martedì 28 ottobre 2014

il Fatto 28.10.14
Picasso night
Sky Arte ha dedicato  al pittore tutta la notte di sabato
L’alternativa alla Leopolda? Una notte con Picasso


Picasso è stato Picasso e anche molto di più, non c’era barzelletta sull’arte, ordita per crudelmente ironizzare dagli analfabeti sulle espressioni d’avanguardia che, un tempo, non citasse i suoi ritratti “raccapriccianti”, già, roba “con tre nasi e due orecchie, mio dio!” Picasso, più di Michelangelo e d’ogni altro artista di sempre, è diventato tuttavia, insieme alla sua Firma, sinonimo di genio in grado di produrre plusvalore economico da ogni pezzo di carta certificato.
Sabato scorso, il 25 ottobre, ricorreva il suo compleanno postumo, Picasso era nato nel 1881, a Malaga, così nel palinsesto di Sky Arte c’è stato modo di scorgere una notte intera tutta per lui, la “Picasso Night”, la “Nuit Picasso”, un titolo che è quasi un annuncio astrale, mitologico, d’apoteosi ulteriore. Ciò ha significato la programmazione in sequenza di alcuni documentari pronti a raccontarne la parabola espressiva, pronta a lambire quasi per intero il secolo breve, il “suo” secolo, segnato nelle mappe astrali della storia politica e dell’arte stessa cominciando dalla rivelazione di “Guernica” (1937), magari non il suo lavoro più straordinario, sicuramente però tra quelli stilisticamente paradigmatici, sempre a proposito dei “tre nasi” che, sempre un tempo, quando al fixing della Borsa dell’arte non aveva ancora pienamente santificato la sua intera produzione, davano l’insonnia ai ben pensanti, a coloro cui era stato già probabilmente duro perfino digerire Cézanne con le “sue mele concave”. La tela di Guernica lì pronta a denunciare il bombardamento aereo sulla cittadina sacra ai Baschi nei giorni della guerra civile spagnola (1936-1939), un lavoro divenuto manifesto sia in senso “civile” sia in senso proprio di poster.
LA “NOTTE Picasso” ha tuttavia consentito di scoprire il racconto “orfico” ulteriore dei suoi giorni in Costa Azzurra, tra Golfe Juan e Antibes, dunque già nel tepore, sebbene accidentato, del dopoguerra. Il documentario di Christian Tran, che ha chiuso la serata dell’omaggio, “Picasso and Sima, Antibes 1946”, è stato in questo senso un dono insperato, un modo di staccare l’ombra da terra e così fare ritorno all’estate felice della sua pittura. Michel Sima, pseudonimo di Micha Smajewski, nato nel 1912 in Polonia, e morto nel 1987, è stato uno scultore, fotografo e ceramista da annoverare tra i protagonisti della Scuola di Parigi, l’amicizia tra lui e Picasso ha dato vita a un giacimento umano e creativo di cui adesso resta, appunto, una meravigliosa traccia fotografica, proprio gli scatti realizzati da Sima nello studio di Golfe Juan, e nell’atelier del Museo Grimaldi di Antibes, dove Picasso ebbe modo di dipingere un ciclo di opere che comprende “La Joie de Vivre” e il “Triptyque”.
Al di là dello specifico pittorico, in quel documentario c’era modo di percepire l’aria di un tempo che ha influito nel gusto e nello stile di uno scorcio di quel secolo ormai trascorso, per un attimo, grazie alle foto scattate da Michel Sima all’amico Pablo, sembra davvero che la televisione possa essere altro dal talk show, e Renzi e il suo codazzo solo un dettaglio insignificante.

il Fatto 28.10.14
Così parlò
Boschi: Meglio Fanfani di Berlinguer


IL MINISTRO Boschi ha scelto Fanfani. Sull’ultima domanda di Fabio Fazio a Che tempo che fa, quella finale che va un po’ più sul personale, Maria Elena Boschi finge di essere in dubbio ma in realtà risponde sicura. “Avevo chiesto al Presidente Renzi se preferiva Berlinguer o Craxi e lui aveva risposto Berlinguer” ha detto Fazio. E poi: “A lei chiedo se preferisce Berlinguer o Fanfani”. “Qui mi mette in difficoltà. Da aretina non posso che dire Fanfani per una questione di vicinanza quantomeno territoriale, siamo di Arezzo tutti e due” risponde la Boschi. Poi Fazio cita una frase di Berlinguer sul nuovo grande compromesso storico tra comunisti, socialisti e cattolici. E il ministro evita ogni commento ribadendo che: “Noi abbiamo dato vita a un nuovo grande partito, il Partito democratico”.

La Stampa 28.10.14
Per chi suona la Fanfana
di Massimo Gramellini


L’aretina Maria Elena Boschi ha confessato in tv di preferire il concittadino Fanfani all’icona rossa Berlinguer per ragioni territoriali. La motivazione è risibile: come se una milanese di sinistra dichiarasse di prediligere Salvini a Che Guevara perché il primo è di Milano. Ovviamente Fanfani non è Salvini e la Boschi non è milanese: resta da capire se sia di sinistra. Di sicuro è una donna che non perde mai il controllo di sé, perciò la battuta non può venire relegata nel ghetto delle gaffe. Chi l’ha pronunciata sa benissimo cosa rappresenti Berlinguer per la base del suo partito. E anche cosa rappresenti Fanfani: l’uomo del referendum contro il divorzio, il poster di una Democrazia Cristiana riformista in economia ma fieramente conservatrice in tutto il resto. 
Nel vuoto attuale delle ideologie, questi giochetti sui padri nobili della politica fungono da bussola. La scelta della Boschi conferma l’estraneità del clan Renzi alla tradizione cui fa riferimento una parte consistente dei suoi elettori: Veltroni, che certo non è un pericoloso estremista, ha realizzato un film su Berlinguer, mica sull’inaffondabile toscanaccio che Montanelli ribattezzò «Il Rieccolo». 
È anche da questi piccoli segnali che traspare la strategia di costruire una nuova Balena democristiana: non più bianca, semmai rosé. Una Dc moderna, digitale, che rinuncia ai rullini ma non ai Fanfani, e che attraverso il giovane erede fiorentino realizza il progetto dei democristiani più astuti del passato: svuotare la sinistra tradizionale dal di dentro, governando con i suoi voti però non con le sue idee.

Corriere 28.10.14
E «Matteo» disse: ciao, come sto?
Dal parlare di sé in terza persona alle metafore, la comunicazione del leader
di Renato Franco

qui

il Fatto 28.10.14
Il governo ai sindacati:
“Con voi non trattiamo”
Dopo un incontro “surreale” dell’esecutivo con Cgil, Cisl e Uil, in serata il premier spiega in tv il suo concetto di dialogo: “Mandatemi una email”
Vertice sulla manovra, Camusso: “Senza risposte sarà sciopero generale”
di Sal. Can.


Il senso di Matteo Renzi per il sindacato è tutto in una battuta: “Mandateci una email”. È il messaggio che il premier manda a Cgil, Cisl e Uil dagli studi di OttoeMezzo, il programma di Lilli Gruber, dopo l’incontro pomeridiano tra il governo, senza Renzi, e le sigle sindacali. Le avvisaglie di quanto avrebbe detto il premier, Cgil, Cisl e Uil le hanno avute al ministero del Lavoro, dove si sono trovati di fronte un governo indisposto, perfino, a fissare il prossimo appuntamento. “Vi faremo sapere” hanno comunicato, imbarazzati, Pier Carlo Padoan, Graziano Delrio, Giuliano Poletti e Marianna Madia. Un atteggiamento che ha provocato la stizza e l’accusa di Susanna Camusso, che ha definito quell’incontro come “surreale”. Renzi, in serata, è però molto più esplicito: “Il governo non tratta con i sindacati. Cgil, Cisl e Uil fanno il loro mestiere trattando con le imprese ma le leggi si fanno in Parlamento non chiedendo il permesso ai sindacati. E poi, trattare su cosa?”. Unica apertura, la dissociazione dall’attacco al diritto di sciopero fatta alla Leopolda dal finanziera Davide Serra: “Non sono d’accordo, dice il premier, è un diritto sacrosanto”.
CHE IL CONFRONTO fosse inesistente lo si era capito nel pomeriggio. Il ministro dell’Economia, Padoan, illustra a grandi linee la manovra finanziaria e descrive le scelte dell’esecutivo. “Mancavano solo le figurine” commenta chi ha ascoltato attentamente. “Il governo ha detto meno di quello che sapevamo”, sorride Annamaria Furlan, neo-segretario della Cisl. Unica nota interessante, il diverbio tra Padoan e Delrio. “Il rientro in manovra sarà dello 0,4%” comunicava il responsabile del Tesoro mentre il Sottosegretario lo invitava a maggior cautela. Dopo, la parola è toccata ai sindacati. Furlan, ha puntato l’attenzione sul Tfr, sugli statali e i pensionati ma anche sul taglio dei fondi ai patronati. Carmelo Barbagallo, futuro segretario Uil, ha consegnato al governo tre documenti e, pur sottolineando l’estrema impreparazione dei ministri “sembrava non avessero alcun mandato”, dice al Fatto considera l’incontro comunque “utile”. Molto negativa la reazione di Camusso, scontratasi nel finale con il ministro Poletti: “Come andiamo avanti? ”, chiede la segretaria Cgil. “Fateci sapere le vostre indicazioni, vi faremo sapere”, la replica imbarazzata del ministro. “Un incontro inutile, una presa in giro”, dicono sottovoce i sindacalisti mentre si accomodano fuori. Unico momento leggero quello in cui Danilo Barbi, della Cgil, risponde a un Padoan intento a osservare,irritato,sulproprioIpadla diffusione dell’incontro in tempo reale: “Non guardi noi, non abbiamo i gettoni per far funzionare gli Ipad”. Ironia che, però , non scalfisce la dura sostanza dei rapporti sindacali.
AL TERMINE dell’incontro, sia Poletti che Delrio provano a smussare: “Siamo pronti a raccogliere suggerimenti concreti” spiega il Sottosegretario, “discuteremo sui singoli punti”. Ma Renzi, in tv, ha fatto capire cosa intende per raccogliere suggerimenti.
“In assenza di risposte andremo alla sciopero” ha ribadito così Camusso. E ieri sera la Cgil ha riunito i suoi segretari di categoria per un bilancio della manifestazione e discutere delle prossime tappe. L’indicazione unanime, in vista della decisione che sarà presa dal direttivo, è stata una sola: sciopero generale.

La Stampa 28.10.14
Così finisce l’era della concertazione
“Piazza e scissione non fanno paura”
Il premier sterilizza il fuoco amico: “A sinistra non c’è più spazio”
di Fabio Martini


La piazza della Cgil era grande, polemica e meno «pensionata» del solito, ma a Renzi non fa paura. Due settimane fa aveva detto a Susanna Camusso, «ci vediamo dopo la vostra manifestazione», ma ieri pomeriggio il premier non si è presentato al tavolo con i sindacati. Pier Carlo Padoan ha aperto le danze, illustrando per circa dieci minuti, la Legge di Stabilità e alla fine il sottosegretario Graziano Delrio ha tirato le conclusioni: «Mandateci delle note di merito, poi valuteremo se incontrarci di nuovo». Questo è il «new deal» di Matteo Renzi nei rapporti con i sindacati e lui stesso ha spiegato la nuova filosofia con una chiarezza senza precedenti a Lilli Gruber nel suo «Otto e mezzo»: il governo non chiede permessi ai sindacati, il cui compito è trattare ma con gli imprenditori, per salvare i posti di lavoro.
Una svolta, una sorta di manifesto programmatico nei rapporti col sindacato, che arriva 72 ore dopo la imponente manifestazione della Cgil. Il presidente del Consiglio di fatto ha dichiarato finita non solo la concertazione, ma soprattutto la stagione della consociazione, quella nella quale le parti sociali erano chiamate dai governi per discutere in via preliminare delle principali misure economiche, disponendo di fatto di un diritto di veto. E a chi gli chiedeva se ora il potere di veto si sia esaurito, Renzi ha risposto senza sfumature: «Per me sì». In questo modo Renzi ha ridefinito il rapporto con la Cgil, dimostrando di non temere l’escalation conflittuale annunciata dal principale sindacato italiano.
La Cgil nei prossimi giorni sarà impegnata in mobilitazione unitarie degli statali e dei pensionati, ma nelle prossime settimane dovrà decidere se fare il passo ulteriore e proclamare, da sola, lo sciopero generale. Una prospettiva alla quale - ecco la vera novità - Renzi ha già tolto ogni sbocco rivendicativo, annunciando che non si riaprirà alcuna trattativa con la Cgil. Semmai, rispondendo alla Gruber, ha lasciato capire che potrà consentire, sua sponte, qualche concessione ad alcune delle istanze sindacali che ritenesse condivisibili. Un Renzi apparso a La7 molto sicuro di sé, poco «reattivo» alle domande meno compiacenti, anche perché nelle ultime ore il presidente-segretario del Pd si è convinto che non esiste il pericolo-scissione dentro il suo partito. Non tanto perché Maurizio Landini ha ripetuto ciò che Renzi conosce a memoria - il leader della Fiom non è interessato ad operazioni politiche come federatore della sinistra radicale - ma perché ha capito che la minoranza è intenzionatissima a restare e dunque pronta ad organizzarsi in corrente. Gianni Cuperlo lo dice in modo chiaro: «Il Pd rischia di diventare una confederazione e in un modello simile le diverse culture hanno il dovere, non il diritto, di organizzarsi».
In altre parole la minoranza post-comunista del Pd intende replicare il modello messo in campo da Massimo D’Alema nel 2007 per contrastare la leadership di Walter Veltroni. Allora nacque un’associazione (Red) e persino una Tv. Ma su questi argomenti le parole di Renzi sono quelle di chi non teme una scissione e neppure la auspica: sabato in piazza «c’era una parte che immagina un raggruppamento molto più di sinistra radicale, ma esiste già qualcosa a sinistra», «non credo alla scissione, sarebbe il colmo, abbiamo aperto le porte per arrivare al 41%.». Ultime ore per la scelta del ministro degli Esteri: boatos e nulla più per Lia Quartapelle, 32 anni, deputata Pd molto competente in politica estera ma considerata troppo giovane. La scelta di Renzi (e Napolitano) andrà su una personalità esperta.

Repubblica 28.10.14
Il piano di Renzi per sterilizzare la Cgil
“Niente spazi a chi vuole solo lo sciopero”
di Francesco Bei


ROMA Al di là dell’antipatia personale tra Renzi e Camusso, che sicuramente non aiuta. Al di là dei singoli punti della manovra — sui quali sia Poletti che Delrio hanno confermato la disponibilità ad ascoltare le proposte dei sindacati — ad aprire una voragine tra il corso attuale di palazzo Chigi e la Cgil è il proposito politico del premier. Elaborato da tempo e messo in pratica in maniera scientifica in questi giorni: «Rendere questo sindacato ininfluente rispetto al governo». Non tutti i sindacati, ma «questo». Ossia la Cgil di Camusso, il sindacato che «fa politica», l’unico giacimento culturale ed elettorale a cui potrebbe attingere domani un nuovo soggetto di sinistra-sinistra. Un sindacato che deve tornare a «fare il proprio mestiere», lasciando la scrittura delle leggi a chi è stato eletto.
L’ostilità del resto è reciproca. Ieri pomeriggio, quando il ministro Poletti si è lamentato con i leader sindacali perché sulle agenzie di stampa stavano uscendo «in diretta» le frasi appena pronunciate da Padoan sulla legge di stabilità, Camusso l’ha fulminato con una battuta perfida: «Ministro non siamo noi a mandare sms ai giornalisti. Renzi non gliel’ha detto che al sindacato abbiamo ancora il telefono a gettoni?». Dettagli di un dialogo mai iniziato. Per volontà reciproca, a sentire i renziani. «Camusso — riferisce uno dei ministri presenti alla riunione — non era interessata, a differenza degli altri, a migliorare la legge di Stabilità. Voleva solo lo scontro. La Cgil pensa ormai allo sciopero generale e le sue critiche sono state tutte politiche. Ma la Finanziaria la facciamo noi, non il sindacato».
Un dialogo tra sordi. Come quello andato in scena ieri attorno al lungo tavolo rettangolare del ministero del Lavoro. «Abbiamo impostato una manovra anticiclica — ha spiegato Padoan — per la prima volta senza seguire i rigidi criteri dell’austerity. I nostri obiettivi sono anche i vostri: crescita e occupazione». Ma se gli altri sindacalisti, da Barbagallo della Uil a Furlan della Cisl, hanno avanzato proposte concrete di modifica della manovra, la massima tensione c’è stata quando la parola è passata alla numero uno di Corso d’Italia. Che ha chiesto una Finanziaria molto più forte, ben oltre i 36 miliardi impostati dal governo. Una Finanziaria «di svolta», da riscrivere daccapo a partire dal nodo delle risorse. Dove trovare i soldi? «Con una tassa patrimoniale» è stata la risposta di Camusso. I ministri in sala si sono guardati esterrefatti. Una visione più lontana da quella del governo non poteva esserci. Poletti comunque non ha chiuso la porta a modifiche: «Ora inizia l’iter parlamentare, la manovra potrà cambiare a patto che i saldi restino invariati. Mandateci i vostri contributi e li esamineremo. Siamo aperti a valutarli». Quasi una provocazione per la leader Cgil: «Allora, se volete una mail, che siamo venuti a fare? Ci state dicendo che non avete intenzione di aprire alcuna contrattazione?». Esatto, nessuna trattativa. «Non so chi poteva pensare di uscire di qui con una manovra stravolta a due giorni dalla sua pubblicazione», è sbottato il sottosegretario Delrio. Del resto era stato questo il caveat che Renzi aveva consegnato a Padoan e agli altri prima dell’incontro: ascoltateli e basta, nessun impegno.
Camusso a parte, con gli altri leader confederali la distanza è stata meno grande. Anzi, su alcuni punti specifici — dai servizi sociali offerti dai patronati alla tassazione del Tfr — ai piani alti del governo sono disposti ad ammettere che «le questioni poste non sono prive di fondamento». È l’atteggiamento complessivo ad essere cambiato. Nessun ministro ha infatti abbassato la testa. Anche la “mite” Marianna Madia si è fatta sentire quando Barbagallo protestava per il fat- to che solo 800 mila lavoratori del pubblico impiego avessero beneficiato degli 80 euro. «Ottocentomila sono uno su quattro e avranno 960 euro netti all’anno: più di qualsiasi aumento contrattuale», gli ha fatto notare il ministro della P. A. A un altro che si lamentava per il blocco dei contratti, sempre Madia ha replicato: «Cottarelli prevedeva 80 mila esuberi e invece noi, nonostante la crisi, non licenziamo nessuno. Non mi sembra che lo Stato sia un cattivo datore di lavoro». Rispetto e ascolto, ma nessuna sudditanza. Questa la linea comune dettata da palazzo Chigi. Non era scontato dopo il successo della manifestazione di piazza San Giovanni, nel bene e nel male una grande prova di forza del sindacato. Eppure, anche su questo, Renzi non accetta di farsi condizionare. «Quei 200 mila che hanno sfilato in corteo — l’hanno sentito dire domenica — pensano già a un altro partito». Vale a dire, sono già un mondo che guarda oltre il Pd. Chi è sceso in piazza non vota già più dem, forse ha votato Tsipras alle ultime elezioni e forse voterà un nuovo partito guidato da Landini. In ogni caso Renzi ha deciso che non li inseguirà, come non insegue Camusso.

il Fatto 28.10.14
Il “posto fisso” resta la regola, la precarietà non porta lavoro
di Salvatore Cannavò

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Repubblica 28.10.14
Massimo Cacciari
Non c’è nulla di casuale, nulla di improvvisato, nell’attacco di Renzi al posto fisso e all’articolo 18
“Matteo abbatte i simboli della socialdemocrazia per sedurre il centrodestra con il Partito della Nazione”
“Il premier agita bandiere ideologiche e di fatto allontana le due anime del Pd. Una scissione? Non la teme e forse, sotto sotto, la desidera”
intervista di Sebastiano Messina


ROMA «Non c’è nulla di casuale, nulla di improvvisato, nell’attacco di Matteo Renzi al posto fisso e all’articolo 18. Lui sta abbattendo i simboli della sinistra socialdemocratica per penetrare nel centrodestra con il progetto del Partito della Nazione. E’ un piano lucidissimo». Non è per niente stupito, Massimo Cacciari, della durezza dello scontro che si è acceso nel Pd.
Professor Cacciari, non è la prima volta che un presidente del Consiglio di sinistra dice che è finita l’epoca del posto fisso (lo disse D’Alema 15 anni fa). Eppure stavolta sembra diventato lo spartiacque tra le due anime del Pd, quella che si è radunata alla Leopolda e quella che è scesa in piazza con la Cgil. Perché?
«A volte il tono è tutto. Mentre gli altri dicevano queste cose con un tono di analisi, anche spietata, Renzi mi presenta un destino come se fosse un suo successo personale: ah che bello, finalmente è finita l’epoca del posto a tempo indeterminato! Ma come si fa a non comprendere il carico di ansia, di frustrazioni che una situazione di questo genere può determinare? Un politico non può fermarsi all’analisi: deve dirmi quali sono i rimedi. Deve dirmi quali ammortizzatori sociali ha previsto, e quali garanzie avranno i lavoratori senza più posto fisso per la loro pensione».
Il segretario del Partito democratico, dice lei, non dovrebbe parlare così.
«Neanche il più feroce dei conservatori ha mai presentato queste trasformazioni sociali che possono generare ansie ed angosce come se fossero delle pensate geniali».
Il vero centro della polemica sembra però l’abolizione dell’articolo 18. Difenderlo oggi, ha detto Renzi, è come cercare di mettere il gettone nell’Iphone. E’ così?
«Ma è evidente che l’abolizione dell’articolo 18 è una bandiera ideologica, una banderuola rossa che Renzi sventola sotto il naso dei suoi oppositori e dei suoi sostenitori. L’ha detto lui stesso».
E perché, secondo lei, ha scelto questo tema, in questo momento e in questo modo?
«Perché è il tema che gli dà più spazio nel costruire il Partito della Nazione. E’ un tema ideologico molto forte, che gli permette di penetrare nell’ambito dell’elettorato di centrodestra. E l’articolo 18 è una formidabile arma ideologica per costruire questo consenso trasversale, infinitamente al di là dei confini tradizionali del centrosinistra. Siamo di fronte a un politico puro, e di razza secondo me. Il suo è un calcolo tutto politico, non c’entra nulla il ragionamento economico».
Ma il partito della Leopolda e quello di piazza San Giovanni possono convivere?
«Queste due anime sono sempre meno avvicinabili, ma Renzi il problema di tenerle insieme non se lo pone neanche. Lui pensa: se io do l’impressione di entrare in un gioco di compromessi e di mediazioni tra personaggi che la pubblica opinione ritiene assolutamente sorpassati, io divento uno di loro, e perdo».
Ormai il tema della scissione è sul tavolo. Non la temo, dice Renzi. Sarà inevitabile, secondo lei?
«Io credo che lui non solo non la tema ma sia sul punto di desiderarla. Fino a qualche tempo fa no, ma ora forse comincia a pensare che la scissione gli convenga».
Cioè crede che tagliare le radici, e perdere un pezzo del partito, gli porti più voti?
«Se c’è una scissione, è chiaro che senza i Bersani e i D’Alema eccetera non potrà mai rifare il 41 per cento. Ma il taglio delle radici potrebbe convenirgli, per realizzare il suo progetto. E forse avrà fatto questo ragionamento: se escono da qui, cosa fanno? Si rimettono con Vendola? Fanno un’altra Rifondazione? Se ci fosse qualcuno che ha un’idea oltre Renzi, beh allora francamente sarei il primo io a iscrivermi al partito di questo qualcuno. Ma qui hanno tutti facce, e idee, pre Renzi. Eccetto Civati. Se togli lui, gli altri sono i reduci, come li chiama Renzi. Hanno fatto il Partito democratico senza uno straccio di idea nuova: l’unico che ce l’aveva era Veltroni, che infatti oggi appoggia Renzi. A parte Veltroni, conservatorismo puro, su tutto: dalle riforme istituzionali al lavoro. Cosa vuole che possano combinare, se escono dal Pd? Niente. Il vero problema è: ma a noi piace, il Partito della Nazione?».
Già. A lei, per esempio, piace?
«Mi piace? Ma io lo detesto! E’ una boutade populistica per arraffare voti e conquistare un’egemonia attorno alla figura di un leader. Ogni decisione favorisce una parte e sfavorisce un’altra. Perciò sono nati i partiti politici, nella democrazia. Partiti: da “parte”. Un Partito della Nazione è una contraddizione logica. Da analfabeti della politica. Ma questo non inficia minimamente la strategia di Renzi e la sua coerenza. Lui oggi si fa un partito suo e se lo fa grosso, rappresentativo, tendenzialmente egemone, chiamandolo Partito della Nazione. Approfittando dello sfascio della tradizione socialdemocratica e cattolico-democratica e anche dello sfascio del berlusconismo. E’ un’occasione unica, irripetibile. E lui la sta cogliendo».

il Fatto 28.10.14
Sfida continua
Il premier: “Fiducia? Guai a chi sgarra nel Pd”
di Wanda Marra

Non mi interessa parlare di potere di veto, ma di potere di voto”.
Matteo Renzi si presenta a Otto e Mezzo, per il rientro di Lilli Gruber, con il tono ecumenico di chi ha passato 24 ore ad avvertire, asfaltare, minacciare, sfidare sindacati e minoranze interne. E pensa di aver già vinto. A proposito della minoranza dem, si produce in una negazione, che in realtà è un’affermazione: “Non credo che siano animati dallo spirito di vendetta.”. Però, ribadisce: “Non credo alla scissione”. Anche se, certo, “servono regole che agevolino lo sforzo di ascoltarsi”. Come dire: se esagerano, la scissione la guida lui. Quali regole? Lunedì scorso alla direzione del Pd, il premier aveva detto: “Io immagino libertà di coscienza non solo su materie eticamente sensibili, ma anche sulle riforme costituzionali. Ma dobbiamo darci regole sui voti di fiducia e decidere qual è il punto dove una comunità sta o no sta”. Non votare la fiducia è esattamente quello che nella minoranza dem minacciano.
Il giorno dopo la Leopolda, il lunedì dopo la piazza, il Pd protesta, attacca, affonda. Ma in realtà sembra confermare quello che dice il premier: la voglia di scissione ci sarà pure, la forza per farla no. Fassina annuncia il no alla fiducia sul jobs act e accusa Renzi di “cercare sistematicamente un incidente per giustificare le elezioni anticipate”. Stessa posizione di Pippo Civati. Mentre Cuperlo gli attribuisce la colpa di un’eventuale scissione.
L’aggregazione a sinistra resta un traguardo lontano. La minoranza pensare a strutturare la propria area, un po’ come fu l’Associazione “Red” D’Alema.
Il logoramento reciproco durerà ancora un po’. Con il premier deciso a non concedere nulla alla parte dissidente del suo partito e quella pronta a creargli problemi su tutto, dalla legge di stabilità al lavoro, passando per la legge elettorale.
Il premier comunque chiarisce, a proposito di elezioni: “Voglio cambiare il paese, non il Parlamento”. Anche se poi la stima che ha di quest’istituzione l’ha rivelata Maria Elena Boschi l’altra sera a Che tempo che fa “Tra il dire e il fare c’è di mezzo il Parlamento”.
A PROPOSITO di rottamazione, il presidente del Consiglio si prepara a mandare ufficialmente in soffitta la candidatura di Luciano Violante. Gli ha detto in diretta tv che è solo un ripiego: “Se ci sono le condizioni politiche per un altro nome, per superare il blocco, si superano i candidati”. La prossima votazione per la Consulta dovrebbe essere giovedì. Si cercano due nomi di tecnici. Donne. Ieri Renzi si è rivolto esplicitamente alla “parte più seria di Grillo”, offrendo la trattativa su Consulta e legge elettorale. Passaggio su Grillo: “Le sue parole sulla mafia sono "inqualificabili" e "mettere la parola mafia e la parola morale nella stessa frase è da fuori di testa". Se riuscisse a portarli alcuni grillini dalla sua parte, otterrebbe due risultati: la spaccatura del Movimento Cinque Stelle e la maggior libertà nei confronti di Forza Italia. il segretario dem immagina èFa tutto parte di una visione futura, con due grandi partiti, “tra i quali gli elettori possono scegliere anche passando dall’uno all’altro”. Ieri ancora una volta ha difeso a spada tratta il Patto del Nazareno: “Un atto parlamentare sulle riforme costituzionali e sulla legge elettorale”. Forzatura evidente. Ma su questo il presidente del Consiglio non dice una parola in più.
PER IL RESTO, domani è il giorno della sostituzione di Federica Mogherini agli Esteri. Renzi è abituato a fare tutto da solo e tutto all’ultimo minuto. Sembrano in ribasso le quotazioni di Marina Sereni e anche quelle di Lia Quartapelle, giovane deputata che piace molto al premier, ma che non ha l’esperienza che stavolta il Colle ritiene requisito essenziale. Come essere una donna. E allora, potrebbe toccare al direttore generale per le risorse umane della Farnesina Elisabetta Belloni. Ancora in corsa il vice Ministro Lapo Pistelli. Che però ha lo svantaggio di essere un uomo.

il Fatto 28.10.14
Sulla via del Pd
La sinistra Migliore dei convertiti
di Sandra Amurri


Matteo Renzi: “Il Pd è un partito a vocazione maggioritaria, inclusivo, aperto a sinistra e a destra”. Come resistere a un tale richiamo?, deve aver pensato l'ex capogruppo alla Camera di Sel, Gennaro Migliore.
Lasciato il partito di Nichi Vendola a giugno scorso per aderire, assieme ad altri dieci parlamentari a Led, che non sta per lampade a risparmio energetico bensì per Libertà e Diritti, eccolo immortalato con la tessera Pd al Circolo di Trastevere, Roma. Seguito da tutti i fuoriusciti da Sel a eccezione di Claudio Fava, Michele Ragosta, Fabio Lavagno, Alessandro Zan e Nazareno Pilozzi. Ferdinando Aiello, Titti Di Salvo, l'ex tesoriere Sergio Boccadutri che ha lasciato Rifondazione comunista con Vendola per fondare Sel e che di Renzi twittava: “è contro la trasparenza... Renzi si scaglia contro le larghe intese, o dice basta governo Letta oppure la smetta di prenderci in giro”.
GENNARO MIGLIORE è lo stesso che definiva Renzi “un liberista fuori tempo. La retorica della rottamazione, parola densa di cupi significati, che allude a ferrivecchi e sfasciacarrozze, a modelli nuovi e venditori brillanti, è valida solo per chiamare con altro nome una squallida lotta per il potere”. E ancora “Renzi è entrato nel Pd dopo una carriera da seminarista della politica e poi si è presentato con le corone d'aglio e gli amuleti raccontando che bisognava scacciare dal partito i vecchi cardinali”. Uno che “chiama in soccorso l'immaginetta di Tony Blair che è stato il simbolo del cinismo al potere, dell'irrilevanza sistematica della buona fede”.
Chissà se nell'ascoltare il finanziere Davide Serra annunciare alla Leopolda il tesseramento al Pd mentre tuonava contro il diritto di sciopero ha avuto un sussulto di memoria ripensando al Gennaro Migliore prima maniera che definiva la finanza “onnivora” contro “l'economia reale”. E spiegava: “Non tifo Renzi, anzi, è il candidato Pd più lontano dalla mia cultura politica”. Al suo esordio alla Leopolda 5 dal palco ha detto: “Qui ho trovato la parola benvenuto”. Perdendo la parola “coerenza”.
L'ALTRA NEW ENTRY nel Pd della Leopolda, l'ex capogruppo di Scelta Civica, Andrea Romano, ha citato “Penso Positivo di Jovannotti: ”da Che Guevara a Madre Teresa, beh, lui, (sottinteso Migliore) potrebbe essere Che Guevara e io Madre Teresa”. Forte delusione per chi si aspettava di vedere proiettate in contemporanea le immagini del Che e di Madre Teresa che si rivoltavano nella tomba.
Sicuramente a qualcuno, a proposito di una sempre più accreditata candidatura di Migliore a sindaco di Napoli, sarà tornata in mente l'opera di Karl Marx Miseria della Filosofia: “Venne infine il tempo in cui ciò che gli uomini avevano considerato inalienabile divenne oggetto di scambio di traffico... il tempo in cui quelle stesse cose che sino ad allora erano state cimentate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate-virtù, amore, opinione, scienza, coscienza ecc.. tutto divenne commercio. È il tempo della venialità universale in cui ogni realtà morale e fisica divenuta valore venale viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore”.
STA DI FATTO che con l'ingresso di due “compagni” di tale stoffa come Gennaro Migliore (“Mi sono iscritto a un partito della sinistra moderna. Le opinioni diverse non mi preoccupano, e il gioco del ‘con chi stai’ è da partiti ideologizzati. Per me il Pd è oggi l’unico di una sinistra di governo capace di far vivere le nostre idee”) e Sergio Boccadutri d’ora in poi dubitare della matrice di sinistra del Pd renziano, sarà vietato a meno che, davvero non si appartenga a quei rapaci notturni della famiglia degli Strigidi, chiamasi: gufi.

il Fatto 28.10.14
Sport nazionali. Questi “fasisti”
La Storia val bene una fase (paracula)
L’ex Sel Migliore: “In questa ‘fase’ delicata, giusto essere alla Leopolda”
Difficile ammettere di essere saliti sul carro del vincitore
di Daniela Ranieri

Se è vero che il diavolo si nasconde nei dettagli, vale la pena dare un’occhiata alla frase con cui Gennaro Migliore, ex Rifondazione e ex Sel, ha motivato la scelta di disertare la manifestazione della Cgil per andare alla Leopolda: “Io in quella piazza ci potrei stare, è possibile che ci stia prossimamente. In questa fase così delicata di transizione, di passaggio, era giusto essere qui alla Leopolda”.
Capito? Lui nemmeno ci voleva andare, fosse stato per lui sarebbe andato in piazza, dove peraltro può benissimo andare un altro giorno, ma “questa fase” gli ha imposto di andare alla festa di Matteo. Del resto, le transizioni sono spesso delicate e dolorose, come spiegò Daniele Luttazzi illustrando le tre fasi dell’ultimo ventennio: pressione; accesso doloroso; sottomissione volontaria, culmine di ogni manovra di sfondamento. E se B. ci ha fatto provare le gioie della rinuncia a ogni resistenza, ora è Renzi, col suo governo 2.0, a introdurci nella quarta fase, e viceversa a introdurre la quarta fase in noi: quella della complicità. Migliore ha solo capito che la fase impone di assecondare l’introduzione con solerzia, scattando selfie.
Versione 2.0 dello Zeitgeist, la fase ha la Storia dalla sua parte. Migliore, come Hegel alla finestra, ha visto passare Matteo in Smart e ha rinvenuto in lui lo spirito del mondo. Fa niente se c’è stata anche una fase, nel 2012, in cui pensava dunque twittava che su mafia e sud “Renzi rimane agli stereotipi protoleghisti”, e “conciona su futuro e genericità assortite”. Quella era una fase necessaria al precisarsi dell’obiettivo. Già a giugno, uscendo da Sel, fasizzava: “Chi non ha capito che questa è una fase in cui il governo non può essere una sorta di anatema e che bisogna confrontarsi laicamente, commette un gravissimo errore”, e “la fase di trasformazione va affrontata con la capacità di starci dentro per dare un contributo”. L’inquestafasismo non l’ha certo inventato Migliore. La storia della Repubblica parte con Togliatti che arretra sull’art. 7 in nome della “pace religiosa”, e prosegue con Berlinguer che motiva il compromesso storico con la fase determinata dal golpe cileno. Ma dal Migliore a Migliore la parabola è stata ri pida, disseminata di un’infiorata di fasisti, frattaglie parlamentari che mettendosi di traverso o di dritto hanno affossato governi o sostenuto accrocchi, dandoci a intendere che dietro il loro funambolismo ci fosse un disegno, la coscienza di un telos, di un obiettivo messianico di inesorabile progresso.
E se alle fasi di quella masnada del Pdl siamo abituati (d’altronde, la loro reputazione consiste nel non averne), il fasismo di centro-sinistra (dove il trattino è a sua volta una fase) è stato qualcosa di più sottile dell’opportunismo da due lire, si fa per dire, dei De Gregorio, Scilipoti, Razzi.
D’Alema ha usato le fasi per sdoganare tatticismi e crostate, insieme alla tagliola logica del benaltrismo che scalza le priorità a favore di una classifica più conveniente. Tre anni fa ancora diceva: “La riforma della Giustizia non è fra le priorità del Paese in questa fase, che sono disoccupazione e Mezzogiorno”.
E al capezzale del governo Prodi, spingendo sulla “vocazione maggioritaria” Veltroni cercava l’intonazione: “Penso che, soprattutto in questa fase, l'Italia abbia bisogno di un tono di voce volto a costruire e non a distruggere, a dialogare e non a litigare”. Il tono di voce era sbagliato: quello giusto lo ha trovato Renzi, portandoci nella fase del Patto del Na zareno.
OGGI I FIGLI minori della politica scimmiottano una lungimiranza da statisti per andare alla festa del mejo fico del bigoncio, rifilando l’inquestafasismo paraculo a chi li vota(va) invece di ammettere di essere volati in soccorso del vincitore. Lo sanno bene Fassino, Moretti, Orlando, Franceschini, Picierno: i primi sono i primi e la Storia dimentica i vinti. La fase risucchia ogni remora e incoraggia un bullismo da scuola media (Ah-ah! Pier Luigi ha preso il 25%! Rosy
non sa usare l’iPhone!); del resto è iniziata con un do loroso passaggio ai danni di Letta, a opera di uno che ora governa con voti non suoi. Renzi ha sfondato il cavallo di Troia da cui voleva muovere all’assalto del partito e del potere (degli altri) e col legno ci ha fatto le assi della Leopolda.
A CALCARLE, oltre a Migliore, la meglio gioventù mischiata al capitalismo più smart e a una neo-classe politica la cui ideologia di ri ferimento è la filosofia Apple, prototipo della start-up che diventa padrona del lavoro e delle sinapsi del mondo. Gente che ha capito che il posto fisso, il proprio, in questa fase non si tutela andando in piazza a reclamarlo con Landini e Camusso, ma proprio alla Leopolda, da dove Renzi ci sputa sopra in nome del futuro.

il Fatto 28.10.14
Lotta di classe. Allergie
Intellettuali dei suoi stivali: Matteo come Craxi
di Antonello Caporale



A Matteo Renzi non piacciono i pensierosi, i lumaconi, i logorroici, i patiti dell'inchiostro. È il dubbio il suo vero nemico. Potesse, lo farebbe a fette come usa con la finocchiona. Pane e salame e gnam! “Gli intellettuali sono come quei pensionati che stanno lì a osservare il cantiere appena aperto e a mugugnare: non ce la si fa”. “Intellettuali dei miei stivali!” imprecò Bettino Craxi e fu il timbro della sua marcia, il valore della rottura, il segno che i tempi erano definitivamente cambiati. Due giorni fa Matteo ha ritwittato. Tale e quale. Tolto Baricco, che ha ritmo nelle vene, e forse La Pira nel Pantheon restano Eataly e le Officine bresciane. Il fare, fare bene e fare presto. Da Farinetti mangi tutta la pasta che vuoi, come la vuoi, seduto in poltrona o sul trespolo, con la spesa arrotolata tra le mani o in tailleur elegante. Di Brescia anche Fabio Volo, che fa il dj e lo scrittore, intanto due lavori e non uno solo, ed è allegro, divertente, con una prosa fluida, piena di metafore, come piace al tempo che piace a noi tutti. Pif già un po’ meno, con la mafia è divenuto più crepuscolare.
Matteo è ipercinetico, quindi è nella sua natura sviluppare col movimento un pensiero un po’ random. Potrebbe mai Gustavo Zagrebelsky coordinare un tavolo della Leopolda sulla Cstituzione? Sai che noia. I tavoli sono circolari e chiassosi, creativi, pieni di energia. E sono pieni di cose da fare e da dire tutti insieme. La discussione è serrata, i tempi degli interventi definiti, i documenti finali asciutti e colorati. E mentre loro parlano e decidono è tutto un circolare, un flusso enorme che dà vigore alla fatica breve della creazione. Semmai poi si vede com’è venuta. Renzi è certo che se avesse dato ascolto ai professoroni la riforma costituzionale sarebbe ancora alla pagina uno.
Invece lui disse: per l'8 agosto voglio che il Senato chiuda in prima lettura il testo. L'8 agosto, non il 9 e nemmeno il 10. E così è stato. Proprio così. Leggere adesso cosa c'è scritto è spigolare, cavillare, rincretinirsi sui dettagli e perdere di vista l’obiettivo: fare. Fare, con la maiuscola. Esiste la legge del Fare e si chiama lo Sblocca Italia. In quel decreto sono rimosse tutte le attitudini alle lungaggini, i sentieri storti delle ostruzioni, le bagattelle tra paesaggisti, storici dell'arte, archeologi e sovrintendenti. Già la parola “Sovrintendente” gli dà noia: “È una cosa ottocentesca”. I sovrintendenti sono anche permalosi. Far guidare a Salvatore Settis il tavolo del Paesaggio sarebbe come darsi una mazzata sui piedi. Qui non è solo e non è tanto questione di gufaggine (e magari il professore porta anche iella di suo) è proprio il modo di vedere il mondo, vederlo crescere anche in senso quantistico. Fare un’autostrada per esempio. E farla veloce, approvarla e vederla costruita senza tante storie.
RENZI è contrario al tempo che scorre. Lui l’anticipa sempre. “Il futuro è solo l'inizio” ha fatto scrivere come slogan. Cosa vuol dire? Intanto suona bene, chiama tutti alla corsa, a stare davanti e non indietro, a creare e non a distruggere. I pensierosi distruggono. Alla Leopolda c'era infatti solo chi “crea lavoro”. Quindi gli imprenditori. Agli operai ha concesso una saletta riservata e mezz'ora di colloquio. Loro perdono il lavoro. Chi crea il lavoro? Chi ha i soldi, elementare Watson. Tra Davide Serra e Giacomo Leopardi predilige di gran lunga il primo, altro che giovane favoloso il poeta di Recanati. Matteo è contro l'immateriale, il metafisico. Odia la paura (e i paurosi) i pessimisti, i cavillosi. Figurarsi i filologi. “A me sembra Plafagone, il servo che ottenuto il comando spadroneggia in casa”, lo disprezzò un giorno Luciano Canfora, un altro dei professoroni (al proposito la meravigliosa confidenza della ministra Boschi a Zagrebelsky: “Abbiamo usato quella parola per ragioni mediatiche”).
Renzi è un concretista che deve salvare l'Italia, farla rinascere e soprattutto farla contare nel mondo. E questo in breve tempo. Perciò una riforma al mese disse a gennaio, e al massimo nei cento giorni, garantì a giugno. A luglio, passo dopo passo, i giorni si son fatti mille. Alla stazione Leopolda ha aggiustato il tiro: tirerà la carretta solo fino al 2023. Al massimo, s'intende. Matteo, come vedete, si mangia il tempo. Lo rincorre, lo azzanna, e infine lo schianta.

La Stampa 28.10.14
Intellettuali
Un bersaglio sbagliato
di Gian Enrico Rusconi


«Sono come pensionati davanti ad un cantiere, che guardano e dicono “Non ce la faranno mai”».
E’ l’ultima invettiva di Renzi contro gli intellettuali.
Come pensionato-intellettuale (del genere «professore di scienze sociali») che ha assistito anche al delinearsi all’università del nuovo tipo di giovane-politico di stile renziano, dovrei sentirmi offeso da questo attacco indiscriminato. In realtà semplicemente non riconosco più il tipo strafottente eppur diligente, ironico ma sensibile che sembrava emergere.
Ma forse Renzi ce l’ha con alcuni intellettuali-di-partito che frequentano gli ambienti da dove per altro proviene lui stesso. Non sembra vederne altri di intellettuali con la loro diversità e specificità. Il mestiere dell’intellettuale è quello di osservare, analizzare, studiare, tracciare scenari e ipotesi e calcolare le chance di successo delle iniziative in atto. Del resto tutta la quantità e la qualità di informazioni e di stimoli di cui vanno fieri i renziani non provengono forse da lavori e analisi di intellettuali-studiosi, magari nel frattempo disconosciuti?
Nella primavera scorsa, nella fase del «primo Renzi di governo», proprio su questo giornale, ho criticato alcuni amici intellettuali di primissimo piano, che non si limitavano a prevedere il fallimento dell’esperimento renziano, ma vi vedevano seri pericoli per la democrazia. Il loro mi sembrava un fraintendimento.
Il renzismo infatti è la culminazione di processi, da tempo individuati, che definiscono i nuovi tratti della democrazia – ci piaccia o no – ma non certificano la sua fine. Anche se viene spontaneo percepire questi tratti in termini svalutativi: dissoluzione dei contenuti ideologici, iperpersonalizzazione della politica, eccesso di carisma, inarrestabilità della «democrazia mediatica». Questa è la sfida per la nostra democrazia, non la sua fine. Ed è una sfida – anche di carattere scientifico – per molti intellettuali-studiosi.
Su questo sfondo il renzismo può apparire (ancora) una promessa o quanto meno una scommessa da affrontare. Non sono quindi (ancora) pentito di quanto ho scritto mesi fa, perché già in quel contesto Renzi veniva definito realisticamente «un grande dilettante di cui vediamo tutti i limiti». La sua aggressività e il suo anti-intellettualismo potevano essere letti come iper-reazione al fallimento di una politica di professionisti avallata anche da intellettuali.
Sono passati pochi mesi da quella congiuntura. Sappiamo quanto ossessiva sia la tempistica nell’immaginario renziano. Adesso l’anti-intellettualismo rischia di cambiare di segno. Rischia di diventare insofferente autosufficienza alla critica anche quando questa contiene la disponibilità a collaborare all’impresa. Se tale disponibilità non è né richiesta né gradita, mi dispiace per il renzismo che perde risorse ed energie. L’intellettuale serio continuerà a fare il suo lavoro (anche in pensione) perché serve innanzitutto il cantiere-Paese o la nazione, come si dice adesso.
«Sono come pensionati davanti ad un cantiere, che guardano e dicono “Non ce la faranno mai”».
E’ l’ultima invettiva di Renzi contro gli intellettuali.
Come pensionato-intellettuale (del genere «professore di scienze sociali») che ha assistito anche al delinearsi all’università del nuovo tipo di giovane-politico di stile renziano, dovrei sentirmi offeso da questo attacco indiscriminato. In realtà semplicemente non riconosco più il tipo strafottente eppur diligente, ironico ma sensibile che sembrava emergere.
Ma forse Renzi ce l’ha con alcuni intellettuali-di-partito che frequentano gli ambienti da dove per altro proviene lui stesso. Non sembra vederne altri di intellettuali con la loro diversità e specificità. Il mestiere dell’intellettuale è quello di osservare, analizzare, studiare, tracciare scenari e ipotesi e calcolare le chance di successo delle iniziative in atto. Del resto tutta la quantità e la qualità di informazioni e di stimoli di cui vanno fieri i renziani non provengono forse da lavori e analisi di intellettuali-studiosi, magari nel frattempo disconosciuti?
Nella primavera scorsa, nella fase del «primo Renzi di governo», proprio su questo giornale, ho criticato alcuni amici intellettuali di primissimo piano, che non si limitavano a prevedere il fallimento dell’esperimento renziano, ma vi vedevano seri pericoli per la democrazia. Il loro mi sembrava un fraintendimento.
Il renzismo infatti è la culminazione di processi, da tempo individuati, che definiscono i nuovi tratti della democrazia – ci piaccia o no – ma non certificano la sua fine. Anche se viene spontaneo percepire questi tratti in termini svalutativi: dissoluzione dei contenuti ideologici, iperpersonalizzazione della politica, eccesso di carisma, inarrestabilità della «democrazia mediatica». Questa è la sfida per la nostra democrazia, non la sua fine. Ed è una sfida – anche di carattere scientifico – per molti intellettuali-studiosi.
Su questo sfondo il renzismo può apparire (ancora) una promessa o quanto meno una scommessa da affrontare. Non sono quindi (ancora) pentito di quanto ho scritto mesi fa, perché già in quel contesto Renzi veniva definito realisticamente «un grande dilettante di cui vediamo tutti i limiti». La sua aggressività e il suo anti-intellettualismo potevano essere letti come iper-reazione al fallimento di una politica di professionisti avallata anche da intellettuali.
Sono passati pochi mesi da quella congiuntura. Sappiamo quanto ossessiva sia la tempistica nell’immaginario renziano. Adesso l’anti-intellettualismo

Repubblica 28.10.14
Renzi esclude la scissione
Ma la sinistra Pd lo attacca “Cerca lo scontro per votare”
Fassina: “Voglio risposte, non battute”. Boschi: “Bindi astiosa”
Consulta, possibile un incontro con i 5Stelle
di Tommaso Ciriaco


ROMA Promette «rispetto per chi la pensa diversamente», ma giura che non sarà la minoranza del Pd a frenarlo: «Non credo alla scissione - assicura Matteo Renzi - sarebbe il colmo. Al governo ascoltiamo tutti, ma non ci faremo fermare da nessuno». Ospite di “Otto e mezzo”, il premier prosegue insomma nella battaglia ingaggiata con la sinistra dem. Senza arretrare dal sentiero intrapreso: «Per anni la politica è stata ferma. Adesso basta».
L’affondo contro l’opposizione interna arriva al termine di una giornata tesa. L’ennesima, in queste ultime settimane. Non è tanto il modo in cui il ministro Maria Elena Boschi liquida Rosy Bindi ad allarmare: «Ha spesso astio verso di noi, ma con questo fa male a se stessa». Sono soprattutto le mosse della minoranza dem, pronta a mettere di nuovo nel mirino il premier. «Chi fa il segretario del Pd deve occuparsi del partito, non di riunioni di corrente - picchia duro Stefano Fassina, il giorno dopo la Leopolda - Voglio risposte precise, non battute. Renzi cerca sistematicamente lo scontro, un incidente per giustificare le elezioni. Il voto a primavera è un rischio reale». Nulla di vero, replica il premier: «Escludo il voto anticipato, in questo momento l'Italia non ha bisogno di un premier che prende voti, ma di un governo che cambia l'Italia. E se ci sarà bisogno di faticare un po’ di più perché in Parlamento qualcuno si mette contro, faremo un po’ più fatica».
Una cosa è certa, comunque: la sinistra del partito non intende togliere il disturbo. Neanche di fronte a uno strappo: «Senza modifiche non voterò la fiducia al Jobs act - assicura Fassina - ma non esco dal Pd». È la linea degli oppositori, come dimostra anche Cesare Damiano: «Voglio fare la mia battaglia all'interno del partito, non formare un piccolo partito di estrema sinistra». Nel mezzo, intanto, si coagula un’area cuscinetto, con l’idea di allontanare l’incubo di uno scontro frontale. «Se dovessi scoprire che la Leopolda è alternativa alla piazza della Cgil - sostiene Michele Emiliano - non potrei più stare nel Pd». E anche i Giovani democratici cercano una terza via: «C’è bisogno di una Leopolda del Pd».
In attesa del duello in Parlamento, Renzi ostenta serenità. La piazza della Cgil, è la sua analisi, non sarà incubatrice di un nuovo progetto politico. «A San Giovanni c’era una parte che immagina un raggruppamento di sinistra radicale. Ma c’è già qualcosa alla nostra sinistra: ha preso il 4,3%, mentre il Pd il 40%...». Non è Maurizio Landini, comunque, il “sospettato”: «Ha idee diverse dalle mie, ma mi piace dialogare con lui».
Alle Camere, nel frattempo, la maggioranza è attesa da alcuni passaggi cruciali. A partire dall’elezione dei giudici costituzionali, già fallita diciannove volte: «Se dovessero crearsi le condizioni per uno sblocco, mi piacerebbero candidature femminili», rilancia Renzi, archiviando definitivamente la candidatura di Luciano Violante: «È il primo a rendersene conto. È un servo, un servitore - dice correggendosi - delle istituzioni». Per raggiungere la meta, Renzi apre nuovamente al dialogo con i grillini: «Spero che nelle prossime ore possa esserci un incontro con loro». Stavolta, però, a livello dei capigruppo. Lo stesso spirito di collaborazione auspica anche sulla legge elettorale. Con «la parte più seria del Movimento», come pure con Silvio Berlusconi: «C’è chi vede i fantasmi, per me il patto del Nazareno è un accordo doveroso». L’obiettivo è un «sistema bipartitico, senza le storture del modello Usa».

Corriere 28.10.14
Riunioni e nervi tesi nella minoranza pd
Ma si cerca un compromesso sul Jobs act
Fassina: senza modifiche niente fiducia. Cuperlo: mi batterò fino all’ultimo
di Monica Guerzoni


ROMA Nel Pd spaccato tra piazza e Leopolda la tensione è tale che, per qualche ora, una riunione «segreta» ha fatto impennare le quotazioni della scissione. I leader della minoranza si sono visti (a porte chiuse) ieri pomeriggio nelle stanze del Nens e con i padroni di casa, Bersani e Visco, c’erano Cuperlo, Fassina, D’Attorre, Gualtieri... All’uscita hanno trovato ad attenderli giornalisti e telecamere e Chiara Geloni, che ha organizzato il «summit» assieme a Claudio Sardo, ci ride su: «I tiggì devono aver pensato che fosse in corso un vertice per la scissione...». E invece? «Era solo un incontro accademico, per preparare il secondo numero della rivista online Idee Controluce».
Ma tra minoranza e renziani i toni restano alti e gli umori pessimi. La spaccatura è profonda, tanto che Lorenzo Guerini cerca di riconciliare le parti affermando che «la scissione non ha cittadinanza nel Pd». In effetti anche i più duri a sinistra lavorano per costruire, da dentro, l’alternativa a Renzi. «Cerca l’incidente perché vuole andare a votare», è il sospetto di Fassina. E D’Attorre apre un nuovo fronte sostenendo che il segretario, in caso di voto anticipato, «dovrà passare per le primarie».
Ma adesso il passaggio stretto è il Jobs act e a rischiare di più, visti i numeri a Montecitorio, è proprio l’ala sinistra. Renzi non vuole cambiare di una virgola la delega e la minoranza deve fare i conti con gli umori di San Giovanni. «La gente in piazza ci voleva menare!», ricorda preoccupato Pippo Civati. Fassina è netto: «Senza correzioni significative, non voto la delega e non partecipo alla fiducia». Già, perché alla Camera il voto è in due fasi, il che consentirà ai dissidenti di modulare lo strappo. D’Attorre ritiene le norme di Renzi sul lavoro «estranee al programma e al dna del Pd» e conferma che, se il testo non cambia, le condizioni per il sì non ci sono: «La fiducia? Non mi presenterò al momento del voto». Poi lascerà il Pd? «Nessuno pensi di usare un voto difforme per costringere qualcuno ad andarsene».
La minoranza ha capito che, se non vuole soccombere ancora, dovrà coordinare le mosse. «Renzi non può buttarci fuori in 40 e far cadere il governo», spinge per la linea dura Civati e lancia appelli a unire le forze, sperando che ci stia anche Bersani. L’obiettivo è cambiare il Jobs Act per scongiurare la rottura e il punto debole che i dissidenti hanno individuato è la presunta incostituzionalità. Rosy Bindi è tra coloro che meditano di «farsi una passeggiata» al momento della fiducia, per poi votare contro la delega: «È in bianco e quindi è incostituzionale. Sull’articolo 18 il merito non è accettabile. Così com’è, non lo voto». Peccato, sospira la ex ministra, perché se Renzi fosse «più accogliente» molti ammorbidirebbero le posizioni: «Invece sta mostrando una chiusura violenta».
Damiano ritiene «impensabile ratificare il voto del Senato» e poiché sa che un mancato accordo provocherebbe «un disastro», ha raddoppiato gli sforzi di mediazione: «Potrò vincere, potrò perdere... Poi ovviamente prenderò le mie decisioni». L’accordo per cui la sinistra spinge è introdurre nella delega le concessioni avanzate da Renzi in direzione e mai raccolte nel testo del Senato. Per Boccia è «il compromesso minimo» e se quelle decisioni non saranno tradotte in norme «si aprirà un problema politico grande come una casa». Cuperlo spera che la partita sia ancora aperta: «Mi batterò per cambiare il testo, fino all’ultimo». Stessa linea per Barbara Pollastrini, che ricorda a Renzi come l’Italia «ha bisogno di unità e non di lacerazioni». I dissidenti pregano che Renzi lo abbia capito: «Quando alza i toni è perché prepara l’intesa...».

Repubblica 28.10.14
Pd a rischio scissione, Fassina: "Renzi cerca la rottura ma io non voglio uscire"
All'indomani della Leopolda 5, il deputato della minoranza dem che sabato era in piazza con la Cgil contro la delega lavoro del governo dice: "Il premier non ha tentato di comprendere ma ha lanciato provocazioni"
E sul jobs act: "Se non cambia, non voto la fiducia"
di Michela Scacchioli

qui

Repubblica 28.10.14
Bersani boccia lo strappo: “La ditta non si molla”
di Giovanna Casadio

ROMA «Non molliamo il Pd, la “ditta” non si abbandona». Mentre soffiano i venti di scissione, questa è la parola d’ordine che Pierluigi Bersani va ripetendo a un partito lacerato. Una parte della sinistra dem si è incontrata già ieri pomeriggio al seminario a porte chiuse sull’euro organizzato dalla rivista online “Idee controluce”. C’erano Bersani, Gianni Cuperlo, Stefano Fassina. Ma solo stamani cominceranno colloqui e riunioni per immaginare le prossime mosse dopo lo scontro senza precedenti con Renzi nel week end in cui i Democratici si sono spaccati tra la Leopolda e la piazza Cgil. E in cui il premier ha accusato i vecchi “reduci” di frenare i “pionieri” e ha avviato una sua Bad Godesberg della sinistra italiana.
Ma il “dopo” della minoranza dem è tutto da costruire. Legge di stabilità, Jobs Act, riforma elettorale sono i banchi di prova. Allora, secondo Bersani, bisogna procedere passo dopo passo. È cauto l’ex segretario. Ma già Cuperlo lo è meno: «Ora non siamo più nella fase in cui conta solo l’unità della “ditta” - ha detto il leader della corrente Sin-dem ora dobbiamo essere in grado di rappresentare il mondo del lavoro e le sue richieste». La piazza di sabato insomma non può essere tradita. La sinistra dem, tutta la sinistra - non il solito Pippo Civati e pochi altri - non sembra intenzionata a rientrare nei ranghi e votare la fiducia sul Jobs act, se Renzi andasse avanti come un caterpillar eliminando quel «gettone telefonico in tempi di i-phone» che è, per lui, l’articolo 18. E non sopportano di essere additati come reduci. «Che il posto fisso fosse finito, noi lo abbiamo scoperto al tempo del telefono a gettoni appunto, e francamente il mio i-phone è meglio di quello di Renzi», si sfoga Miguel Gotor. «Ma quale vecchia guardia! Io ho 40 anni, D’Attorre 39...».
È il giorno della rabbia della minoranza; della «preoccupazione» - affermano - per il futuro del Pd di Renzi, non più “ditta” e non ancora Partito della Nazione. «Non molliamo no, nel partito ci stiamo e ci staremo fino all’ultimo, però il Pd non può diventare un luogo di consociativismo e di trasformismo, un contenitore di indifferenziata», dice sempre Gotor che accusa il renzismo di essere «una riverniciatura in stile Anni 80». Nega volontà di scissione la minoranza, ma ripudia un «Pd geneticamente modificato», non aderisce quindi al progetto politico di Renzi. E questa resta la vera e incolmabile distanza.
Il punto di caduta dello scontro tra la sinistra dem e Renzi saranno i voti in Parlamento. Fassina annuncia il suo “no” persino alla fiducia se Renzi deciderà di blindare i provvedimenti. Cuperlo avverte che non ci può essere una resa. «I segnali sono di chi cerca di inasprire lo scontro», è l’accusa al premier-segretario. Eppure - riflette Cuperlo - gli spazi per una mediazione ci sarebbero, a meno che «non si voglia proprio un passaggio simbolico e di rottura. Cambiare e innovare certo, ma da sinistra. Il problema è che la sinistra di cui parla Renzi fa la faccia dura con chi non ha nulla da perdere, con chi è in catene - tanto per usare un termine dell’epoca dei gettoni telefonici - ed è remissiva con i forti».
Ma nel Pd ci sono anche i “pon- tieri”. Cesare Damiano, il presidente della commissione Lavoro, assicura che la battaglia la farà all’interno del partito e intanto studia proposte di compromesso sul Jobs Act, convinto tuttavia che sia la legge di Stabilità il vero banco di prova, con gli stanziamenti per gli ammortizzatori sociali, indispensabili per la protezione di chi perde il lavoro. La sinistra di Landini, di cui tanto si parla dopo la piazza Cgil di sabato, non seduce la minoranza. Soltanto Civati non esclude un’uscita a sinistra: «Io non voglio farne di scissioni, però ci sono quattro cose su cui ci vuole un altro passo. Se la sinistra votasse il Jobs Act così com’è saremmo morti». Civati parlerà con Cuperlo, Fassina, Bersani convinto della necessità di condurre insieme l’offensiva. «Però se poi il cerino in mano resta a me, allora deciderò», precisa. Del resto la tattica di dividere la minoranza è stata quella adottata finora da Renzi, che ripete di voler andare avanti senza deflettere. Fa capire che alla scissione del partito non crede, che ciascuno è ben accolto nel Pd “allargato”, ma al tempo stesso assicura che «nessuno fermerà il governo».
Il braccio di ferro è in corso. Nico Stumpo, il capo dell’organizzazione del Pd ai tempi della segreteria Bersani, parla di «una grande, grande preoccupazione». Alfredo D’Attorre, altro bersaniano doc, sostiene che «qualcuno s’illude se pensa che ci sarà una scissione che agevolerà la mutazione genetica del Pd». Ma se non cambia nulla sul Jobs Act? «Molti di noi non lo voteranno, ma non per questo ce ne andremo. Nel Partito socialista francese 31 deputati non hanno votato la fiducia a Valls, non è che c’è stata una scissione». E c’è chi aspetta di sentire anche la voce di Enrico Letta, l’ex premier defenestrato da Renzi, che venerdì ha fatto a Trieste la sua prima uscita pubblica dopo mesi e mesi di silenzio.

Repubblica 28.10.14
La senatrice Pd ex sindacalista “Io triste tra piazza e Leopolda”
intervista di Cocetto Vecchio


ROMA «Sabato mattina alle ore sei mi metto in macchina, diretta alla Leopolda, e sulla corsia opposta, in viaggio verso Roma, ecco l’infinita sfilata dei torpedoni Cgil. Mi è presa una gran tristezza. Non sono riuscita nemmeno ad accendere la radio. C’ero io e il mio silenzio». Valeria Fedeli, vicepresidente Pd del Senato, da 34 anni ha in tasca la tessera della Cgil.
E come valuta l’incontro col governo. Dai ministri è arrivato un ceffone al sindacato?
«No, l’incontro è stato importante, è il segnale che non c’è nessuna rottura, ma una volontà di ascolto».
Ma la Camusso è inviperita per come è stata trattata da Renzi «Se lei la vive così, qualche ragione ce l’avrà. Ma mi chiedo: era un negoziato, quello di ieri? Non credo. Ciò detto, ora mi aspetto che il governo convochi le parti sociali, dia le risposte».
È giusto indire lo sciopero generale?
«Mamma mia, che domandona. ( Ci pensa). Se i sindacati sono insoddisfatti facciano legittimamente sentire le loro voci, ma lo facciano tutti insieme: ieri ho notato voci discordanti».
Perché lei non è andata in piazza?
«Vede, o si è di lotta o di governo. Avevo votato la fiducia al Jobs Act, sarebbe stato incoerente. Ma il mio cuore era lì. Ho passato notti insonni. Se me l’avessero detto quando Bersani e Letta mi proposero di entrare in Parlamento non ci avrei mai creduto».
Cosa ha pensato quando Renzi ha paragonato la Cgil a quelli che mettono il gettone nell’iPhone?
«Non mi è piaciuto per niente».
E quando ha attaccato gli intellettuali?
«L’ho trovato insopportabile. Io adoro l’intellettualità».
E Serra che chiede di limitare il diritto di sciopero?
«Ma uno così non c’entra niente con il Pd».
Ma è il finanziatore della Leopolda.
«Sì, ma il Pd non è una caserma, dove non esiste più l’autonomia di pensiero».
Ma lei è adesso non è renziana?
«Non sono renziana, né alla sua opposizione, sto nel Pd con la mia storia, e con la mia storia mi sono seduta al tavolo della Leopolda. Sono una che riconosce il suo segretario».
Ci sarà la scissione?
«Assolutamente no».
Ha visto Fassina allo zoo?
«Lo conosco da una vita. Dice sempre quel che pensa, ma non lo capisco quando annuncia che non voterà il Jobs Act. È un po’ facile dirlo, stando alla Camera».

Corriere 28.10.14
Purezza o riformismo le sinistre al bivio
Il governo Renzi pone di fronte a una scelta
di Francesco Piccolo


La sinistra italiana è a un bivio. Seguire per strade sconosciute Renzi e il suo gruppo nato e cresciuto alla Leopolda, oppure restare ancorata al vecchio gruppo che sa difendere tanti diritti fondamentali ma non sa pensare niente di innovativo?
La sinistra italiana degli ultimi venti, anzi trenta anni, è stata reazionaria e ha inseguito il mito della purezza, e cioè degli ideali da difendere senza nessuno sconto. Questi due elementi sono stati fondamentali per godere in modo masochistico del terzo, e cioè la propensione alla sconfitta. Soltanto con la sconfitta la purezza è difendibile, soltanto con la sconfitta non si mettono alla prova le idee e quindi si conservano intatte, come sotto i ghiacciai. Quindi, la sconfitta è stata salvifica per questo, ed è stato il punto di identificazione di varie generazioni.
Secondo questi canoni, Renzi non è di sinistra: cerca di applicare al suo governo i caratteri del riformismo e quindi è disposto a rinunciare alla purezza; con questo intento ha avuto risposte elettorali vincenti. Un inciso però va fatto: il riformismo progressista e in collaborazione con altre forze politiche è stata l’ultima grande strategia politica di questo Paese, e l’ha immaginata Berlinguer. Fanfani ne era il più fiero oppositore ed è grazie a lui che la sinistra è stata allontanata per decenni dalla governabilità del Paese; e poi, sia altrettanto chiaro, Berlinguer non avrebbe governato con chi è dalla parte opposta del Parlamento. Quindi anche i giovani della Leopolda fanno un po’ di confusione.
Per essere di sinistra bisognerebbe essere progressisti, bisognerebbe accogliere il presente e avere voglia di prendersi la responsabilità di guidare il Paese — e questo comporta sia cadere in errore sia collaborare con chi ci sta. Di conseguenza, per essere di sinistra, bisognerebbe non essere come è stata la sinistra negli ultimi 30 anni.
Ecco cosa sta succedendo alla sinistra italiana: c’è qualcuno, al suo interno (o meglio, al suo posto), che dimostra l’inconsistenza di ciò che era diventata. E allora cosa deve fare? Deve opporre resistenza al cambiamento un po’ troppo disinvolto e un po’ troppo guascone di Renzi? O deve seguirlo sopportando gli eccessi, e casomai contribuendo a spostare la barra verso la via migliore?
La questione è se imboccare davvero la strada del riformismo; e cioè fare e non invocare riforme. Perché le risposte nella pratica sono sempre negative? Com’è possibile che ogni proposta di riforma riesce ad acquietare la sinistra e l’intero Paese solo se alla fine non se ne fa nulla? (Ed è ovvio che non stiamo entrando nel merito di ognuna, adesso).
L’Italia ha una doppia anima reazionaria. È reazionaria perché è conservatrice: una larga parte del Paese non vuole cambiare nulla (non vuole nemmeno che tutto cambi affinché nulla cambi; non vuole cambiare e basta); ed è reazionaria perché è vittima, a sinistra, del sentimento di sconfitta dei rivoluzionari. La rivoluzione non c’è stata, o è stata persa. E tutti i reduci e i postumi della rivoluzione sono diventati reazionari: poiché il cambiamento non è stato radicale, ogni forma di cambiamento è insufficiente. È questa la frase che sentiamo sempre in questi mesi per le varie proposte: insufficiente. Sentiamo anche: peggiorativa, sia chiaro. E quando è peggiorativa, bene, se ne può discutere, si può combatterla; ma quando è insufficiente, bisognerebbe mettere in atto la vera rivoluzione in questo Paese: fare riforme insufficienti. Forse, il riformismo è esattamente questo: attuare una serie di riforme che riempiano man mano la distanza tra il punto di partenza e un punto di arrivo soddisfacente. In mezzo, c’è un cambiamento che avrà un cammino sempre meno insufficiente.
La sinistra italiana ha davanti queste due strade, e deve scegliere se ritornare nella sua riserva rassicurante o se partecipare in modo attivo e propositivo alla guida del Paese, in un governo che cammina con varie stampelle fornite da altri (almeno fino alle prossime elezioni). È vero, Renzi spaventa per la sua avventatezza; ma la sinistra reazionaria spaventa (da molto tempo) per la sua mancanza di idee.

Corriere 28.10.14
Aumentano i timori di una deriva elettorale
di Massimo Franco


Il centrodestra se ne sta alla finestra. E cerca di sottolineare le contraddizioni di un governo e di un Pd costretti a fare i conti con l’Unione Europea e con le tensioni all’interno della sinistra. La lettera spedita ieri dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan alla Commissione Ue cerca di illustrare dove Palazzo Chigi troverà i soldi per assecondare le richieste di correzione della legge di Stabilità. L’unica cosa chiara è che probabilmente questo renderà impossibile un abbassamento delle tasse. Per il resto, Matteo Renzi torna dalla tre giorni di Firenze con un partito che applaude con entusiasmo la metamorfosi del Pd.
Non tutto, però. Una parte subisce la strategia di ricentraggio della sinistra per conquistare quello che per vent’anni è stato il serbatoio sociale e di voti di Silvio Berlusconi. «Finalmente possiamo puntare al 50 per cento», annuncia il sindaco di Firenze, Dario Nardella. Ma l’operazione costringe a fare i conti con una Cgil che, per quanto ancorata al sindacalismo più tradizionale, rappresenta comunque un grosso pezzo della sinistra; e a constatare la saldatura dell’organizzazione di Susanna Camusso con la minoranza del Pd, benché debole e schiacciata su posizioni nostalgiche.
Se non altro, la galassia antirenziana è in grado di trasmettere l’immagine di un partito diviso. Un Pd al governo, che deve garantire la stabilità e intanto è circondato da voci di scissione. Il vicesegretario Lorenzo Guerini e un’altra renziana come Simona Bonafé assicurano che, per quanto lo scontro interno possa essere aspro, la scissione «non ha cittadinanza da noi». Entrambi accreditano un grande partito moderno di sinistra, nel quale convivono posizioni diverse.
La realtà è che Renzi è riuscito a dividere la minoranza interna. Per questo, la tentazione palpabile di andarsene dal Pd viene tenuta a freno: rischierebbe di accelerare la fine della legislatura. Gli avversari del premier sostengono in modo esplicito che punta ad elezioni anticipate; e che la legge di Stabilità è un coacervo di misure mirate soprattutto a conquistare consensi. Lo stesso Berlusconi ritiene che «la domanda vera» è se la legislatura va avanti o se si torna «irresponsabilmente a votare»; e con quale sistema elettorale.
Sembra parlare anche a Renzi che l’ex viceministro all’Economia, Stefano Fassina, accusa di «cercare l’incidente» con l’obiettivo di indurre il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, a sciogliere le Camere. Eppure, il modo in cui la minoranza agisce è un aiuto, non si capisce se involontario o meno al premier. Il capo del governo potrebbe rivolgersi al Paese e chiedere una vera legittimazione popolare, non quella spuria delle europee, contro chi ostacola le riforme. D’altronde, con l‘economia ancora in crisi, Renzi sa che il tempo presto potrebbe lavorare contro di lui.

La Stampa 28.10.14
Così alla Camera muore una riforma
di Marcello Sorgi


All’ombra di una giornata stanca, di routine, la terza grande riforma - quella del regolamento parlamentare, che doveva riscrivere i rapporti tra governo e opposizione, ponendo fine alla guerriglia in aula che si trascina a Montecitorio da un anno e mezzo - è morta in silenzio una settimana fa alla Camera. Le altre due - trasformazione del Senato e legge elettorale - galleggiano sul calendario dei lavori, senza prospettive chiare. Intanto, otto mesi di impegno sono stati gettati via, e a nulla sono valsi gli sforzi della presidente Laura Boldrini, che aveva spinto in prima persona per convincere la giunta del regolamento a mettere nero su bianco un testo.
I rapporti tra maggioranza e minoranze, più che mai nell’attuale legislatura, sono stati finora improntati al braccio di ferro. Il governo, nell’impossibilità di ottenere l’esame dei propri provvedimenti in tempi certi, ricorre con sempre maggiore frequenza ai decreti, che devono essere convertiti in legge entro sessanta giorni. Nell’approssimarsi della scadenza, le opposizioni, approfittando delle proprie garanzie, hanno buon gioco a ritardare, e più spesso a bloccare con l’ostruzionismo, i provvedimenti in attesa di approvazione. Se i presidenti si avvalgono dei loro poteri, per ristabilire il normale funzionamento delle Camere, vengono subito accusati di essere autoritari e fare il gioco del governo. Se invece non lo fanno, è praticamente impossibile arrivare al voto.
A lungo lontana dall’Italia per le sue missioni a favore dei rifugiati a fianco dell’Onu, eletta per la prima volta pochi giorni prima di essere innalzata, il 16 marzo 2013, allo scranno più alto di Montecitorio, Luisa Boldrini non poteva immaginare quanto insidiosa fosse la questione a cui aveva deciso di dedicarsi, dopo aver presieduto le prime sedute ed essere uscita traumatizzata dall’esperienza delle votazioni a Camere riunite per l’elezione del Presidente della Repubblica. L’antidoto più naturale alle scorribande dei franchi tiratori e alla guerriglia delle opposizioni le era sembrato, ragionevolmente, un nuovo regolamento, che assicurasse al governo l’esame e l’eventuale approvazione dei provvedimenti entro sessanta giorni (riducendo, o facendo venir meno, l’esigenza di ricorrere alla decretazione d’urgenza); e alle opposizioni un’analoga sessione di lavori, in cui sarebbero state libere di avanzare e far discutere le loro proposte.
Che poi tentativi analoghi fossero andati falliti nelle precedenti legislature, consumando leader della portata di Craxi e presidenti come Nilde Iotti, e che la carta dei diritti (e in qualche caso dello strapotere) delle minoranze fosse scritta nella Costituzione, fondata sul compromesso consociativo tra i due maggiori partiti fondatori della Prima Repubblica, Dc e Pci, non preoccupava la combattiva presidente della Camera. Anche se le era toccato, all’inizio, vincere qualche palese resistenza, era riuscita a strappare alla giunta competente l’intesa a ridefinire la bozza delle nuove regole.
Tutto ciò era divenuto più urgente dopo il 29 gennaio di quest’anno, il «mercoledì nero» della Camera in cui il banco della Presidenza era stato assalito da deputati del Movimento 5 stelle, di Fratelli d’Italia e della Lega, dopo la decisione della Boldrini di imporre la tagliola all’ostruzionismo che mirava ad impedire l’approvazione del decreto sul taglio dell’Imu. Non si era trattato solo di uno dei tanti momenti di tensione della vita parlamentare, ma di una serie mai vista di scontri fisici, che avevano inopinatamente portato il deputato questore Stefano Dambruoso a tentare di difendersi, assestando una gomitata alla deputata 5 stelle Loredana Lupo. Altri esponenti grillini, tra cui Massimo De Rosa, che brandiva un casco da moto, avevano invaso l’aula della commissione giustizia, insultando le deputate del Pd con frasi ingiuriose, del tipo «siete qui solo perchè avete fatto pompini!». Le deputate, indignate, ne avevano subito riferito su Twitter con parole testuali. Con una serie di punizioni esemplari - sospensioni, censure, espulsioni - la vicenda si era chiusa qualche settimana dopo. E la presidente Boldrini, incurante delle polemiche, si era spinta a denunciare in tv da Fazio «lo squadrismo» dei deputati più violenti.
Anche a causa della degenerazione dello scontro, o forse per altre ragioni - le mutazioni di clima politico hanno ormai dell’imperscrutabile - la discussione in giunta del regolamento, da inizio d’anno in poi, aveva preso una piega più fattiva. Fino ad arrivare, prima dell’estate, alla decisione di mettere all’ordine del giorno la riforma del regolamento entro luglio, salvo decidere un breve rinvio a settembre, quando appunto l’esame del testo era ripreso, per poi precipitare pochi giorni fa, a causa del brusco e definitivo rifiuto di Forza Italia, Movimento 5 stelle e Lega.
Dei tre «no», il più sorprendente è quello di Forza Italia, il partito di Berlusconi, del patto del Nazareno e di un’opposizione a tal punto dialogante con Renzi da sopperire alle stesse mancanze della sua maggioranza. Gli altri due sono più scontati. Grillo ha fatto dell’ostruzionismo il programma politico del suo movimento per il resto della legislatura. I leghisti, in Senato, non più tardi di una settimana fa, hanno dato man forte a M5s nel lancio delle monetine in aula. Ma sotto sotto, magari per non dispiacere l’alleato-avversario ex-Cavaliere, anche il Pd - che alla Camera ha la maggioranza quasi da solo -, sulla riforma del regolamento non ha certo fatto le barricate.
Così è naufragata anche l’ultima occasione di evitare, già dai prossimi giorni, il ritorno della guerriglia nelle aule parlamentari. Tra sessione di bilancio, legge elettorale e Jobs Act, si annuncia una fine d’anno tempestosa: il preludio a una conclusione della legislatura forse più difficile della storia repubblicana, che molti si ostinano a prevedere anticipata.

Corriere 28.10.14
La parità sul lavoro? Le donne aspetteranno (forse) fino al 2095
di Elena Tebano


Riusciranno ad averla forse le ragazze che nasceranno tra mezzo secolo, ma intanto la parità sul lavoro tra donne e uomini è ancora ben lontana. L’ultimo rapporto del World Economic Forum sul «Gender Gap», la disuguaglianza tra i generi, lascia poche speranze: a questi ritmi ci vorranno 81 anni per superarla in tutto il mondo. Bisognerà cioè aspettare il 2095. Salvo peggioramenti. Brutte notizie, visto che oltre ad essere un problema di giustizia sociale è uno degli ostacoli maggiori alla crescita economica: «Solo le economie che possono impiegare tutti i loro talenti rimarranno competitive e riusciranno a prosperare», avverte il fondatore e presidente del World Economic Forum, Klaus Schwab. Oggi sono 14 i Paesi al mondo che hanno superato per oltre l’80% le disparità lavorative tra uomini e donne. Tra questi ci sono la Norvegia, gli Stati Uniti, la Danimarca e l’Islanda, ma anche il Burundi, il Malawi e la Moldavia. Non l’Italia, che invece è 114esima su 142, con solo il 57% del «gap» recuperato. Ed è quindi ben lontana dal valorizzare tutti i suoi talenti. Certo, l’indice misura la disparità tra uomini e donne nella partecipazione alla forza lavoro, nella remunerazione a parità di carriera e nella presenza tra i legislatori e i dirigenti, e quindi non dice (bisogna tenerlo bene a mente) che le donne del Burundi hanno condizioni e opportunità lavorative migliori di quelle italiane. Ma che, data la situazione economica del nostro Paese, potremmo fare molto di più. La partecipazione delle donne alla vita economica, infatti, è uno dei fattori che più ci penalizza: lavora meno della metà delle italiane. Il messaggio è chiaro: servono misure che aiutino le donne a entrare (e andare avanti) nel mercato del lavoro. A cominciare dal sostegno alle madri che lavorano, asili compresi: perché sono loro quelle più penalizzate. Secondo Bankitalia una mamma su cinque lascia il proprio impiego dopo un anno e mezzo dalla nascita dei figli (in particolare le giovani sotto i 24 anni e quelle con livelli di istruzione più bassi). E in generale il tasso di occupazione femminile è inversamente proporzionale al numero dei bambini. Il paradosso è che rispetto all’anno scorso l’Italia è peggiorata: nel 2013 era 97esima su 136 Paesi, mentre adesso è scivolata di ben 17 posizioni. Segno che non solo non abbiamo fatto abbastanza: abbiamo fatto meno degli altri. C’è un altro indicatore che penalizza l’Italia: la partecipazione politica delle donne. Qui la disparità di genere è stata superata solo per il 24%, contro il 65% dell’Islanda o il 61% della Finlandia. Eppure qualche segnale positivo c’è: quest’anno siamo al 37esimo posto contro il 44esimo di dodici mesi fa. Sono aumentate infatti le donne in Parlamento e al governo. C’è da sperare che abbia ragione il fondatore del World Economic Forum Klaus Schwab, quando dice che se le donne sono più coinvolte nei processi decisionali prendono decisioni che rispondono di più ai bisogni delle donne.

Corriere 28.10.14
I cinesi accusano Prato «Tutti sanno dei dormitori»
L’imprenditrice sotto processo per i morti: ci pagavo le tasse
di Dario Di Vico


Un colpo di scena processuale che può aprire una pagina nuova nei rapporti tra la città di Prato e la comunità cinese. Ieri, alla seconda udienza del dibattimento con rito abbreviato contro i responsabili del rogo del capannone-dormitorio che nel dicembre 2013 causò la morte di sette operai cinesi, l’imputata Lin Youlan ha messo sotto accusa i proprietari (italiani) dell’immobile e le autorità comunali.
La titolare della ditta Teresa Moda ha dichiarato che «in più occasioni il proprietario del capannone è entrato nella ditta, anche per vedere se i dormitori erano costruiti bene». Lin Youlan — assistita da un avvocato fiorentino — ha aggiunto che alcuni tecnici comunali avevano fatto nel 2013 misurazioni sui dormitori per calcolare la tassa sui rifiuti. Rispondendo alle domande del pubblico ministero Lorenzo Gestri l’imprenditrice si è assunta tutte le responsabilità, ma la sua testimonianza è destinata a pesare giudiziariamente e politicamente. «Cambiavo nome alla ditta ogni anno perché era conveniente, poi a un certo punto abbiamo aggiunto i dormitori perché tutti facevano così».
I proprietari del capannone, i fratelli pratesi Pellegrini, sono già stati rinviati a giudizio per omicidio colposo in un secondo procedimento che si svolgerà con rito ordinario, quello che si sta scoperchiando però è un intreccio più ampio di interessi italo-cinesi. Già qualche mese fa era stata smantellata una rete di commercialisti locali che lucravano sui falsi permessi di soggiorno per gli asiatici e ora le parole di Lin Youlan aggiungono nuovo materiale accusatorio.
«Pagavo un affitto di 2 mila euro al mese ai Pellegrini e venivano a prendere i soldi nell’altra sede della nostra ditta». Sapevano tutto, dice l’imprenditrice. Del resto, non è un mistero in città che la linea della Procura della Repubblica, retta ora da Antonio Sangermano, ex pm milanese del processo Ruby-Berlusconi, punti a far luce su avventurieri e professionisti italiani senza scrupoli che in questi anni hanno guadagnato aiutando il pronto moda cinese a impiantare un modello di business in cui convivono la spregiudicatezza commerciale, l’esportazione sui mercati dell’Est Europa di capi etichettati made in Italy e operai trattati alla stregua di schiavi.
Un’eventuale sentenza esemplare in materia può aprire una fase nuova in una città che spera sempre che cambi qualcosa, che lo stallo dei rapporti italo-cinesi si rompa miracolosamente e la discontinuità crei i presupposti di una reale convivenza.
Alle ultime Comunali c’è stato un ribaltone e la maggioranza di centrodestra che aveva espresso il sindaco Roberto Cenni è andata a casa cedendo il passo al centrosinistra guidato dal renziano Matteo Biffoni. Cenni aveva giocato la carta della contrapposizione netta alle illegalità cinesi e aveva messo in piedi un sistema di controlli piuttosto energici. Biffoni non ha sconfessato questa scelta ma almeno a parole aveva promesso qualcosa di più, una politica che abbracciasse legalità e convivenza tra le due comunità. Sono passati circa tre mesi e si è visto poco e proprio per questo motivo in città si guarda con grande attenzione alle mosse della Procura, che possono portare alla luce un sistema affaristico che ha usato Chinatown come rendita immobiliare e che ha fornito agli asiatici «il software» dell’illegalità.
Nel frattempo, al di là della condotta aggressiva in Tribunale, anche dalla comunità cinese non è venuto granché di nuovo. Non si possono soltanto accusare i pratesi di essere complici. Il console, la signora Wang Xinxia, nei giorni della tragedia e del lutto aveva promesso trasparenza e una linea di condotta degli imprenditori cinesi orientata alla legalità e al rispetto del lavoro, i fatti però sono rimasti ampiamente indietro rispetto alle parole. E così nei giorni scorsi anche il console è cambiato ed è arrivato Wang Fuguo.
Cambiano i protagonisti e il copione rischia di rimanere quello di sempre.

La Stampa 28.10.14
Ha ucciso un suo paziente
Condannato psicoterapeuta
di Fabio Albanese


Non fu un suicidio ma un omicidio. Anche se ancora adesso che il presunto responsabile è stato condannato a 21 anni di carcere, non si sa il perché. Ieri la Corte d’Assise di Catania ha condannato per omicidio volontario uno psicoterapeuta di 50 anni, Michele Privitera. Sarebbe stato lui, il 2 gennaio 2008, a uccidere un suo paziente, Salvo Marco Zappalà, che all’epoca aveva 23 anni.
Quel giorno i due erano nelle campagne di Paternò per una battuta di caccia. Fu lo stesso medico ad avvertire i carabinieri e a guidarli sul posto, sostenendo che il giovane si era suicidato, ma fornendo due versioni diverse nel giro di poche ore: «Mi ha strappato il fucile di mano, si è allontanato e si è sparato alla tempia»; e poi, l’indomani: «Ero tornato in auto a prendere le sigarette, lui ha preso il fucile e ha fatto fuoco». Per darne poi una terza mentre era già in stato di fermo: «Ho fatto una bestialità» perché era stato lui a dargli il fucile mentre agli investigatori «ho detto un’altra cosa». Il medico, che lavorava alla Asl 3 dove aveva in cura Zappalà per depressione, ieri era presente alla lettura della sentenza ma è rimasto in silenzio. La difesa è pronta all’appello. Resta il mistero del movente, mai svelato.

Corriere 28.10.14
Un modo per sprecare  i finanziamenti pubblici della cultura
di Gian Arturo Ferrari


Mi trovavo nei giorni scorsi in Calabria e ne ho approfittato per andare a rivedere i bronzi di Riace, non tanto per le polemiche su Expo, quanto per la gioia interiore che sempre mi dà la contemplazione dei capolavori dell’arte greca.
I bronzi si trovano presso il Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria, ospitato in un edificio piacentiniano che è stato di recente sottoposto a un’energica ristrutturazione. Sono aperte per ora quattro sale. In una è esposto un arazzo restaurato del Museo diocesano di Gerace e che con l’archeologia non c’entra nulla. In un’altra si trovano invece pezzi di grande qualità provenienti dalla Locride, ciascuno illustrato da una lunga didascalia appesa al muro. Le didascalie sono un bell’esempio di quello specialismo altezzoso e arrogante che una parte della cultura italiana, specie quella accademica, usa come arma di difesa e di offesa. Ricorre l’espressione «tecnica acrolitica», senza ulteriori delucidazioni. Io sono un classicista di formazione ed ero in compagnia di un professore universitario, di uno scrittore e di un bibliotecario. Nessuno di noi sapeva che cosa fosse la tecnica acrolitica. A chi è indirizzata, di grazia, quella didascalia?
In una terza sala, più piccola, è esposto invece un solo pezzo, meraviglioso. Una figura maschile troncata sotto le ginocchia, priva del braccio sinistro e con il destro che arriva al gomito. A occhio e croce fine del VI - inizio del V secolo. Dico a occhio e croce perché qui, esauriti evidentemente dalle fatiche della tecnica acrolitica, gli estensori delle didascalie si sono concessi un meritato riposo.
Nella quarta sala ci sono i bronzi, ma per accedervi bisogna stare per due o tre minuti in una stanza di decontaminazione. Una volta decontaminati si entra nella sala sulle cui pareti e dietro ai bronzi — in modo che guardandoli li si vede su questo sfondo — stanno appesi due grandi e coloratissimi cartelloni che illustrano rispettivamente il terzo restauro e le basi antisismiche su cui i bronzi poggiano. Non una parola viene detta su che cosa i bronzi siano, da dove vengano, quando siano stati eseguiti e via dicendo. Più in generale, il restauro del museo è stato concepito su idee di svuotamento, grandi spazi e assoluto biancore. Peccato che per un’altezza di mezzo metro da terra tutto l’immacolato candore sia cosparso di nere pedate, sfregi, sbaffi, segnacci, un’aria di sporcizia che quello sfondo rigoroso contribuisce a mettere in risalto. Chi e come li ha fatti? Non si sa. Chi e come non li ha puliti, cancellati, rimbiancati? Non si sa. Quel che si sa è che il rifacimento del museo è costato finora 36 milioni di euro e ne costerà, a lavori finiti, 50. Soldi dei contribuenti, naturalmente.
Mi trovavo in Calabria perché partecipavo al Tropeafestival Leggere&Scrivere che, nonostante il nome, si è svolto a Vibo Valentia. Vibo è (era?) la più piccola provincia italiana, circa 160 mila abitanti, ma in compenso quella che conta proporzionalmente la più alta concentrazione di criminalità organizzata. Le cosche e ‘ndrine accertate, emerse, di ‘ndrangheta sono 26, secondo la valutazione del procuratore della Repubblica Mario Spagnuolo, un illuminista meridionale pugnace e senza illusioni, e del prefetto Giovanni Bruno, un messinese giovane per la sua carica (53 anni) capace di conservare il buonumore. La città di Vibo, che di abitanti ne conta poco più di 30 mila, si adorna anche — tutt’altro paio di maniche, certo — di 13 logge massoniche, tra censite e coperte.
Alla domanda di quanto la vita economica sia infiltrata dalla criminalità, il prefetto e il procuratore, concordi, asseriscono che il condizionamento è assolutamente endemico. L’economia legale ne viene quasi soffocata. Qui negli anni 70 trascorsero la loro felice latitanza i maggiori terroristi neri e alcuni anche rossi. Insomma, un bel posticino. Proprio qui, un gruppo di persone generose fa venire da diversi anni e per sei giorni consecutivi autori di libri e uomini (in realtà molte donne) di cultura che s’intrattengono, come in tutti i festival ma qui più familiarmente, con ragazzi, bambini, anziani, insegnanti, persone a vario titolo interessate. Il festival, con la sua capacità di attrazione, li mette insieme, li fa incontrare, connette i fili e comincia a tessere, con pazienza e senza miracoli, la tela della convivenza civile, di un mondo migliore. Tutto questo costa 200 mila euro l’anno, fondi europei conferiti dalla Regione.
Morale o, meglio, alcune morali. Primo. Guardare con i propri occhi, andare a vedere, quel che Erodoto chiamava «autopsia» che proprio questo vuol dire. Secondo. Fiumi d’inchiostro e tonnellate di carta si sono spesi sui bronzi a Milano. È questione di opinioni. I fatti sono un’altra cosa, sono quelli che abbiamo descritto. E dei fatti sarebbe bene che primariamente ci occupassimo. Terzo. Non è vero che lo Stato non spende in cultura. Spende, poco o tanto che sia. Soprattutto sceglie dove e quanto spendere. E di questo deve rendere conto ai cittadini. «Non ci sono soldi» è una scusa, nasconde il fatto che lì i soldi si danno e là no. Non si danno a chi la cultura la diffonde con coraggio e impegno, si danno per musei faraonici. E sporchi.

La Stampa 28.10.14
Francesco: e Dio creò il Big Bang
Il Papa agli scienziati: evoluzionismo e creazione non sono incompatibili
di Giacomo Galeazzi


Le verità della scienza non contraddicono l’intervento divino. E cioè la teoria evoluzionistica e quella del «Big Bang» non sono in contrasto con la creazione di Dio. Il Papa lo ha detto a chiare lettere in Vaticano parlando agli scienziati della Pontificia Accademia delle Scienze all’inaugurazione di un busto bronzeo di Joseph Ratzinger alla casina Pio IV. «L’inizio del mondo non è opera del caos ma deriva direttamente da un Principio supremo che crea per amore», sostiene Francesco. «Il Big Bang, che oggi si pone all’origine del mondo, non contraddice l’intervento creatore divino ma lo esige. L’evoluzione nella natura non contrasta con la nozione di Creazione, perché l’evoluzione presuppone la creazione degli esseri che si evolvono».
Immediato si riaccende il secolare confronto tra fede e ragione. Il filosofo della scienza Giulio Giorello evidenzia che il Big Bang non contraddice la rivelazione ma neanche la esige: «Posso capire che un cristiano possa essere darwiniano, ma Charles Darwin si guardava bene dall’esigere la presenza di un creatore». Insomma, «come in altri settori, Bergoglio cerca di ridurre l’emotività dei contrasti con la scienza». L’astrofisico Giovanni Fabrizio Bignami, presidente dell’Inaf, ribatte che, con le sue affermazioni sul Big Bang e la compatibilità tra creazionismo e evoluzionismo, «Francesco affossa le aberrazioni delle teorie pseudo-creazioniste». Infatti «siamo figli diretti del Big Bang che ha creato l’universo: nel sangue abbiamo qualche litro di idrogeno creato 13,7 miliardi di anni fa».
A parlare per primo nel 1927 dell’atomo primigenio (ossia della teoria del Big Bang) fu proprio un confratello di Bergoglio: il gesuita belga George Lemaître, prete ma anche fisico e astronomo. Youcat, il catechismo per i giovani, sdogana la teoria evoluzionista purché non si scada nella causalità dei processi. «Trovo anch’io come Francesco che serva un primum movens che inizi tutto: i credenti lo identificano con il Creatore», sintetizza il genetista Bruno Dallapiccola. «L’evoluzione nella natura non contrasta con la nozione di creazione, perché non esclude un punto di partenza. Piuttosto, potrebbero entrare in crisi alcune parti del racconto biblico, non la sostanza». Se nei secoli passati Chiesa e scienza hanno avuto scontri e incomprensioni, nei tempi recenti il divario si è molto accorciato. Piccolo passo di Pontefice, balzo in avanti per la Chiesa.

Repubblica 28.10.14
L’amaca
di Michele Serra


DICE papa Francesco che la teoria del Big Bang non contraddice affatto l’idea della Creazione. È la conferma, ennesima, della sua generosa, dinamica visione intellettuale. Il problema, però, è spiegare a legioni di esseri umani, specie quelli di fede veterotestamentaria, che ci sono più o meno quattro miliardi di anni di differenza tra il supposto Big Bang individuato dalla scienza e la supposta creazione del mondo secondo il Libro. In quei miliardi di anni, che i fossili certificano implacabili ma la Bibbia — per forza di cose — ignorava, come hanno passato il loro tempo la roccia, l’acqua, il protozoo, il pesce, il ragno, la felce, l’albero, buon ultimo l’uomo, insomma le creature? Passare dalla certezza del dogma all’accettazione dell’ignoto può essere dolorosissimo. I creazionisti americani lottano perché l’evoluzionismo “blasfemo” non sia insegnato nelle scuole, e l’idea che il mondo, completo di ogni accessorio, sia nato tutto insieme grazie a uno “snap” delle dita di un demiurgo, è molto più diffusa di quanto pensiamo. Il mistero terrorizza, la certezza conforta. Per consolarci riascoltiamo (papa Francesco la apprezzerà di certo) l’ottima parodia del creazionismo offerta nella “Genesi” di Francesco Guccini: «C’era un vecchio con la barba bianca, lui e la sua barba, il resto era vuoto».

Repubblica 28.10.14
Rovelli: “Ma scienza e fede devono restare separate”
Il fisico: “Vanno bene le aperture, però il nostro lavoro non ha nulla a che vedere con i racconti della Genesi”
intervista di Stefania Parmeggiani


«È UN bene che il pontefice inviti gli scienziati ad andare avanti con il proprio lavoro e i fedeli a credere in Dio senza per questo rifiutare la scienza, ma è un grave errore dire che il Big Bang esige l’intervento di un creatore divino». Il fisico Carlo Rovelli ha ascoltato con attenzione le parole che Papa Francesco ha rivolto alla Pontificia Accademia delle Scienze. Le ha apprezzate perché invitano i credenti, anche coloro che negano la teoria dell’evoluzione, a rispettare la scienza, la logica e i fatti, ma pensa che avrebbe fatto bene a non pronunciarle: «Scienza e fede devono restare separate».
Non è la prima volta che un pontefice si avventura su questo terreno...
«Il 22 novembre 1951 Papa Pio XII dichiarò in un discorso pubblico che la teoria del Big Bang confermava il racconto della Creazione della Genesi. George Lemaitre, grande scienziato, che della teoria del Big Bang era stato il primo ideatore, e sacerdote cattolico, riuscì a convincerlo a lasciar perdere. Fino a oggi il Vaticano si era attenuto a quel consiglio».
Perché?
«L’idea di Lemaitre era che fosse un errore cercare di mescolare i due piani. La teoria del Big Bang non è la fine della scienza. Sappiamo che c’è stata una grande esplosione, ma non sappiamo che cosa c’è stato prima».
Ha senso domandarsi se c’è stato un prima? Il Big Bang non si pone al di fuori del tempo? «Che prima del Big Bang non esistesse il tempo è una possibilità, ma ci sono altre possibilità, ad esempio possiamo pensare a un altro universo prima di quello che vediamo... È una sciocchezza che la Chiesa leghi se stessa a una teoria scientifica. Potrebbe essere smentita il giorno dopo. La ricerca della scienza non ha nulla a che vedere con i racconti della Genesi. Lemaitre consigliò a Pio XII di non confondere piani diversi. Quel consiglio è ancora valido».
Come si spiega la scelta di Papa Francesco? Perché toccare proprio adesso argomenti che da decenni incendiano gli animi?
«Penso che non abbia parlato in polemica con la scienza, ma con chi legge la Bibbia in maniera letterale. In America la metà dei credenti ri- tiene che non ci sia stata l’evoluzione della specie e in alcune scuole hanno cancellato Darwin dai programmi... Credo che si stia rivolgendo a questi cristiani dicendo loro che la Chiesa cattolica non è d’accordo».
È possibile trovare Dio nella Scienza?
«No. C’è un unico modo in cui la scienza può spiegare Dio: attraverso l’antropologia e la psicologia. Può studiare il fenomeno religioso e come l’umanità, nel suo farsi, lo abbia costruito. Ma certo non può cercare il divino nello spazio, nel tempo e nelle leggi della fisica. Questo non vuol dire che gli scienziati non sentano il mistero, la meraviglia o la sacralità dell’universo. Questi sono sentimenti umani, che restano veri con o senza Dio».
Lei come si definirebbe.
«Come Margherita Hack e come la maggioranza della comunità scientifica direi di essere serenamente ateo».
Quando lei vede l’universo vede l’ordine o il caos?
« Vedo la meraviglia di molto ordine che nasce dalle infinite combinazioni delle cose. E la meraviglia del modo in cui questo ordine si riflette in noi e nel nostro guardarlo.».
Non potrebbe essere lo stesso ordine che vede un credente?
«Penso di sì E l’emozione è la stessa. Il credente chiama questa emozione Dio. Io la chiamo emozione».

Corriere 28.10.14
«Picchiava i giovani con i rosari»
A giudizio l’ex parroco di Lanciano
Don Facchini andrà a processo il 19 maggio: è accusato di violenza privata aggravata, lesioni, molestie, ingiurie e minacce

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Repubblica 28.10.14
Il vicario di Cristo e la verità relativa che conduce a Dio
Risposta a Zygmunt Bauman sul dialogo secondo Papa Francesco
di Eugenio Scalfari

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Corriere 28.10.14
Reintegrata alla Scala la ballerina che scrisse un libro su danza e anoressia
La Corte d’Appello ha accolto il ricorso di Maria Francesca Garritano

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Repubblica 28.10.14
Roma, la strage dei figli dopo una lite col marito “In vacanza nel suo Marocco poi non fu più la stessa”
Accoltella il compagno, uccide i bimbi di 3 e 9 anni e riduce in fin di vita quella di 5. Poi si impicca allo scaldabagno. “Angosciata dal ritorno in Italia”
di Massimo Lugli


ROMA Un bagno di sangue. Un mattatoio, così l’hanno descritto i barellieri che, per primi, sono entrati in casa. Un bambino di 9 anni e una bimba di 3 massacrati a coltellate, la sorellina di 5 gravissima, il corpo e le mani straziate dai fendenti di una mannaia da cucina. Nel bagno, il corpo senza vita della madre, Khadija El Fatkhani, 42 anni, marocchina, riversa nella vasca da bagno, la cinghia con cui si era impiccata ancora stretta al collo. Un orrore che supera qualunque immaginazione e che ha fatto barcollare perfino gli agenti di Renato Cortese, il capo della Mobile.
Strage in famiglia, su questo non ci sono dubbi. Tutto il resto è ancora da chiarire a cominciare dal perché. Prima di scagliarsi come una furia contro i tre bambini che adorava, Khadija aveva ferito con una pugnalata all’addome il marito, Idris Jeddou, 43 anni, incensurato, operaio della catena di mobili Mondo Convenienza, in regola col permesso di soggiorno. L’uomo si è presentato all’ospedale San Giovanni, con il ventre squarciato, alle 4.40 della notte tra domenica e lunedì, i corpi dei bambini sono stati scoperti solo alle 14.15 del giorno dopo. La bambina di 5 anni lotta per la vita all’ospedale Bambin Gesù: quei tagli sulle mani e sulle dita testimoniano il suo disperato tentativo di parare i colpi che le grandinavano addosso.
Ma cominciamo dal principio. Carrellata sul luogo del delitto, uno dei palazzi che hanno fatto la storia delle occupazioni dei senzacasa a Roma. Via Carlo Felice 69, a due passi da piazza San Giovanni: un grande edificio umbertino che si staglia su un quadrilatero di strade dritte e ordinate: via Sclopis, via Provara, via Biancamano. Era il 2003 quando le prime famiglie, guidate dagli attivisti di Action entrarono nel palazzo, di proprietà della Banca d’Italia. Qualche scontro con la polizia, qualche tentativo di sgombero, poi, poco a poco, le acque si sono calmate. Oggi, spiega Giuliana Cavallo di Action, a via Carlo Felice vivono, abbastanza comodamente, trentacinque famiglie di cui solo dieci di italiani. Al piano terra, i grafiti in stile precolombiano del centro sociale Sans Pa- pier con le scritte che sembrano tag: «El mas trucido», «El mucho frio», «El Mas Caliente». Idris e Khadija erano arrivati per primi e i tre figli erano nati qui, in un appartamento di quattro stanze al quarto piano. «Bambini bellissimi, educati, sempre in ordine», si commuove una degli occupanti, una delle poche che sfugge alla rigidissima consegna del silenzio imposta, quasi subito, dai leader del movimento: della famiglia non parliamo, faremo un comunicato, queste cose succedono ovunque... Per i cronisti che cercano di capire, solo occhiatacce e banalità.
«Lei era tornata un anno fa da un viaggio in Marocco e da allora non era più la stessa» dice il padre di un compagno di scuola del bambino «Portava il velo, non era più gioviale, sembrava angosciata». Nulla, però, fa supporre che dietro la tragedia si celi un sussulto di religiosità musulmana, imposta dal marito e subita dalla moglie come un’oppressione. «Non risulta niente del genere» tagliano corto alla Mobile. Nelle prossime ore, Andrea Di Giannantonio, capo della sezione omicidi, cercherà di scoprire qualcosa di più con un nuovo interrogatorio in ospedale. Nessuna accusa, almeno per ora, contro Idris Jeddou.
L’uomo è arrivato al pronto soccorso dell’ospedale in condizioni gravissime: una lama lunga e acuminata gli aveva squarciato le viscere e lesionato il fegato. «Mi hanno aggredito sotto casa, hanno tentato di rapinarmi, ho reagito e mi hanno accoltellato», racconta all’agente del posto di polizia mentre i medici lo preparano per l’intervento. Quando si sveglia dall’anestesia, l’operaio è fuori pericolo ma continua a coprire la moglie senza immaginare cosa è accaduto nell’appartamento. Verso le 13.30 chiama casa: nessuno gli risponde. Riprova ma i cellulari squillano a vuoto. A questo punto, in preda all’angoscia, telefona a un amico: «Vai a vedere cos’è successo, per favore». L’uomo trova la porta socchiusa, entra e quasi sviene: i corpi dei bambini a terra, un coltello insanguinato in cucina, la mannaia sul pavimento del bagno, i lamenti sempre più flebili della bambina ferita. L’amico di famiglia lancia l’allarme al 118, sul posto arriva un’ambulanza della Croce amica e, poco più tardi, il palazzo è affollato di poliziotti mentre molti occupanti, con la cronica diffidenza verso le divise, scantonano discretamente.
A via Carlo Felice piombano gli investigatori, il medico legale e il pm Francesco Minisci. La rigidità cadaverica indica che la strage risale ad almeno dieci ore prima e l’ipotesi più immediata, quella che sia stato l’uomo ad assassinare moglie e figli, crolla quasi subito. Impossibile pensare che abbia costretto la moglie ad impiccarsi. La cinghia che la donna aveva legato a un tubo dello scaldabagno, col passare delle ore, aveva ceduto e il corpo era piombato nella vasca. I rilievi della scientifica, secondo la Mobile, confermeranno questa ricostruzione. All’ospedale, nel frattempo, Idris crolla, piange, si dispera. «Avevamo litigato, mi ha pugnalato mentre stavo a letto, non potevo sapere che cosa sarebbe successo dopo, come me lo potevo immaginare?» ripete tra i singhiozzi. In queste prime ore, la polizia rispetta il suo strazio e non lo incalza, ma l’uomo ha ancora tante cose da spiegare. «Avevamo litigato» non basta. Il mistero di questa storia atroce si riassume in una sola parola: perché?

Repubblica 28.10.14
“Il velo spuntato dal nulla e quello sguardo triste”
Tutti i tormenti di Khadija
di Paolo Bocacci, Lorenzo D’Albergo


ROMA. Un viaggio in Marocco, un velo spuntato dal nulla e quel cambiamento improvviso. Tutti all’Esquilino, cuore multiculturale di Roma, ora si chiedono cosa possa aver spinto Khadija El Fatkhani a massacrare i tre figli per poi togliersi la vita.
I genitori dei bimbi della Federico Di Donato, la scuola elementare frequentata dal più grande dei figli della coppia marocchina, trattengono a fatica le lacrime. Le maestre sono state chiare: «Vi preghiamo tutti - si raccomandano con i papà e le mamme - non fatevi vedere così dai bambini. Ancora non sanno niente». Il dolore, però, è troppo forte. Una madre sbotta: «Potevamo fare qualcosa di più. Avevamo visto che qualcosa non andava negli ultimi tempi in Khadija. Da qualche mese non sembrava più la stessa che avevamo imparato a conoscere negli ultimi tre anni. Il bambino, però, ci sembrava sereno».
Vicino a una porta da calcetto montata nel grande cortile della scuola di via Bixio, un capannello di genitori nordafricani discute dopo aver letto la notizia su internet: «Li portava e li veniva a riprendere sempre lei. Dopo aver lasciato le due piccole all’asilo, prima della campanella si metteva sempre seduta in un angolo con il più grande. Era in quarta elementare, sezione D. Lei gli carezzava la testa ogni mattina, lo baciava e poi lo lasciava entrare a scuola. Non ci credo che una persona del genere possa aver fatto quello che raccontano i giornali. Poi lei era molto religiosa, non avrebbe mai toccato i figli». «Non so - aggiunge un papà albanese - sapevamo tutti che in casa non se la passavano proprio bene. Però io ho cinque figli e spesso ho passato momenti difficili. Anche se uno ha problemi di soldi, non fa certe cose».
In via Carlo Felice, sotto la casa della coppia, si mischiano commenti e curiosità. Dai sospetti sulla gelosia del marito al ritorno in patria che avrebbe scosso la moglie a tal punto da farle indossare il velo, ognuno segue la propria pista. Mario, l’egiziano della pizzeria accanto al palazzo umbertino occupato, spiega che «la moglie prima girava con la testa scoperta e poi, da un anno, si era messa il velo». «Mai sentito liti - dice una donna slava - non ci risulta che Khadija avesse disagi psichici. E non c’erano nemmeno problemi con i servizi sociali, mentre in un’altra famiglia erano venuti».
I negozianti ricordano il sorriso dei tre bambini come se li avessero ancora davanti gli occhi: «Entravano qui - racconta un barista - passavano per una caramella, qualcosa da bere, con la mamma. Poveri figli».
«La moglie di Idris - racconta Mataz, elettrauto siriano con l’officina nella strada alle spalle - passava spesso da qui. I bambini si facevano gonfiare le gomme delle biciclette e poi scappavano in strada. Il padre, invece, lo vedevo uscire presto. Consegna e smonta mobili per Mondo convenienza e gira sempre a bordo della sua Ford Mondeo. Poi torna la sera a casa carico di buste della spesa, sempre indossando la sua tuta da lavoro».

La Stampa 28.10.14
Netanyahu riaccende la sfida
“Mille case a Gerusalemme Est”
di Maurizio Molinari


C’è la città di Gerusalemme al centro del duello fra Abu Mazen e Benjamin Netanyahu, due leader che hanno cessato di negoziare e i cui contatti diretti sono sempre più rari.
La disputa ha toni aspri. Il presidente dell’Autorità palestinese chiede l’intervento dell’amministrazione Obama «per porre fine alle violenze israeliane contro gli arabi di Gerusalemme» e invoca «un’inchiesta del Consiglio dei diritti umani dell’Onu» sui «crimini commessi». La condanna di Abu Mazen è a tutto campo: vede nell’insediamento di famiglie ebraiche nel quartiere arabo di Silwan, nell’accesso di fedeli ebrei alla Spianata delle Moschee e nello schieramento di mille agenti di polizia nei quartieri arabi i contorni di un unico piano per «ebraicizzare la città che sarà nostra capitale». A dargli manforte è Jibril Rajoub, l’ex rivale che torna a Ramallah per ammonire Israele: «La battaglia su Gerusalemme può infiammare tutti i Paesi musulmani». L’offensiva di Abu Mazen è sostenuta da quanto avviene nei quartieri arabi di Silwan, Wadi Joz, A-Tor e Shuafat: attacchi con sassi, petardi e anche molotov contro case ebraiche, forze di sicurezza ed il tram leggero voluto dal sindaco Nir Barkat, avversato come simbolo dell’unificazione della città.
La reazione del premier israeliano Netanyahu è su tre fronti. Il primo è la sicurezza: dopo il rafforzamento dello schieramento di polizia fa sapere di preparare una legge che comporterà pene fino a 20 anni per chi lancia sassi, oltre al pagamento dei danni causati da parte dei famigliari.
Poi c’è il fronte delle costruzioni: «Israele ha diritto a costruire nella sua capitale come la Gran Bretagna lo ha a Londra e la Francia a Parigi» e dunque autorizza la costruzione di 1060 nuovi appartamenti nei quartieri di Har Homà e Ramot Shlomò. Ma ciò a cui più tiene Netanyahu è la sfida con Abu Mazen. Parlando dal podio della Knesset, lo rilancia: «Le violenze a Gerusalemme sono causate da palestinesi islamici, non cederemo alle loro pressioni come a quelle di nessun altro, la priorità è garantire la sicurezza dei nostri abitanti».
È una posizione che lo allinea a Naftali Bennet, il ministro dell’Economia e leader dell’ala destra della coalizione, lasciando intendere che su questo terreno Netanyahu potrebbe spingersi fino a indire nuove elezioni, per chiedere agli israeliani di rinnovargli la fiducia.

La Stampa 28.10.14
Abu Mazen chiede aiuto a Usa e Onu: “Fermate l’invasione dei coloni ebrei”
La replica di Netanyahu arriva con l’annuncio della costruzione di mille nuove case in Cisgiordania, di cui gran parte proprio nei quartieri Est di Gerusalemme, considerata da Israele la propria capitale
di Maurizio Molinari

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La Stampa 28.10.14
Mohammad: con il teatro insegno ai palestinesi a essere una comunità
A Hebron 18mila giovani coinvolti in “Yes Theatre”
di Alberto Simoni


I donatori? Sempre i benvenuti, ma ora è tempo di farcela da soli, altrimenti dipenderemo sempre da qualcuno, dai suoi quattrini, dagli aiuti internazionali. Vogliamo cambiare? Costruire una società nuova? Ebbene tocca a noi, facciamolo sganciandoci progressivamente dal sostegno dei donatori stranieri».
Mohammad Issa ha 34 anni, è nato in Egitto, ma vive a Hebron, in Cisgiordania. Ed è un imprenditore. Produce «benessere sociale»: istruzione, cultura, educazione con «Yes Theatre», YT, di cui è general manager dal 2008. «YT» è una sorta di modello di sviluppo sociale, fa aggregazione e innovazione, decine di progetti teatrali, cartellone pieno di appuntamenti, fra opere, allestimenti, scuola di recitazione, burattini da montare e mettere in scena. Coinvolge 18 mila giovani dei Territori, il motto campeggia sul sito Web: «Ispirare la Palestina». A partire dai bambini, motore del cambiamento sociale. Spiega Mohammad: «Non abbiamo dove viviamo luoghi di ritrovo, ecco allora che ci siamo inventati questa formula per migliorare la vita dei bambini e dei ragazzi, per essere comunità». E non solo. Serve per rafforzare un’identità e formare dei cittadini responsabili, aggiunge Issa che per cinque anni ha lavorato per la Banca Mondiale e ha in curriculum un Master in Cooperazione e Sviluppo internazionale.
Il progetto oggi funziona così bene che Mohammad è tornato a Torino per parlare della sua esperienza vincente ai talenti dell’edizione 2014 dell’«Entrepeneurs for social change». Issa infatti in 18 mesi è riuscito a trasformare una realtà culturale non-profit in una vera e propria impresa sociale. Era arrivato a Torino lo scorso anno, aveva spiegato il suo progetto, Crt e Onu lo avevano appoggiato. Così è arrivato il primo contributo. Oltre al training, gli aiuti - non solo economici ma di know how per individuare investitori – per la gestione dell’impresa sociale. Se nel febbraio del 2013 Yes Theatre aveva un budget prossimo allo zero, sei mesi più tardi poteva contare su 70mila dollari. Oggi «YT» è un «Youth Drama Club Incubator», una società che fa comunicazione sociale, culturale e istruzione con un bilancio da 500 mila dollari. Frutto di investimenti. Non di donazioni. Mohammad ripete il suo slogan: «Per ogni dollaro in bilancio, il 30% ormai viene da noi».
Ed è quello che ha spiegato agli «aspiranti Issa» del 2014. L’obiettivo è diventare indipendenti, essere capaci di reperire le risorse ovunque per spingere sempre più in là il proprio progetto.
La società di Mohammad ha 25 dipendenti, (un anno fa erano 13): il 70% sono donne e anche questo è un aspetto di innovazione. «Hebron - dice - è una città molto conservatrice, chiusa, c’è poco spazio per le donne. Con noi invece anche loro possono esprimersi al meglio». Persino sul palco dando voce a pupazzi, «così si mettono in gioco e rivendicano il loro ruolo nella società».

La Stampa 28.10.14
Iran, i minatori contro Rohani: “No alle privatizzazioni”
Il centro estrattivo di Bafgh, uno dei maggiori del Paese, dal 17 maggio è paralizzato dalla protesta sindacale degli operai che si oppongono al trasferimento del 28 per cento della proprietà degli impianti a privati
Sfida non facile per Rohani, impegnato a cogliere le opportunità economiche del dopo-sanzioni
di Maurizio Molinari

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Corriere 28.10.14
L’ultimo sfregio a Reyhaneh
di Viviana Mazza


L’ultimo desiderio di Reyhaneh Jabbari non è stato esaudito. La ventiseienne iraniana impiccata sabato per l’omicidio di un uomo che accusava di tentato stupro, aveva chiesto una cosa al suo Paese: di poter donare i suoi organi. «Non voglio marcire sottoterra», diceva in un messaggio audio registrato ad aprile, pregando la madre di fare di tutto «affinché, dopo l’impiccagione, il mio cuore, i reni, gli occhi, le ossa — e qualunque altra cosa possa essere trapiantata — vengano donati a qualcuno che ne ha bisogno». Ma le autorità non lo hanno permesso. Reyhaneh è stata seppellita domenica mattina nella sezione 98 del cimitero di Behesht-e Zahra, vicino alla città santa di Qom. Secondo l’agenzia di informazione iraniana Iscanews , le forze di sicurezza non hanno permesso alla famiglia, agli amici e ai sostenitori di celebrare un vero funerale né di recitare le ultime preghiere, una tradizione importante per i musulmani. Alla madre Shole è stato concesso di vedere per un attimo il volto di Reyhaneh, avvolta nel sudario. «Ho visto il collo, con i segni del cappio», ha raccontato ieri alla tv iraniana Manoto , con sede a Londra. Nell’intervista, Shole ha continuato a difendere la figlia: «Mortaza Sarbandi non era a pregare quando è stato ucciso, è stato ucciso perché voleva violentare Reyhaneh». Il figlio di Sarbandi, Jalal, avrebbe anche filmato gli ultimi istanti di vita della ragazza prima che salisse sul patibolo; le ha chiesto ancora una volta di smentire il tentato stupro in cambio del perdono, ma Reyhaneh ha rifiutato. «Reyhan, Reyhan», gridava la madre al cimitero. «Oh disonesti, vorrei morire». Le sue grida sono impresse in un video diffuso online. Indossava un foulard turchese: in questo ha potuto rispettare le ultime volontà della figlia che le aveva chiesto di non vestirsi di nero.

La Stampa 28.10.14
Tunisia, se i nazionalisti laici (e un po’ nostalgici) sono inaspettatamente in testa alle elezioni
Sconfitti i Fratelli Musulmani di Ennahda

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La Stampa 28.10.14
L’Ungheria inventa la tassa su Internet
È la prima nel mondo, si pagano 49 cent a gigabyte
La piazza di Budapest: “Un attentato alla libertà”
di Tonia Mastrobuoni


La reazione è stata immediata: appena il ministro dell’Economia ungherese, Mihály Varga, ha annunciato mercoledì scorso che con la finanziaria 2015 avrebbe introdotto la prima tassa del mondo su internet, Neelie Kroes, commissario europeo uscente, ha detto al Financial Times che «non è una buona idea». Poi, il silenzio. Ma secondo un giornale magiaro, il presidente del Parlamento, Lászlo Kövér avrebbe replicato poche ore dopo che l’Ungheria potrebbe lasciare la Ue. «Nessuno nell’Europa occidentale ha la superiorità morale per giudicare il nostro grado di democraticità», avrebbe detto.
Nel frattempo è scoppiata la protesta: per oltre diecimila ungheresi scesi in piazza domenica sera a Budapest, la legge non è solo un modo per riaggiustare i bilanci, è l’ennesimo giro di vite sulla libertà di espressione da parte di un governo sempre meno democratico. Si tratta della più grande manifestazione da quando Viktor Orban ha preso il potere, nel 2010.
Poche ore dopo l’annuncio del balzello da 150 fiorini (49 centesimi di euro) su ogni gigabyte, una pagina Facebook che si oppone alla legge aveva già raccolto oltre 210mila sostenitori. Gli organizzatori dell’iniziativa «100mila contro la tassa su internet» spiegano che «la mossa segue un’ondata di allarmanti misure antidemocratiche volute da Orban che stanno spingendo l’Ungheria sempre più al margine dell’Europa». La legge, sostengono, «impedirebbe l’accesso equo alla Rete, aggravando il divario tra gli ungheresi meno abbienti e limitando l’accesso per le scuole e le università che hanno scarse risorse».
Domenica sera, dinanzi al ministero, i manifestanti hanno tenuto in alto i telefonini, illuminando la piazza. Balazs Gulyas, tra gli organizzatori della protesta, ha scandito davanti alla folla che «chi usa internet vede di più il mondo, ecco perché questo governo non vuole un internet libero. Non pagheremo una tassa su internet a un governo corrotto che vuole decidere sulla Rete».
Alcuni manifestanti si sono tuttavia spostati davanti al quartier generale di Fidesz, il partito del premier Viktor Orban, dove hanno cominciato a lanciare computer e tastiere contro l’edificio. Ci sono stati sette arresti ma ieri un portavoce del partito, Mate Kocsis, ha tuonato alla radio contro che «quello che hanno fatto contro l’edificio è incredibile, si tratta di brutale vandalismo. Non è la prima volta che il quartier generale di Fidesz è stato attaccato - ha aggiunto - ma raramente ricordiamo danni così pesanti».
I manifestanti si sono dati appuntamento per stamane, e se il governo non avrà ritirato nel frattempo la legge, protesteranno di nuovo. Ma il governo sembra deciso ad andare avanti. Orban punta a incassare 25 milioni di fiorini con la tassa sui gigabyte e il ministro dell’Economia ha spiegato che si tratta di un passaggio necessario perché l’uso di internet è in ascesa mentre quello dei telefoni sta scemando.
L’Ungheria ha già imposto una tassa da due fiorini al minuto sulle telefonate e sui messaggini, che si aggiungono ad un’imposta mensile sui telefoni che per le aziende raggiunge la bella cifra di 2.500 fiorini. Budapest ha anche introdotto l’anno scorso pesanti tasse sulle banche. Dopo l’annuncio del balzello sui gygabite, la settimana scorsa, le compagnie telefoniche hanno subito un crollo in Borsa.

Corriere 28.10.14
Regno Unito
Staccò la spina alla figlia malata
Per l’Alta Corte non è colpevole
La madre di Nancy non sarà processata

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Repubblica 28.10.14
“Lasciate morire mia figlia” e giudici dissero sì alla mamma di una disabile
Decisione senza precedenti per Nancy, una bambina di 12 anni “È solo un guscio vuoto. Ha sofferto troppo”. La Corte loda la madre
di Enrico Franceschini


LONDRA In Gran Bretagna l’eutanasia non è legale, tantomeno nei confronti di un minore. Ma una madre ha convinto la magistratura ad autorizzare i medici a staccare la spina a sua figlia, disabile dalla nascita, sostenendo che la sua bambina non poteva più vivere nelle condizioni di disperate sofferenze in cui si trovava. Così, con una decisione senza precedenti, i giudici hanno approvato di fatto l’interruzione della vita della ragazzina, esprimendo profonda commozione per la storia che sua madre aveva loro raccontato. «Ho grande ammirazione per questa donna», sono state le parole con cui il presidente dell’Alta Corte di Londra ha accompagnato un verdetto che fa storia.
La vicenda risale all’estate scorsa, ma è stata resa nota soltanto ieri dalla giustizia britannica. Nancy Fitzmaurice, 12 anni, era cieca, sofferente di meningite e idrocefalo, incapace di nutrirsi da sola, di parlare, di camminare. Sua madre Charlotte aveva lasciato il proprio lavoro di infermiera per starle accanto giorno e notte. La bambina era ricoverata al Great Ormond Hospital, un famoso ospedale della capitale finanziato tra l’altro con una donazione dell’autore di Peter Pan e considerato uno dei centri più avanzati per le cure dell’infanzia. Ma i sanitari non potevano fare niente per migliorare la situazione di Nancy, le cui condizioni peggioravano continuamente. La bambina urlava e piangeva senza sosta in preda al dolore. A quel punto la sua mamma, d’accordo con i medici, ha pensato di rivolgersi al tribunale per presentare una richiesta formale di eutanasia. Lo ha fatto scrivendo ai magistrati una lettera accorata, in cui ha descritto l’inferno quotidiano di sua figlia ma pure il grande amore che lei provava per lei e il peso di prendere una decisione simile.
«Mia figlia non è più mia figlia», ha scritto Charlotte. «Ora è solamente un guscio vuoto. La luce se n’è andata dai suoi occhi e al suo posto leggo soltanto la paura e il desiderio di essere finalmente in pace. Nancy ha sofferto abbastanza. Dire queste parole mi spezza il cuore, ma sento che devo farlo. Per questo faccio appello a voi affinché sia messa fine alla sua sofferenza». Si trattava di una richiesta quanto mai anomala. Non vi erano mai stati nel Regno Unito casi di questo genere. In pratica la donna chiedeva l’autorizzazione a far morire un bambino che non era un malato terminale e che era ancora in grado di respirare da solo. Eppure i giudici hanno compreso il dramma che madre e figlia stavano vivendo. Eleanor King, presidente del tribunale per i minori a cui è stato sottoposto il dilemma, non ha avuto esitazioni nell’ordinare, lo scorso, agosto, la sospensione dell’assistenza sanitaria alla piccola e sfortunata paziente. Di fatto a somministrarle l’eutanasia.
«L’amore, la devozione e la competenza di sua madre sono evidenti», afferma l’alto magistrato nella sua sentenza. «Nel mondo chiuso in cui si trova, Nancy ha potuto avere una certa qualità della vita a dispetto della sua tragica malattia. Ma purtroppo ora non è più così. Non c’è più alcuna qualità nella sua vita ma soltanto un’estrema, atroce sofferenza. Per favore, fate sapere alla madre di questa bambina che ho grande ammirazione per lei e che vorrei esprimerle le mie più profonde condoglianze». Nancy è morta il 21 agosto al Great Ormond, con i suoi genitori al fianco e seguita fino all’ultimo dai medici dell’ospedale londinese. «L’ultimo giorno della sua vita è stato per me il più difficile», ha dichiarato ai giornali Charlotte Fitzmaurice. «Una madre non dovrebbe essere costretta a prendere la decisione di porre fine alla vita di un figlio. Ma penso lo stesso che questa sia stata la decisione giusta per la mia bambina».

Il Sole 28.10.14
Visti semplificati per i cinesi
Verso il 2015. Pechino è il primo governo extra-Ue ad assicurarsi una corsia privilegiata per ottenere i permessi business
Sperimentazione di sei mesi, poi possibile estensione a turisti e altri Paesi
di Rita Fatiguso


PECHINO La notizia farà piacere a chi vuol portare quanti più cinesi di qualità all'Expo di Milano 2015. Ma i cinesi fanno ormai gola a molti in tutta Europa e così, da ieri, i visti Schengen per i viaggi business di cittadini cinesi viaggeranno su una corsia privilegiata.
Negli ultimi mesi i negoziati si sono svolti nella capitale cinese e hanno avuto per protagonisti i rappresentanti diplomatici dei Paesi Schengen qui a Pechino, il risultato è che da ieri la Cina è il primo Paese extra-Ue per il quale viene introdotta una semplificazione nella documentazione necessaria per ottenere i visti business.
Dato che si tratta di una deviazione dalla prassi, la decisione sarà attuata come un "progetto pilota" per un periodo di prova di 6 mesi. In caso di esito positivo, la Ue prenderà in considerazione se estendere l'eliminazione delle prenotazioni di voli e hotel anche per i turisti e per altri Paesi oltre alla Cina.
Iniziano a dare i primi frutti i negoziati Europa-Cina per favorire gli scambi reciproci, a cominciare dai requisiti dei visti per viaggi business. A partire da ieri, infatti, la richiesta di un visto Schengen in Cina sarà più facile, alcune categorie di viaggiatori cinesi saranno esentati dal produrre la prova di prenotazioni alberghiere e biglietti aerei al momento della presentazione della domanda. Questo trattamento sarà applicabile a chi viaggia per soggiorni d'affari o di breve formazione professionale, a chi vuol partecipare a eventi culturali o sportivi o visitare la famiglia o gli amici.
Per il momento, non si applica a coloro che viaggiano per esclusivi motivi turistici. Ci sono però altre agevolazioni che si applicano a tutte le categorie di viaggiatori: basterà in futuro produrre solo una copia dell'"hukou" (in pratica, la registrazione cinese delle famiglie) e non l'originale, e le prove di solvibilità dovranno solo essere fornite per gli ultimi tre mesi. In certi casi sarà ancora possibile per i consolati rinunciare all'obbligo di presentare uno o più dei documenti giustificativi indicati o, in casi giustificati, durante l'esame di una domanda, di richiedere documenti supplementari, in base alle norme in vigore.
Resta il fatto che per la Cina, avviata ad essere il primo Paese al mondo per turismo outbound è un altro passo in avanti, quest'anno il Paese sta metabolizzando gli effetti della nuova legge sul turismo che introduce norme piu severe ma anche piu evolute sui viaggi consapevoli, ma questa facilitazione europea, anche se di portata più circoscritta fa ben sperare sulla possibilità che i cinesi possano viaggiare più facilmente all'estero e in particolare in Europa. Le limitazioni legate al deposito di grosse somme e alla necessità di sbrigare pratiche complicate hanno frenato i viaggi all'estero, incluse molte mete europee alle quali i cinesi guardano con grande interesse.
Cecilia Malmström, il commissario europeo per gli Affari interni, si è detta infatti «molto felice che i viaggiatori cinesi siano tra i primi a godere di procedure più semplici quando si applica per i visti europei, l'Unione europea e le autorità cinesi mirano ad agevolare i contatti interpersonali, il che avrà anche un importante impatto economico favorevole».

Il Sole 28.10.14
Accordo Cina-Ue aspettando i turisti


Allora, si può fare. Le diplomazie europee in Cina sono riuscite a rimuovere alcuni ostacoli burocratici ai visti Schengen per motivi di business, una mossa grazie alla quale la Cina diventa il primo Paese extra-Ue oggetto di una deroga ai regolamenti. Durata: sei mesi. Se funzionerà, l'eccezione potrebbe essere estesa ai viaggi per turismo e anche ad altri Paesi.
Expo Milano 2015 ringrazia, incrocia le dita e spera, immaginiamo, che dai visti business si passi a quelli per turismo anche se in zona Cesarini. E ringraziano anche i Paesi europei per i quali i cinesi sono sinonimo di shopping e affari. La notizia è che si può fare: la Babele dei 28 Paesi, all'occorrenza, si muove per il bene comune. Ma in cima alla lista della spesa c'è anche il tema scottante dei dati biometrici. Un vero autogol: per i visti dei cinesi diretti in Europa le impronte dovranno essere introdotte proprio dal 1° maggio 2015, data di inizio dell'Expo di Milano. La Babele deve muoversi ancora, e presto. (Rita Fatiguso)

Corriere 28.10.14
La «svolta di Salerno». Un piano nato a Mosca
risponde Sergio Romano


Vuole spiegare ai lettori la cosiddetta «svolta di Salerno», da lei citata in una risposta?
Raffaello Sacchi

Caro Sacchi,
«Svolta di Salerno» è l’espressione con cui viene generalmente definita la scelta politica compiuta da Palmiro Togliatti dopo il suo ritorno in Italia dall’Unione Sovietica nel marzo 1944. Sbarcato a Napoli il 27, mentre il Vesuvio, risvegliatosi nei mesi precedenti, aveva da poco smesso di vomitare polvere e lapilli, il leader comunista annunciò che il suo partito era disposto ad accantonare per il momento la questione monarchica e a partecipare, con altre forze politiche antifasciste, a un governo presieduto dal maresciallo Badoglio. Grazie alla mediazione di Enrico De Nicola, fu trovato un compromesso. Vittorio Emanuele III avrebbe trasferito i suoi poteri al figlio, Umberto sarebbe diventato Luogotenente del Regno e la questione costituzionale (monarchia o repubblica) sarebbe stata risolta con un referendum dopo la fine del conflitto. Il nuovo governo Badoglio fu costituito il 22 aprile e Togliatti divenne vice-presidente del Consiglio. La «svolta», da quel momento, divenne la prova del patriottico realismo di Togliatti e della sua capacità di agire nell’interesse dell’Italia senza attendere istruzioni da Mosca. Fu il piedistallo su cui il Pci costruì l’immagine del leader autorevole e indipendente, capace di realizzare un comunismo italiano.
Le cose, in realtà, erano andate diversamente. Per governare l’Italia dopo la conquista del Sud, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna crearono una Commissione alleata di controllo, ma confinarono l’Urss e altri alleati minori in una commissione consultiva priva di qualsiasi potere. L’uomo che amministrava la politica estera accanto a Badoglio (un diplomatico, Renato Prunas) capì che la decisione angloamericana regalava all’Italia una carta da giocare. Ebbe colloqui con il rappresentante sovietico (era Andrej Vyšinskij, pubblico inquisitore nei grandi processi staliniani degli anni Trenta) e propose la ripresa dei rapporti diplomatici. Quando venne in discussione il problema Togliatti, di cui i sovietici avevano già chiesto il ritorno in patria, Prunas non sollevò obiezioni e auspicò che i comunisti avessero con il governo Badoglio un rapporto più costruttivo.
Non è tutto. Mentre facevano ricerche negli archivi sovietici, due studiosi, Viktor Zaslavsky e Elena Aga Rossi, hanno trovato documenti da cui risulta che Togliatti ebbe una lunga conversazione con Stalin al Cremlino, nella notte del 4 marzo 1944, alla presenza di Molotov, e ricevette istruzioni sulla politica che avrebbe dovuto perseguire dopo il ritorno in patria. Sino a quel momento, il leader comunista italiano era stato contrario a qualsiasi forma di collaborazione con la monarchia e con Badoglio. Nel loro libro (Togliatti e Stalin. Il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca Il Mulino, 1997) Zaslavsky e Aga Rossi sostengono che la partecipazione di Togliatti al governo Badoglio è soltanto uno dei numerosi casi in cui il Pci si è adeguato alle direttive della politica estera sovietica.

Corriere 28.10.14
Cia, la guerra sporca e quei mille nazisti arruolati contro i sovietici
Per i vertici dell’intelligence ogni mezzo era lecito per contrastare Mosca
Nel 1980 l’Fbi si rifiutò di fornire informazioni su 16 nazisti che vivevano negli Usa
di Massimo Gaggi

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Corriere 28.10.14
«Alcune composizioni di Bach sono state scritte dalla moglie»
Lo sostiene una ricerca australiana
«Dalla grafia si capisce
che a creare alcune opere è stata lei, non sembrano trascrizioni sotto dettatura»

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Corriere 28.10.14
Radio3
Con Orsini e Germano il teatro riscopre la radio
di Laura Zangarini


Su Radio3 un mese di spettacoli tra dirette e speciali Le voci dei grandi del teatro — da Umberto Orsini a Luca De Filippo, da Elio Germano a Laura Marinoni — si ascolteranno per un mese in radio. Dall’1 al 30 novembre torna «Tutto esaurito!», l’iniziativa di Radio3 a cura di Antonio Audino e Laura Palmieri. In calendario sette serate in diretta da via Asiago, a Roma, registrazioni realizzate ad hoc, recuperi dal nutrito archivio radiofonico e radiodrammi inediti o tratti dalle passate stagioni. Con un’importante novità: le serate dal vivo saranno visibili in diretta sul sito di Radio3, ma ogni iniziativa del festival potrà essere rivista su radio3.rai.it, nell’area dedicata ai contenuti multimediali.
Il cartellone offre, tra le molte, anche due serate speciali. La prima, dedicata a Eduardo De Filippo (11 novembre) nel trentennio dalla scomparsa, curata dal figlio Luca; la seconda con Umberto Orsini (24 novembre) e il suo A proposito… dei Karamazov , in cui, spiega l’attore «oltre alla Leggenda del Grande Inquisitore , riscrittura scenica intorno a Dostoevskij con cui sono in tournée, ci sarà spazio per estratti da un altro mio spettacolo, La ballata del carcere di Reading , e per la poesia, tra cui “La tovaglia” di Pascoli, bella e poco conosciuta».
In calendario anche opere «ripescate» dagli archivi Rai; un ciclo di radiodrammi che comprende tre nuovi lavori: Esodo (9 novembre) di Gaetano Colella, racconto su chi vive e lavora all’ombra dell’Ilva di Taranto; I quattro moschettieri in America dei Sacchi di Sabbia (29 novembre); Sulla scala di servizio (27 novembre) di Alberto Gozzi, ispirato a un testo di Witold Gombrowicz; e due «chicche», Brother and sister (22 novembre) di Simona Vinci, regia di Marco Risi, con Elio Germano (2002); e Dhulan, la sposa di Melania Mazzucco per la regia di Wilma Abate. «Mentre molti spazi teatrali vivono un periodo difficile — osserva il direttore di Radio3, Marino Sinibaldi — noi rilanciamo un’offerta abbondante e di qualità. Premiati da un successo di pubblico in crescita: se si calcolano le diverse piattaforme, l’anno scorso il mese del teatro ha attirato un migliaio di podcast al giorno».
Per la prima volta a «Tutto esaurito!» è stato anche inserito un «esperimento» radiofonico: la messa in onda a puntate (dal 13 al 16 novembre) di Francamente me ne infischio , cinque capitoli liberamente ispirati a Via col vento portati in scena da Antonio Latella. «Abbiamo messo a punto una “regia del suono” — spiega il regista — che ricrea le suggestioni, le atmosfere da sogno che attraversano lo spettacolo. Può sembrare un paradosso, ma un allestimento teatrale ripensato per l’ascolto radiofonico può regalare emozioni extra, perché ci si lascia avvolgere dal suono delle parole. È un ascolto più profondo, intimo, non distratto dall’esteriorità».