni fa per contrastare gl’islamici di Ennahda, già festeggiano coi clacson il tramonto della mezzaluna e gli exit poll non ufficiali che addirittura li danno dieci punti avanti. Niente di più scivoloso: «Bisogna aspettare i dati del governo», avvertono cauti i cugini tunisini dei Fratelli musulmani, che quattro anni fa sbancarono col 41%. Vero. Anche perché il sorpasso è possibile, ma un vincitore politico non è detto che esca subito.
E dall’estero denunciano già molte irregolarità: in Italia, dove si eleggono tre deputati, il 75 per cento dei tunisini non ha potuto votare perché misteriosamente cancellato o spostato dalle liste elettorali.
La democrazia c’è, il resto è da fare. A una campagna elettorale moscia, è seguito comunque un voto di svolta. Gli ex di Ben Ali tornati a parlare. I salafiti e i socialisti. Le quote rosa garantite dalla nuova Costituzione e la prima candidata col velo totale, che non può fare dichiarazioni e non mostra il volto, pur chiedendo il voto. I ragazzini, ormai cresciuti, che quattro anni fa fecero la Rivoluzione dei Gelsomini.
«O l’Europa o la Libia», dice un volantino distribuito sull’Avenue Bourghiba dall’Unione patriottica del Berlusconi locale, Slim Rihai, milionario presidente di calcio del Club Africain, fautore di liberismo selvaggio. C’è una terza via possibile, fra l’aggancio all’Occidente e il caos? «I prossimi cinque anni saranno decisivi — risponde Rihai, possibile ago della bilancia di future coalizioni —, dobbiamo decidere se rilanciare la nostra economia attraverso sacrifici, oppure cadere nella trappola delle tradizioni e dell’Islam radicale».
La sfida è nel «mondo che ci guarda», avverte il tecnocratico premier Mehdi Jomaa, infilando la scheda nell’urna. Non bisogna ancora scegliere fra tagliatori di spese o tagliatori di teste, perché la Tunisia riceve copiosi aiuti dall’Europa e ha già respinto la sharia e ogni islamizzazione forzata, ma certo questi risultati ci diranno dove si va.
Per legge, tocca al partito vincitore indicare il premier, anche se una complicata macchina elettorale rimanda i giochi al voto di fine novembre per il presidente della Repubblica. S’è già battuto il record mondiale dei pretendenti: 75.
La parola chiave è: consenso. La usano tutti e la grande coalizione sarebbe pronta, sempre che le urne non siano un terremoto politico. «Una cosa è chiara — dice Lina Ben Mehnni, blogger che fece la Primavera —: sulla Tunisia non possono decidere gli stranieri». Ennahda s’ispira all’islamismo turco, s’affida ai pr di Londra, prende soldi dal Qatar. Nida Tunis sogna un modello francese ed è finanziato dagli Emirati. «Questo voto è una pietra miliare della democrazia — dice Obama —, avanti così e vi sosterremo». Quando s’è presentato ai seggi per osservare il voto, però, l’ambasciatore americano Walles s’è trovato la gente a contestarlo: «Vattene! — gli hanno gridato — Questa non è l’America! E neppure il Qatar!».

Repubblica 27.10.14
Ghannouchi: “Il voto in Tunisia è cruciale, in gioco c’è la democrazia”
intervista di Giampaolo Cadalanu


TUNISI . Lunghe file ai seggi elettorali, affluenza pari al 60 per cento: ieri i tunisini sono andati alle urne per eleggere i 217 deputati del Parlamento, per la prima volta con la nuova Costituzione. A novembre si sceglierà un nuovo capo dello Stato. Rachid Ghannouchi è il presidente di Ennahda, l’unico partito islamista che abbia restituito il potere ottenuto col voto in nome della transizione alla democrazia.
Il mondo vede le elezioni tunisine come un test sull’Islam moderato. Che cosa c’è in ballo?
«Per noi ci sono due obiettivi fondamentali: il primo è che le elezioni riescano, che tutti ne accettino il risultato. E poi che il partito si affermi. Ma la riuscita del voto vale più del nostro successo».
Quali coalizioni vede possibili?
«Se pure ottenessimo il 51 per cento, non vorremmo governare da soli. Puntiamo a un governo che includa più forze possibile. Anche quando potevamo governare da soli abbiamo condiviso il potere per non spaccare il Paese. Abbiamo sacrificato la vittoria per la Tunisia, e la gente lo sa. E non dimentica quel che è successo in Egitto, in Libia, in Siria».
Qual è il bilancio degli anni di governo di Ennahda?
«Non c’è male. Ma c’è ancora molto da fare: realizzare i diritti sociali, combattere la disoccupazione e il sottosviluppo. Bisogna consolidare la democrazia, e allo stesso tempo proteggere lo Stato. Se viene demolito, c’è il rischio di tornare alla dittatura, come negli altri paesi della Primavera araba».
Ennahda vuole una Tunisia che sia un ponte verso l’Europa, o preferisce guardare solo ai Paesi islamici?
«L’ottanta per cento della popolazione abita sulla costa, ha l’Italia di fronte, certe notti dalla spiaggia di Kelibia se ne vedono le luci. La nostra geografia ci condanna a essere un partner dell’Europa, la storia invece sottolinea la nostra appartenenza al mondo arabo e all’Africa. La Tunisia è un ponte fra questi e l’Europa».
Può diventare un modello di Islam contrapposto a quello dei jihadisti dello Stato islamico?
«L’Islam è uno, la rivelazione è quella del Profeta. E c’è un solo Corano. Ma non c’è una Chiesa centrale che spieghi le parole di Dio. Ogni musulmano apre il suo libro e ha il suo rapporto con Dio, di cui si assume la responsabilità. Come Ennahda crediamo che Islam e democrazia possano andare assieme, crediamo nell’uguaglianza fra esseri umani, fra uomini e donne. C’è chi non ci crede, e considera la democrazia un peccato. La nostra ideologia è un ponte fra storia e realtà, fra cielo e terra».
Come valuta le partenze di tanti giovani tunisini per combattere in Siria? Li si può fermare?
«Sono semi piantati dalle dittature: Ben Ali, Gheddafi, Mubarak, Al Maliki. L’Islam represso sotto il peso del dispotismo esplode. Per evitare le partenze verso le file dell’Is bisogna aprire il sistema, dare opportunità di lavoro, libertà di organizzazione. La legge si occuperà di chi rifiuta i meccanismi democratici. Però tortura, terrore, regime di polizia nutrono il terrorismo. E certe situazioni lo producono, vedi l’occupazione israeliana della Palestina. Fa male l’approvazione dei Paesi democratici a Israele, come il sostegno ai dittatori. L’accoglienza di Obama all’egiziano Sisi è un brutto messaggio per il mondo arabo. In Egitto chi è stato eletto è in carcere, mentre il golpista viene accolto in America. Il terrorismo comincia da qui».

La Stampa 27.10.14
Anche l’Uruguay al voto

Mujica vota e poi va a piantare le zucche

«Se il tempo me lo permette, ora vado a piantare le zucche», così il Presidente uscente dell’Uruguay Pepe Mujica, dopo aver votato per le elezioni generali che porteranno al ballottaggio del 30 novembre il Partido Nacional (centrodestra) e il Frente Amplio (sinistra).

Repubblica 27.10.14
Israele, la svolta del presidente fiori per la strage dei palestinesi


GERUSALEMME Con un gesto senza precedenti nella storia del suo Paese, ieri il capo dello Stato israeliano Reuven Rivlin ha chinato la testa e deposto una corona di fiori a Kafr Qassem sulla lapide che ricorda i 49 palestinesi (uomini, donne e bambini) uccisi da un reparto della Guardia di frontiera israeliana il 29 ottobre 1956. «Qui ha avuto luogo un crimine terribile» ha esclamato di fronte ai responsabili civili e religiosi della città. «Ci fu un ordine illegale, su cui sventolava una bandiera nera. Dovremo educare le generazioni future, e trarre le lezioni necessarie». Nell’imminenza di un nuovo conflitto regionale l’esercito israeliano aveva proclamato il coprifuoco, ma molti agricoltori palestinesi si trovavano nei campi e rientrando a casa furono falciati dal fuoco dei militari. Gli autori della strage vennero processati e subirono condanne pesanti, ma dopo tre anni ebbero tutti l’amnistia. Ogni anno Kafr Qassem celebra una commemorazione solenne per le vittime. Per la prima volta, però, quest’anno ha deciso di «partecipare in prima persona al dolore» della città anche il presidente israeliano. Rivlin ha riconosciuto che «la popolazione araba in Israele ha sofferto per anni di discriminazione», polemizzando a distanza con la destra radicale ebraica.

Corriere 27.10.14
Per lo Stato di Israele la vera minaccia è l’Iran
risponde Sergio Romano


Perché Israele, alleato per eccellenza degli Usa, non fa parte della coalizione voluta da Obama contro l’Isis? Perché Israele non interviene comunque con i propri aerei (molto efficaci su Gaza) in appoggio alle azioni della coalizione? Perché Israele non concede l’uso delle proprie basi militari alla Usaf, molto più vicine al fronte, anziché costringere gli aerei degli Alleati Usa a rifornirsi in volo per raggiungere il fronte?
Gian Domenico Bardanzellu

Caro Bardanzellu,
Risponderò ricordando ciò che accadde fra il 1990 e il 1991 quando il primo presidente Bush organizzò una grande coalizione, composta in buona parte da Stati musulmani, per l’invasione dell’Iraq e la liberazione del Kuwait, occupato da Saddam Hussein pochi mesi prima. Saddam cercò di coinvolgere Israele nel conflitto lanciando 39 Scud (missili balistici di fabbricazione russa) soprattutto contro Haifa e Tel Aviv. Il governo israeliano, presieduto allora da Yitzhak Shamir, era pronto a reagire con le armi, ma ne fu dissuaso dalle forti pressioni della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato. Bush sapeva che l’intervento di Israele avrebbe creato grande imbarazzo negli alleati musulmani degli Stati Uniti. Potevano combattere contro uno Stato arabo che aveva invaso un Paese fratello, ma non potevano combatterlo a fianco di Israele senza suscitare le critiche e l’indignazione dell’opinione pubblica musulmana. Il problema si porrebbe oggi negli stessi termini se Israele partecipasse alla grande coalizione di Barack Obama contro l’Isis.
Esiste tuttavia, rispetto al 1991, una fondamentale differenza. Mentre il governo di Shamir era pronto a combattere contro Saddam Hussein, quello di Benjamin Netanyahu non ha alcuna intenzione di combattere contro l’Isis in una guerra fra sunniti e sciiti che sta valorizzando il ruolo dell’Iran nella regione. In una ottica strettamente israeliana, la sconfitta dello Stato islamico sarebbe una vittoria dell’Iran e dei suoi alleati sciiti, dalla Siria al Golfo Persico. È questa la ragione per cui Netanyahu non smette di sostenere che «il vero problema non è l’Isis, ma l’Iran».
In un recente articolo sulla edizione internazionale del New York Times , Yuval Steinitz, ministro israeliano dell’Intelligence, sostiene che il negoziato in corso con Teheran rischia di non essere sufficientemente restrittivo e di consentire che l’Iran continui ad arricchire uranio. Secondo Steinitz, il fallimento dei negoziati non sarebbe uno scacco. Permetterebbe di conservare il regime delle sanzioni e, addirittura, di adottarne altre. L’articolo è una critica alla politica di Obama e un implicito appello a quella parte della società politica americana che gli è nemica. Dopo la mozione della Camera dei Comuni per il riconoscimento britannico dello Stato palestinese, questo è un altro segno della distanza che separa ormai la politica israeliana da quella di molti Paesi occidentali.

Corriere 27.10.14
Essere donne a Teheran (e resistere con i libri)
di Pierluigi Battista


Se non lo avete ancora fatto, provate a immergervi in un capolavoro come Leggere Lolita a Teheran di Azar Nafisi. In Iran impiccano le donne, le lapidano, le costringono a sposarsi bambine e a subire lo stupro del «marito» scelto dalla famiglia. Ma in queste pagine si respira una commovente aria di libertà. La grandezza di una resistenza culturale. Un’ostinazione ammirevole per non dargliela vinta agli energumeni che picchiano le donne, sorvegliano le strade arroganti e spietati per colpire e punire la donna che non accetta i simboli della sua subordinazione. Entrate nelle pagine di Leggere Lolita a Teheran e avrete a che fare con una storia straordinaria di dignità, intelligenza, cultura, indipendenza.
La storia racconta di una professoressa iraniana, la Nafisi stessa, che viene cacciata dall’Università per ordine degli ayatollah e dei fanatici e che con le sue studentesse più sensibili organizza nella sua casa riunioni clandestine in cui l’atto eversivo più pericoloso, la forma di resistenza più efficace consiste nella lettura in comune dei libri proibiti, Lolita di Nabokov in testa. Ma per sfidare gli aguzzini che in strada malmenano le ragazze troppo «peccaminose», le donne, appena chiusa alle spalle la porta di casa si liberano dei lugubri mantelli che sono costrette a indossare e mostrano tutti gli oggetti proibiti nello spazio pubblico. Tolto il velo dell’umiliazione, sfoderano gli abiti ostracizzati, si muniscono delle armi letali che il regime considera strumenti demoniaci di depravazione: trucchi, smalti, pettini per acconciature maliziose e seducenti. Allestiscono un palcoscenico privato vissuto come uno spazio libero, come l’antitesi dell’atmosfera oppressiva che regna asfissiante nelle strade e nelle aule universitarie di Teheran.
Per riconquistare una dimensione di libertà non esistono armi nobili e ignobili: la grande letteratura si affianca ai cosmetici acquistati di nascosto, Shakespeare ha lo stesso valore di un abito succinto. Ingannare i guardiani del potere diventa nel libro un esercizio di contropotere, incruento perché non fa uso di armi tradizionali, ma fermo nella decisione di non consegnare l’anima a chi ti vuole schiacciare e umiliare. Un grande libro dal punto di vista narrativo e anche un potente antidoto alla rassegnazione, allo sconforto che afferra chi si sente isolato, all’accondiscendenza nei confronti di regimi che calpestano i diritti umani. Resistere: leggere Lolita a Teheran.

Repubblica 27.10.14
L’ira delle ragazze di Teheran “Esecuzioni e sfregi non riusciranno a fermarci”
Dopo la morte di Reyhaneh e gli attacchi con l’acido il governo vieta i cortei. Ma la rivolta dilaga nel web
di Vanna Vannuccini


TEHERAN CENTINAIA di poliziotti sono schierati sulla piazza Fatemi, vicino al ministero dell’Interno, dove sabato c’era stata la seconda grande manifestazione contro gli attacchi all’acido che hanno sfregiato almeno quattro donne, una delle quali è diventata cieca a un occhio. I social media avevano annunciato un’altra manifestazione per ieri, alla quale dovevano arrivare persone «da cinque regioni». Da quando la notizia dell’esecuzione di Reyhaneh è diventata di dominio pubblico, la Rete è diventato l’epicentro della rivolta delle donne iraniane. «Condannare il regime e rompere il silenzio», hanno scritto le donne del Ncr, il consiglio nazionale della resistenza. «Il mondo deve prendere una posizione forte contro la ferocia dei mullah» «Corruzione e patriarcato sono le cose più brutali. Lei trovi la pace, per i suoi oppressori, l’inferno più profondo», scrive in un tweet “Nadira”.
Ma la manifestazione non c’è stata perché il ministero dell’Interno ha fatto sapere che tutti i cortei per i quali non è stata preventivamente chiesta un’autorizzazione, sono da considerarsi illegali e come tali saranno trattati. Il presidente Rohani ha chiamato i ministri degli Interni, Giustizia e Intelligence, esortandoli a lanciare un’indagine e fare seriamente ogni sforzo per trovare «colpevoli e i mandanti» degli attacchi con l’acido. «Sono atti disumani» ha detto il presidente, non bisogna fermarsi fino a che i colpevoli e i loro mandanti non saranno identificati e puniti.
Però alle manifestazioni il governo pone limiti rigorosi, vedi chiusura delle strade intorno a piazza Fatemi. «Hanno spedito su questa piazza tutti i poliziotti di Teheran», dice irritato un tassista bloccato nel traffico. Perché questa paura delle manifestazioni? Non è una contraddizione per un presidente moderato che ha promesso di rendere l’Iran un paese più libero? Lo chiedo a Abbas Abdi che mi accompagna. Abdi è un riformatore molto noto e molto attivo negli anni di Khatami, sociologo e sondaggista. «In Iran le cose non sono ma solo come sembrano. Io difendo il diritto di tutti a manifestare sempre e dovunque, ma è evidente che c’è chi vuole approfittare degli attacchi all’acido per screditare Rohani, per diffondere l’impressione che anche in Iran la violenza dell’estremismo si sia fatta strada, che l’Is alligni anche qui. I segnali sono tanti, e non ci dimentichiamo che tra poche settimane dovrebbe arrivare la conclusione positiva del negoziato sul nucleare, che ha molti nemici. Il governo deve difendersi se non vuole essere danneggiato».
Elham, una studentessa che ha partecipato alla manifestazione di sabato, dice di essere rimasta sorpresa anche lei dal numero di messaggini che lei e le sue amiche hanno ricevuto in questi giorni: inviti a non uscire di casa per paura degli attacchi all’acido: «Chi li manda? Certo volevano creare il panico». Ogni volta che c’è un governo che fa migliorare l’immagine dell’Iran nel mondo, c’è subito qualcuno che fa peggiorare la situazione, nota la regista Pouran Derkhshandé, autrice di un bellissimo film sulla condizione femminile: “Sss.. le ragazze non gridano”.
«Il governo deve andare in fondo e far chiarezza su questi crimini subito», dice Faezeh Rafsanjani, figlia dell’ex presidente che è uno dei più decisi sostenitore di Rohani. Faezeh è da sempre impegnata per i diritti delle donne: «Non si può permettere che come è sempre successo in passato nessuno venga punito perché ha qualche angelo custode da qualche parte. Crimini ignobili come questi vanno affrontati non come reati commessi contro una singola donna o una singola famiglia, che poi non troverebbe nemmeno il coraggio di chiedere il “qisas” per paura che le loro vite vengano messe ulteriormente a repentaglio. Sono crimini pubblici, contro lo Stato». Terrorismo, ha detto il ministro della giustizia Pour Mohammadi.
Anche Nasrin Sotoudeh è venuta sabato alla manifestazione su piazza Fatemi. Per essere presente, aveva terminato in anticipo la personale protesta che ogni giorno fa davanti alla sede del Consiglio degli Avvocati, a piazza Argentine. Nel 2011 l’avvocato Nasrin Sotoudeh, premio Sakharov del Parlamento europeo per il suo impegno per i diritti umani, era stata condannata a sei anni di prigione e dieci d’interdizione dall’esercizio della professione, e poi liberata nel settembre 2013, poco dopo l’elezione di Rohani. Il mese scorso una istanza interna dell’ordine degli avvocati le aveva restituito il diritto di esercitare, ma subito dopo un’istanza superiore l’aveva cancellato: «Non si può nemmeno ignorare o sottovalutare che la mentalità che porta a compiere crimini come gli attacchi all’acido è stata creata e nutrita da un sistema». Abbas Abdi è d’accordo con lei. «Anche se non conosciamo ancora chi siano gli autori degli attacchi è sicuro che sta crescendo la resistenza al flusso crescente della presenza delle donne nella società».
Il processo dell’avanzata delle donne nella società cominciò con la rivoluzione, sostiene Abdi che era stato un rivoluzionario della prima ora come molti dei politici riformatori che poi sostennero Khatami. Fu con la rivoluzione che le figlie delle famiglie tradizionaliste uscirono per la prima volta dalle case, ancorché coperte da un chador che però per molte divenne una sorta di lasciapassare. «Ma l’accelerazione di questo processo negli ultimi anni è diventata per alcuni settori più retrivi della società difficile da digerire».

Corriere 27.10.14
Niente Europa nell’anno Mille
È assurdo cercare nell’alto medioevo mitiche origini delle identità moderne
di Paolo Mieli


L’Europa è senza passato. Chiunque nell’anno Mille avesse cercato i segni di una futura industrializzazione non avrebbe mai scommesso sull’economia delle regioni renane o dei Paesi Bassi, quanto piuttosto su quella dell’Egitto. E parlare di futuro sviluppo del Lancashire sarebbe sembrato a tutti uno scherzo. È quel che fa notare Chris Wickham in un importante libro, L’eredità di Roma. Storia d’Europa dal 400 al 1000 d.C. , pubblicato da Laterza nell’ottima traduzione di Renato Riccardi. Sono dunque poco seri quelli che parlano di quei tempi definendoli «albori dell’Europa». Wickham spiega di aver fatto riferimento all’anno 1000 per il fatto che «l’eredità di Roma» nel continente durò all’incirca fino a quell’anno e poi, «dopo quella data, la sua ombra, lentamente, scomparve». Inoltre «perché», afferma, «nel X secolo volevo analizzare le divergenze tra gli Stati che subentrarono a quello carolingio», soprattutto tra l’Inghilterra post-alfrediana (Alfredo era stato il re del Wessex, morto nell’899, che aveva combattuto contro i Danesi e dato inizio al processo di unificazione del suo Paese) e l’Impero bizantino. Senza aggiungere, nell’XI secolo, la stagione dei Turchi selgiuchidi, la riforma gregoriana (cioè della Chiesa ai tempi di Gregorio VII, Ildebrando di Soana) e «l’inizio del grandioso racconto che ha come faro il progresso morale». Nondimeno «non sembra irragionevole» rilevare proprio in quegli anni «un cambiamento fondamentale nelle categorie del potere politico, anche se solo in alcune parti d’Europa». Ma dell’Europa come tale è pressoché impossibile rintracciare lì una coerente storia originale.
L’Europa altomedievale, denuncia Wickham, è stata oggetto di «ripetuti fraintendimenti», che ce ne hanno dato «una falsa immagine». L’alto Medioevo è stato collocato all’origine di un tale numero di Stati nazionali europei «da aver acquisito una portata mitica per gli storici di tutte le generazioni da quando, all’inizio del XIX secolo, il nazionalismo è diventato una possente visione politica». È stata prodotta una gran mole di libri «che vanno a caccia di germi di una futura identità nazionale o europea, della quale si afferma l’esistenza nel 1000 in Francia, Germania, Inghilterra, Danimarca, Polonia, Russia». Il tutto per dare fittizi alberi genealogici ad identità nazionali che sono venute alla luce secoli dopo. Come se gli storici fossero diventati studiosi di araldica alla ricerca di stemmi e blasoni in grado di fornire lustro ai titoli nobiliari dei propri Stati.
La storia altomedievale in questo modo è diventata parte di una teleologia, vale a dire «la lettura della storia alla luce di quello che (magari inevitabilmente) ne è seguito, come incamminata cioè verso qualcosa che spieghi perché noi — inglesi, italiani, europei (occidentali) — “siamo i migliori”». O quanto meno, «per comunità non eccessivamente compiaciute di sé», perché «siamo diversi». Tanto più che la scarsità di documentazione consente ricostruzioni di fantasia e fa sì che gli storici più seri facciano fatica a mettere scientificamente in discussione questo genere di ricostruzioni. Ma quelle di stampo nazionalistico, afferma Wickham, sono sempre «letture falsate». Anche quando — e può capitare — siano basate su dati non scorretti.
In spirito di onestà intellettuale si può, anzi «si deve», affermare che l’Europa non nacque nell’alto Medioevo. Nel 1000, fatta eccezione per il debolissimo senso di comunità che univa i territori cristiani, nessuna identità comune teneva assieme la Spagna alla Russia, l’Irlanda all’Impero bizantino (che comprendeva gli attuali Balcani, Grecia e Turchia). Non esisteva «nessuna comune cultura europea». Né vi era alcun segno che l’Europa, in un futuro ancora piuttosto lontano, si sarebbe sviluppata a tal punto, economicamente e militarmente, da poter dominare il mondo. In termini politico militari, «le estremità sud-orientali e sud-occidentali dell’Europa, Bisanzio e al-Andalus (la Spagna musulmana) vantavano gli Stati più importanti del continente», mentre nell’Europa occidentale l’esperimento carolingio si era concluso con lo smembramento di ciò che oggi sono Francia, Belgio, Germania occidentale, e con questa dissoluzione era andata in frantumi l’entità politica egemone dei quattrocento anni precedenti. Nell’anno 1000 lo Stato occidentale più coeso, l’Inghilterra meridionale, era minuscolo. Ben più importante era Bisanzio. Ma l’identità nazionale bizantina, denuncia Wickham, non è stata molto considerata dagli storici, per il fatto che nessuno Stato nazionale moderno discende in linea diretta da quell’Impero. Francia, Germania e Spagna (sia quella cristiana che quella musulmana) non avevano un’identità nazionale paragonabile a quella bizantina. L’idea di una «nascita dell’Europa» così come quella della nascita, mille anni fa, di gran parte delle future nazioni europee «è dunque non solo teleologica, ma prossima a pura fantasia».
Di più, scrive Wickham: ogni lettura dell’Impero romano del V secolo in ragione «dei fattori che condussero al suo crollo», o della Francia per mettere in risalto ciò che portò al potere Carlo Magno, o dell’attivismo papale del X secolo per definire «quel che ebbe come esito la riforma gregoriana», o del dinamismo economico del mondo arabo nei termini «della sua (presunta) sostituzione da parte degli italiani e poi dei produttori e dei mercanti dell’Europa settentrionale», è una «lettura del passato falsa». Proprio così: «falsa». Ma come è possibile che questo genere di rappresentazioni abbia ancora corso? Perché i «documenti» sono pochi e perciò stesso «integrabili» con ricostruzioni solo apparentemente deduttive. Scrivere la storia dell’alto Medioevo, sottolinea l’autore, «implica dunque una lotta permanente con la scarsità delle fonti disponibili, giacché gli storici tentano senza requie di trarne rappresentazioni sempre più articolate». Ed è «poco saggio» prendere una qualunque fonte troppo alla lettera.
Il più prolifico dei cronisti altomedievali, Gregorio vescovo di Tours (visse e fu attivo nella seconda metà del VI secolo), autore di una lunga storia della Gallia franca in gran parte relativa ai suoi tempi, nonché di numerose vite dei santi, fu anche un vivace protagonista politico, con esplicite simpatie e antipatie tra i suoi contemporanei. Oltretutto non fu quasi mai testimone diretto dei fatti di cui si occupò. Talché si può tranquillamente affermare «che non c’è da credere a ciò che Gregorio racconta». E in effetti «sarebbe impossibile sfuggire a una tale conclusione anche perché, in questo caso, l’assenza di altri riscontri per il periodo di cui scrive, significa che Gregorio è la sola fonte per la maggior parte di quel che afferma a proposito della Gallia del suo secolo». Si deve riconoscere che «se anche tutte le affermazioni di Gregorio fossero invenzioni — e raffinate invenzioni, fatte per di più a scopi edificanti — nondimeno egli scriveva in modo realistico». I suoi resoconti sono perciò preziosi. Ma non vanno presi alla lettera.
Inoltre, la storia come la conosciamo è il frutto di una tradizione storico-giuridica e, sino alla metà del XX secolo, si scriveva dando per scontato che se una legge ordinava qualcosa, la popolazione aveva poi adottato il comportamento prescritto. Ma «se questo non è vero per la società contemporanea, con tutto il potere di coercizione a disposizione del sistema giudiziario, è lecito pensare che dovesse essere molto meno vero nell’alto Medioevo, quando gli Stati erano più deboli (sovente molto deboli) e spesso era persino improbabile che le plebi conoscessero quale legge un sovrano avesse emanato».
I valori attuali, scrive Wickham, il liberalismo, la secolarizzazione, la tolleranza, il senso dell’ironia, l’interesse per le opinioni altrui, per quanto superficiali possano essere nella nostra società, erano del tutto assenti mille anni fa, o al meglio presenti solo allo stato embrionale (come invero sono stati assenti dalla maggior parte delle società del passato). Nell’alto Medioevo, com’è ovvio, «gli individui avevano il senso dell’umorismo, ma quel che li divertiva (vale a dire il dileggio e i giochi di parole grossolani) non li avvicina affatto alla nostra esperienza: certamente usavano l’ironia, ma di solito era piuttosto feroce e sarcastica». Quasi tutti gli scrittori dell’epoca, persino i rigoristi religiosi che si rifacevano all’egualitarismo della teologia del Nuovo Testamento o del Corano, «davano per scontata l’immutabilità della gerarchia sociale e l’innata virtù morale del ceto aristocratico dal quale per la gran parte venivano». Il «servilismo verso i socialmente superiori» e «la compiaciuta coartazione dei socialmente inferiori» erano condotte considerate normali e persino virtuose; così come l’assunto generale («per quanto è dato vedere») dell’intrinseca superiorità degli uomini sulle donne. Non c’era ombra di razzismo, ma «la generalizzata credenza sciovinistica che gli stranieri fossero inferiori e stupidi ne faceva abbondantemente le veci».
Sulla base di queste osservazioni, Wickham si è persino posto il problema di immaginare con quale scrittore tardoantico o altomedievale avrebbe avuto piacere a intrattenersi ed è stato capace di individuare solo cinque nomi: Teodoreto di Cirro, Gregorio Magno, Eginardo, «forse» Braulio di Saragozza e, «con minore entusiasmo», Agostino, «per la notevole intelligenza e consapevolezza di sé, non per la tolleranza». Tutto questo, però, rende, a suo avviso, ancora più interessante lo studio della seconda metà del primo millennio. Interesse provocato proprio dalla distanza anziché dalla vicinanza tra il Medioevo e i tempi nostri. È in quell’epoca che si ha la prima e la più decisiva rottura della storia: lo smembramento dell’Impero romano d’Occidente. Anche se, sottolinea Wickham, «la vecchia immagine di una cultura romana spazzata via dalla vitale barbarie germanica è irrimediabilmente superata». Il corrispettivo orientale della rottura del V secolo «è costituito dal culmine della conquista araba del 636-51, fatto che aprì due secoli di crisi per il mondo romano bizantino, spingendo Bisanzio, in via duratura, verso una diversa traiettoria politica, di maggiore centralizzazione e militarizzazione». Naturalmente «il califfato arabo era del tutto nuovo, anche se è possibile sostenere che le sue radici strutturali fossero altrettanto romane di quelle dei bizantini». La ricchezza del califfato e la debolezza dello Stato bizantino del VII secolo («per non parlare dei regni occidentali») spostarono «l’epicentro della politica molto più ad est di quanto non fosse stato da quasi un millennio a quella parte: dapprima in Siria e poi, dopo il 750, in Iraq. E quando, dopo l’800, nel Mediterraneo riprese vitalità il commercio a medio raggio, il centro di tali attività economiche era l’Egitto».
E siamo così al punto da cui abbiamo preso le mosse: mille anni fa non c’era traccia dell’Europa come la intendiamo oggi e se si può considerare che qualcosa si muovesse verso la modernità, ciò accadeva sulle coste settentrionali dell’Africa. Quanto all’affermarsi di una «prassi politica di esplicito contenuto moralizzatore», però, se ne possono cogliere i segni nel secolo che va dal 780 all’880 nella Spagna visigota e nell’esperienza di Carlo Magno e dei suoi successori. I Carolingi, afferma Wickham, «strinsero tra lo Stato e una Chiesa semiautoritaria un legame che per due secoli divenne la norma nell’Occidente latino, sino a che i Papi, da Gregorio VII (1073-1085) in avanti, cercarono nuovamente di scioglierlo». Tentativo «riuscito solo in parte e poi ribaltato nell’Europa settentrionale dalla Riforma del XVI secolo». Inoltre i Carolingi furono all’origine dell’assunto secondo il quale «i re e i loro atti potrebbero e dovrebbero venir controllati dagli ecclesiastici sotto il profilo morale, la qual cosa già a partire dal IX secolo fu fonte di numerosi problemi per sovrani quali Ludovico il Pio e Lotario II, e avrebbe continuato ad esserlo ancora a lungo per molti dei loro successori in Europa». Si può aggiungere che l’Impero bizantino e il califfato furono certamente «pari ai Carolingi quanto a baldanza religiosa, ma nessuno dei grandi imperi orientali avvertì allo stesso modo l’urgenza di un programma analogo a quello carolingio».
Per questi motivi è di estrema importanza definire la questione delle «radici cristiane» di un’Europa che, senza quelle radici, resterebbe senza alcun passato. Senza contare la rottura che è rappresentata dalla fine del mondo carolingio: «non tanto il venir meno dell’unità del sistema politico franco tra la metà e la fine del IX secolo (unità che nessuno, persino all’epoca, pensava potesse durare), quanto piuttosto il disintegrarsi, intorno all’anno 1000, delle stesse strutture di potere pubblico» da ogni parte di quel sistema. Ed è anche per questo che è impossibile rintracciare nella storia di mille anni fa segni coerenti di quel che sarebbe venuto — per decisione politica — dieci secoli dopo.

Corriere 27.10.14
L’arte come rappresentazione della psicologia umana
Un’analisi del Profondo che è stato il vero protagonista dell’arte del Novecento
Nel nuovo libro di Flavio Caroli, la capacità di dipingere sentimenti e stati d’animo
Da Leonardo a Bacon
di Ida Bozzi

Nel suo Libro di Pittura , Leonardo da Vinci scrive: «E se il maestro è da poco, le sue figure paiono la pigrizia ritratta al pennello, e se il maestro è sproporzionato, le figure sue son simili», insegnando da par suo che l’arte non è solo comprensione del mondo circostante, ma anche spia di una «anima che fa il nostro giudizio innanzi sia il proprio giudizio nostro», ovvero, del Profondo. Quel Profondo che sarà, nel Novecento, il vero protagonista dell’arte, popolando il mondo delle proprie visioni, allucinatorie, straziate, distorte.
Con queste illuminazioni prende il via l’antologia Anime e Volti dello storico dell’arte Flavio Caroli ( Anime e Volti – L’arte dalla psicologia alla Psicoanalisi, Electa, pp. 316, e 22,90) che raccoglie i diversi contributi saggistici dello storico dell’arte intorno al rapporto tra la fisiognomica, la psicologia e la psicoanalisi nella creazione artistica. Dopo il volume prevalentemente teorico della Storia della fisiognomica da Leonardo a Freud , questa nuova ricerca trae sollecitazione dalla materia stessa dell’arte, ovvero dalle opere di quel «cono di cultura» che ha come vertice, appunto, Leonardo e si allarga fino all’arte contemporanea in influenze, eredità, stimoli, distanze e debiti verso il maestro.
Accompagnati dalla sontuosa iconografia del volume, si possono così seguire gli studi quarantennali di Caroli sul tema (spesso concretizzati in mostre) e osservare direttamente nelle pagine i volti ritratti da Lotto, dalla Anguissola, da Caravaggio, Velázquez, Rembrandt, fino a Ernst, Francis Bacon e molti altri, oltre al preveggente e «contemporaneo» Leonardo. Il tutto non in un’ottica comparatistica — le espressioni, le smorfie, i «caratteri» mostrati nell’uno o nell’altro dipinto, che pure offrono curiosità e meraviglie, come gli incredibili disegni di Leonardo che studiano il deforme e il brutto — ma in una dimensione storica, che rende conto delle contemporanee acquisizioni della filosofia, della scienza, del sapere, da un pensatore come Leibniz a uno psicoanalista come Lacan.
Ne viene una interessante storia dell’interiorità dell’arte in Occidente, in cui filologicamente si seguono la formazione di un artista, il contatto tra le diverse scuole, il Grand Tour dei maestri che viaggiando illuminarono di conoscenze, di influssi, di nuove prospettive le altre scuole, cosicché l’arte lombarda, la fiamminga, la fiorentina, la veneziana, la romana, l’inglese, l’americana, appaiono come tappe generose, ricche, nutrienti, di un cammino umano di apprendimento.