mercoledì 29 ottobre 2014

Corriere 29.10.14
La Marina contro Alfano sui migranti
L’ammiraglio che comanda la flotta italiana: andiamo avanti con Mare Nostrum a fianco dei mezzi dell’Ue
La replica del Viminale: l’uscita dalla missione sarà velocissima
di Fiorenza Sarzanini


ROMA La Marina militare sfida il ministro dell’Interno.
Dopo gli annunci di Angelino Alfano sulla chiusura dell’operazione umanitaria «Mare Nostrum» fissata per il primo di novembre, l’ammiraglio Filippo Maria Foffi — comandante in capo della flotta italiana e dunque responsabile della missione nelle acque del Mediterraneo — va a Bruxelles e dichiara: «Andiamo avanti, non abbiamo ricevuto alcun ordine ufficiale e dunque proseguiremo anche quando inizierà “Triton”, la nuova operazione Frontex nel mar Mediterraneo, per facilitare un passaggio di consegne efficace e senza problemi di sorta».
L’irritazione del ministro è evidente nella risposta che arriva poco dopo dal Viminale: «L’ordine arriverà non appena il Consiglio dei ministri fisserà i tempi — precisa —. L’uscita da “Mare Nostrum” sarà velocissima».
Lo scontro è dunque aperto. E provoca non poco imbarazzo anche al ministero della Difesa. Del resto, i soldi non ci sono, e non è stato previsto alcun nuovo stanziamento anche perché l’Italia aveva già fatto sapere di non poter sostenere una spesa di nove milioni di euro al mese. Dunque quella dell’alto ufficiale appare una provocazione. Anche perché arriva nelle stesse ore in cui il governo britannico attacca l’Unione Europea e fa sapere che non sosterrà «le operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterrano perché riteniamo che queste missioni creino un fattore di attrazione involontario, incoraggiando più migranti a tentare la traversata pericolosa del mare, determinando così le morti più tragiche e inutili».
Il malumore della Marina per la decisione di sospendere «Mare Nostrum» non è mai stato nascosto, tanto che nelle riunioni operative delle ultime settimane era stato ipotizzato di lasciare comunque una linea avanzata rispetto a quella «coperta» dall’Unione Europea con «Triton» (fissata a una distanza di trenta miglia dalle coste italiane) anche per garantire lo screening sanitario dei migranti. Ipotesi ritenuta poco percorribile, pur se non ancora esclusa in maniera definitiva. In realtà, i nostri militari avrebbero però voluto avere un ruolo di primo piano all’interno della nuova operazione sotto le insegne di Frontex, una sorta di «comando» che invece non è stato riconosciuto. E la reazione dei vertici non si è fatta attendere.
Nel suo intervento a Bruxelles, parlando di fronte al Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli, Foffi è stato esplicito, a tratti quasi ironico: «Non ho visto ancora nessun documento ufficiale riguardante Triton, soltanto molte bozze di lavoro, quindi non mi sento di commentare sulle forze che saranno messe in campo dall’agenzia per il controllo delle frontiere esterne dell’Unione, ma mi rallegro per quanto ho sentito oggi proprio da un funzionario di Frontex, che ha rassicurato sul fatto che con Triton parteciperanno anche a operazioni di salvataggio di vite in mare».
L’ammiraglio tiene a sottolineare che «fino a questo momento le decisioni del governo italiano, in particolare quella di continuare con “Mare Nostrum” per oltre un anno, sono state responsabili», come a lasciare intendere che la sospensione invece non lo è. Quindi evidenzia come «dopo aver agito da soli, con il solo aiuto di una nave slovena, sono contento che finalmente la Ue si prenda le sue responsabilità e metta in campo una vasta operazione i cui risultati, però, dipenderanno dalla volontà di collaborare di tutti gli Stati membri e dai mezzi che saranno messi a disposizione».
Poi il passaggio chiave: «”Mare nostrum” va avanti esattamente come è cominciata il 18 ottobre dell’anno scorso e collaboreremo con Frontex con tutte le capacità di cui disponiamo. Quando abbiamo iniziato, pensavamo durasse soltanto per un paio di mesi. Poi, con il passare del tempo, nessuno ci ha detto di smettere. Sicuramente riceveremo ordini a livello politico di interrompere l’operazione, ma al momento tali ordini non sono ancora arrivati».
Alfano fa sapere che accadrà prestissimo. Chissà se basterà a chiudere la polemica.

Repubblica 29.10.14
Londra: “Stop ai salvataggi di immigrati”
Decisione shock del governo Cameron: “Sospese le operazioni nel Mediterraneo per non incoraggiare i viaggi della speranza”
Associazioni dei diritti umani e Lib-Dem all’attacco: “Lasceranno morire donne e bambini per ragioni puramente politiche”
di Enrico Franceschini


LONDRA Salvare i migranti che affogano in mezzo al Mediterraneo è un incoraggiamento ad altri emigranti a tentare il viaggio per mare. E dunque la Gran Bretagna decide di sospendere le operazioni di soccorso che forniva in sostegno a quelle italiane insieme ad altri paesi europei. La politica del “lasciamo che affondino”, annunciata ieri dal governo di David Cameron, scatena un’ondata di critiche da parte di associazioni umanitarie e anche all’interno della stessa coalizione di maggioranza britannica. Una decisione cinica, deprimente, immorale, la definiscono i suoi accusatori, da Amnesty International al partito liberal-democratico. Ma per ora Londra conferma e difende la sua scelta, dietro la quale in realtà si intravede, secondo i commentatori, la preoccupazione del primo ministro di perdere le elezioni della primavera prossima sulla questione dell’immigrazione.
E’ stata lady Anelay, viceministro degli Esteri, ad annunciare la svolta: «Non appoggeremo più le operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Il nostro governo è convinto che esse incoraggino non intenzionalmente altri migranti a imbarcarsi in una pericolosa traversata e che dunque conducano ad altre morti tragiche e non necessarie». Il metodo più efficace per affrontare il problema, ha proseguito l’alto responsabile del Foreign Office britannico, è «concentrare l’attenzione sui paesi di origine e di transito, così come prendere misure contro i trafficanti di esseri umani». In sostanzia, il Regno Unito suggerisce di aiutare l’Africa a migliorare le proprie condizioni economiche, affinché i suoi popoli smettano di fuggire in Europa alla ricerca di un lavoro e di una vita migliore.
Ammesso che sia giusta, è una strategia che richiede anni o decenni: l’emigrazione non scompare dalla mattina alla sera. «E comunque», afferma Kate Allen, direttrice della sede londinese di Amnesty International, «la vaga prospettiva di essere salvati non è mai stato l’incentivo all’emigrazione. Sono le guerre, la povertà e la fame che spingono individui disperati a rischiare la vita. La storia non perdonerà questa cinica decisione». Amnesty osserva che le operazioni di soccorso nel Mediterraneo intraprese dall’Italia con l’aiuto della Marina Militare di altri paesi hanno salvato 150 mila persone e che la Gran Bretagna dovrebbe moltiplicare gli sforzi in tale direzione anziché cancellarli. «Questo è un triste giorno per la reputazione morale britannica», conclude la direttrice dell’associazione per la difesa dei diritti umani, «quando è venuto il momento, il Regno Unito ha voltato le spalle a esseri disperati e li ha lasciati affogare». Concorda Sarah Teather, deputato ed ex ministro liberaldemocratico, cioè del partito alleato dei conservatori di Cameron nella coalizione di governo: «E’ una decisione profondamente deprimente. Lasceremo che uomini, donne e bambini affoghino per ragioni puramente politiche. Abbiamo raggiunto inediti livelli di inumanità».
I giornali scrivono che Cameron è spaventato dall’ascesa nei sondaggi dell’Ukip, il partito anti-europeo e anti-immigrati che ha vinto le elezioni europee del maggio scorso in Gran Bretagna e che potrebbe prendere il 19 per cento, secondo un rilevamento pubblicato ieri dall’ Independent, alle elezioni britanniche del maggio prossimo. Per questo il premier fa la voce sempre più dura verso l’Ue sull’immigrazione. L’Italia, che si appresta a lanciare una nuova fase di soccorsi, l’Operazione Tritone, non ha i mezzi per farcela da sola, ammonisce Amnesty International, e ha «disperatamente bisogno» dell’aiuto di altri paesi. Ma per Cameron la sopravvivenza politica sembra avere la priorità.

Corriere 29.10.14
Il primo novembre
E la sinistra torna in piazza per i curdi
di Massimo Rebotti

qui

Repubblica 29.10.14
La differenza visibile tra destra e sinistra
Il contrasto tra lo scenario della Leopolda e quello di piazza San Giovanni non poteva trovare una sintesi in modo più efficace
di Luciano Gallino


NON si sa chi sia, il regista delle due manifestazioni contemporanee della scorsa settimana, piazza San Giovanni e Leopolda. Di certo è un grande talento. Il contrasto tra lo scenario dei due eventi non poteva venire realizzato in modo più efficace. Da un lato un gran sole, il cielo azzurro, uno spazio amplissimo, una folla sterminata, brevi discorsi su temi concreti. Dall’altra un garage semibuio dove non si riusciva a vedere al di là di una decina di metri, un centinaio di tavoli dove si parlava di tutto, un lungo discorso del presidente del Consiglio in cui spiccavano acute considerazioni sull’iPhone e la fotografia digitale, e non più di sei-settemila persone — giusto 140 volte meno che a San Giovanni.
Il duplice scenario e la composizione dei partecipanti sono stati quanto mai efficaci per chiarire che a Roma sfilava un variegato popolo rappresentante fisicamente e culturalmente la sinistra, sebbene del tutto privo di un partito che interpreti e difenda le sue ragioni. Mentre a Firenze sedeva a rendere omaggio al principe un gruppo della borghesia medio-alta orientato palesemente a destra — a cominciare dal Principe stesso. Vi sono due condizioni che fanno, oggi come ieri, la differenza tra destra e sinistra.
Una è la scelta della parte sociale da cui stare: in politica, nell’economia, nella cultura.
Il che significa o sostenere che le disuguaglianze non hanno alcun peso nei rapporti sociali, o magari negare che esistano; oppure darvi il peso che moralmente e politicamente meritano, e adoperarsi per ridurle. L’altra condizione è la capacità di capire in che direzione si sta evolvendo la situazione economica e sociale del momento. Perché se non lo capisce uno sta uscendo, senza rendersene conto, dal corso della storia.
Nel caso della prima condizione la differenza tra Roma e Firenze era evidente. Alla manifestazione di Roma non c’erano (o erano poche) le persone che dovevano scegliere se stare o no dalla parte dei deboli, degli svantaggiati, delle classi inferiori di reddito, di quelli il cui destino dipende sempre da qualcun altro. Erano loro stessi, la massa dei partecipanti, a essere deboli, svantaggiati, poveri, perennemente in balia del parere e della volontà di qualcun altro. Collocati, in altre parole, al fondo delle classifiche delle disuguaglianze di reddito, di ricchezza, di potere politico ed economico; disuguaglianze il cui scandaloso aumento negli ultimi vent’anni, nel nostro paese come in altri, accompagnato dalla scomparsa del tema stesso nel discorso delle socialdemocrazie, ha fatto parlare più di uno studioso di nuovo feudalesimo.
Invece nel garage semibuio di Firenze c’erano soprattutto persone a cui l’idea di stare dalla parte dei più deboli e magari di dichiararlo appariva semplicemente repellente, o quanto meno fastidiosa, non meno che mettersi a parlare “in un mondo che è cambiato” di lotta alle disuguaglianze. Al massimo i più deboli si possono aiutare a soffrire di meno, non certo a diventare meno deboli, o a salire un gradino nella scala delle disuguaglianze, grazie a un sindacato o un partito. Per non dire che la parola “partito” significa appunto “aver preso parte” — idea demolita a Firenze dall’idea di un partito- nazione (ma l’ha detto qualcuno a Renzi che la parola “nazione” o “nazionale” figuravano tempo addietro nel nome di un paio di partiti che molti guai procurarono all’Italia e all’Europa?).
Anche per l’altra condizione non c’era confronto tra i partecipanti di piazza San Giovanni e quelli della Leopolda. Per i primi era evidente che quello che sta succedendo da parecchi anni è una “guerra dell’austerità”, per usare la dizione di un noto economista americano. Una guerra di classe in cui la destra si prefigge di distruggere le conquiste sociali degli anni 60 e 70, che furono un tentativo riuscito di sottoporre il capitalismo a una ragionevole dose di controllo democratico. Le misure imposte da Bruxelles, di cui il governo Renzi, a parte qualche battuta, è fedele esecutore, sono precisamente espressione di tale guerra o conflitto di classe, nella quale le classi dominanti hanno negli ultimi decenni conseguito una grande vittoria. Equivalente a una dolorosa sconfitta per i manifestanti romani. A Firenze l’interpretazione predominante della crisi è stata quella canonica delle destre europee: lo stato ha un debito troppo alto, dovuto all’eccesso di spesa; il problema è il costo eccessivo del lavoro; per rilanciare la crescita bisogna ridurre le tasse alle imprese; i dettati di Bruxelles sono onerosi, ma bisogna pur mantenere gli impegni, ecc. Ciascuno di questi slogan è falso quanto dannoso — e si noti che a dirlo sono ormai dozzine di economisti, compresi perfino alcuni esponenti delle dottrine neoliberali. A parte l’interpretazione ortodossa della crisi, che non sta in piedi, chi vi aderisce non si rende conto che ci si avvicina a un momento in cui o si modificano i trattati europei e si adottano politiche economiche opposte a quelle del governo Renzi (che sono poi quelle degli ultimi tre o quattro governi, prescritte dalla Troika e da noi passivamente messe in atto), o ci si avvia ad un lungo periodo di grave recessione e di rapporti intereuropei sempre più difficili, nonché dagli esiti imprevedibili.
Un’ultima nota: a saperlo interpretare (non che ci voglia molto), la massa dei partecipanti di Roma ha lanciato un messaggio chiaro. Ha detto in sostanza “siamo tanti, non contiamo niente, vogliamo essere qualcosa”. Tempo fa, un messaggio analogo ebbe effetti rilevanti. Ignorarlo, o parlarne con disprezzo, potrebbe rivelarsi un serio errore, a destra come a sinistra.

Repubblica 29.10.14
Nell’elogio della discordia l’anima kantiana di Bobbio
Tra le grandi lezioni del filosofo italiano c’è il concetto di “democrazia minima” contro l’idea dell’unità a tutti i costi che annulla pluralismo e differenze
di Gustavo Zagrebelsky


TUTTI i concetti generali della politica — libertà, uguaglianza, giustizia, nazione, stato, per esempio — sono usati in significati diversi, con la conseguenza di confusioni inconsapevoli e di inganni consapevoli. Gaetano Salvemini, lo storico antifascista che Bobbio include nel pantheon dei suoi “maestri nell’impegno”, ha scritto: «La parola democrazia è adoperata per indicare dottrine e attività diametralmente opposte a una delle istituzioni essenziali di un regime democratico, vale a dire l’autogoverno. Così noi sentiamo [parlare] di una cosiddetta “democrazia cristiana” che, secondo la Catholic Enciclopedia, ha lo scopo di “confortare ed elevare le classi inferiori escludendo espressamente ogni apparenza o implicazione di significato politico”; questa democrazia esisteva già al tempo di Costantino, quando il clero “dette inizio all’attività pratica della democrazia cristiana”, istituendo ospizi per orfani, anziani, infermi e viandanti.
I fascisti, i nazisti e i comunisti hanno spesso dato l’etichetta di democrazia, anzi della “reale”, “vera”, “piena”, “sostanziale”, “più onesta” democrazia ai regimi politici d’Italia, della Germania e della Russia attuali [siamo nel 1940], perché questi regimi professano anch’essi di confortare ed elevare le classi inferiori, dopo averle private di quegli stessi diritti politici senza i quali non è possibile concepire il “governo dei popoli”».
Invito al colloquio è il titolo del primo saggio di Politica e cultura ( Einaudi), un’espressione che riassume l’intera attività politico-intellettuale di Bobbio. Ma, il colloquio, affinché non si svolga in acque torbide, deve sapere qual è l’oggetto e che cosa, per non intorbidirle, ne deve stare fuori. Per questo, una definizione è necessaria, ma una definizione troppo pretenziosa non aprirebbe, bensì chiuderebbe il confronto. Ecco l’attaccamento di Bobbio alle “definizioni minime”. Sono minime le sue definizioni di socialismo, liberalismo, destra e sinistra, ad esempio. Ed è minima la definizione di democrazia; potremmo anzi dire minimissima: a) tutti devono poter partecipare, direttamente o indirettamente, alle decisioni collettive; b) le decisioni collettive devono essere prese a maggioranza. Tutto qui. Oltre che minima, questa definizione è anche solo formale: si riferisce al “chi” e al “come”, ma non al “che cosa”. Riguarda soltanto — come si usa dire per analogia — le “regole del gioco”.
In uno scambio epistolare con Pietro Ingrao sul tema della democrazia e delle riforme costituzionali che ebbe luogo tra il novembre 1985 e il gennaio 1986 (P. Ingrao , Crisi e riforma del Parlamento , Ediesse), troviamo una dimostrazione di ciò a cui serve il “concetto minimo”. Serve, da una parte, a includere, e dall’altra, a escludere e, così facendo, a chiarire. I punti del contrasto riguardano quello che allora era il progetto d’Ingrao, descritto in un libro dal titolo significativo: Masse e potere ( Editori Riuniti, 1977) che allora ebbe grande successo e che ora — mi pare — è dimenticato: la democrazia di massa o di base, unitaria e capace di egemonia. Ma gli argomenti chiamati in causa possono riguardare, in generale, tutte quelle che Bobbio avrebbe considerato degenerazioni della democrazia, alla stregua della sua definizione minima, come ad esempio, la “democrazia dell’applauso” di cui egli parla nel 1984, a proposito della conquista del Partito socialista da parte del suo segretario di allora), o la democrazia dell’investitura plebiscitaria e populista dei tempi più recenti.
Si prenda la “massa”. Bobbio chiede «che cosa si possa intendere mai per democrazia di massa di diverso da quel che s’intende per democrazia fondata sul suffragio universale»; che cosa si dica di più e di meglio «rispetto a quel che s’intende quando si parla di un sistema politico in cui tutti i cittadini maggiorenni hanno il diritto di voto»? Se non s’intende nulla di diverso, la democrazia di massa è perfettamente compatibile, anzi è la definizione formale della democrazia nella quale i cittadini possono riunirsi e associarsi per svolgere attività politica. Ma non è tutto. Introdurre le masse al poa sto dei cittadini non lascia capire esattamente di che cosa si stia parlando e nella zona grigia dell’incertezza entrano atteggiamenti emotivi che difficilmente diremmo democratici. Ingrao usa espressioni come «irruzione delle masse nello Stato», «un fiume tumultuoso che rompe gli argini e spazza e travolge ciò che trova nel suo corso», all’azione diretta della folla. Massa può alludere a un corpo collettivo amorfo e indifferenziato, mentre il soggetto principe di un regime democratico è il singolo individuo. «In democrazia non ci possono essere masse: ci sono o individui, oppure associazioni volontarie di individui, come i sindacati e i partiti». In ogni caso, in democrazia gli individui pensano e vogliono a partire dalla propria autonomia morale. Sanno affrancarsi dalla “psicologia della massa” sulla quale si appoggiano e si sono appoggiati tutti i demagoghi d’ogni tempo e luogo.
E l’unità? Che senso ha l’appello all’unità che il Partito comunista di quegli anni insistentemente faceva proprio: compromesso storico, alternativa democratica, oggi Pd o, addirittura, Partito della Nazione? La democrazia è un regime d’insieme e «non può essere chiamato democratico [si può aggiungere: nazionale] in una delle sue parti se non costo di creare una notevole confusione. Se una di queste parti viene chiamata “democratica” [o nazionale] è segno che la si considera una parte che tende a identificarsi col tutto». L’unità sconfina nella unicità. La democrazia richiede “distinzioni”, cioè pluralismo. «Senza pluralismo non è possibile alcuna forma di governo democratico e nessun governo democratico può permettersi di ridurre, limitare, comprimere il pluralismo senza trasformarsi nel suo contrario». La sintesi è espressa da Bobbio in termini assai forti, perfino scandalosi: «La discordia è il sale della democrazia, o più precisamente della dottrina liberale che sta alla base della democrazia moderna (per distinguerla dalla democrazia degli antichi). Resta sempre a fondamento del pensiero liberale e democratico moderno il famoso detto di Kant: “L’uomo vuole la concordia, ma la natura sa meglio di lui ciò che è buono per la sua specie: essa vuole la discordia”».
E l’egemonia? Qui Bobbio confessa che si tratta d’un concetto che gli è “meno familiare”, ma ciò non gli impedisce di porre una domanda analoga a quella posta a proposito della “massa”: «Mi piacerebbe che qualcuno mi spiegasse in che cosa consista l’egemonia in un sistema democratico se non nella capacità di ottenere il maggior numero di voti […] Se qualcuno mi sa dire che cosa significhi in democrazia, entro il sistema di certe regole del gioco, conquistare l’egemonia, oltre al conquistare il consenso degli elettori, lo prego di farsi avanti».
Insomma: egemonia, massa, unità non appartengono al sistema concettuale del pensiero liberal-democratico e appartengono invece alla tradizione del pensiero marxista. Tutto si tiene in una concezione della democrazia che contraddice l’universo politico che, in fin dei conti, era anche quello di Ingrao de Partito comunista. La forza elementare delle argomentazioni di Bobbio porta, alla fine, a una certa convergenza. Dice Ingrao e certo Bobbio avrebbe concordato (cito dalla lettera che conclude lo scambio): «”Democrazia minima”: dici tu. Ma anche quel livello minimo (eguaglianza formale nella libertà di voto) può realizzarsi senza chiamare in causa tutta una serie di condizioni, che riguardano libertà di voto, modalità di voto, contenuti del voto, conseguenze del voto, attuazione del voto? L’atto è quello. Ma il quadro — sociale, politico, statuale — entro cui esso si svolge è decisivo, perché esso possa essere non dico esaustivo (?), ma significante. Per “minima” che sia la democrazia, quel voto ha bisogno di un prima e di un poi che gli diano verità. Altrimenti la forma dell’uguaglianza rivela il suo limite, la sua debolezza di contenuto». Questo dice Ingrao. Ma, chi potrebbe dissentire? Chiunque s’ispiri a una concezione liberale della democrazia — Bobbio in primis — non potrebbe non essere d’accordo.
Non è questa la sede per distribuire le ragioni e torti, anche se a me pare, sommessamente, che sia stato Bobbio a condurre Ingrao sulla sua strada, e non viceversa. In ogni caso, la definizione minima del primo si è dimostrata feconda di dialogo con il secondo.

La Stampa 29.10.14
Torino, convegno su Bobbio «costituzionalista»

«Bobbio “costituzionalista”» è il titolo del convegno in programma domani dalle 9,15 a Torino presso il Campus Einaudi (Lungodora Siena, 100). Interverranno tra gli altri Gustavo Zagrebelsky, che parlerà di «Democrazia formale e sostanziale», Cesare Pinelli («Forme di governo antiche e contemporanee»), Alfonso Di Giovine («Laicità e immanentismo nel pensiero di Bobbio»), Michela Manetti («I diritti di libertà»), Enrico Grosso («Democrazia rappresentativa e democrazia diretta», Mario Losano («Diritto e democrazia nel filosofo del dialogo»).

Repubblica 29.10.14
“Renzi è a Palazzo Chigi per volere dei poteri forti lo ha ammesso Marchionne”
Camusso: ecco perché non parla con noi, ma solo con le corporazioni
“Per come è stata scritta la norma sull’Irap favorirà solo le grandi imprese riducendogli i costi ma non avrà alcun effetto sull’occupazione”
Manovra e Jobs act si possono cambiare. Faremo lo sciopero generale
intervista di Roberto Mania


ROMA A un certo punto Susanna Camusso interrompe questa intervista, si alza, sigaretta in mano, e va verso la bacheca del suo ufficio con affaccio su Villa Borghese. Tra foto, messaggi, ricordi e volantini della Cgil, c’è un lancio di agenzia con una dichiarazione di Sergio Marchionne del 2 ottobre scorso. Parla del mercato del lavoro, l’ad di Fca, della necessità di togliere «i rottami dai binari». Ed è questo, spiega, il compito affidato a Renzi. Precisa: «L’abbiamo messo là per quella ragione lì».
Il segretario generale della Cgil si risiede: «Vede, quella dichiarazione non è mai stata smentita. A me colpisce molto che un cittadino svizzero che ha spostato le sedi legale e fiscale della Fiat all’estero possa dire del nostro presidente del Consiglio “L’abbiamo messo là” e che lo possa fare senza suscitare alcuna reazione».
Cosa vuol dire, segretario?
«Questo spiega l’attenzione del governo nei confronti dei grandi soggetti portatori di interessi particolari».
Il governo dei “poteri forti”?
«Quelle parole di Marchionne illustrano meglio di qualsiasi altro ragionamento perché questo governo non ha alcuna disponibilità a confrontarsi con chi, come i sindacati, rappresenta interessi generali, non corporativi».
Ma il governo non copiava, secondo la Cgil, i documenti preparati dalla Confindustria? E Confindustria non rappresenta tutte le imprese?
«Il governo copia le proposte delle grandi imprese di Confindustria».
Dove sono in Italia le grandi imprese?
«La Fiat, le partecipate dal Tesoro... Ce ne sono e sanno fare lobby».
Eppure Squinzi ha detto che il taglio dell’Irap è “un sogno” che vale
per tutte le aziende.
«Constato che per come è la norma dell’Irap favorirà prevalentemente le grandi imprese riducendo i loro costi. Ma non avrà alcun effetto sull’occupazione».
La Cgil, dunque, non rinuncia all’idea di cambiare la legge di Stabilità
«Non rinunciamo affatto all’idea di poter cambiare la Stabilità come le riforme che sono state presentate. Non si può pensare di cambiare la pubblica amministrazione tagliando i posti di lavoro e non tagliando le 30 mila stazioni appaltanti dove si annidano gli interessi dei poteri forti, quelli che paralizzano l’attività della pubblica amministrazione. Faccio un altro esempio: il Tfr è salario differito, i fondi integrativi sono frutto della contrattazione. Questo governo vuole aumentare le tasse sul Tfr e penalizzare la previdenza integrativa. E i sindacati non avrebbero titolo a discuterne? Aggiungo, in generale, che una politica economica espansiva non può ridursi al taglio delle tasse e della spesa. Come dimostra la ripresa americana sono necessari gli investimenti anche pubblici».
Con quali risorse?
«L’abbiamo già detto: serve una patrimoniale. Ce l’ha anche la Germania» Ma il governo ha detto che con voi non contratta.
«Mi pare che la parola contrattare sia diventata un’ossessione di questo governo. Noi non abbiamo dubbi che le leggi vadano discusse e approvate in Parlamento. Siamo talmente convinti che ci preoccupa l’ampio uso che si fa del voto di fiducia. E poi questo governo non può certo dire che non ci siano state trattative extraparlamentari come per esempio sulla legge elettorale, sulle riforme istituzionali o sulla riforma delle giustizia con l’ordine degli avvocati. Non ci si confronta solo con chi ha una rappresentanza generale. Anche se il ministro Poletti quando ha aperto l’incontro di lunedì non ha escluso la possibilità di un intervento del governo per emendare, eventualmente, la legge di Stabilità. Poi l’incontro è finito in un altro modo. Non so perché. E non so nemmeno perché su alcuni giornali sia stato raccontato un incontro diverso da quello al quale ho preso parte io. Continuo a pensare che sia stato surreale il fatto che i ministri non si siano espressi sulle nostre osservazioni. Si ascoltano le corporazioni, ma non chi rappresenta il lavoro. E il lavoro è stata la grande domanda della manifestazione di sabato».
A cosa è servita quella manifestazione?
«Ha cambiato tante cose. Intanto, con lo stupore di molti, si è visto che il sindacato non è fatto solo di pensionati, ma anche di giovani, di precari, di disoccupati. Si è visto che includiamo e che non dividiamo come fa il governo».
Dopo le critiche di Renzi, segretario del Pd, alla Cgil, lei rinnoverà la tessera al partito?
«Non rispondo a questa domanda perché dietro di essa c’è la stessa logica che ha portato a guardare la manifestazione di sabato come un’iniziativa all’interno del dibattito del Pd. Invece quella era una piazza del lavoro».
Lei comunque è un’iscritta al Pd: c’è il rischio di una scissione? Cosa pensa di Landini leader di un nuovo partito di sinistra?
«Sono il segretario generale della Cgil. Ho la responsabilità di difendere l’autonomia del più grande sindacato italiano e non intervengo nelle vicende interne di un partito. Per quanto riguarda Maurizio mi immagino che abbia la stessa opinione sull’autonomia del sindacato».
Perché quando Renzi ha detto che è finita l’epoca del posto fisso lei ha risposto che non sa di cosa parla?
«Perché non c’è alcuna relazione tra il cosiddetto posto fisso e l’articolo 18. Ed è lo stesso governo a riconoscerlo nel Jobs Act. Renzi rispolvera un argomento di Monti di tre anni fa. La differenza è che allora la Confindustria diceva che non era quello il problema, mentre oggi ha un’altra linea».
Torniamo ai poteri forti. Mi dica: quando proclamerete lo sciopero generale?
«Calibreremo le nostre iniziative mantenendo i nervi saldi. Ci saranno gli scioperi articolati, manifestazioni iniziative e poi faremo lo sciopero generale. Lo deciderà come sempre il nostro Comitato direttivo convocato per metà novembre».

Corriere 29.10.14
In marcia (da sola) verso lo sciopero
La partita rischiosa della Cgil
Da Cisl e Uil strategie diverse
di Enrico Marro


ROMA Lo scontro tra Matteo Renzi e la Cgil potrebbe finire con lo sciopero generale della stessa Cgil, a dicembre. Un finale altamente rischioso per la confederazione di Susanna Camusso e che, proprio per questo, potrebbe non dispiacere allo stesso presidente del Consiglio. Non che Renzi lo auspichi, ma certo non farà i salti mortali per evitarlo. Lo sciopero generale, insomma, per come si sono messe le cose, è più un problema per la Cgil che per il governo. Vediamo perché.
Dopo l’incontro andato male con l’esecutivo, le tre confederazioni seguiranno strade diverse. La Cgil, ringalluzzita dalla manifestazione di San Giovanni, ha riunito la segreteria allargata ai segretari regionali e di categoria, registrando un coro unanime di incitamento a proseguire la mobilitazione, fino appunto allo sciopero generale, se dal governo non verranno cedimenti su Jobs act e legge di Stabilità. L’affondo di Renzi («le leggi non le tratto col sindacato») ha ricompattato la Cgil sulle posizioni più dure, quelle per capirci del leader della Fiom, Maurizio Landini, il primo a proporre lo sciopero generale. Renziani, nella Cgil, per ora non se ne vedono. Anche Carla Cantone, leader dei pensionati, è all’attacco: «Renzi sbaglia, è lui che vuole lo scontro. E io sono una sindacalista abituata a combattere. Lo farò anche ora».
La Cisl, invece, anche col nuovo segretario generale, Annamaria Furlan, ha lo stesso problema di sempre: non restare schiacciata dallo scontro fra la Cgil e il governo (ieri Berlusconi, oggi Renzi). E così Furlan spiega che nell’orizzonte della Cisl non c’è lo sciopero generale né, a maggior ragione, «l’occupazione delle fabbriche», guarda caso evocata da Landini. La Cisl cercherà il confronto col governo, sfruttando una certa interlocuzione col sottosegretario Graziano Delrio e col ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che pare esserci. La Uil, infine. È impegnata nel congresso che a novembre eleggerà il 67enne Carmelo Barbagallo al posto di Luigi Angeletti. Barbagallo ha detto che ci vorrebbero iniziative comuni. Ma non ha la forza di andare oltre. Certo, i pensionati e il pubblico impiego hanno già in programma manifestazioni unitarie Cgil, Cisl e Uil, il 5 e l’8 novembre. Ma ciò non basta a costruire uno sciopero generale unitario.
Che quindi se ci sarà, sarà della sola Cgil. Al massimo col sostegno di una minoranza Pd che non sa bene cosa fare e che ieri si è beccata l’avvertimento dell’ultimo tesoriere dei Democratici di sinistra, Ugo Sposetti: «Chi vuole la scissione non venga a cercare me». Uno sciopero generale per modo di dire, dunque. La Cgil rischierebbe il flop, un flop clamoroso. E la vittoria finale di Renzi.

il Fatto 29.10.14
Sciopero generale anti-Renzi. La Cgil si gioca l’ultima carta
La Camusso vuole aspettare dicembre: spera che la crisi affondi il premier
di Giorgio Meletti


La sfida è mortale. Matteo Renzi vuole la Cgil fuori dal terreno di gioco. Susanna Camusso ha una sola vera speranza, che il rottamatore imploda a breve, travolto dagli implacabili numeri della crisi. In subordine, la Cgil può solo cercare di guadagnare tempo per rinviare la resa. Così nella sede romana di Corso Italia è già iniziata la discussione organizzativa sullo sciopero generale che Maurizio Landini della Fiom vuole già a novembre, a costo di farlo solo con i metalmeccanici, e che Camusso vorrebbe rinviare a dicembre. A quel punto le partite di Jobs Act e legge di stabilità saranno già concluse, ma non importa, se Renzi non si schianta sarà in ogni caso una lunga marcia.
LO SCARTO tra le illusioni e la realtà Camusso l'ha misurato nelle sole 48 ore che hanno separato la trionfale manifestazione di sabato scorso e lo schiaffone che si è presa lunedì pomeriggio a Palazzo Chigi.
Ecco Camusso 1 nel retropalco di piazza San Giovanni baciare con vivo affetto ed entusiasmo l'irredentista pidino Stefano Fassina che si complimenta: “Mi pare che ha funzionato”. Lei replica sorridente: “Possiamo respirare bene, no? ”. Sì, una bella boccata d’ossigeno, la manifestazione contro Renzi è andata meglio delle previsioni degli stessi organizzatori. Ed ecco Camusso 2 che va all'incontro con il governo sulla legge di Stabilità e ne esce con le mascelle serrate. “Lo spirito dell’incontro si potrebbe riassumere in: mandateci una mail”.
Altro che email. A stretto giro Renzi, che ha disertato l'incontro con i sindacati, va in tv e scandisce: “I sindacati devono trattare le condizioni dei lavoratori con le imprese, non le leggi con il governo”. In confronto gli arzigogolati distinguo di Mario Monti sulla fine della concertazione erano carezze. E infatti quel governo tecnico non ha pagato dazio, al ministro Elsa Fornero fu consentita una feroce riforma delle pensioni (con tanto di esodati) e il depotenziamento dell'articolo 18 al modico prezzo di uno scioperetto di tre ore “per lavarsi la coscienza”, come rimarcarono i più critici. Polemica antica. Il 16 ottobre 2010, sempre a San Giovanni, Maurizio Landini esordì con il suo primo comizio da segretario della Fiom chiedendo alla Cgil lo sciopero generale, e l'allora leader Guglielmo Epifani lo liquidò ricordandogli che “per i lavoratori lo sciopero è un grande sacrificio”. Adesso Ca-musso è pronta a impugnare per la prima volta l'arma dello sciopero generale soprattutto per dimostrare che Landini non ha il monopolio della lotta dura.
MA RENZI stringe il cappio intorno al collo della Cgil, rivendicando che il popolo di sinistra comunque sta con lui, e snocciola risultati elettorali e sondaggi politici che sono l'unica lingua che gli piace parlare. Camusso è costretta ad alzare la posta per tre ragioni. Glielo chiede l'apparato che l'ha espressa quattro anni fa, preoccupato per il proprio futuro. Deve prendere tempo con un conflitto che giustifichi l'esistenza della sua organizzazione. Deve scrollarsi di dosso lo scetticismo di parte del suo stesso mondo. Nessuno parla apertamente, perché questi sono gli usi della casa, ma in molti sanno che i suoi quattro anni di leadership sono stati segnati da tentennamenti e scelte peculiari, come quella di dedicarsi alla guerra contro la Fiom di Landini e ai solenni accordi con la Confindustria di Emma Marcegaglia.
Le 48 ore che hanno avvelenato l'umore di Camusso hanno provocato effetti a catena. Carla Cantone, capo dello Spi, il sindacato dei pensionati che con tre milioni di iscritti vale metà dell’organizzazione, sabato scorso ai piedi del palco predicava il dialogo con Renzi: “Non andiamo avanti con il muro contro muro o peggio fare finta di fare il muro contro muro”. Cantone è la stessa che nel 2013, all’indomani del trionfo grillino alle elezioni politiche, accusava Camusso di immobilismo e intimava al sindacato di non “rendersi sordo davanti alla richiesta forte di parole e azioni nuove”. Adesso prende atto della durezza di Renzi e si schiera con il segretario generale: “Se il governo non vuole dialogare io sono per combattere, io sono una combattente”.
MA È UNA LOTTA contro il tempo. Renzi vuole certificare l’irrilevanza del sindacato, Ca-musso deve rinviare il momento in cui la provocazione del premier diventi nozione comune. È una marcia in salita. Per la prima volta nella sua storia la Cgil non è più affiancata a un grande partito politico, con una conseguenza terrificante. Migliaia di quadri sindacali sparsi per la penisola non vedono più un orizzonte politico per le proprie ambizioni personali, quelle che hanno portato finora dal sindacato al Parlamento, a un consiglio regionale, a una poltrona di sindaco. Così si diffonde anche dentro la Cgil, spontanea e inarrestabile, quella voglia di renzismo che rende tutto più difficile per Camusso.

La Stampa 29.10.14
I sindacati: “Il governo ci snobba? È un cattivo datore di lavoro”
Il 5 e 8 novembre in piazza i pensionati e i dipendenti pubblici
di Roberto Giovannini


Una volta lo chiamavano il «modello renano»: era il sistema. diffuso ovunque, nell’Europa continentale. in cui governi, sindacati e imprenditori discutevano, condividevano obiettivi e strategie di politica economica, e concordavano (ognuno per la sua parte) i comportamenti. In Italia. anche se poi indubbiamente c’è stata una degenerazione. lo si è usato (Amato-Ciampi 1992-93) per battere l’inflazione e avviare il risanamento dei conti, o per centrare l’ingresso nell’euro (Prodi 1996). Un relitto del passato, dopo le parole di Matteo Renzi, secondo cui «surreale è pensare che il governo tratti con il sindacato». Cgil-Cisl-Uil, ha spiegato il premier, possono negoziare soltanto con i datori di lavoro.
Senonché, fanno notare i sindacati, il governo è il più grande datore di lavoro d’Italia. Tecnicamente, infatti, insieme con tutte le amministrazioni pubbliche, Palazzo Chigi è il «padrone» di 3,3 milioni di lavoratori italiani: i dipendenti pubblici. È il governo a decidere se i contratti si rinnovano o meno: dal 2008 si è deciso di non postare più i soldi necessari per i rinnovi contrattuali, e di soldi non ce ne saranno fino al lontano 2018. Secondo stime accreditate, dal 2009 a oggi i «pubblici» hanno perso in media 4.800 euro di mancati aumenti. Sempre il governo (anche se indirettamente) è la controparte di fatto per 15 milioni di pensionati, di cui può modificare in cento modi l’assegno o le condizioni di vita. Come si comporta il governo, come «azienda»? Tratta bene? «Macché. accusa Rosanna Dettori, numero della Fp-Cgil. è un cattivo datore di lavoro. Non sblocca la contrattazione, eliminando l’unico strumento per aumentare la produttività e la qualità del lavoro pubblico. Taglia i servizi, perché i tagli lineari producono solo un arretramento dello spazio pubblico o ricadono sulla tassazione locale. Abbandona persino l’unica proposta davvero utile: la staffetta generazione, che si tradurrà in miseri 540 assunti invece dei 15.000 promessi».
È vero che il governo non licenzia i pubblici dipendenti, nonostante gli inviti dell’ex- Commissario Cottarelli. Forse i «pubblici» sono troppi (anche se le statistiche dimostrano che in Europa ce ne sono molto di più); di certo sono male utilizzati, come ha anche ammesso il ministro Marianna Madia. Ma è pensabile che il contratto non si rinnovi proprio mai? Per protestare contro il «datore di lavoro» Renzi, i sindacati di categoria hanno unitariamente proclamato per l’8 novembre una manifestazione a Roma.
E saranno invece addirittura tre. a Milano, Palermo e Roma. le manifestazioni dei pensionati del 5 novembre, anche queste indette dalle organizzazioni di Cgil-Cisl-Uil. Spi, Fnp e Uilp chiedono interventi urgenti su reddito da pensione, fisco, welfare, sanità e non autosufficienza. Ma quel che brucia di più è la promessa. non mantenuta. del premier, che aveva detto la scorsa primavera che anche i pensionati poveri avrebbero avuto il bonus degli 80 euro. «È stato proprio Renzi ad annunciarlo. tuona Gigi Bonfanti, leader dei pensionati della Cisl. e poi se l’è rimangiata, deludendo le aspettative che aveva creato. Il problema non è “trattare” con i sindacati, ma ascoltare seriamente le proposte che avanzano».

Corriere 29.10.14
Il compromesso con l’Europa rafforza il governo
di Massimo Franco


Sarà perché il governo ha offerto gran parte delle garanzie richieste. Oppure per il modo in cui Matteo Renzi e il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan hanno impostato la trattativa. Il risultato è comunque il «via libera» della Commissione europea alla legge di Stabilità italiana. È vero che sono state promosse con riserva anche altre economie sotto osservazione, a cominciare dalla francese. Significa che l’Ue non ha intenzione di aprire un fronte conflittuale troppo vasto in un momento di crisi e di impopolarità. Per il governo è un’affermazione oggettiva, e spendibile anche sul piano interno, dove le tensioni rimangono alte.
Le più aspre, per paradosso, si stanno consumando dentro la sinistra. Non è tanto il contrasto con la minoranza pd ad alimentare un senso di precarietà e di coabitazione forzata tra spezzoni ormai estranei. Su quel versante, il premier non ha veri avversari. Piuttosto, sono la frattura con i sindacati, o meglio con la Cgil, storica organizzazione di riferimento del Pd, a conferire al conflitto risvolti sociali non trascurabili; e le trattative a muso duro con enti locali in prevalenza governati dalle sinistre. Dunque, Renzi ha archiviato con una certa ruvidezza la cosiddetta concertazione.
«La chiusura ai sindacati», secondo Nichi Vendola (Sel), «è un esercizio di esibizione muscolare». Eppure, Renzi è stato attento a giocare sulle divisioni tra Cgil, Cisl e Uil. E ha costretto Susanna Camusso a minacciare lo sciopero generale senza il consenso degli altri due maggiori sindacati: una scelta alla quale è stata in qualche maniera obbligata. Quanto agli enti locali, per oggi è in programma l’incontro con l’Associazione dei Comuni italiani, preoccupati come le Regioni per i «tagli» di spesa previsti dalla legge di Stabilità. Palazzo Chigi ha fatto capire chiaramente che ritiene si tratti di sprechi da non ripetere. La risposta è che il contraccolpo potrebbe diventare la riduzione di alcuni servizi o un aumento della tassazione locale. E qui la polemica esce dai confini della sinistra e incrocia lo scontro con l’opposizione. Ieri Silvio Berlusconi si è inserito in questo filone, per accusare «la sinistra, anche quella moderata», di «avere le tasse nel Dna». A suo avviso, Renzi le ridurrebbe a livello nazionale per poi «togliere fondi alle Regioni che, per far funzionare la sanità, devono aumentare le tasse».
Per il capo di FI, così «si prendono in giro gli italiani». E l’argomento diventa una bandiera sotto la quale, almeno in alcune realtà, può risaldarsi l’alleanza altrimenti logorata con la Lega. Ma sul resto, l’asse con il premier continua a reggere. L’unica vera incrinatura può venire da una divergenza sul futuro della legislatura. Lunedì Berlusconi ha avvertito che il voto anticipato sarebbe da irresponsabili. Il premier, ieri: «Si vota non prima del 2018». Una replica scontata, tesa a rassicurare.

Repubblica 29.10.14
L’economista Fitoussi: persa un’occasione per cambiare la politica economica Ue
“Roma e Parigi si sono piegate il diktat europeo andava rifiutato”
Bisognava dire: sbagliate, i nostri calcoli sono diversi e per il nostro Paese li facciamo meglio noi
Ci vuole l’opposto del rigore, cioè politiche espansive. Altrimenti l’economia non si riprenderà mai
intervista di Eugenio Occorsio


ROMA «Katainen adesso dice che non ce l’aveva con nessuno, ma io resto convinto che Italia e Francia hanno perso una grossa occasione per agire insieme, tenendo una posizione più ferma e cominciando a forzare la nuova Commissione a un’impostazione del tutto diversa della politica economica, a farla ragionare in termini più flessibili». Jean-Paul Fitoussi, l’economista di SciencesPo che insegna anche alla Luiss e quindi conosce bene entrambi i Paesi, non riesce a mandar giù quei 4,5 miliardi per l’Italia e 3,5 per la Francia che è costato il via libera da Bruxelles alle rispettive leggi di stabilità. La doppia lettera, prima da Roma e poi da Parigi con cui i due Paesi l’altro giorno sono venuti incontro alle richieste della Ue, «è un grave errore». E così la pronta ratifica delle nuove mini-manovre.
Si augurava una reazione più decisa, stile Montebourg, il ministro francese “dimissionato” da Hollande perché troppo critico con i tedeschi?
«Beh, così ci avevano fatto capire sia Renzi che soprattutto il nuovo ministro francese Sapin: quest’ultimo aveva iniziato a dire che la Francia supera i tetti di deficit e non ha nessuna intenzione di autoinfliggersi ulteriori pesanti sacrifici in nome di un dogmatismo di marca tedesca del tutto irragionevole. E invece proprio questo è successo. La Francia, come l’Italia, attraversa una situazione economica gravissima e non è assolutamente in grado di tollerare ulteriori tagli di spesa, aumenti delle tasse, riduzione dei servizi. Le misure aggiuntive non so proprio che conseguenze potranno avere su due Paesi così provati».
Fino all’altra mattina, e fino all’ingresso nel consiglio europeo, la posizione di entrambi i Paesi sembrava molto più “sfidante”. Poi la Francia ha annunciato ulteriori tagli così come aveva fatto l’Italia poche ore prima, e infine ieri i due governi li hanno ratificati in tutta fretta. Cosa è successo? Un cedimento in nome della diplomazia?
«Secondo me è andata malissimo. Due governi democratici che eseguono gli ordini, anche piuttosto discutibili, di un funzionario europeo. Sia Padoan che Sapin si sono adattati alle indicazioni, forse sarebbe meglio chiamarle diktat, della Commissione sulla crescita potenziale per l’anno prossimo, il frutto di una elaborazione puramente teorica che Bruxelles ha fatto calare dall’alto adducendo un potere d’imperio che non ha. Perché considerare per la Francia l’1,2 anziché l’1,5? Nessuno è stato in grado di spiegarcelo. E analogo discorso per l’Italia. Hanno sbagliato a prenderlo per buono senza eccepire, ad accettare anche loro, ripeto due governi democraticamente eletti, questa confusione fra contabilità aritmetica ed economia reale. Andava detto: guardate, voi sbagliate, i nostri calcoli sono diversi, e per il nostro Paese i calcoli li facciamo meglio noi. Ora l’unico risultato, in tempi di deflazione, è che i deficit caleranno in misura minima ma continueranno a salire i debiti pubblici. Non era tempo di compromessi: nessuno consuma e sempre meno lo farà con nuovi tagli, questo bisognava far capire. È tempo di fare l’opposto del rigore, cioè di impostare politiche espansive altrimenti l’economia non si riprenderà mai».
Quindi lei è d’accordo con il suo collega, l’economista tedesco Wolfgang Munchau, che prevede una stagnazione di 10-20 anni per l’Europa?
«Potrebbe aver ragione. Andrà sicuramente così se non si cambia radicalmente impostazione. Possibile lo è certamente: guardate al Giappone che non riesce a uscire dalla spirale perversa della deflazione da moltissimi anni. Ecco perché bisogna dire basta a terapie che non fanno che aggravare il male. Italia e Francia avevano un’occasione d’oro, se la sono lasciata sfuggire».
Però, anche se non eletta, la Commissione, per quanto influenzata dall’eccessivo rigore del socio forte tedesco, è pur sempre l’organismo cui i Paesi hanno demandato il governo europeo.
«Infatti è il momento di fare un salto di qualità in Europa iniziando a pensare a una Commissione eletta dal popolo come vogliono le più elementari regole di democrazia. Non possiamo farci governare da tecnici per di più scarsamente intelligenti».

Corriere 29.10.14
Renzi: scontro? No, rivoluzione culturale
«I miei non sono attacchi. Bisogna puntare su più occupazione, non sulle occupazioni»
I partiti socialisti europei invitano il leader a parlare ai loro congressi: dall’Italia una speranza
di Maria Teresa Meli


ROMA Matteo Renzi non considera le sue parole come «degli attacchi al sindacato». Lui la vede da un altro punto di vista: «Il mio è un invito a che ciascuno faccia il proprio mestiere».
Insomma, le estenuanti trattative governo-organizzazioni confederali dei tempi che furono «non ci saranno più». «È una rivoluzione culturale», per Renzi, della quale Cgil, Cisl e Uil dovranno prendere atto.
Ma questo non significa «essere di destra» o assomigliare «alla Thatcher» (accusa che Susanna Camusso ha lanciato al presidente del Consiglio). Significa, per farla breve, che i sindacati devono impegnarsi a «cercare di ottenere più occupati, non a fare occupazioni».
O, come ha detto sempre lo stesso Renzi, con altre parole ma con uguale fermezza in un’intervista a Oggi : «Noi vogliamo tenere aperte le fabbriche, perché l’occupazione di cui hanno bisogno i nostri lavoratori non è quella minacciata dal sindacato».
Dunque, il presidente del Consiglio rifiuta il gioco di Camusso di dipingerlo come una sorta di Berlusconi, o quello di Rosy Bindi e di Stefano Fassina di farlo passare come una specie di «usurpatore» del Partito democratico: «Io sono diventato il leader del Pd attraverso delle primarie a cui hanno partecipato milioni di elettori».
E, comunque, è proprio vero il detto secondo il quale «nemo propheta in patria». Mentre la Cgil riversava i suoi strali sul presidente del Consiglio «thatcheriano» e Bindi criticava il segretario che stava, a suo dire, snaturando il partito, i leader del socialismo europeo facevano a gara per invitare Renzi ai congressi dei loro partiti.
António Costa, candidato del Partido socialista portoghese a primo ministro, nonché segretario di quel partito, lo ha invitato al congresso che si terrà a Lisbona a fine novembre. Ospite d’onore, perché, scrive Costa nella lettera, la presidenza italiana della Ue sotto la leadership di Renzi ha rappresentato «un barlume di speranza per tutta l’Europa».
E proprio per rafforzare la cooperazione tra i due partiti il candidato premier dei socialisti portoghesi vorrebbe che il presidente del Consiglio italiano partecipasse al suo Congresso e prendesse la parola in quella sede. Una lettera analoga è arrivata una decina di giorni prima dal leader olandese Diederik Samsom, che Renzi aveva invitato insieme a Manuel Valls, a Pedro Sánchez e ad altri esponenti del Pse, alla festa dell’Unità di Bologna, per quello che scherzosamente era stato definito il «patto del tortellino» tra i giovani capi del socialismo europeo.
Patto che deve aver sortito qualche effetto se Samsom scrive al presidente del Consiglio italiano che sarebbe «un grande onore» averlo al loro congresso, a gennaio, ricordandogli che fanno «parte della stessa famiglia».
Sono missive, queste, che, com’è ovvio, hanno fatto piacere al premier, anche se le difficoltà italiane dentro il Partito democratico e con il sindacato non accennano a diminuire. Anzi. Eppure uno studio di Itanes, elaborato dopo le elezioni europee che hanno segnato l’exploit del Pd versione Renzi rileva un particolare interessante. Nel 2013, cioè con un segretario considerato maggiormente di sinistra come Pier Luigi Bersani, il Pd tra gli operai era solo la terza forza politica. Veniva dopo il Movimento 5 stelle e Forza Italia. Lo votavano solo il 20 per cento degli operai. Con l’arrivo di Renzi, nelle consultazioni europee di quest’anno, la percentuale di operai che ha votato per il Partito democratico si è letteralmente raddoppiata, sempre stando a questo studio, passando al 40 per cento.
Anche il voto dei disoccupati ha avuto un incremento notevole. Nel 2013 votavano Pd il 15 per cento degli italiani senza un lavoro, nel 2014, il 40. Sono percentuali che il Partito democratico, naturalmente, ha avuto modo di esaminare. Insieme ad altri dati, sempre contenuti in quello stesso studio, nei quali si sottolinea come dal 2013 al 2014 ci sia un più 50 per cento circa di voti tra artigiani e commercianti e un 20 per cento in più da imprenditori e liberi professionisti. Spiega quindi Giorgio Tonini, della segreteria del Pd: «C’è una sorta di parallelismo tra l’aumento di voto degli operai e quello dei piccoli imprenditori». E aggiunge: «Questa è la evidente conferma che quel patto tra produttori che Renzi propone, di fatto, nella realtà, esiste già e il sindacato dovrebbe prenderne atto».

Corriere 29.10.14
Web, vertici lampo, elettori Il prontuario del premier per tagliare fuori i sindacati Rispetto ai leader del centrosinistra che l’hanno preceduto Matteo Renzi ha mutato radicalmente il lessico delle relazioni con il sindacato
Ecco le sue parole-chiave
di Dario Di Vico


Disintermediazione
L’assonanza con la definizione di «corpi intermedi» conferisce a quest’espressione un ruolo centrale nel racconto renziano. I gruppi dirigenti sindacali non vengono aggregati al popolo ma sono equiparati alle varie élite — come quella giornalistica e intellettuale — che subiscono un processo di ridimensionamento della loro funzione, dovuto anche all’avvento della Rete e al boom della comunicazione orizzontale. Appena può, il premier va direttamente a visitare le aziende, per dimostrare come per fare i conti con i problemi dell’economia reale non occorra passare dalle forche caudine sindacali e dipendere dalla loro visione dei fatti.

«Mandatemi una mail»
In questo caso Renzi gioca da Maramaldo, sapendo che il nuovo tridente di Cgil-Cisl-Uil ovvero Camusso-Furlan-Barbagallo non fa certo parte della comunità degli smanettoni, usa la carta della superiorità tecnologica. Vuole farli apparire datati. Ma soprattutto con la mail toglie al sindacato l’arma della teatralità. La rappresenta-zione degli interessi dei lavoratori viene automaticamente depotenziata dalla mancanza di un palco e di un pubblico. Il tutto diventa comunicazione privata e suggerimento, come quello che in albergo un cliente imbuca nell’apposito box per consigliare al gestore di curare meglio la stanza o di riparare l’asciugacapelli.

Un’ora sola ti vorrei
Il premier ha contingentato i tempi degli incontri con i sindacati e la Cgil ha risposto ripescando una canzone del 1938. Da logorroico Renzi però riconosce bene i suoi simili e in più sa che per argomentare qualsiasi punto di vista un sindacalista ci mette il triplo del tempo di un normale individuo. Non si sa esattamente quando, ma il laburismo ha clamorosamente litigato con Crono, il dio del tempo e da allora riunioni e negoziati durano all’infinito. In più di qualche caso i contratti vengono firmati in overtime dopo che — come si dice in sindacalese — sono state fermate le lancette. Mettere un limite-orario alle sedute con le parti sociali vuol dire amputarne l’efficacia e dimostrare che le delegazioni sindacali sono pletoriche e inconcludenti.

«Fatevi eleggere»
Il sindacato per Renzi deve parlare con le imprese e non impicciarsi della politica economica che resta prerogativa del governo e del Parlamento. Pur essendo un ex dc di formazione cattolico-sociale il premier ha rotto con la concertazione e il collateralismo e ha invece mutuato due concetti dal craxismo, il rifiuto del corporativismo e il decisionismo. Le istituzioni rispondono agli elettori e non alle parti sociali e la legittimazione passa dal suffragio universale. In questa visione i sindaci, anche loro usciti dalle urne, sono più funzionali dei sindacalisti per mettere in connessione interesse generale e ragioni delle comunità locali. E poi siccome il renzismo si fida più delle esperienze che delle culture politiche fa premio per lui esser stato sindaco.

Corriere 29.10.14
«Ciò di cui non c’è davvero bisogno è di un nuovo duce…»
La rottamazione fa male alla sinistra
di Piero Ostellino


Ciò che Matteo Renzi sta facendo nel Partito democratico – l’eliminazione progressiva della vecchia guardia, che pur merita di andare in pensione — rivelando che la tanto sbandierata rottamazione è stata solo la giustificazione demagogica di una operazione personale di potere per liberarsi dei concorrenti e conquistarne la segreteria — e nel Paese, l’irrisione del sindacato sceso in piazza contro il governo delle chiacchiere — irrisione che, con l’aria che tira, è come sparare sulla Croce rossa — non sono un modo di modernizzare la cultura politica della sinistra, né del sindacato. Ma il contrario.
Il ragazzotto fiorentino — che abbiamo a capo del governo senza averlo votato e che fa il verso al peggior Machiavelli della vulgata popolare — è ambizioso e cinico a sufficienza da distruggere irresponsabilmente lo stesso partito del quale è segretario e le poche tutele di chi lavora, pur di accrescere il proprio potere personale sia nel Pd, sia nel Paese. È anche abbastanza furbo per vendere la distruzione del partito di cui è segretario come un effetto collaterale della riforma politica e istituzionale che promette. I media comprano, a scatola chiusa, per una cosa seria gli effetti collaterali della sua ambizione. Non c’è più nessuno che pare essere in grado di chiamare le cose col loro nome. Il rischio che corrono gli italiani è di finire nel tunnel di una ridicola autocrazia mascherata da riformismo parolaio; che, attraverso la leva fiscale — brandita anche da certi burocrati di Bruxelles — faccia perdere loro le libertà individuali, dopo aver distrutto, con la fine della sinistra e del sindacato, quelle collettive.
Lo si lasci dire, allora, a chi scrive da sempre, senza mezzi termini, che la cultura politica di sinistra è stata, e ancora è, una iattura per il Paese. La distruzione del Pd, e l’assunzione di un potere personale sempre maggiore da parte del suo segretario e capo del governo non vanno nella direzione della modernizzazione della cultura politica della sinistra. Quella che Renzi sta compiendo è l’operazione regressiva che tutti gli autocrati hanno compiuto nei confronti del Partito, o del movimento, che li aveva portati ai vertici del potere politico. La rivoluzione sovietica si era rapidamente risolta nella dittatura del Partito comunista e del suo Comitato centrale sul proletariato; successivamente, la deriva totalitaria aveva dato vita alla dittatura di Stalin sul Comitato centrale del Pcus, sullo stesso partito e sull’intera società. La stessa operazione avevano compiuto Hitler nel movimento nazionalsocialista e Mussolini, nel fascismo, impadronendosene. Non sto dicendo che Renzi è come Stalin, Hitler e Mussolini, ci mancherebbe; sto solo segnalando che le stigmate dell’autocrate le ha tutte, e non le nasconde; basta ascoltarlo o guardarlo in Tv per constatarlo; lui esibisce la propria ambizione e ricorre a certe maniere spicce, nella presunzione che, in fondo, piacciano e gli procurino consenso.
In un Paese meno cialtrone, i media reagirebbero denunciando inganno e pericolo e l’opinione pubblica ne prenderebbe atto. Da noi, i media fingono di non vedere o, addirittura, plaudono, con la parte meno matura dell’opinione pubblica, all’«Uomo nuovo che cambierà l’Italia» come, nel ’22, avevano inneggiato all’originale, in nome dell’Ordine, abdicando alla funzione che, in una democrazia, dovrebbero esercitare a difesa delle libertà individuali e collettive.
Personalmente, non nutrivo alcuna simpatia, né ho oggi alcuna nostalgia, per la signora Bindi né per Massimo D’Alema. Ma ciò che inquieta è che in gioco non sono loro, ma una parte della nostra storia, della nostra tradizione politica, con i suoi limiti e le sue carenze e, con essa, il futuro del Paese.
In gioco non è solo il Pd, che avrà i suoi difetti, ma che rappresenta pur sempre alcuni milioni di cittadini. Di una sinistra decente e sanamente riformista c’è bisogno; non fosse altro per la funzione critica che essa potrebbe esercitare rispetto a certe degenerazioni del capitalismo e del mercato nazionali. Ciò di cui non c’è davvero bisogno è di un nuovo duce...

Repubblica Tv 29.10.14
Zucconi: a Renzi "l'americano" manca solo il test del voto
Matteo Renzi è il primo "presidente americano" in una nazione non sua: lo dice il suo dna politico
Manca solo il test dell'urna per sancire ufficialmente il mandato in stile Usa

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La Stampa 29.10.14
Papà Renzi rispunta come “Orso Saggio”: “Oppositori invidiosi”
Se la prende con Fassina e gli altri della minoranza del Pd
di David Allegranti

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Repubblica 29.10.14
Sinistra dem alla carica ecco gli emendamenti su Jobs act e Stabilità
Damiano: prioritario aumentare i fondi per i disoccupati
di Giovanna Casadio


ROMA La battaglia ricomincia dalla legge di Stabilità e dal Jobs Act. La sinistra dem prepara un mucchio di emendamenti e li definisce «correzioni indispensabili», mentre sul fronte renziano si temono «agguati» al governo, in particolare in commissione Lavoro a Montecitorio dove i “nodi” verranno al pettine già la prossima settimana.
«Scorrerà del ketchup...». Pippo Civati ironizza sulla capacità che la sinistra dem avrà di reggere lo scontro con Renzi. Ma il braccio di ferro è in atto. Oggi si vede la corrente “Area riformista” di Roberto Speranza, Alfredo D’Attorre, Davide Zoggia e Nico Stumpo. Colloqui, più che una vera e propria riunione, ma con l’obiettivo di un’assemblea entro un mese. Un’assemblea di programma e tematica, che prenda spunto dal disagio, dalla protesta e dalle richieste della piazza della Cgil di sabato scorso. E la trincea della sinistra del Pd la indica Cesare Damiano, il presidente della Commissione Lavoro, ex sindacalista Fiom, per il quale il punto di caduta è uno solo: «Renzi si deve rendere disponibile a modifiche; sul Jobs Act non è pensabile che passi il testo del Senato». Rincara Gianni Cuperlo: «Stiamo al merito, però la logica non può essere quella del prendere o lasciare».
E quindi, nel merito la prima correzione chiesta dalla minoranza nella legge di stabilità riguarderà le risorse per gli ammortizzatori sociali. «Un miliardo e 600 milioni sono realmente aggiuntivi? A me non pare, non sono quindi risorse sufficienti», commenta Damiano. «Le risorse devono essere tali da garantire davvero l’estensione delle tutele e un sussidio universale a chi perde lavoro», aggiunge Cuperlo. Ecco che legge di stabilità e Jobs Act si tengono. L’altra modifica è la revisione nella legge di stabilità del meccanismo di assunzioni incentivate per il 2015. Inoltre da affrontare e correggere l’aumento di tassazione sui fondi pensione che «ammazza la previdenza complementare pensata per dare una pensione più giusta ai giovani». Altra questione sul tappeto un intervento più mirato sulla povertà. Fassina ha annunciato di ripresentare i 30 emendamenti al Jobs act già depositati al Senato e poi spazzati via a Palazzo Madama dal voto di fiducia. Ruotano sul reintegro nel posto di lavoro nei licenziamenti illegittimi.
E contro la legge di stabilità annuncia una mobilitazione di piazza anche Forza Italia. Un modo per battere un colpo da parte di Berlusconi che parla di un’intera giornata contro le tasse. L’idea è quella di un “casa day”, un giorno per protestare contro le tasse. Potrebbe tenersi domenica 16 novembre o domenica 30. Nel Pd la tensione non accenna a diminuire. Il vice segretario Lorenzo Guerini lancia l’affondo sui leader della sinistra dem che sabato sono scesi in piazza con la Cgil: «C’erano molti elettori dem in quella piazza che sono da ascoltare e poi persone della Direzione che dovrebbero spiegare il significato della loro presenza lì. Il motivo io non lo so, forse semplicemente cercare un po’ di visibilità dentro la dialettica del partito». Se i venti di scissione soffiano sempre, a chiedere più miti consigli sono i renziani stessi. «Come c’è spazio per Gennaro Migliore, c’è per Stefano Fassina e per Pippo Civati che staranno in minoranza come del resto c’è stato Walter Veltroni che ha fondato il Pd.», ragiona Paolo Gentiloni. Twitta Angelo Rughetti: «Ricordo a Civati e Fassina che il Jobs Act è stato votato in Direzione non da una cellula eversiva di destra». Fassina apre un altro fronte: «Pannella nel Pd? Porte spalancate».

Repubblica Tv 29.10.14
Videoforum con Stefano Fassina deputato Pd

Il clima interno al Pd si surriscalda: c'è chi parla di scissione e chi la esclude. La manifestazione della Cgil in contrapposizione con la Leopolda renziana ha messo in scena uno scontro esplicito e senza precedenti. L'ex vice ministro Stefano Fassina, che come altri della minoranza del partito ha scelto la piazza della Cgil, mercoledì alle 15 è ospite di Repubblica Tv per rispondere alle vostre domande
Conduce Silvia Garroni
scrivete a videoforum@repubblica.it
qui

Repubblica 29.10.14
Michele Emiliano
“In piazza c’era la sinistra, ma non sto con la Camusso”

Renzi deve usare più cautela verso ciò che è di sinistra
intervista di Tommaso Ciriaco


ROMA. Un carattere ruvido e zero giri di parole. Così fa politica , di solito. Di fronte alla bufera interna al Pd, però, ha provato a mediare: «Se la Leopolda e piazza San Giovanni diventano incompatibili. ha detto. lascio il partito».
Quindi sta facendo le valige, Emiliano?
«Ah ah ah ah ah ah».
Volano accuse pesantissime, in queste ore.
«Comunque no, niente valigie. Hic manebimus optime».
La minoranza potrebbe strappare.
«Si comporrà tutto!».
Dice? In realtà il premier non arretra e l’opposizione interna già minaccia di non votare la fiducia.
«Credo che nel Pd tutti si atterranno a quanto deciso durante la direzione e a quello che si stabilirà nei gruppi parlamentari. La disciplina non è in discussione».
Quindi non saranno possibili defezioni sulla fiducia.
«Non credo, è giusto così quando ci sono questioni rilevanti».
Ma nel merito del Jobs act lei cosa pensa?
«Che è giusto prevedere la reintegra per i licenziamenti discriminatori. Per me andrebbe estesa anche per le imprese sotto i quindici dipendenti. E poi è giusto impedire che si licenzi un dipendente solo perché magari rompe le scatole a un dirigente infedele. Conviene anche all’azienda».
Intanto lei ha saltato la Leopolda e San Giovanni.
«Perché sto in campagna elettorale. Candidato alle primarie per le regionali in Puglia. E comunque le ripeto: non c’era alcuna incompatibilità tra le due piazze, questo penso».
Lei è ancora renziano, vero?
«Certamente».
A leggere quelle dichiarazioni sembrava equidistante.
«Ma no, era un’iperbole! Ogni mattina io vado in tv a difendere Renzi. Condivido la sua strategia».
Anche quando attacca duramente il sindacato?
«Ognuno ha il suo modo di esprimersi. Con il sindacato ho un buon rapporto, è pronto a recepire la modernizzazione. Penso a Landini, ad esempio. Naturalmente vanno esclusi reduci e statue di cera. Ma in quella piazza c’erano uomini e donne senza i quali, semplicemente, la sinistra non c’è».
E però tra Renzi e Camusso si schiera con il premier.
«Assolutamente sì. Per me Renzi è la chiave di volta. Voglio dargli una mano per cambiare l’Italia. Poi, certo...».
Si sbilanci.
«Ho con lui un rapporto di libertà. In questo senso: come non ero dalemiano bersaniano o veltroniano, non sono renziano. Però, per intenderci, finalmente c’è uno che fa le cose che io farei al suo posto. Magari poi userei maggiore attenzione al linguaggio, soprattutto verso ciò che mi ha generato. Intendo l’essere di sinistra, che è ciò che sono».
Proprio con quella sinistra la battaglia infuria.
«Ma no, va tutto bene, si sistemerà tutto. Dopo una serie di disastri, iniziati nel 1921 con la rottura al congresso di Livorno, la sinistra italiana ha perso l’abitudine a scindersi».

La Stampa 29.10.14
Pd, si muove l’ala sinistra
Cena sulla scissione
Cresce la fronda: in 25 pronti a dire no alla fiducia sul Jobs Act
di Carlo Bertini


A sinistra nel Pd qualcosa si muove, stasera si vedranno a cena una manciata di bersaniani, Davide Zoggia, Stefano Fassina e altri giovani big di Area Riformista insieme a Gianni Cuperlo, per discutere come riorganizzarsi dopo quello che è successo e come risolvere il problema della scissione. Sì, perché al punto in cui si sono messe le cose, la scissione dal Pd renziano è diventato un vero problema di tutta la minoranza. Riassumibile però, almeno per ora, con il classico “vorrei ma non posso”.
Ieri all’ora di pranzo mancava solo il nome del locale, ancora da scegliere: dei partecipanti, un numero ristretto, alcuni dovevano ancora essere avvertiti. Al tramonto, lo scissionista per antonomasia, Pippo Civati, sosteneva di non saperne nulla. «In verità, io domani dovrei andare a cena con Filippo Taddei ma credo di non farcela perché ho un altro impegno. A me non mi hanno chiamato, ma è vero, mi risulta che stanno organizzando qualcosa...». Ore 13, sugli scalini dell’androne di Montecitorio, Davide Zoggia, ex responsabile Enti locali della «ditta» di Bersani, non solo svela che se non verrà cambiata la legge delega, in base ai suoi «calcoli» ci sarebbero «25 o 30 di noi pronti a non votare il jobs act neanche con la fiducia, ma questo non vorrebbe dire far cadere il governo che avrebbe comunque i numeri per farcela»; ma ammette che il tema della scissione agita gli animi della base in giro per l’Italia più di quanto sia percepito dall’osservatorio della capitale.
«Domani sera ci vediamo a cena in pochi, poi magari il tema sarà discusso anche in contesti più allargati. Dopo quanto successo sabato e domenica dobbiamo fare una riflessione. Ma quella sulla creazione di un nuovo partito è complessa, perché se la spinta dal territorio è forte, costruire oggi un’altra formazione non è semplice, anzi».
Ad ostacolare qualsiasi progetto non solo è la mancanza di un leader forte ma anche «il dna di molti di noi che non è quello della vocazione minoritaria». Le analisi mostrano come vi sia spazio per una forza «con un range che va dal 5 al 10%» ma il punto di approdo ineluttabile sarebbe alla fine «allearsi sempre con il Pd», insomma con la forza da cui si prenderebbe il largo. Se quelli che sono andati in piazza si son sentiti chiedere da molti come si faccia a restare in un partito in cui non si riconoscono, a mostrarsi contrario a uscire è Gianni Cuperlo. «Non si tiene unito un partito denigrando, ma scissione è un termine che non voglio nemmeno evocare», dice al GrRai. E il fatto che nella cena di stasera non siano coinvolte personalità come Bersani non deve stupire.
Il suo braccio destro Alfredo D’Attorre nega di esser a conoscenza dell’incontro di stasera e sostiene che in realtà le cose stanno diversamente. «La scissione sarebbe un regalo a Renzi. Una dirigente della Cgil sabato in piazza ci diceva che il mondo del lavoro chiede di stare al centro di un grande partito, non confinato in una cosa che preservi la sua purezza relegandosi però in un angolo». Altra cosa è invece «la spinta ad un coordinamento più forte delle varie aree della minoranza e proveremo a farlo su tre temi, lavoro, legge di stabilità e riforme istituzionali». Come? «Dando un segno di unità, prendendo insieme delle iniziative ma sempre dentro il partito, perché il problema vero è ridare una motivazione ai nostri per rinnovare l’iscrizione al Pd, la prospettiva di una battaglia, ma da dentro».
Chi si adombra, forse diviso tra istinto e razionalità, è Stefano Fassina, «è vero, ci vediamo, però non discuteremo di contenitori, bensì di come costruire una posizione unitaria sempre dentro il Pd». A non voler sentire parlare di scissione è l’ex tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, «chi vuole la scissione non venga a cercare me», intimava ieri a Omnibus.
E qualcosa si muove anche dalle parti di Renzi, se è vero che la madre di tutte le battaglie, il jobs act, potrebbe registrare una svolta imprevista. «Matteo vuole correre e portarlo in aula l’11 novembre, prima della legge di stabilità», confida uno dei big di Montecitorio, «loro frenano, ma qualcosa concederemo. Potremmo recepire nella delega la sostanza di quanto votato in Direzione sull’articolo 18 per i licenziamenti disciplinari». Si vedrà se Renzi darà il via libera.

Repubblica 28.10.14
Tensioni nel Pd, Sposetti: "Chi vuole la scissione non venga a cercare me"
L'ultimo tesoriere dei Democratici dei sinistra: "Al massimo posso spiegare ai giovani come si legge un bilancio"
Cuperlo: "E' Renzi che deve tenere unito il partito evitando di denigrare un pezzo di Paese"
Damiano: "Battaglia, ma dentro il Pd"
Civati: "Il premier fa cose di destra"

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Il Sole 29.10.14
D'Alema: così Renzi spaccherà il Paese
intervista di Fabrizio Forquet


Presidente D'Alema, c'è chi parla di una Bad Godesberg italiana a proposito della Leopolda di Renzi. Anche a lei in passato è stata attribuita più di una svolta riformista. Oggi però è annoverato tra i conservatori. Dove ha sbagliato?
Credo sia semplicemente una raffigurazione falsa.
Un'offesa a una verità storica. È grottesco che si dipinga il centrosinistra italiano come un mondo che ha atteso Renzi per scoprire il riformismo. I nostri governi, a partire dal governo Amato, e poi dal governo Ciampi, dal governo Prodi, compreso il mio, vengono ora raffigurati come quelli della conservazione, ma noi abbiamo cambiato il Paese in profondità.
Converrà che c'è molto da fare...
Guardi, io spero che Renzi riesca a fare riforme all'altezza delle promesse. Per ora vedo soltanto molti annunci. E uno stile di governo preoccupante che punta a creare fratture nella società.
Renzi ha detto che con il sindacato non si tratta, al massimo lo si ascolta e poi si decide.
Appunto. Nel modo in cui vengono affrontate queste cose emerge una volontà di rottura con il sindacato che è sbagliata.
Anche lei si scontrò con la Cgil...
Ma io non ho mai usato quei toni, non ho mai detto "non vi prendo in considerazione", "più mi criticate più guadagno consenso". Questo modo di fare spacca il Paese, prima ancora che il Pd. Vengono usate parole sprezzanti verso i magistrati, verso i funzionari pubblici. Sull'articolo 18 si è condotta una polemica tutta ideologica. Il rischio è quello di avere un Paese incattivito. Mentre da questa crisi si esce solo se si torna a un minimo di concordia.
Non che lei non fosse sferzante. E sull'articolo 18 fu lei a proporre, scontrandosi con il sindacato, il superamento di quella tutela nelle imprese che superavano la soglia dei 15 dipendenti...
C'era un problema di disincentivo alle imprese a crescere. Io proposi, allora, che quelle aziende che superavano i 15 dipendenti potessero avvalersi temporaneamente della normativa precedente. Il senso non era eliminare l'articolo 18, ma estenderlo, ovviamente in modo progressivo e non automatico ai lavoratori che prima non avevano quella protezione.
Il sindacato però vi bloccò.
Il sindacato si oppose prendendo una posizione sbagliata. Sarebbe cresciuto il numero dei lavoratori tutelati. Adesso si sta cercando di fare una cosa molto diversa. Una battaglia tutta ideologica. Si è detto "non esiste più il posto fisso". Ma questo è noto da venti anni. Da allora sono state fatte varie riforme del lavoro. E ora il problema è l'eccesso di precarietà, non il contrario. È lo stesso governo, giustamente, a sostenere che la filosofia del Jobs Act è quella di promuovere un numero maggiore di contratti a tempo indeterminato. Quindi, evidentemente, anche per Renzi il posto fisso è un valore positivo.
Il problema è che oggi il contratto a tempo determinato è troppo rigido per l'impresa e quasi nessuno assume più con quel tipo di contratto. Va reso più conveniente. Non è un caso se oggi l'85% dei lavoratori viene assunto con contratti non a tempo indeterminato.
Lo so. Infatti abbiamo introdotto già molti anni fa politiche per incentivare l'uso di quel contratto attraverso bonus fiscali.
Non hanno funzionato granché se il dato è quello che le dicevo.
Purtroppo la storia delle politiche sul lavoro non è lineare, dopo di noi ci sono stati altri governi. C'è stato il governo Berlusconi che ha puntato sui contratti più precari. Ma all'inizio quegli incentivi avevano funzionato.
Il contratto a tutele crescenti può essere una soluzione?
Può esserlo. Ma vedo due contraddizioni nel progetto di Renzi. La prima l'ha sollevata Tito Boeri: gli incentivi nei primi tre anni, se sommati alla possibilità di licenziare, possono portare ad abusi e aumentare la precarietà. La seconda riguarda proprio l'articolo 18. Nella delega non se ne parla. E anche Renzi all'inizio non sembrava intenzionato a toccarlo. Poi ha cambiato idea. Il vero problema è che mentre i lavoratori più anziani possono ottenere dal magistrato la reintegra, ciò non sarà possibile per i lavoratori più giovani, assunti con i nuovi contratti. In questo modo si renderà stabile una diseguaglianza, altro che legge a favore delle nuove generazioni. Ho sinceramente dei dubbi che questa differenza di trattamento sia costituzionalmente accettabile. Tra l'altro, sull'articolo 18 già abbiamo votato la riforma Fornero. Abbiamo già cambiato, non senza un confronto aspro con i sindacati. È una riforma che ha un anno e mezzo di vita. Valutiamo gli effetti di quella riforma, tanto più che i primi segnali sono positivi, nel senso che c'è una forte riduzione del ricorso alla magistratura.
Si ipotizza, nell'ambito del contratto a tutele crescenti, che l'articolo 18 arrivi solo dopo un certo numero di anni. Almeno questo è accettabile per lei?
Sì, questo si può fare. Ma nel senso che dopo un periodo di prova, scatta l'assunzione a tempo indeterminato e quindi le tutele che ne derivano.
Cosa succederà in Parlamento sul Jobs Act. Parte del Pd si sfilerà?
Non lo so. Io non sono in Parlamento. Come ho detto trovo stravagante che si parli di articolo 18 e poi si voti una delega dove di articolo 18 non c'è traccia.
D'Alema non possiamo ignorare che siamo in una crisi profondissima. Se non si renderà più conveniente per le imprese assumere e investire, difficilmente vedremo una ripresa.
Sono d'accordo, ma allora parliamo dei temi veri del riformismo. Oggi la priorità è risollevare la produttività del lavoro e in questo senso credo che dovremmo aprire una discussione seria sul decentramento dei contratti. I sindacati andavano ingaggiati su questo. È qui che ci differenziamo davvero dalla Germania, è qui che i tedeschi ci battono.
Che giudizio dà di questa legge di stabilità?
Si conferma l'orientamento verso le politiche di austerità, ma si ottiene uno sconto. Questo è il senso di quanto sta accadendo. Figurarsi, lo sconto va bene ma certo non c'è un cambio di logiche, non c'è la svolta auspicata. Non è colpa di Renzi. È che in Europa manca il cambiamento necessario verso la crescita. Si è capito che il fiscal compact non si può applicare, questo è positivo. Ma anche sugli investimenti l'impegno dei 300 miliardi annunciato da Juncker è troppo modesto e troppo vago, come ha osservato oggi anche Romano Prodi, che ha sottolineato la differenza tra l'impegno americano per la ripresa e la scarsa rilevanza di quello europeo. Sono completamente d'accordo con lui.
Renzi poteva ottenere di più in Europa?
Diciamo che finora si è manifestata una notevole debolezza del campo delle forze socialiste. Merkel non ha vinto le elezioni, ma ha decisamente vinto il dopo-elezioni. Ha dimostrato di essere l'unico leader che ha una visione europea.
Non sarà diventato un ammiratore della Merkel?
Lei si è mossa come il vero capo dei conservatori europei. Non ha rivendicato poltrone per i tedeschi, non ha puntato a un risultato facile per ottenere il plauso di qualche giornale di casa, ma ha di fatto blindato intorno ai conservatori tutte le posizioni chiave della nuova Europa. Va ammirata la sua qualità di leader politico, anche se opera per finalità che non condivido.
Si dice che lei abbia cambiato atteggiamento verso il premier perché lui non ha mantenuto il patto che prevedeva per lei la nomina a rappresentante della politica estera europea...
Se uno dovesse litigare con Renzi perché lui viene meno alla parola data, la lista dei litiganti sarebbe infinita. No, io vivo felice, non ho problemi di carattere personale. Discuto del merito delle questioni.
Il vincolo del 3% nel rapporto deficit/Pil ha ancora senso?
No, non ha senso. Credo che si dovrebbe ricorrere a una golden rule per tutti gli investimenti che producono occupazione e innovazione. E nello stesso tempo bisogna ricorrere a forme di mutualizzazione del debito.
I tedeschi non ci sentono.
Però una proposta in questo senso era venuta proprio dal consiglio degli economisti tedeschi.
Parliamo di legge elettorale. La convince il premio alla lista?
La legge elettorale è un pasticcio. Inoltre, a mio parere presenta evidenti problemi di incostituzionalità su diversi punti cruciali, anche in relazione alla sentenza della Corte Costituzionale. Il premio al partito sarebbe un passo avanti, ma non ho capito se Berlusconi lo accetterà.
Non le piace neppure la riforma del Senato...
Mi chiedo verso quale bicameralismo stiamo andando. Da una parte deputati nominati dai capi partito, dall'altra senatori nominati dai consigli regionali. Dico: ci vorrà pure qualcuno eletto dai cittadini o no? Non mi sembrano grandi riforme.
Sono punti qualificanti dell'azione di governo su cui una parte del Pd, come lei, non è d'accordo. Si parla insistentemente di scissione all'interno del partito. La ritiene plausibile?
No, sarebbe un errore. Bisogna battersi nel Pd per le idee e i valori in cui crediamo. Naturalmente dobbiamo prendere atto che questo partito è diverso da quelli che abbiamo conosciuto fino ad oggi e quindi dobbiamo fare come fa Renzi, il quale all'interno del Pd si è organizzato senza farsi tanti problemi, neppure in rapporto alla sua funzione di segretario. Se non si vuole una scissione silenziosa, fatta di tante persone che non rinnovano la tessera, si deve rendere più visibile e incisiva la presenza delle posizioni autenticamente riformiste.
Nei prossimi mesi questo Parlamento potrebbe essere chiamato a eleggere il nuovo capo dello Stato, le prove che si sono fatte con i giudici costituzionali non sono tranquillizzanti.
Penso che i tempi siano maturi per individuare una personalità femminile. Non è un vincolo assoluto, e il capo dello Stato va sempre scelto per le sue caratteristiche di autorevolezza, ma volgerei certamente le attenzioni a una donna che possa essere anche una figura di garanzia. Ce ne sono. E con un Paese che tende a spaccarsi ce ne sarà molto bisogno.

L’Huffington Post 29.10.14
Massimo D’Alema
”La scissione sarebbe un errore"
Intervistato dal Sole 24 ore respinge l'idea di divorzio dentro il Pd ma critica Renzi: "Il suo atteggiamento spacca il Paese"

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La Stampa 29.10.14
I vantaggi della battaglia interna
di Marcello Sorgi


Dopo Bersani, che in un’intervista a «Repubblica» aveva detto che non ha alcuna intenzione di partecipare a un’eventuale scissione della minoranza Pd, anche Damiano, il presidente della commissione lavoro della Camera che nei prossimi giorni dovrà guidare il primo confronto sul Jobs Act a Montecitorio, si schiera contro l’ipotesi della rottura, nata a cavallo della grande manifestazione della Cgil di sabato.
È del tutto logico che questa sia la posizione prevalente degli oppositori interni di Renzi, anche se i più giovani Fassina e Civati qualche dubbio ce l’hanno. La generazione che un quarto di secolo fa ammainò la bandiera del Pci difficilmente potrebbe accettare di fare il percorso inverso, per riaffacciarsi in un campo. quello della sinistra radicale. diviso e affollato di ambizioni e risentimenti personali. A modo loro Bersani, D’Alema e il gruppo di post-comunisti usciti sconfitti nella partita con Renzi rivendicano di aver contribuito alla trasformazione in senso riformista del Pds, dei Ds e del Pd e alla costruzione di un centrosinistra di governo, sia pure con risultati alterni e in buona parte incompiuti. Di qui l’orgogliosa rivendicazione dell’appartenenza al partito fondato (meglio, rifondato) da Veltroni, e guidato da Franceschini e Bersani prima dell’attuale premier.
Ma ci sono altre ragioni per cui la minoranza Pd preferisce la battaglia interna alla rottura. La prima è che le scissioni, quando si fanno, si organizzano a ridosso di elezioni, che in questo caso non sono ancora sicure. La seconda è che alla Camera i bersaniani sono convinti di poter contare su rapporti di forza diversi da quelli del Senato: ci sarebbero una trentina di voti di deputati da negoziare e un buco di queste dimensioni metterebbe a rischio l’approvazione del Jobs Act, la riforma più attesa dall’Italia in Europa.
E qui si inserisce la terza ragione per cui la minoranza si prepara a trattare con il segretario. In Parlamento nelle prossime settimane marceranno insieme il Jobs Act e la nuova legge elettorale, che Renzi vorrebbe far approvare entro la fine dell’anno, in una stagione in cui il calendario dei lavori è già gravato dalla legge di stabilità. Si delinea quindi la possibilità di uno scambio tra voto a favore del Jobs Act e modifica dell’Italicum, all’interno del quale Renzi vorrebbe spostare il premio di maggioranza dalla coalizione alla lista, mentre la minoranza, in accordo con gli alleati minori del governo, vorrebbe inserire le preferenze. Le quali, nel clima di rivoluzione permanente che Renzi mantiene nel Pd, rappresentano per la vecchia guardia la garanzia per potersi confrontare sul territorio e tra gli elettori di centrosinistra e assicurarsi una rappresentanza parlamentare, limitando il potere del leader di scegliersi gli eletti.

Repubblica 29.10.14
Attenti a Silvio
L’ex sindaco di Firenze non teme una scissione. Opere, parole e omissioni farebbero perfino pensare che la stia sollecitando
Ma se i suoi competitor – Berlusconi su tutti – tornano a presidiare con credibilità il resto del campo, allora l’eventuale scissione a sinistra gli diventerebbe una zavorra pesantissima, anche valesse in termini elettorali solo il 5%
di Marco Bracconi

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Corriere 29.10.14
Il saluto di Europa
I giornali dem perdono la carta
di Giovanna Cavalli

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Corriere 29.10.14
Bergoglio incontra i movimenti e i rappresentanti del Leoncavallo
Il Papa: mi dicono comunista ma è Gesù che ama i poveri
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO «Diciamo assieme dal cuore: nessuna famiglia senza casa! Nessun contadino senza terra! Nessun lavoratore senza diritti! Nessuna persona senza la dignità che dà il lavoro!». Nell’aula vecchia del Sinodo sta parlando Francesco, «continuate con la vostra lotta, cari fratelli e sorelle, fate bene a tutti noi», e la scena è senza precedenti.
Centocinquanta persone da ottanta Paesi a rappresentare i «movimenti popolari» del mondo, quelli del Social Forum, sono arrivate in Vaticano per un convegno su «Tierra, techo y trabajo», le piaghe degli ultimi del pianeta. «Terra, tetto e lavoro. È strano, ma se parlo di questo per alcuni il Papa è comunista», sorride Francesco. «Non si comprende che l’amore per i poveri è al centro del Vangelo. Terra, casa e lavoro, quello per cui voi lottate, sono diritti sacri. Esigere ciò non è affatto strano, è la dottrina sociale della Chiesa».
Molti movimenti sono nati in America Latina, Bergoglio li conosce bene e il suo discorso in spagnolo pare la traccia di un’enciclica sociale: «Siete venuti a porre alla presenza di Dio, della Chiesa, dei popoli, una realtà molte volte passata sotto silenzio: i poveri non solo subiscono l’ingiustizia, ma lottano anche contro di essa!».
Da cardinale di Buenos Aires andava a trovare i cartoneros vestiti di stracci che la notte setacciano l’immondizia, conversava offrendo loro il mate , li aiutava. Il loro avvocato di allora, Juan Grabois, è tra gli organizzatori dell’incontro. In platea, come leader storico dei «cocaleros», siede il presidente boliviano Evo Morales, che il Papa incontra verso sera. Ci sono «Sem Terra» brasiliani, «indignados» spagnoli. Dall’Italia sono arrivati pure la rete «Genuino Clandestino» e il Leoncavallo, storico centro sociale di Milano che elogia il Papa per aver «riportato il cristianesimo alle origini».
In generale «qui ci sono cartoneros , riciclatori, venditori ambulanti, sarti, artigiani, pescatori, contadini, muratori, minatori, operai, membri di cooperative di ogni tipo e persone che svolgono mestieri più comuni», elenca il Papa: «Oggi voglio unire la mia voce alla loro e accompagnarli nella lotta». Affrontare «lo scandalo» della povertà «non è ideologia», spiega Francesco: ha a che fare con la «solidarietà» che «in senso profondo» significa «fare la storia» e «lottare contro le cause strutturali della disuguaglianza», far fronte «agli effetti distruttori dell’Impero del denaro». I poveri «non aspettano a braccia conserte l’aiuto di Ong o piani assistenziali», scandisce: «Avete i piedi nel fango e le mani nella carne. Odorate di quartiere, di popolo, di lotta!». Così il Papa torna sui guasti di «un sistema economico incentrato sul dio denaro»: l’«accaparramento delle terre», il «saccheggio della natura», il «crimine» della fame, la miseria di chi sta sul lastrico e viene definito «senza fissa dimora», le «eccedenze» del lavoro: «In generale, dietro un eufemismo c’è un delitto».
Francesco respinge le «strategie» per «addomesticare» i poveri» e l’«assistenzialismo». I movimenti «esprimono la necessità urgente di rivitalizzare le nostre democrazie»: occorrono «nuove forme di partecipazione» da costruire «con coraggio ma anche intelligenza, tenacia ma senza fanatismo, passione ma senza violenza». A tutti il Papa regala rosari fatti da artigiani e cartoneros. L’indifferenza: «Il mondo si è dimenticato di Dio Padre: è diventato orfano perché Lo ha accantonato». Ma ci sono i movimenti popolari, il «mondo migliore» sperato da poveri e giovani: «Che il vento si trasformi in un uragano di speranza. Questo è il mio desiderio».

il Fatto 29.10.14
Zapatisti, marxisti e Indignados tutti dal papa: “Amo i deboli”
In Vaticano i movimenti mondiali, terreno arato dalla sinistra
di Salvatore Cannavò


Cresce la fronda: in 25 pronti a dire no alla fiducia sul Jobs Act, si muove l’ala Nel tempo in cui la sinistra non sa dire nulla di sé, può capitare di entrare in Vaticano e trovare centinaia di esponenti dei movimenti sociali di tutto il mondo parlare sotto la croce di Cristo citando Marx. Di ascoltare il presidente boliviano, Evo Morales, proporre di “uscir fuori dal capitalismo”. Oppure sentir esaltare “il processo rivoluzionario” della lotta zapatista e il passamontagna sul volto del sub-comandante Marcos. Si possono incontrare campesinos, sindacati, marxisti e anarchici, gli indignados spagnoli e gli Steelworkers statunitensi. Oppure gli italiani del Leoncavallo, la fabbrica “recuperata” Rimaflow, la cascina, anch’essa recuperata, Mondeggi che fa parte della rete Genuino Clandestino. E ancora, nell’introduzione di monsignor Marcelo Sánchez Sorondo, Cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, si sente parlare degli Indignados oppure di Occupy Wall Street come ripresa “del movimento di critica al capitalismo”.
L’INCONTRO MONDIALE dei movimenti popolari che si conclude oggi presso il Centro Salesianum di Roma, ha avuto ieri il suo momento clou con l’intervento del Papa e quello, distinto, di Morales nel pomeriggio. Un evento originale nato dalla volontà dei movimenti sociali provenienti da tutto il mondo e dalla scelta del papato che, non a caso, ha voluto partecipare in prima persona sia pure per una sessione di quasi due ore. A rappresentare la Santa Sede, comunque, sono stati incaricati il cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson, presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace e monsignor Sorondo.
“Se parlo di terra, casa e lavoro sembra che il Papa sia comunista” ha esordito Francesco nella sua comunicazione di ieri mattina. “Ma terra, casa e lavoro sono parte dell dottrina sociale della Chiesa”. La volontà del Vaticano di offrire una sponda reale a una realtà che fino a ieri guardava solo alla sinistra degli schieramenti politici, è palese. La gran parte dei leader sociali presenti, si pensi al leader dei Sem Terra brasiliani, Joao Pedro Stedile, sono stati i promotori dei Social forum di Porto Alegre, hanno contestato i vertici globali. L’anima sociale dell’incontro, Juan Grabois, è leader dei Cartoneros argentini che, oltre a tenere un rapporto strettissimo con l’allora cardinale di Buenos Aires, Jorge Bergoglio, hanno animato le lotte di quel paese accanto ai piqueteros.
Le immagini nella vecchia, e suggestiva, sala nascosta in fondo alla Città del Vaticano. anche il Papa ha ammesso di non esserci mai stato prima. sono emblematiche. C’è l’abito istituzionale, ma indigeno, di Evo Morales, il cappello degli antenati del messicano filo-zapatista Lopèz Rodriguez. Ci sono i cubani del centro protestante Martin Luther King che perorano la causa dell’autogestione e del recupero di economie passivizzate. Il dibattito è libero. Le critiche alla Chiesa naturali. L’israeliano Michael Warshawski, sostenitore della causa palestinese, chiede a Monsignor Czerny del Pontificio Consiglio della Giustizia e Pace se non pensa che la Chiesa debba scusarsi per il sostegno al colonialismo. Altri, sostengono che l’etica è importante ma non basta, “serve l’azione dei popoli”.
LA PAROLA D’ORDINE scelta dal Vaticano è “camminare insieme”. È quella su cui insiste Francesco nel suo discorso in cui premette che non c’è “nessuna ideologia” in questo evento ma solo la voglia di dare voce a coloro che in genere non vengono ascoltati. Come immagine il Papa indica quella del “poliedro, figura geometrica con molte facce distinte”. Un modo per valorizzare uomini e donne, laici e cristiani, marxisti e non, tutti sono benvenuti. Il messaggio finale ricorda altri slogan: “Sigan con su lucha”, andate avanti con la vostra lotta.
La giornata non mancherà di provocare discussioni interne alla Chiesa. Ne corso dell’incontro il Pontefice si è sentito chiedere la riabilitazione della Teologia della Liberazione e i nomi di Frei Betto e Leonard Boff sono risuonati a voce alta. Oggi si chiude con il documento conclusivo e con la proposta, impegnativa, di costituire un “consiglio del movimento popolare”. “Le varie esperienze possono confluire in modo più coordinato” ha detto lo stesso Francesco. L’ipotesi è quella di un incontro all’anno. “Facciamo un sinodo socialista” aveva proposto qualcuno il primo giorno. La risposta degli organizzatori non è stata scontata: “Non siate troppo clericali, chiamatelo incontro, non sinodo”.

La Stampa 29.10.14
Francesco: se parlo di casa, terra e lavoro mi chiamano comunista
«Continuate nella vostra battaglia
per la conquista dei diritti per tutti».
Jorge Mario Bergoglio riceve in Vaticano i “movimenti popolari” di campesinos, cartoneros, precari. “Ma questi sono i temi del Vangelo”
di Iacopo Scaramuzzi

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Corriere 29.10.14
La Bibbia in Italia, più ascoltata che letta
La maggiore conoscenza si riscontra nella fascia d’età da 15 a 34 anni


In quasi tutte le case degli italiani (82%) c’è almeno una copia della Bibbia e uno di loro su tre (36%) ne ha comprato o ne comprerà una. Tuttavia, la Bibbia risulta un libro più «ascoltato» che letto: nell’arco di un anno, solo il 30% di chi è entrato in contatto con il testo sacro lo ha fatto per lettura diretta, mentre il 70% ne ha ascoltato brani nei contesti più diversi, alla radio o alla televisione (42%), nei gruppi ecclesiali (40%), ma anche a scuola (20%), oltreché durante una funzione religiosa (89%). Se la conoscenza dei contenuti della Bibbia non risulta particolarmente approfondita, visto che si riscontrano alcune vistose sfasature (ad esempio solo il 45% sa che si tratta del libro sacro anche per gli ebrei), essa risulta però diffusa anche al di fuori dell’ambito dei credenti: oltre la metà di chi non partecipa mai alla Messa o ritiene irrilevante la religione ne ha comunque letto una qualche parte.
Sono dati che emergono da una ricerca condotta da Ilvo Diamanti ( Gli italiani e la Bibbia , Edb, pp. 136, e 10) e delineano l’immagine di un libro percepito come un fattore di appartenenza ad una generica tradizione culturale più che religiosa, anche a causa del ridotto pluralismo confessionale. La Bibbia, insomma, come libro degli italiani (in quanto per lo più cattolici, almeno di nome).
Dall’indagine emerge che la maggiore conoscenza dei contenuti della Bibbia si riscontra nella fascia di età 15-34 anni, ovvero delle generazioni nate a partire dal 1980, che tutte le inchieste segnalano come le più distanti dall’appartenenza religiosa. Sono però le generazioni cresciute nella scuola pubblica posteriore al Concordato, che di fatto ha visto la ridefinizione dell’insegnamento cattolico in una direzione più «culturale» che confessionale.

Corriere 29.10.14
Parroco si toglie la vita in canonica
Don Max Suard, 48 anni, si è impiccato. Il corpo del religioso della comunità slovena della diocesi di Trieste, trovato da monsignor Crepaldi con cui aveva appuntamento

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Corriere 29.10.14
Prete ammise gli abusi su una 13enne
Il vescovo lo trova impiccato in canonica
di E. Teb.


Sabato scorso ha ammesso gli abusi su una bambina tredicenne e chiesto qualche giorno per preparare una lettera in cui «chiedere perdono a Dio, alla Chiesa e alla ragazzina per il male commesso». Ieri invece, dopo una telefonata con il vescovo di Trieste Giampaolo Crepaldi, Maks Suard, parroco triestino della frazione di Santa Croce, 48 anni, si è chiuso a chiave nella sua canonica e si è impiccato. A trovare il suo corpo senza vita è stato lo stesso monsignor Crepaldi insieme al sacrestano della parrocchia, secondo quanto riferisce il sito della Curia triestina. Il vescovo doveva infatti incontrare Suard nel pomeriggio di ieri (da lì la telefonata che lo avvertiva del suo arrivo) per comunicargli ufficialmente «la sua rimozione da ogni incarico pastorale e l’invio del dossier alla Santa Sede quale organo competente per questo genere di delitti». Gli abusi risalgono a «molti anni fa», ma monsignor Crepaldi ne era «venuto a conoscenza il 23 di ottobre» e «sabato 25 ottobre aveva chiamato don Maks per le dovute comunicazioni — ricostruisce la Curia —. In quella circostanza il sacerdote aveva ammesso le sue responsabilità», annunciando le dimissioni da lì a due giorni.
Il vescovo, «molto scosso e turbato», ieri sera ha scelto la strada dell’assoluta trasparenza, raccontando quanto accaduto online: un fatto senza precedenti in Italia. Ancora sconosciuta l’identità e l’età attuale della ragazza coinvolta. Sulla vicenda indaga intanto la polizia di Stato, che sta cercando di ricostruire le ultime ore di vita del parroco e rintracciare tutte le persone coinvolte.

Corriere 29.10.14
«Ritocca» l’ecografia del feto, indagata ginecologa vicentina
La donna è indagata con l’ipotesi di falso in atto pubblico
Ai genitori aveva detto che andava tutto bene ma il bimbo venne alla luce senza una mano

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Repubblica 29.10.14
Divario di genere, la parità solo nel 2095
Italia ultima tra i Paesi industrializzati
La classifica del Wef: 69esimo posto (dal 71esimo) dietro il Bangladesh
Grave ritardo nell'uguaglianza salariale: 114esimo

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Repubblica 29.10.14
Napolitano ha rievocato uno dei momenti più drammatici della storia repubblicana. Senza mai usare la parola “trattativa”, di cui ha confermato di non avere notizia. Ma la procura di Palermo è ottimista: il clima di quei mesi può essere considerato la base per un patto tra pezzi dello Stato e mafiosi
La strategia dei boss e il Paese sotto assedio quella verità del Colle sull’estate delle bombe
di Attilio Bolzoni


QUANTO è servito far declinare le proprie generalità a un presidente della Repubblica e farlo giurare di dire la verità, solo la verità, niente altro che la verità? Quanto è stata utile la deposizione di Giorgio Napolitano nel processo sulla trattativa Stato-mafia?
L’UDIENZA più solenne — annunciata anche come la più tormentata — ha riservato una sorpresa che nessuno si aspettava.
Il testimone eccellente ha risposto a tutte le domande alle quali doveva rispondere «allargando» perfino il confine tracciato dalla Corte di Assise di Palermo, ha confessato la sua apprensione per quegli avvenimenti tragici di venti e passa anni fa, non ha mai pronunciato una sola volta la parola «trattativa» o la parola «patto» ma ha ricordato ciò che fu decifrato «al più alto livello politico» la notte fra il 27 e il 28 luglio del 1993. La notte delle bombe alle basiliche di Roma, la notte dell’attentato in via Palestro a Milano, la notte del lungo blackout a Palazzo Chigi quando il presidente del Consiglio Ciampi ebbe paura di un golpe. In una frase di Napolitano c’è la «chiave» della sua deposizione davanti ai pubblici ministeri di Palermo, una sola frase: quella dell’«aut aut» della mafia allo Stato.
Giorgio Napolitano, che al tempo era il Presidente della Camera, ha sostanzialmente detto che una fazione della mafia siciliana stava minacciando le Istituzioni: o fate i conti con noi o continuiamo a seminare terrore. Un ricatto. L’ha detto esplicitamente. Domanda del pm: ha avuto la sensazione che ci fu un ricatto? Il Presidente: «Sì».
Il Capo dello Stato nei fatti ha confermato ciò che i magistrati siciliani hanno sempre ipotizzato fin da quando sono iniziate le indagini sulla trattativa, cioè che i Corleonesi di Totò Riina avevano violentemente «avvisato» l’Italia pretendendo in cambio qualcosa per fermare le stragi. Ecco perché la testimonianza del Presidente è stata valutata «importante» dai pm di Palermo («Abbiamo acquisito ulteriori elementi di conoscenza anche a conforto della nostra tesi processuale») e si è perfettamente incastrata nella ricostruzione fin qui fatta dal pool antimafia che indaga sui negoziati dopo la morte di Falcone e Borsellino.
Cosa significa esattamente quello che ha riferito il Presidente? Significa che quel ricatto c’è stato e quel ricatto è una «prova» che questo processo ha ragione di esistere, non è una fantasiosa congettura, non è un’ipotesi ricavata da suggestioni e condizionamenti ideologici o peggio territoriali, il famoso «rito palermitano». È stato il Capo dello Stato, in tutta la sua autorevolezza (e potremmo aggiungere anche con tutta la sua disponibilità) a certificarlo in una severa sala del Quirinale adibita per l’occasione in una molto speciale aula giudiziaria.
Non erano partite proprio dal ricatto allo Stato i primi passi dell’inchiesta sulla trattativa? Non avevano preso spunto dalle ansie di alcuni uomini politici — di morire, ammazzati — come gli ex ministri Calogero Mannino e Carlo Vizzini le prime investigazioni sul generale Mori che aveva contattato l’ex sindaco Ciancimino per catturare Riina? È la prima parte dell’indagine, l’inizio.
Come siano andate le cose poi non è stato chiesto naturalmente a Giorgio Napolitano (né pm e né avvocati avrebbero potuto chiederlo per i limiti imposti dalla Corte) ed è comunque materia che non ha mai neanche sfiorato l’attuale Capo dello Stato, coinvolgendo e risucchiando nel gorgo dell’inchiesta altri personaggi. Alcuni imputati oggi come l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, altri ormai deceduti come l’ex Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e l’ex capo della polizia Vincenzo Parisi. Lo ripetiamo: la parola «trattativa» non è mai rimbombata ieri al Quirinale ma nella testimonianza del Presidente è stato più volte rievocato il nome del suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, l’amico di Giovanni Falcone stroncato da un infarto nei giorni della discovery delle carte — l’estate del 2012 — sul patto Stato-mafia con le insistenti telefonate di Mancino a D’Ambrosio per tentare di far «coordinare» meglio le indagini. Nelle intenzioni, Mancino voleva dire: farle spostare da Palermo in un’altra procura. Anche su Loris D’Ambrosio, che gli aveva scritto di «indicibili accordi» sulle vicende siciliane fra l’89 e il ‘93, Giorgio Napolitano ha ricordato e concordato sulla «drammaticità» di quelle rivelazioni. Quali fossero quegli «indicibili accordi» il Capo dello Stato — come aveva già annunciato nel novembre del 2013 con un messaggio alla Corte di Assise — non l’ha mai saputo. Ma ha rivelato di averle condivise con il suo consigliere, quelle inquietudini e quelle pene. In qualche modo un’altra conferma — così almeno l’hanno considerata i pubblici ministeri — del «clima» che aveva respirato Loris D’Ambrosio nella stagione delle stragi.
Come la testimonianza del Presidente si «inserirà» concretamente nel processo lo vedremo, intanto possiamo parlare del «valore» che ha avuto. E, probabilmente, servirà anche a spegnere quelle polemiche che hanno accompagnato per mesi il conflitto istituzionale nato sulle quattro telefonate intercettate (e poi distrutte per decisione della Corte Costituzionale) fra Mancino e Napolitano, telefonate assolutamente ininfluenti per l’inchiesta.
Per il resto la giornata al Quirinale ci ha riservato un’altra sorpresa. Nessuno «spettacolo» sul Colle come molti temevano, nessuno schieramento imponente di telecamere. E neanche una televisione straniera.

Il Sole 29.10.14
Non è riuscita la prova di forza anti-Quirinale
di Stefano Folli


Alla fine la giornata è passata e le tensioni si sono sciolte. Poteva andare molto male dal punto di vista della tenuta istituzionale, ma al dunque il bandolo della matassa non è sfuggito di mano. Napolitano, per quel che si è saputo, ha risposto in modo esauriente ai quesiti, fingendo di ignorare il carattere alquanto pretestuoso dell'interrogatorio al Quirinale, quasi uno "show" mediatico volto a risollevare le sorti di un processo, quello di Palermo, il cui impianto accusatorio sembra zoppicante. Sarà un caso, ma la parola fatidica («trattativa») pare non sia mai stata pronunciata nella Sala del Bronzino. Come se nemmeno i magistrati fossero pienamente convinti di come si sono svolti i fatti vent'anni fa.
Anche la Corte ha svolto la sua parte, evitando speculazioni e in particolare il rischio che la testimonianza del presidente diventasse occasione per qualche strumentalizzazione a favore di telecamere. Queste ultime sono rimaste spente anche o soprattutto per contenere le tentazioni degli uomini di legge presenti all'udienza, peraltro parecchio affollata.
Certo, la deposizione presidenziale, sullo sfondo di un tema controverso e confuso come la relazione inammissibile fra Stato e mafia, rappresentava senza dubbio un punto critico nella nostra storia costituzionale. Ma Napolitano ne è uscito bene e con lui la solidità di quell'organo fondamentale nell'assetto dei poteri che è il Quirinale. E che tale resta anche nell'era di Renzi, un accentratore di classe tendente a ricondurre tutto a Palazzo Chigi, un passo alla volta.
Quanto poi l'assembramento di ieri sul colle sia stato utile per chiarire fatti remoti, lo vedremo più avanti. È opportuna la sollecitazione del capo dello Stato affinché le bobine registrate siano trascritte in fretta, in modo da metterle a disposizione delle parti e quindi dell'opinione pubblica. È di gran lunga meglio dissipare anche solo il sospetto che ci sia qualcosa di torbido nascosto nei palazzo romani. Tuttavia l'impressione finale è che della testimonianza di Napolitano si potesse fare tranquillamente a meno.
In fondo, chi l'ha voluta con determinazione puntava a mettere il presidente della Repubblica sul banco degli imputati, quanto meno in modo virtuale, così da innescare la miccia di una crisi drammatica. Una volta fallita l'operazione, sia per la serenità d'animo del testimone sia per la gestione dell'udienza, la deposizione in sé ha perso significato. Da quel che si capisce, nulla di nuovo è emerso che già non si sapesse: compresa l'atmosfera cupa in cui maturarono le stragi di mafia del '92-'93, gli allarmi per la sicurezza e gli interventi da Roma per alleggerire il 41-bis, cioè il regime carcerario a cui erano sottoposti i mafiosi detenuti.
Vedremo ora che piega prenderà il processo di Palermo, una volta che i fuochi artificiali non sono stati sparati dal Quirinale perché le polveri si sono rivelate bagnate. Non ci sarebbe da meravigliarsi se piano piano i riflettori si spegnessero e il teorema venisse smontato un pezzo alla volta, come un'impalcatura rimossa alla fine del lavoro. Ieri sera solo un paio di esponenti dei Cinque Stelle lanciavano improperi contro Napolitano, accusandolo di avere «infangato le istituzioni». Il resto del mondo politico ha tirato un ovvio sospiro di sollievo. E si capisce: l'indebolimento della presidenza della Repubblica come conseguenza di un atto di forza da parte della magistratura non conviene quasi a nessuno.
Altro discorso sarà nel prossimo futuro la scelta del successore dell'attuale capo dello Stato. Napolitano, come è noto, non fa mistero della sua intenzione di lasciare all'inizio del 2015. Se sarà così, il Parlamento – questo Parlamento – dovrà eleggere una personalità il cui identikit non è ancora chiaro. A Renzi non dispiacerebbe una figura più sbiadita, sul modello del presidente federale tedesco. Tuttavia la funzione di garanzia attiva, diciamo così, svolta in questi anni dal Quirinale sembra a molti un fattore decisivo di equilibrio che è pericoloso abbandonare da un giorno all'altro. Il dilemma non sarà di facile soluzione.

Il Sole 29.10.14
Da Bagarella alla «trattativa»
La storia del processo. In tutto 10 gli imputati accusati di aver contribuito a un patto Stato-mafia per fermare le stragi criminali del 1992-1993
di N. Am.


Formalmente si chiama processo "Bagarella+9" ma tutti ormai lo conoscono come processo sulla cosiddetta (e presunta) trattativa tra lo Stato e la mafia. In sintesi lo Stato che processa un pezzo di Stato colpevole, secondo l'accusa, di essere sceso a patti con la mafia per fermare le stragi del 1992-1993. Ma, sostengono i rappresentanti dell'accusa, la trattativa sarebbe andata avanti a lungo: fino all'inizio degli anni Duemila anche se il processo riguarda solo il periodo 1992-1993. In cambio i rappresentanti dello Stato avrebbero promesso ai capi di Cosa nostra alcune cose: come l'attenuazione delle restrizioni carcerarie, ovvero del regime del 41 bis.
Imputati (tranne l'ex ministro Calogero Mannino il cui procedimento si svolge in altra sede perché ha scelto il rito abbreviato e Bernardo Provenzano, la cui posizione è stata stralciata per motivi di salute) oltre al già citato boss Leoluca Bagarella, il pentito Giovanni Brusca, il boss Totò Riina, Massimo Ciancimino figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo Vito, il boss Antonino Cinà, il capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno, l'ex senatore Marcello Dell'Utri, l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino (accusato di falsa testimonianza), il generale Mario Mori, l'ex comandante del Ros dei Carabinieri il generale Antonio Subranni.
Un processo che va avanti dal 27 maggio 2013 di fronte alla seconda sezione della Corte d'Assise del Tribunale di Palermo: una cinquantina le udienze già celebrate (per arrivare alla fine del processo si ipotizza siano necessari altri due anni) nel corso delle quali sono stati ascoltati collaboratori di giustizia (da Gaspare Spatuzza a Vincenzo Sinacori, ad Angelo Siino), politici (Ciriaco De Mita e il presidente del Senato Pietro Grasso), alti magistrati (il procuratore generale della Corte di cassazione Gianfranco Ciani). Da sottolineare la posizione di Ciancimino, il cui padre avrebbe fatto da tramite tra lo Stato e la mafia nella presunta trattativa: in questo processo Massimo è teste per l'accusa ma anche imputato di concorso esterno in associazione mafiosa e di calunnia nei confronti dell'ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Ciancimino ritenuto credibile a Palermo è invece inattendibile per i magistrati di Caltanissetta che indagano sulle stragi di Capaci e di via D'Amelio.
Tra le testimonianze, quella di Ciani e Grasso, sono ritenute rilevanti per la posizione di Mancino. Nel 2012 chiamato in causa l'ex ministro dell'Interno telefona al consigliere giuridico del Quirinale Loris D'Ambrosio puntando ad attivare il coordinamento della Direzione nazionale antimafia (allora retta da Grasso) sulle due procure siciliane che indagano sulle stragi. Tra le telefonate di Mancino anche alcune fatte a Napolitano. Telefonate intercettate che i pm palermitani chiedono di depositare agli atti ma il capo dello Stato si oppone e ottiene dalla Corte costituzionale che i documenti siano distrutti. D'Ambrosio muore nell'estate del 2012 ma aveva spedito una lettera al capo dello Stato Giorgio Napolitano in cui, tra le altre cose, esprimeva il timore di essere stato «scriba di indicibili accordi» negli anni in cui è stato in servizio prima all'Alto commissariato per la lotta contro la mafia e poi al ministero della Giustizia. E proprio su questo punto i pm palermitani chiedono e ottengono che il capo dello Stato sia ascoltato in qualità di testimone. Nonostante Napolitano alla fine di ottobre del 2013 abbia spedito una lettera alla Corte d'assise in cui spiega di non avere nulla da aggiungere rispetto a quanto scritto da D'Ambrosio nella lettera, nel frattempo pubblicata su sua stessa iniziativa.

il Fatto 29.10.14
Spatuzza:“Così Cosa Nostra ha preso Roma”
di Valeria Pacelli

“Sono con te contro tutti”. Dall’ospedale dove si trovava in detenzione per motivi di salute Carmine Fasciani, capo clan di Ostia, continuava a dare ordini a tale Bosco: “Rimetterti al lavoro. Quello che ti scrivo non lo faccio per metterti in difficoltà, solo perché ti rendi conto che non puoi contare su nessuno. Finché sanno che io sono tuo socio non devi preoccuparti”. La lettera è agli atti del processo ai clan di Ostia: ieri sono state chieste condanne per un totale di 325 anni per 19 persone. Tra questi, Carmine Fasciani (30 anni) e Vito e Vincenzo Triassi (18 anni a testa). Durante la requisitoria, i pm sono partiti da lontano. Dal 1995 quando Gaspare Spatuzza era partito per “cercare di capire se questi Triassi erano vicino a persone alle quali potevo fare un dispiacere”, come ha dichiarato il pentito. Avrebbe dovuto ucciderli, ma volta compresa la potenza dei Triassi a Ostia “ho cercato di ingaggiarli e crearmi su Roma un aggancio con questa famiglia”. È il primo passo: poco dopo, Cosa Nostra aveva messo le mani sulla città.

Repubblica 29.10.14
Campidoglio, si dimette il capogruppo del Pd D'Ausilio: "Con Marino rapporto difficile"
La decisione dopo le polemiche sul sondaggio che boccia lil sindaco e l'amministrazione comunale

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Repubblica 29.10.14
Il Sud non fa più figli, mai così pochi dal 1861
di Rosaria Amato


ROMA. Non sarà il riscaldamento globale a spopolare il Sud. La desertificazione è già cominciata, ma non è colpa del caldo: nel 2013 nel Mezzogiorno le morti hanno superato le nascite, ormai al minimo storico, 177.000, il numero più basso dal 1861. Un bilancio in rosso per il secondo anno consecutivo, era successo solo nel 1867 e nel 1918, alla fine di due guerre epocali. Di epocale ora ci sono solo la povertà, cresciuta di due volte e mezzo negli ultimi sei anni, e la disoccupazione, che se si considerano anche gli inattivi supera il 30%, con stipendi che per un decimo delle famiglie non arrivano a mille euro al mese. Chi può scappa: negli ultimi 20 anni sono emigrati dal Sud al Centro-Nord 2,3 milioni di persone, 116.000 solo l’anno scorso. Fugge soprattutto chi ha maggiori prospettive: tra il 2007 e il 2012 il numero dei migranti laureati è aumentato del 50%. Mentre al Sud si concentrano due milioni di Neet, oltre la metà dei 3.593.000 rilevati in Italia nel 2013. Dal Rapporto Svimez 2014 sull’economia del Mezzogiorno emergono due Italie forse mai state così lontane: «L’economia italiana vive il paradosso di avere da un lato aree forti in grado di competere con le economie maggiori del continente e dall’altro di far competere invece il Mezzogiorno con le aree marginali d’Europa». Qualche dato: se al Sud un terzo degli individui è a rischio povertà, il tasso del Centro-Nord si ferma al 12,1%. Il Pil: nel 2013 al Sud è crollato del 3,5% contro il meno 1,4% del Centro-Nord. E quest’anno la previsione di un calo dello 0,4% riflette una stazionarietà del Centro-Nord contro una flessione dell’1,5% del Sud.
Tra il 2008 e il 2013 nel Mezzogiorno i redditi sono crollati del 15% e si sono persi 800.000 posti di lavoro. Nel solo 2013 i consumi si sono ridotti del 2,4% ma anche le esportazioni sono scese dello 0,6%. Sfogliando pagina per pagina l’accurata analisi della Svimez sono pochissimi gli elementi positivi che emergono: tra tutti, sembra interessante l’agricoltura biologica, che occupa una percentuale tripla del suolo rispetto al Centro Nord, con il 58% delle aziende che dichiara redditi superiori ai 25.000 euro annui. Ma è troppo poco in un’area in cui la riduzione cumulata degli investimenti negli ultimi sei anni è arrivata al 33%. Le previsioni parlano di altri due anni di recessione per il Sud, mentre per il Centro-Nord la ripresa dovrebbe arrivare già l’anno prossimo. «Per il Sud dobbiamo fare le stesse cose che la Germania ha fatto per le regioni dell’ex Ddr dopo il crollo del muro», dice il sottosegretario alla presidenza del consiglio Graziano Delrio. Ma bisogna fare presto: senza alcun intervento il Sud è destinato a perdere 4,2 milioni di abitanti nei prossimi 50 anni, mentre il Centro-Nord ne guadagnerà 4,6. Uno «tsunami dalle conseguenze imprevedibili», e forse irreversibili.

Repubblica 29.10.14
L’amaca
di Michele Serra


UN QUARTO delle case italiane è disabitato, ma la superficie cementificata (secondo i dati del censimento 2011) è raddoppiata negli ultimi vent’anni. La produzione di cibo mondiale sarebbe in grado di sfamare dodici miliardi di persone (stima Fao), ma circa un miliardo degli attuali viventi patisce la fame, e secondo alcune stime non viene consumato circa il quaranta per cento del cibo disponibile. È dunque la cattiva o maldestra o iniqua gestione di ciò che abbiamo, a doverci preoccupare; non la quantità insufficiente di beni, ma la qualità scadente della loro distribuzione e — soprattutto — della distribuzione del potere d’acquisto tra gli umani. Nel mondo non si muore di fame perché non c’è cibo a sufficienza, ma perché mancano i soldi per comperarlo. In Italia non si è senza casa perché non ci sono case, ma perché ai proprietari conviene tenerle sfitte, o sono troppo brutte e deteriorate, o troppo care per chi le cerca. Bisognerebbe dirlo in modo meno schematico: ma ogni discorso che enfatizza la quantità (più cemento, più cibo per ettaro, più consumo dei suoli) odora di vecchio e/o di speculazione; ogni discorso sulla qualità è vitale, socialmente generoso, culturalmente nuovo. Di questo scontro epocale tra quantità mitizzata e qualità trascurata la politica discute pochissimo. Anche per questo è sempre meno appassionante.

La Stampa 29.10.14
Forestali, i dirigenti superano gli agenti
Il sindacato autonomo Sapaf: troppi sprechi, sì all’integrazione con la polizia ma salviamo le indagini
di Francesco Grignetti

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il Fatto 29.10.14
Bonanni ha usato la Cisl per ritirarsi da pensionato d’oro
Da quando è diventato segretario nel 2006 lo stipendio è salito velocemente fino a 336 mila euro
di Salvatore Cannavò


Un segretario generale del secondo sindacato italiano che guadagna 336 mila euro l’anno costituisce una curiosità. Soprattutto se non è chiaro come ha guadagnato quella cifra. Se quel segretario si chiama Raffaele Bonanni, poi, la curiosità si dilata al quadrato. La cifra è superiore al tetto per i grandi manager di Stato (240 mila), pericolosamente vicina a quei grandi dirigenti contro cui Bonanni ha spesso puntato il dito. E spiega più chiaramente il motivo delle sue dimissioni anticipate dalla segreteria della Cisl, piombate all'improvviso nella vita del sindacato cattolico e nel dibattito politico e sindacale.
Raffaele Bonanni avrebbe dovuto lasciare la segreteria della Cisl, a cui era stato eletto nel 2006, fra pochi mesi. Eppure il 24 settembre scorso decise di anticipare la sua uscita. Stanchezza politica, si è scritto, oppure indisponibilità a essere additato come il rappresentante di una storia vecchia e conservatrice, quella sindacale, secondo il copione redatto dal premier Matteo Renzi. Ma forse, anche il frutto di una faida interna alla Cisl fatta di lettere anonime, velate minacce, dossier che sono passati nelle mani dei vari dirigenti.
UNO DI QUESTI dossier Il Fatto lo ha potuto leggere e racconta una storia beffarda, fatta di un aumento vertiginoso dello stipendio dell’ex segretario proprio a ridosso dell’anno in cui, il 2011, decide di andare in pensione. Beneficiando così a pieno del sistema retributivo ed evitando di finire nelle maglie della imminente riforma Fornero. Il dato sulla pensione di Bonanni è stato già reso noto. L’ex sindacalista, infatti, percepisce dal marzo 2012 la pensione (numero 36026124) dall'importo lordo di 8.593 euro al mese. Al netto delle trattenute si tratta di 5.391,50 euro mensili. Qualcosa che nessun lavoratore medio si può permettere. Nei giorni dell’addio alla segreteria, Bonanni ha giustificato tali importi sempre allo stesso modo: si tratta del frutto di 46 anni di lavoro dipendente, con contributi regolarmente versati, quindi niente di speciale. Inoltre, va ricordato, Bonanni è riuscito a sfuggire, grazie all’anzianità lavorativa, alle modifiche operate nel 1995 dalla riforma Dini che introdusse il sistema contributivo, quello poi esteso a tutti i lavoratori dalla riforma Fornero. Sistema basato sul principio: “Tanti contributi hai versato, tanto sarà l’assegno pensionistico”. Con il sistema retributivo, invece, la pensione si calcolava sulla base della media degli ultimi anni di retribuzione: cinque anni prima della riforma Dini, casistica in cui Bonanni rientra in quanto a quella data aveva superato ampiamente le 18 annualità contributive richieste. Su questo particolare scatta la vicenda di cui stiamo dando conto.
Il sindacalista, oggi senza incarichi pubblici, viene eletto segretario generale della Cisl nel 2006. Fino a quella data era segretario confederale e guadagnava meno di 80 mila euro lordi l'anno. 75.223 nel 2003, 77.349 nel 2004 e 79.054 nel 2005. Quando diventa segretario generale, secondo il regolamento interno alla Cisl, il suo stipendio viene incrementato del 30%. Quindi, secondo le regole interne, avrebbe dovuto guadagnare circa 100 mila euro lordi annui. Nel 2006, la Cisl dichiara all’Inps una retribuzione lorda, ai fini contributivi, di 118.186 euro. Un po’ più alta di quella prevista ma non di molto. Le stranezze devono giungere con gli anni seguenti.
Nel 2007, infatti, la retribuzione complessiva dichiarata all'Inps è di 171.652 euro lordi annui. Che aumenta ancora nel 2008: 201.681 annui. L’evoluzione è spettacolare, gli incrementi retributivi di Bonanni sono stati del 45% e poi del 17%. Ma la progressione continua: nel 2009, la retribuzione è di 255.579 (+26%), nel 2010 sale “di poco” a 267.436 (+4%) mentre nel 2011 schizza a 336.260 con un aumento del 25%.
SIAMO alla vigilia della domanda di pensione che, dicono i suoi critici, Bonanni riesce a presentare prima del varo della riforma Fornero. E così, beneficiando di una carriera contributiva davvero ampia – 46 anni – e potendosi basare sulle ultime cinque retribuzioni d’oro riesce a conquistare una cifra nemmeno lontanamente sognata da qualunque altro sindacalista. Prendiamo l’esempio di un “pari grado” di cui Il Fatto si è già occupato, Guglielmo Epifani. La sua pensione è di “soli” 3.400 euro mensili netti anch’essi peraltro frutto di uno scatto improvviso di 800 euro al mese maturato nel 2005 alla vigilia di presentare la domanda pensionistica. Anche qui, gli ultimi cinque anni sono stati utilizzati per alzare la retribuzione senza che il Comitato direttivo della Cgil ne sapesse nulla.
E QUI C’È IL PUNTO che spiega, forse, la fuoriuscita improvvisa dalla Cisl di Bonanni. Chi ha deciso questi scatti, questi aumenti progressivi? La Cisl preferisce non commentare. Quando Bonanni si dimise il sindacato di via Po si limitò a ricordare che negli ultimi anni il segretario aveva percepito degli arretrati, la liquidazione del fondo pensione integrativo (che quindi si aggiunge all’assegno dell'Inps) e altri benefit legati alla sua retribuzione. Questi emolumenti, però, non figurano nella retribuzione ai fini Inps e comunque non avrebbero potuto essere così ampi. Negli ultimi cinque anni, infatti, Bonanni ha percepito un ammontare complessivo di 1.230 mila euro invece dei 600 mila spettanti secondo il regolamento. Il doppio. Sentito dal Fatto, l’ex segretario Cisl ha preferito non rilasciare dichiarazioni. Nella Cisl la discussione prosegue sotto traccia.

il Fatto 29.10.14
Giustizia
Non chiedeteci la verità assoluta
di Francesco Caringella

magistrato

Negli ultimi vent’anni la storia della politica e la storia della giustizia sono state avvinte da un filo rosso sempre più robusto. Senza parlare del ciclone di Mani Pulite, che ha attraversato i miei primi anni milanesi da magistrato, l’incandidabilità di Silvio Berlusconi è figlia di due sentenze: quella penale che lo ha condannato per evasione fiscale e quella amministrativa di mio pugno che ha sancito l’applicabilità retroattiva della legge Severino. Anche l’affaire De Magistris è il portato di una condanna per abuso d’ufficio. Guardando fuori dall’Italia, le sorti dell’intero pianeta sono state influenzate da una sentenza: quella della Corte Suprema degli Usa che, con un solo voto di scarto, ha assegnato i contestati voti della Florida a Bush jr. strappando dalle mani di Al Gore, che pure aveva ottenuto un più massiccio consenso popolare, le chiavi della Casa Bianca.
IN UN CLIMA avvelenato, in cui si mescolano inefficienza della macchina giudiziaria, insofferenza della politica al controllo di legalità e diffidenza della gente comune verso la professionalità e la moralità dei magistrati, viene da chiedersi se si possa avere fiducia in una giustizia che condiziona le sorti del Paese. Anzitutto bisogna distinguere tra giustizia e processo. La giustizia è un’istituzione, un potere, una garanzia, un bene comune in cui ogni cittadino deve avere per forza fiducia. La delegittimazione della magistratura e del potere giudiziario, troppo spesso innescata da grida, urla e insulti di chi vuole rovesciare il tavolo per sottrarsi alle proprie responsabilità, conduce allo smarrimento del senso delle regole e a un qualunquismo anarcoide non degno di un paese che ha dato i natali a giuristi come Carnelutti e Sandulli e a magistrati come Falcone e Borsellino. Diverso è il discorso per i singoli processi, lambiti, oltre che dall’eventualità remotissima della malafede e della corruzione, dal rischio dell’errore che connota ogni azione dell’uomo. L’errore giudiziario, che significa non solo condannare un innocente, ma anche liberare un criminale, non è eliminabile per legge, in quanto discende dalla fallibilità dell’essere umano. La ricerca della verità, in cui si risolve il compito del giudice, è una sfida temeraria, se non impossibile nel secolo della death of truth.
Un campione del romanticismo spagnolo, Duque de Rìvas, scrive: “In questo mondo traditore non c’è verità né menzogna, tutto dipende dal colore del vetro attraverso cui si guarda”. Compito del giudice non è la ricerca della verità assoluta, insondabile per chi partecipa delle debolezze e della fragilità della condizione umana, ma la verità processuale, quella che, in base alle carte del giudizio, è più probabilmente vera. Non esiste quindi un’unica verità assoluta, ma più verità relative e soggettive tra le quali il giudice, usando il vetro con il colore giusto e origliando dal buco della serratura meglio posizionato, deve trovare quella che più si avvicina alla verità oggettiva e, quindi, alla realtà storica.
Due sono i grandi nemici del giudice alla ricerca della verità migliore: le bugie e i pregiudizi. Quanto alle bugie, può accadere che tutti i protagonisti del processo mentano: perché pensano che la menzogna sia più seducente e colorata della realtà (Canetti), perché la verità non sembra mai vera (Simenon), perché dev’essere mescolata con un po’ di menzogna per risultare verosimile (Dostoevskij), perché dev’essere esagerata per risultare credibile (Foster), perché ci sono poche ragioni per dire la verità mentre ce ne sono infinite per raccontare una bugia (Wilde), perché in un mondo di illusioni e inganni la verità è un atto rivoluzionario (Orwell).
QUANTO al pregiudizio, Cicerone insegna che il nemico più pericoloso per chi cerca la verità con la lanterna in mano non è la menzogna, ma la convinzione: una menzogna può essere scoperta, ma grande è la tendenza dell’animo umano, specie di un potente, a non cambiare mai idea. L’umiltà di Calamandrei è l’antidoto al virus del pregiudizio e della presunzione che ne è il bacino di coltura: “Giudici, l’umiltà è il prezzo che dovete pagare all’enorme potere che avete”.
Sono giuste, allora, le sentenze che hanno danneggiato, se non assassinato, la vita politica di Berlusconi, De Magistris e Al Gore? Non lo so, ma sono certo che la domanda è sbagliata: non esiste la sentenza giusta o sbagliata in senso assoluto. Tutte le sentenze sono giuste e sbagliate, visto che la verità che ogni decisione afferma è soggettiva, relativa e quindi revocabile in dubbio. Esiste però la sentenza corretta: quella che afferma una verità processuale all’esito di un percorso durante il quale è stato usato un colore del vetro non inquinato da bugie, pregiudizi ed errori. Se tali fattori inquinanti saranno stati sconfitti, resterà solo l’ineliminabile opinabilità di ogni giudizio, croce e delizia della condizione dell’uomo, alla ricerca eterna di una perfezione che per fortuna gli sfugge.

Repubblica 29.10.14
Diffamazione, ecco il bavaglio per i giornali anche online: multe fino a 50 mila euro
Obbligo di rettifica anche per i siti. Oggi il sì al Senato
Nuovo stop per la Consulta, salta la prossima votazione
di Liana Milella

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Repubblica 29.10.14
Università, parte primo concorso nazionale per Scuole specializzazione Medicina
Da oggi al 31 ottobre 12.168 candidati sono chiamati a svolgere le prove, telematiche e identiche a livello nazionale, che segnano il superamento dei vecchi concorsi locali gestiti dagli atenei
Per sorvegliare sul regolare svolgimento sono impegnate 1.800 persone

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Il Sole 29.10.14
La felix culpa della straripante spesa previdenziale italiana
risponde Fabrizio Galimberti


Gentile Galimberti,
ho letto sul Sole 24 Ore di ieri il suo articolo e sono saltato sulla sedia. Lei dice che la finanza delle pensioni è a posto e che l'Italia sta meglio degli altri Paesi. Ma come? Per anni ci è stato detto che spendiamo troppo per le pensioni, che abbiamo la più alta quota di spesa in Europa (o forse nel mondo). E adesso lei ci viene a dire che tutto va bene?
Mettiamo che lei abbia ragione, visto che le cose che cita le ha prese da studi della Commissione e da ricerche tedesche. Allora, se noi stiamo così bene, non ci dovrebbe essere spazio per ridurre i contributi sociali, che da noi sono più alti che in Germania? Quello studio che lei cita dice che il nostro debito previdenziale è negativo, cioè, se capisco bene, quello che in futuro ricaveremo dai contributi è più di quel che sarà necessario per pagare le pensioni. Ma perché deve essere così? Allora i contributi diventano un'imposta! Mi sembra che la cosa da fare allora sia di ridurre i contributi e il costo del lavoro migliorando così la competitività delle imprese. Cosa ne pensa?
Luciano Manieri

Caro Manieri,
è senz'altro vero che noi spendevamo più degli altri per le pensioni, e continueremo a spendere più degli altri. Ma noi spenderemo nei decenni a venire (in quota di Pil) meno di prima e gli altri spenderanno più di prima, talché la differenza si accorcerà.
Una precisazione: la nostra anomala quota di spesa per le pensioni è dovuta al fatto che in passato le pensioni sono state usate anche come forma di assistenza. Condizioni generose di accesso, riscatti, contributi figurativi, hanno creato una pletora di pensioni basse che in pratica ha sostituito altre forme di sostegno ai meno abbienti. Basta guardare alle grandi cifre: mentre è vero che noi abbiamo la più alta quota di spesa pensionistica, è anche vero che, per la spesa sociale nel suo complesso, siamo nelle parti basse della classifica dei Paesi europei. Il che vuol dire, appunto, che abbiamo in pratica trasferito spese propriamente assistenziali alla previdenza.
Ad ogni modo, la nostra straripante spesa previdenziale è stata in fondo una felix culpa, nel senso che ci ha costretto a prendere misure per contenerla. E sono appunto queste misure che hanno oggi permesso di guardare con serenità, se non con orgoglio, a un grado di sostenibilità nel tempo delle nostre finanze pubbliche che è ai primi posti in Europa.
Forse abbiamo perfino strafatto. E lei ha ragione nel dire che ci sarebbe spazio per ridurre l'altissimo livello dei nostri contributi sociali. Una volta usciti dal tormentone di questi anni, una volta confermata (le previsioni cambiano ogni anno a seconda delle revisioni negli andamenti del Pil reale, dell'inflazione e dei tassi) la saldezza di fondo delle nostre finanze, un abbassamento dei contributi sociali farà parte delle cose da fare.

Corriere 29.10.14
La causa di Nasrin «Le donne iraniane? Le difendo in piazza»
Sotoudeh, nota avvocata, bandita dai tribunali
di Viviana Mazza


Da una settimana, dalle 9 a mezzogiorno, Nasrin Sotoudeh protesta davanti all’Ordine degli avvocati di Teheran, in compagnia di una dozzina di colleghi. Il sit-in è iniziato dopo che la nota avvocata, una delle poche impegnate in casi d’alto profilo sui diritti umani e politici in Iran, si è vista bandire dalla professione per i prossimi tre anni. Ricevuta la notizia, non ha presentato appello, ma è scesa in piazza. E poi ha aperto un profilo Facebook dove parlerà — ha annunciato — di giustizia.
«E’ la prima volta in Iran che un avvocato viene sospeso dal suo lavoro perché i suoi clienti erano imputati politici», dice Sotoudeh in un’intervista via email con il Corriere. «Mai, né prima né dopo la rivoluzione, l’ordine degli avvocati aveva emesso una sentenza simile. La persecuzione degli avvocati indipendenti è sempre esistita, ma l’Ordine aveva sempre resistito davanti alle pressioni».
Dopo aver rappresentato minorenni nel braccio della morte, attivisti studenteschi, curdi, del movimento operaio, detenuti di religione bahai, e anche il premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi, nel 2010 Sotoudeh è stata arrestata e nel 2011 condannata (in appello) a 6 anni di carcere e 10 di sospensione dalla professione per «azioni contro la sicurezza nazionale e propaganda contro il regime».Una sentenza che ha sollevato proteste in tutto il mondo, tanto che mentre era in carcere il Parlamento europeo le ha conferito il premio Sacharov per la libertà di pensiero. Nel 2013 il presidente Rouhani l’ha graziata alla vigilia del suo primo discorso all’Onu. «Riguardo al perdono, dovete sapere che non era una mia richiesta — osserva lei —. Mi hanno rilasciata senza spiegazioni, così come mi avevano arrestata senza motivi accettabili». Ora però sospendendola, l’Ordine degli avvocati ha ceduto a pressioni che, in un’intervista al blog IranWire , lei ha attribuito al procuratore e all’intelligence.
Il sit-in va al di là del caso personale. E’ un appello all’indipendenza della giustizia in Iran, al diritto dei dissidenti a lavorare e ad avere processi equi. Ha anche partecipato alle proteste contro gli attacchi con l’acido che questo mese hanno sfigurato o accecato sette o otto ragazze (secondo la polizia) a Isfahan. Al fianco di Nasrin, sono scese in strada due donne vittime di attacchi con l’acido avvenuti in passato tra le mura domestiche: Masoumeh e Somayeh, sfregiate dai mariti — quest’ultima mentre allattava la figlia, che oggi ha 4 anni e ne porta i segni sul volto.
Anche le autorità hanno condannato i casi di Isfahan: Rouhani promette di punire i responsabili con la forca, la sua vice Masoumeh Ebtekar ha visitato una vittima in ospedale. I conservatori, come il capo della magistratura Ayatollah Sadegh Larijani e il procuratore di Teheran Dolatabadi, hanno però accusato i media locali di aver promosso «la visione del nemico» scrivendo che i responsabili erano vigilantes che volevano punire le donne «malvelate». «Sì, io penso che il motivo principale di questi attacchi con l’acido sia il velo — commenta anche Nasrin — ma non voglio occuparmi di questo. Quel che conta è che il governo ha la responsabilità di garantire la sicurezza dei cittadini. Al momento, qualsiasi sia il motivo, la sicurezza delle cittadine è in pericolo». Oltre a prendere i responsabili, suggerisce alle autorità di «vietare agli imam di fare dichiarazioni estremiste che provocano i fanatici» e «di evitare prese di posizione come l’annuncio di esecuzioni per i colpevoli: accrescerebbero la violenza». Ma sabato mentre si univa alle proteste per Isfahan, la polizia ha arrestato (per sei ore) anche lei.
(Ha collaborato Sabri Najafi)

Repubblica 29.10.14
In prima linea per il Califfato
La guerra dei piccoli jihadisti ecco l’esercito dei bambini
A sei anni armati ai check-point o mandati in battaglia a Kobane “Li addestrano a fare i kamikaze, un’intera generazione è segnata”
di Kate Brannen


SONO in prima fila durante le decapitazioni e le crocifissioni pubbliche a Raqqa, la roccaforte siriana dello Stato Islamico. Vengono usati per trasfusioni di sangue quando i jihadisti sono feriti. Sono pagati per denunciare chi non è leale all’Is o parla pubblicamente contro il nuovo potere. Vengono addestrati per diventare attentatori suicidi. Alcuni di loro hanno appena sei anni, e lo Stato Islamico li sta trasformando nei suoi soldati del futuro.
L’Is ha messo in piedi un sistema esteso e ben organizzato per reclutare bambini, indottrinarli con i precetti estremisti dell’organizzazione e poi insegnare loro i rudimenti delle tecniche di combattimento. I miliziani si stanno preparando per una lunga guerra contro l’Occidente e sperano che i giovani guerrieri che oggi vengono addestrati continueranno a combattere negli anni a venire. Anche se non esistono cifre certe sul numero di bambini coinvolti, le storie riferite dai profughi e i dati raccolti dall’Onu, dalle organizzazioni per i diritti umani e dai giornalisti lasciano ritenere che l’indottrinamento e l’addestramento militare di bambini sia molto diffuso.
I giovani combattenti possono rappresentare una minaccia particolarmente seria nel lungo periodo, perché invece di mandarli a scuola l’Is li rimpinza giorno dopo giorno di una propaganda islamista finalizzata a disumanizzare il prossimo e persuadere i bambini che combattere e morire per la loro fede è un’azione nobile. «Lo Stato Islamico nega deliberatamente istruzione alle persone che si trovano nel territorio sottoposto il suo controllo, e come se non bastasse le sottopone a un lavaggio del cervello», dice H.R. McMaster, tenente generale dell’esercito statunitense. «Praticano un abuso su minori su scala industriale. Li brutalizzano e disumanizzano sistematicamente. Sarà un problema che si farà sentire per generazioni». Ivan Simonovic, vicesegretario generale dell’Onu per i diritti umani, è tornato da poco da una visita in Iraq, dove ha parlato con gli sfollati a Bagdad, Dohuk ed Erbil. Dice che è in corso un «programma di reclutamento di ampie proporzioni e pericolosamente efficace». Parlando con un piccolo gruppo di giornalisti, Simonovic ha detto che i combattenti esercitano un certo «fascino» su una parte dei bambini, e che si sono dimostrati molto abili nel «manipolare ragazzi». L’alto funzionario delle Nazioni Unite ha spiegato che «proiettano un’immagine di vittoria» e offrono la promessa che coloro che cadranno in battaglia saliranno «dritti in paradiso». E ancora. «La cosa che più mi colpisce è quando incontro madri che ci dicono: ‘Non sappiamo cosa fare. I nostri figli si offrono volontari e noi non riusciamo a impedirlo’».
Sulla linea del fronte, in Iraq e in Siria, i ragazzini che si arruolano spontaneamente o vengono rapiti sono mandati in una serie di campi di addestramento religioso e militare, a seconda della loro età. In questi campi gli viene insegnato tutto, dall’interpretazione della sharia dello Stato Islamico a come si usa un fucile. Gli viene addirittura insegnato come decapitare un altro essere umano, e gli danno delle bambole per fare pratica. I bambini vengono mandati anche in prima linea, dove sono usati come scudi umani e per garantire trasfusioni di sangue ai soldati dello Stato Islamico, secondo Shelly Whitman, direttrice esecutiva della Roméo Dallaire Child Soldiers Initiative, un’organizzazione che si batte per eliminare la piaga dei bambini-soldato. Testimoni oculari a Mosul e Tal Afar hanno detto agli investigatori dell’Onu di aver visto bambini piccoli, vestiti con uniformi dell’Is, che andavano in giro con armi quasi più grandi di loro a pattugliare le strade e arrestare la gente del posto. Gli esperti di diritti umani dell’Onu hanno «ricevuto notizie confermate di bambini di dodici o tredici anni sottoposti ad addestramento militare da parte del-l’Is a Mosul», secondo un rapporto dell’Ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani. Nel quartiere di al-Sharqat, a Salah al-Din, il numero di check-point gestiti da ragazzini è «aumentato drasticamente», dice il rapporto. E nella Piana di Ninive e a Makhmour, i combattenti dello Stato Islamico durante la loro avanzata hanno reclutato grandi quantità di adolescenti maschi. Alcuni di questi ragazzi hanno raccontato che «erano costretti a schierarsi in prima linea per proteggere i soldati dell’Is durante i combattimenti, e che erano stati costretti a donare sangue per curare i feriti».
Abu Ibrahim Raqqawi, nome fittizio di un uomo di 22 anni che fino a un mese fa viveva in Siria, è il fondatore di Raqqa Is Being Slaughtered Silenty (Raqqa viene massacrata in silenzio), un account Twitter più pagina Facebook che documenta la brutalità della vita quotidiana a Raqqa, dov’è cresciuto. Oltre a lui e ad altri tre che ora vivono fuori dalla Siria, il sito può contare su dodici persone all’interno di Raqqa che forniscono foto e informazioni su quello che sta succedendo nella città siriana. Raggiunto via Skype, Raqqawi ci ha raccontato che l’Is ha rafforzato il suo programma di reclutamento per ragazzi e bambini, creando fra le altre cose un campo di addestramento per minori dove vengono insegnate le tecniche di combattimento. Sempre a Raqqa, adolescenti vengono addestrati e poi subito mandati a combattere a Kobane, dove infuria da settimane i combattimenti con i guerriglieri curdi. A Raqqa, dove la povertà è diffusa dopo più di tre anni di guerra, l’Is spesso convince i genitori a mandare i loro figli nei campi di addestramento in cambio di denaro. In certi casi i jihadisti si rivolgono direttamente ai bambini, organizzando eventi pubblici o feste di reclutamento, e poi offrendo ai bambini soldi per seguire i corsi di addestramento. Dal momento che tutte le scuole sono chiuse, i bambini non hanno molto altro da fare.
Ci sono molti campi di addestramento per bambini nella provincia di Raqqa, dice sempre Raqqawi: tra questi, il Campo al-Zarqawi, il Campo Osama bin Laden, il Campo al-Sherkrak, il Campo al-Talaia e il Campo al-Sharia. In quest’ultimo, riservato agli under 16, Raqqawi calcola che ci siano fra i 250 e i 300 bambini. Ci invia foto di bambini ad al-Sharia: in una si vedono dei ragazzini seduti insieme a mangiare, e in un’altra un ragazzino che sorride dopo aver completato un percorso a ostacoli. Quando c’è una grande battaglia, come quella in corso a Kobane, l’addestramento viene accelerato, dice Raqqawi. Anche in Iraq ci sono prove della presenza di bambini costretti a seguire un addestramento militare. Un uomo yazida che è riuscito a fuggire dice di aver visto i suoi rapitori separare quattordici bambini tra gli otto e i dodici anni in una base militare a Sinjar, e portarli via per farli diventare jihadisti.
Quest’estate, il sito di informazione Vice News è riuscito ad accedere alle aree controllate dai jihadisti e ha prodotto un documentario video in cinque parti sulla vita in quelle regioni. La seconda puntata era dedicata proprio ai “combattenti del futuro” dell’Is. «Questa generazione di bambini per noi è la generazione del Califfato. A Dio piacendo, questa generazione combatterà gli infedeli e gli apostati, gli americani e i loro alleati», ha detto un uomo a Vice News. Il video mostra anche un bambino di 9 anni che dice di essere diretto in un campo di addestramento dopo il Ramadan, per imparare come si usa un Kalashnikov.
Non c’è solo il problema della radicalizzazione: in Siria e in Iraq i bambini sono esposti ogni giorno a livelli di violenza estremi. Raqqawi ci invia delle foto che aveva scattato quando ancora viveva in città, in cui si vedono bambini che assistono a crocifissioni. Dice che i bambini sono diventati talmente assuefatti a queste esecuzioni che la vista di una testa staccata dal corpo non sembra più turbarli. Misty Buswell, responsabile regionale per il Medio Oriente dell’organizzazione non governativa Save the Children, racconta che i bambini profughi con cui ha parlato hanno incubi, evitano le interazioni con gli altri bambini e mostrano segni di aggressività. «Ho incontrato bimbi che hanno smesso di parlare e non dicono più niente da mesi», dice la Buswell. «E questi sono quelli fortunati, quelli che sono riusciti a oltrepassare il confine incolumi. Ma per i bambini che sono ancora dentro, che vedono queste cose ogni giorno, gli effetti nel lungo termine saranno molto seri». I rifugiati, dice sempre Buswell, esprimono quasi sempre il desiderio di tornare a casa quando sarà tornata la pace. Ma quando ha posto questa domanda a dei profughi di Sinjarla risposta l’ha lasciata di stucco. «Mi hanno detto che le cose che loro e i loro figli avevano visto e sperimentato erano così orribili e traumatiche che non volevano tornare indietro: troppi brutti ricordi».
© Foreign Policy Traduzione di Fabio Galimberti

Repubblica 29.10.14
Il Jihadismo oltre lo Stato islamico
di Renzo Guolo


PRIMA o poi lo Stato Islamico sarà sconfitto, nonostante i divergenti interessi e calcoli dei membri della coalizione che lo combattono. Anche se a un prezzo che l’Occidente stenta ancora a immaginare. In ogni caso l’esito del conflitto non cancellerà il fenomeno del jihadismo. Potrà solo ridimensionarlo se non verrà vinta la battaglia, più difficile, per la “conquista del cuore e delle menti” dei musulmani.
Il lungo ciclo politico dell’Islam radicale, ormai più che trentennale, non è ancora concluso. E una sconfitta militare non implica necessariamente una sconfitta politica. Il jihad in Siria e in Iraq è il quinto episodio della lunga saga combattente panislamista. Iniziata con la mobilitazione antisovietica in Afghanistan, proseguita durante le guerre balcaniche in Bosnia e con il ritorno di nuovi e vecchi mujaheddin nell’Emirato del Mullah Omar per fondare Al Qaeda, divampata durante la sanguinaria epopea zarkawiana in Iraq, letteramente esplosa negli ultimi anni tra le sabbie di Raqqa e Mosul. Nel mezzo, i diversi jihad nazionali, combattuti anche dai reduci di queste campagne, in Algeria, Egitto, Yemen.
Se si escludono la prima campagna afghana e quella bosniaca, assai diverse per esito e contesto e nelle quali i radicali avevano lo stesso Nemico dell’Occidente, gli altri tre episodi, e i vari jihad nazionali, si sono conclusi, o stanno per concludersi, con l’insuccesso militare dei mujaheddin. Percepito, però, come tale solo dai loro nemici. Complice una diversa concezione del tempo, circolare più che lineare, i mujaheddin interpretano le sconfitte non tanto come scacchi strategici ma come battaglie perdute in una guerra alla fine, comunque, vittoriosa. Una concezione del mondo che, unita al persistere delle ragioni politiche alla base dei diversi conflitti, ha prodotto, nel corso del tempo, una crescente offerta di combattenti. Dopo ogni scacco armato lo jihadismo ha ripreso forza. Con più vigore di prima L’anelasticità dell’Islam radicale alla sconfitta militare rinvia alla sua totalizzante essenza ideologica. Esso dispone di un repertorio simbolico in grado di spiegare, e soprattutto, giustificare le battute d’arresto più pesanti. Tutto viene letto secondo lo schema, usurato, della falsa coscienza dei musulmani e del complotto del Nemico. Nonostante questo deficit analitico, l’ideologia radicale si è legittimata e diffusa, diventando senso comune per centinaia di migliaia di individui. La catena di trasmissione tra le diverse generazioni che lo hanno attraversato non si è mai interrotta, come accaduto in altri movimenti rivoluzionari. E l’islam radicale è un movimento rivoluzionario, sia pure sotto la forma di tragica e sanguinaria rivoluzione conservatrice. La sua forza attrattiva tra i giovani non è spiegabile senza questa presa d’atto.
La generazione dei primi “afghani” è fatta di cinquantenni e sessantenni, i combattenti in Iraq e Siria sono, in buona parte, poco più che ventenni. L’appartenenza alla comunità del fronte muta il concetto di generazione come unità temporale storicamente definita. I suoi membri, che pure hanno imbracciato le armi in tempi assai diversi come gli anni Ottanta o il secondo decennio del nuovo secolo, sentono di condividere la medesima esperienza: l’età del jihad. I legami generazionali così si dilatano. Dando origine a un “ filo verde” in cui tutto si tiene.
La natura ideologica del movimento fa si che esso non possa essere contenuto solo attraverso strumenti militari: per essere sconfitto deve essere contrastato culturalmente. Un simile passaggio implica non solo il rifiuto, decisivo, della deriva estremista da parte del mondo islamico ma anche una politica occidentale consapevole delle conseguenze di scelte destinate a fare da volano al malessere dell’Islam. L’antidoto funziona se nel corpo sociale della Mezzaluna diminuisce la febbre che i radicali attribuiscono alla westoxification , l’intossicazione da Occidente. Il fenomeno del radicalismo è, infatti, anche una reazione identitaria alla globalizzazione. Come mostra la presenza in Mesopotamia di migliaia di combattenti cresciuti in Europa o negli Stati Uniti, in Canada o in Australia, pervasi da un odio profondo contro l’Occidente. È questo Islam del risentimento che va ridotto a marginale devianza patologica. Altrimenti il problema è destinato ciclicamente a riproporsi. Pronto a riemergere da una delle tante fratture che minano gli instabili equilibri di un mondo dilaniato dal rapporto con la modernità occidentale, con la propria identità irrisolta, con confini non più accettati.

Repubblica 29.10.14
Iran La paura della bellezza
Si truccano, mettono le loro fotografie su Instagram e si vestono alla moda
Teheran è la capitale di un Paese nel quale le donne devono velarsi ed essere sottomesse
E invece le ragazze fanno una vita tutt’altro che scolorita. Ma gli oltranzisti non accettano la modernità
E qualcuno paga come la povera Reyhaneh
di Vanna Vannuccini


TEHERAN SHARMIN, 19 anni, ha messo la sua foto su Instagram, che come tutti i social media è oscurato in Iran ma tranquillamente accessibile grazie al sistema che rende quasi “invisibili” gli utenti. Racconta alle amiche la sua disavventura: avevano avuto ragione loro, quando l’avevano sconsigliata di mettere quella foto in cui si mostrava tutta truccata con due bande di capelli (extension, per la verità) che scendono lisci ai lati del viso. Certo aveva fatto colpo, e un ragazzo carino, studente d’ingegneria a Sharif niente di meno, le aveva scritto. Per il primo appuntamento lui aveva proposto un appartamento in città, lei aveva rifiutato: vediamoci in un caffè, è troppo presto. Tante insistenze da parte di lui, e alla fine gli aveva scritto irritata: ma io sono vergine, cerco un’amicizia seria. E questa volta si era arrabbiato lui: «Mi hai imbrogliato!». «No sei tu che imbrogli». Insomma il sogno è finito e lei ha capito che era stata la foto col “trucco pesante” a tradirla.
Che foto mettere su Instagram è un argomento corrente tra le ragazze iraniane. Come un tempo parlavano di nasi da rifare e si scambiavano cataloghi, oggi le foto sono diventate una preoccupazione. «In quella che ho messo io si vedono solo gli occhi e la bocca», racconta Maryam, 22 anni, sicura della propria bellezza. Ancora è single, ma non per molto. In cinque, tutti ottimi partiti, le scrivono tutto il giorno dei messaggini. Lei però non ha ancora scelto, dice, non è uscita con nessuno. La interrompe un bip, è arrivato un nuovo sms. Con lunghe unghie viola ticchetta velocemente sulla tastiera la risposta.
Siamo a Teheran, la capitale di un paese dove notoriamente le donne devono velarsi ed essere sottomesse. Ma le ragazze fanno, più spesso di quanto non s’immagini, una vita che scolorita non è. Per molti ayatollah oltranzisti, ragazze come queste, che ignorano le regole di vestiario, si tingono i capelli, si laccano le unghie, si truccano e ora chiedono perfino il divorzio (il tasso di divorzi è del 20 per cento e sono sempre più spesso le donne a chiederli), sono una minaccia più insidiosa per la Repubblica islamica di quelle americane. Inutilmente il governo moderato del presidente Rohani cerca di far passare una lettura più rilassata delle regole di comportamento e di vestiario in vigore dopo la rivoluzione islamica. In Parlamento, dominato dai conservatori, è in discussione una legge che garantirà l’immunità a coloro che «ordinano il bene e impediscono ciò che è illegittimo».
In realtà in questi 35 anni la rivoluzione islamica ha promosso l’educazione delle donne. L’ironia della storia ha fatto sì che il velo abbia aperto le porte dello studio e del lavoro alla massa delle iraniane che, coperte, hanno riempito uffici e università. E oggi il regime si ritrova con donne che pezzo per pezzo cercano di prendersi maggiore libertà. Ogni ciuffo di capelli che fuoriesce è un segnale. Nella metropolitana di Teheran si vendono dei curiosi posticci di capelli da mettere sotto il foulard e che in pratica consistono semplicemente in un ciuffo: una frangia bionda o castana o mesciata da aggiungere ai capelli veri.
Fino a qualche anno fa questi fenomeni riguardavano solo la capitale, oggi anche la provincia. Il salon de beauté dove ho incontrato Maryam e Sharmin non è uno dei pochi di lusso come ce n’erano fino a qualche anno fa solo a Teheran nord, nei quartieri dei super ricchi. È uno stanzone in un seminterrato in una zona commerciale tra Fatemi e Valiasr, stipato di giovani donne, casalinghe o impiegate tra i 18 e i 30 anni che tra cerette, strisce d’alluminio per le meches, fili intrecciati per togliere la peluria e simili torture passano la loro giornata libera a farsi belle, trangugiano per dimagrire innumerevoli tazze di tè e si scambiano diete, esperienze di vita e indirizzi di medici estetici. «Essere belle per le donne iraniane è un compito» dice la proprietaria del negozio, una bella signora in carne con vistosa scollatura. «Lo dice anche il Corano: “Dio è bello e ama la gente bella”. E poi, il viso delle donne iraniane è il più bello al mondo. Lo affermò anche un viaggiatore europeo del secondo scorso: una bellezza da far perdere la ragione, scrisse».
Prima o poi il regime dovrà venire a patti con le donne, dice Mercedeh Motahari, che ha una boutique di successo dove cerca di coniugare le regole di vestiario fissate dal regime e i desideri della nuove generazioni. «Colore, soprattutto» dice. «In questo momento le ragazze, soprattutto d’estate, ai ropush strettissimi e cortissimi che portavano l’anno scorso preferiscono abiti più larghi e più freschi. Ma i colori devono essere chiari, vivaci, brillanti». Mercedeh è reduce da un convegno sponsorizzato dal governo dove gli stilisti iraniani hanno presentato modelli di “abito iraniano”. Uniche regole: lunghezza al ginocchio, manica non meno di tre quarti e qualche bottone davanti. «Il sogno delle ragazze oggi sarebbe quello di fare a meno del ropush (l’obbligatorio spolverino) ma i miei modelli possono essere una soluzione anche perché lasciano libera la creatività, permettono di mettersi addosso tutto quello che uno vuole e perciò di essere unica, che è il desiderio di tutte».
«Le sensibilità in fatto di vestiario e di apparenza del corpo femminile restano comunque così forti da obbligarci a pensare molto più di voi occidentali a come vestirci o truccarci», dice un’amica architetta. «Sarò troppo truccata per quella festa di matrimonio, o troppo poco? In questi giorni è Moharram , un mese di lutto, posso mettere lo stesso un abito chiaro?». Sono domande che inevitabilmente ognuna si pone. «Una delle parole chiave della lingua persiana è hayaa, il pudore, l’essere riservati, e ti accompagna anche se vai all’estero dove non ci sono obblighi di vestiario», interviene l’amica. Bihayaa, spudorata: così era considerata Reyhaneh Jabbari dai giudici che ne hanno ordinato l’impiccagione.
In un cinema sulla Valiasr danno in questi giorni un film, Harayesh ghaliz , trucco pesante, che parla di una ragazza che s’innamora di qualcuno che le promette di sposarla e portarla in luna di miele e lei pensando di farsi bella si trucca come una Barbie e aspetta all’aeroporto l’amato: che invece è già partito per proprio conto e per sempre per la Cina.

Corriere 29.10.14
Vietnam e Usa, l’amicizia che indispettisce la Cina
di Paolo Salom


Vent’anni dopo la «normalizzazione» delle relazioni, Stati Uniti e Vietnam sono pronti a lavorare per rapporti «sempre più stretti» come ha spiegato, qualche giorno fa, al Corriere , il premier di Hanoi Nguyen Tan Dung. Non è questione solo di parole. L’Amministrazione Obama sin dalla prima inaugurazione si è posta come obiettivo di ridurre il numero dei Paesi considerati, se non nemici, «avversari», incrementando il numero di «amici» dell’America nel mondo.
Mettendo da parte il Medio Oriente, area troppo turbolenta per recepire gli effetti di questa politica, gli sforzi del presidente americano si sono meglio diretti sul vicino — Cuba — e, soprattutto, sul Pacifico. Qui l’ex nemico Vietnam, teatro di una sanguinosa guerra decennale e di un’umiliante sconfitta, è ora il destinatario di una partnership che comporterà, è notizia recente, anche l’invio di armamenti «difensivi» dopo la cancellazione di un embargo che resisteva dagli anni Settanta. Non solo: gli Stati Uniti forniranno tecnologia per aiutare il Paese indocinese a sviluppare un’industria nucleare civile.
Certo, questo ravvicinamento ulteriore nasce (anche) dai crescenti timori di Hanoi per la presenza sempre più ingombrante dei vascelli di Pechino nelle acque del Mar Cinese Meridionale. E il ruolo di Washington, nell’area, è percepito, come altrove, come un indispensabile ruolo «stabilizzatore». Ruolo che la Repubblica Popolare, sempre più assertiva, vede, nonostante le rassicurazioni delle parti, come una rinnovata intrusione nel «giardino di casa». Il 10 e l’11 novembre il presidente americano sarà nella capitale cinese per partecipare alla riunione dell’Apec, l’organizzazione dei Paesi che si affacciano sul Pacifico. Un’occasione per chiarire le rispettive posizioni e smorzare le rivalità. Certo, vista dall’Asia, la proiezione della potenza americana è sempre foriera di sospetti. Anche quando le intenzioni sono «buone». Obama dovrà dispensare tutti i sorrisi rimasti.

Il Sole 29.10.14
La Cina in aiuto del rublo
Sempre più stretti i legami economici tra i due Paesi dopo le sanzioni Ue e Usa contro Mosca
Con l'accordo di swap Pechino accetterà pagamenti in valuta russa
di Rita Fatiguso


PECHINO Vladimir Putin, a novembre, accoglierà a Mosca il primo ministro cinese Li Keqiang che gli restituirà la visita appena fatta portandogli in dono uno swap rublo-yuan. È la prova definitiva di quanto le valute stiano giocando un ruolo essenziale nelle relazioni tra Cina e Russia.
Un ulteriore segnale di quanto sia vicino il clearing con lo yuan, che Pechino vuole internazionalizzare anche con l'alleato russo.
Anton Siluanov, ministro delle Finanze russo, ai primi di giugno aveva rivelato che le banche centrali russa e cinese concordano sulla possibilità di utilizzare swap per pagamenti all'export in valuta nazionale.
L'obiettivo comune, per diverse ragioni, a Mosca e Pechino, è quello di dribblare l'uso del dollaro Usa.
È quanto sta succedendo anche a livelli di scambi commerciali, non è un caso che Obuv Rossii, gigante della distribuzione russa delle scarpe, abbia appena siglato un contratto da 400 milioni di rubli, fino al 2018, con un grosso fornitore cinese e con la banca russa Vtb a fare da intermediario. Questo sarà il primo di una lunga serie di accordi per pagamenti in rubli siglati tra società russe e partner commerciali cinesi nella moneta russa.
Crisi e instabilità nel mercato globale dei cambi costringono Mosca a considerare la necessità di fissare il rischio di fluttuazioni valutarie in dollaro Usa/euro e di trasferire nel settore valutario l'esperienza positiva degli scambi nel commercio transfrontaliero.
Inoltre, Gazprom si è accordata per forniture di greggio a Pechino in rubli. Si tratta del deal da 400 miliardi di dollari per il gas siberiano siglato a Shanghai tra Mosca e Pechino, di durata quarantennale. Russia e Cina hanno chiesto a Gazprom e a China National Petroleum Corporation (CNPC) di utilizzare le valute nazionali per le forniture alla Cina di gas naturale.
Nell'accordo è scritto espressamente che «le parti danno il benvenuto e incoraggiano l'uso da parte delle organizzazioni autorizzate della moneta nazionale tra la Federazione Russa e la Repubblica popolare cinese per gli insediamenti previsti nel settore energetico».
Le banche centrali dei due Paesi sono pronte quindi ad eseguire operazioni utilizzando il rublo. Il che permette alle controparti russe che vogliono commerciare in yuan, un maggiore utilizzo della moneta cinese.
Dal 2010 Mosca e Pechino cercano di definire una quotazione diretta rublo/yuan aprendo alla decisione di quotazioni parallele tra i mercati interbancari di Shanghai e Mosca. Non è stato un processo semplice, né immediato. Gli analisti finanziari cinesi considerano queste mosse un graduale rifiuto dell'uso del dollaro nelle transazioni con la Cina, una tendenza sempre più ampia nel mondo per rendersi autonomi dalla divisa statunitense.
I rapporti valutari oggi sono regolamentati da accordi tra la Banca di Russia e People's Bank of China. Il volume dei pagamenti in rubli dei contratti russo-cinese di import-export nel 2013 è aumentato dell'82%, nel 2014 l'importo era più vicino a un miliardo di dollari. Il volume dei pagamenti nei contratti bilaterali in yuan nel 2013 è cresciuto del 25%, nel 2014 l'importo totale dei pagamenti in renminbi inizia ad avvicinarsi al miliardo di dollari. Questo è solo l'inizio, le sanzioni inflitte alla Russia stanno avendo l'effetto di spingere ancora di più il pedale sull'abbandono del dollaro, specie quando gli Stati Uniti hanno usato la sua leva finanziaria sulla Russia nella sua politica di sanzioni.
Nel 2014, circa il 20% di tutti gli insediamenti del commercio transfrontaliero era realizzato direttamente in rubli e yuan, specie nella provincia di Heilongjiang dove di recente i due Paesi hanno introdotto facilitazioni doganali importanti. Non solo. Sempre quest'anno il trading sulle borse dei due Paesi nelle valute rublo/yuan giornaliere è aumentato di ben sei volte.
Oggi le aziende russe non riescono ancora a creare società in Cina interamente russe, manca il framework giuridico, è un tema al quale si sta lavorando. C'è da chiedersi cosa succederà quando questo sarà possibile e le aziende russe potranno muoversi con un'agilità davvero incomparabile rispetto a quelle di altri Paesi stranieri.

Corriere 29.10.14
Financial Times. Salvare Cameron
La lezione di Kant ai burocrati Ue


A pochi mesi dalle elezioni, per David Cameron pagare il conto presentato da Bruxelles significherebbe la morte politica: si indebolirebbe il fronte conservatore che sostiene il premier britannico e si rafforzerebbero gli euroscettici. Lo ribadisce sul Financial Times Janan Ganesh che ricorre a Kant per sostenere l’opportunità di trovare un compromesso. Un leader deve essere giusto e tuttavia essere un uomo, scriveva il filosofo tedesco, «da un legno storto com’è quello di cui l’uomo è fatto non può uscire nulla di interamente diritto».

La Stampa TuttoScienze 29.10.14
Violento, ma anche più organizzato: nuove scoperte sull’Homo Sapiens
“Angeli o demoni? Di sicuro siamo la specie più invadente”
di Gabriele Beccaria


Visto l’uomo da questa prospettiva, ci si sente dèi. È la prospettiva dei paleoantropologi, per i quali i tempi sono lunghi, lunghissimi. Dilatati oltre l’immaginazione. E quindi ideali per essere raccontati al Festival della Scienza di Genova, che ha adottato «il tempo» come filo conduttore.
Giorgio Manzi, professore all’Università la Sapienza, ha il privilegio di essere uno di questi esploratori temporali e la sua lezione del 2 novembre chiuderà il Festival, parlando di noi stessi. E spiegandoci che siamo adulti dimezzati, privati del ricordo di buona parte del passato, antichissimo e stracolmo di eventi. Lui è uno di quegli scienziati che sta cercando di farcelo recuperare.
Professore, ci dia qualche numero per capire il tempo segreto della nostra specie.
«In effetti è difficile percepirne la vastità, anche se a volte, a noi del mestiere, centinaia di migliaia e milioni di anni sembrano “cose” quasi ovvie. Pensiamo alla coesistenza tra noi Homo Sapiens e i Neanderthal sul territorio europeo per almeno 5 mila anni, nella realtà estrema dell’ultima glaciazione: è un periodo enorme, paragonabile alla storia che intercorre tra i primi faraoni e noi che stiamo parlando adesso».
E questo è un frammento dei tempi che studiate voi paleoantropologi: non è così?
«Se ci mettiamo su questa scala temporale, vediamo come la nostra specie si sia originata 200 mila anni fa in Africa. Dobbiamo quindi moltiplicare i precedenti 5 mila anni per 40 volte, senza dimenticare che metà di tutto il periodo l’abbiamo trascorso in quel continente prima di diffonderci su scala planetaria. Allungando ulteriormente lo sguardo e spingendoci alle origini del genere Homo, poi, tra ominidi bipedi e capaci di costruire manufatti del primo Paleolitico, arriviamo a 2 milioni di anni. E oltre. È l’ordine di grandezza necessario per capire meglio le caratteristiche del nostro percorso evolutivo».
Un percorso così lungo da essere accidentato: tra un cambiamento e l’altro, di specie diverse e di caratteristiche all’interno di ciascuna, hanno prevalso gli «strappi» o i momenti di stasi?
«I secondi. Se ci addentriamo nei meccanismi evolutivi, studiando le testimonianze fossili, osserviamo periodi relativamente lunghi con poche variazioni e una variabilità analoga a quella “orizzontale” delle popolazioni di oggi. I cambiamenti significativi avvengono solo in alcune fasi cruciali, collegandosi a un determinismo ambientale che muove. o fa muovere. il primo passo di una trasformazione decisiva. E le date che ho citato. 200 mila e 2 milioni di anni fa. sono altrettanti momenti-chiave dell’evoluzione umana. E a questo punto bisogna ricordarne un terzo, che ci costringe a moltiplicare il tutto per tre, andando indietro fino a 6 milioni di anni, quando si verifica la separazione tra la nostra storia evolutiva e quella dei nostri parenti più stretti, gli scimpanzè».
Quindi questo passato è segnato da «salti» improvvisi?
«Sì. È la teoria, formulata già negli Anni 70 da Eldredge e Gould, degli “equilibri punteggiati”: alcuni grandi cambiamenti coincidono con una serie di strozzature della variabilità, seguite dall’esplosione della novità appena apparsa. Da un punto di vista demografico e anche geografico».
Abbiamo convissuto con altre specie, ma oggi siamo gli unici sopravvissuti: perché?
«Forse per la nostra invadenza ecologica: mentre le altre sono scese sotto una certa soglia quantitativa di sopravvivenza, noi abbiamo continuato a espanderci. Probabilmente non per motivi tecnologici. all’inizio condividevamo più o meno gli stessi strumenti. ma per merito di una plasticità cerebrale e anche sociale che ci ha permesso di sfruttare meglio l’ambiente. E così siamo rimasti soli sul Pianeta Terra».

Corriere 29.10.14
Etica del rispetto per chi si appresta all’ultimo viaggio
di Remo Bodei


Pubblichiamo una sintesi dell’intervento che il filosofo Remo Bodei tiene oggi a Milano, alle ore 18, presso Palazzo Giureconsulti (via Mercanti 2) nell’ambito dei Seminari 2014 di Vidas (associazione che si occupa dell’assistenza ai malati terminali), dedicati al tema «In salute e in malattia»

Sarebbe bello che tutti noi potessimo morire come si augurava Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, «proprio come un’oliva che cade quando è matura, benedicendo la natura che l’ha prodotta e ringraziando l’albero sul quale è cresciuta». Ma è difficile farlo quando la morte diventa un fattore di atroce sofferenza. Nel caso, infatti, in cui la nostra vita sia stata talmente penosa da non meritare alcuna riconoscenza, occorre ugualmente accettare di buon grado il potere distruttivo della mors immortalis ? O non ci si deve invece ribellare alla sua assurdità?
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità muoiono ogni anno circa 350 milioni di persone, un ventesimo della popolazione mondiale. Quanti possono avere avuto la serenità di Marco Aurelio? Per la maggioranza di noi non è facile togliere alla morte il suo paolino «pungiglione», specie se la morte è preceduta da orribili pene e dalla perdita della coscienza e della volontà. In questo caso l’apologia del dolore, l’idea della necessaria salita sul Golgota e della crocifissione di ciascuno appare come una inutile crudeltà.
Occorre invece comprendere la vita di ognuno, avere rispetto dinanzi alla sua morte, accettarne la sua fede, le convinzioni e i dubbi. E questo sia in chi pensa che la morte non abbia senso, sia in chi immagina il definitivo concludersi della propria esistenza una volta percorso il cammino in questo mondo, sia in chi attende il compimento della promessa nell’aldilà in quanto «cambio di residenza». Esplicitamente per chi ha fede — ma nascostamente e pudicamente anche per chi non condivide attese religiose — forte è la seduzione dell’immortalità, il bisogno di una felicità senza fine, il desiderio di raggiungere quella che appare come una patria segreta a cui sembra di sentirsi chiamati.
Una risposta «laica» a tali aspettative sta nel non irriderle, nel comprenderne appieno il senso, nel rendersi conto che la semplice negazione di queste speranze amputa nei malati terminali la loro umanità, che la morte è carica di significati simbolici che non si possono banalmente ridurre alla cessazione del respiro o dell’attività cerebrale.
Anche per questo, il compito di curarli, non consiste solo nell’indispensabile uso di farmaci palliativi in grado di lenire il dolore, ma anche nel sostegno affettivo, morale, psicologico e fisico da parte di medici, infermieri, psicologi e fisioterapisti e nella costante presenza di familiari o amici che possano accompagnarli verso una fine dignitosa e sopportabile, evitando loro una morte straziante e solitaria, non abbandonandoli, ma facendoli sentire persone amate e rispettate. Si tratta di un’impresa di grande civiltà, che mostra — al di fuori dalle dispute ideologiche — cosa sia e cosa possa essere l’umanità al suo meglio.
Del resto, per chi si trova in un hospice l’incessante spettacolo della sofferenza impone con maggiore ineludibilità le domande se il dolore abbia un senso, se possa esserne contenuta l’intensità, se si trovino rimedi alla violenta disarticolazione e al penoso svuotamento degli abituali universi di senso del morente. Tutte le culture umane hanno indirizzato i loro sforzi verso una risposta a questi interrogativi. Ma oggi, tanto sul piano esistenziale, quanto su quello fisico, l’istituzione degli hospices e i progressi della medicina palliativa (ancora così negletta in Italia) hanno modificato la situazione e hanno mostrato come si possa riuscire a rendere meno tragica l’ultima fase dell’esistenza di molti individui.

Corriere 29.10.14
Come fu evitata nel 1944 La distruzione di Parigi
risponde Sergio Romano


Nella risposta sulla vita di Wallenberg, ha citato Raoul Nordling, il «console generale di Svezia a Parigi, l’uomo che riuscì a impedire la distruzione della capitale francese». Non ricordo di avere sentito parlare di questo personaggio: Vuole farcene un ritratto?
Marta Rosselli

Cara Signora,
In una fotografia scattata a Parigi, di fronte all’Arco di Trionfo, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, Raoul Nordling è un anziano signore, sobriamente elegante, piuttosto grasso, dall’aria bonaria e borghese. Ma pochi anni prima, nell’agosto del 1944, questa stessa persona correva affannosamente attraverso la città, da un palazzo del potere all’altro, per evitare uno scontro frontale, tra le forze tedesche e quelle della Resistenza, che avrebbe distrutto buona parte della città e avrebbe lasciato sul terreno un incalcolabile numero di vittime civili. Nordling sapeva che gli ordini impartiti dal Führer al generale Dietrich von Choltitz, comandante della piazza di Parigi, erano inappellabili: distruggere 70 ponti, trasportare in Germania tutti i prigionieri politici detenuti nelle carceri e nei campi francesi, passare per le armi tutti coloro che non avrebbero trovato posto nei treni sovraccarichi utilizzati per l’evacuazione. Ma sapeva altresì che molti tedeschi, nei comandi militari e negli uffici dell’Ambasciata del Reich a Parigi, avevano cominciato a interrogarsi sulla ragionevolezza di una tale strategia. Valeva la pena, mentre la guerra stava volgendo al peggio, macchiarsi di quello che sarebbe stato definito un «crimine di guerra»?
Nordling era nato a Parigi nel 1881 da padre svedese e madre francese, aveva fatto gli sudi in un liceo della capitale, si era occupato per qualche tempo dell’azienda paterna, ma era diventato viceconsole di Svezia a 24 anni e console generale vent’anni dopo. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale non vi era probabilmente un altro diplomatico a Parigi che avesse contemporaneamente una perfetta conoscenza di tutti gli ambienti politici e sociali della città in cui era nato e la maggiore libertà di cui gode il rappresentate di uno Stato neutrale.
Mentre gli Alleati avanzavano e le istruzioni di Hitler diventavano sempre più minacciose, la Resistenza insorse e occupò la Prefettura di polizia. Quale sarebbe stata la reazione tedesca? Nelle sue memorie ( Sauver Paris ), apparse in Francia nel 2002 e ristampate recentemente dall’editore Payot, Nordling scrive che soltanto una tregua, sottoscritta dalle due parti, avrebbe salvato la città. Ma le tregue, come è dimostrato dalla recente vicenda ucraina, vengono spesso concluse tra nemici che hanno obiettivi diversi, se non addirittura contrastanti. I partigiani avevano deciso di uscire dall’ombra per liberare Parigi prima dell’arrivo degli Alleati, ma erano male armati e avevano bisogno di una tregua per riempire i loro arsenali. I tedeschi volevano che la via d’uscita dalla città, quando fosse arrivato il momento di andarsene, fosse sgombra e temevano di restarvi imbottigliati. Come in Ucraina, tutti sapevano che la tregua era una soluzione provvisoria, ma ciascuno dei due campi temeva che l’altro ne traesse maggiore vantaggio e non tutti, né da una parte né dall’altra, erano d’accordo sul momento in cui sarebbe stato utile passare alla fase successiva. Il risultato furono frequenti strappi alle regole che Nordling riusciva spesso a ricucire.
Ebbe un maggiore successo, invece, nella vicenda della liberazione dei prigionieri politici. Aiutato da von Choltitz, ma osteggiato dalle SS e dalla Gestapo, Nordling corse da un carcere all’altro con ordini di liberazione che ebbero nella maggior parte dei casi l’effetto desiderato. Furono migliaia le persone destinate alla deportazione o alla morte che non avrebbero beneficiato, senza il coraggio del console di Svezia, della liberazione di Parigi, Per i cinofili aggiungo che esiste un film sulla liberazione di Parigi («Parigi brucia?», di René Clément, 1966) in cui il personaggio di Nordling è interpretato da Orson Wells.

Corriere 29.10.14
Parla Massimo Vitta Zelman, presidente di Skira
«L’arte ha bisogno dei musei Ma non può fare a meno del web»
intervista di Pierluigi Panza


Quello dell’organizzazione di mostre è, ormai, il secondo mestiere dell’editore d’arte Skira. L’offerta artistica della città in occasione di Expo passa dal gruppo presieduto da Massimo Vitta Zelman. Un gruppo che, da un lato si sta potenziando nel mondo (Svizzera, Francia, Stati Uniti, Emirati e Brasile) e, dall’altro, ha vinto i bandi per la gestione dei bookshop locali di Brera e Cenacolo (statali), Castello Sforzesco (comunale), Triennale e Scala (fondazioni). Di Skira è in corso la mostra su Segantini ed entro fine anno arriveranno i cataloghi per Le Dame dei Pollaiolo del Poldi Pezzoli e per Bramante a Brera mentre, per Expo, oltre alla mostra Dai Visconti agli Sforza (da marzo 2015) — remake di quella degli anni Cinquanta curata da Mauro Natale e Serena Romano — sta realizzando per aprile 2015 la «più grande esposizione italiana mai fatta su Leonardo, altro che qualche disegno, come ho sentito dire!» afferma Vitta Zelman. «Sarà migliore rispetto a quella della National Gallery, che ha voluto anticipare questa rassegna pensata da quattro anni. Per ora abbiamo lavorato un po’ in solitudine. Ora, città e ministero si stanno rendendo conto che si devono mettere a supporto».
Anche perché mentre dal Louvre si sono ottenute San Giovann i , Belle Ferroniére e L’Annunciazione , e da Windsor la disponibilità di trenta disegni è stata immediata, gli Uffizi negano ancora un’opera mentre da poco sono arrivate le risposte di Parma e dell’Ambrosiana.
L’impegno di Skira per l’Expo riguarderà anche la gestione. «Al Cenacolo fronteggeremo i costi per garantire l’estensione dell’orario, altrimenti resteranno fuori un milione e mezzo di persone; già oggi ne restano fuori 400 mila».
Dal 2000 al 2008 i fatturati per i servizi ai musei erano in ascesa, da 25 a 42 milioni all’anno: oggi?
«C’è una flessione nella spesa quando il luogo ha frequentazione solo italiana; tiene, invece, se ci sono stranieri. La politica per i Beni culturali ha puntato sul territorio diffuso anziché aggregare i musei come in Francia. Ma anche in Italia si dovrebbe unire e puntare sulla comunicazione delle grandi opere, altrimenti i primi a non conoscere i musei resteranno gli italiani».
Il libro d’arte arretra in libreria…
«Fanno fatica perché il sistema è dominato da catene di editori d’attualità: si vogliono vendere tante copie di pochi titoli in poco tempo, non fare stock e non promuovere la qualità».
Condivide il decreto Franceschini per dare autonomia ai grandi musei?
«Bisogna preservare la capillarità del sistema italiano, ma anche dare spinta e visibilità».
Forse si fanno troppe mostre a pacchetto...
«Ho letto commenti assurdi. La mostra su Segantini ha cento prestatori e quella su Leonardo per Expo sarà l’antitesi di una mostra a pacchetto. Il problema è che negli ultimi anni l’ente pubblico si è ritratto dal fare politica culturale, lasciando solo l’operatore privato. E poiché le mostre non si autosostengono, se i contributi pubblici vengono meno ne consegue che non sempre i privati possono promuovere mostre di ricerca. Inoltre, bisogna che le città abbiano un disegno condiviso. Per esempio, le mostre contemporanee di Luini e Piero Manzoni funzionavano, ma erano schiacciate da Klimt e Warhol».
Oggi i navigatori di musei virtuali hanno superato il numero dei visitatori nei musei reali: opportunità o problema?
«La virtualità non può essere una alternativa al luogo. Ma l’uso del digitale per la comunicazione visiva e l’inventario è efficace. Le visite funzionano già con navigatori che ti indirizzano. Per quella su Leonardo metteremo a disposizione un’app con eccezionali potenzialità. Dobbiamo educare senza arrestare l’oceano della social-community perché in questo momento non è possibile».
Cosa pensa dell’uso propagandistico di mostre e musei?
«Le mostre sono anche uno strumento per favorire l’osservazione della collezione permanente. All’estero le migliori si fanno nei grandi musei. Quanto all’apertura di sedi come il Louvre o il Guggenheim negli Emirati Arabi il senso di queste operazioni è fare spot nei Paesi ricchi per creare una ricaduta in patria. Il Museo d’Orsay fa viaggiare le sue opere per fare spot: ti faccio vedere 50 opere a Seul e sai che molte di più sono a Parigi».
Talvolta i soprintendenti bloccano i prestiti…
«C’era una commissione istituita dal ministro Rutelli per definire le linee guida dei prestiti: non ne resta traccia. Ci sono opportunità di natura politica, ma sul sovrintendente grava la responsabilità della tutela, che dev’essere garantita. Ad esempio, ancora per la mostra su Leonardo, il Sant’Anna non può viaggiare perché è rischioso, mentre la Ginevra Benci di Washington non la prestano perché è un’icona del museo. Queste sono ragioni corrette».
I privati nei musei sono un rischio o un’opportunità?
«Le fondazioni private vanno bene, ma vanno chiariti i ruoli: la tutela spetta allo Stato, l’autonomia gestionale può essere privata. Così saremmo più simili al resto del mondo».

Repubblica 29.10.14
Aperta la "scatola nera" del Dna, scoperti 262 geni 'custodi' della vita
Osservati in 3D su cellule di lievito, controllano le funzioni legate alla crescita delle cellule

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