giovedì 30 ottobre 2014

il Fatto 30.10.14
Modernità
L’eguaglianza non è più la virtù
di Marco Revelli


L’opzione disegualitaria (o, più apertamente, anti-egualitaria) è stata – e in buona misura continua ad essere, anche se più mascherata – parte integrante della dogmatica neoclassica che ha offerto il proprio hardware teorico all’ideologia neoliberista fin dall’origine della sua lotta per l’egemonia, alla fine degli anni Settanta e per tutto il corso degli anni Ottanta del secolo scorso.
L’idea che “un eccesso di uguaglianza faccia male all’economia” – o, più esplicitamente che “una buona dose di diseguaglianza faccia bene alla crescita” –, ha alimentato le politiche di deregulation prevalse nell’epicentro anglosassone e affermatesi nel circuito della globalizzazione. Ha motivato la rivoluzione fiscale, che ha drasticamente abbattuto le progressività delle aliquote e frenato le politiche redistributive negli Stati Uniti e in Gran Bretagna; e ha generato le dure conditionalities dei Programmi di aggiustamento strutturale (Structural Adjustment Programs) del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, fortemente incentrate sulle priorità del taglio della spesa sociale, sulla rimozione del controllo dei prezzi e la riduzione dei sussidi statali, sulla focalizzazione della produzione sulle esportazioni, sulle privatizzazioni e sul perfezionamento dei diritti del capitale d’investimento estero rispetto alle leggi nazionali.
OLTRE, naturalmente, ad aver permeato gli insegnamenti economici impartiti da un numero crescente di cattedre delle più accreditate università, nelle business school, nei think tank e nelle pubblicazioni di un gran numero di fondazioni.
“L’eguaglianza non è più una virtù” potrebbe essere assunto come il motto che ha contraddistinto la massiccia e articolata reazione anti-keynesiana di fine secolo: dopo un cinquantennio nel quale l’eguaglianza, in qualche misura, il valore sociale prevalente – l’“idea regolativa” sulla quale si erano orientate le politiche pubbliche dell’Occidente democratico e le stesse Carte costituzionali dei paesi civili –, si registrava, esplicitamente, un punto di rottura. Una sorta di rovesciamento, che anche là dove l’eguaglianza non veniva identificata come un ostacolo al “progresso economico”, la si retrocedeva comunque da valore finale a funzione strumentale. O la si poneva non più come presupposto ma, tutt’al più, come conseguenza dello sviluppo, da perseguire con altri mezzi, compreso quello di un’iniziale opzione disegualitaria.
Lo scenario nel quale quella “rottura” si è prodotta era – lo ricordiamo – segnato da una crisi profonda del modello che aveva caratterizzato la parte centrale del secolo, in particolare il trentennio 1945-1975, definito da Eric Hobsbawm come “l’età dell’oro” del suo “secolo breve ” e che i francesi chiamano le “trenta gloriose”.
Da un lato la stagflazione – l’intreccio paralizzante di un elevato processo di inflazione e di una altrettanto grave stagnazione – si presentava come un male economico refrattario alle tradizionali politiche anticicliche e offriva l’immagine di un punto di arresto o comunque di un tetto raggiunto dallo sviluppo difficilmente superabile con i mezzi tradizionali.
Dall’altro lato, la cosiddetta “crisi fiscale dello Stato” – caratterizzata da un emergente debito pubblico pur in presenza di una pressione fiscale ai propri massimi – limitava i margini d’intervento delle autorità politiche e delle agenzie pubbliche, lasciando intravvedere nell’insostenibile carico fiscale il principale ostacolo alla ripresa della crescita nei paesi a capitalismo maturo. Per parte sua, la globalizzazione incipiente lasciava intravvedere la possibilità di un’espansione esogena della domanda, grazie all’ampliamento e all’integrazione dei mercati su scala planetaria. Non stupisce che in un simile contesto si sia strutturato, e sia diventato rapidamente egemone, un paradigma socio-economico orientato alla rottura di tutti i precedenti compromessi sociali – quelli che, fino ad allora, avevano contribuito a formare l’idea prevalente di “società giusta” e che ora apparivano responsabili dell’insopportabile overload delle finanze pubbliche – e basato su una rinnovata centralità del mercato e sulla prospettiva di uno sviluppo trainato prioritariamente dall’offerta (supply-side) – in contrapposizione alle teorie keynesiane che si focalizzavano sulla domanda aggregata (demand-side) – nonché sull’effetto incentivo di una minore tassazione per la formazione di capitali disponibili all’investimento pubblico.
UN PARADIGMA, possiamo aggiungere, nel quale i grandi temi che avevano segnato il lungo ciclo precedente – la questione della piena occupazione, da un lato, e quella della povertà, dell’altro – finivano per assumere una posizione secondaria (così è per le politiche di contrasto alla povertà, ridimensionate con l’argomento dell’“azzardo morale”) o addirittura alternativa (un certo tasso di disoccupazione poteva essere considerato funzionale all’abbassamento del costo del lavoro). Un paradigma, appunto, nel quale l’ineguaglianza cessava di essere considerata un vizio per trasformarsi, entro certi limiti, in risorsa.


Corriere 30.10.14
Rapporto Oxfam sulle diseguaglianze: fermare i fondamentalisti del mercato
Winnie Byanyima, Direttore esecutivo Oxfam: «In un mondo nel quale le persone più ricche del mondo hanno più soldi di quanti potrebbero riuscire a spendere nell’arco della propria vita, ogni anno ci sono 100 milioni di persone che cadono in povertà» 
di Kibra Sebhat

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il Fatto 30.10.14
Renzi e i sindacati: i non eletti al potere
di Francesco Greco


Renzi ha zittito i sindacati dicendo che non hanno voce in capitolo in quanto non eletti. La domanda nasce spontanea: chi ha eletto lui? Primarie spurie in cui ha potuto votare chiunque? Il 41% alle Europee, che è una vittoria di Pirro, è venuto tre mesi dopo (a maggio). O magari i poteri forti come dice Susanna Camusso? Sarebbe anche accettabile poiché i poteri forti ci sono sempre stati e da qualche parte si debbono collocare. Ma, come annusava il direttore Ferruccio de Bortoli, ci potrebbe essere lo zampino di poteri occulti.
La dinamica che a febbraio portò alla cacciata di Enrico Letta è intrinsecamente sospetta: in poche ore si passò dallo “stai sereno” e dal “vado al potere solo se eletto” alla fine di Letta, con consenso del presidente Giorgio Napolitano. Come se una Spectre a cui nemmeno il Colle poté opporsi avesse accelerato i tempi. Chi c’è dietro e per quali interessi?

il Fatto 30.10.14
Il nuovo che avanza e dimentica il passato
di Vittorio Melandri


Altro che nuovo che avanza, siamo al vecchio che più vecchio non si può, solo camuffato, come il “Valentino vestito di nuovo, come le brocche dei biancospini” di Pascoli. Purtroppo siamo in un tempo in cui ci si riempie la bocca con la parola “riformismo”, ma c’è di peggio di un riformismo senza riforme, cosa che in Italia è prassi da più di quarant’anni. Come sempre, arrivati sul fondo si scava, perché capita spesso che l’efficacia delle battute sia quella di nascondere il vuoto di idee. Giacché è vero che i giovani campioni che hanno vinto alla lotteria titolata “larghe intese”, vogliono pure riformare l’esistente, ma in direzione contraria a quella che ha generato la forza che si spende per realizzarle. Niente di nuovo sotto il sole, almeno da quando in Italia appunto le ultime riforme si sono fatte davvero, in quel senso socialista e radicale che le caratterizzò e come noto oggi andrebbe solo rottamato. Andrebbe riletto tutto con attenzione il discorso che Riccardo Lombardi tenne nella seduta della Camera dell’8 novembre 1966, “sul programma di sviluppo economico per il quinquennio 1965-1969”: “La necessità di tutelare la libertà del sindacato, è essenziale per la vita democratica del nostro paese e per la democrazia di piano. Non è la sola delle condizioni di democraticità ma è forse la principale”.

il Fatto 30.10.14
Quando la corda alla fine si spezza
di Antonio Padellaro


Ai tempi di Scelba, quando la celere caricava (e ammazzava) i lavoratori in sciopero, i ruoli apparivano chiari: per il sindacato erano le manganellate del governo dei padroni e per i comunisti col pugno chiuso era quello lo sbocco dell’insanabile conflitto tra la classe proprietaria e il lavoro dipendente. Quando la polizia di Berlusconi fece del G8 di Genova una macelleria messicana, la sinistra all’opposizione spiegò che la destra al potere aveva in fondo mostrato la sua sostanziale natura fascista. Ma non è affatto nell’ordine delle cose che nell’autunno 2014, sotto il governo guidato da Matteo Renzi e dal Pd, gli operai delle acciaierie di Terni, colpiti da licenziamenti di massa e giunti in corteo pacifico a Roma, vengano picchiati a sangue dai reparti antisommossa e ciò dopo altri pestaggi pretestuosi avvenuti in altre città. Ciò accade quando per la prima volta, nella storia repubblicana, un premier eletto dalla sinistra cerca lo scontro frontale con il sindacato di sinistra tra gli applausi della destra. Nessuno pensa che l’ordine di attaccare i manifestanti sia arrivato dal presidente del Consiglio. Ed è evidente che le frasi inconsulte della pd Picierno contro la leader della Cgil Camusso “eletta con le tessere false” appartengano soltanto alla Picierno, un’altra senza arte né parte catapultata in situazioni assai più grandi di lei. Semplicemente, lo statista di Rignano sta raccogliendo i frutti di ciò che ha seminato, o meglio rottamato. La sgangherata lotta di classe contro le conquiste sociali e le tutele del lavoro. O la crociata contro il posto fisso da sostituire con un sistema di precariato permanente e a basso costo. Il tutto espresso in qualche Leopolda con disarmante lingua banalese dove milioni di persone con redditi da fame si sentono paragonati a gettoni del telefono nell’epoca dell’iPad, scampoli del passato da gestire senza tanti problemi. Anche se non fosse arrivato a Palazzo Chigi “per volere dei poteri forti e di Marchionne” (Camusso), Renzi fa di tutto per farlo sembrare. E a furia di scherzare col fuoco, nel giorno più brutto della sua scalata, ha assaggiato la rabbia della gente. Dei tanti stufi di prendere legnate, mentre altri si apparecchiano il pranzo di gala. La corda si sta spezzando.

La Stampa 30.10.14
Lo scontro delle parole alla fine accende la piazza
E la violenza sugli operai inaugura una stagione pericolosa
di Fabio Martini

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Corriere 30.10.14
Gli scontri alla manifestazione degli operai dell’Ast Terni
Il passato che non deve tornare
di Dario Di Vico

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La Stampa 30.10.14
A sinistra
Una frattura destinata ad allargarsi
di Marcello Sorgi


Necessarie, talvolta, in situazioni-limite in cui la violenza prende il sopravvento e l’ordine pubblico viene messo a rischio, le cariche della polizia sui manifestanti non sono mai un fatto normale. Spesso – in Italia, purtroppo, sempre più spesso –, contrassegnano un corto circuito del funzionamento della democrazia, che dovrebbe sopportare senza stress un certo tasso di polemiche e di proteste.
Quelle di ieri mattina contro gli operai delle acciaierie Thyssen di Terni, in lotta contro i licenziamenti decisi dai vertici tedeschi dell’azienda, non potevano cadere in un momento peggiore. Nei giorni in cui i rapporti tra il governo e la Cgil sono al minimo storico – Renzi teorizza in tv di voler chiudere ogni tipo di relazione, e la Camusso replica accusandolo di essere stato messo al potere dai «poteri forti» –, quanto è accaduto ieri in centro a Roma ha diffuso la sensazione, arbitraria finché si vuole, che il governo abbia scelto una linea di rottura con i lavoratori, oltre che con i loro rappresentanti.
Anche perché, per una sfortunata coincidenza, solo pochi minuti prima che i dirigenti di polizia fischiassero le cariche, l’eurodeputata renziana Pina Picierno, negli studi di Agorà, accusava la Camusso di essersi fatta eleggere con tessere false e aver pagato i pullman che avevano portato sabato nella Capitale un milione di persone contrarie alla riforma del lavoro e alla cancellazione dell’articolo 18. A nulla sono valse smentite, precisazioni, tentativi di ricucire della segreteria del Pd. Ormai la frittata era fatta, e un gelido comunicato della segreteria Cgil ha sancito una rottura che al momento sembra impossibile da ricucire.
Affidato al ministro dell’Interno, da cui dipende la polizia che ha caricato, il tentativo di un chiarimento con i sindacati è andato incontro a molte difficoltà. Perché sebbene Alfano sia obiettivamente responsabile dell’accaduto (e a lui sono rivolte la maggior parte delle interrogazioni parlamentari che invocano una ricostruzione delle cariche, e la richiesta di dimissioni avanzata da Sel), la partita, politicamente, non lo riguarda: è tutta interna al centrosinistra. Fin qui, di scissione s’era sentito parlare, ma i leader della minoranza, da Bersani in giù, fino all’irriducibile Civati, erano intervenuti solo per smentirla. E d’altra parte, è fuori dalla realtà l’idea che dopo aver ammainato venticinque anni fa la bandiera del Pci, e dopo aver fallito il tentativo di trasformare il vecchio «partito di lotta e di governo» in un soggetto riformista, i post-comunisti adesso tornino sui loro passi.
Ma se si allarga la crepa che s’è aperta sul Jobs Act, la rottura, magari non avverrà in Parlamento, ma nella società civile e nell’elettorato di sinistra, sì. Dice qualcosa in questo senso l’assidua presenza politica, non solo sindacale, del leader della Fiom Landini sui focolai della crisi, a cominciare, ovviamente, dai manifestanti colpiti dalle cariche. E spiega molto più di tante parole l’ostinato, obbligato, e in qualche modo imbarazzato, silenzio di Renzi. Il premier più movimentista degli ultimi anni stavolta deve stare attento. Se apre agli operai che contestano il Jobs Act, smentisce se stesso. Se prende le distanze dal ministro dell’Interno, crea problemi alla sua maggioranza. La telefonata con Landini a tarda sera rivela l’intenzione di svincolarsi, forse di aprire una breccia nel muro che lui stesso ha costruito tra sé e il sindacato: per evitare che lo spazio alla sua sinistra aumenti e la tentazione di riempirlo diventi più forte.

Corriere 30.10.14
Una sinistra condannata al conflitto senza scissione
di Massimo Franco


Bisognerà abituarsi ad una sinistra condannata al conflitto senza scissione. Uno scontro aspro, in crescendo, combattuto dentro il Pd ma soprattutto tra il partito e la Cgil. Senza tuttavia che nessuno possa e voglia arrivare alla rottura formale, perché non esistono spazi per creare alternative; e ancora di più perché l’eventuale frattura è temuta da chi dovrebbe provocarla. Significherebbe infatti offrire a Matteo Renzi un’ottima ragione per chiedere lo scioglimento delle Camere.
Dopo gli incidenti in piazza Indipendenza a Roma di ieri mattina tra polizia e operai della Ast di Terni, tuttavia, la tensione ha raggiunto livelli di guardia. Non c’è solo il fatto in sé, pur grave, con gli inevitabili scambi di accuse tra Cgil e Fiom e polizia, e la chiamata in causa di un governo guidato dal segretario del Pd. L’impressione è che si tenti di far scivolare le responsabilità verso il Viminale. La richiesta di chiarimenti che arriva dal Pd dice questo. Ma la minoranza del Pd addita anche Renzi. E il segretario della Fiom, Maurizio Landini che gli intima di «chiedere scusa».
Il problema è che il nervosismo a sinistra lievita da giorni. Susanna Camusso vede in Renzi il premier dei fantomatici «poteri forti». E Pina Picierno, deputata pd, la accusa di essere eletta con tessere false della Cgil. È la fotografia di rapporti avvelenati. Rimane da capire se e come possa essere fermata una deriva doppiamente insidiosa: perché moltiplica gli strappi nel Pd; e perché li scarica su un governo sottoposto a esami quotidiani, in Italia e nella Ue, dove il compromesso dell’altro giorno sulla legge di Stabilità appare meno scontato del previsto.
Anche la trattativa tra Palazzo Chigi e Comuni sui tagli si sta esasperando. Piero Fassino, presidente dell’Anci e alleato di Renzi, ora accusa il governo di imporre riduzioni di spesa «insostenibili». Graziano Delrio, sottosegretario a Palazzo Chigi, ritiene il contrario. Ma questa discrasìa conferma che l’incontro non è andato bene. Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia, ribadisce che le riforme in realtà vanno nella direzione giusta. Ieri ha dichiarato con un pizzico di enfasi che l’Italia «sta diventando nota per il suo sforzo contro l’evasione fiscale»: era a Berlino per un accordo su questo tema.
C’è da sperare che Padoan abbia ragione. L’interpretazione del «sì» della Commissione all’Italia e ad altri quattro Paesi a rischio di bocciatura, però, lascia aperte alcune incognite. «L’Italia sta facendo cambiamenti importanti. Bisogna vedere se saranno attuati», avverte il commissario agli Affari economici, il finlandese Jyrki Katainen. E aggiunge che, nonostante il peggioramento della situazione economica, non si possono escludere nuove sanzioni. È un modo per tenere sulla corda i governi con i conti in bilico. Ma può diventare una sponda per giustificare misure dolorose e impopolari agli occhi delle opinioni pubbliche.

Repubblica 30.10.14

Il sospetto del premier: “Qualcuno punta alla spallata vogliono farci passare per quelli che picchiano gli operai”
di Francesco Bei


ROMA Spegnere subito l’incendio. Abbassare i toni. Questo l’imput di Matteo Renzi ai ministri Federica Guidi — spedita subito alla Camera per esprimere il «rammarico» del governo per le manganellate agli operai di Terni — e Angelino Alfano. Telefonate, soprattutto quella con il ministro dell’Interno, per cercare di capire le «responsabilità» di quella carica di polizia in un momento delicatissimo della vertenza Ast. «C’è stato un eccesso di reazione, non possiamo passare per il governo che picchia gli operai».
E però, oltre all’irritazione per quanto accaduto in piazza, il premier ha tratto dalla giornata una conferma al dubbio che da sabato, dal giorno della manifestazione a San Giovanni, passa di bocca in bocca tra i renziani più stretti: «Qualcuno, approfittando della crisi, sta tentando da dare una spallata al governo». Quel «qualcuno» assume sempre più le sembianze della leader Cgil, Susanna Camusso. In sintonia con alcuni esponenti della minoranza interna.
Ieri pomeriggio, appena terminato a palazzo Chigi l’incontro con i sindaci dell’Anci, Renzi si è allontanato in un angolo con Graziano Delrio per commentare a tu per tu gli sviluppi dell’incidente di piazza Indipendenza, monitorando soprattutto i commenti sindacali più accesi e le rampogne arrivate dagli oppositori alla Civati. «Adesso stanno esagerando — è sbottato il capo del governo —. Lo sanno benissimo che stiamo facendo tutto il possibile per risolvere quella vertenza. Lo sanno bene perché li teniamo informati». E dunque, se la vicenda non riguarda il merito della vertenza acciaierie — ieri Renzi ha incontrato i vertici di Federacciaio e di Cassa depositi e prestiti per l’ipotesi di un ingresso pubblico nel capitale — si torna alla politica. E i dubbi crescono. Condivisi anche dal presidente del Pd Matteo Orfini, che pure ha protestato per primo contro le cariche agli operai: «Camusso sta politicizzando tutto. Che senso ha accusare Renzi di essere espressione dei poteri forti? Poteva valere semmai per il governo precedente, ma questo? La Cgil potrebbe incalzarci sull’articolo 18, sulla legge di Stabilità, e magari ci metterebbe in difficoltà, ma la lotta libera nel fango che c’entra?». Un quesito per ora senza risposta, ma persino nel fronte sindacale, tutt’altro che compatto sullo sciopero generale, iniziano a sorgere le prime crepe sull’atteggiamento complessivo della Camusso nei confronti di palazzo Chigi. Perplessità a cui ha dato voce ieri Luigi Angeletti, leader della Uil: «Proclamare adesso uno sciopero generale sarebbe solo un tentativo di far cadere il Governo che non riuscirebbe. E andrebbe quindi a finire male per noi». Dunque, si chiedono nel governo, a che gioco sta giocando la Cgil? Ai renziani sembra la riedizione dello scontro che dodici anni fa lacerò i Ds tra chi sognava la leadership di Sergio Cofferati, allora segretario della Cgil, e l’ala riformista di D’Alema e Fassino. Il Correntone dei vari Mussi, Salvi e Vita agiva dentro il partito per spianare la strada al Cinese e riprendersi la “ditta”. La storia finì in un altro modo. Ma certo la tensione che si accompagna a questa vicenda è vissuta da Renzi con una certa preoccupazione. Non è un caso se, nel colloquio con Alfano, è stato deciso che oggi stesso il ministro sarà in Parlamento per fornire una versione ufficiale di quanto successo davanti all’ambasciata tedesca. Quando il corteo, con alla testa i sindacalisti, si è visto respingere con manganelli e scudi. «Io ero lì — racconta ancora trafelato in Transatlantico Giorgio Airaudo, ex Fiom ora Sel — e non c’era alcun contatto fisico con gli agenti. Stavamo a quattro-cinque metri dal cordone e provavamo a trattare con la Digos per far sbollire la rabbia, chiedevamo di farci arrivare al ministero dello sviluppo, come poi è stato. Ma mentre cercavamo di parlare al telefono con Alfano o qualcuno dei suoi collaboratori, è partita la carica a freddo». Una versione molto diversa da quella fornita più tardi dalla Questura. Al di là della dinamica esatta dello scontro, per Renzi l’episodio suona come un campanello d’allarme per l’iter parlamentare della legge di Stabilità e del Jobs Act. Due provvedimenti che ora devono accelerare al massimo, per evitare che restino sulla graticola mentre fuori, in piazza, la Cgil soffia sul fuoco dello scontro sociale. Per togliere combustile al possibile incendio il governo avrebbe quindi in mente un paio di concessioni pesanti. Precisare le fattispecie dei licenziamenti disciplinari nella delega e, dentro legge di Stabilità, aumentare la dotazione per i nuovi ammortizzatori sociali. Due modifiche che potrebbero sterilizzare politicamente l’attacco di Camusso. E provare a spezzare il fronte di chi sogna la «spallata » al governo.

Repubblica 30.10.14
I rottamatori e i cipputiani
di Michele Serra


I MANGANELLI della polizia sugli operai di Terni gettano una ulteriore manciata di sale su una ferita non facilmente rimarginabile — ammesso che alle parti interessi rimarginarla. Quella aperta dal duro contenzioso, verbale e dunque politico, tra il Pd di governo e i sindacati, ovvero tra la nuova configurazione (almeno in senso cronologico) della sinistra italiana e le sue radici profonde.
APARTIRE dal colpo d’occhio, la distanza tra Leopolda e piazza romana è sembrata infinita, perfino più di quanto sia interesse della giovane classe dirigente renziana, che sulla rottura con tutti i passati, specie il proprio, punta molte delle sue carte, ma sulla sostanziale unità della sinistra, o di ciò che ne ha preso il posto, poggia molto del suo potere elettorale e parlamentare. Non poteva esserci, quello storico sabato, rappresentazione più efficace delle due antropologie politiche che, pur con cento sfumature intermedie, nei giorni successivi e in modo molto acceso ieri è come se avessero accelerato il reciproco allontanamento, prendendosi a male parole, accusandosi reciprocamente di ogni male e di ogni dolo.
Come potrebbero sopportarsi, del resto, una classe dirigente “democrat” e postideologica, che crede nella forza demiurgica del “fare” e nel dinamismo dell’impresa come sola grande leva per ribaltare la crisi (essendo lei stessa l’emblema di un’impresa politica di successo), tanto da far pensare che Jobs Act derivi da Steve Jobs; e una piazza cipputiana, orgogliosa e scontenta, tenuta insieme, va detto, soprattutto dalle conquiste passate, ma animata dall’idea che la centralità del lavoro, il suo valore, la sua dignità siano la sola vera chiave del futuro, e convinta, a ragione o a torto, che il governo Renzi quella chiave non intenda usarla?
È facile dire, nei convegni e di fronte alle telecamere, che Leopolda e piazza San Giovanni sono complementari, che non ha più senso contrapporre impresa e lavoro (piuttosto complicato spiegarlo agli operai di Terni), che la differenza, in politica, è ricchezza. Sta di fatto che la crisi, drammatizzando i conflitti, mette inevitabilmente in scena molte delle “cose vecchie” delle quali Renzi non vorrebbe più sentire parlare, e che spesso liquida come assurda zavorra: se una piazza operaia è “vecchia”, se “vecchio” è il riflesso condizionato di scioperare e magari occupare una stazione ferroviaria, è perché la vecchia abitudine di considerare il lavoro, e la vita di chi lavora, come il punching ball sul quale scaricare tutti i colpi della crisi, è pienamente in atto. È oggi che succede. Proprio oggi.
Diventa dunque complicato, perfino nella lettura renziana, retrodatare questo pezzo di sinistra al punto da consegnarlo agli archivi. Quella sinistra ce l’ha di fronte qui e ora, ce l’ha in casa qui e ora, il segretario del Pd, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, le sue forme di rappresentanza con la loro vocazione sociale («l’interesse generale» rivendicato da Camusso) e le loro pigrizie consociative e corporative. Quando Renzi dice, con la sua sbrigativa franchezza, che il governo non deve trattare le sue riforme con i sindacati, a ogni italiano di buon senso viene alla mente l’estenuante palude della “concertazione” che per decenni ha imbozzolato la vita socio-economica del Paese fino a renderlo quasi comatoso, tarpando le ali a ogni cambiamento. Ma subito dopo, ogni italiano di buon senso si domanda come mai dei tre protagonisti della (non rimpianta) concertazione, tocchi soprattutto ai sindacati finire in rotta di collisione con la dinamica navigazione renziana, non certo a Confindustria, mai come in questo periodo in buoni rapporti con il governo. Per evitare il sospetto di considerare “vecchio” il sindacato e “meno vecchio” un mondo imprenditoriale che dalla produzione ha progressivamente levato risorse e quattrini per destinarli al capitalismo finanziario; e per smentire l’accusa camussiana, per la verità un poco complottarda, di essere uomo dei “poteri forti”, eterna oscura e mitizzata presenza in un Paese dove tutto, alla prova dei fatti, è comunque debole; a Renzi non basterà tassare qualche rendita finanziaria e detassare qualche busta-paga.
Dovrà inventare, per dirla con parole sue, il gettone da mettere nello smartphone, e cioè trovare una forma decente di sopportazione, e magari di collaborazione, tra il suo esercito in camicia bianca e il mondo del lavoro salariato così com’è. Una società di soli imprenditori e di sole partite Iva non è nelle cose, il lavoro dipendente, a tempo determinato o indeterminato che sia, è ancora la forma prevalente di sussistenza (dunque di vita) della stragrande maggioranza degli italiani che lo votano, e il vero limite della Leopolda non sono i bollori thatcheriani (molto vetero) del finanziere Serra, è il sogno ingenuo di un mondo del lavoro di soli vincenti, tutto energia, ottimismo e sorrisi, una specie di Truman Show che tiene fuori dalla porta, e lontano dalle telecamere, la durezza del conflitto e l’umiliazione di tante vite a perdere.
Se questo sindacato non valesse più come interlocutore politico degno, Renzi e i suoi collaboratori hanno calcolato e/o immaginato chi e che cosa, nell’ambito dell’agognato “nuovo”, possa farne le veci? Un ribellismo frantumato e casuale? Corporazioni tignose ed egoiste? Ognuno per sé, Dio per tutti? Sindacati aziendali alla tedesca, pienamente coinvolti nella gestione, ma poi chi glielo dice a Marchionne e a Squinzi? Come capo del governo e ancora di più come segretario del maggiore partito della sinistra europea, Renzi sicuramente sa che la spaccatura astiosa di questi giorni non è liquidabile con le battute, e merita una riflessione. Fa rima con concertazione, ma non è la stessa cosa.

Repubblica 30.10.14
La guerra tra Matteo e Susanna tra hashtag, gettoni e veleni ecco gli antipodi della sinistra
di Filippo Ceccarelli


GLI spettacoli della post-politica, nel loro più aggiornato assortimento, tendono a forzare i problemi e a travolgere le consuetudini del potere per andare poi regolarmente a sbattere in ambito umano e caratteriale.
Detta altrimenti: Matteo Renzi e Susanna Camusso non solo si stanno palesemente sulle scatole, ma questa loro reciproca avversione finisce per essere vissuta dai protagonisti e ancora di più dal gentile pubblico come una storia a suo modo eccezionale e avvincente.
Qualcosa che di sicuro investe motivazioni reali e profonde - sul lavoro, la tradizione, la memoria, il linguaggio, il futuro; e poi una serie di implicazioni che hanno a che fare con il ruolo del governo dinanzi ai conflitti sociali, le riforme, le elezioni, il destino del Pd, quello eventuale del Partito della Nazione e altre faccende di peso.
E tuttavia si avverte nei due un sentimento supplementare, un genere di inimicizia che nemmeno potrebbe definirsi solamente antropologica perché anche carica di teatralità. Così suggestiva da oltrepassare le cattiverie dinanzi alle telecamere, e le imitazioni (Renzi), le maledizioni (Camusso), le invenzioni a base di canzonette («Un’ora sola ti vorrei»), le magliette polemiche («Io sono Marta »), i permessi sindacali, i corteggiamenti degli avversari (Landini) in una sonagliera di hashtag, gettoni e tablet in esposizione.
No, il sentimento è al tempo stesso così ambiguo, riposto e spettacolare da aver spinto un gruppo di ricercatori a sottoporre gli interventi di entrambi i personaggi a una parallela e simultanea diagnosi di ordine per così dire cognitivo attraverso una diavoleria tecnica, «Facial Acting Coding System», da cui viene fuori che le le «microespressioni » leggibili sui volti del capo del governo e del leader della Cgil quando parlano l’uno dell’altra si configurano come «marker» di sarcasmo, paura, disprezzo, disgusto. Moti dell’animo programmati a freddo e, particolare istruttivo nella sua desolante applicazione, recitati da tutti e due in maniera assai professionale e quindi indifferente rispetto ai problemi che posti alla base delle rispettive e animose parole.
Lungi dal reclamare una semplicistica equidi- stanza, la visione sinottica di Renzi e Camusso - su cui ha scritto un interessante articolo Christian Raimo sul blog di Internazionale, da una parte «la supercazzola», dall’altra «un comunicato da Casa del Popolo» - vanifica qualsiasi precedente.
Perché tra il partito di sinistra e la Cgil esiste una dialettica per cui Di Vittorio ebbe i suoi problemi con Togliatti, e Lama con Berlinguer, e anche Craxi con Marianetti e con Del Turco; per non dire D’Alema premier che in un comunicato designò il segretario del sindacato «il dottor Cofferati ».
Ma qui e ora, diamine, il mega show del conflitto conquista l’attenzione, mobilita simboli, accende l’immaginario e attira i siparietti di Crozza e le canzoncine di Fiorello su Youtube proprio perché mette in causa la più variegata incompatibilità e ancora di più appare perfetto nella sua vistosa asimmetria.
Per cui con qualche temerario svolazzo, oltre al Jobs Act, alle lungimiranti ambizioni di Renzi o alla eroica resistenza di Camusso, ci si potrebbe richiamare alla mitologia scomodando arpie, narcisi, erinni e prometei; così come, e sempre invocando indulgenza, non sembrerebbe poi del tutto assurdo rivolgersi a uno specialista della psiche per sviscerare questa formidabile ed esplosiva disarmonia, pure a costo di perdersi fra paure ataviche di madri ancestrali e complessi di castrazione per esorbitante onanismo.
Ma non ne vale la pena perché in fondo, sull’eterna scena italiana, basta e avanza l’inedita coppia di maschere che litigano a tutto spiano, il ragazzo del potere e l’anziana donna dell’opposizione, sia detto con eufemistico rispetto. A riprova che le passioni, alla fine, muovono le controversie - si spera non le manganellate - però rimangono appiccicate a ciascuno; e i giornalisti comunque ci inzuppano il pane, senza nemmeno troppo chiedersi come andrà a finire.

Repubblica 30.10.14
Un altro autunno caldo
di Massimo Riva


NON c’era proprio bisogno degli scontri di ieri fra polizia e lavoratori per temere l’aprirsi di un nuovo autunno caldo. La situazione sociale del Paese, purtroppo, è già surriscaldata anche al netto dei manganelli. Il caso dell’Ast, rappresenta solo la punta di un iceberg composto da centosessanta partite sindacali aperte attorno ad aziende che minacciano la chiusura.
OPPURE, nel migliore dei casi, pesanti ristrutturazioni a carico della propria manodopera. Il tutto, per giunta, in una fase nella quale l’Istat certifica, mese dopo mese, l’incapacità del sistema a creare nuova occupazione. I “tavoli aperti” coinvolgono circa 90mila lavoratori, 81 aziende del Nord, 56 al Sud e 23 che agiscono su tutto il territorio nazionale. Un quadro che si affaccia purtroppo su un abisso.
Ciò che in questo scenario fa presagire il peggio non è però il clima ribollente di qualche piazza, ma l’atmosfera da guerra fredda che si sta instaurando nei rapporti fra mondo sindacale e politico. Entrambi soggetti che mettono radici nello stesso campo politico, ma che ora — ecco il guaio peggiore — rischiano di essere condizionati nelle loro prese di posizione da una battaglia interna fra maggioranza e minoranza del partito democratico non sempre decifrabile nei reali obiettivi degli uni e degli altri.
La soluzione di casi come quello di Terni e delle tante altre vertenze aperte postula un dialogo negoziale triangolare fra sindacati e imprese con un governo presente come facilitatore dei problemi. Sullo schema di quanto accaduto, per fare un esempio concreto, con la vicenda Electrolux chiusa con un compromesso che ha soddisfatto tutte le parti in causa. Solo che premessa per il successo di simili e difficili situazioni è un forte e radicato sentimento di collaborazione e di reciproca fiducia fra i soggetti seduti al tavolo. Atmosfera che ora, nel volgere di pochi giorni, appare profondamente mutata.
Non è un bello spettacolo quello che Susanna Camusso offre al paese e ai lavoratori quando dice che Matteo Renzi è a Palazzo Chigi perché così hanno voluto Sergio Marchionne e i cosiddetti poteri forti. Pessimo poi quello offerto da qualche pasionaria del fronte renziano che replica mettendo in dubbio la legittimità dell’elezione della segretaria della Cgil. Si sa che le parole sono spesso peggio delle pietre e anche dei manganelli. Perciò il presidente del Consiglio, innanzi tutto, fa bene a richiamare se stesso e i suoi sostenitori a una maggiore sobrietà verbale. Ma anche sul versante sindacale appare indispensabile il ritorno a una misura nell’uso delle parole che non alimenti l’increscioso sospetto di voler fornire una valida sponda sociale d’appoggio a chi briga per rovesciare il tavolo del governo e riaprire (non si capisce neppure come) la partita interna al Pd. La somma di due torti non ha mai fatto una ragione. Il presidente del Consiglio dovrebbe capire che un conto è voler ridimensionare il potere di veto spesso abusato in passato da parte dei sindacati, ma tutt’altro conto è usare nei confronti dei medesimi toni provocatoriamente liquidatori: il rischio è quello di alimentare reazioni tali da impedire ogni passo in avanti.
I tanti disoccupati e i molti lavoratori che temono di diventarlo presto sanno meglio di chiunque altro che la soluzione dei loro problemi non è facile e neppure a portata di mano. Ma sanno anche di avere il diritto di chiedere ai loro rappresentanti e al governo di tenere aperti tutti i canali negoziali e di non essere usati come gli scudi umani di una battaglia politica.

Corriere 30.10.14
La destra che non c’è
Il bipolarismo scomparso nell’Italia delle due sinistre
di Pierluigi Battista

qui

Corriere 30.10.14
Operai feriti, Camusso attacca:
«Renzi abbassi i manganelli»
La leader Cgil e le polemiche sulle cariche della polizia

qui

il Fatto 30.10.14
Il segretario della Cgil
“Le botte non arrivano mai per caso. Qualcuno deve aver dato l’ordine”
intervista di Salvatore Cannavò


“È gravissimo quello che è accaduto ieri a Roma”. Alla richiesta di un commento sulle frasi di Pina Picierno, il segretario generale della Cgil propone di cambiare discorso. Lei stessa è corsa al Policlinico Umberto I per accertarsi della salute dei militanti Fiom picchiati. Poi ha parlato con Maurizio Landini e ha telefonato al ministro dell’Interno, Angelino Alfano.
Cosa ha detto al ministro Alfano?
Che quello che è avvenuto è gravissimo e chiediamo al governo di risponderne. Gli ho detto che occorre molta attenzione perché in una situazione così difficile non si sa dove si va a finire.
Avvertite una situazione pesante?
Ho incontrato personalmente i lavoratori dimessi, tutti e due raccontano la stessa cosa: c’è stato un ordine esplicito. Stupisce sempre, del resto, che queste cose possano avvenire per caso. Ci deve essere un ordine. Ma le manifestazione pacifiche non possono essere trattate in questo modo. Non voglio fare dietrologia però abbiamo chiesto di convocare il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica in modo da rendere esplicita una direttiva su quale deve essere il comportamento delle forze dell'ordine. Quello che è accaduto oggi non deve più verificarsi.
Quanto accaduto potrà anticipare il vostro sciopero generale?
Fino all’8 novembre ci sono mobilitazioni già decise. Continuiamo a pensare che bisogna articolare e allargare le iniziative, dare voce ai territori. Saremo sottoposti a numerose tensioni, a probabili voti di fiducia, non abbiamo in mente una lotta di breve periodo.
La richiesta Cgil è ancora quella di modificare la legge delega o spostate il tiro sulla legge di Stabilità?
La priorità è che si crei lavoro, buon lavoro. Nella legge delega non c’è nulla sul superamento delle tante forme della precarietà. Lo Statuto dei lavoratori va esteso non ridimensionato. Legge delega, legge di Stabilità e riforma della Pubblica amministrazione sono tre cose che vanno insieme, una cosa non derubrica l’altra. In ogni caso, noi non diciamo solo dei “no”. Abbiamo idee, proposte: l’estensione dei diritti, la riduzione della precarietà, la qualità della pubblica amministrazione.
Pensate sia possibile un confronto con il governo o ci avete messo una pietra sopra?
Per stile una pietra sopra non ce la mettiamo mai. Una strada per confrontarsi è la più idonea ma non ne vediamo in questo momento le premesse. Abbiamo proposte e restiamo disponibili al confronto. Non ci chiudiamo in un fortino.
C’è una Cgil sotto assedio?
No. La fase attuale è piuttosto caratterizzata da una grandissima questione sociale. Per correttezza, va detto che la situazione non è tutta figlia di questo governo ma di una lunga stagione di crisi che ha lasciato moltissimi nodi irrisolti. Capisco che ci sia del nervosismo in giro. L’isolamento non ci riguarda a meno che non si voglia intendere una separazione dei temi del lavoro dalle priorità del Paese.
Cosa risponde a Pina Picierno?
Il mio sentimento prevalente è di parlare delle cose concrete e delle cose da fare. Non mi interessa rispondere al protagonismo di qualcuno. Ovviamente, ci riserviamo di valutare gli elementi di diffamazione ma non è questo il punto.
Immaginava che sarebbe stata il segretario dello scontro tra la Cgil e il partito a cui è iscritta?
Devo dire che quando sono stata eletta la preoccupazione era come affrontare una crisi così lunga. Ma forse abbiamo sottovalutato che una crisi così avrebbe cambiato non solo i rapporti sociali ma anche i rapporti sul piano politico. Ciò che invece non è mutata è la forte vocazione di autonomia della Cgil.
Non sentite il problema del rinnovamento, anche generazionale, della Cgil?
La Cgil non è mai un mondo omogeneo. Sabato scorso è stato evidente che siamo più compositi e più giovani di quello che è riconosciuto. Che poi anche noi abbiamo un problema di accelerazione del rinnovamento non c'è dubbio. Ma questa discussione l’abbiamo aperta prima del “cinegiornale dell’era Renzi”.

il Fatto 30.10.14
Picierno offende, Alfano picchia, il Pd scarica tutti
di Wanda Marra


“Le cariche per strada a Roma? Colpa di Alfano, dicono i renziani, facendo trapelare la “rabbia” del premier nei confronti del ministro dell’Interno. Che infatti lo chiama e gli chiede “spiegazioni dettagliate” sull’accaduto. Le dichiarazioni della Picierno nei confronti della Camusso? “Schiocchezze” (parola del presidente del Pd, Matteo Orfini).
LA GIORNATA di ieri, per i Democratici e per il governo, comincia male e continua peggio. Rottura con la Cgil definitivamente consumata, toni alle stelle. Escalation fuori controllo, con le botte in piazza della polizia agli operai di Terni, che “danneggiano” il governo, come ammettono i renziani. E scaricabarile assicurato.
La Camusso in un’intervista a Repubblica denuncia: “Renzi è a Palazzo Chigi per volere dei poteri forti”. E ricorda le dichiarazioni rilasciate da Marchionne, il 2 ottobre, sulla necessità di togliere “i rottami dai binari”. La Picierno (voluta dal premier come capolista alle europee), in diretta ad Agorà (Rai3), reagisce così: “Potrei ricordare che la Ca-musso è eletta con tessere false o che la piazza è stata riempita con pullman pagati”. La prima frittata è fatta. Tocca al vice segretario dem, Lorenzo Guerini, metterci una toppa: “Siamo sicuri che Pina Picierno non voleva offendere nessuno, può capitare nel corso di dibattiti accesi di dire parole eccessive. Noi abbiamo grande rispetto per un’importante realtà sindacale come la Cgil”. Poi, la condanna della Camusso: “Eccessivo e sbagliato parlare di poteri forti”. In linea Orfini: l’ex sindaco di Firenze è arrivato a Palazzo Chigi "per volontà della direzione del Pd".
Le ire dei dem si dividono tra le due. Vedere Fioroni: “Anche durante un dibattito concitato, bisogna collegare il cervello con la bocca. Altrimenti, è un danno per tutti”. I dem di ogni ordine e grado, nella maggioranza e nella minoranza, sono furibondi con l’europarlamentare. “Ma chi la protegge questa? ”, si chiede un giovane deputato. Lei così si è giocata la possibile candidatura alle primarie della Regione Campania, sono pronti a scommettere i colleghi di partito. Perché le sue dichiarazioni di ieri, in una giornata che si complica con le botte in piazza, sono il classico errore imperdonabile da parte di Renzi.
“Ha sbagliato a dire quelle cose: Matteo può decidere di andare allo scontro, ma gli altri devono tenere i toni bassi”, spiega un fedelissimo. Perché è chiaro che la situazione sta sfuggendo di mano e che con una frase del genere i vertici dem mostrano il fianco: tanto che nel Pd si accusa la Camus-so di lavorare per far cadere il governo, per spaccare il partito, per trasformare il sindacato in un soggetto politico. L’imbarazzo dei vertici dem è evidente, la tensione a Palazzo Chigi aumenta nel corso della giornata. La situazione rischia di diventare ingestibile. Per dirla con Bersani a Otto e mezzo: “Non si possono accendere micce e farsi un nemico al giorno. La situazione è seria e un partito di governo deve prenderla seriamente”.
ANCHE le pronte scuse ufficiali di Graziano Delrio a Maurizio Landini non convincono la cerchia stretta del premier: sembrano un’ammissione di colpa non richiesta e non opportuna. In serata da Palazzo Chigi fanno sapere che il premier ha parlato anche con il segretario della Fiom. Lui nega: “Contatti solo con Delrio”. Per tutta risposta, dal governo diffondono orari di telefonate e sms. Evidentemente i rapporti tra i due ormai sono deteriorati. Per il resto, Renzi cerca di capire come parare il colpo. Nel mirino, il ministro dell’Interno, che oggi riferisce in Senato. Sel chiede la sua testa. C’è chi, tra i renziani, arriva a dire che da parte sua c’è un preciso disegno di destabilizzare il quadro, indebolendo Renzi a suo vantaggio. Interpretazioni che danno il segno di un clima. Renzi tace per tutta la giornata. Poi chiede ai suoi di abbassare i toni. Evidentemente ha capito che c’è poco da scherzare. Non solo: ad Alfano ha chiesto di avere un’analisi dettagliata dell’accaduto per accertare le responsabilità ed evitare strumentalizzazioni. Tradotto: non gli ha risparmiato critiche e avvertimenti.

il Fatto 30.10.14
Il malessere degli agenti: “Abbandonati dai vertici”
di Si. D’O.


Chissà cosa devono aver pensato i poliziotti quando hanno capito che il capo della Polizia, Pansa, ha delegato le spiegazioni al ministro Alfano. Il “silenzio” dei vertici non fa che alimentare il senso di abbandono che si respira nelle Questure. “Un tempo si aveva il coraggio di dire al ministro di turno ‘questo non si può fare’ – si lascia sfuggire un vecchio poliziotto – siamo diventati la polizia dei governi”. E poiché la linea dell’esecutivo è molto chiara, c’è chi pensa che gli ultimi episodi di piazza si possano mettere in fila. Non solo Roma, infatti, a pochi giorni dall’insediamento del Questore D’Angelo. Due settimane fa, gli scontri in piazza Castello a Torino. Il 4 luglio, davanti alla Prefettura di Genova, nonostante gli accordi i metalmeccanici dell’Ilva si sono trovati in piazza due auto della polizia a ostacolare l’arrivo dei loro mezzi e questo ha generato tensione, con parte della Digos ferma a guardare.

il Fatto 30.10.14
L’ira di Maurizio
“In questo Paese di ladri picchiano gli unici onesti”
Il lavoro nell’era Renzi: prima ti caccio, poi ti meno
di Sal. Can.


È incredibile quello che è successo, non ha nessuna ragione. Hanno picchiato i lavoratori solo perché avevano chiesto di fare un corteo pacifico fino al ministero. Ma la risposta è stata la carica”. Maurizio Landini si sfoga con i suoi subito dopo aver assistito, da segretario generale della Fiom, a una delle giornate più cupe della sua vicenda sindacale. I 500 operai delle acciaierie Thyssen di Terni erano venuti a Roma per chiamare in causa il governo tedesco e hanno organizzato un presidio davanti all’ambasciata di Germania, in piazza Indipendenza. Ma si sono trovati sotto una carica improvvisa della polizia, violenta e precisa, tanto da spedire all'ospedale quattro militanti della Fiom tra cui due dirigenti nazionali. Uno di loro, Gianni Venturi, è caduto in terra ed è stato manganellato anche in quella posizione. I colpi raggiungono in pieno lo stesso Maurizio Landini, a stento protetto da Fabio Palmieri, che lo accompagna da anni.
NON ERA MAI avvenuto che un segretario generale del sindacato fosse colpito dai manganelli. La reazione di Landini è rabbiosa: “Dica una parola la Presidenza del Consiglio, anziché fare slogan del cazzo, dica una parola di quello che sta succedendo. Che si vergognino. Devono chiedere scusa ai lavoratori. Noi paghiamo le tasse anche per loro. Questo Paese esiste perché c’è gente che lavora. Dovrebbero chiedere scusa alla gente. Altro che palle, Leopolde e cazzate varie”. E ancora: “In un Paese di ladri, di gente che evade, di corruzione, se la vengono a prendere con gli unici onesti?! Ma dove cazzo siamo messi?! Basta, eh”. Un fiume in piena che si arresta solo a sera quando il ministro Alfano, dopo una giornata di telefonate, dichiarazioni e consultazioni, decide di ricevere i leader sindacali presenti in piazza. Ad Alfano Landini chiede “le scuse” che però non arrivano. I sindacati presenti chiedono alla Questura di Roma di “smentire” il comunicato mattutino “perché che noi volessimo andare alla stazione Termini” dice Landini “è una bugia e voi lo sapete”. Anche la Fim chiede la “ricerca dei responsabili”. Il capo della polizia, Alessandro Pansa, cita un filmato Sky che mostrerebbe le provocazioni degli operai mentre Alfano chiude dicendosi che si darà da fare per impedire giornate come questa. Ma le scuse non arrivano anche se, come dice Landini, “sarebbero state molto utili per Terni”.
La manifestazione era cominciata al mattino quando dieci pullman avevano scaricato a Roma circa 500 operai diretti all’ambasciata tedesca di piazza Indipendenza, dietro la stazione Termini. Le acciaierie di Terni, infatti, sono tedesche e finora il governo di Angela Merkel non ha mostrato alcun interesse per i tagli da 100 milioni di euro e da 550 esuberi. La delegazione viene ricevuta dal portavoce dell’ambasciatore. Ma l’incontro produce solo un comunicato stampa beffardo: “Il giorno 29 ottobre un presidio di lavoratori ha manifestato per contestare il piano industriale della Thyssen. La delegazione è stata ricevuta da un rappresentante dell’ambasciata a cui è stata illustrata la ragione della protesta”. La presa in giro è così plateale che la reazione è istintiva. Ai fischi fa seguito la voglia di spostarsi al ministero dello Sviluppo economico.
“Non abbiamo fatto in tempo a chiedere il permesso” spiega un militante della Fiom che si trovava in prima linea, “che è partita la carica della polizia”. La Questura dirà che è stata solo un’azione di “contenimento” e che i manifestanti avevano l’intenzione di dirigersi alla stazione Termini. “Non ci abbiamo nemmeno lontanamente pensato” replica la Fiom.
LE BOTTE arrivano dirette. Gianni Venturi, pacifico dirigente della Fiom, finisce a terra e perde i sensi. Chi lo segnala agli agenti di polizia finisce manganellato. Lo stesso Landini cerca di calmare gli animi, ma i colpi arrivano anche a lui. Rosario Rappa, un altro dirigente nazionale della Fiom, si ritroverà, insieme ad altri due giovani con la testa spaccata. Al termine della giornata anche la polizia denuncia quattro feriti, tra cui un funzionario. Dopo i manganelli, il corteo si ricompone. Landini, furioso, telefona alla ministra Federica Guidi annunciando l’arrivo della delegazione. Una nuova telefonata di Landini, stavolta a Graziano Delrio, indurrà il governo a spedire il sottosegretario Filippo Bubbico al tavolo presso il ministero.
La delegazione sindacale torna in strada con le risposte ottenute: una verifica su quanto avvenuto in piazza; l’impegno della ministra Guidi “per cambiare il piano industriale Ast”; il pagamento degli stipendi, da oggi, se sarà consentito agli impiegati amministrativi di entrare nello stabilimento. “Non è cambiato nulla” commentano sottovoce e delusi, gli operai presenti. Ma l’invito è di chiudere qui la manifestazione e di tornare a casa. La ministra Guidi, in serata, si dice fiduciosa in un accordo e riconvoca per questa mattina le parti. Gli operai di Terni, intanto, hanno già fatto 80 ore di sciopero ma per il momento hanno deciso di non mollare.

Corriere 30.10.14
«Alla Leopolda Serra contro i sindacati, Tre giorni dopo ci sono i manganelli»
Zoggia, minoranza dem: «È inevitabile pensare a strane coincidenze.
Siamo più di cento alla Camera. No a scissioni, il partito si può riscalare»
intervista di Fabrizio Roncone


ROMA Dov’é l’onorevole Zoggia?
Si volta un commesso. «Eccolo laggiù...».
I deputati renziani controllano il territorio. Non sfugge la scena di un bersaniano duro e puro che va incontro a un cronista salutandolo con evidente cordialità. Ma Davide Zoggia se ne infischia, dei renziani. «Abbiamo ancora facoltà di rilasciare interviste, sa?».
( Mentre camminiamo verso il corridoio che sta accanto alla buvette, Zoggia dice con un filo di voce: «Qui alla Camera siamo tra i 70 e gli 80, e dentro ci metto i dalemiani, noi che stiamo con Pier Luigi e quelli di Cesare Damiano. A questi bisogna poi aggiungere i 20 di Cuperlo e i civatiani, che sono 8, forse 10... E anche al Senato, i numeri di quella che sui giornali chiamate “minoranza”, non sono male: perché lì, per dire, faccia conto che siamo già una trentina». Ci sediamo su un divanetto. Dai finestroni entra un riverbero di luce fioca. Atmosfera perfetta per parlare di scissione nel Pd ).
«Poi le dico cosa penso della scissione. Subito voglio invece dirle che non mi piace un governo che lascia manganellare operai e dirigenti sindacali, com’è successo poco fa, in piazza Indipendenza. Certo non conosco eventuali provocazioni, non c’ero... però è inevitabile pensare a certe coincidenze...».
Può essere più preciso?
«No, dico: alla Leopolda, Davide Serra, il finanziere vip amico di Renzi, prende la parola e dice cose gravi e inaccettabili sul sindacato e sul diritto allo sciopero e poi, tre giorni dopo, che succede? Succede che i poliziotti vedono gli operai, abbassano la visiera del casco e caricano...».
Continui.
«Renzi parla sempre di riforme. Ma non è che le riforme poi puoi andarle a fare a destra, con una cultura di destra. Da quelle parti puoi eventualmente farci un passaggio la domenica pomeriggio, quando decidi di andare dalla D’Urso, su Canale 5, a razzolare un po’ di consenso nazionalpopolare e, appunto, magari anche destrorso. No, ecco: questo tanto per precisare...».
Torniamo all’ipotesi di scissione. Lei prima ricordava a memoria tutti i numeri.
«La prima cosa da dire è che il disagio non c’è tanto qui, in Parlamento, quanto piuttosto sul territorio o nelle piazze. Pensi a piazza San Giovanni: il 90% di quelli che erano lì hanno votato per il Pd. Come si sono sentiti quando hanno ascoltato il loro segretario che parlava d’un “partito di reduci”?».
Renzi, negli ultimi tempi, con voi della minoranza è assai ruvido.
«Troppo ruvido... questa escalation di perfidie e provocazioni, questo continuo forzare la mano è così inspiegabile da risultare sospetto. Ha tutto dalla sua parte: un bel 40,8% delle elezioni europee ancora caldo, la concreta prospettiva di poter governare fino al 2018, un’opposizione praticamente inesistente e però, che fa? Appena può sbeffeggia la minoranza del suo partito. Perché?».
Lo dica lei: perché?
«Vuol far cadere il governo o, piuttosto, cambiare e per sempre il Dna del Pd? I sospetti sono legittimi».
Per capirci: lei pensa che Renzi vi provochi sperando di vedervi andar via?
«Non lo so, può darsi ci sia un progettino di questo tipo. Che, però, va a sbattere contro la nostra cultura politica. Perché noi non siamo abituati a fondare partitini del 10%, noi abbiamo fondato il Pd. E al Pd vogliamo bene e qui dentro, perciò, restiamo. Del resto fummo proprio noi, fu Bersani, nel 2012, a rendere “scalabile” il partito, quando, facendo un favore a Renzi, decise che potesse diventare premier anche chi non era segretario... Beh, adesso, piano piano, lottando da dentro, contiamo di poterlo riscalare noi, fino al prossimo congresso, il partito».
La vedo dura.
«Abbiamo, l’ho spiegato, spinte contrarie e pericolose: Renzi che ci insulta da sopra e i militanti che ci premono, indignati, da sotto. D’Alema e Bersani, che spero Renzi non s’offenda se definisco “padri nobili”, se ne sono accorti e non casualmente invitano alla calma e al confronto politico».
Potete cimentarvi subito: il Jobs act è alla Camera e...
«E le dico subito che se al Senato abbiamo votato una cartellina praticamente vuota, qui le cose, sono in grado di garantirglielo, andranno diversamente. Noi pretendiamo...».
Pretendere è un verbo che a Renzi fa venire le bolle.
«Noi pretendiamo che quel po’ che c’è, dentro il Jobs act, possa essere modificabile ed integrabile, almeno con ciò che fu deliberato dalla direzione nazionale del partito. In caso contrario...».
Voterete contro?
«Ovvio».
(Certe interviste sembrano non finire mai e così, alla buvette, davanti a due pessimi caffé, siamo finiti a parlare inevitabilmente del Renzi personaggio. «Quando io ero presidente della Provincia di Venezia, lui guidava quella di Firenze: beh, mi creda, già all’epoca era uno che pensava in grande. Determinato, rapace, mai stanco. Ora non so dirle se tenesse nel mirino Palazzo Chigi: però, giuro, non mi stupirei che...»).

Corriere 30.10.14
Accuse e veleni tra Camusso e il Pd
Bersani: governo dei poteri forti? No
di Alessandro Trocino


ROMA È scontro aperto tra Cgil e Pd, dopo la manifestazione contro il Jobs act e le parole di Susanna Camusso, che ha accusato Matteo Renzi, citando una frase di Sergio Marchionne, di essere arrivato al governo grazie ai «poteri forti». Ieri una replica della deputata renziana Pina Picierno ha provocato un’ulteriore escalation di polemiche, allargando la frattura tra Pd e Cgil. Ma l’effetto è stato anche quello di indignare e rinvigorire l’ala sinistra dei democratici, scesi in campo per difendere i sindacati.
A partire da Pier Luigi Bersani, che da Otto e mezzo condanna gli incidenti e il clima che si è creato: «Sono preoccupato per l’aria che tira. Bisogna considerare che il popolo che è andato in piazza è basicamente il nostro e trattarlo con amicizia e comprensione». Poi attacca, con riferimento al governo e a Renzi: «Sono stati fatti errori piuttosto seri. Non si può accendere una miccia al giorno. E non si può considerare il sindacato un ferro vecchio».
Quanto ai poteri forti, Bersani nega: «Renzi è stato eletto dal Parlamento». Ma attenzione: «Perché vogliamo rompere questo giocattolo fantastico? Io dico a Renzi: stai sereno con me, sul serio. Ma facciamo attenzione, perché il progetto si può incrinare». Sul premier, dice: «È una risorsa, ha energia da vendere, ma non si può dire che ci sia un eccesso di umiltà». Bersani parla anche dell’articolo 18: «È un principio di civiltà, non era neanche da tirare in campo». Il Jobs act? «Non voglio neanche pensarci alla fiducia. Cerchiamo di ragionare. Ma nessuno vuol mettere in discussione questo governo. Il nostro Papa è Renzi. E nessuno pensa alle elezioni». Infine una battuta: «Almeno il patto del Nazareno non l’ho firmato».
La Picierno, ad Agorà, si era detta «molto turbata» dalle parole del segretario Cgil. Aggiungendo: «Potrei ricordare che la Camusso è stata eletta con tessere false o che la piazza è stata riempita con pullman pagati, ma non lo farò». Artificio retorico che non è bastato a evitare reazioni durissime. A partire da una nota ufficiale della Cgil: «Siamo indignati per le parole dell’eurodeputata pd. Potremmo dire che la Picierno dice delle falsità e delle sciocchezze, essendo il tesseramento della Cgil certificato. Potremmo parlare delle primarie in Campania. Ma non lo faremo». Poi la Picierno si è scusata: «Non era mia intenzione lanciare accuse. Se le mie affermazioni hanno dato questa impressione, mi dispiace». Palese l’imbarazzo del vicesegretario pd Lorenzo Guerini: «La Picierno non voleva offendere nessuno. Può capitare di dire parole eccessive. Abbiamo grande rispetto della Cgil e lo chiediamo anche per noi». Ma la minoranza si scatena. Corradino Mineo: «Siamo ai pesci in faccia, così neanche Sacconi». Giuseppe Civati: «Preferivo quando certe cose le diceva la destra». Giuditta Pini: «La Camusso ha detto una cavolata, la Picierno l’ha fatta sembrare una fine politologa». Alfredo D’Attorre: «Stendiamo un velo pietoso». Matteo Orfini: «La Camusso ha detto cose sbagliate, la Picierno una sciocchezza». Matteo Richetti: «Trovo ridicole entrambe».
Intanto, grandi manovre alla commissione Lavoro della Camera, dove è arrivato il Jobs act. I pontieri cercano una mediazione, ma la minoranza ha pronti gli emendamenti. Come conferma D’Attorre: «Il Jobs act prevede l’abolizione dell’articolo 18 e un castello di chiacchiere. Così non va».

il Fatto 30.10.14
(Sotto)sviluppo
Quei 150 tavoli dei disperati
di Sal. Can.


“Manca solo che ci diano il numeretto”. L’ironia dell’operaio di Terni descrive una condizione surreale. A protestare sotto le finestre del ministero dello Sviluppo economico, in via Molise all’incrocio con via Veneto, ci sono centinaia di lavoratori. Capita spesso, visto che in quel ministero sono almeno 150 le vertenze accumulate e finora non risolte. Ieri i primi ad arrivare sono stati gli operai della Jabil di Marcianise, in provincia di Caserta. L’azienda ha avviato le procedure di mobilità per 580 lavoratori dopo averne mandati via già 160. I sindacalisti che hanno partecipato alla trattativa radunano i “loro” operai nella parte alta della via, vicino a via Veneto. Quando, dopo pochi minuti, scenderanno i sindacalisti della Ast, raduneranno l’altra delegazione, più numerosa, al centro della strada. “Quelli di Terni, qui”, grida al megafono Claudio Cipolla, segretario della Fiom cittadina.
Per convincere gli operai della Jabil che il congelamento della mobilità fino al 17 novembre, giorno in cui il tavolo viene riconvocato, è una buona notizia, i dirigenti sindacali impiegano mezz’ora. Gli operai sono delusi. “Dopo cinque mesi di trattative è tutto qui? ” grida qualcuno. “Da 740 che eravamo vogliono portarci a 200 e questo rinvio non modifica questa strategia” dice un altro.
ALL’IMPROVVISO parte un coro paradossale: “Chiudetela, chiudetela”. Meglio la chiusura della fabbrica per tutti, dice chi è in piazza, che il lavoro solo per una minoranza degli attuali dipendenti. Se ne discuterà in fabbrica, domani o venerdì, in assemblea.
Quelli di Terni si radunano poco più in là ma la delusione riguarda anche loro. “Certo, non è che potevamo aspettarci chissà cosa dall’incontro di oggi” ammette un operaio con il casco blu della Ast, “ma in fondo siamo venuti fin qui, abbiamo preso le botte, solo per sentirci dire che ci pagheranno gli stipendi. Che però è un nostro diritto”. A sciogliere l’assembramento, però, gli operai umbri ci mettono un attimo e l’atmosfera si fa più calda quando, subito dopo, arrivano, dalla parte bassa della via, gli operai della Trw di Livorno. È una delegazione in rappresentanza dei circa 400 che l’azienda vuole licenziare. Vengono accolti con abbracci e applausi e per farli entrare in via Molise gli operai di Terni si dispongono su due file applaudendo: “L’operaio non si tocca, lo difenderemo con la lotta” gridano convinti. E poi: “Lavoro, lavoro”. A differenza del mattino, qui non succede nulla grazie anche al lavoro certosino che svolgono i dirigenti sindacali che calmano gli animi, spiegano, riportano tutti a casa. Senza di loro, il governo avrebbe qualche problema in più. Ma con loro, Renzi ha deciso di non parlare.

La Stampa 30.10.14
I sindaci: la manovra è insostenibile
Fassino (Anci): “I tagli saliti da 1,2 a 3,5 miliardi”
Blindato il Def corretto, va in aula a maggioranza semplice
di Francesco Maesano


Stavolta a Renzi non occorrerà il voto di un Luis Alberto Orellana. Oggi arriva in aula a Montecitorio la nota di aggiornamento al Def, ma basterà la maggioranza semplice. Questo perché il Governo non ha chiesto una nuova autorizzazione per lo scostamento dall’obiettivo del pareggio di bilancio, che avrebbe richiesto la maggioranza assoluta, presentando invece al Parlamento la sola nota.
La stima del deficit/Pil per il prossimo anno si attesta così al 2,6 per cento, lontano a sufficienza dal vincolo del 3 per cento. Il ministro Padoan ha festeggiato la soluzione come «uno sforzo notevole dopo tre anni di recessione», ma il barometro della legge di stabilità segna ancora tempo incerto. Innanzitutto c’è Jyrki Katainen, che si è già capito che non sarà un cliente facile per Matteo Renzi: giusto ieri ha voluto precisare che il via libera non è definitivo. È il vicepresidente della commissione al quale sono affidate le chiavi del rispetto dei conti e ha fatto notare che «il fatto di non aver riscontrato serie deviazioni dalle regole del patto, non significa che i piani le rispettano appieno». E poi ci sono i Comuni.
«Mi piacerebbe fare l’amministratore locale ora che abbiamo allentato il patto di stabilità», ricordava il premier nei giorni scorsi. Ma la delegazione dell’Anci che si è presentata ieri nella biblioteca di palazzo Chigi non era così ottimista sulle prospettive dei bilanci comunali. Tre volte più pessimista, per la precisione.
Neanche il tempo di sedersi che già Piero Fassino l’ha messa giù chiara: «La legge di stabilità peserà sui comuni tra i 3,5 e i 3,7 miliardi di euro e non per 1,2 miliardi, come è stato detto finora». Renzi ha chiuso subito il recinto: «Noi vogliamo mantenere questi saldi, non si discute. Se avete controproposte entro questo perimetro siamo pronti ad ascoltarle».
Le preoccupazioni maggiori riguardano le città metropolitane e le province di secondo grado. Secondo gli esperti dell’Ifel, l’istituto di ricerca dell’Anci, si tratta di un miliardo di tagli che per Fassino, semplicemente, «non sono sostenibili».
Sul punto Renzi ha ribattuto che la partita di Comuni e Province si gioca su tavoli diversi, spiegando che nella legge di stabilità verrà richiesto un contributo diverso «perché non è accettabile l’idea che la Provincia rimanga un soggetto con tutte le titolarità e i soldi del passato». I Comuni hanno rivendicato di aver già tirato la cinghia per oltre 17 miliardi di euro e hanno tirato fuori una wish list bella nutrita: più soldi per le linee della metro e l’impegno dello Stato a farsi carico dei costi degli uffici giudiziari a partire dal prossimo gennaio e non da settembre 2015, garantendo una boccata d’aria da subito per il nuovo anno.
Il premier non ci sta a passare per il capo di un governo centralista che scarica il peso della legge di stabilità sugli enti locali. «Abbiamo cominciato ad aggredire la spesa centrale e presto sarà online ogni singolo centesimo speso dai ministeri», ha spiegato al tavolo, provando a coinvolgere i presenti nella sua crociata contro i vincoli europei: «Vogliamo fare le riforme anche per cercare di cambiare le regole del gioco in Europa».
La mediazione, come spesso accade nell’ambito dell’esercizio del potere renziano, l’ha trovata Graziano Delrio. Prima ha prospettato ai Comuni la «completa libertà nel raggiungere i saldi e una unica tassa», chiarendo che si tratta di «due obiettivi che verranno sicuramente raggiunti entro la stesura finale della legge di stabilità». L’idea allo studio, infatti, è quella di riunire in una Local Tax le molte tasse e i tributi locali. Poi si è prodotto in un difficile intervento nella questione numerica dei saldi spedendo la palla in avanti: «Abbiamo riscontrato notevoli divergenze di calcolo sull’impatto che la manovra avrà sui comuni. Si è deciso di istituire in tempi rapidissimi un tavolo tecnico di approfondimento con un primo incontro settimana prossima». Tecnici del Governo contro tecnici dell’Anci per provare a ricucire quella distanza che vale due miliardi e mezzo. Si ripartirà da lì.

il Fatto 30.10.14
27 mld di nuove tasse nascosti da Renzi nella sua manovra
Dal 2016, giù le detrazioni su Iva e benzina
Tutti i trucchi celati nella legge di Stabilità per arrivare al pareggio di bilancio nel 2017. I Comuni già non ce la fanno: “Così andiamo in dissesto”. L’Ue: “Sull’Italia non abbiamo ancora deciso”
di Marco Palombi


Ventisette miliardi di tasse nascoste, rimandate a domani per non ammetterne l’esistenza oggi. Questa è la scommessa di Matteo Renzi, quella che innerva la sua legge di Stabilità elettorale, il motivo per cui tutti nel palazzo si sono convinti che il voto a primavera è inevitabile. Funziona così: il nostro deficit deve andare a zero entro il 2017, è il famoso pareggio di bilancio inserito in Costituzione ai tempi di Mario Monti anche da quelli che oggi lo contestano e sottoscritto dai governi italiani nei Patti stipulati in Europa. Come lo facciamo? Ma con la spending review, ovviamente. Solo che al momento la revisione della spesa è una bufala e i tagli quasi interamente lineari di Renzi e Padoan sul 2015 lo dimostrano: ieri, per dire, i Comuni e le nuove province sono andati a chiarire a Palazzo Chigi che così muoiono i servizi ai cittadini (scuola, trasporto, strade, sociale, verde e quant’altro) e molte città rischiano comunque il dissesto.
HA SPIEGATO Piero Fassino: “La Stabilità ci taglia 1,2 miliardi, a cui si aggiungono i 2,2 miliardi del fondo per i crediti deteriorati e 300 milioni eredità di precedenti manovre”. Fa 3,7 miliardi che vengono compensati, secondo il governo, dallo sblocco del Patto di Stabilità interno per 3,2 miliardi: soldi che pochi comuni hanno, comunque, e non possono essere usati per la spesa corrente (cioè i servizi). La risposta di Renzi è stata: “Discutiamo del come, ma l’entità del taglio resta quella che è”. Non è finita: a province e città metropolitane si toglie un miliardo e mezzo; alle regioni complessivamente altri 6,2 miliardi. Persino un renziano come il governatore del Piemonte Sergio Chiamparino ha perso il lume della ragione. Pure i fondi per gli investimenti nelle aree depresse finiscono nella spending review: tre e mezzo finiranno per pagare forme di detassazione alle imprese, 500 milioni sono parte della “tassa Kaitanen” per ridurre il deficit al 2,6% nel 2015.
Il problema è che i 10 miliardi scarsi di tagli del Renzi di quest’anno (accompagnati da parecchie partite di giro sulle tasse) non sono che l’antipasto: dentro la manovra, che ha un orizzonte temporale di tre anni, è infatti previsto un “consolidamento del bilancio” – cioè tagli di spesa o nuove tasse – per 27 miliardi di euro al 2017.
Un impegno vago, si dirà, che il nostro giovane e vigoroso premier provvederà a ricontrattare con l’Europa. Nient’affatto. Si tratta di un fatto già assodato e inserito nella legge di Stabilità con apposite norme di legge. Prendiamo l’Iva, che è il caso più grave: nella manovra c’è scritto che l’imposta sul valore aggiunto salirà il 1 gennaio 2016 di due punti percentuali per le prime due aliquote (dal 10 al 12%, dal 22 al 24%) e di un altro punto dal 1 gennaio 2017 (al 13 e al 25%). Poi, per chi fosse ancora vivo, a gennaio 2018 un altro mezzo punto sull’aliquota principale, che arriverà alla stratosferica cifra del 25,5%. Il valore della faccenda è quotato in 12,8 miliardi nel 2016 e 19,2 l’anno dopo.
AD ARRIVARE a venti, cifra tonda, ci pensano le accise: sempre nel 2018 aumenteranno benzina e gasolio per non meno di 700 milioni l’anno.
Anche con questo, comunque, le mine piazzate da Renzi e soci nel bilancio dello Stato sono finite: un’altra norma eredità del governo Letta, prevede a partire sempre dal 2016 un bel taglio di detrazioni, deduzioni e agevolazioni fiscali. Tecnicamente non è un aumento di tasse, ma in pratica si pagheranno più tasse. Il menu nel dettaglio lo si deciderà in seguito, ma nulla è escluso: dalle spese mediche a quelle per i figli, dalle detrazioni per il lavoro a quelle sulle donazioni dalle agevolazioni per il no profit a quelle sull’Imu, tutto potrà contribuire al risultato finale, che sono altri 4 miliardi di risparmi nel 2016 e 7 a regime dall’anno successivo.
Impegni, si dirà, non presi da Matteo Renzi e nemmeno da Pier Carlo Padoan, ma nemmeno spiegati agli italiani nella mitopoiesi del #cambiaverso con cui il giovane premier racconta l’Italia al suo pubblico, un tempo uso ai diritti di cittadinanza. Il verso è sempre lo stesso, la discesa, c’è solo stato un eccezionale rallentamento della corsa nel 2015, al termine del quale però c’è il baratro.
Il governo, ad esempio, ha usato il salvadanaio dei risparmi da minore spread, ma contemporaneamente prevede – sempre nella legge di Stabilità – di chiedere ai mercati finanziari 900 miliardi in tre anni: dovessero risalire i rendimenti (oggi a livelli davvero bassissimi) dei titoli di Stato, ogni maggiorazione andrebbe pagata comprimendo ancora di più il bilancio pubblico (al netto della enorme riserva di liquidità messa giustamente da parte dal Tesoro). Fare il Monti con partenza ritardata al dopo-elezioni può essere una scelta legittima, ma spiegarlo agli italiani – a proposito di ricostruire un clima di fiducia e rilanciare la domanda interna – è un dovere.

La Stampa 30.10.14
Pd: si tratta per accelerare sul Jobs act
Frana sul nascere il correntone anti-premier
Niente cena unitaria, i bersaniani litigano sull’invito a Civati e se ne vanno allo stadio
di Carlo Bertini


Ci hanno provato, ma si sono subito messi a litigare su chi doveva esserci e chi no e alla fine hanno deciso di lasciar perdere e di andarsene allo stadio a vedere la Roma. Far sedere insieme allo stesso tavolo i vari Zoggia, D’Attorre, Stumpo, Epifani e Fassina con Cuperlo e Civati si è rivelata operazione impossibile. Così è franata l’iniziativa intentata da alcuni bersaniani per battere un colpo dopo il week end di fuoco tra Renzi e la Camusso: una cena ristretta sul tema scissione sì-scissione no e su come riunire tutte le minoranze, quella di Civati, quella di Cuperlo che guida la corrente Sinistra-Dem e quella di Area Riformista. A sua volta spaccata tra «miglioristi» più filo-renziani e pasdaran alla Fassina-D’Attorre. Alla fine nulla di fatto, troppe divergenze sul nascere: non solo sulla scissione, che alcuni come Civati accarezzano da tempo e altri non vogliono sentir pronunciare, ma anche sulla costruzione di un correntone unitario e organizzato sul territorio che possa far da argine allo strapotere di Renzi.
Uno dei promotori, Davide Zoggia, la racconta così: «Tutto rinviato, stamattina quando è uscita la notizia sulla Stampa, mi sono arrivate 50 telefonate di quelli che chiedevano conto e ragione del perché non fossero invitati. Ma il vero nodo è politico: la maggioranza di noi di Area Riformista è contraria ad allargare il confronto a Civati». Ma perfino sul dialogo e l’interazione con Cuperlo che ormai ha la sua corrente ci sono resistenze. Seduto in cortile alla Camera Nico Stumpo, pezzo forte del gruppo ed ex responsabile Organizzazione con Bersani, confessa che lui si è opposto all’idea quando Zoggia gliene ha parlato: «Ma ti pare che ci sediamo al tavolo con Civati che prima stava con Renzi e ora ogni cosa che dice lo attacca? Siamo seri». E pure i miglioristi non ne hanno voluto sapere. «L’unica cosa che non possiamo fare sono battaglie di retroguardia», taglia corto Danilo Leva.
Malgrado il fronte dell’opposizione interna a Renzi sia così diviso e sfilacciato, la minoranza sta provando lo stesso a trattare sul jobs act: per avere da Renzi qualcosa in cambio della disponibilità ad una rapida approvazione alla Camera della delega sul lavoro prima della legge di stabilità. Una mediazione è in corso: la Boschi ha fatto sapere che il governo vuole accelerare e a Poletti toccherà vedere se sia possibile trovare il modo di ritoccare la delega sui punti discussi e votati in Direzione dal Pd, in primis l’articolo 18 valido per i licenziamenti disciplinari. Cesare Damiano, nel ruolo di apripista come presidente della Commissione Lavoro, è sicuro che «la delega sarà ritoccata», ma cosa deciderà Renzi è da vedere, perché ogni apertura lo esporrebbe all’accusa di aver indebolito la «sua» riforma, seppur accogliendo solo la mediazione votata dal Pd.
Vista dall’ottica di chi alla Camera dà le carte, le cose stanno in questi termini, per come le racconta un big di Montecitorio di fede renziana: siccome la legge di stabilità slitta a fine novembre, c’è una finestra per approvare il jobs act in aula e la strada percorribile, senza cedere sul merito, sarebbe accogliere il testo votato dalla Direzione Pd nella delega. Anche se in quel caso la minoranza votò contro e si astenne ritenendo insufficiente la mediazione sull’articolo 18, questa concessione basterebbe a sedare gli animi: «Il problema è non indisporre Sacconi e bisogna individuare modifiche che non rendano difficile il cammino in terza lettura al Senato, perché il governo è interessato a far votare la delega entro il 31 dicembre senza operazioni di forza con la fiducia». La considerazione delle colombe è che il jobs act non è l’ultimo provvedimento della legislatura e smontare nel merito le accuse più dure del sindacato può far gioco in un clima così incandescente nel paese.

Repubblica 30.10.14
Bruxelles avverte Roma “Procedure non escluse vediamo se fate le riforme”
Katainen: esamineremo deficit e debito
di Andrea Bonanni


BRUXELLES L’Italia resta sotto la minaccia di una procedura europea per deficit e debito eccessivo e di una richiesta di ulteriori modifiche alla legge di bilancio. Lo ha detto ieri il commissario agli Affari economici Jyrki Katainen, che tra due giorni lascerà il posto al socialista francese Pierre Moscovici per assumere l’incarico di vicepresidente della Commissione responsabile per la crescita e gli investimenti. Toccherà dunque al collegio guidato da Jean-Claude Juncker esprimere un giudizio definitivo sulla compatibilità del bilancio italiano con le norme del Patto di stabilità. Il fatto che il governo abbia evitato una bocciatura preventiva della Finanziaria per «gravi scostamenti» dai parametri del Patto accettando una correzione pari allo 0,3% del Pil, non ci garantisce che il bilancio sarà approvato da Bruxelles.
Il mancato respingimento della bozza di Finanziaria «non pregiudica il risultato finale della nostra analisi, che sarà fatta entro fine novembre dalla nuova Commissione: non può essere escluso che vengano adottate procedure per deficit eccessivo per qualche stato membro», ha spiegato ieri Katainen, specificando che le decisioni in questo senso «saranno prese collettivamente da tutto il collegio dei commissari» su proposta del responsabile per gli Affari economici, Moscovici, e del vicepresidente responsabile per l’euro, il lettone Valdis Dombrovkis.
La spada di Damocle che resta appesa sul capo dell’Italia, vale naturalmente anche per la Francia, che si trova comunque in una situazione ancora più critica essendo già sotto procedura di infrazione per deficit eccessivo e rischia dunque una salatissima multa. E ieri si è registrato un primo atto della polemica che monopolizzerà la futura Commissione, quando il prossimo commissario agli Affari economici, Moscovici, parlando a Parigi, ha indirettamente risposto a Katainen: «L’Europa non è una macchina punitiva. La dissuasione è fatta per convincere: sanzionare è sempre una sconfitta».
Per quanto riguarda l’Italia, Katainen ha elogiato la correzione di bilancio fatta dal governo. «Ho accolto positivamente il fatto che l’Italia si è impegnata costruttivamente in questo processo e ha deciso nuove misure per gli sforzi di bilancio per il 2015». Però ha avvertito: «Ma esamineremo anche i dati del deficit e del debito». Ieri il ministro Pier Carlo Padoan ha sottolineato come la Commissione abbia accettato le «circostanze eccezionali».
I momenti di verifica, che potrebbero offrire l’occasione per l’apertura di una procedura, saranno numerosi. C’è l’analisi del bilancio alla luce delle nuove previsioni economiche, che verrà fatta entro novembre. Poi ci sarà l’analisi degli squilibri macroecononici, che vede l’Italia sul banco degli imputati sia per il debito troppo elevato sia per la scarsa competitività della sua economia. Infine ci sarà una analisi dettagliata sulla tabella di marcia della riduzione del debito.
«La presidenza di turno del nostro Paese - ha detto ieri il capo dello Stato, Giorgio Napolitano - intende contribuire a delineare risposte concrete ai problemi dei cittadini, smentendo i profeti di sventura». Ieri intanto, a Berlino, il ministro Padoan ha firmato insieme con cinquanta altri governi l’accordo sullo scambio automatico di informazioni contro la frode fiscale, che di fatto abolisce il segreto bancario.

il Fatto 30.10.14
Amalia Signorelli
Per far satira su Renzi ci vuole l’antropologa
di Luigi Galella

La pax renziana, una sorta di ossimorico caos calmo, genera per il momento una modesta reazione nella satira televisiva. Chi da tempo si cimenta nell’imitazione del premier, da Dario Ballantini a Maurizio Crozza a Ubaldo Pantani, ne tratteggia l’ipertrofia dell’ego, la zeppola in bocca, l’ebete espressione alla Jerry Lewis e niente di più. Divertente, ma al massimo della cattiveria Renzi appare come un bambino confuso e felice. I satirici non graffiano e non centrano il bersaglio, perché forse non c’è un bersaglio. La materia è carente. E la satira funziona quando l’oggetto contro cui si rivolge risuona. La superficie renziana – gestualità, voce, comportamenti privati – non riflette né rifrange i raggi che la colpiscono. Nulla a che fare con il sublime grottesco della sostanza berlusconiana. Lontanissima da quella grandiosità di chi amava circondarsi di Olgettine e bunga-bunga, di cene eleganti e nipoti di Mubarak, di amazzoni e pitonesse: comparse della scena teatrale dentro cui si esibiva come mattatore unico il vecchio premier. Lontanissima dalle calotte craniche tatuate, dalle scarpe coi tacchi mascherati, dal disperato giovanilismo che ha tratteggiato l’ilare pathos di quella stagione al tramonto.
Se non i satirici, allora, chi ha colto più efficacemente un aspetto di Renzi, che sarebbe in grado di sviluppare una comica potenzialità, è un’antropologa.
LA PROFESSORESSA Amalia Signorelli nel suo argomentato intervento a Di-Martedì (La7, martedì, 21.15) condotto da Giovanni Floris, ha parlato della parola renziana. E ha coniato per il giovane premier un’espressione fulminante quanto e più della battuta di un comico: “Maestro del non ascolto”.
Matteo Renzi ama parlare, e molto. Che sia loquace e logorroico tutti lo vedono. Lui tuttavia sostiene l’ideologica utilità di ascoltare gli altri. Di ascoltare tutti. Come un buon democratico che si rispetti, come chi ha frequentato gli illuminati salotti dei filosofi della politica e si è persuaso della necessità del confronto e del dialogo. Ma la parola in democrazia ha un senso quando il suo commercio è un reciproco scambio di dare e avere. Non quando risponde a un bisogno liturgico. Il “maestro del non ascolto” invece svuota nella sostanza la parola che legittima nella forma. “Io ascolto tutti, io rispetto tutti”, parafrasa l’antropologa, “ma poi faccio quello che ho deciso io”.
La parola diventa così uno schema vuoto. E il dialogo una manifestazione rituale di assenso preventivo, che risponde alla meta-regola: “Puoi confrontarti con me a condizione che le tue parole non abbiano peso nella decisione finale”. È lo schema Marchionne, che invita i sindacati, ma a decisione assunta. Non si tratta di ripudio della concertazione, ma di una riedizione del volterriano dispotismo illuminato (l’aggettivo è augurale).
La compresenza di un’intenzione rivolta all’apertura – “io ascolto tutti” – e la repentina e successiva chiusura – “ma faccio quello che ho deciso io” – ha i tempi comici e lo stravolgimento della sintassi logica di una gag surreale, di un Nerone petroliniano, che convintamente esclama: “Torniamo all’antico, faremo un progresso”.

il Fatto 30.10.14
Vecchia guardia (Pci), nuovo carro (renziano)
di Luisella Costamagna


Cara vecchia guardia convertita al renzismo, sì, perché nel fu centrosinistra c’è la vecchia guardia non renziana, quei “reduci” (come li ha definiti Renzi) alla D’Alema, Bindi e loro emanazioni, che dopo essere stati molto (troppo) in silenzio, ora si sono svegliati; e poi ci siete voi: la vecchia guardia balzata fieramente sul carro e mai più scesa.
Mi riferisco – per esempio – a lei, Fioroni, che, dalla cima della lista della rottamazione, cui reagiva piccato “Renzi colleghi la lingua al cervello”, ora è un fedele Leopoldino. Ma in realtà non c’è molto da stupirsi: il comune sangue ex Dc/Ppi non mente.
Altra storia politica invece – dimenticata per il salvatore toscano? – quella di Fassino e Chiamparino. Entrambi ex “compagni” del Pci, riportano senza cedimenti la capitale del Regno d’Italia da Torino a Firenze: l’uno, ex segretario Ds dell’“abbiamo una banca”, ora condivide la passione renziana con il finanziere Caymano Davide Serra; l’altro, pure ex Cgil, anziché andare in piazza con il milione di lavoratori, disoccupati e precari di Camusso e Landini, si spertica in lodi per chi quella protesta l’ha prodotta. Neanche i tagli da 4 miliardi alle Regioni e la reazione sprezzante del premier “tagliate gli sprechi” hanno intaccato la foga adulatoria del governatore del Piemonte e presidente della Conferenza delle Regioni: “Sono un sostenitore incondizionato di Renzi”, dice, e conia il nuovo inquietante brand del Pd berlusconiano: “La sinistra delle libertà”. Un po’ Woody Allen di Provaci ancora Sam (“C’erano dei tipi che davano fastidio... a uno ho dato una botta col mento sul pugno e a quell’altro una nasata sul ginocchio”), un po’ Face/Off, lei Chiamparino, è davvero preoccupante: si specchia con tanta intensità in Renzi da perdere cognizione di se stesso. Dall’alto dei suoi 66 anni afferma che l’art. 18 va cancellato perché “è un simbolo che ha 44 anni”, e a chi le chiede se anche lei ce l’abbia con la vecchia guardia del Pd, risponde “Anche in quel mondo lì, se non si buttano all’aria un po’ di cristallerie non si riesce a fare arredamento”. Spiace ricordarglielo, ma anche lei è cristalleria. Ripulita con il Vetril renziano, ma pur sempre cristalleria. Infine – senza dimenticare, naturalmente, il silenzio-assenso di Veltroni – ci sono i folgorati last minute sulla via di Matteo: la vecchia guardia non anagrafica, ma di storia, tradizione, appartenenza. Il peggiore? Migliore (Gennaro). Una carriera nei movimenti studenteschi, tra gli “antagonisti” al G7 di Napoli, poi Rifondazione comunista e Sel, per finire tra il marito di Miuccia Prada e Fabio Volo alla Leopolda. D’altronde, è laureato in Fisica con tesi sulle “Distribuzioni partoniche nella diffusione profondamente inelastica”. La diffusione è inelastica; lei, no. Cara vecchia guardia renziana, per voi ho un’unica duplice domanda: vale la pena barattare la propria storia – che poi non è soltanto storia personale, ma anche e soprattutto storia collettiva dei tanti che negli anni hanno creduto in voi, nei partiti e nelle idee che avete rappresentato, e vi hanno votato – per una poltrona? E siete certi che durerà o sarete i prossimi? Un cordiale saluto.

Corriere 30.10.14
«Mi ricorda Silvio e Craxi» Il renzismo dei pensatori di destra
di Tommaso Labate


ROMA «C’è qualcosa in Renzi che mi ricorda Berlusconi e Craxi. E quindi sì, alla Leopolda sarei andato anch’io. Magari camuffato con barba e baffi finti», scandisce Marcello Veneziani. «Io», dice invece Giuliano Urbani, «non sarei andato alla Leopolda solo perché ne ho abbastanza di tutti. Però tifo per Renzi. Siamo talmente disperati che non ci resta altro». Mentre Domenico Fisichella sussurra «aspetti un attimo», lascia che un fruscio di fogli di carta arrivi dall’altro capo del telefono e, trionfante, annuncia: «Eccolo, l’ho trovato. Intervista al Tempo del 26 gennaio ’95 rilasciata da me. Titolo: “Faremo noi il Partito della Nazione”. Ci hanno provato in tanti, dopo, a dar seguito alla mia idea. Speriamo che ce la faccia Renzi».
Anche nel cielo dell’intellighenzia della destra italiana — che per anni ha foraggiato intellettualmente Berlusconi (e anche Fini) salvo poi dividersi, vent’anni dopo, tra «partito dei delusi» e «fazione dei traditi» — brilla la stella di Matteo Renzi. Marcello Pera, filosofo ed ex presidente (forzista) del Senato, l’ha scritto martedì su Libero , al termine di un’analogia azzardata ma benevola tra il premier e Mussolini. «Voto Forza Matteo ma lo invito non a finire come noi. Avrei voluto essere alla Leopolda a incoraggiarlo».
Insieme a Pera, che tra l’altro ha dato tardivamente e involontariamente corpo a una vecchia e maligna analisi su di lui firmata da Massimo D’Alema («Quando sono indeciso su una cosa, vedo che fa Pera e faccio il contrario»), si schiera tutto quel che rimane della destra culturale italiana. Dice Urbani, ex ministro e componente del cda Rai, sherpa del primo berlusconismo: «Non sarei andato alla Leopolda solo perché, nel renzismo, per un politologo non c’è posto. Però, ripeto, tifo per Renzi. Per quanto con una giusta dose di critica, non vedo perché non sostenerlo. Un altro come lui non c’è. Neanche in Europa, dove bisogna tenere testa alla Merkel anche per fare un favore ai tedeschi stessi».
Fisichella, professore universitario ed ex ministro della Cultura con Berlusconi, che proveniva dalla destra cattolica e monarchica, adesso spera che «la mia vecchia idea di Partito della Nazione, il Country party, trovi realizzazione». Quell’idea di partito, sottolinea, «non era di ispirazione egemonica, ma doveva essere servita all’interesse generale». Renzi la realizzerà come si deve? «Per adesso, senza dubbio, la sua azione di governo si sta muovendo nella logica di una destra economica, che è diversa da quella della destra politica. Aspettiamo, vediamo…».
Aspetta e vede anche Veneziani, scrittore e giornalista, un altro che il vecchio centrodestra aveva spedito nel cda della Rai. «Il mio giudizio su Renzi è sospeso, anche perché ha una squadra di governo mediocre, un partito inadeguato, degli interlocutori deboli. Di certo, in molte cose mi ricorda Berlusconi e Craxi, il che è positivo». Si smarca dal coro, invece, Pietrangelo Buttafuoco, che ieri ha consegnato al Foglio un corsivo ironico in cui accosta il renzismo al fascismo («Lo smartphone è il manganello, Twitter è l’olio di ricino, la camicia bianca va in luogo della camicia nera»). Il giornalista e scrittore catanese la vede così: «Di Renzi diffido. Soprattutto perché il suo vero problema è l’essere adagiato sul conformismo. Piace ai ricchi, alle mamme, ai ragazzi, a Barbara d’Urso… Il presepe è colorato, illuminato, bellissimo. Ma, come al Tommasino di “Natale in casa Cupiello”, o’ presepe nun me piace». Li supera a destra, gli altri, Buttafuoco. E, forse, arriva quasi a sinistra.

il Fatto 30.10.14
Pd, cene di finanziamento per pesci piccoli
di Wanda Marra


Non ci saranno grandi nomi, ma personaggi di piccola e media caratura. Imprenditori e industriali, professionisti, partite iva che “faranno la fila” per andare a cena con Matteo Renzi. Per ora, le dichiarazioni più o meno ufficiose da parte dei vertici dem sulle cene di finanziamento previste per il 6 e il 7 novembre, a Milano e a Roma sono queste. E assomigliano più a una speranza che a una certezza. Il mega evento di fundraising, quello che dovrebbe salvare le casse del Partito democratico (che adesso viaggia su oltre 10 milioni di rosso) prevede che ogni parlamentare porti 5 persone, previo versamento di 1000 euro. Per cenare con il presidente del Consiglio. Obiettivo, un milione di euro. E nei giorni dello scontro all’ultimo sangue con il sindacato, anche le cene di lusso dicono da che parte sta il Pd di Renzi: con le aziende e le industrie, più che con i lavoratori. Partite le email dal dipartimento Fundraising del partito, con il giorno e il luogo dell’appuntamento. Più le coordinate bancarie. L’appuntamento milanese è a The Mall, uno spazio di 5000 metri quadrati, in zona Porta Varesine, “a disposizione di aziende e privati” con capienza tra i 1000 e i 1500 posti. A Roma, invece, la convocazione è per il Salone delle Tre Fontane di via Ciro del Grande. Capienza circa un migliaio di persone.
IL TESORIERE, Francesco Bonifazi, ha una lista di massima con ospiti possibili. Per ora, però, è tutto nelle mani di deputati e senatori del Centro e del Nord. Che però non hanno un compito facile: i grandi nomi contattati dicono di no. D’altra parte, chi sarebbe interessato a un’interlocuzione diretta con Renzi non ha nessun vantaggio dall’andare a una cena con centinaia e centinaia di persone. “Le cene di finanziamento funzionano se si fanno città per città. Ma che senso ha chiedere a rappresentanti di grandi gruppi di stare nel mucchio? ”, si sfoga un deputato. Non è facile trovare neanche i pesci piccoli, raccontano i parlamentari: perché per loro 1.000 euro non sono pochi. Qui si apre un altro capitolo: quali sono i nomi che possono essere coinvolti? Come fare ad evitare scivoloni, tipo coinvolgere persone con relazioni inopportune? Perché, anche questo è un problema: non è facile convincere le persone a partecipare a iniziative nelle quali non sanno con chi staranno. I segnali arrivati dalla Leopolda, in questo senso, non sono stati dei migliori: per esempio, c’era Riccardo Bertelli, amministratore delegato di Prada, inseguito dal fisco. O l’ex vicedirettore di Confindustria, Aldo Bonomi, che nel circuito bresciano, da cui proviene, non è molto gradito.
Poi, c’è un altro tema: come evitare che ci siano persone che vengono chiamate magari più e più volte, solo perché ciascuno vuole attribuirsi il merito dell’invito? Anche qui, l’organizzazione non è chiara.
E soprattutto, il governo, come ripagherà chi finanzia? Escluso pensare che qualcuno faccia qualcosa senza aspettarsi niente in cambio.
La pressione che il segretario-premier sta mettendo ai suoi parlamentari anche stavolta non è poca: la richiesta è chiara, la sfida e il ricatto che ci sono sotto pure. Perché il sottotesto è chiaro: chi vuole continuare a fare politica, dalla ricandidatura, in poi, deve darsi da fare. L’organizzazione è in mano a Bonifazi e alla responsabile Comunicazione, Alessia Rotta. Che però, più che fare gli inviti, dovrebbero tirare le fila del lavoro fatto dai parlamentari. Non è detto che alla fine intervenga lo stesso Renzi, contattando nomi di caratura più elevata. Magari per evitare il flop. E per schiacciare i dem.

il Fatto 30.10.14
Il dopo udienza
Il pm Nino Di Matteo “Napolitano ha svelato che lo Stato sapeva tutto”
intervista di Giuseppe Lo Bianco


Palermo Hanno detto che la sua deposizione era irrilevante, inutile e persino “dannosa” per l’immagine dell’Italia: ora che Napolitano ha compiuto il suo dovere di cittadino italiano primus inter pares, come lo ha definito il procuratore aggiunto Vittorio Teresi, gli stessi soloni si avventurano a sostenere che le parole del capo dello Stato costituiscono un “siluramento” per il processo in corso nell’aula bunker di Palermo.
Dottor Di Matteo, a mente fredda e senza le pressioni conseguenti al black-out informativo voluto dal Quirinale, perché è stata importante la testimonianza del capo dello Stato?
Perché ci ha dato la conferma che, dopo le bombe del ’93 ai livelli più alti delle istituzioni di allora si ebbe immediatamente la consapevolezza, cito testualmente il presidente, “di un aut-aut nei confronti dello Stato da parte della mafia corleonese per alleggerire la pressione detentiva o, in caso contrario, proseguire nella strategia destabilizzante dello Stato”. “Ne fummo tutti convinti”, ha detto il presidente della Repubblica. E in questo modo ha dato un contributo importante all’accertamento della verità.
E quindi viene più difficile sostenere che solo tre mesi dopo, a novembre, il guardasigilli Giovanni Conso decise di revocare oltre 300 provvedimenti di 41-bis, come disse, “in assoluta solitudine”.
Appunto.
La stessa precisione di memoria non sembra però che il capo dello Stato l’abbia avuta in occasione delle domande che gli avete posto sulla lettera scritta da Loris D'Ambrosio e sulla natura di quegli “indicibili accordi” citati nella missiva. Sembra anzi che durante le risposte abbia evocato più volte le sue prerogative costituzionali senza mai farvi ricorso formalmente, dicendo di essere preso tra “due fuochi”, tra due “esigenze contrapposte”. Com’è andata?
Posso dire che il presidente non si è mai sottratto ad alcuna domanda, né ha mai fatto ricorso alle prerogative fissate dalla Consulta. Sulla lettera il suo apporto è nullo, inesistente. Ha detto di non avere avuto notizie da D’Ambrosio, né di averle sollecitate, neanche quando il giorno dopo lo convocò per respingere le sue dimissioni.
Ha saputo spiegare i turbamenti di D’Ambrosio? Sembra che Napolitano abbia attribuito quei turbamenti al doppio interrogatorio subito dalla Procura di Palermo, ma nella lettera è detto chiaramente che D’Ambrosio si riferiva a un periodo più lontano nel tempo...
Infatti.
C’è stata una domanda che lei ha posto e alla quale Napolitano non ha risposto?
No, il presidente ha risposto a tutte le domande. C’è stata invece una domanda finale che il presidente della Corte d’assise, Alfredo Montalto, ha ritenuto di non ammettere.
Quale?
Avevamo chiesto se da presidente della Camera di allora avesse avuto notizie delle revoche del 41-bis.
E perché non è stata ammessa?
Perché, ha detto il presidente Montalto, si allontanava dal capitolato di prova.
È vero che in apertura di udienza non vi siete alzati all’ingresso del presidente della Repubblica?
È vero, anche la Corte è rimasta seduta come sempre avviene quando entra un testimone nell’aula destinata all’udienza.

il Fatto 30.10.14
Conversioni
E dopo i liberali Fausto loda i ciellini


Prima l’apertura ai liberali, ora la lode ai ciellini. Fausto Bertinotti prosegue la sua revisione critica e, dopo la presentazione della biografia di don Giussani, concede un’intervista a Tempi dal titolo: “Cristiani e liberali di tutto il mondo, uniamoci e riprendiamoci la nostra umanità, prigioniera del narcisismo e dell’individualismo”. Nel testo l’ex segretario di Rifondazione comunista parla appunto dell’impegno dei giovani ciellini: “Mi rivedo in loro dal punto di vista dell’ordine motivazionale. Ma le pare che altrimenti i compagni potessero tutte le mattine salire le scale dei condomini per vendere l’Unità, un giornale che magari a molti non piaceva neanche?”. E ancora: “Se tu non pensi che puoi cambiare il mondo non fai organizzazioni durevoli e non costruisci identità. Col pensiero leggero non costruisci niente. Il pensiero leggero ti evita in partenza il rischio di fondamentalismo, ma elude il problema della ricerca della verità”.

il Fatto 30.10.14
L’Ordine delle Poltrone. Quanti camici in politica
Medici infermieri e farmacisti: i rappresentanti delle professioni sanitarie occupano posti nel pubblico e nel privato
Ora interviene l’Anticorruzione
di Chiara Daina


La casta degli ordini professionali ha i giorni contati. Dal 21 ottobre le norme anticorruzione previste dalla legge Severino valgono anche per lei. Per mettersi in regola ha tempo fino al 20 novembre. Altrimenti scattano le sanzioni. A stabilirlo una delibera del presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, che impedisce a questi organi di sfoderare altri alibi. Gli ordini professionali, infatti, proprio in qualità di enti pubblici, devono dotarsi di un piano triennale di prevenzione della corruzione e di uno della trasparenza. Tra i nuovi obblighi, è compreso il divieto per gli amministratori di avere doppie poltrone, una nell’ente e l’altra in politica. Lo recita il dlgs 39/2013. Finora disatteso. E qui viene il bello.
Per renderci conto di chi stiamo parlando è d’aiuto un dossier del Movimento Cinque Stelle. Nei 17 ordini professionali aderenti al Cup (Comitato unitario delle professioni) si contano 68 liberi professionisti con ruoli gestionali (presidente, vicepresidente, segretario, tesoriere) che insieme accumulano 450 incarichi: in media 6 poltrone per ciascuno, i super privilegiati arrivano perfino a 20. Facciamo nomi e cognomi dei curricula più eclatanti. Tutte figure “ponte” tra sanità e politica. Andrea Mandelli da Monza, 52 anni, 17 poltrone. Eletto nel 2013 senatore di Forza Italia. Dal 2003, per tre mandati consecutivi, è presidente della Fofi, la Federazione italiana dei farmacisti (nel 2000 era già stato nominato vicepresidente). Ma è pure consigliere dell’Ordine dei farmacisti di Milano e di Lodi, membro del Consiglio superiore di sanità, consigliere comunale a Monza, e dodici altre cose. Luigi D’Ambrosio Lettieri, 59 anni fra poco, barese, otto poltrone. Senatore pure lui in quota forzista dal 2008. Titolare di una farmacia a Bari. Presidente dell’Ordine dei farmacisti della provincia di Bari. E così via. Amedeo Bianco, 66 primavere, napoletano, sette poltrone. Come gli altri due inquilino di Palazzo Madama dalle ultime elezioni, lui però nelle file del Pd. E dal 2006 a capo della Fnomceo, la Federazione nazionale dei medici. E già basta per immaginare un potenziale conflitto di interessi. Infine, una donna: Annalisa Silvestro da Udine, 63 anni, tre poltrone. Quella di senatrice del Pd dal 2013; quella di presidente dell’Ipasvi, la Federazione nazionale degli infermieri, da 14 anni senza soluzione di continuità; e la terza nel Cda della società Pro-mesa, che offre agli stessi infermieri polizze assicurative.
QUATTRO PERSONE per 35 cariche, che controllano 850 mila iscritti, cioè un bacino potenziale di due milioni di voti e amministrano 16 miliardi di euro di patrimonio. Questi i calcoli dei Cinque Stelle. Mica male. “O la poltrona dell’Ordine o quella in Parlamento” è l'aut aut del sindacato dei medici e degli infermieri. “Non è solo una questione legale, ma anche di buonsenso e di opportunità - scandisce perentoria Pina Onotri, il nuovo segretario generale dello Smi (Sindacato dei medici italiani) -. Per essere classe dirigente credibile è importante anche avere comportamenti conseguenti”. Incalza Andrea Bottega, segretario del sindacato degli infermieri Nursind: “Ci saremmo aspettati l’adempimento spontaneo alle norme di legge, adesso dovranno adeguarsi! ”. La lobby degli intoccabili non potrà più farla franca. È vero, all’inizio dell’anno un parere pro-veritate dell’ex presidente della Corte costituzionale Luigi Capotosti (scomparso ad agosto) li ha esentati dai doveri in materia di trasparenza e anticorruzione. Il ministero della Salute però aveva immediatamente fatto sapere che questa non poteva essere la soluzione: “Non si può sottacere – scriveva in una lettera del 21 marzo - che appellarsi a pareri pro-veritate, per quanto autorevolissimi, al fine di sottrarsi a specifiche indicazioni del ministero vigilante, appare procedura irrituale”. E oggi, davanti al responso dell’Anticorruzione, i diretti interessati storcono il naso. “Quando sono stata eletta non c’era incompatibilità. Comunque se sarò costretta a decidere tra il ruolo politico e quello amministrativo, lo farò senza problemi, con serenità” dichiara Silvestro. Più ottimista il collega Bianco: “Il mio incarico all’interno della Fnomceo non è dirigenziale, non sono stato nominato da nessuno, e lo Stato non contribuisce economicamente alla vita dell’ente. Quindi il mio profilo non è incompatibile. Per essere sicuro chiederò una valutazione approfondita”. Staremo a vedere.

il Fatto 30.10.14
Grandi riforme: i ricercatori precari a vita
Lalegge di stabilitù cancella con un comma l’obbligo delle Università di fare nuove assunzioni stabili
di Carlo Di Foggia


Il colpo di grazia è servito: via una lettera da un comma e l’università non cambia verso, dà la volata finale verso il precariato. Con un tratto di penna, infatti, la legge di stabilità traduce nel mondo accademico quella “fine del posto fisso” certificata alla Leopolda dal premier: estingue, di fatto, la figura del ricercatore precario ma con prospettive di assunzione. Come? Semplicemente cancellando la parte delle prospettive. Breve riassunto: con la scusa di premiare il merito, nel 2010 la contestata riforma voluta da Mariastella Gelmini ha abolito il ruolo del ricercatore a tempo indeterminato, sostituendolo con quello a termine (Rtd). Ne esistono di due tipi, quello A (senza sbocchi) - che dura fino a cinque anni non rinnovabili - e quello B (la vera e unica figura di ingresso prevista dalla riforma), con contratto di tre anni dopo i quali si viene convertiti in professore associato. Questa tipologia costa di più in termini di punti organico - cioè le risorse per le assunzioni assegnate dal Miur a ogni ateneo - e visto che continua la carriera conserva la quota, senza restituirla per essere poi riassegnata come capita invece con l’altra tipologia, quella di tipo
A. Per evitare che atenei e dipartimenti assumessero solo questi ultimi, nel 2012 il ministro Alessandro Profumo stabilì che per ogni professore ordinario, l’ateneo dovesse assumere anche un ricercatore di tipo B. Un obbligo che ora viene eliminato dalla legge di stabilità (articolo 28) e con esso l’unica speranza di un’assunzione a tempo indeterminato.
TANTO PIÙ CHE questa tipologia è già stata decimata dal blocco del turnover: sono solo 200 a fronte dei 2000 Rtd attualmente in servizio. Tecnicismi a parte, la novità rischia di avere un effetto gigantesco sul sistema di reclutamento, di fatto bloccandolo. Secondo la rete dei ricercatori precari, così facendo cresceranno solo le promozioni, quelle che aumentano la base elettorale dei rettori. Stando ai dati del rapporto Ricercarsi (Cgil), dei 65 mila ricercatori precari impegnati nell’ultimo decennio nelle università il 93 per cento non è stato assunto. Peggio ancora va con gli assegnisti di ricerca, più precari dei precari visto che la Gelmini gli ha imposto un limite di quattro anni: dei 15.300 in servizio, il 96 per cento lascerà l'università. Il trend è disastroso, dal 2003 il numero di contratti a termine è passato da poco meno di 18 mila a 31 mila. Per mascherare la misura, il ministro Stefania Giannini ha annunciato che la ex Finanziaria permetterà agli Atenei di assumere nuovi ricercatori sbloccando al 100 per cento il turnover (“700-800, circa duemila a regime”). Peccato, però, che stando al testo, questo potrà avvenire solo dal 2018, quando lo sblocco sarebbe arrivato lo stesso. Un bluff che fa il palio con quello dei tagli al fondo di finanziamento delle Università. Secondo la rivista Roars, l’incremento delle risorse sbandierato dal governo vale solo per il 2015, dopo di che la limatura da qui al 2023 ammonterà a quasi un miliardo e mezzo di euro. Per gli enti di ricerca è previsto invece un taglio di 42 milioni.
Ieri, i lavoratori dell’Inea, un istituto pubblico di ricerca in campo alimentare hanno occupato la sede nazionale del Pd. La legge di stabilità accorpa infatti l’Ente (commissariato e sotto inchiesta per la gestione dissennata dei vertici, vicini al’'ex ministro Gianni Alemanno) lasciando a casa 210 ricercatori. Dulcis in fundo, lo Sblocca Italia.
COME DENUNCIATO dalla rete Link, il testo che verrà licenziato oggi dalla Camera mette a rischio 150 milioni di euro di fondi regionali per il diritto allo studio. Le Regioni avevano promesso di inserirli nelle maglie del patto di stabilità, in cambio della promessa del Governo di cancellare tagli per 560 milioni. E invece, nel decreto è finita solo la prima parte: a rischio ci sono 46 mila borse. Solo due mesi fa, a settembre, Matteo Renzi aveva spiegato al Sole 24 Ore: “Investirò nei settori strategici, come l'istruzione e la ricerca”.

Corriere 30.10.14
Pedofilia
Il prete prima di uccidersi «Se solo avessi saputo del male che facevo...»
Nell’ultima lettera la confessione dell’abuso di 17 anni fa
Il passato che ritorna La denuncia scattata quando la nipote della vittima è finita nella parrocchia di don Maks

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La Stampa 30.10.14
Brindisi, parroco indagato per abusi sessuali su minori
Perquisizioni dei carabinieri negli uffici della Curia e a casa del sacerdote 72enne

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La Stampa 30.10.14
Chiesa e politica italiana
Francesco mette in crisi le certezze dei vescovi
Dopo vent’anni traballa il modello dell’influenza nelle questioni legislative voluto da Ruini
di Andrea Tornielli


Il confronto tra le anime che sono emerse al Sinodo straordinario sulla famiglia, o per usare le parole del direttore della Civiltà Cattolica Antonio Spadaro, tra le «due diverse visioni del rapporto tra la Chiesa e la storia», è una questione che interessa l’Italia molto da vicino. Ai lavori ha partecipato il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, non certo iscrivibile al gruppo aperturista, mentre un altro arcivescovo italiano, Bruno Forte, segretario speciale dell’assemblea e coordinatore del gruppo che ha redatto sia il controverso documento di metà percorso e sia quello finale, è stato indicato come uno dei protagonisti del cambiamento. Il Sinodo si è concluso mettendo nero su bianco, votato da oltre i due terzi dei padri, un paragrafo con significative aperture pastorali verso i divorziati risposati e i conviventi. E il Papa nel suo discorso finale ha ricordato che la Chiesa «non ha paura di mangiare e di bere con le prostitute e i pubblicani» e ha «le porte spalancate per ricevere i bisognosi, i pentiti e non solo i giusti o coloro che credono di essere perfetti».
«Il Sinodo ha dimostrato - spiega a La Stampa l’arcivescovo di Ancona Edoardo Menichelli, padre sinodale - che la Chiesa guarda con attenzione e con un pudore pastorale alle tante ferite che la famiglia sopporta, al suo interno e nella debolezza del contesto sociale. Serve vicinanza che consenta a queste persone di non sentirsi sole e abbandonate. Siamo chiamati a servire la verità che è intoccabile e a far risplendere la misericordia che Dio ci ha donato».
Questo approccio di vicinanza e misericordia, che già appartiene al vissuto di molte comunità, viene percepito da alcuni come un cedimento alla dottrina. La settimana scorsa tre dei quattro vescovi del Friuli Venezia Giulia - l’arcivescovo di Udine Andrea Bruno Mazzocato, e i pastori di Trieste e Pordenone - hanno pubblicato un appello che critica le registrazioni delle unioni gay da parte dei sindaci. Al documento mancava la firma dell’arcivescovo di Gorizia Carlo Redaelli, assenza ufficialmente motivata dal fatto che in quella città non sono avvenute registrazioni (ma di recente vi era è stata «celebrata» un’unione gay da parte del presidente della Provincia).
I tre vescovi hanno dedicato la prima parte del loro messaggio ai contenuti sinodali. Hanno parlato delle «splendide famiglie cristiane» che «si conservano indissolubilmente fedeli e aperte a generare nuove creature», aggiungendo: «Queste famiglie ci impegneremo ad amare e a sostenere in ogni modo». Colpisce, nel testo, la specificazione dell’impegno ad «amare» le famiglie considerate in regola dalla Chiesa, senza alcun accenno alle tantissime famiglie «ferite» da separazioni e divorzi, e all’accompagnamento delle ormai sempre più numerose coppie di fatto.
A quasi otto anni dall’uscita di scena del cardinale Camillo Ruini, per quattro lustri protagonista indiscusso della vita ecclesiale e politica italiana, il modello ruiniano di una Chiesa interventista, particolarmente concentrata su alcuni temi bioetici, che cerca di garantirsi spazi di influenza nelle questioni legislative e che ha resistito fino al 2013, viene ora messo in discussione. Anche a motivo dell’approccio di Francesco. Un Papa presentato oggi da certi ambienti clericali e mediatici italiani come troppo «latinoamericano»: un modo per chiuderlo in un ghetto inesistente, come dimostra la presa che invece ha il suo magistero in ogni parte del mondo, dagli Stati Uniti alla Corea. Anche nel nostro Paese le parole del Papa vengono accolte e comprese dalla gente senza bisogno di alcuna «traduzione» e ad essere spaesati sembrano piuttosto quei circoli intellettuali che negli ultimi decenni si erano attribuiti il ruolo di mosche cocchiere della presenza pubblica dei cattolici italiani.
«La Chiesa in Italia è uscita da un modello di rapporto con la società - ci dice lo storico Andrea Riccardi - e ora attraversa un momento di incertezza e di ricerca di nuovi modelli. Non ho la percezione che sui temi del Sinodo quella italiana sia un Chiesa che oppone resistenze, ma l’incertezza sì, la constato. E magari anche c’è il tentativo di chiudere il discorso di fronte alla novità del pontificato affermando: “Queste cose noi le abbiamo sempre fatte!”». Riccardi conclude che la difficoltà nel sintonizzarsi con il nuovo Papa «sta nel fatto che si tratta di cambiare molto. Non la dottrina, ma l’approccio pastorale e il linguaggio. Dopo il Sinodo non si potrà più parlare di famiglia come si faceva prima».
In effetti, nel giorno della cerimonia mediatica organizzata dal sindaco Ignazio Marino in Campidoglio per la registrazione delle coppie omosessuali, avvenuta proprio poche ore prima della votazione finale del Sinodo, la Cei aveva dichiarato «non accettabile» l’«arbitraria presunzione» messa «in scena proprio a Roma». Ma aveva aggiunto con una significativa novità di accento: «L’augurio è che il rispetto delle persone individuali sia sempre salvaguardato nelle loro legittime attese e nei loro bisogni, senza mai prevaricare il dato della famiglia».
E non va dimenticato che a margine del Sinodo due prelati italiani, il presidente del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione Rino Fisichella, e lo stesso arcivescovo Forte, si erano espressi in modo possibilista circa il riconoscimento di diritti ai gay purché ciò non comporti l’equiparazione al matrimonio: «La Chiesa si oppone all’equiparazione fra il matrimonio e le unioni omosessuali, al tempo stesso accoglie le persone e non le discrimina», aveva detto Forte. «Il Parlamento discuta... non si creino situazioni di discriminazione per nessuno», aveva dichiarato Fisichella.
(2/Continua)

Corriere 30.10.14
Morte cerebrale, la gravidanza continua
Milano: la donna vittima di un’emorragia, si cerca di far crescere il feto nel grembo di di Simona Ravizza


Colpita da emorragia cerebrale e clinicamente deceduta. La donna, una madre di 36 anni, ha l’elettroencefalogramma piatto, ma uno staff di neurochirurghi del San Raffaele con rianimatori, ginecologi e pediatri sta cercando di salvare il bambino che porta in grembo, facendo crescere il feto nel suo utero. Si tratta di un’operazione eccezionale. I precedenti, nel mondo, sono pochissimi.

MILANO La madre è morta, ma i medici stanno tentando di tenere in vita il bambino che porta in grembo. Succede all’ospedale San Raffaele di Milano ed è un caso con pochi precedenti nel mondo.
La donna, una milanese di 36 anni, ha l’elettroencefalogramma piatto e dunque, secondo i parametri attuali della medicina, è clinicamente deceduta (in condizioni analoghe, di solito, partono le procedure per il prelievo di organi). Ma uno staff di rianimatori, ginecologi e neonatologi sta cercando di far crescere il feto nel suo utero, per metterlo in condizioni di sopravvivere anche al di fuori. Con le sue forze.
La donna è arrivata al San Raffaele martedì scorso in ambulanza. L’ha colpita, mentre si trovava nella sua abitazione, un’emorragia cerebrale fulminante. Niente da fare, per lei nessuna speranza. Ma con l’aiuto dei macchinari per la rianimazione, il suo corpo è potuto diventare una culla. Il tentativo è di fare maturare il feto che, a 23 settimane, non poteva ancora sopravvivere fuori dal grembo materno.
Dal giorno del ricovero della donna è già passata più di una settimana: otto giorni che contano molto per il bambino che oggi pesa sui 500 grammi. Una vita che se ne va e una che comincia. A 24 settimane inizia a formarsi la corteccia cerebrale ed è possibile sperare nella sopravvivenza. Certo, è una battaglia ai confini della scienza: salvare un feto dentro il corpo di una donna morta.
L’elettroencefalogramma non dà alcun segno di funzioni cerebrali. È il momento in cui, normalmente, viene staccata la spina. Ma stavolta — d’accordo con la famiglia — non è stato fatto. Una sonda nell’intestino materno permette al feto di essere alimentato, la ventilazione artificiale fa arrivare l’ossigeno nel sangue della donna e, quindi, del feto. Il cuore continua a battere. E, finché c’è quel battito, il bambino viene tenuto in vita. È la mamma in un certo senso, con il suo corpo trasformato in incubatrice, a proteggere il figlio.
Per ospitare il corpo è stata allestita una stanza nella Terapia intensiva neurochirurgica, diretta da Luigi Beretta. È li che pregano, giorno e notte, il papà del bimbo e i genitori della giovane. La decisione di tentare di salvare il bambino è stata presa con loro: la determinazione della famiglia è stata fondamentale. La situazione va monitorata attimo per attimo: in qualsiasi momento il cuore della donna può smettere di battere e, in quel preciso momento, l’équipe di ostetrici guidati da Massimo Candiani dovrà procedere con il taglio cesareo. Più lontano sarà quel giorno, più possibilità avrà il pic-colo di sopravvivere e di non avere danni cerebrali. L’obiettivo è di raggiungere almeno la 28esima settimana di gravidanza.
Un precedente noto nella comunità scientifica risale all’agosto del 1993 ed è quello di Trisha Marshall, 28 anni, dichiarata in stato di morte cerebrale alla 17esima settimana di gravidanza. Il caso è stato raccontato, tra gli altri, dal Los Angeles Times che ha titolato: «Brain-Dead Woman Has Healthy Baby» («Una donna in stato di morte cerebrale ha un bambino sano»). La donna fu ricoverata all’Highland General Hospital di Oakland dopo essere stata ferita mortalmente durante una rapina e fu tenuta attaccata alle macchine per 105 giorni. Nel 2005, invece, al San Martino di Genova si era aperto un dibattito lacerante tra gli stessi medici sull’opportunità di tenere in vita una donna in coma profondo, al quinto mese di gravidanza, per permettere al feto di crescere. Ma stavolta la situazione è ben più complicata e straordinaria. La donna è clinicamente morta. La sua famiglia, però, vuole continuare a sperare in una nuova vita. Nonostante tutto.

Corriere 30.10.14
«Una situazione molto rara ma il piccolo può farcela. Tutti gli sforzi sono per lui»
di Luigi Ripamonti


Quante sono le possibilità di successo in un caso come quello dell’ospedale San Raffaele? «Non si può parlare in termini di probabilità perché praticamente non c’è casistica. Situazioni di questo tipo sono molto rare e ognuna fa storia a sé» spiega Costantino Romagnoli (nella foto) , presidente della Società italiana di Neonatologia e direttore dell’Unità operativa di neonatologia del Policlinico Gemelli di Roma. «Se l’evento che ha condotto la donna allo stato in cui si trova ora non ha interferito e non interferisce con gli scambi a livello placentare le possibilità
di riuscire a far nascere il bambino in buone condizioni ci sono». «Anche l’alimentazione parenterale non è un impedimento assoluto» puntualizza l’esperto, «perché qualunque risorsa utile viene indirizzata dall’organismo in via preferenziale al bambino.
Il monitoraggio della crescita fetale, che ha precisi termini
di riferimento e il controllo di altri parametri permetteranno di capire se l’evoluzione rientra nelle attese oppure no». «Arrivare alla 28esima settimana sarebbe importante perché a quel punto il 90% dei nati sopravvive» conclude il neonatologo.

Corriere 30.10.14
Palazzine sugli scavi
Il comune di Ciampino vuole costruire dove sorgeva la casa del console Messalla
di Gian Antonio Stella


Cosa farebbero gli americani, se avessero loro le rovine della villa di Mes-sala, il nemico acerrimo di Ben Hur? Farebbero di tutto per recuperare i resti di ogni statua, ogni capitello, ogni mosaico, ogni monetina... Noi no: anzi, se il Tar dovesse oggi dar ragione ai palazzinari, su quell’area archeologica sorgeranno altre dieci palazzine che andranno a impastarsi nella orrenda poltiglia cementiera della più brutta periferia romana.
Per carità, che quella di Ben Hur e della sua rivalità con il tribuno romano Messala sia una storia costruita dallo scrittore Lew Wallace è ovvio. Dietro l’immensa portata immaginifica del presunto erede dei Messala c’è però una grande storia assolutamente vera. Quella di Marco Valerio Messalla Corvino, braccio destro di Ottaviano nella decisiva battaglia di Azio contro Marco Antonio, console nel 31 a.C., me-cenate e amico di poeti come Tibullo, Sulpicia, Orazio...
Un paio di anni fa, dov’era quella antica villa dei Valerii ingoiata dalla periferia romana di Ciampino, fu trovata la prova definitiva dell’importanza del sito archeologico. Sette statue bellissime e alte due metri che quasi certamente ornavano la piscina lunga 20 metri e cantavano la leggenda di Niobe. Cioè una delle figure più importanti della mitologia greca, celebrata anche da Omero che nell’Iliade, raccontando di quella madre che si vide uccidere da Apollo e Artemide sei figli e sei figlie, scrisse che perfino dopo esser diventata una statua mai smise di piangere: «Niobe, mutata in pietra, cova i dolori che le hanno inflitto gli dèi». Un mito cantato dallo stesso Ovidio che in quella villa era tra gli ospiti più cari.
Finì su tutti i giornali del mondo, il ritrovamento di quelle sette statue nel grande spazio verde racchiuso per tre quarti dal seicentesco Muro dei Francesi e sopravvissuto miracolosamente, coi suoi casali di tre o quattro secoli fa costruiti sulle fondamenta delle ville antiche, alle colate tutto intorno di cemento armato. «È una di quelle scoperte che capita una sola volta nella vita di chi fa il nostro mestiere», disse l’archeologa Aurelia Lupi. «Sette statue d’età augustea complete, ma anche una serie di frammenti che possono essere ricomposti: queste statue entreranno nei manuali di storia dell’arte classica», spiegò estasiata la soprintendente Elena Calandra.
Macché: due anni dopo siamo ancora lì. Il restauro delle statue, per quanto se ne sa, deve ancora cominciare: niente soldi, niente restauro. E il progetto municipale di lottizzare l’area, piazzandoci dieci condomini di edilizia popolare per un totale di 55 mila metri quadri, non è ancora caduto. Nonostante si siano rivelate sballate le previsioni di una crescita impetuosa degli abitanti, che avrebbero dovuto sfondare i 40 mila e al censimento si sono rivelati invece di meno. Nonostante il vincolo di tutela diretta posto ottant’anni fa, nel lontano 1935, sulle strutture barocche di quella che fu la tenuta dei principi Colonna.
E nonostante i ricchi ritrovamenti archeologici registrati negli ultimi due secoli. Nonostante l’inserimento nel 2000 dell’area nella mappa «ad alto rischio» della Carta Archeologica redatta per il Comune di Ciampino. Nonostante la decisione presa nel 2009 all’unanimità dal Coreco laziale di proporre l’intera zona per una tutela che garantisse «la godibi-lità dell’antico Portale sei-centesco e delle Mura dei Francesi» e di quell’area «oggi in prevalenza costituita da orti e vigneti con olivi secolari e (...) alberature di alto fusto residue dell’antico Barco monumentale risalente al 1600 voluto dalla famiglia Colonna» e il suo ingresso monumentale, il Portale seicentesco in stile barocco.
E poi nonostante soprattutto le battaglie condotte dal movimento Ciampino Bene Comune, che chiede da anni che tutta l’area interna al Muro dei Francesi (area assediata dalla più disordinata e sgangherata periferia, un ammasso di casette e condomini, capannoni ed edifici diroccati, autofficine e casermoni orrendi) venga salvata da un vincolo archeologico e paesaggistico.
Una battaglia nobile eppure finora non solo perdente ma segnata da una serie di beffe. Prima il crollo, dopo anni di inutili allarmi alla soprintendenza, del grandioso portale opera dell’architetto Girolamo Rainaldi (quello che costruì a piazza Navona Palazzo Pamphilij), portale schiantatosi al suolo alla fine di aprile del 2011 forse anche perché stremato dalle vibrazioni e dal panorama del trafficatissimo stradone che senza alcun rispetto gli era stato piazzato davanti. Poi il crollo di una parte del Muro dei Francesi. Poi il crollo nel giugno scorso del tetto della Chiesuola, inutilmente tutelata dal 2005, assieme agli casali, da un vincolo integrale.
Ora, che gli aspiranti cementieri insistano per costruire sui resti della villa di Marco Valerio Messalla Corvino è tragicamente scontato. Fin da quando Antonio Cederna denunciava degli anni Cinquanta che «espandendo Roma verso il sud si fa piazza pulita dell’ultima campagna romana, che il buon senso, nonché le regole elementari dell’urbanistica, consigliavano di salvare come la pupilla degli occhi», i resti archeologici sono stati visti dai nuovi vandali, non meno incolti degli antichi, come «quattro sassi» che paralizzano l’edilizia. Ciò che stupisce è l’insistenza del Comune (Comune in pugno a quel Pd che si spaccia per essere attento ai temi dell’ambiente e della bellezza) contro ogni vincolo, fino al ricorso al Tar. E l’impotenza della Soprintendenza archeologica, che tempo fa ha spiegato per bocca di Alessandro Betori: «Non spetta a noi vincolare tutta l’area. Imporremo che le palazzine sorgano a cinque-dieci metri dal luogo della villa. Il problema è che la zona doveva essere integralmente dichiarata inedificabile. Ma questo è compito del Comune. O, tutt’al più, della Soprintendenza paesaggistica». Come se ogni tesoro archeologico non valga anche per il suo contesto. Come se la tutela di una villa romana frequentata dai massimi poeti dell’epoca augustea finisse un metro più in là dei muri perimetrali. Per diventare magari, come ironizzò Francesco Erbani, un pregiato accessorio dei nuovi condomini: «Venite a comprare, siore e siori, il bell’appartamento con vista sulle antiche rovine!». Potrebbe anzi essere il nome: «Messalla Residence». Se poi le ruspe dovessero far dei danni, amen! Il Comune, del resto, l’ha già detto: «In quell’area sono emerse rilevanze archeologiche modeste: le uniche cose di grande rilievo sono state le sette statue attribuite alla villa di Messalla...».

La Stampa 30.10.14
Gerusalemme di sangue: due morti in due giorni
Ieri l’agguato mortale al leader dei militanti ebrei favorevoli a tornare a pregare sulla Spianata delle Moschee nella Città Vecchia, all’alba la polizia israeliana rintraccia l’assassino e lo uccide in un conflitto a fuoco. Per evitare l’escalation resta chiuso l’accesso alla Spianata, “per chiunque, ebrei e arabi”.
di Maurizio Molinari

qui

La Stampa 30.10.14
“Netanyahu codardo”
Volano insulti tra gli Usa e Israele
Un funzionario Usa: non vuole la pace coi palestinesi
di Maurizio Molinari


Scintille fra Israele e Stati Uniti. «Benjamin Netanyahu è un premier codardo», afferma a «The Atlantic» un alto funzionario dell’amministrazione Obama, spiegando che «non ha coraggio di fare nulla e pensa solo alla sopravvivenza politica». «Il lato positivo di Netanyahu è che ha paura a iniziare guerre - dice l’anonimo collaboratore del presidente Usa - e quello negativo è che non farà nulla per un’intesa con i palestinesi. Non è Rabin, non è Sharon, e di sicuro non è Begin». L’affondo è condito dal termine gergale «chickenshit» e dalla valutazione al vetriolo sull’opposizione di Netanyahu al nucleare iraniano: «Non può più intervenire, 2-3 anni fa l’attacco era possibile ma non ha trovato la forza per premere il grilletto».
Sono giudizi che mirano a delegittimare Netanyahu di fronte al suo pubblico: se è vero che Reagan duellò con Begin, Bush padre con Shamir e anche Bush figlio ebbe tensioni con Sharon, nessuna amministrazione Usa si era mai spinta a tanto. I motivi li spiega Jeffery Goldberg, autore dell’articolo, sommando «totale carenza di fiducia» alla condanna degli «insediamenti illegittimi» e al disaccordo sul nucleare iraniano visto che Obama si avvia al compromesso con Teheran. È il livello più alto della crisi bilaterale iniziata nel 2009 con il duello sugli insediamenti, continuata nel 2011 quando Obama sostenne i confini del 1967, poi nel 2014 allorché gli Usa iniziarono a trattare in segreto con Teheran. Se Washington ora va oltre è perché attribuisce il fallimento del negoziato israelo-palestinese di John Kerry alla difesa degli insediamenti in Cisgiordania da parte di Netanyahu, che giorni fa ha rilanciato annunciando 1060 nuove case in due quartieri ebraici di Gerusalemme Est, oltre la linea verde.
«Dopo il voto di Midterm - prevede “The Atlantic” - l’amministrazione potrebbe far approvare una dura condanna Onu degli insediamenti». L’articolo viene interpretato in Israele come il segnale che Obama vuole far cadere il premier in coincidenza con l’aumento delle sue difficoltà interne. Non a caso il ministro delle Finanze Yair Lapid e il leader laburista Isaac Herzog accusano Netanyahu di «difendere male gli insediamenti». E il presidente, Reuven Rivlin, lo bacchetta: «La nostra politica estera si basa sull’amicizia con gli Usa». Netanyahu ribatte: «Continuerò a tutelare la sicurezza di Israele e i diritti degli ebrei su Gerusalemme». Al fianco ha Naftali Bennet, leader della destra della coalizione: «È un attacco Usa a tutti gli israeliani». La Casa Bianca tenta di stemperare il clima con Susan Rice, consigliere per la sicurezza: «Le relazioni restano salde». E il portavoce della Casa Bianca assicura: «La definizione di “codardo” non ci rappresenta ma abbiamo disaccordi». Ovvero, i dissensi sono con Netanyahu non con Israele. Le prossime settimane diranno se Obama riuscirà a far cadere Netanyahu o se ripeterà il flop del 2010 quando, sempre a «The Atlantic», disse che avrebbe voluto Tzipi Livni premier.

Corriere 30.10.14
Riconoscere la Palestina. I motivi delle esitazioni
risponde Sergio Romano


Si parla da decenni sull’opportunità del riconoscimento dello Stato della Palestina, anche per disinnescare le tensioni che periodicamente scoppiano in zona. Due storiche novità sono apparse recentemente: il nuovo presidente svedese ha annunciato in parlamento che intende procedere al riconoscimento e la Camera inglese ha presentato una mozione con la quale ritiene che il governo debba riconoscere lo Stato di Palestina, accanto allo Stato d’Israele. Mi pare che altri Stati Ue ed extra Ue abbiano già provveduto in tale senso. Come si colloca l’Italia?
Maura Bressani

Cara Signora,
Esiste un interessante precedente. Nel giugno del 1980, durante un semestre in cui la presidenza era italiana, si tenne a Venezia un Consiglio europeo. L’incontro, presieduto da Francesco Cossiga e Giulio Andreotti (rispettivamente presidente del Consiglio e ministro degli Esteri), si concluse con una dichiarazione che riconosceva ai palestinesi il diritto all’autodeterminazione. Da allora l’Italia, soprattutto all’epoca di Andreotti e Bettino Craxi, si è particolarmente distinta per le sue aperture. Yasser Arafat fece una visita alla Commissione Affari esteri della Camera dei deputati nel 1982. Craxi negoziò con i palestinesi la liberazione dell’Achille Lauro e difese a Sigonella gli impegni assunti durante la trattativa.
Vi è stata una correzione di rotta all’epoca dei governi Berlusconi, quando il leader di Forza Italia e Gianfranco Fini tenevano particolarmente ad avere buoni rapporti con i vertici della comunità ebraica. Ma non mi sembra che nella politica italiana vi siano stati mutamenti sostanziali. Il rappresentante dell’Autorità nazionale palestinese in Italia ha uno status non diverso da quello di un ambasciatore accreditato presso la Repubblica italiana. Continuiamo a pensare che la soluzione migliore sia quella dei due Stati, anche se questa prospettiva diventa col passare del tempo sempre più difficile; e non possiamo ignorare che il partito internazionale del riconoscimento continua a crescere. I Paesi dell’Onu per cui la Palestina è uno Stato sono ormai 136 su un totale di 193. L’ultima guerra di Gaza ha avuto effetti opposti a quelli desiderati da Benjamin Netanyahu. Tutte le democrazie occidentali hanno deplorato i missili lanciati contro le città israeliane, ma la conferenza convocata al Cairo per la ricostruzione di Gaza ha obiettivamente trattato la Striscia come una vittima.
Se alcuni Paesi ancora esitano a riconoscere lo Stato palestinese, le ragioni sono contemporaneamente pratiche e giuridiche. Non è facile avere rapporti normali con uno Stato in cui il governo nazionale, formato in giugno, non ha ancora dato prove concrete della sua esistenza, e in cui i confini restano incerti. Non è facile assumere impegni internazionali con un Paese se una parte del suo territorio è occupata da insediamenti stranieri ed è perlustrata da truppe straniere. Riconoscere la Palestina significa accettare la possibilità di frequenti e fastidiose divergenze con Israele. Credo che non tutti i Paesi europei, per il momento, siano pronti a una tale prospettiva.

il Fatto 30.10.14
Guerra stupefacente
Dalla grappa alla coca, il doping per combattere l’orrore delle armi
di Maurizio Chierici


Kareem, guerrigliero dell’Isis, 19 anni: i curdi lo hanno catturato in Siria. Nella prigione di Jazir confessa la sua avventura alla Cnn. Prima di ogni battaglia il comandante distribuiva pillole che aiutavano a combattere: “ Vivrai o morirai senza preoccupazione... ”. Polveri chissà di quale miscela. Racconta di aver visto tagliar la testa a non sa quanti prigionieri. “Sgozzate le donne che non portavano il velo... ”. Voce senza emozione; gli allucinogeni spengono l’orrore della realtà.
Ogni guerra sgretola il carattere di chi combatte trasformando le abitudini noiose dei giorni qualsiasi nella contabilità degli eroismi che diventano onori e medaglie per chi si libera dalla pietà. Medaglia del soldato Kareem, mille dollari l’anno. La ferocia delle bandiere nere del Califfato non è una sorpresa. Massacrati trasformati in “misure tatticamente necessarie” da aiutare con eccitanti che sciolgono la ritrosia del rischiare la vita.
UNA VOLTA ERA LA GRAPPA a far saltare le trincee ai contadini analfabeti della Grande Guerra. Diario di Emilio Lussu, Un anno sull’altipiano. “Tutte le mitraglie stanno aspettando. Ci uccidiamo ogni giorno senza vergogna “. Ma il doping della guerra che non ammette analisi del sangue, comincia nel 1898 quando gli Stati Uniti sbarcano a Cuba e la Spagna perde l’ultima colonia. Nelle borracce di chi dimostra “coraggio inusitato” vino Mariani, Bordeaux mescolato a foglie di coca da un farmacista toscano vagabondo nelle Americhe. La sperimentano i militari Usa per consiglio sussurrato da un generale diventato presidente: Ulysses Grant. Si ammala senza speranza e chiede a un amico di aiutarlo a scrivere l’autobiografia. L’amico è Samuel Clemens, nom de plume Mark Twain il più amato degli scrittori di un secolo fa.
Scopre il vino Mariani quando fa il battelliere sul Mississippi. Il successo dei romanzi l’ avvicina al presidente al quale il gran bevitore consiglia i “prodigi” del vino Mariani. E il presidente non solo lascia il letto, ma informa i suoi generali delle “mirabolanti virtù” della strana medicina. E i generali la sperimentano sugli uomini di prima linea alla conquista dell’Avana.
Se negli anni di Hitler l’eroina sintetizzata dalla Bayer resta nelle tabacchiere dei kapò a guardia dei lager, anni dopo finisce in Vietnam negli zaini dei marines. Lo stress degli agguati vietcong affloscia le truppe e si chiudono gli occhi sulle polveri che rinvigoriscono “amor di patria e spirito di corpo”. Il 20% si affida alla China white, eroina purissima del Triangolo d’Oro: Birmania, Laos, Thailandia.
AGGRESSIVITÀ E PERDITA d’ogni inibizione sono ingredienti ideali per uomini e donne macchine di guerra. Diventano rottami appena scoppia la pace. E Washington deve prendere in carico 350 mila reduci ai quali ogni anno s’aggiunge chi torna dall’Afghanistan dove “l’eroina si compra al bazar”, lettera di un militare all’ amico di San Francisco. Il nome viene da eroe; hashish da assassino. Nella Bekaa libanese i fiori di canapa disinibiscono i kamikaze. Non per caso autobombe e suicidi inaugurano il terribile new look degli attentati nella Beirut anni 70-80: braccio di ferro tra siriani, palestinesi, cristiano maroniti, israeliani. Anche i kamikaze giapponesi si intontivano prima dell’ ultima picchiata. Scioglievano in bocca i cristalli trasparenti dell’Ice, piccoli come chicchi di riso. Effetti devastanti: allucinazioni, aggressività e giù in picchiata. Top gun dei paesi in missioni di pace non rinunciano alle anfetamine per sopportare l’apprensione dei raid pericolosi. Cronaca che accompagnano gli ultimi anni come i traffici di coca delle guerriglie colombiane. Incrociano la polvere col mercato nero delle armi. E non resistono allo sbando nei giorni di tranquillità. Ho accompagnato Ingrid Betancourt nel viaggio in Italia dopo la liberazione. Raccontava: noi prigionieri mai coinvolti per paura della rabbia che avrebbe liberato la nostra aggressività. E poi l’angoscia dei bambini soldato allevati alle rappresaglie nell’Africa delle guerriglie. L’eccitazione della droga li aiuta a sparare sugli animali prima del battesimo del fuoco che distrugge i loro villaggi. Adolescenza difficile se ritrovano la libertà. Doloroso recupero dei sentimenti, parole di una volontaria lombarda in Sierra Leone: “Quando cominciano ad accarezzare cani e gatti è il momento del ritorno alla realtà. Esame di coscienza che spesso non sopportano e si tolgono la vita”.

Repubblica 30.10.14
La lezione di Morales
“Così ho fatto della Bolivia un modello di sviluppo copiato anche dagli Usa”
Un passato da contadino e coltivatore di coca, il presidente indio si racconta “Per secoli il popolo è stato sfruttato: con me è arrivato al potere” La passione per il calcio e l’incontro con il Papa nella visita a Roma
intervista di Omero Ciai


ROMA «Papa Francesco — dice Evo Morales — ha posizioni rivoluzionarie, è anticapitalista come me, sta con i deboli, è una nuova speranza per la Chiesa». L’abbraccio e l’incontro privato con il Papa — una cena martedì sera durata poco più di un’ora e mezza — hanno aperto la tre giorni romana del presidente boliviano. Rieletto il 12 ottobre con il 60% dei suffragi, l’indio Evo Morales è ormai in America Latina il campione della tendenza bolivariana, del «socialismo del XXI secolo». Ma lo è diventato grazie a una gestione pragmatica dell’economia, ai conti in ordine, a grandi riserve di valuta per l’esportazione di gas e petrolio. Con politiche redistributive del reddito. E un futuro promettente con la quinoa e il litio. La sua Bolivia è, al contrario di paesi come il Venezuela post chavista e l’Argentina, un esempio di successo politico e economico. Morales in questi giorni inizia il suo terzo e ultimo mandato sulle ali di un trionfo elettorale. Con il tempo - venne eletto nel 2005 ha smussato qualche radicalismo, ma insiste sulla necessità di un mondo senza consumismo, sperpero e lussi: «Nelle zone più povere del pianeta — afferma — muoiono di fame milioni di esseri umani e allo stesso tempo, nella parte più ricca della Terra, si spendono milioni per combattere l’obesità e si sprecano tonnellate di alimenti». Molto appassionato di calcio, romanista, fan di Totti, ieri sera ha convinto anche il direttore generale della Fao a cimentarsi in qualche dribbling con lui e poi è andato allo stadio a vedere giocare la Roma.
Presidente, è giusta l’analisi secondo la quale il suo miglior risultato è stato quello di riunificare politicamente la Bolivia?
«Sì, non ci sono più le due Bolivie di quando arrivai al potere. Quella delle indios delle Ande e quella dei discendenti europei delle pianure. Il 12 ottobre hanno votato tutti per me, abbiamo vinto in ogni regione del paese, tranne una».
Come è stato possibile? Solo alcuni anni fa si temeva una secessione nel suo paese fra le aree più ricche e le aree delle Ande dove vivono gli indios più poveri. Era anche nato un partito che lottava per l’indipendenza della “mezzaluna”, le quattro regioni non andine.
«Non c’è più la mezzaluna, siamo diventati una Luna piena. Per me era molto importante l’unità del paese. Non solo quella territoriale, anche quella culturale, sindacale, sociale. I secessionisti sono stati sconfitti. Abbiamo ottenuto questo risultato lavorando insieme con tutti i Comuni e insieme ai movimenti sociali».
Un’altra cosa che sorprende è la situazione economica. I conti sono in ordine, l’inflazione bassa, la disoccupazione è scesa al 3%, il Pil continua a crescere. Perfino l’odiato Fmi oggi indica la Bolivia come un modello «Quando il Fondo monetario dice qualcosa di positivo su di noi, mi preoccupo. Ma la verità è che oggi siamo noi a fornire ricette e esempi di amministrazione al Fondo e non più loro a noi. Il nostro ministro dell’Economia non discute solo con il Fondo monetario, ormai lo invitano le Università americane e va a spiegare il nostro modello. E in cosa consiste il nostro modello? Superare l’economia delle risorse naturali e passare da un’economia delle materie prime ad una industriale senza perdere di vista gli aspetti sociali».
Quando Lei arrivò alla presidenza nel 2005 la Bolivia era un paese nel caos, c’erano rivolte contro la privatizzazione delle risorse, i presidenti duravano pochi mesi, uno addirittura fuggì. Cos’è cambiato con l’elezione del primo indio nativo?
«Penso che siamo riusciti a cambiare anche la percezione del fare politico. Prima di noi la politica era gli interessi e gli affari dei politici, l’élite bianca che saccheggiava il Paese. Per loro la politica era la scienza di come utilizzare il popolo. Per noi la politica è la scienza di servire il popolo».
Lei che vince in Bolivia, la Rousseff in Brasile, il partito di Pepe Mujica in Uruguay, la Bachelet in Cile. C’è una sinistra in America Latina che ha dimostrato di saper governare...
«Ero un contadino, un cocalero, coltivavo le foglie di coca, e nel mio Paese si diceva che i contadini servivano solo per votare, mai per governare. Abbiamo dimostrato il contrario. In America Latina c’è un sentimento diffuso di liberazione democratica, di rifiuto delle vecchie politiche di dominazione e saccheggio. Non dico un sentimento anticapitalista ma di certo anticolonialista».
Crede ancora nel “socialismo del XXI secolo”?
«Ogni Paese ha le sue peculiarità. In Bolivia abbiamo un’economia plurale con molta attenzione a ridurre le differenze nel reddito. In meno di 10 anni la povertà estrema è scesa dal 38 al 18% e scenderà ancora. La disoccupazione è al 3%. Tutto ciò lo abbiamo ottenuto nazionalizzando le risorse naturali che prima venivano saccheggiate».
Nel suo Paese c’è tuttora il grave problema del lavoro infantile?
«C’è una differenza culturale. Io ho iniziato a lavorare nella mia famiglia appena ho imparato a camminare. Purtroppo quando si è poveri anche i bambini aiutano le famiglie. Riducendo la povertà risolveremo anche questo dramma».

La Stampa 30.10.14
Primo Levi l’Americano
Mentre negli Stati Uniti è attesa la traduzione delle sue opere complete, oggi a Torino l’annuale Lezione dedicata allo scrittore affronta la difficoltà di volgerlo in un’altra lingua
di Ernesto Ferrero


«In un’altra lingua», la sesta «Lezione Primo Levi» che Ann Goldstein e Domenico Scarpa tengono oggi a Torino, coincide con l’annuncio di un doppio evento di speciale rilievo nella storia della ricezione delle opere di Primo Levi. Nell’autunno 2015 è attesa negli Stati Uniti la traduzione inglese delle Opere complete in tre volumi, presso la Norton Liveright. È la prima volta, non solo in America, che un’impresa del genere viene dedicata a un autore italiano, non a caso tra i più letti e tradotti, e in continua ascesa nella considerazione critica. La Goldstein, che firma la curatela complessiva, oltreché le versioni di singoli testi, è l’esperta traduttrice dell’impervio Petrolio di Pasolini, di Bilenchi, Calasso e da ultimo della Ferrante, e fa parte dell’eroico team che ha volto in inglese nientemeno che lo Zibaldone di Leopardi. Negli stessi mesi del 2015 esce presso Einaudi anche una nuova edizione delle Opere, ormai la terza in ordine di tempo, a cura di Marco Belpoliti, con un numero consistente di pagine disperse, non ancora riunite in volume.
Calvino diceva che scrivere è nascondere qualcosa affinché poi venga scoperto. Se Levi, maestro di understatement, nasconde, è per una sorta di pudore espressivo, per non esibire la ricchezza e complessità dei temi e dei riferimenti su cui lavora con la precisione di un orologiaio. Sotto la superficie di un dettato di cristallo, continuiamo a scoprire giacimenti che sollecitano indagini sempre più approfondite, di cui le «Lezioni» torinesi (che poi diventano altrettanti volumetti Einaudi, con traduzione inglese a fronte) hanno sin qui offerto delle campionature di grande valore.
La storia aggrovigliata della traduzione dei libri di Levi ha proprio negli Stati Uniti uno degli snodi essenziali. Le edizioni inglese e americana di Se questo è un uomo erano uscite nel 1959, un anno dopo la nuova edizione Einaudi, passando pressoché inosservate. Il titolo era stato banalizzato in Survival in Auschwitz, come se si fosse trattato di una sorta di «action movie» a lieto fine. Era un fraintendimento piuttosto vistoso anche il titolo americano di La tregua, diventato The Reawakening, «Il risveglio», che contraddice il timbro inquietante dell’originale: se guerra è sempre, la fine delle ostilità rappresenta solo un momento di requie. Invano Levi aveva proposto all’editore un diverso titolo, desunto da un verso dell’amato Coleridge: Sopra un oceano dipinto, dove l’oceano era quello della bizzarra navigazione del ritorno a casa.
Bisogna aspettare il 1984 perché con Il sistema periodico l’America si accorga che Levi è un grande scrittore, non solo l’insuperabile analista della Shoah. Saul Bellow ne parla come di un libro «necessario», dove tutto è essenziale e nulla superfluo, in cui si è immerso con «piacere e gratitudine». L’autorevole giudizio, corroborato da una serie di recensioni molto favorevoli, propizia una messe di nuove traduzioni. L’anno dopo esce la traduzione di Se non ora, quando? con un’introduzione di uno storico come Irving Howe; segue un viaggio promozionale (Boston, New York, Los Angeles), con incontri e conferenze in sedi universitarie. Nell’autunno 1986 Philip Roth viene a Torino per rendere omaggio allo scrittore che ha scoperto grazie a Claire Bloom, allora sua moglie. Una sua lunga intervista, sottesa da un’ammirazione affettuosa, esce sulla New York Review of Books e viene ripresa dalla Stampa. Roth vuol sapere tutto del nuovo amico, visita la fabbrica di vernici a Settimo e la casa di corso Re Umberto: «Bisogna saper restare ancorati alle radici come hai fatto tu: lavoro, città, famiglia», gli dice. A cena con lui al Cambio conversa allegramente, vuole farlo sorridere con le sue imitazioni del vecchio Singer. È l’ultima grande soddisfazione della vita di Primo.
Levi tradotto, Levi traduttore. È facile pensare subito alle pagine memorabili in cui ad Auschwitz si sforza di tradurre Dante per l’amico Jean Samuel detto Pikolo. La sua competenza linguistica è sistemica (padroneggia bene francese, inglese e tedesco, traduce Heine, Kafka, Lévi-Strauss), va ben oltre la pura sensibilità o il gusto delle etimologie: è nutrita di memoria storica, comporta un continuo raffronto tra sistemi differenti, si spinge sino a inventare codici con cui comunicare con il mondo animale. Osserva Domenico Scarpa, che contribuisce da par suo all’edizione Norton per la parte storico-critica: «Così come il linguaggio cambia peso e valore con la Rivoluzione industriale (civiltà di massa, metropoli, grandi numeri), allo stesso modo torna a cambiare dopo la comparsa di Auschwitz. Che è la morte moltiplicata dall’industria. Levi è il testimone più consapevole (e professionalmente ferrato) di questa natura industriale del Lager, e della necessità di farvi aderire un linguaggio. Scopre una nuova forma della modernità, che è difficile ma non impossibile convertire in espressione: sono queste le sue affinità con Baudelaire. Non inventa i fatti, costruisce la resa letteraria dei fatti, ma anche la loro resa acustica. Quando ribattezza Pikolo, con la kappa, Jean Samuel, vuole trasformare una gentile voce italiana in una consonante dura, violentemente intrusiva, per restituirci la barbarie anche fonetica di Auschwitz».
Così come è riuscito a riprodurre, reinventandolo, il «suono» barbaro del Lager, il Levi trasmutatore di linguaggi ha saputo consegnare alla grande letteratura l’italo-piemontese degli artigiani-artisti, i virtuosi della manualità come Tino Faussone; l’ebraico-piemontese dei suoi avi miti e tabaccosi, lo yiddish delle bande partigiane partite dal cuore della Russia per arrivare in Italia. Non c’è suono o parola che sfugga alla sua creatività di demiurgo anche verbale. Se ogni traduzione è un arricchimento per entrambe le parti, presto sapremo quanto - grazie ad Ann Goldstein e ai suoi sodali - l’inglese si sia arricchito del magistero anche linguistico di Primo Levi.

Repubblica 30.10.14
Intervista ad Ann Goldstein, da vent’anni la più importante traduttrice americana dei nostri scrittori “È un momento felice per il vostro Paese”
“Leopardi, Levi e la Ferrante così negli Usa si legge l’Italia”
di Simonetta Fiori


«PRIMA il successo di Elena Ferrante, ora la traduzione integrale di Primo Levi. È decisamente un momento felice per la cultura italiana a New York'. Per tirarsi un po’ su bisogna fare una telefonata al New Yorker, sofisticata icona della Manhattan intellettuale. All’altro capo del filo è Ann Goldstein, responsabile del Copy Department e voce americana di molti scrittori italiani. La settimana scorsa ha festeggiato i quarant’anni di lavoro dentro la rivista. La sua avventura tricolore cominciò nel 1992, quando Saul Steinberg portò in redazione il manoscritto di un suo amico ed Ann era l’unica capace di tradurlo.
Si trattava di Cecov a Sondrio di Aldo Buzzi. Da allora sono passati due decenni e migliaia di pagine tra lo Zibaldone e il Petrolio postumo, i romanzi di Baricco e Piperno, la fortunata polifonia della Ferrante. E ora l’opera multiforme dello scrittore chimico, a cui Norton dedica in primavera un’edizione in tre volumi, Complete Works , a cura della Goldstein.
Perché Levi? Cosa piace al pubblico americano?
«L’idea è stata di un editor di Norton-Liveright, Robert Weil, assai appassionato di Levi. Ci ha messo più di cinque anni per acquisire tutti i suoi diritti, e poi sono entrata io nel progetto. Quando abbiamo cominciato a leggerne le traduzioni inglesi, ci siamo accorti che non era stato rispettato l’assetto voluto dallo scrittore. Abbiamo deciso di risistemare i libri nella forma originale, rimettendo mano anche alle traduzioni ».
Nella sua prima apparizione, Se questo è un uomo fu presentato al pubblico americano con il titolo di Survival in Auschwitz e La tregua con Reawakening , il risveglio. Titoli molto rassicuranti.
«Titoli orribili, scelti dalle case editrici per vendere copie».
A Primo Levi non piacevano perché gli sembrava che annacquassero la tragedia nel lieto fine.
«Noi siamo stati fedeli all’originale: If this Is a Man e The Truce.
Per noi il criterio fondamentale è stato quello di seguire le indicazioni di Levi, anche nel tentativo di restituirne tutta la poliedricità. Vorremmo darne un’immagine più completa, non più schiacciata testimone dell’Olocausto».
Ad aprirgli il successo negli Stati Uniti, alla metà degli anni Ottanta, fu un’opera non solo testimoniale come Il sistema periodico .
«Sì, probabilmente influì anche il giudizio di Saul Bellow che presentò quei racconti come un capolavoro. “Non c’è niente di superfluo”, scrisse, “ogni cosa è essenziale”. Di questo parla lungamente Weil nel suo saggio sulla fortuna di Levi in America».
Racconta anche dell’amicizia con Philip Roth. Lo scrittore americano andò a trovare Levi a Torino nel 1986, poco prima della scomparsa.
«Sì, era stato incaricato dalla New York Times Book Review di farne un ritratto sullo sfondo della sua vecchia fabbrica. Roth rimase molto colpito dalla sua capacità di ascolto, dall’intensità dell’attenzione. E tra tutti gli artisti del Novecento, tra quelli intellettualmente attrezzati, gli appariva come il più adatto a cogliere la totalità della vita intorno a sé. Il suo saggio sarebbe uscito un mese prima della morte di Levi».
Domenico Scarpa, che l’ha studiato a lungo, fa notare un’eccezionalità: di solito, nel passaggio dall’italiano all’inglese, i testi si restringono. Nel caso di Levi succede il contrario. Il suo italiano risulta più sintetico dell’inglese.
«Sì, Mimmo dice questo, e forse ha ragione. Ma io non ho contato le parole!».
E con l’yddish di una banda partigiana? È vero che l’yddish usato da Levi è apparso agli americani poco convincente?
«Sì, sapevo anche io di queste perplessità. Forse perché abbiamo una memoria culturale più ricca, e molti termini yddish fanno parte della nostra lingua».
La sua radice ebrea ha inciso nella traduzione di Levi?
«Non credo. In realtà sono un’ebrea cresciuta senza alcuna educazione religiosa. La mia è una delle tante famiglie che si è voluta assimilare a tutti i costi».
Ma dar voce al dolore di Se questo è un uomo non l’ha toccata nel profondo?
«Forse sì, ma in modo del tutto inconsapevole».
Provare empatia per un autore facilita la traduzione?
«Per un verso sì. Se ami uno scrittore le cose vanno più speditamente… finché non ci si stufa. Ma anche nei testi più insidiosi c’è sempre qualcosa da imparare. Mi è capitato con Petrolio, che è stato il mio secondo lavoro di tradusul zione. E più tardi con Leopardi. Tradurre significa anche scoprire ».
Con chi si è divertita di più?
«Con Elena Ferrante, specie in questo suo ultimo ciclo napoletano. Sono rimasta catturata dall’amicizia tra Elena e Lila narrata nella tetralogia — il terzo volume Storia di chi fugge e di chi resta è appena uscito a New York. Sul tema del sodalizio femminile non è stato scritto granché. E la Ferrante ha la capacità di analizzarlo con un’intensità incredibile, direi quasi con brutalità. In un’intervista a Vogue ha dichiarato che nella finzione è possibile spazzare via tutti i veli dell’ipocrisia. Scrivere è un modo per evitare di mentire».
Ma è per questo che piace così tanto ai lettori americani?
«Chissà, per me è un mistero. Certo conta la sua capacità di creare un mondo che tiene prigioniero il lettore. Una volta entrati, è difficile scappare. Le confesso una cosa: quando finisco di tradurre un suo libro, mi sento svuotata. Dov’è finita tutta quella gente? Mi manca l’amicizia tra Elena e Lila, in fondo sono diventata intima anche io».
Elena Ferrante potrebbe essere un uomo?
«No, impossibile. Escludo che un uomo possa capire con quella profondità i rapporti tra le donne, le loro emozioni. Uno scrittore che lavora al New Yorker, D. T. Max, ha detto che, se prima poteva anche pensare che si trattasse di un talento maschile, dopo aver letto la tetralogia napoletana non ha dubbi. È una donna».
Il suo stile è un po’ cambiato.
«Sì, ma non credo in un passaggio di mano: ritorna sempre il vissuto dell’autrice, soprattutto la sua verità emotiva».
Il successo della Ferrante e ora la traduzione di Primo Levi. È un buon momento per la cultura italiana a New York?
«Sì, mi sembra una stagione felice. È stata importante l’opera svolta da Europa Editions, la casa americana di Sandro e Sandra Ferri, che sono gli editori di e/o: oltre a Ferrante, hanno messo in circolo molti autori italiani. Così come si dà molto da fare l’Italian Academy dentro la Columbia University. E uno straordinario lavoro è stato fatto da Renata Sperandio, che dirigeva l’Istituto Italiano a New York».
A leggere il New Yorker si ha l’impressione che la cultura italiana sia ancora il Rinascimento, i grandi classici e l’alta moda. Con poche eccezioni tra gli autori contemporanei.
«Mettiamola così: per il grande pubblico l’Italia è cucina e turismo. Però per una ristretta cerchia di lettori sono importanti anche Italo Calvino e Umberto Eco. E più recentemente Andrea Camilleri: oltre alla trama poliziesca, non escludo che il pubblico apprezzi anche gli arancini di Montalbano».
Da voi c’è anche un problema di traduzione: gli editori sono abbastanza diffidenti verso la letteratura non in lingua inglese.
«Ha presente il quesito sull’uovo e la gallina? I lettori sono sospettosi verso le traduzioni. Così le case editrici — soprattutto i grandi gruppi — evitano di farle perché temono di non vendere. Ma finché non le proponi al pubblico, è impossibile creare la domanda. Per fortuna ci sono i piccoli marchi come Europa Editions, Archipelago, New York Review Books. Da giudice del premio Pen sono rimasta sorpresa dalla quantità delle loro traduzioni ».
Da quale parte del mondo arrivano oggi le idee più interessanti?
«Da Internet. Sembra che ormai tutto succeda lì. Anche il New Yorker ha abbracciato questa filosofia. E sul nostro sito c’è sempre qualcosa di nuovo, di cui io non so niente».

IL CONVEGNO “In un’altra lingua” è il titolo della lezione che Ann Goldstein e Domenico Scarpa tengono oggi a Torino sull’edizione americana delle opere di Levi (ore 17,30 Centro incontri della Regione Piemonte)

Corriere 30.10.14
Viaggio al cuore della modernità
La metropoli come arte e finzione
di Emanuele Trevi


Effetto città: raramente uno studioso che dia alle stampe un’opera che sfiora le mille pagine è in grado di suggerire in sintesi, con un titolo così memorabile, il punto di vista e le coordinate del suo procedere. Effetto città (Bompiani), dunque, ha intitolato Vincenzo Trione il suo poderoso libro, rendendo un implicito omaggio all’effetto notte del capolavoro di Truffaut del 1973, nella versione italiana: in sostituzione dell’equivalente francese nel gergo tecnico del cinema, che è nuit américaine. Un effetto, dunque, un procedimento artigianale destinato non solo a creare una notte artificiale, ma anche ad essere riconosciuto in quanto tale dagli spettatori. Oggi che si impiegano mezzi molto più sofisticati e nessuno colora di blu le pellicole, possiamo apprezzare ancora più adeguatamente il vecchio trucco, per il semplice fatto che, mentre crea l’illusione, non nasconde se stesso.
La città, nel pensiero di Trione, ha la stessa natura della notte dei registi. Finché non ne intendiamo dare una rappresentazione estetica, possiamo accettarne pacificamente una versione convenzionale. Per un tempo storico lunghissimo, tutte le città si sono assomigliate, come se non fossero altro che paesi di dimensioni più grandi. Erano il polo di un’opposizione morale alla campagna, intesa come luogo di libertà e purezza morale alternativo alla corruzione dei costumi urbani. In casi rarissimi, come quello di Roma, a questo tema umanistico trito e ritrito fino all’insignificanza si aggiungeva quello della città come scrigno di meraviglie, sacre e profane, che esigevano la compilazione di adeguati cataloghi, o guide.
Ma a un certo punto della storia della modernità, alcuni spiriti particolarmente inquieti e percettivi hanno iniziato a considerare lo spazio urbano e la loro vita al suo interno come la fonte privilegiata del loro modo di comprendere il mondo. Fu un trauma, e insieme una rivelazione: ed è da questo evento capitale della storia di tutte le arti che inizia il lungo e labirintico racconto di Trione. Che non potrebbe prendere le mosse se non all’ombra delle poesie, dei poemi in prosa, dei saggi di Charles Baudelaire.
Ovviamente, non sono pochi i precursori dell’autore dello Spleen di Parigi, primo fra tutti l’amatissimo Balzac. Ma nessuno, prima di Baudelaire, aveva fatto della città un criterio di conoscenza così potente e complesso. Dalla sua opera, si sprigiona un’energia capace di annullare ogni distinzione e gerarchia fra l’individuo, nella sua solitudine, e il mondo che lo circonda con la sua molteplicità che è quasi un’immagine dell’infinito. Si può dire che Baudelaire crea Parigi, e insieme profetizza ogni immagine di metropoli a venire. Ma il demiurgo (Trione coglie benissimo questo punto fondamentale) è a sua volta modellato dalla sua creazione, che è come un mostro sfuggito al controllo del mago che l’ha imprudentemente evocato. Tutto svanisce e si trasforma, nella città governata dal ferreo scettro della Moda. E nemmeno la sensibilità eccezionale del poeta che ha saputo cogliere questo ritmo è in grado di stargli dietro. Non è infatti un ritmo a cui sia possibile accordare un’esistenza umana, coi suoi limiti fisici e psicologici.
«La forma di una città», si legge in una poesia dei Fiori del male , «cambia più in fretta del cuore di un mortale». È una constatazione spietata e razionale, ma Baudelaire ci inserisce un «ahimé!» che vale intere biblioteche di estetica e filosofia. È il lamento, impossibile da trattenere, di chi, pur non potendo vivere altrove, deve ammettersi sconfitto dallo stesso caos che ha formato il suo carattere. Ma ancora più importante della malinconia che deriva da questa ammissione, c’è l’irreversibile stato di eccezione che la città impone al mondo interiore di chi, invece che osservarla dall’esterno, si è calato nelle sue viscere come uno speleologo, un profanatore di tombe, un ladro di tesori.
Nell’accostarsi alle innumerevoli esperienze artistiche di cui rende conto con l’abituale finezza mista ad empatia, Trione si tiene sempre fedele al criterio dell’«intensità massima» della rappresentazione, che T. S. Eliot riconosceva come la caratteristica più eminente dello stile di Baudelaire. Non potendo nemmeno lontanamente render conto della ricchezza di argomenti di questo libro, vorrei almeno ricordare la splendida serie di ritratti di città di Gabriele Basilico, che accompagna il discorso non in funzione di semplice illustrazione, ma come una specie di illuminante controcanto. Contemplando queste immagini, ci si rende facilmente conto come certe storie importanti siano sempre, in qualche modo, storie contemporanee. Tanto che, chiuso questo libro importante, potremmo azzardarci a definire la scienza praticata da Trione come una paradossale e seducente archeologia del futuro.

Corriere 30.10.14
Com’è difficile usare la ragione
Aiutiamo i cittadini a decidere
di Daniele Manca


Quante scelte facciamo ogni giorno? E quante di queste, dopo averle fatte, ci paiono poco logiche, al punto, in qualche caso, di danneggiarci persino? È il disorientamento che ci prende dopo aver acquistato un detersivo fortemente scontato, per scoprire appena usciti dal negozio che ce ne erano di migliori più a buon mercato. O quando sottoscriviamo un fondo di investimento illusi dal fatto che in passato avesse fornito ottimi rendimenti (cosa che semmai era motivo per dubitare che potesse realizzarli anche in futuro).
Aiutare i cittadini nelle proprie scelte è stato sin dall’inizio un obiettivo alla base di molte delle politiche di Barack Obama. Il presidente americano è arrivato ad assumere alla Casa Bianca Cass Sunstein, costituzionalista Usa, docente universitario, oltre che esperto di economia comportamentale. Assieme a Richard Thaler è lo studioso che ha scritto Nudge («spintarella», in senso letterale e non nell’accezione gergale italiana «raccomandazione»), tradotto in Italia da Feltrinelli.
Quella parola, Nudge , è diventata segno distintivo dell’intero agire dell’amministrazione Usa. E quel libro ha rappresentato l’approdo nelle stanze dei bottoni della teoria che tiene in gran conto il fatto che la razionalità nelle scelte umane è tutt’altro che la bussola principale. Anzi, i governi possono e devono aiutare i cittadini a non prendere decisioni che possano rivelarsi autolesionistiche, in qualsiasi campo, dalla salute all’economia.
Ne è stato affascinato Obama. Ma anche l’inglese David Cameron e la tedesca Angela Merkel hanno più volte sottolineato l’importanza del cambio di paradigma. Un passaggio che ha riguardato non solo l’agire dei singoli cittadini, intuitivamente più comprensibile, quanto anche l’analisi del funzionamento complessivo delle società.
Utilizzare modelli di analisi della realtà economica, sociale, oltre che istituzionale, tenendo conto di come ragioniamo, pensiamo e di come elaboriamo le decisioni, appare oggi assodato. Ma questa consapevolezza ci è costata cara. La grande crisi del 2007, deflagrata nel 2008, ci ha permesso di comprendere a nostre spese quanto poca razionalità, ad esempio, ci fosse persino nel funzionamento dei mercati finanziari.
Robert Shiller, uno dei padri della finanza comportamentale, proprio lo scorso anno è stato insignito del premio Nobel per l’Economia. A lui si deve, già nel 2000, il libro intitolato appunto Irrational Exuberance , ( Euforia irrazionale , Il Mulino, 2009) che delineava come il rialzo dei titoli hi-tech avesse pochissimo di razionale, anticipando quella che fu chiamata la bolla dei titoli Internet. E fu sempre Shiller ad avvertire della successiva bolla immobiliare alla base del crac del 2007.
«La crisi finanziaria ha mostrato che siamo distanti da un modello di equilibrio continuo nel quale il mercato si aggiusta in modo efficiente» ha detto recentemente Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia. Parole pronunciate in occasione della presentazione del libro Methodological Cognitivism di Riccardo Viale. Vale a dire lo studioso italiano che, prendendo le mosse dalle ricerche del Nobel Herbert Simon, ha imposto concetti come l’«economia cognitiva».
Già la presenza di un banchiere centrale in un’occasione simile, soltanto qualche anno fa, avrebbe fatto storcere il naso a più di un’economista istituzionale. Se il Nobel a Simon, precursore del cambio di passo e maestro di Viale, è del 1978, si dovrà aspettare il 2002 perché allo psicologo Daniel Kahneman venga assegnato il Nobel per l’economia, grazie alle sue ricerche su come gli individui elaborano le proprie decisioni. Tanto che appare un riconoscimento tardivo quello a Shiller dell’anno scorso.
Il cambiamento nell’approccio anche alla macroeconomia è avvenuto nel corso degli ultimi 40 anni, processo che ritroviamo nei volumi di Viale. Da medico psichiatra, è diventato punto di riferimento in Italia e non solo delle scienze neurocognitive. Non è un caso che in una due giorni torinese, sempre per approfondire i temi introdotti dallo studioso italiano, intervenga, sebbene a distanza, un altro Nobel per l’Economia «eretico» come Joseph Stiglitz.
Del resto dietro quel termine oggi così diffuso come Nudge c’è la «ergonomia cognitiva», dizione introdotta dallo stesso Viale. Un modello che, tra le altre cose, prevederebbe il fatto che le leggi dovrebbero non solo tenere presente la parte normativa, ma anche quella relativa alla comprensione da parte di chi le deve applicare e di chi, cittadino, a esse si deve adeguare. E chissà che, dopo Obama, Cameron e Merkel, a Roma qualcuno non ne tenga conto.

Repubblica 30.10.14
Isaac Asimov: vi spiego la prima legge della genialità
Contattato dal Mit, nel 1959 il re della fantascienza scrisse questo testo inedito Illustrava gli ingredienti della creatività: audacia, confronto, follia e relax
di Isaac Asimov


IN CHE modo una persona arriva ad avere un’idea nuova? Si può presumere che il processo di creatività, qualunque cosa sia, sia essenzialmente lo stesso in tutte le sue diramazioni e varietà, e quindi che l’evoluzione di una nuova forma d’arte, di un nuovo congegno, di un nuovo principio scientifico, comporti sempre degli elementi comuni. La cosa che ci interessa maggiormente è la “creazione” di un nuovo principio scientifico o di una nuova applicazione di un vecchio principio scientifico, ma possiamo parlare in generale.
Un metodo per indagare il problema è quello di prendere in considerazione le grandi idee del passato e capire in che modo sono state generate. Si pensi per esempio alla teoria dell’evoluzione attraverso la selezione naturale, creata da Charles Darwin e Alfred Wallace. Ci sono molte cose in comune, in questo caso. Tutti e due avevano viaggiato in posti lontani, tutti e due avevano osservato strane specie di piante e animali e il modo in cui variavano da un posto all’altro. Tutti e due erano smaniosi di trovare una spiegazione per questo fatto, e tutti due ci riuscirono solo dopo aver letto il Saggio sulla popolazione di Malthus. Tutti e due videro che il concetto di sovrappopolamento ed “estirpazione” (che Malthus aveva applicato agli esseri umani) si adattava bene alla dottrina dell’evoluzione attraverso la selezione naturale (se applicato alle specie in generale). È evidente, quindi, che quello che serve non sono solamente persone con una buona preparazione in un certo campo, ma anche persone capaci di fare un collegamento tra l’oggetto 1 e l’oggetto 2, che normalmente non sembrano collegati.
Sicuramente nella prima metà del XIX secolo moltissimi naturalisti avevano studiato il modo in cui le specie si erano differenziate fra loro. E moltissime persone avevano letto Malthus. Ma quello di cui c’era bisogno era qualcuno che avesse studiato le specie, che avesse letto Malthus e che avesse la capacità di incrociare le due cose. È questo il punto cruciale, la caratteristica rara che dev’essere trovata. Una volta che qualcuno lo ha stabilito, il collegamento diventa ovvio. Thomas Huxley avrebbe esclamato, dopo aver letto L’origine delle specie : «Che stupido a non averci pensato!».Ma perché non ci aveva pensato? La storia del pensiero umano induce a ritenere che è difficile pensare a un’idea, anche quando tutti i fatti sono lì, sul tavolo. Per fare questo collegamento serve una certa audacia. E dev’essere così, perché ogni collegamento che non richiede audacia è un collegamento che può essere fatto da tante persone contemporaneamente e che non si sviluppa come un’“idea nuova”, ma come un semplice “corollario di un’idea vecchia”. È soltanto dopo che un’idea nuova appare ragionevole. Inizialmente è il contrario: sembra il massimo dell’irrazionalità presupporre che la terra sia tonda invece che piatta, o che sia lei a muoversi invece del sole, o che un oggetto, una volta messo in movimento, necessiti di una forza per fermarsi e non di una forza per continuare a muoversi; e così via. Una persona disposta ad andare contro la ragione, l’autorità e il senso comune è necessariamente una persona molto sicura di sé. Dato che persone di questo tipo nascono di rado, sicuramente apparirà eccentrica al resto della popolazione. Una persona eccentrica sotto un certo aspetto spesso è eccentrica anche da altri punti di vista.
Di conseguenza, la persona che ha maggiori probabilità di arrivare ad avere un’idea nuova è una persona che ha una buona preparazione nel settore in questione e che ha abitudini non convenzionali. Una volta trovate queste persone, la domanda successiva è: è meglio metterle insieme in modo che possano discutere il problema tra loro, o informare ognuno del problema e lasciare che lavorino per conto proprio? La mia sensazione è che quando si parla di creatività sia necessario l’isolamento. Tuttavia, una riunione di persone del genere può essere auspicabile per ragioni che non hanno a che fare con l’atto di creazione in sé e per sé. Due persone non avranno mai lo stesso identico magazzino mentale di nozioni. La mia sensazione è che lo scopo delle sessioni di elucubrazione non è escogitare idee nuove, ma educare i partecipanti a fatti e combinazioni di fatti, teorie e pensieri in libertà. Il mondo in generale disapprova la creatività, ed essere creativi in pubblico viene visto particolarmente male. Il crea- tivo, quindi deve avere la sensazione che gli altri non troveranno nulla da ridire. Il numero ottimale di partecipanti alla riunione non dev’essere molto alto. Probabilmente sarebbe meglio organizzare una serie di riunioni a cui partecipano ogni volta persone diverse, invece di un’unica riunione con dentro tutti. Per ottenere i migliori risultati, deve esserci una percezione di informalità. La giovialità, l’uso dei nomi di battesimo, le battute, le prese in giro rilassate, secondo me sono fondamentali: non in quanto tali, ma perché incoraggiano i partecipanti a prendere parte alla follia della creatività.
L’elemento che probabilmente inibisce più di tutti è la sensazione di responsabilità. Le grandi idee del passato sono venute da persone che non erano pagate per avere grandi idee, ma che erano pagate per fare gli insegnanti, i funzionari dell’ufficio brevetti, gli impiegati pubblici, o non erano pagate affatto. Le grandi idee sono spuntate come questioni secondarie. Sentirsi in colpa perché non ci si guadagna lo stipendio perché non si ha avuto una grande idea è il modo più sicuro, secondo me, per precludere ogni possibilità di grande idea. Pensare ai parlamentari, o ai cittadini in generale, che sentono parlare di un gruppo di scienziati che si gingillano, elaborano progetti irrealizzabili, magari raccontano barzellette sconce, tutto a spese dei contribuenti, fa venire i sudori freddi. In realtà lo scienziato medio ha sufficiente coscienza civica da non voler avere l’impressione di fare una cosa del genere nemmeno se nessuno dovesse venirlo a sapere. Io suggerirei di assegnare ai partecipanti di una sessione di elucubrazione compiti non impegnativi da svolgere (scrivere un breve rapporto o una sintesi delle conclusioni) e pagarli per questo. In questo modo la riunione formalmente non sarebbe pagata e questo renderebbe tutto molto più rilassante. Se sono completamente rilassati, sgravati da responsabilità e impegnati a discutere cose interessanti, ed essendo per loro stessa natura persone non convenzionali, saranno i partecipanti stessi a creare strumenti per stimolare la discussione.
Pubblicato con l’autorizzazione della Asimov Holdings ( Traduzione di Fabio Galimberti)
L’AUTORE Isaac Asimov (1920- 1992) scrisse più di 400 libri

La Stampa 30.10.14
Muti: “Mai più un incarico in Italia”
Il direttore alla radio austriaca: “dopo dodici anni al Maggio a Firenze e diciannove alla Scala a Milano il mio impegno è ora con la Chicago Orchestra”

qui

Corriere 30.10.14
Presto nelle sale il film incompiuto di Orson Welles
Vive l’ultimo film di Orson Welles: era in un magazzino
«The other side of the wind» uscirà a maggio
di Paolo Mereghetti


Si era appena spenta l’eco per il primo film muto di Orson Welles ( Too Much Johnson , ritrovato l’anno scorso a Pordenone) che l’attenzione si riaccende adesso per il suo ultimo film parlato, The other side of the wind , annunciato in uscita il 6 maggio dell’anno prossimo, per il centesimo anniversario della nascita del regista. Un film di cui si conoscevano le complicate peripezie di lavorazione, durate almeno cinque anni, dal 1970 al ‘75, ma che nessuno ormai sperava più di vedere perché inghiottito, con la morte di Welles (avvenuta il 10 ottobre 1985), dentro il buco nero dei suoi estemporanei finanziatori e della sua proverbiale «confusione» produttiva.
E invece 1.083 bobine — e in ottimo stato — sono state ritrovate in un magazzino alla periferia di Parigi, come riferisce il New York Times , e hanno convinto la società Royal Road Entertainment, produttrice di diversi film indipendenti, a tentare quello che non era riuscito neppure a Welles: portarne a termine il montaggio e presentarlo al pubblico. Il film, così come l’aveva raccontato lo stesso Welles alla rivista spagnola Dirigido por… , raccontava l’ultima giornata di vita del regista J. J. Hannaford (interpretato da John Huston) e la festa che una sua vecchia amica aveva organizzato perché le nuove leve della professione lo conoscessero e parlassero con lui.
La storia di questa giornata, che si sarebbe conclusa tragicamente, era costruita lungo due direttive: da una parte i filmati e le registrazioni che i vari invitati avevano fatto del ricevimento, una specie di documentario costruito attraverso riprese familiari e amatoriali, e dall’altra le immagini dell’ultimo film di Hannaford, storia di un ragazzo e una ragazza che dopo molte peripezie finiscono per ritrovarsi tra i ruderi di quello che era stato uno studio cinematografico. Insieme tutto questo materiale avrebbe dovuto «spiegare» chi fosse davvero il protagonista, «un uomo dai mille volti», il cui vero mistero non è la natura della sua morte (un incidente d’auto molto simile a un suicidio) «ma la sua natura di uomo, la verità su di lui come artista e come fabbricante di maschere».
Il che fa capire come dietro questo J. J. Hannaford ci fosse lo stesso Welles e la sua eterna riflessione sul cinema e il suo senso. Il regista di Quarto potere aveva lasciato moltissimi appunti sul film e le sue idee di messa in scena, oltre a un primo montaggio della durata di 45 minuti.
Il vero ostacolo era quello di convincere tutti coloro che potevano vantare dei diritti su quel materiale a collaborare al progetto, dopo che per anni si erano bellamente ignorati, e cioè la figlia Beatrice (a cui il padre aveva lasciato la tutela del suo patrimonio), Oja Kodar che fu l’ultima compagna del regista (e che nel film recita anche) e la casa di produzione franco-iraniana L’Astrophore, di cui era socio il maggior finanziatore del film, Mehdi Boushehri, cognato dello Scià di Persia.
Ma i miracoli avvengono ancora e la testardaggine di Jan Rymsza (produttore della Royal Road) e di Frank Marshall (che del film era stato direttore di produzione) è riuscita a ridare una nuova vita al film-testamento di Welles.

La Stampa 30.10.14
Finalmente riapre il museo di Picasso
E a metà novembre Paris Photo vede gallerie di tutto il mondo
di Alberto Mattioli


Bentornato Picasso. Dopo cinque anni di lavori, finanziati anche mandando le opere in tournée all’estero, ha riaperto il suo Museo, all’hotel Salé, un bel palazzo del Seicento in cui i Picasso riescono a non stonare. La collezione del Musée conta cinquemila opere, arrivate allo Stato francese grazie a due maxidonazioni: quella degli eredi di Pablo nel 1979 e quella della sua vedova Jacqueline nel ’93. Prima ancora, nel ’73, era stata donata la collezione privata di Picasso, 51 opere di maestri antichi e moderni che il pittore amava particolarmente, e nel ’78 erano stati depositato qui i suoi archivi privati, più di 200 mila pezzi. Insomma, il patrimonio del museo è rilevantissimo. Ma, a trent’anni dalla sua apertura, c’era il bisogno di rinnovarlo.
Come sempre avviene in questi casi, si è trattato di un’avventura, con ritardi e polemiche. Però ne è valsa la pena. Il Museo non è stato solo rifatto, ma soprattutto ingrandito, spostando altrove gli uffici. Così, gli spazi espositivi e quelli per le attività aperte al pubblico sono di fatto triplicati: da 2 mila e 300 metri quadrati a 6 mila e 300. La riapertura del Museo è l’inizio di una Picassomania non confinata solo lì e nemmeno solo parigina. Il Grand Palais annuncia per l’autunno del ’15 una mostra su «Picasso et les contemporaines», il MoMa di New York la prima esposizione americana sulla sua scultura. E nel ’18 il Musée d’Orsay e il Musée Picasso dovrebbero unire le forze per un’altra mostra sui periodi «blu» e «rosa».
Insomma, in Francia, a differenza di quel che succede in Italia, l’attenzione per il «patrimoine» è sempre alta. Però sembra meno facile di un tempo accrescerlo e ogni tanto fa capolino un po’ di veteroconservatorismo, magari ammantato da motivazioni neoecologiste. Così, i Verdi parigini minacciano di bloccare il maggior progetto edilizio del Grand Paris. Si tratta della «tour Triangle», un grattacielo appunto triangolare che dovrebbe sorgere alla porta di Versailles, progettato dalle archistar svizzere Herzog e De Meuron. Con i suoi 180 metri d’altezza, dovrebbe diventare il terzo edificio più alto della capitale, dopo la tour Eiffel (276 metri) e quella Montparnasse (210), ma l’opposizione politica è così forte che potrebbe anche fermare tutto.
Novembre vedrà come ogni anno Parigi diventare capitale della fotografia. Dal 13 al 16 l’edizione 2014 di Paris Photo richiamerà al Grand Palais collezionisti, galleristi e appassionati di tutto il mondo. E sono numerose le mostre di fotografia disseminate egli spazi cittadini, Tra le altre al Jeu de Paume da non perdere quella di Garry Winogrand.