venerdì 31 ottobre 2014

La Stampa 31.10.14
Francesco: il diavolo non è un mito, esiste e bisogna combatterlo
Il Pontefice mette in guardia dal demonio
Il Papa a Santa Marta: «Non ci butta addosso fiori» ma «frecce infuocate»; la vita cristiana è una continua e bella lotta contro le tentazioni; l'arma vincente è «la verità»
di Domenico Agassio

qui

Repubblica 31.10.14
La modernità del Papa “comunista”
risponde Corrado Augias


Caro Augias, ciò che mi affascina di questo Papa, è la sua carica d’amore — solare, schietto, quasi furioso! Un amore che fa sperare in un mondo più giusto, più vicino allo spirito evangelico, alle sofferenze dei poveri, e al loro riscatto, misericordioso verso gli indifesi e gli emarginati. Un amore incoraggiante, anche se scomodo, forse, come è scomoda — e paradossale — la parola del Vangelo di Cristo! L’ideale di vita evangelico sta nell’amore per il prossimo, e nell’equa condivisione dei beni, contro ogni forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Un Papa comunista? Niente affatto! Il comunismo ha un limite metafisico — lo sa bene il francescano-gesuita — che rende impossibile risolvere davvero i problemi che investono l’essenza dell’uomo. Non bisogna prendere per marxismo un discorso di fede che pone la liberazione dell’uomo nella prospettiva della speranza cristiana, che ha un valore escatologico; non è una fuga dalla storia, o la rinuncia all’impegno politico concreto. Ma il cristiano sa che la lotta per la giustizia, per la pace e per la fratellanza è lotta, in definitiva, per il Regno di Dio.
Nuccio Palumbo

Pochi giorni addietro, nella sua risposta a chi lo accusava di essere comunista, papa Francesco ha detto con l’abituale e (apparentemente) ingenua franchezza: «Terra, lavoro, tetto … è strano che se parlo di questo ecco che dicono: “il papa è comunista”. Invece l’amore per i poveri è al centro del vangelo». Poiché l’affermazione è indiscutibile il discorso potrebbe benissimo finire qui. Invece le cose non sono così semplici per una nutrita serie di ragioni. La prima è per secoli la Chiesa cattolica è rimasta lontana dalla purità del vangelo. Quando Francesco d’Assisi scrisse la regola per il suo ordine di frati mendicanti, privi di tutto, perfino di un pane e di un giaciglio, dovette aspettare anni per vederla approvata con bolla pontificia. Perché fosse approvata dovette anche riscriverla più volte e molto attenuarla. Più in generale, i movimenti pauperistici che in quei secoli avevano avuto una certa diffusione vennero tutti disciplinati o duramente repressi. Dunque papa Bergoglio deve fare i conti con una tenace tradizione che ha dominato la Curia sia per la povertà sia per l’occhiuta conservazione della dottrina. C’è poi da fare i conti con le resistenze di coloro che concepiscono il papato solo come un potere regale, quindi ammantato dagli orpelli e dai privilegi che caratterizzano i sovrani. A tal punto arriva il rifiuto che circolano libri nei quali si contesta la stessa legittimità della sua elezione. Se a questo aggiungiamo le innovazioni di metodo dialettico di cui qui discuteva Eugenio Scalfari il 28 scorso, si vede quanto arduo sia il compito che Francesco si è assunto. Auguri, Francesco.
Corrado Augias

La Stampa 31.10.14
La Fiom annuncia lo sciopero generale
Il premier incontra Landini per archiviare gli incidenti: accerteremo le responsabilità
Ma lo scontro resta alto
di Francesco Grignetti


Il giorno dopo le manganellate agli operai di Terni, una cosa sola è chiara: il governo voleva chiudere al più presto l’incidente, ché non è proprio il caso di rinfocolare tensioni con la Cgil e la Fiom; il sindacato, a sua volta, voleva andare avanti e se la polemica Renzi-Camusso resta rovente, ha da restare sul piano politico senza però tradire la piazza. Non è un caso se il leader della Fiom, Maurizio Landini, ha proclamato otto ore di sciopero generale. Tregua armata, insomma. I protagonisti hanno comunque abbassato i toni. Renzi era stato tranchant già nella riunione con i sindacati, indetta in fretta e furia al mattino: «È imperativo morale chiudere la vicenda, saranno accertate tutte le responsabilità».
Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, in Parlamento quindi si è scusato, equanime, porgendo la sua «solidarietà» a ogni persona coinvolta nei tafferugli, che fossero agenti di polizia o operai. «È stato un brutto giorno per tutti», ha detto, riconoscendo così che non era orgoglioso per come erano andate le cose.
Ed ecco che Landini, mentre indiceva uno sciopero generale contro il governo per contrastare il Jobs Acts, riconosceva la svolta di Alfano: «Solidarietà ai poliziotti doveva darla per forza, la novità è che l’abbia espressa anche agli operai».
Pure Susanna Camusso, la segretaria della Cgil, che aveva iniziato la giornata con dichiarazioni fiammeggianti («Non capisco questo riferimento di Renzi ad abbassare i toni. Il presidente del Consiglio dovrebbe provare ad abbassare i manganelli»), a sera dimostrava un’insolita vena diplomatica. «Abbiamo apprezzato che il ministro Alfano abbia espresso solidarietà, oltre che alle forze dell’ordine, ai lavoratori. Penso sia giusto dire che bisogna avere degli elementi di “governance” delle manifestazioni, poi capiremo che cosa vuol dire concretamente. È stato fatto quel gesto che chiedevamo: scusarsi con lavoratori che sono stati ingiustamente malmenati».
Incidente chiuso, insomma, e con applausi bipartisan. Almeno dialetticamente. Il discorso di Alfano è stato applaudito dalla maggioranza, ma anche dai parlamentari di Forza Italia. E nonostante i grillini e quelli di Sel insistano nel tenere alta la polemica, annunciando una mozione di sfiducia individuale per il ministro dell’Interno, i sindacalisti guardano soprattutto al tavolo di confronto che si tiene al ministero dello Sviluppo Economico. È lì la sede della trattativa con la Thyssen, lì l’unico discorso che davvero appassiona la Fiom.
Ha raccolto attenzione, però, anche il discorso di Alfano relativamente alla novità di tavoli di confronto tra polizia e sindacato «ovviamente - ha spiegato il ministro - non per discutere i temi di merito delle relazioni industriali, ma per affrontare, secondo un metodo di condivisione, le modalità di “governance” di quelle manifestazioni che possono risultare più impegnative anche per l’ordine pubblico».
Non per caso, allora, il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, ieri commentava: «Sono certo che questo problema si sta prendendo con serietà nelle sedi opportune in vista di soluzioni adeguate e incisive attraverso il dialogo delle parti».
In conclusione, il governo teme che da incidenti di percorso come quello di mercoledì, scappato di mano per colpa delle «voci» per un’ipotetica protesta alla stazione Termini, possa innescarsi una spirale di tensioni incontrollabili. Situazioni difficili ce ne potranno essere tante, purtroppo, e «nessuno immagina - dirà Alfano in Parlamento - che, nel pieno delle vertenze e dei negoziati, tutti i lavoratori attendano passivamente l’esito».

Repubblica 31.10.14
Maurizio Landini, leader della Fiom
“Di certo c’è un attacco al diritto di sciopero come in altri Paesi”
“Questo governo ha assunto il programma degli industriali”
“Torni l’acciaio di Stato così eviteremo di svendere le industrie agli stranieri”
“Basta Leopolde vuol dire basta saltare mediazioni in questo modo si riducono gli spazi della democrazia”
intervista di Roberto Mania


ROMA Tornare all’acciaio di Stato. Maurizio Landini, segretario generale della Fiom-Cgil, non ha dubbi: senza intervento pubblico non si uscirà dalla crisi della siderurgia, che riguarda la ThysssenKrupp di Terni, l’Ilva di Taranto, l’ex Lucchini di Piombino. «Se non vogliamo svendere o regalare la siderurgia agli stranieri è indispensabile che lo Stato faccia la sua parte ».
Ne avete parlato con Renzi durante l’incontro dopo le manganellate agli operai di Terni?
«Sì, abbiamo posto questo problema che è il perno di qualunque strategia di politica industriale ».
E cosa vi ha risposto il presidente del Consiglio?
«Che è disponibile a un confronto».
Tornare ai tempi dell’Iri?
«Io penso che non si possa più rinunciare a un intervento pubblico nei settori strategici, com’è quello della siderurgia, finalizzato anche a definire nuovi assetti proprietari».
Vuol dire che l’Ilva, per esempio, dovrebbe essere acquistata dallo Stato?
«Per l’Ilva questo passaggio è necessario. L’Ilva deve cambiare proprietà. Per fare questo c’è bisogno della forza dello Stato».
E per l’Ast di Terni?
«Non escludo nulla. Certo a Terni è necessario innanzitutto verificare se l’azienda è disposta a rivedere il piano industriale». Pensa di salvare l’occupazione con l’aiuto dello Stato?
«Penso di salvare l’industria italiana dove c’è un problema, oltreché di dimensioni aziendali, anche di qualità degli imprenditori. Quanto all’occupazione mi limito a far presente che nei prossimi mesi rischiano di saltare migliaia di posti di lavoro. Siamo di fronte a un’ondata di licenziamenti collettivi. Mercoledì in piazza c’erano pure gli operai della Jabil, 400 licenziamenti a Caserta, e quelli della Trw di Livorno, altri 500. Questo è quello che sta succedendo».
Anche per questo Renzi ha chiesto di abbassare i toni. La Fiom ha risposto con otto ore di sciopero a novembre. Non c’era un’altra strada?
«Lo sciopero generale non è altro che la continuazione della manifestazione di sabato. Per abbassare i toni bisognerebbe avere la possibilità di confrontarsi. Con lo sciopero chiediamo al governo di cambiare le sue politiche economiche e sociali. Ciò che ha fatto finora non è adeguato alla situazione».
Per affrontare la crisi dell’acciaieria di Terni vi ha convocati a Palazzo Chigi.. Questo non era previsto. Non le pare un gesto di disponibilità al confronto? Renzi vi ha chiesto scusa per gli incidenti di mercoledì?
«No, le scuse non ci sono state. Ma non c’è dubbio che sia stato un atto importante, di rispetto nei confronti delle organizzazioni sindacali. Resta il fatto che senza un’iniziativa di politica industriale le soluzioni delle singole crisi non sono affatto semplici».
Ci aiuti a risolvere il “giallo” della telefonata tra lei e Renzi: c’è stata?
«La telefonata c’è stata».
E perché non l’ha detto subito?
«Ho detto che io avevo chiamato Delrio mentre è stato Renzi a chiamarmi».
Va bene. Senta, lei è d’accordo con la Camusso quando dice a Renzi che prima di abbassare i toni vanno abbassati a manganelli?
«Certo che sono d’accordo: quello che è successo è di una gravità senza precedenti. Le risposte che sono arrivate dal governo fanno pensare che episodi di quel genere non si ripeteranno più».
Il ministro dell’Interno Alfano ha detto che non c’è stato alcun ordine ai poliziotti di caricare i manifestanti. Lei continua a pensare il contrario?
«Io continuo a pensare che un poliziotto che va in piazza quando c’è una pacifica manifestazione di operai non si armi di scudi e manganelli se non ha avuto un ordine di quel tipo. E se esegue una carica a freddo, come è successo, vuol dire che qualcuno quell’ordine gliel’ha dato».
Sta dicendo che Alfano ha mentito?
«No, dico quello che è accaduto. Ma prendo atto degli impegni che ha preso il governo».
Lei pensa che ci sia un collegamento tra le affermazioni del finanziere Davide Serra alla Leopolda contro lo sciopero e l’aggressione agli operai?
«No, non penso a queste cose. Di certo c’è un attacco al diritto di sciopero in Italia come in Spagna, in Inghilterra e in altri paesi europei. È in atto una pressione per mettere in discussione la contrattazione collettiva. E il governo Renzi sbaglia a ispirarsi al modello Fiat o a quello degli Stati Uniti?» Dunque condivide la tesi della Camusso secondo cui il governo Renzi è stato voluto dai “poteri forti”?
«Sul piano delle politiche sociali e sindacali questo governo ha assunto il programma di Confindustria. Non c’è solo la cancellazione dell’articolo 18, c’è il demansionamento che detto in inglese vuol dire mobbing, c’è il controllo a distanza dei lavoratori, c’è l’abolizione del reintegro anche nei licenziamenti collettivi con procedure sbagliate. C’è l’obiettivo di far saltare il contratto nazionale. Questo non è accettabile».
Cosa intendeva dire mercoledì quando ha gridato: “Basta Leopolde”?
«Vuol dire basta discussioni tra chi la pensa allo stesso modo. Vuol dire basta a un modello che salta ogni mediazione e dove chi comanda parla direttamente con il popolo senza intermediazione. Questo processo porta a una riduzione degli spazi democratici».
Renzi mette a rischio la democrazia? Non è un po’ forte?
«Non dico che è a rischio la democrazia. Penso che si in questo modo si riducono gli spazi della democrazia».

La Stampa 31.10.14
La Camusso tiene aperte le due strade: pronti a trattare, ma anche alla piazza
di Roberto Giovannini


Le scuse del governo, anche se non proprio formali, sono arrivate. Il giorno dopo l’assalto agli operai di Terni, la Cgil archivia l’aspetto «poliziesco» della vicenda, ma cerca di capitalizzare sulle battaglie politiche che sta combattendo (quella sul Jobs Act e quella sulla Legge di Stabilità) un caso che ha messo fortemente in imbarazzo il governo. E così, ieri Susanna Camusso ha offerto due opzioni all’Esecutivo: da un lato, la possibilità di negoziare un accordo, in cambio di qualche concessione. Dall’altro, subire un ulteriore innalzamento dello scontro sociale. Con lo sciopero generale proclamato ieri dalla Fiom di Maurizio Landini per novembre, e lo sciopero generale Cgil (quasi certamente senza Cisl e Uil) praticamente annunciato per dicembre.
Una linea «doppia», così come «doppia» è considerata a Corso d’Italia quella del governo. Per un verso, dicono i collaboratori di Susanna Camusso, l’Esecutivo chiede in pratica scusa per le bastonate ai lavoratori, e attraverso il sottosegretario alla Presidenza Graziano Delrio lancia messaggi di pace. «L’ambizione del governo - ha detto Delrio in un’intervista a «Repubblica» - è stringere un patto sociale con i sindacati sul modello di altri grandi paesi. Naturalmente, la Cgil ha tutto il diritto di fare i suoi scioperi e compito di tutti è abbassare i toni. Se lo sciopero non c’è però, meglio. Significherebbe che si è trovata un’intesa». Potrebbe sembrare il segnale per aprire finalmente il confronto a tutto campo. Eppure, si dice in Cgil, nel pomeriggio lo stesso Delrio ha cambiato completamente linea: nella conferenza stampa dopo l’incontro con i sindacati metalmeccanici a Palazzo Chigi è tornato sui suoi passi: «Abbiamo molto rispetto del ruolo dei sindacati nelle trattative - ha detto - ma riguardo alle riforme sul mercato del lavoro il confronto è in Parlamento».
Patto sociale, dunque, oppure con i sindacati si discute solo su singole vertenze? Susanna Camusso in mattinata aveva replicato al premier che invitava ad «abbassare i toni»: «Abbassassero loro i manganelli», aveva detto. Poi nel pomeriggio ha partecipato al comitato centrale della Fiom. «Il sindacato deve attrezzarsi per una battaglia di lungo periodo - ha detto Camusso - la partita è lunga, e le provocazioni si moltiplicheranno». La Cgil pensa a «nuove modalità per allargare le iniziative, con scioperi articolati, di categoria, territoriali e aziendali». Il 5 ci sono i pensionati, l’8 novembre manifestano i «pubblici». Seguirà, entro novembre, lo sciopero generale di otto ore proclamato dalla Fiom di Maurizio Landini contro il Jobs Act. Da subito i metalmeccanici danno luce verde a fermate e assemblee nei luoghi di lavoro. In prospettiva, c’è l’annunciato sciopero generale di dicembre che quasi certamente la Cgil proclamerà il prossimo 12 novembre. E di cui la Cisl di Annamaria Furlan non vuole saper nulla.
Ma non è detto, appunto. Al Tg3 sempre Camusso riapre la porta a una possibile intesa. Dopo aver espresso apprezzamento per le quasi-scuse di Angelino Alfano, il leader di Corso d’Italia spiega che il sindacato «è pronto a discutere e a trovare soluzioni. Noi abbiamo una piattaforma e dei contenuti: il nostro obiettivo è avere delle risposte». Insomma, «basterebbe non continuare a dire che con il sindacato non si discute».

La Stampa 31.10.14
La piazza agita la Camera
di Marcello Sorgi


Se doveva essere un tentativo di costruire una tregua dopo le cariche della polizia di mercoledì, il tavolo allestito in tutta fretta ieri mattina a Palazzo Chigi con i sindacati dei metalmeccanici s’è risolto in un nulla di fatto, anche se si delinea la possibilità che il numero dei licenziamenti a Terni possa diminuire.
Il faccia a faccia tra Renzi e il leader della FIom Landini è durato poco perchè il premier era atteso al Quirinale per discutere con il Capo dello Stato della nomina (poi rinviata) del nuovo ministro degli Esteri. La conferenza stampa congiunta tra i sindacalisti e il sottosegretario alla presidenza del consiglio Delrio è servita solo a rinnovare, da parte del sindacato, la protesta per il trattamento subito dai lavoratori delle acciaierie di Terni il giorno prima, e da parte del governo a ribadire che nessun ordine di caricare gli operai è partito da Palazzo Chigi.
Non è andato meglio il dibattito parlamentare in cui un Alfano lasciato solo sul banco del governo ha dovuto difendersi, non solo dalle opposizioni (M5S e Sel hanno presentato una seconda mozione di sfiducia personale nei suoi confronti), ma anche dalla maggioranza, e in particolare dal Pd, che per bocca di Fiano ha invitato il ministro dell’Interno a far sì che non si ripetano episodi come quelli dell’altro ieri. Alfano s’è difeso ricordando che delle cinquemila manifestazioni svoltesi sotto la sua gestione, quella sotto l’ambasciata tedesca per protestare contro la Thyssen è l’unica che sia conclusa in modo violento. Ma il clima attorno a lui era visibilmente freddo.
L’annuncio dello sciopero generale di otto ore proclamato dalla Fiom a novembre, in questa cornice, è suonato da conferma che lo scontro sul Jobs Act sia tutt’altro che finito. E una piazza in movimento per tutto il prossimo mese non potrà che ripercuotersi sull’andamento del dibattito parlamentare alla Camera sulla riforma del lavoro e sulla cancellazione dell’articolo 18, aumentando le resistenze della minoranza del Pd, divisa al suo interno eppur motivata a ottenere modifiche alla legge delega almeno nel senso in cui erano state concordate all’interno della direzione del Pd (reintegra anche per i licenziamenti disciplinari, e non solo per quelli discriminatori).
Stretto tra la piazza in crescita e la minoranza parlamentare del suo partito che promette battaglia, Matteo Renzi non ha ancora deciso cosa fare: la difesa della riforma del lavoro nei termini in cui è stata approvata al Senato sarà ardua, ma un cedimento a Cgil e ai suoi avversari interni nel partito gli riattirerebbe addosso gli strali dell’Europa.

il Fatto 31.10.14
Le botte nel paese dei furbetti
Renzi prova a cancellare le botte: “Sindacati, io con voi non discuto”
di Salvatore Cannavò


Venga qui, mi faccia vedere i punti in testa. Anzi, li faccia vedere a Delrio che è medico”. L'esordio di Matteo Renzi con i sindacati metalmeccanici, convocati per discutere delle acciaierie di Terni, è nel solito stile del premier. Quando gli si presenta davanti Rosario Rappa, dirigente Fiom con cinque punti in testa, frutto delle manganellate di giovedì, la mette in burla. “Con lui sembra sempre uno scherzo” si dicono i sindacalisti, guidati dai segretari generali di Fiom, Fim e Uilm. Maurizio Landini si è sentito con Renzi al mattino presto e avverte i suoi: “Dobbiamo andare di corsa a Palazzo Chigi, Renzi ci ha convocato”. Al tavolo non trovano solo il presidente del Consiglio e il suo braccio destro, il sottosegretario Graziano Delrio, ma anche la ministra dello Sviluppo economico, Federica Guidi, e il sottosegretario al Lavoro, la pd Teresa Bellanova. L'operazione politica appare subito chiara: Renzi vuole smarcare il suo governo dai fatti di piazza, dall'immagine del manganello che gli è stata rinfacciata in mattinata da Susanna Camusso durante la trasmissione radiofonica Radio anch’io: “Il presidente del Consiglio dovrebbe mettere giù i manganelli”, dice infatti il segretario della Cgil. Renzi prova così a offrire un'altra immagine del governo, un mr. Wolf di Pulp Fiction, colui che risolve i problemi. Renzi prova a riattivare una linea di dialogo con Landini che a sua volta non si accanisce contro il governo, ma punta il dito sulla ricostruzione “falsa” della questura. Resta un “ma”: “A me di discutere con i sindacati di leggi finanziarie o di quanto decide il Parlamento non importa nulla. Di discutere delle singole vertenze, invece sì”, dice subito Renzi in tre passaggi diretti. Il messaggio non poteva essere più netto. Un rapporto à la carte con il sindacato che non piace alla Cgil. Camusso lo commenterà così nel corso del Comitato centrale della Fiom, nel primo pomeriggio: “Credo che il governo abbia provato a distaccarsi da quanto avvenuto ieri, provando a ricostruire una verginità nel confronto con i lavoratori persa ieri negli scontri”. Resta però il veleno del riconoscimento del sindacato solo quando si occupa di una vertenza aziendale e non come interlocutore sui temi del lavoro.
RENZI LASCIA la riunione dopo aver ascoltato il giro dei vari sindacati, ben cinque – “cosa che comincia a diventare un problema”, dirà dopo chi è seduto a quel tavolo – perché deve recarsi dal presidente Napolitano. Landini avrà il tempo di ribadirgli pubblicamente quanto gli ha già detto, sia in mattinata, nella telefonata di convocazione del tavolo, sia il giorno delle “botte”. Sarebbe utile chiedere scusa, quello che è avvenuto non si deve ripetere, su Terni il sindacato è pronto a trattare se c'è altrettanta volontà dall'altra parte. Il “giallo” delle telefonate tra i due leader è risolto. Quelle comunicazioni ci sono state, Landini ha davvero chiamato Renzi per fargli presente la situazione, ma senza aver avuto risposte formali ha preferito non rendere noto il fatto. Cosa che invece, in serata, aveva deciso di fare l'ufficio stampa di Palazzo Chigi con una nota minuziosa sugli orari delle chiamate e degli sms scambiati. Segno, anche quello, della voglia di non apparire ostili e nemici degli operai in piazza. In ogni caso, una volta andato via il premier, la ministra Guidi annuncia la disponibilità dell'azienda a riprendere la trattativa in cambio del riavvio, anche parziale, delle attività. La base da cui si può partire prevede il funzionamento dei due forni, e quindi l'attività piena dello stabilimento, riducendo gli esuberi da 537 a 290 di cui, però, 140 sono già pronti alle dimissioni incentivate. Si tratta quindi, di tutelare 150 operai. Come? Al momento non è chiaro. È vero, però, che ieri mattina quando si è trattato di far entrare gli impiegati in fabbrica per garantire il pagamento degli stipendi, l'amministratore delegato, Lucia Morselli, si è rifiutata spiegando che tre dipendenti sarebbero stati troppo pochi per effettuare le procedure. Le cose non sono così semplici e lo si capisce, dopo un po', dal nervosismo che i dirigenti sindacali registrano nella ministra Guidi, irritata per non aver avuto subito il via libera alla mediazione proposta. Che l'incontro con Renzi non sia servito a modificare lo stato delle relazioni sindacali è dimostrato dalla convocazione dello sciopero generale da parte della Fiom. “Come prosecuzione della mobilitazione avviata dalla Cgil il 25 ottobre”, infatti, il Comitato centrale dei metalmeccanici ha deciso di proclamare “otto ore di sciopero generale nel mese di novembre”. Uno sciopero contro il governo, contro Renzi, “per contrastare le misure contenute nel jobs act”.
GLI APPUNTAMENTI saranno due: uno il 14 novembre a Milano per il Nord, mentre il 21 novembre si terrà la manifestazione a Napoli per il centro-sud. Un orientamento approvato con 111 favorevoli e solo 6 astensioni, segno di un ricompattamento convinto interno al sindacato e dimostrato anche dall'accoglienza “ospitale” riservata a Susanna Camusso. Anche questo, frutto della fase inaugurata da Renzi.

Repubblica 31.10.14
Alfano. Il re degli equilibristi
di Sebastiano Messina


PHILIPPE Petit, l’uomo che camminò su un cavo tra le cime delle due Torri Gemelle, è un dilettante rispetto al ministro Angelino Alfano, il vero re degli equilibristi. Già notato in tutto il mondo per il suo triplo salto mortale all’indietro sul caso Shalabayeva, il ministro Alfano ieri si è superato. Nel suo esercizio preferito, il cerchiobottismo, ha infatti solidarizzato sia con gli operai (i manganellati) che con gli agenti (i manganellatori), sostenendo che «il diritto a manifestare è sacro» ma nello stesso tempo «la libertà di chi manifesta non deve ledere l’incolumità fisica delle forze dell’ordine». Sospeso nel vuoto delle sue certezze, il ministro ci indica una linea che salva capra e cavoli: gli operai continuino pure a scendere in piazza, ma a patto di non prendere ancora a testate, a freddo e senza motivo, i manganelli della Celere.

il Fatto 31.10.14
Landini nel Paese dei furbetti
Evasori e nemici del fisco. Ecco l’Italia evocata dallo sfogo del leader Fiom dopo le manganellate
di Marco Franchi


Milano Il governo indiano ha consegnato alla Corte Suprema una lista segreta di 627 presunti evasori fiscali con conti all’estero. Questo succedeva il 29 ottobre a New Delhi. Nelle stesse ore, a Roma la polizia caricava coi manganelli i lavoratori della Ast di Terni che manifestavano per timore di perdere il lavoro e Maurizio Landini ruggiva contro il governo: “Siamo in un Paese di ladri ed evasori e vengono a picchiare noi? ”. A chi si riferiva il leader della Fiom? Ha straparlato per la rabbia o davvero oltre ai santi e ai navigatori l’Italia è la culla dei furbetti del fisco?
LIMITIAMOCI alla cronaca delle ultime settimane. Sempre il 29 ottobre l’ex calciatore della Juve e del Varese, Bruno Limido, e l’ex vicepresidente del Genoa, Antonio Rosati, sono stati arrestati assieme ad altre sei persone nell’ambito di un’inchiesta della Procura di Milano su una presunta maxi-frode fiscale da 63 milioni. Qualche giorno prima, il 13 ottobre, la stessa procura ha chiesto il rinvio a giudizio per Renato Mannheimer e altre persone, nell’ambito del procedimento per associazione a delinquere finalizzata a reati fiscali che ruota intorno all’istituto Ispo, fondato dal sondaggista. L’elenco dei furbetti viene spesso arricchito da nomi noti, dai vip che sono passati dalle pagine di cronaca rosa a quelle di giudiziaria. Per non parlare dei tesoretti evasi o elusi dai big della moda, dell’industria, di Internet e anche del credito. Parliamo di miliardi. Spesso si tratta di nomadismo fiscale che consente di far figurare i margini mondiali di guadagno in Stati diversi dall’Italia, dalla Svizzera all’Olanda passando per l’Irlanda e il Lussemburgo. Per pagare meno tasse. C’è chi la chiama ottimizzazione. E se il fisco non ci casca ci si può sempre affidare a team legali qualificati, e ben pagati, che procedono a una transazione.
A METÀ OTTOBRE il patron di Luxottica, Leonardo Del Vecchio, ha chiuso il contenzioso con l’Erario e la Procura di Milano (che lo indagava per l’ipotesi di reato di “dichiarazione infedele”) firmando un accordo da 146 milioni sui dividendi maturati nel 2006 in Lussemburgo ma non ancora incassati.
Una soluzione – quella di transare – che era stata già scelta da altri big come Prada (ha sborsato 470 milioni, ma la procura di Milano come “atto dovuto” ha ancora aperto un fascicolo per “omessa o infedele dichiarazione dei redditi”, che vede indagati Miuccia Prada, Patrizio Bertelli, e il loro commercialista), Armani (270 milioni), Marzotto-Donà delle Rose (56 milioni), Bulgari (42 milioni) fino ai 20 milioni transati col fisco da Ezio Greggio. Anche molti vip, messi alle strette, hanno infatti deciso di pagare il loro debito: da Sophia Loren ad Alberto Tomba e Valentino Rossi. Sul fronte delle banche, si ricorda anche l’operazione Brontos che ha coinvolto Unicredit: l’istituto bancario ha già versato all’Agenzia delle Entrate 264,4 milioni, chiudendo la controversia amministrativa. Ma l’inchiesta penale è ancora in corso e vede, tra gli indagati, anche l’attuale presidente del Monte dei paschi di Siena Alessandro Profumo con l’accusa di frode fiscale. Secondo l’ipotesi della Procura di Milano, Unicredit e Barclays, tra il 2007 e il 2009
– tramite operazioni di finanza strutturata realizzate attraverso società lussemburghesi riconducibili alla banca inglese – avrebbero evaso il fisco per 245 milioni. A novembre 2013 la Cassazione ha affidato la competenza al tribunale di Roma. Riportando indietro le lancette del procedimento.
C’È CHI TRATTA e chi ne esce pulito. Il caso più recente è quello di Dolce&Gabbana. “Siamo persone oneste, W l’Italia”, hanno esultato gli stilisti milanesi al verdetto della Cassazione che li ha assolti con la formula “perché il fatto non sussiste” dall’accusa di aver evaso tasse su un giro di affari di 200 milioni spostando fittiziamente in Lussemburgo, la sede della loro società.
Sempre mercoledì 29 ottobre, a Berlino, 51 Paesi si sono impegnati a mettere fine al segreto bancario con uno scambio automatico dei dati sui conti privati a partire dal 2017. In quella occasione, il ministro delle Finanze Pier Carlo Padoan ha dichiarato che “l’Italia sta diventando famosa per come contrasta l’evasione”. Ma anche, aggiungiamo noi, per le transazioni milionarie e per i condoni.

il Fatto 31.10.14
Un terzo del paese è vicino alla miseria
L’ISTAT: in Italia oltre il 28% della popolazione rischia la povertà
Al 20% solo il 7,9% del redito
di Caterina Grignani


L’Italia è un po’ meno povera. Ma di poco. Secono i dati Istat del report “Reddito e condizioni di vita” (che si riferiscono al 2013), il 28,4% degli Italiani è a rischio povertà o esclusione sociale. Il calo, rispetto al 2012, è dell’1,5%. L'indicatore è formato dalla combinazione del rischio di povertà, dalla grave deprivazione materiale (composta dagli indicatori ufficiali dell’Unione europea) e dalla bassa intensità di lavoro. La percentuale, tradotta, ci dice che un italiano su quattro è a rischio povertà. L’indagine, condotta su più di 18 mila famiglie e circa 44 mila persone, restituisce un’immagine del Paese che traduce innumeri le debolezze di sempre. Un Sud povero e difficoltà maggiori per le famiglie numerose. Anche se nel Mezzogiorno si registra una diminuzione del 3,7%, il valore del 2013 è 46,2%: più del doppio rispetto al resto del Paese. E illeitmotiv della ricchezza concentrata nelle mani di una minoranza è realtà anche nella penisola: il 20% più ricco delle famiglie residenti in Italia percepisce il 37,7% del reddito totale, mentre al 20% più povero spetta solamente 7,9%. Il calo dell’1,5% è un dato motivato dalla diminuzione della quota di persone in famiglie gravemente deprivate, che è passata dal 14,5 al 12,4%. Una definizione che si spiega, nella quotidianità, con l’impossibilità di permettersi un pasto proteico almeno ogni due giorni, di affrontare una spesa imprevista di 800 euro o di scaldare adeguatamente la propria casa. Rimane stabile la quota di persone in famiglie a rischio di povertà (19,1%) e in leggero aumento sono quelle che vivono a bassa intensità lavorativa, passate dal 10,3 all’11,0%. Il capitolo redditi racconta un’Italia in cui la metà delle famiglie ha un reddito netto che non supera i 24.215 euro annui, che equivalgono a una busta paga mensile di circa 2.000 euro. Cifre che precipitano nel Sud dove il 50% delle famiglie percepisce 1.663 euro mensili per un reddito netto annuo di poco meno di 20 mila euro. La disuguaglianza, nel rapporto Istat, è misurata dall’indice di concentrazione di Gini che traduce il divario nella distribuzione del reddito. Un dato che è rimasto stabile rispetto agli anni precedenti. Altri dati sulla distribuzione della richezza arrivano dall’Oxfam, una confederazione di 17 organizzazioni non governative: dal 2009 i super-ricchi sono più che raddoppiati (le 85 persone più ricche al mondo hanno collettivamente aumentato la loro ricchezza di 668 milioni) e sono 805 milioni le persone che non soddisfano bisogni primari come l’alimentazione.

Repubblica 31.10.14
La politica dimentica i più poveri
di Chiara Saraceno


IL DATO della, piccola, riduzione del numero di persone a rischio di povertà ed esclusione sociale avvenuta tra il 2012 e il 2013 va accolto con molta cautela, non solo per la sua esiguità e perché si riferisce alla situazione di un anno fa, ma perché nasconde fenomeni divergenti, che nel loro insieme segnalano un rafforzamento delle disuguaglianze.
In primo luogo, l’unico dei tre indicatori che è diminuito riguarda la deprivazione grave, perché è calata la percentuale di persone che non può avere un pasto adeguato almeno ogni due giorni, che non ha mezzi per riscaldare a sufficienza l’abitazione e non avrebbe neppure 800 euro di risparmi per fronteggiare un’emergenza. Si tratta di situazioni al limite della sopravvivenza. Non vi è stato, invece, nessun miglioramento per quanto riguarda la percentuale di coloro che si trovano in condizione di povertà relativa e di coloro che vivono in una famiglia in cui nessun adulto (esclusi gli studenti e i pensionati) è occupato.
In secondo luogo, il miglioramento è distribuito in modo molto diseguale tra le varie aree del Paese e tra i diversi gruppi sociali. È stato molto più sostanziale nel Centro- Nord, dove il fenomeno della povertà e dell’esclusione sociale è relativamente contenuto, che nelle regioni meridionali, dove è tradizionalmente molto più diffuso ed era maggiormente aumentato negli anni della crisi. Come ha documentato anche il recente rapporto Svimez, il gap tra le condizioni di vita nel Mezzogiorno e il resto del Paese si sta ampliando, senza che ciò riesca ad entrare nel dibattito politico. Allo stesso tempo, il Mezzogiorno si conferma anche l’area del Paese in cui le disuguaglianze economiche sono maggiori, segnalando l’inefficienza e l’insostenibilità di un sistema economico e sociale locale e dei suoi rapporti con il sistema nazionale complessivo.
Il gap si sta ampliando anche tra vecchi e giovani e tra famiglie senza figli o con un solo figlio e famiglie con tre figli e più. Il miglioramento è concentrato tra gli anziani e le famiglie senza figli (conviventi) o con un figlio solo. Viceversa, la situazione è peggiorata per le famiglie con tre o più figli. Ciò è vero in tutte le aree geografiche, ma nel Mezzogiorno il rischio di povertà ed esclusione sociale riguarda ormai più del 40 per cento delle famiglie.
Il peggioramento dei nuclei famigliari numerosi significa che siamo di fronte ad un peggioramento della povertà minorile, un fenomeno che costituisce una caratteristica distintiva del nostro Paese, e che tuttavia raccoglie ancora meno attenzione nel dibattito pubblico e da parte dei policy maker rispetto alla questione meridionale e certamente non trova neppure l’inizio di una risposta nel bonus triennale per i nuovi nati introdotto con la legge di stabilità. Qualcuno potrebbero persino dire che è irresponsabile incentivare le nascite con misure di breve periodo se non si affronta prima in modo sistematico e coerente la questione della povertà minorile, che dipende in larga misura dalla combinazione di insufficiente reddito da lavoro e insufficienti, o assenti, trasferimenti che tengano conto del costo dei figli lungo tutto il percorso di crescita.
In ogni caso, forse non è comunicativamente attraente e pagante nell’immediato a livello politico, ma se c’è un tema che richiede un orientamento al futuro e non al passato, è proprio quello della povertà minorile: se non sul piano dell’equità, certo per i suoi effetti negativi di lungo periodo.

Repubblica 31.10.14
Leoluca Orlando, sindaco di Palermo e presidente dell’Anci Sicilia:
“Costretti a tagliare i servizi ai cittadini”
intervista di Alessandra Ziniti


PALERMO . «La settimana prossima, a Milano, il congresso nazionale dell’Anci sarà una polveriera. Lo dico chiaramente, se a livello nazionale si continuerà con questa inaccettabile subalternità al governo, noi adotteremo iniziative in autonomia». Leoluca Orlando, sindaco di Palermo e presidente dell’Anci Sicilia, è sul piede di guerra per i nuovi tagli alle finanze dei Comuni previsti dalla legge di Stabilità.
Sindaco, il sottosegretario Delrio dice che il contributo chiesto ai Comuni è sopportabile.
«E’ assolutamente insopportabile così come assolutamente inaccettabile è l’atteggiamento del governo, in continuità con il governo Monti e con quelli successivi, che scarica sui Comuni tagli sconsiderati costringendoci a far ricorso alla fiscalità locale». A chi gli ha fatto questa osservazione, Renzi ha risposto che l’aumento delle tasse locali sarebbe stata una “provocazione”.
«E’ un atteggiamento che mortifica le autonomie locali e i Comuni, come il mio, che sono diventati virtuosi con sacrifici e quelli che vorrebbero diventare virtuoso e non lo diventeranno mai. Palermo è un esempio da scuola: dopo due anni di sacrifici abbiamo oggi un bilancio in ordine, l’unico Comune da Roma in giù ma con questi tagli annunciati rischieremo di nuovo il dissesto».
Facciamo degli esempi: con i nuovi tagli quale sarà il conto che pagheranno i
cittadini?
«Bisogna dire chiaramente che i due miliardi di tagli che riguarderanno le Regioni non potranno riguardare le spese sanitarie. Quindi finiranno indirettamente sui Comuni andando ad aggiungersi al taglio diretto da 1,2 miliardi che poi in realtà sono 1,5 miliardi perché i 300 milioni di un taglio precedente che il governo si era impegnato a reintegrare non sono mai arrivati. Quindi alla fine alle casse dei Comuni verranno meno 3,5miliardi, il che vuol dire che non ci saranno i soldi per gli autobus, per l’assistenza domiciliare, per gli anziani, per le case, per le scuole e cosi via. Se a questo aggiungiamo che dal prossimo anno entra in vigore la nuova contabilità locale che ci obbligherà a segnare in bilancio il 50% (e non più il 20 o il 30) dei crediti esigibili, si capisce come la situazione a cui andiamo incontro è davvero insostenibile».
Tutte cose che Fassino ha fatto presente nell’incontro ma che il premier non sembra intenzionato a prendere in considerazione.
«Lo ripeto. Credo che nel congresso di Milano dovremo adottare delle iniziative forti contro questo governo che ha già mortificato i Comuni con quella scandalosa riforma del Senato delle Autonomie con i rappresentanti dei Comuni scelti dalle Regioni in aperto contrasto con la carta costituzionale che dà pari dignità alle istituzioni locali».

il Fatto 31.10.14
Senza pudore
Serra, il leopoldino dei debiti altrui
di Dav. Ve.


Davide Serra oltre all’amicizia con Matteo Renzi ha un tempismo perfetto per gli affari. Proprio quando Monte dei Paschi di Siena tenta di liberarsi di 1,2 miliardi di euro di crediti problematici – i cosiddetti non performing loan (Npl) – il finanziare residente a Londra dal 1995 decide di aprire una filiale a Milano del suo fondo speculativo Algebris per occuparsi proprio dei crediti problematici. E visto che può vantare una buona confidenza con il premier, essendone anche un generoso finanziatore (Serra e la moglie hanno versato 175 mila euro alla fondazione Open, cassaforte dell’ascesa renziana), può suggerirgli di fare una leggina per velocizzare il recupero dei crediti non onorati dai clienti delle banche. La proposta l’ha avanzata direttamente dalla Leopolda, dove Renzi gli aveva affidato il tavolo sul rilancio delle pmi in Italia.
Sostiene Serra che sia necessaria una “norma a costo zero” che permetta di ridurre i tempi di recupero dai sette attuali ai tre. “La banca che ti ha finanziato perde automaticamente ogni anno il 10% perché questo è quanto le costa in termini di liquidità e sofferenza, in dieci anni una banca ci rimette tutto”. Quindi “nel momento in cui uno non paga più, la banca è morta, dato che può sbagliare un prestito su 100. Una casa che magari valeva 100, le banche aspettano 8 anni, la vendono magari a 30. Poi arriva la Bce, ti fa l’esame della prostata e ti dice di chiudere”, chiaro riferimento a Mps, bocciata domenica dagli stress test.
Lui si dice pronto a rastrellare tutto, partendo con ogni probabilità proprio da quel miliardo di Rocca Salimbeni, ma per farlo suggerisce a Renzi una legge che gli consenta di recuperare il credito. Gli amici servono a questo: Monti per tentare di salvare Mps emise 4 miliardi di bond, ad aiutare Renzi arriva Serra.

il Fatto 31.10.14
Renzi paga i conti con 4 miliardi destinati al Sud
3,5 coprono lo sgravio Irap, 500 milioni fanno contenta la Ue sul deficit
di Marco Palombi


Ora che la manovra di Matteo Renzi è in Parlamento e comincia a essere analizzata nel dettaglio, si scoprono una serie di cosette non proprio commendevoli. Lo Svimez, per dire, ha appena parlato del deserto industriale e persino della natalità che è il volto della crisi nel Mezzogiorno e dalla legge di Stabilità viene fuori che il governo ha appena scippato al Sud 4 miliardi di euro per pagare i suoi conti: “Si rispettano le regole di bilancio Ue coi soldi del Mezzogiorno – ha dichiarato ieri Francesco Boccia, deputato Pd pugliese che siede nella non secondaria poltrona di presidente della commissione Bilancio – Dicevano che il Sud non avrebbe perso un euro, invece sono saltati 4 miliardi: difendo le misure redistributive con i denti, dalla diminuzione dell’Irap agli 80 euro, ma dobbiamo capire chi paga che cosa e come”.
ECCO, IL TAGLIO dell’Irap sulla componente lavoro – di cui beneficeranno per ovvie ragioni soprattutto le imprese del Centro-Nord – lo paga il Sud: 3,5 miliardi in tre anni, infatti, sono “distratti” proprio dai fondi destinati alle aree svantaggiate. Un altro mezzo miliardo, invece, servirà a placare la sete di austerità del commissario europeo Jyrki Katainen: fa parte di quei 4 miliardi e mezzo che dovranno portare il rapporto deficit-Pil al 2,6% dal 2,9 inizialmente previsto. Ancora Boccia: “Mi pare un’idea creativa, nella migliore delle ipotesi, della redistribuzione delle risorse necessarie al rilancio degli investimenti pubblici”. Tutto questo al netto della decisione di ridurre dal 50 al 25% la quota di cofinanziamento dello Stato rispetto ai fondi comunitari, che decurta a monte la cifra disponibile per il prossimo ciclo di programmazione. Curioso, infine, che in questo contesto si tenti di infilare nella manovra il contributo da 100 milioni per i lavoratori socialmente utili di Napoli e Palermo: la classica mancia per tenere sotto controllo i territori (meglio, la loro rabbia), che però è stata stralciata ieri alla Camera perché incompatibile con l’impostazione macro che dovrebbe avere una legge di Bilancio.
Oltre allo scippo, peraltro, bisogna registrare pure una sorta di beffa. Dai fondi europei 2007-2014, che vanno spesi entrol’anno prossimo, ai tempi dei governi Berlusconi-Monti si decise di dirottare la bellezza di 12 miliardi (su 60 totali programmati) verso una cosa chiamata “Piano di azione coesione”. L’idea era che, se regioni e enti locali erano troppo lente o incapaci di spendere bene i soldi, sarebbe stata l’amministrazione centrale ad aiutarli e indirizzarli. Ottima idea, ma i risultati sono pessimi: secondo la Ragioneria generale dello Stato, a oggi, di questi 12 miliardi sono stati effettivamente spesi solo 656 mila euro. È appena il caso di ricordare che negli ultimi due governi, compreso questo, la delega sulla materia è stata dell’attuale sottosegretario Graziano Delrio. Questo, però, non ha impedito la sottrazione di risorse. Torniamo al deputato pd Boccia: “La favola per la quale si dice che è colpa delle Regioni incapaci non regge più. Servono nomi e cognomi. Sanzioni e azioni conseguenti. Ma i soldi devono andare a quei territori. Qui utilizzando l’incapacità di alcune classi dirigenti, si nasconde la sottrazione di risorse al Sud”.
IERI, PERÒ, è stata anche la giornata in cui ha cominciato a scricchiolare una delle colonne propagandistiche che Renzi e il Pd (tranne rare eccezioni) hanno eretto a difesa della legge di Stabilità: questa manovra è espansiva, cioè dà ai cittadini più di quanto gli tolga (poi chi paga e chi prende, dentro il corpo sociale, è un’altra questione). Falso. Lo dice, con le cautele del caso, una fonte assai autorevole: Giuseppe Pisauro, presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, una sorta di autorità di controllo sui conti pubblici. Così Pisauro, in audizione in commissione Bilancio, ha risposto a una domanda sul tema: “Dal punto di vista economico questa manovra è restrittiva perché migliora il saldo strutturale. Convenzionalmente stiamo ragionando rispetto al tendenziale e rispetto a quello è espansiva”. Tradotto: di fatto il deficit scende (dal 3 di quest’anno al 2,6% del 2015), quindi la manovra è recessiva; il governo parla di manovra espansiva rispetto agli impegni che aveva assunto Enrico Letta in Europa e confermati da Renzi in aprile (cioè un deficit-Pil al 2,2% l’anno prossimo). La verità, dunque, è che questa manovra è recessiva, ma meno di quanto avrebbe dovuto essere se avessimo dato retta a Bruxelles. Ricorda quella vecchia battuta su Achille Occhetto: “Lei non sa chi sarei stato io”.

il Fatto 31.10.14
Claudio Fantoni L’ex assessore al Bilancio
“Balle sui conti e patti a destra Matteo era così già a Firenze”
Claudio Fantoni, che si dimise dal Bilancio: “Litigò con la Camusso pure sul 1° maggio. Vuole zittire il diritto di critica”
di Davide Vecchi


Il braccio di ferro con i sindacati, il denigrare i critici, la distanza tra parole e fatti: il modus renziano per qualcuno non è una novità. “L’abbiamo già visto a Firenze”. A ricordare gli anni da primo cittadino dell’oggi premier è Claudio Fantoni, ex assessore al bilancio di Palazzo Vecchio fino al 2012, quando lasciò l'incarico “perché era evidente che il sindaco usava la città come laboratorio per il suo di futuro”. Fantoni è, assieme a Pier Luigi Vigna, l’unico ad aver abbandonato il carro del vincitore nel momento in cui c’era la corsa a salirci. Dopo due anni ha scelto di rompere il silenzio perché è “preoccupato, posso parlare da cittadino”.
Per cosa?
Chi lavora con Renzi non può non riconoscerne le straordinarie capacità. Ciò che mi preoccupa è capire per cosa vengono impiegate. Se su tutto prevale il consenso, ci troviamo in una campagna elettorale permanente. Credo che il Paese abbia bisogno d'altro. Le faccio un esempio: Renzi si è sempre vantato di aver ridotto di un punto percentuale l’addizionale Irpef, è vero: firmai io il bilancio. La mossa portò 9 milioni in meno nelle casse del Comune e mettemmo 80 milioni di euro in più di Imu. Non si può certo lasciare intendere che abbassammo la pressione fiscale. Credo che i cittadini abbiano bisogno e diritto alla chiarezza.
Quindi gli 80 euro ai redditi bassi e quelli a sostegno dei neonati del 2015 porteranno nuove tasse?
C’è differenza tra carità e interventi strutturali. Il punto è capire se queste misure sono espansive o dispersive. Il bonus bebè, ad esempio, funziona comunicativamente ma è tutt'altro che una riforma. La priorità non è vincere le elezioni è mettere in sicurezza l'Italia, farla riprendere e funzionare. Non abbandonare la fascia più debole della popolazione. Possibile che la parola ‘povertà’ sia sparita? Capisco che occorra infondere ottimismo ma così si finisce per replicare quel signore che parlava di ristoranti e voli sempre pieni.
Da sindaco non dispensava annunci ottimistici?
Sì, appunto: nessuno è andato a controllare. I 100 punti delle primarie, i 100 progetti: pochi si sono tradotti in realtà. Anche in questo Firenze è stato solo un laboratorio.
In cos’altro?
In tutto. Le ostilità con la Cgil erano già aperte. Come l'auspicio di una scissione nel Pd in favore di un'alleanza con la destra. O l'idea di un Pd liquido, al punto da assomigliare molto ad un comitato elettorale personale, non è una novità. Come non lo è il fatto che noi non stiamo semplicemente conquistando gli elettori di centrodestra, cosa sacrosanta, noi stiamo portando il Pd in quel campo che è cosa assai diversa.
Ora è troppo tardi?
Mi pare che ormai ci abbia proprio piantato la tenda, dall'altra parte.
Lei è stato, fra l’altro, responsabile cultura del Pd: è ancora iscritto?
Non ho ancora rinnovato la tessera, mi sono preso qualche settimana di tempo per capire con chi è in che modo posso condividere l'idea di una partito che ponga al primo posto i contenuti. Il contenitore è importante ma non si giura fedeltà a quello. Voglio capire se permane ed è possibile uno spazio di democrazia interna effettivo oppure no. Se l'uguaglianza è al centro della nostra iniziativa. Se chi critica e ha un'idea diversa lo si denigra chiamandolo ‘gufo’ o se ci si ragiona e si risponde nel merito. Se ai partiti e ai sindacati gli si chiede di migliorare o se li si vuole neutralizzare per non avere impicci.
E nel partito della nazione si ritroverebbe?
Condivido la vocazione maggioritaria, ma non vorrei che questa si trasformasse in una pseudo vocazione totalitaria. Non condivido per nulla la propensione a ricercare e a proporsi come uomini della provvidenza. Il messianismo in politica ha sempre portato male. L'idea dell'uomo solo al comando non funziona. Ci vuole una squadra e non basta dire noi, bisogna esserlo. Ho l'impressione, invece, che quando Renzi usa il 'noi' sia un plurale maiestatis, una sorta di ipertrofia del singolare. Lui sa che le parole sono importanti, detta l’agenda, regala nuovi titoli e molto finisce presto dimenticato. Prendiamo l'articolo 18: pochi mesi fa disse che non era il problema, ora è diventato l'unico ostacolo all'economia. Delle due l’una: mentiva prima o mente ora? E perché?
Secondo lei perché?
Non saprei. Io so solo che l'ho visto all'azione. Come ho detto: l’uomo solo al comando. Guardi i membri del governo: ci sono ministri inesistenti, se non si fa mente locale alcuni neanche ce li ricordiamo: Alfano, Lupi, Madia. C'è solo Renzi.
Sono giorni caldi.
Quello che è successo ieri in piazza con gli operai è gravissimo. Un uomo che perde il lavoro deve andare incontro alla solidarietà non alle manganellate. Vanno velocemente individuate le responsabilità. Per quanto riguarda la Picierno credo si commenti davvero da sola. Accusare Susanna Camusso di avere vinto con le tessere false è fuori luogo ed anche imbarazzante. Vorrei sommessamente ricordare che un po' di caos lo abbiamo avuto noi nel Pd con le tessere delle primarie 2013. Io starei quantomeno più attento. Dopodiché su Serra dico che ciò che ha detto è semplicemente inaccettabile.
Renzi è intervenuto dicendo che alla Leopolda ciascuno può esprimersi liberamente.
Serra è stato invitato e ha coordinato uno dei tavoli della Leopolda, non passava di lì per caso. Ha fatto dichiarazioni sul diritto di sciopero che nemmeno la destra solitamente si concede e contestualmente ha annunciato che si iscriverà al Pd a Londra. Io penso che il segretario avrebbe dovuto dire che a uno con le opinioni di Serra la tessera del Pd non sarà concessa.
Renzi non ha tempo da perdere: vuole rinnovare il Paese.
Su questo sono d'accordo. Non c'è tempo da perdere. Come non c'è spazio per una conflittualità pretestuosa. La crisi c'è davvero. Ciò che non vorrei è che finissimo per mettere in campo l’hard love, quello che la destra repubblicana americana evoca per giustificare che ai più deboli non si dà una mano. Quello per cui, con la scusa di premiare il merito si dice che uno si deve arrangiare da solo, così da dare il meglio di sè stesso. È giusto che ciascuno cammini con le proprie gambe ma è altrettanto vero che non si parte tutti dallo stesso punto. Se un partito di sinistra non si occupa primariamente di questi tradisce se stessa.

il Fatto 31.10.14
Democratici attacchi
Tutti contro Zoggia


Il premier “vuole il voto”. I manganelli? “Alla Leopolda, Davide Serra dice cose gravi e inaccettabili sul sindacato e sul diritto allo sciopero e poi, tre giorni dopo i poliziotti vedono gli operai, abbassano la visiera del casco e caricano...”. Così ieri Davide Zoggia, bersaniano di ferro, ex responsabile Enti locali Dem, al Corriere della Sera. La conseguenza temporale è inoppugnabile, la violenza delle dichiarazioni di Serra, guest star della kermesse renziana, anche. Eppure, ecc pronta l’alzata di scudi dei renziani e non solo. Quasi Zoggia non fosse dello stesso Pd di cui il premier è segretario. In tre senatori gli replicano così: “Ci aspettiamo una smentita da Zoggia. Mettere in relazione le opinioni espresse a titolo personale da Davide Serra alla Leopolda con quanto è successo in piazza a Roma, è una provocazione non degna di un autorevole dirigente del Pd”, dicono Cantini, Morgoni e Scalia. Mentre i renziani Collina e Moscardelli: “Non ci sono le elezioni dietro l’angolo”. E Orfini: “Dichiarazioni discutibili e sbagliate”.

il Fatto 31.10.14
Silvio sente Matteo: il patto del Nazareno va


IL PATTO DEL NAZARENO procede senza intoppi. Lo ha detto, a quanto raccontano, Silvio Berlusconi nel corso di una riunione con i coordinatori regionali. L’ex Cavaliere ci avrebbe tenuto a dire che non c’è nessuna frenata sulle riforme e che non arretra nemmeno sulla legge elettorale. E si sarebbe lamentato degli articoli stampa che lo descrivono titubante sull'Italicum e pronto a frenare sulla riforma del sistema di voto per evitare che Matteo Renzi vada al voto anticipato.
A sostegno di questa tesi, fonti azzurre ci hanno tenuto a riferire che per rinsaldare l’asse ci sarebbe stata una telefonata tra il premier e B. martedì. E che anzi i due si sarebbero lasciati con l’intenzione di vedersi a breve.
L’ex premier ha fatto capire che Fi non ha intenzione di rallentare i provvedimenti ma avrebbe spiegato al suo interlocutore di dover discutere anche con il suo partito eventuali modifiche agli accordi. L’intenzione di Berlusconi, spiegano, è quella di ricevere assicurazioni che l'approvazione delle riforme non rappresenti per il leader del Pd uno strumento per andare a votare.

il Fatto 31.10.14
Greco: “Con queste leggi la corruzione vince”
Il Procuratore di Milano attacca sulla riforma annunciata da Orlando
“Quelle norme non risolvono i preoblemi. Serve una rivoluzione culturale
di Sandra Amurri


La domanda del procuratore aggiunto di Milano, Francesco Greco, coordinatore del pool reati finanziari, ai partecipanti del Convegno di Res Magnae “Emergenza corruzione: analisi e prospettive future”, è: “Si è mai fatto qualcosa di serio per combattere la corruzione? ”. La risposta è: no. “Non si combatte la corruzione con l’attuale legislazione. Non esiste una vera legge sul riciclaggio, una vergogna” spiega.
RICICLAGGIO che “è cambiato nel corso degli anni. Prima era solo l’ingresso di capitali illegali nell’economia pulita. Ora accade che la sottrazione degli utili, denaro pulito, finisce nei conti off-shore”. Ma “in quanto a norme in Italia”, parafrasando un noto allenatore di calcio, “siamo a zero tituli. Non esiste una legge sul riciclaggio che non si combatte di certo con l’attuale legislazione, compresa la norma approvata dal Parlamento”. Greco punta il dito sulla prescrizione che dai 15 anni degli anni ’90 è stata via via ridotta. “Siamo stati gli inventori dello scudo fiscale, ne abbiamo avuti tre con un totale di sbiancamento anonimo per quasi 500 miliardi di euro”. Evidenzia “una sensibilità spiccata a questi problemi degli elettori che pagano le tasse, mentre gli eletti evidentemente non ce l’hanno”.
FALSO IN BILANCIO, “il mio pallino, anche qui la situazione è ridicola”. Occorre “raddoppiare le pene per i reati contro la pubblica amministrazione. Parificare la corruzione pubblica a quella privata. Guardare con maggiore attenzione ai centri di spesa come le Regioni. Ai grandi gruppi dove gli ad e i presidenti vengono nominati dalla politica”. Premette di non voler fare polemica con il ministro della Giustizia Orlando, però tuona: “Le norme non risolvono i problemi, serve una rivoluzione culturale, tuttavia sono necessarie. Ho prestato molta attenzione ai decreti delegati sugli abusi fiscali che prevede sei anni di pena, risibile per uno che ha rubato un miliardo e seicento milioni”. Altro scandalo, le Fondazioni che ci vedono totalmente disarmati. Come si controllano? Chi lo deve fare? Vi rendete conto che ci sono fondazioni che gestiscono milioni e non è prevista nemmeno la revisione contabile? ”. Raffaele Cantone, Presidente di Autorità nazionale anti corruzione, invia un video messaggio in cui chiede al ministro per gli Affari Regionali, Lanzetta, “perché non viene esteso lo scioglimento per mafia dei consigli comunali anche a quelli regionali? ” Lei risponde: “Condivido, dobbiamo lavorarci”. Cantone si dice d’accordo con il collega Greco ed esprime fiducia nella collaborazione di Confindustria che deve allontanare i corruttori e uscire “dalla logica della punizione per passare a quella del premio, ora c’è chi paga un danno per essersi comportato bene”. Chiede attività sinergica, una prevenzione e una repressione che funzionino. “Centrale è il tema culturale affinchè il corruttore non sia più visto come piu intelligente degli altri”.
MENTRE la direttrice delle Agenzie delle entrate Rossella Orlandi propone una legislazione speciale simile a quella americana con agenti infiltrati, rilevatori della frode fiscale: “Scovare la corruzione è difficile perché c’è un patto fra corrotti e corruttori. Falcone diceva segui i soldi, un grande insegnamento. Basta con l’ipocrisia sul segreto bancario, chiedo maggiore trasparenza e l’accesso agli archivi finanziari”. Promotrice dell’iniziativa, la senatrice civatiana Lucrezia Ricchiuti che a microfoni spenti si sfoga: “La corruzione mina il patto di fiducia tra cittadini e istituzioni... ma certo che se facciamo le riforme con Verdini... ”, sospira. E sulla riforma Orlando promette battaglia.

Repubblica 31.10.14
I costi della politica
“Partiti spa” sull’orlo del fallimento senza fondi pubblici buco di 80 milioni
Il finanziamento statale è sceso dai 290 milioni del 2010 ai 40 previsti quest’anno Raddoppiano i contributi dei parlamentari, ma non basta. Il due per mille non decolla
di Ettore Livini


MILANO Le salamelle della Festa Democratica (lunga vita a loro) e i maxi-assegni di Silvio Berlusconi a Forza Italia & C. non bastano più. Il taglio del finanziamento pubblico ai partiti – sceso dai 290 milioni del 2010 ai 40 previsti quest’anno – ha colto la politica italiana in contropiede. E l’ex-Eldorado della “Partiti Spa” è sull’orlo del crac. Carta canta: i bilanci 2013 delle maggiori formazioni tricolori si sono chiusi in rosso per 82 milioni, 70 in più di due anni fa, malgrado la rocambolesca spending review avviata da tutti in zona Cesarini. Il raddoppio a 35 milioni della raccolta di contributi individuali – buona parte dei quali sborsati di tasca loro dai Parlamentari – è servito appena a limitare i danni: le donazioni con il 2 per mille non decollano, le campagne di tesseramento – complice la crisi – non tirano più, lo Stato chiuderà del tutto i rubinetti nel 2017. E la politica italiana si prepara a un 2014 ancora più nero dove si è già capito che ci sarà ancora da tirare (e molto) la cinghia.
Il piatto piange per tutti. Il taglio del tetto ai rimborsi spese individuali da 670mila a 170mila euro l’anno (scenderà a 80mila nel 2014) imposto dal Pd a senatori e deputati non ha impedito ai conti di Largo del Nazareno di chiudere in rosso per 10,8 milioni. Il Tesoriere Francesco Bonifazi, fedelissimo di Matteo Renzi, ha sforbiciato le spese per il personale (-20%), ridotto dell’80% quelle informatiche e sta provando a disdire in anticipo gli affitti di via del Tritone e via Tomacelli. Gli onorevoli democratici hanno versato nelle casse del partito 5,48 milioni, molto più dell’anno scorso (21mila euro Pierluigi Bersani, 18mila Rosy Bindi, 14.250 Maria Elena Boschi). L’orizzonte però resta buio visto che dallo Stato arriveranno quest’anno solo 12 milioni (erano 57 tre anni fa) e far quadrare i conti sarà un’impresa.
Le cose vanno ancora peggio nel centro-destra, totalmente Berlusconi-dipendente, salvo il Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano che, nato a fine 2013, non ha presentato rendiconto. Forza Italia (in rosso per 25,5 milioni) è stata tenuta a galla da una «donazione liberale» di 15 milioni dell’ex-Cavaliere, che garantisce con fideiussioni personali gli 83 milioni di disavanzo accumulati dal partito. Tutte le altre formazioni dell’area dipendano a filo doppio da San Lorenzo in Lucina. Fi ha donato 500mila euro al Movimento per le Autonomie di Raffaele Lombardo, 750mila a Fratelli d’Italia e 1,2 milioni al Movimento grande sud di Gianfranco Miccichè.
Il peggio, tra l’altro, rischia di dover ancora arrivare. Il bilancio del Popolo della Libertà (cui Forza Italia ha “condonato” un credito di 14 milioni) si è chiuso in passivo per 15,5 milioni e dice papale papale che sarà «impossibile far fronte» ad altri 13,9 milioni di debiti con Fi, malgrado il partito abbia chiuso 76 sedi locali, tagliato 70 posti di lavoro e ridotto le spese per 5,6 milioni. La rottamazione dell’ex Pdl, ormai politicamente una scatola vuota, rischia di essere complessa come quella di Rifondazione Comunista e Alleanza Nazionale, finite in liquidazione, sparite dall’arena politica ma capaci di macinare milioni di perdite anche post-mortem. Stessa sorte toccata all’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, fuori dal Parlamento, in perdita per 9 milioni («servirà una profonda spending review», ammette la relazione di bilancio) e travolta pure dalla richiesta di parcelle arretrate per 2,5 milioni dello Studio legale di Sergio Scicchitano, ex consigliere giuridico del magistrato.
In acque agitate, finanziariamente parlando, naviga pure la Lega di Matteo Salvini. Il popolo padano, forse a causa degli scandali di Trota & C., ha perso un po’ della sua passione. Le entrate da tesseramento si sono dimezzate, così come quelle delle feste di partito. I tagli alle spese (-20%) sono stati mangiati via dai 3 milioni di spese legali per il caso Belsito. E la voragine nei conti si è allargata a 25 milioni in due anni.
Un po’ meglio va alla meteora Scelta Civica che grazie ad alcune robuste donazioni (100mila euro dall’ex manager Parmalat Enrico Bondi, 60mila da Alberto Bombassei) e a 2,4 milioni di rimborsi elettorali è riuscita a consolarsi dei 2.234 euro incassati con il tesseramento chiudendo i conti in sostanziale pareggio.
Una storia a parte sono i conti del Movimento5Stelle. Grillo & C. hanno rinunciato a 42 milioni di finanziamento pubblico e i parlamentari pentastellati hanno versato oltre 7 milioni al Fondo garanzia per le Pmi rinunciando a parte dello stipendio. I gruppi di Camera e Senato hanno percepito 6,2 milioni come contributo omnicomprensivo del Parlamento e le pure spese di funzionamento della rappresentanza parlamentare hanno regalato un bilancio in attivo per 2,7 milioni. Manca però all’appello (a parte le auto-certificazioni del Blog dell’ex- comico) una reale fotografia certificata di tutte gli altri costi elettorali e per l’attività fuori dal Parlamento. Ma il fundraising all’americana tra elettori e sostenitori dei 5Stelle – nel profondo rosso di una politica italiana orfana di 250 milioni di aiuti pubblici – è forse davvero l’unica strada per riportare un po’ d’ossigeno alla disastrata ditta Partiti Spa.

Repubblica 31.10.14
La decisione dell’Avvocatura generale dello Stato
“Revocare il vitalizio ai parlamentari condannati”


PALERMO Revocare la pensione da parlamentare quei deputati e senatori che sono stati condannati in via definitiva a pene superiori ai cinque anni. È il senso di una lettera scritta dal presidente dell’Assemblea regionale siciliana, Giovanni Ardizzone, a Piero Grasso e Laura Boldrini. La lettera li informa di un parere durissimo dell'avvocatura generale dello Stato. «La vicenda che ha riguardato l'onorevole Salvatore Cuffaro - scrive Ardizzone - ha avuto riflessi di natura amministrativa. In considerazione della complessità della questione questa Assemblea ha richiesto un parere all'avvocatura generale dello Stato». Per l’Avvocatura «il vitalizio dei deputati, pur potendo assumere connotati di tenore previdenziale non trova titolo in un rapporto di lavoro bensì in un mandato pubblico elettivo assimilabile per certi versi alle funzioni onorarie e ad avvisto della scrivente la perdita dell'assegno vitalizio a favore del deputato del deputato regionale condannato in via definitiva ad una pena superiore ai 5 anni trova fondamento nel codice penale, rappresentando l'effetto automatico ex lege della pena accessoria della interdizione in perpetuo dai pubblici uffici». In sintesi, secondo il parere dell'avvocatura, non occorre varare alcuna norma ad hoc per togliere il vitalizio agli ex parlamentari condannati. A rischiare sono Marcello Dell'Utri, Nino Strano, Giuseppe Ciarrapico.

il Fatto 31.10.14
L’Unità tra l’uomo del gossip e l’ex Pdl
Oggi si decide sulla nuova proprietà
Ai dipendenti mancano 4 mesi di salarioe un pezzo di Tfr
di Tommaso Rodano


Per l’Unità è il giorno decisivo. Oggi scade il termine fissato dal commissario liquidatore per presentare offerte d’acquisto. Entro poche ore si saprà qualcosa di concreto sul fallimento o la rinascita del quotidiano fondato da Antonio Gramsci nel 1924. Per i lavoratori del giornale le ultime settimane sono state l’apice di un lungo periodo di tensione e incertezza. In questi giorni hanno assistito allo sgombero della redazione di viale Ostiense, a Roma, per la scadenza del contratto d’affitto. Oltre al danno di 4 mensilità di stipendio in arretrato, hanno scoperto un’altra beffa: l’azienda è inadempiente anche per una parte dei contributi. L’ultima tranche del Tfr del fondo complementare non è ancora stata versata a causa dei debiti accumulati con l’Inpgi, l’istituto di previdenza dei giornalisti. Mentre il premier/segretario Renzi promette di portare il Tfr in busta paga, una parte dello stesso Tfr scompare dalle tasche di chi lavora nel giornale di partito.
PER IL RILANCIO del “brand” Unità (Renzi dixit), la giornata di oggi è cruciale. Dopo le manifestazione d’interesse più improbabili - compresa quella di Daniela Santanchè e Paola Ferrari - è il momento delle offerte vere. L’eredità di Matteo Fago e della sua Nuova Impresa Editoriale, sommersa da circa 30 milioni di debiti, dovrebbe essere raccolta dall’editore del gossip Guido Veneziani. Il patron dei rotocalchi (Vero, Top e Stop, tra gli altri) avrebbe incassato l’investitura del Pd e del tesoriere Francesco Bonifazi, al punto da rilasciare interviste come proprietario in pectore. Al Corsera, Veneziani ha garantito che non trasformerà il quotidiano di Gramsci in una rivista di cronaca rosa, ma “se becchiamo nuda la fidanzata di Berlusconi, la pubblichiamo”. Queste le intenzioni, mentre di offerta e piano di rilancio ad oggi non si sa nulla.
Veneziani, però, non è solo. Ieri s’è presentato un nuovo pretendente, l’imprenditore Andrea Palombo. Consigliere comunale a Latina, eletto nel 2011 col Pdl prima di passare al gruppo Misto, il 34enne Palombo ha già all’attivo un’avventura poco fortunata. Nel 2012 ha acquistato le quote della Nuova Editoriale Oggi di Giuseppe Ciarrapico, editrice di Latina Oggi, sull’orlo del fallimento. La gestione Palombo è durata poco: la Neo è stata dichiarata fallita all’inizio di quest’anno. Con un rocambolesco cambio di testata (rinominandosi Il quotidiano di Latina) il quotidiano ha continuato ad andare in edicola, per poi cambiare proprietà due volte nel giro di poche settimane: prima a un fedelissimo dello stesso Palombo, poi a un editore di Anzio. Cosa possa spingere un piccolo imprenditore, con precedenti poco incoraggianti e unaformazione politica lontana dalla sinistra, a farsi avanti per l’Unità, è tutt’altro che chiaro: “È un’idea che m’è venuta in ferie - dice al Fatto - I miei consulenti studiano questo investimento da un mese e mezzo. Non c’è nessuna cordata, solo io e la mia famiglia. Non sono di sinistra, ma sono un editore puro, abbiamo un piano industriale solido”. Lo presenterà oggi pomeriggio all’Hotel Nazionale di Roma. Dopo tanti bluff, per lui e gli altri che hanno parlato dell’Unità, è tempo di mostrare le carte.

il Fatto 31.10.14
Com’era facile quando erano solo delinquenti
di Bruno Tinti


ALMENO con quelli di prima, tutto era chiaro. Erano delinquenti. Lui, B., si faceva fare dai suoi associati le leggi che gli servivano per non finire in galera: falso in bilancio depenalizzato di fatto, prescrizione abbreviata, processo breve, immunità per il presidente del Consiglio, legittimo impedimento, tutti i tentativi per bloccare le intercettazioni. E noi, i cittadini, protestavamo: sono leggi fatte per non andare in prigione! Ma con quelli di adesso non si capisce niente. Che nella compagnia bivacchino delinquenti non si ha notizia. Ignoranti, arroganti, anche un po’ stupidi sì; ma corrotti o corruttori non sembra ce ne siano. Eppure un progetto destabilizzante e antidemocratico ce l’hanno di sicuro.
Siccome, l’ho già detto, sono anche stupidi, lo dicono a chiare lettere (da non confondere con la casa editrice Chiarelettere, socio de Il Fatto Quotidiano spa).
Relazione del ministro Orlando al ddl contenente, tra l’altro, modifiche alla disciplina della responsabilità civile dei magistrati: “Il governo intende intervenire sul delicato tema della responsabilità civile dei magistrati, destinato a riemergere nelle fasi, come quella attuale, in cui si avverte l'esigenza di un riequilibrio delle posizioni politico-istituzionali coinvolte e del superamento definitivo di un conflitto ancora in corso. ” Traduzione: le modifiche alla legge 117/1988, che regola la responsabilità civile dei magistrati, non servono a meglio garantire i cittadini vittime di errori dei giudici, ma a “riequilibrare” il rapporto tra la politica e la magistratura. Ulteriore traduzione: “c’è un conflitto ancora in corso” cagionato (evidentemente) dal fatto che i giudici pretendono di applicare il codice penale al malaffare politico e quindi di fare indagini e processi e infliggere condanne (o assolvere se del caso), proprio come si fa per ogni altro cittadino. Traduzione finale: serve un “superamento definitivo”; non ci basta un sistema che impedisce di fatto che qualcuno (e dunque anche i politici) finisca in prigione (leggi svuota-carceri, ordinamento penitenziario infarcito di benefici, permessi e riduzioni di pena, prescrizione abbreviata). Noi vogliamo proprio che i politici non siano processati; e, se i giudici insistono a provarci, la nuova legge gli insegnerà a pensarci due volte prima di farlo.
UN SINTOMO importante di questo nuovo corso, più sfacciato ed esibito del precedente, è l’incredibile comunicato del ministro per le Riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento, Boschi, emesso il giorno stesso della sofferta deposizione del Presidente Napolitano. “Ancora una volta, oggi, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha dimostrato il suo profondo rispetto per le istituzioni repubblicane e l'alto senso dello Stato. Al Presidente della Repubblica va tutta la nostra gratitudine per la dedizione e la fedeltà alla Costituzione”.
Cioè: Napolitano è citato come testimone, ha l’obbligo di testimoniare (l’unica peculiarità legata alla sua carica consiste nel fatto che i giudici devono andare da lui e non lui dai giudici), fa una melina micidiale prima che sia possibile finalmente sentirlo, sembra che non menta e non sia reticente (ci mancherebbe altro) ; e Maria Elena scioglie un peana perché il primo cittadino italiano ha rispettato la legge.
Come dicevo, casi di delinquenza manifesta (alla B&C) non sono emersi. Ma allora perché lo fanno?

Corriere 31.10.14
Università, vietato assumere i parenti. Tranne le mogli
Bari, 31 assunzioni all’università. La legge vieta congiunti dei professori fino al quarto grado. Ma il rettore annuncia: «L’interpretazione non è univoca»
di Gian Antonio Stella

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Corriere 31.10.14
Pugni in strada agli sconosciuti
La violenza gratuita dagli Usa a Milano Una 30enne aggredita in centro: ha il naso rotto. Spesso un complice filma la scena
di Andrea Galli


MILANO L’ultima moda comincia in strada, finisce in ospedale e lascia segni che possono essere indelebili. Ad esempio c’è una ragazza, italiana, 30 anni, con il setto nasale frantumato che una sera, in un orario tranquillo (erano le nove d’un lunedì di due settimane fa) in un luogo affollato e trafficato (piazzale Loreto) è caduta a terra. Sangue e urla. E nulla di sua proprietà, dalla borsetta al computer, dal cellulare al portafoglio, che è stato portato via. Un colpo secco in volto e la fuga dell’aggressore. Roba da pugili e non da rapinatori. Un colpo preciso da knockout.
E infatti così si chiama il «gioco», che poi consiste nella folle azione di stendere i passanti con le mani e a volte anche con i calci: knockout game . Eccolo a Milano. L’abbiamo importato dall’America e ci stiamo specializzando. Anzi no, attenzione: importato fino a un certo punto. Una decina d’anni fa, in varie città, da noi c’erano stati agguati simili per modalità e per conseguenze. Dopodiché la moda era stata accantonata e adesso, da Torino a Roma, da Napoli a Genova, è tornata d’attualità, forse per il richiamo, la potenza e la «spinta» dei telefonini.
Sul knockout game ci sono state indagini, che rimangono difficili. Prendiamo il caso in questione. Una delle caratteristiche degli agguati è che ci siano dei testimoni, che i posti siano affollati: la violenza dev’essere «ammirata», documentata, filmata magari da un complice con un telefonino per riversare le immagini su Internet. Scegliere piazzale Loreto, dando per scontato che non sia stata un’aggressione a scopo di rapina oppure la vendetta di un conoscente della ragazza, come peraltro non pare ai carabinieri che hanno raccolto la denuncia, ha «preteso» una scelta precisa; è stato messo in conto il rischio legato alla presenza di telecamere esterne, ad esempio delle banche. I carabinieri sarebbero in possesso di una «diretta» della scena: al momento poco cambia.
C’è un ragazzo che sbuca da una macchina e sullo slancio colpisce la 30enne. D’accordo. Però chi è quel ragazzo? Come riuscire ad acquisire elementi per arrivare alla sua identità? Può aver commesso magari l’errore di esser sceso nella stazione del metrò di Loreto e di essere rimasto «memorizzato» nei filmati delle telecamere dell’azienda dei trasporti. Può essere. Ma potrebbe non bastare. La vittima ha affidato il racconto alla voce di un amico. Lei fa sapere che proprio non se la sente, che ormai — giura — ha paura a passeggiare per strada perfino in pieno giorno e lui ricostruisce: «Camminava dietro ad altre due ragazze che parlavano tra loro. Quelle hanno svoltato a un angolo e la mia amica ha proseguito. Ha notato un’ombra sgusciare dalle macchine parcheggiate e s’è ritrovata al suolo».
C’è il video delle telecamere di piazzale Loreto e potrebbe esserci in giro il video girato da un complice. Ma il confronto con l’America è ancora fortunatamente impari: negli Stati Uniti la moda è diventata una mania e la mania un vizio, ci sono centinaia di immagini di ragazzi e adulti colpiti, incapaci di difendersi, le mani che si muovono tardive per coprire le parti del corpo doloranti.

il Fatto 31.10.14
Atac, pignorati 77 milioni. Servizio trasporti a rischio


ALL’ATAC, l’azienda di trasporto pubblico romana, sono stati pignorati 77 milioni di euro in seguito a un contenzioso con Roma Tpl, un consorzio di aziende private. Una notizia che arriva proprio all’indomani della presentazione del piano industriale che dovrebbe portare, nel 2016, l’azienda capitolina all’equilibrio finanziario. Il Campidoglio ha dichiarato che ci sono rischi per il servizio e per questo garantirà le risorse necessarie per scongiurare il blocco. Il pignoramento riguarda il servizio reso dal Consorzio di trasporti nel periodo tra il primo gennaio 2006 e il 31 dicembre 2010. L’udienza è fissata per il 25 novembre. Per Atac, che resisterà in giudizio e che il 28 luglio di quest’anno ha presentato ricorso in Cassazione, il lodo arbitrale è stato pronunciato, nel 2009, da arbitri che ritiene privi di potere e non legittimati a giudicare la controversia.

La Stampa 31.10.14
Chiusa la Spianata, palestinesi in rivolta
Attentato a un rabbino, Israele blocca l’accesso: scontri e feriti
Abu Mazen: dichiarazione di guerra
di Maurizio Molinari


Guerriglia palestinese nelle strade di Jabel Mukaber, scontri fra soldati e ultranazionalisti ebrei al Muro Occidentale, palloni aerostatici sopra i quartieri arabi e il tam tam sulla «terza Intifada» davanti alla Via Dolorosa: a Gerusalemme l’atmosfera è rovente attorno alla Spianata delle Moschee, chiusa dalla polizia dopo l’agguato a mano armata contro il rabbino Yehudà Glick. Glick è uno dei leader dei gruppi ebraici che vogliono costruire il «terzo Tempio» sulla Spianata dove sorgono la Cupola della Roccia e la moschea di Al Aqsa. Si batte per difendere «il diritto degli ebrei di pregare» sul luogo del Tempio di Salomone e accusa il governo Netanyahu di «accettare il controllo di Hamas sulla Spianata».
Mercoledì illustra le sue tesi al Centro Begin e all’uscita apre il cofano dell’auto per mettervi il materiale illustrato. Gli si avvicina un motociclista che in ebraico con forte accento arabo chiede: «Sei tu Glick?». Al segno di assenso viene raggiunto da più colpi. Gravemente ferito, è ricoverato allo Shaarei Zedek e la notizia si trasforma in una scossa per Gerusalemme: è il primo tentativo di assassinio politico in città da quando nell’ottobre 2000 Rehavam Zeevi, ministro del Turismo e leader della destra, venne ucciso all’Hyatt da un killer del Fronte popolare di liberazione della Palestina.
Gli agenti dello Shin Bet, il controspionaggio, danno la caccia all’attentatore di Glick che viene trovato nella sua casa di Abu Tor all’alba di ieri. Si tratta di Muataz Hijazi, 32 anni di cui dieci passati nelle carceri israeliane per terrorismo. Le unità speciali gli chiedono la resa, lui combatte dal tetto e viene ucciso in un conflitto a fuoco di cui la città ha sentore, svegliandosi con il suono degli elicotteri che pattugliano i cieli. La reazione del governo di Benjamin Netanyahu è immediata. «Chiudiamo la Spianata delle Moschee» annuncia il ministro della Polizia Yizhak Aharonovich, spiegando che «né ebrei né arabi potranno accedervi per evitare ulteriori tensioni». Il timore è che l’agguato a Glick si trasformi nella miccia di scontri fra nazionalisti degli opposti campi.
Ma impedire l’accesso alle moschee incendia gli animi dei palestinesi. Abu Mazen, presidente palestinese, tuona da Ramallah: «Questa decisione equivale a una dichiarazione di guerra«. Il portavoce Nabil Abu Rudeineh aggiunge: «Nuocere ai luoghi santi è una linea rossa, non permetteremo a Netanyahu di superarla». L’unica chiusura della Spianata risale al settembre del 2000, per la visita dell’ex premier Ariel Sharon che suscitò una sollevazione popolare. A questo precedente si richiama Ahmed Tibi, parlamentare arabo-israeliano, in un comizio improvvisato davanti alla Porta dei Leoni. «Chiudere Al Aqsa è una provocazione nei confronti dell’intero Islam» dice, con a fianco il Mufti Mohammed Hussein e il capo del movimento islamico Sheik Abu Dabes, accusando Netanyahu di «voler innescare una guerra religiosa esacerbando la rabbia di Gerusalemme Est».
Mentre Tibi parla nei quartieri arabi inizia un domino di attacchi: petardi a Jabel Mukaber, sassi a Silwan e anche nella Città Vecchia, dove una turista viene ferita. Sulla Via Dolorosa un gruppo di militanti palestinesi grida «Allah-u Akbar» quasi in faccia ai militari israeliani. «Preghiamo qui perché non possiamo andare ad Al Aqsa, se vogliono la terza Intifada la avranno - dice Hussen, 50 anni, di Silwan - perché dall’inizio dell’occupazione nel 1967 nessuno aveva osato tanto». Il riferimento all’Intifada moltiplica grida e insulti ai soldati. È una sorta di parola d’ordine. Tensione c’è anche al Muro del Pianto, dove un folto gruppo di ultranazionalisti ebrei tenta di sfondare i cordoni della polizia e raggiungere la Spianata: «È il Monte del Tempio, ce lo hanno rubato» cantano. Il corpo a corpo si conclude con alcuni arresti.
Ma resta la sensazione che gli opposti estremi si preparino alla battaglia per Gerusalemme. Ecco perché dopo il tramonto il presidente israeliano Reuven Rivlin, chiede di «sradicare il terrorismo dalla capitale» adoperando un linguaggio che accomuna tutti i gruppi più violenti. Oggi la Spianata sarà riaperta, limitando però l’accesso ai più anziani. Le violenze a Gerusalemme sono una sfida difficile per Netanyahu, incalzato anche dall’offensiva diplomatica di Abu Mazen: la Svezia ha riconosciuto ieri lo Stato palestinese e Israele ha ritirato l’ambasciatore.

il Fatto 31.10.14
Gerusalemme
Sangue e scontri sul luogo di preghiera
di Roberta Zunini


Nemmeno di notte si ha l'illusione che il Monte del Tempio, per gli ebrei, o Spianata delle Moschee, per i musulmani, sia solo un luogo di culto e non di ricatto politico e scontro, anche fisico. A sorvegliarlo armati fino ai denti, mentre brilla la luna o scende la neve, rimangono gli uomini delle forze di sicurezza israeliane che di fatto dal 1967 “custodiscono” questo sito cruciale per l'islam, anche se sulla carta spetterebbe ai giordani. Ma questa notte ce ne sono stati più del solito a causa di ciò che era accaduto durante il giorno: la chiusura della spianata ai fedeli musulmani dopo che Yehuda Glick, un rabbino con l'ossessione del ritorno dei fedeli ebrei su quello che anche per l'ebraismo e il cristianesimo è un punto di riferimento religioso, era stato ferito da colpi di pistola sparati da un giovane palestinese. Il ragazzo, ucciso qualche ora dopo il tentato omicidio dalla polizia israeliana, era di Gerusalemme Est, la parte della Città Santa che dovrebbe diventare la capitale dello Stato palestinese, ma che Israele considera unica e indivisibile. Prima di ieri la Spianata delle Moschee era stata chiusa solo una volta, 14 anni fa, quando Ariel Sharon, leader del Likud, fece l'ormai storica e infausta passeggiata verso la cupola dorata del duomo della Roccia, scatenando la seconda intifada. Come allora anche oggi i palestinesi e i giordani hanno reagito con rabbia e definito l'iniziativa del governo di Bibi Netanyahu “una dichiarazione di guerra”, un “atto terroristico”, frasi pronunciate rispettivamente dal portavoce del presidente dell'Anp Abu Mazen e del ministro degli Esteri giordano.
SI TRATTA in effetti di una decisione che getta benzina sulla tensione ardente tra israeliani e palestinesi dovuta a una incalzante sequenza di brutalità, a cominciare dal rapimento e omicidio dei tre giovani coloni israeliani l'estate scorsa, l'atroce ritorsione contro un ragazzino palestinese, fino alla sanguinosa guerra a Gaza e quindi altre morti di adolescenti palestinesi durante gli scontri di queste ultime settimane con i soldati israeliani a Gerusalemme Est e nel resto della Cisgiordania per la decisione di Israele di confiscare terra del “futuro” stato palestinese e costruire decine e decine di nuovi alloggi negli insediamenti ebraici, considerati illegali dalla comunità internazionale. Disappunto che si è trasformato in critica anche da parte dell'Amministrazione Obama. La Casa Bianca è di nuovo in rotta con il premier israeliano e i suoi falchi per la questione dell'ampliamento delle colonie che ha fatto fallire il tentativo del segretario di Stato Kerry di riaprire i negoziati di pace diretti. La situazione è difficile, complicata e i palestinesi si rendono conto che i falchi del governo israeliano stanno rendendo impossibile la nascita di uno Stato palestinese perché ne hanno compromesso la contiguità territoriale. Per questo la Svezia, proprio perché “già tardi” ha annunciato il riconoscimento dello Stato palestinese. Un annuncio storico che ha fatto andare su tutte le furie sia Naftali Bennet, il potente ministro dell'economia santo protettore dei coloni e il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman che ha subito richiamato a Gerusalemme l'ambasciatore a Stoccolma, Yitzhak Bachman per consultazioni. Il neo presidente israeliano Reuven è molto preoccupato per lo sfilacciamento dei rapporti con il loro più forte alleato, gli Stati Uniti dove è nato Glick, l'invasato rabbino che con le sue incursioni proibite sulla Spianata potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso pieno di frustrazione dei giovani palestinesi. Domani Israele riaprirà la spianata per la preghiera del Venerdì ma solo a musulmani che hanno più di 50 anni.

La Stampa 31.10.14
Lizzie Doron
«Governo miope. Gli arabi non sono cittadini a metà»


Lizzie Doron è la scrittrice israeliana che ha vissuto a lungo nel quartiere di Silwan per raccontarne gli abitanti arabi. Che atmosfera si respira a Gerusalemme Est?
«Si vive in un limbo. Gli abitanti arabi sono una via di mezzo fra i palestinesi e gli israeliani. Hanno le carte di identità israeliane ma non possono avere il passaporto. Hanno pensioni, servizi sociali e sanità come tutti gli altri israeliani ma vivono in quartieri dove elettricità e luce sono garantite assai meno».
È questa la genesi delle proteste a cui assistiamo?
«La genesi è nel non aver voluto affrontare e risolvere i problemi dell’occupazione, che non è una questione concernente soprattutto la terra quanto invece le persone. Il problema, e la rabbia, nasce dalla situazione di incertezza che permea ogni attimo della vita degli abitanti di Silwan come dei altri quartieri arabi di Gerusalemme. Israele sta pagando il prezzo di aver chiuso gli occhi davanti a questa situazione, considerando i residenti arabi di Gerusalemme israeliani solamente a metà».
Cosa le dicono i suoi amici di Silwan in questi giorni?
«Sono stata a Gerusalemme per incontrarne alcuni, ci siamo dati appuntamento nella lobby di un hotel del centro. Sono arrivati e vedevo che erano in imbarazzo. Gli ho chiesto se temevano di causarmi problemi per il fatto di essere arabi e la risposta è stata: “La maggioranza dei dipendenti di questo hotel è di Silwan come noi e non vogliamo che in un momento come questo ci vedano seduti sui divani a prendere il caffè con israeliani”». [m. mo.]

La Stampa 31.10.14
La Svezia riconosce la Palestina come Stato, scoppia la crisi diplomatica con Israele

qui

La Stampa 31.10.14
Passata ’a nuttata, cosa resta del suo Teatro
A trent’anni dalla morte di Eduardo De Filippo, ecco l’eredità di un maestro del nostro tempo
di Masolino D’Amico


Cosa rimane di Eduardo trent’anni dopo la sua scomparsa? La risposta è, moltissimo. Le sue opere sono in stampa e si vendono; le registrazioni televisive dei suoi spettacoli, riprodotte prima in VHS e adesso in DVD, continuano a circolare. 
Interpreti di prim’ordine ripropongono regolarmente le sue commedie, chi nel segno della continuità (Carlo Giuffrè, il suo stesso figlio Luca) chi in quello della rilettura garbatamente adattata ai tempi nuovi (Toni Servillo e altri, tra cui il Marco Sciaccaluga di un recente, ammirevole Sindaco del rione Sanità). Le registrazioni curate dallo stesso Eduardo per la Rai-TV (con l’eccezione di una prima serie sciaguratamente distrutta dall’Ente) hanno consegnato alla posterità il documento di allestimenti in una veste molto vicina a quella per cui furono concepiti, il che smentisce il tradizionale assioma secondo il quale il teatro è scritto sull’acqua: anche se dell’attore, che fu immenso, nessuna pellicola può rendere il senso di comunione col pubblico. I famosi silenzi, le famose esitazioni di Eduardo, sempre dettati dal momento e dal clima che si era venuto a creare, qui non ci sono né ci potrebbero essere. Le registrazioni tuttavia sono preziose, sia perché spesso assai godibili in sé, sia come precedente col quale l’interprete moderno può confrontarsi, valutando se e come sia il caso di prenderne le distanze. Nella sua evoluzione Eduardo - l’Eduardo «serio» - da un realismo molto legato al momento passò all’esplorazione, talvolta con risvolti un po’ surreali, di temi più sottili, nascosti nel profondo della psiche umana. Non si può sradicare un capolavoro come Napoli milionaria! dalla città massacrata da quella guerra. Ma l’ambientazione letterale, per quanto gustosa, non è indispensabile ai due ancora più grandi capolavori dell’Eduardo «pirandelliano» - o meglio, postpirandelliano - vale a dire Le voci di dentro e Sabato, domenica e lunedì, due non-storie del non-detto, dove un avvenimento minuscolo (il sogno di un personaggio, il malumore di una brava casalinga) rivela ai membri di un gruppo familiare tensioni nascoste e odi repressi, con conseguenze che minacciano di diventare addirittura tragiche. E fuori dal suo tempo e buona in ogni contesto, non per nulla tradotta e replicata in tutto il mondo, è la materia di Filumena Marturano, col suo discorso sulla paternità che neanche l’odierna possibilità di risolverlo prosaicamente mediante il ricorso al DNA riuscirà mai a togliere dal repertorio. 
Non c’è dunque bisogno di sottolineare il valore di Eduardo. Il teatro queste cose le decide da sé. Finché i lavori «chiamano», impresari e interpreti li mettono in scena. Quando ciò smette di accadere, passano nelle collezioni dei classici e sono offerti solo alla lettura. Qui importa piuttosto sottolineare il fatto, primo, che ciò avvenga - ossia, che le pièces siano allestite - e secondo, che ciò avvenga, e con tanta frequenza, oggi, ossia in un’epoca sempre più dominata dal predominio dell’immagine sulla parola, e del medium (cinema, Tv, web) sul contatto con la persona in carne e ossa. Se esiste tanta gente che, magari dopo aver fruito delle predette registrazioni, compra un biglietto per recarsi ad ascoltare il dettato di quei testi pronunciato da altri, vuol dire che non è ancora morto quello che una volta era considerato un bisogno primario: avere davanti un individuo che narra. Spesso sentiamo anche rimpiangere la decadenza della nostra lingua. Ma esiste, ancora, tanta gente che a quanto pare apprezza il suono di un parlato vivo, tanto più vivo quando non è koinè più o meno artificiale, ma schiettezza. Non sarà il nostro dialetto (come riduttivamente una volta lo si chiamava), ma la sua autorità ci mette in contatto con un passato nel quale non possiamo non riconoscerci. La nostra (il napoletano, NdR), disse una volta Luca De Filippo, è una lingua di cui non ci dobbiamo vergognare in Europa. Dove Eduardo (peraltro anche in inglese, io ricordo bene Laurence Olivier nella parte di nonno Antonio, «creata» dall’impagabile Enzo Petito), non ha mai smesso di commuovere, divertire e fare riflettere.

Corriere 31.10.14
Edoardo mio padre
Luca tra ricordi e nostalgia
«Sapeva osservare l’anima»
colloquio con Maurizio Porro


Siamo orfani inconsolabili di Eduardo da trent’anni giusti giusti e il teatro, senza far retorica, da allora ha un posto vuoto. Per il lancio della collana di dvd che raccoglie tutte le commedie di De Filippo riprese dalla Rai, Luca, il figlio d’arte di una famiglia d’arte, ci regala un ricordo del padre. Ricorrenza di onore e gloria con serate, studi, convegni in università, libri (uno nuovo di Moscati), memorie, un bel ciclo su Rai5, l’unica rete nel cui vocabolario c’è la parola Teatro e quel magnifico Le voci di dentro , bestseller di Toni Servillo di nuovo a Milano.
«Mi fa piacere. L’interessamento vuol dire sensibilità e voglia di approfondire. L’attualità di Eduardo sta non nell’essere veggente ma fine osservatore dell’animo umano e della società: l’uomo non cambia mai».
Lei ha iniziato a lavorare con lui a 8 anni, il Peppeniello di «Miseria e nobiltà». Come vedeva il suo lavoro?
«Un lavoro di pazienza, ma con una forte intelligenza. Ricordo proprio all’Odeon di Milano con la commedia di Scarpetta, la prima ripresa diretta Rai di un evento dal vivo, il 30 dicembre ’55. Lui amava Milano ma per alcuni anni non ci andò perché diceva che aveva quasi tutti i teatri con sale e camerini sotto terra, compreso il Manzoni dove fece l’ultima apparizione nel 1980».
Strehler allestì una memorabile «Grande magìa»: che rapporto aveva con suo padre?
«Una sera al Lirico facevo un recital, lo invitai a partecipare e lui accettò e disse una poesia di mio padre, Palcoscenici . Ho un ricordo magnifico: dietro le quinte mi abbracciò, si mise a piangere. Pare che Strehler si nascondesse a veder le prove al Piccolo di Ogni anno punto e a capo con Parenti e la Colli».
Per chi aveva riconoscenza suo padre?
«Eduardo, Peppino e Titina dicevano sempre che il definitivo lancio della compagnia lo dovevano al critico del Corriere , Renato Simoni, che aveva scritto benissimo di loro».
E del suo repertorio cosa preferiva?
«Credo che Napoli milionaria fosse tra i suoi lavori più amati. Descrive il disfacimento morale in quel momento conseguenza della guerra ma che da allora si è incancrenito. Oggi lo viviamo appieno. Del resto la divisione tra Cantate dei giorni pari e dispari sta proprio qui: la diga, l’irrimediabile confine che c’è tra prima e dopo la Seconda guerra mondiale».
Quali furono i suoi amici di palcoscenico?
«Ho detto di Strehler, anche se purtroppo non ha visto La grande magia con l’amico Franco Parenti, che recitò Uomo e galantuomo , per cui conobbe poi e divenne amico di Andrée Shammah, sostenendone la causa e il teatro dove andrò a Natale».
Col cinema ci fu un rapporto di odio amore, interruptus.
«Ci sono titoli belli e riusciti, derivazioni del palcoscenico come Non ti pago e Napoli milionaria , altri venuti male come Spara forte più forte non capisco con Mastroianni, da Le voci di dentro . Per lui il cinema era qualcosa di utile ma non necessario come il teatro, molti film li aveva fatti solo per comprare e restaurare il teatro san Ferdinando a Napoli».
Tutti i grandi vengono dal varietà, dall’avanspettacolo.
«Per Eduardo e la famiglia è verissimo. Al varietà divenne amico e partner di Milly e Ogni anno punto e capo era il riassunto di questo felice periodo di gioventù in cui scriveva sketch per la rivista. Così nacque, col secondo atto, Natale in casa Cupiello , cui poi aggiunse il primo e il terzo in forma di commedia».
Com’erano i rapporti con Totò?
«Magnifici e profondi per merito del varietà che avevano frequentato insieme in lunghe tournée “scavalcamontagne”».
Suo padre aveva un ingegno multiforme: ma c’è uno stile?
«C’è ma è abbastanza unico, nel senso che ogni commedia ha una sua particolarità: riconosci che è lui, ma all’interno ciascuna ha un suo modo d’essere. Ciò che le unisce poi è che alla fine nessuna è davvero realistica«.
Eppure in «Sabato, domenica e lunedì» si cucinava il ragù in scena e al Nuovo si sentiva il profumo entrando.
«Con quel testo si divertì enormemente perché chiese alla sua sarta, Evole, ex ballerina che aveva sfilato orgogliosa con le Bluebell inglesi, di cuocere ogni sera le cipolle perché nel secondo atto si mangiavano le zite al ragù: una disperazione per gli attori che cenano dopo teatro».
Mai visto suo padre depresso, non motivato?
«Non ho visto una sola volta Eduardo senza voglia di andare in scena, anche col mal di denti, sempre con un senso di dovere e rispetto. Anche quando aveva paura, come con Filumena Marturano , anche quando alcuni lavori non andarono bene, tanto che alcuni titoli devono ancora trovare una loro collocazione storica».
Oggi c’è richiesta dei suoi testi, non solo per il trentennale.
«C’è richiesta e anche dall’estero, pur sapendo che il lavoro della traduzione è difficile e arduo, ma a Parigi hanno inserito alla Comédie Francaise La grande magìa con regista inglese e attori francesi, a Londra Judy Dench ha recitato Filumena. Con l’America il rapporto è più difficile, speriamo che in futuro si ravvedano».
Lei sta portando in giro «Sogno di una notte di mezza sbornia»: la prossima mossa?
«Ho in mente due titoli ma mi concedo qualche mese per decidere: La paura numero uno e Non ti pago ! . La paura di cui parla mio padre è quella della guerra. Così nella storia si decide, per placare la paura che blocca la vita quotidiana di una famiglia, di far scoppiare una finta guerra con una finta trasmissione radio: insomma, si parlava già della realtà virtuale, attualissima».

La Stampa 31.10.14
Castoriadis, il ribelle che ispirò i liberali francesi
Filosofo radicale, psicanalista, economista: una biografia in Francia rivaluta un pensatore influente e misconosciuto
di Massimiliano Panarari


Cornélius Castoriadis, chi era costui? A riscoprire una delle più interessanti (e misconosciute) figure di intellettuale del secondo Novecento (anche se lui per primo rigettava l’etichetta di intellò) ci pensa la sua prima biografia appena uscita in Francia. E anche il fatto che sia stato necessario attendere tanto tempo, persino nel Paese dove l’originale (e per certi tratti visionario) filosofo dell’«immaginario sociale» e del «fare pensante» ha vissuto e scritto, prima dell’uscita di un volume che ne ricostruisse integralmente esistenza e pensiero molto ci dice della sua «irregolarità».
A colmare tale lacuna, e a raccontare quanto, al di là delle apparenze, questo eccentrico pensatore di origini greche sia stato importante per la scena culturale transalpina, ci pensa nel suo Castoriadis. Une vie (La Découverte, pp. 532, euro 24) lo storico delle idee François Dosse.
Castoriadis (1922-1997) fu filosofo e psicanalista (disciplina che esercitò anche professionalmente), lavorò come economista al segretariato internazionale dell’Ocse ed ebbe (alla fine) riconoscimenti accademici rilevanti (negli anni Ottanta divenne directeur d’études all’École des Hautes Études di Parigi), ricevendo gli apprezzamenti di protagonisti importanti del mondo scena culturale come Edgar Morin (che lo definiva un «titano dello spirito») e Pierre Vidal-Naquet (che lo considerava un «genio»). Ma rimase sempre marginale perché troppo «fuori dalle righe»: quindi una sorta di eminenza grigia (o, meglio, rossissima) della sinistra eterodossa, la cui influenza fu sotterranea e carsica, e assai meno evidente di quella dei filosofi-star della French Theory (da Foucault a Derrida, passando per Lacan). E che, però, si rivelò durevole e, soprattutto, trasversale, arrivando a toccare intellettuali politicamente molto distanti dalla matrice delle sue concezioni. Che era quella del socialismo di sinistra novecentesco e del filone dell’autogestione e delle repubbliche dei consigli, ovvero quel peculiare intreccio di marxismo libertario e anarchismo che aveva messo al centro della propria teoria e (difficoltosissima) prassi una certa nozione di autonomia, nella quale il pensiero di Castoriadis troverà il proprio fulcro. Ed era precisamente quella che gli attirò appunto l’interesse, a partire dagli anni Ottanta, della pattuglia di intellettuali liberali (e social-liberali) che avrebbero riorientato la battaglia delle idee in Francia, da François Furet a Pierre Nora, da Bernard Manin a Marcel Gauchet, da Jacques Julliard a Luc Ferry e Alain Renaut. E, in primis, del filosofo politico Claude Lefort che ebbe nel corso degli anni una «conversione» liberaleggiante e con cui Castoriadis aveva condiviso una giovanile militanza trotzkista e fondato, nel 1947, la rivista Socialisme ou barbarie, alla quale questo libro attribuisce una rilevanza addirittura superiore, nella preparazione del clima intellettuale del Sessantotto, a quella del situazionismo.
Il testo di Dosse si incarica innanzitutto di ricostruire le ragioni di questo mancato riconoscimento pubblico in seno a una nazione che ai suoi intellettuali «impegnati» ha sempre eretto monumenti (trasformandoli pure in merce di esportazione). E di svelare il «mistero» di un pensatore che, pur essendosi collocato su prospettive politiche assai lontane, entrò tuttavia in sintonia profonda e venne riconosciuto come riferimento a cui guardare proprio dagli artefici della revanche del liberalismo. La ragione – secondo lo studioso – consiste nella ricollocazione al centro del dibattito (e delle discipline) di quella filosofia politica (seppur, in qualche modo, rivisitata e contaminata) che il «Sessantotto pensiero» e il post-strutturalismo avevano emarginato. Nonché, la critica serrata e intransigente (da sinistra) di Castoriadis al socialismo reale e al totalitarismo comunista, che si affiancò a quella dei nouveaux philosophes e della deuxième gauche e circolò moltissimo tra gli esponenti della rinnovata cultura politica liberale, cementando, a suo modo, una «comunità di pensiero». D’altronde, la stessa idea di rivoluzione, così centrale nelle sue teorizzazioni, nulla ha a che fare con la violenza politica, ma costituisce l’accelerazione di quel progetto di «auto-trasformazione esplicita» delle istituzioni da parte della società (e, dunque, in nome dell’autonomia) che, a ben guardare e mutatis mutandis, non poteva dispiacere al gruppo di intellettuali che avrebbe contribuito all’affermazione del neoliberalismo in Francia.
Sliding doors, per così dire. Ben differenti da quelle, molto solide e tanto tipiche di un certo gusto architettonico, dell’appartamento di Castoriadis a rue de l’Alboni, nel XVI arrondissement della capitale, che, a inizio anni Settanta, Bernardo Bertolucci trasformò in set ambientandovi il suo celeberrimo Ultimo tango a Parigi.

Repubblica 31.10.14
L’ultima ferita della Grande guerra “L’Italia riabiliti i militari fucilati”
Venivano da zone di confine, erano invisi ai superiori: a centinaia furono
giustiziati per piccole disobbedienze e dopo processi sommari
L’appello nel centenario del conflitto: “Siamo l’unico Paese a non averli perdonati”
di Paolo Rumiz


REINTEGRO a pieno titolo dei fucilati del ‘15-’18 nella memoria nazionale. Vittime come gli altri. Soldati che hanno sofferto come gli altri. Manca questo riconoscimento perché possa dirsi completa in Europa la partecipazione dell’Italia alle onoranze ai Caduti della Grande guerra. I principali Paesi belligeranti — Francia, Germania, Inghilterra — ci hanno pensato da tempo, con atti politici, interventi presidenziali, monumenti, e l’aggiornamento delle liste dei Caduti. Quasi ovunque i condannati sono stati tolti dal ghetto della vergogna e della rimozione. Manca il nostro Paese, quello che ha fatto più largo uso della giustizia sommaria: 750 fucilati con processo, 200 colpiti da decimazione per estrazione a sorte, e un numero incalcolabile di soldati uccisi per le vie brevi dai loro ufficiali o dai carabinieri per codardia, ribellione o episodi di pazzia.
«Se non ora, quando?», si chiede il sostituto procuratore di Padova Sergio Dini, ex magistrato militare, che ha già chiamato in causa il ministro della difesa Pinotti. «Assistendo a luglio al concerto di Redipuglia, dove il maestro Muti ha radunato orchestrali di tutti i Paesi belligeranti, il presidente Napolitano ha fatto un passo importante di riconciliazione con l’ex nemico. Ora manca solo la riconciliazione con noi stessi, l’abbraccio ai ragazzi della mala morte. Le Forze armate dovrebbero capirlo, a meno che non vogliano negare che quelle esecuzioni — dal loro punto di vista — siano servite a qualcosa. Se i fucilati ebbero una funzione, essa sia riconosciuta. Non farlo sarebbe accanimento. Anche perché si fucilarono solo soldati semplici, povera gente. Vogliamo portarci dietro ancora questo anacronismo di classe?».
E dire che l’Italia è stata uno dei primi Paesi a porre il problema con film ( Uomini contro , di Francesco Rosi), con libri e ricerche storiografiche. Ed è stato anche il primo in Europa a erigere un monumento ai fucilati. È accaduto diciotto anni fa a Cercivento, sui monti della Carnia, sul luogo di una delle più ingiuste esecuzioni, il pra dai fusilâz, un prato che per decenni i valligiani rifiutarono di falciare in segno di protesta. Una memoria tenace, passata di bocca in bocca, che ha dato vita a un corpus di memoria orale ancora vivissimo e al quale nel ‘96 il sindaco Edimiro Della Pietra, mettendosi contro le autorità militari e rischiando una denuncia di apologia di reato, ha voluto dar forma di monumento.
Quella di Cercivento è una storia che riassume le altre. È il giugno del ‘16. Gli austriaci stanno sfondando su Vicenza con la Strafexpedition. Nella zona del Monte Coglians c’è il battaglione alpini Tolmezzo, considerato infido dagli ufficiali «forestieri» per via dei cognomi mezzi tedeschi dei carnici arruolati e dei tanti di essi che hanno lavorato da emigranti in terra d’Austria. Hanno una perfetta conoscenza del terreno, ma gli alti comandi non si fidano a sfruttarla e insistono a ordinare azioni suicide. Quando viene deciso un attacco alle rocce della cima Cellon in pieno giorno e senza supporto di artiglieria, alcuni soldati suggeriscono di compiere l’assalto col favore della notte. È quanto basta perché il comandante, un napoletano di nome Armando Ciofi, coperto dal tenente generale Michele Salazar, comandante della 26ª divisione, gridi alla «rivolta in faccia al nemico» e ordini la corte marziale.
Il processo si svolge di notte, in una cornice lugubre, nella chiesa che il prete di Cercivento, terrorizzato, è obbligato a desacralizzare. Sul processo incombono le circolari Cadorna, che chiedono «severa repressione», diffidano da sentenze che si discostino «dalle richieste dell’accusa» e ricordano il «sacro potere » degli ufficiali di passare subito per le armi «recalcitranti e vigliacchi». Gli accusati sono decine, e ciascuno ha nove minuti per l’autodifesa.
Un’ora prima dell’alba, la sentenza. Quattro condanne alla fucilazione. Tutti carnici: Giambattista Corradazzi, Silvio Gaetano Ortis, Basilio Matiz e Angelo Massaro, emigrante in Germania che ha scelto di rientrare «per servire la patria». Mentre lo portano via grida: «Ecco il ringraziamento per quanto abbiamo fatto». Il prete, don Zuliani, confessa i morituri. È sconvolto, propone inutilmente di sostituirsi ai soldati davanti al plotone. Dopo, non vorrà più rientrare nella chiesa «maledetta » e diverrà balbuziente a vita. La prima scarica uccide tre condannati, solo Matiz è ferito e si contorce urlando. Lo rimettono sulla sedia. Nuova scarica e non basta ancora. Perché sia finita ci vogliono tre colpi di pistola alla testa.
La gente assiste senza parole. Solo un vecchio grida: «Vigliacchi di italiani, siete venuti a portare guerra! Con gli austriaci abbiamo sempre mangiato, e voi venite ad ammazzarci i figli!». L’ufficiale risponde secco: «Vecchio taci, che ce n’è anche per te». L’intero reparto sarà trasferito per punizione sull’altopiano di Asiago e lassù, un po’ di tempo dopo, il comandante Ciofi sarà fatto secco in zona non battuta da fuoco nemico, quasi certamente per vendetta. Settant’anni dopo, il nipote di Gaetano Ortis, un militare di carriera, chiederà la revisione del processo, ma il tribunale militare di sorveglianza di Roma risponderà con una beffa che resterà nella storia: la domanda non può essere accettata «perché non presentata dall’interessato».
Pure Caporetto sarà pagata da soldati semplici. L’allora vescovo di Treviso, Longhin: «Se i tedeschi saranno come questi nostri sciagurati italiani, cosa ci resterà? Qui si fucila senza pietà. Preghiamo». E intanto nessuno toccherà i veri responsabili della disfatta, i generali Capello o Badoglio. Il secondo sarà addirittura promosso. Diversa la sorte di Andrea Graziani, noto per avere fucilato uno che l’aveva guardato con la cicca in bocca. A guerra finita sarà trovato morto lungo la ferrovia dopo il passaggio del suo treno. Ma molto più a lungo si trascinerà nella memoria nazionale il senso di un’irrisolta ingiustizia.

Repubblica 31.10.14
Se Leopardi al cinema diventa un supereroe
di Valerio Magrelli


Il successo di Mario Martone sta nell’aver ridato vita a un archetipo romantico trovandolo, però, dentro i compiti in classe dei ragazzi

LA NOTIZIA è di quelle da non credersi: Il giovane favoloso supera i 3 milioni di euro al box office ed è già diventato il film italiano più visto della stagione. Se all’inizio si era parlato di un possibile duello con il Pasolini di Abel Ferrara, adesso le sue ambizioni sono cresciute. Altro che scontro fra poeti.
LEOPARDI mira assai più in alto, fino a insidiare l’Empireo dei Supereroi. Siamo di fronte a cifre da blockbuster, che consentono all’opera di Martone di confrontarsi con corazzate internazionali. Basti dire che ieri il numero dei suoi spettatori è stato superiore a quello di chi ha seguito i Guardiani della galassia , basato sui personaggi della Marvel Comics (che fra l’altro poteva contare su un numero di copie più che doppio, oltre allo sfruttamento di una sola settimana).
Come non stupirsi, scoprendo che Rocket, procione geneticamente modificato, Groot, alieno simile a un albero umanoide, e Groot, creatura rinata da un ramoscello e tenuta in un vasetto, si scontrano contro l’autore della Ginestra? Sono bastate le prime due settimane di programmazione perché la pellicola, interpretata da un gran- de Elio Germano, superasse il mezzo milione di spettatori. Registrando una media sala che è sempre stata e continua ad essere la più alta dal giorno di uscita, Leopardi mostra un trend di crescita che ha visto aumentare gli incassi del secondo week-end rispetto a quelli del primo, segno di un clamoroso effetto tam-tam. Fra chi? E qui arriviamo alla seconda sorpresa: soprattutto fra i giovani.
Aneddoto: trascinato al cinema da mia figlia ventiduenne, sono rimasto stupefatto nel trovare solo due posti in prima fila, circondato da un pubblico undertrenta. Non c’è molto da aggiungere: sbarazzatosi di Pasolini, liberatosi dei guardiani di ogni galassia possibile, Il giovane favoloso aspetta ormai di battersi giusto con L’uomo ragno.
L’accostamento, si badi, non è casuale, e chiama in causa le ragioni di un simile, benemerito successo (perché è superfluo dire quanto dobbiamo esultare per l’arrivo di un paladino italiano e poeta). Infatti, Spiderman è “uno scolaro attento e studioso, ma anche timido ed impacciato” (Wikipedia dixit), trasforma- to in imbattibile paladino della giustizia dalla puntura di un animale velenoso. E chi è Leopardi, se non un tranquillo bambino che diventa gobbo per la sua dannosissima passione della lettura? La forza nel primo, l’intelligenza nell’altro, appaiono entrambi prodotti di una mutazione e insieme di un dolore. Inutile spiegare quanto la malinconia della New York a fumetti o ripresa nei film, somigli a quella Recanati illustrata da Martone. Il punto focale, tuttavia, sta altrove, ossia nel celibato cui si votano questi due autentici cavalieri templari. Né cambia molto il fatto che la ragione dipenda ora dalla necessità dell’anonimato, ora dalla calamità della bruttezza. Ciò che più conta è l’atroce solitudine, sentimentale e erotica, di entrambi. Solitudine che, del resto, fa tutt’uno con la loro rivolta verso il conformismo della società. Nel suo feroce odio per l’ipocrisia cattolica e progressista, Leopardi (peraltro esperto nel tradurre La guerra dei topi e delle rane) va incontro all’Uomo Ragno e alle sue battaglie in difesa dei deboli, degli oppressi, degli irregolari. Ora, però, bisogna svelare l’arcano di questa alquanto bizzarra congiunzione. Per farlo, occorre convocare un terzo personaggio, avvicinando il poeta deforme al Gobbo di Notre Dame. Ciò che li unisce (e unisce Spiderman al Cavaliere della Valle Solitaria, a tanti vendicatori senza donna, a Superman o a Batman, per non dire del Corvo, addirittura tratto da E. A. Poe), sono elementi comuni a ogni eroe romantico, primi fra tutti proprio quelli esaltati da Victor Hugo.
In breve, Leopardi è semplicemente L’uomo che ride ( altro romanzo di Hugo), il bambino prodigio, nobile e sensibilissimo, rapito dagli zingari e sfigurato, per diventare un fenomeno da baraccone. Vogliamo aggiungere Elephant man? Il gioco è chiaro. Il meritato successo di Martone sta nell’aver ridato vita a un secolare archetipo romantico, trovandolo, però, dove nessuno l’aveva mai cercato: dentro i compiti in classe di ragazzi i quali, rifiutando un Paese prostrato, sperano nella voce di uno storpio favoloso e ribelle.

Corriere 31.10.14
Il dj con il grembiule che odia Masterchef
Da bambino voleva fare il prof di Economia poi è partito per un tour nelle cucine d’Italia
di Alessandra Dal Monte


Chi è il «barbuto» celebrato dal Nyt «Un barbuto e chiassoso dj che è anche uno dei più creativi attivisti del cibo in Italia». La definizione è del New York Times . Il dj in questione è Daniele De Michele alias Donpasta, 40 anni, da venti in giro per il mondo a mixare musica e cultura (gastronomica). Durante i suoi spettacoli suona la consolle e poi cucina. Oppure spiega perché un piatto corrisponde a una certa melodia. Tutto è cominciato per sbaglio a Parigi, quando Daniele era uno studente Erasmus. Per mantenersi faceva il dj in un locale senegalese. Lo chiamavano tutti «don» perché era italiano, e alla fine della performance gli chiedevano un piatto di pasta.
Così è nato il nomignolo, così è nato il binomio musica-cucina. Che negli anni è diventato il suo lavoro a tempo pieno (da bambino sognava di fare il prof di Economia): prima gli spettacoli «culinarmusicali» in Europa, poi il libro «Food sound system» (Kowalski, 2006), 30 ricette mediterranee collegate a una canzone, subito diventato un tour mondiale. E nel 2013 è arrivato «La parmigiana e la rivoluzione» (Stampa alternativa): un omaggio alla cucina popolare ispirato a nonna Chiarina, che le melanzane le comprava solo in agosto, quando sono di stagione. Ora sta per uscire «Artusi remix» (Mondadori Electa, dal 4 novembre), un viaggio di oltre un anno nell’Italia delle campagne, delle periferie e dei porti, ospite a casa di famiglie numerose, di signore anziane, di coppie giovani, di genitori single. Con il beneplacito e la collaborazione di Casa Artusi, il centro di cultura dedicato al grande «tutore» della cucina italiana. «Ho raccolto 250 ricette popolari. Praticamente un censimento della cucina domestica», spiega Donpasta. E cosa si scopre, a girare tra i fornelli degli italiani nel 2014? «Che la gente comune sa cucinare benissimo e ha una sapienza nel costruirsi un’alimentazione bilanciata sconosciuta a qualsiasi altro popolo al mondo. Per questo ce l’ho con Masterchef e con l’alta cucina: fanno credere alle persone che in Italia per saper cucinare si debba essere dei tecnici. Non è vero: gli italiani sanno cucinare perché glielo hanno insegnato le nonne».
E così «Artusi remix» diventerà anche una serie web in 20 puntate, prodotta da Treccani e pubblicata da Corriere Tv: titolo, «Nonne d’Italia (in cucina)». «Una signora della periferia romana — ricorda Daniele — ha preparato come se niente fosse una pasta fatta in casa con maggiorana e olio a crudo. Quale cuoco si metterebbe in gioco con un piatto così povero e così complesso?». Mentre racconta, il dj si infervora. E diventa l’attivista celebrato dal New York Times : «La cucina italiana è tanto amata nel mondo perché chi la assaggia capisce subito che dietro c’è un patrimonio. Cucinare per gli italiani è un atto di generosità, un dono per il prossimo». Una conclusione a cui Donpasta è arrivato dopo aver visto all’opera tutto il Paese. Oltre che nel libro, le ricette sono state raccolte anche sul sito ( donpasta.it ): dal riso in cagnùn lombardo alle purpette e ricotta calabresi, dentro c’è l’Italia. «Artusi remix» verrà presentato il 4 novembre al Cinema Palazzo di Roma con chef Rubio e la band Il muro del canto. La musica non poteva mancare. L’attivista del cibo più creativo d’Italia, in fondo, è pur sempre un dj.

Corriere 31.10.14
Viaggio nei segreti delle nonne cuoche
Venti donne venti ricette
Donpasta quarantenne performer barese e la serie web online su Corriere.it dall’11 novembre
di Angela Frenda


A Roma l’incontro con Marisa e Mirella di Testaccio. Ospiti di un centro anziani hanno cucinato una perfetta coda alla vaccinara. A Reggio Emilia Marinetta, che impasta lo gnocco fritto. In Irpinia Ornella, che per tutta la sua vita ha fatto il pane a Montemiletto. Ancora nel suo grande forno di famiglia, tra le galline che gironzolano. A Bari Vecchia Carmela, una delle donne che nel borgo antico producono orecchiette.
Sono alcune delle protagoniste della serie web «Nonne d’Italia (in cucina)». Realizzata dal 40enne barese Daniele De Michele, in arte Donpasta, in parallelo con il suo libro Artusi remix (Mondadori). Il progetto (regia di Antonello Carbone, prodotto da Treccani, online dall’11 novembre su Corriere.it con La Cucina del Corriere ) è semplice: venti donne per venti regioni. Venti ricette. Venti storie. Un unico grande racconto popolare di quel che resta dei nostri ricordi gastronomici. Che a volte appaiono così stridenti con un certo modo di fare e intendere la cucina moderna. Cosa c’entra, ad esempio, la tecnica sifonata di Adrià con la sfoglia di Rosa? Secondo il grande chef italiano Massimo Bottura, molto... se si sa interpretare. Se come lui, ad esempio, riesci a fare una pasta e fagioli tenendo insieme Adrià, Ducasse e la propria mamma. Ma è da lì, ammette anche il cuoco stellato, che parte tutto.
Ne sa qualcosa Jessica Theroux. Quando ha cominciato il suo viaggio non sapeva dove l’avrebbe portata. Ma sapeva che sarebbe andata in Italia. «La nazione che più di tante altre conserva un forte rapporto con la tradizione locale gastronomica. Grazie a loro, alle nonne. La generazione che custodisce i segreti del nostro cibo. Come mia nonna Honey...». È nato così un libro-reportage, vincitore del prestigioso James Beard Award, dal titolo: Cooking with italian grandmothers (Cucinare con le nonne italiane, edito da Welcome Enterprises ). Dodici mesi trascorsi da Jessica, cuoca californiana della scuola di Alice Waters, nelle regioni italiane a raccogliere le testimonianze di queste donne, i loro ricordi, le loro esperienze in cucina. In pratica la loro vita.
E poi c’è l’aspetto della memoria. Anche chi scrive è quasi ossessionato all’idea di poter perdere gli appunti della brioche della nonna... Perché in quelle ricette c’è la storia di una famiglia. Un tema così sentito che il fotografo toscano Gabriele Galimberti ha realizzato da poco un grosso lavoro per la factory svizzera Riverboom , la serie fotografica Delicatessen with love , 34 immagini che sono un omaggio a 34 nonne (e ai loro piatti simbolo) in giro per il mondo: dai ravioli di Marisa al pollo con couscous dell’algerina Lebgaa. Nonne e cucina come binomio indissolubile di qualità e tradizione.
Non a caso a Berlino ha da poco aperto Mother’s mother , un supper club dove una volta ogni due, tre settimane viene invitato un cuoco internazionale con la missione di cucinare il suo «piatto della nonna». Si mette ai fornelli mentre spiega la ricetta e la storia che nasconde la pietanza. I commensali sono chiamati su invito e alla fine della cena lasciano un’offerta, «che poi è il compenso per il servizio del cuoco». Il progetto ha già visto sfilare una trentina di cuochi. Dal napoletano Achille Farese, che ha riproposto la parmigiana di melanzane al cioccolato di sua zia, a quello indonesiano (con il piatto a base di maiale alle spezie con latte di cocco).
I video di Donpasta sono invece un viaggio artusiano nella cucina italiana e in quel che rimane delle sue origini. Attraverso i volti e le voci delle nonne d’Italia. Un racconto che offre delle sorprese inaspettate: il baccalà, ad esempio, è una costante: ci sono ben 223 ricette. Così come la pasta a a mano (tortellini e cappelletti su tutto). Classici da replicare con amore. E senza paura.