domenica 2 novembre 2014

Repubblica 2.11.14
Clara Gallini
“Pensiamo che i miracoli siano arcaici ma li abbiamo inventati noi moderni”
intervista di di Antonio Gnoli


CLARA Gallini è stata una delle prime antropologhe italiane. In un mestiere prevalentemente per maschi ha affrontato gli aspetti più desueti, originali e ostici della professione. È nata a Crema. Ha 83 anni. Vive a Roma dove vado a trovarla. Incontro una donna dal corpo stanco e provato. Possiede un’intelligenza che sconfina nell’ironia. Ama l’insolito: si è occupata di miracoli e dunque di Lourdes. Di immacolate, di veggenti e sonnambule. Bellissimo il suo libro recentemente ristampato e dedicato a un caso di sonnambulismo femminile ( La sonnambula meravigliosa ed. L’Asino d’oro). È un’etnologa del mistero, dell’impalpabile, dei viaggi senza un vero ritorno. Clara si inabissa nei suoi saperi evanescenti con l’eleganza della lontra. È stata assistente di Ernesto De Martino, il più grande antropologo italiano. Ne dirige l’archivio. «De Martino mi ha insegnato quasi tutto. Provenivo dagli studi classici. Mi ero laureata alla Statale di Milano con un lavoro sul Labirinto di Arianna».
Il mito ha a che vedere con l’antropologia?
«C’è qualche punto di contatto. All’inizio sognavo di fare l’archeologa. Poi fu fondamentale la “Collana viola” che Pavese aveva creato per l’Einaudi. Su alcuni di quei libri — allora visti dalla cultura marxista e comunista come il fumo negli occhi — feci il mio apprendistato intellettuale».
Cosa leggeva?
«Jung, Kerényi, Otto, Eliade. Ero infarcita di studi sulla storia delle religioni. A Milano avevo incrociato Uberto Pestalozza, studioso del mito della Grande Madre. Facevo l’assistente volontaria. Un giorno arrivò De Martino in facoltà. Presentava Morte e pianto rituale del mondo antico. Avevo letto Il mondo magico, senza capirci granché. Finita la presentazione mi si avvicinò, pensai che volesse qualche informazione».
E invece?
«Mi disse che aveva sentito parlar bene di me. Mi offrì il posto di assistente alla cattedra che aveva appena vinto all’università di Cagliari. “Non sarà pagata, ma so che la sua è una famiglia benestante che potrà mantenerla”, disse ».
I suoi cosa facevano?
«Mio padre era direttore di banca. Con mia madre vivevano a Crema. Ma il punto non era quello dei soldi. Semmai di come avrebbero accolto la notizia di un mio trasferimento in Sardegna».
Temeva che non l’avrebbero condiviso?
«Mi osteggiarono, dicendo che era per il mio bene. E poi, commentò mio padre, chi era questo De Martino che voleva strapparmi al loro amore asfissiante? C’era una zia in casa che, soffrendo la notte di insonnia, dormiva tutto il giorno chiusa nella sua camera. Pretendeva che noi pa- renti girassimo scalzi per non fare rumore. Era un mondo surreale. Chiuso nelle sue nevrosi, quello che stavo per abbandonare ».
Come pensava di mantenersi?
«Avevo appena vinto il concorso come insegnante per i licei. Perciò chiesi che mi fosse assegnata una scuola di Cagliari. Era il 1959. Feci il viaggio in nave in una cabina di terza classe, con altre quattro donne. Le ricordo vestite con dei costumi bellissimi. Tornavano alla loro terra. Per me si annunciava la scoperta di un mondo straordinario».
Quanto tempo è rimasta?
«Per 18 anni. I primi con De Martino che fu un uomo di grande energia intellettuale».
Si dice che fosse anche un grande seduttore.
«Una voce che circolava. Ma ero troppo timida e introversa per accorgermene. In ogni caso, pochi anni dopo, si ammalò gravemente e si trasferì a Roma per essere curato. Lo sostituii nelle lezioni e quando potei andai a trovarlo. Fui turbata nel vederlo a letto, trasformato dalla malattia. Non era piacevole. Affrontava — lui che si era interessato così profondamente ai temi della morte e del pianto — la sua fine con grande serenità. Percepii l’affetto degli amici. Notai spesso la presenza di Angelo Brelich».
Il grande storico delle religioni.
«Proprio lui. Lo avevo conosciuto nel mio breve periodo romano. All’università di Roma si era formata una scuola molto importante di studi di storia della religione, guidata da Raffaele Pettazzoni che sarebbe morto proprio l’anno in cui io mi trasferii in Sardegna. Ebbene, oggi quel mondo di studi e analisi sul sacro, sul mito, sulle origini cosmiche è del tutto ignorato. Ma ha avuto un’importanza fondamentale anche per le ricerche antropologiche».
Ha qualche ricordo di Brelich?
«Era un uomo freddo e distante. Pensavo che nascondesse le sue emozioni dietro l’eterna sigaretta che gli spuntava tra le labbra. Il che appariva in contrasto con quello che si diceva a proposito di una branda che aveva fatto sistemare nella sua stanza all’università».
E cosa si diceva?
«Che lì portasse le sue studentesse».
Avverto una certa ironia.
«Ma no, era un pettegolezzo, come ne circolano tanti in ambienti per lo più chiusi. Posso invece dirle di un certo dissidio che ci fu tra noi in occasione della pubblicazione del mio libro Protesta e integrazione nella Roma antica ».
Come reagì Brelich?
«Non bene. Mi spedì una lettera in cui manifestava il suo totale disaccordo metodologico. Quel libro pubblicato nel 1970 circolava nel movimento studentesco e, sorprendentemente, ebbe successo in America Latina. Studiavo i movimenti di protesta nella Roma repubblicana e le ideologie che c’erano dietro. Il fatto cioè che non si poteva immaginare una rivolta senza che ci fosse un Dio che la legittimasse ».
E quanto all’integrazione?
«Facevo l’esempio di Augusto che riuscì a individuare gli elementi della protesta per poi assimilarli a una ideologia del potere. Del resto, è un classico: ogni rivoluzione finisce con l’essere integrata in un nuovo ordine. Anche simbolico. Brelich, i cui studi erano molto accademici, non comprese la lettura che avevo dato di certi fenomeni».
Perché dice accademici?
«Perché tali erano i suoi lavori. Se li rileggessi oggi coglierei la grande raffinatezza che c’era dietro. Ma a parte il fatto che venivamo da scuole diverse — Brelich era di origine ungherese e si formò con Kerényi — c’era stato il ’68, si era in ballo e bisognava ballare. Devo invece molto a Pettazzoni che mi insegnò due cose: il metodo della comparazione e la libertà ad aprirmi mentalmente a mondi diversi dal mio. Fu uno degli stimoli che mi portò a riconsiderare radicalmente l’idea del primitivo».
Allude a quel mondo arcaico sul quale non c’è mai stato grande accordo tra le scuole di antropologia?
«Dice bene. Ci siamo scannati. Per quanto mi riguarda ho sempre sostenuto che il primitivo in sé non esiste. Ciò che elaboriamo attorno a questo concetto appartiene alle nostre immagini, alle nostre idee. È, in un certo senso, una nostra invenzione».
In che senso?
«Ha mai visto degli uomini primitivi? Esistono, invece, uomini moderni che vivono in società moderne che noi chiamiamo primitive. Ma non lo sono».
In fondo quel primitivo era ciò che Levi-Strauss cercò nelle foreste del Brasile fra le tribù indios.
«È un’obiezione che mi ha dato da pensare».
Come l’ha risolta?
«Dopo essermi interessata al consumo del sacro, mi occupai sia del fenomeno “Lourdes” sia di un caso, diciamo di microstoria, in cui raccontavo le strabilianti vicende di una donna affetta da sonnambulismo e il dilagare nell’Italia ottocentesca del magnetismo animale».
Si riferisce al suo libro La sonnambula meravigliosa?
«Affrontavo lì un caso vero di una donna che nel corso degli anni aveva sofferto di varie malattie tra cui interruzioni del ciclo del mestruo, convulsioni, morte apparente ».
Sonnambula in che senso?
«Non in quello che di solito si pensa cioè della persona affetta da disturbi che cammina nel sonno. Il sonnambulismo divenne di moda nel Settecento. Si scrissero trattati e libri di divulgazione. Perfino negli almanacchi popolari ci si occupò di questo fenomeno che finì con l’abbracciare diverse esperienze: dalle pratiche mediche a quelle teatrali. Ciò che a me interessava era cogliere nelle persone, fatte oggetto di sonnambulismo o di magnetismo animale, lo scatenamento dell’immaginario. Le donne colpite diventavano visionarie, veggenti, in certi casi, perfino guaritrici».
E questo in seguito l’ha condotta a occuparsi di Lourdes?
«Fu il passo conseguente. Cos’era Lourdes se non un immenso ricettacolo di emotività fuori controllo, di tragici inganni, di tensioni insopportabilmente potenti in grado di fornire all’immaginario un vasto campionario di miracoli? Lourdes sembrava un fenomeno antichissimo. Invece le prime apparizioni sono del 1858, come narrava benissimo Émile Zola in un libro che commentai direttamente».
E cosa concluse?
«Che sonnambulismo, magnetismo e ipnotismo erano, come del resto Lourdes, espressioni della modernità».
Non furono un’eccezione dentro la modernità?
«No, appartenevano alla modernità. È interessante osservare che mentre sonnambulismo e magnetismo finirono con l’esaurire il loro fascino e tramontarono, Lourdes ancora continua ad esistere e a riprodursi in esperienze molto simili: Padre Pio, Medjugorje, tanto per fare degli esempi».
Perché secondo lei?
«Dipende molto dalla potenza della Chiesa che può legittimare il miracolo. Farne un’inesauribile fonte di speranza, di fede e di aggregazione religiosa».
E lei ci crede?
«Non è questo il punto. Per me la questione era se un fenomeno ritenuto “antichissimo”, in qualche modo primitivo, in realtà fosse prodotto dalla modernità».
Vuole dire che la modernità può dar vita al suo contrario?
«Perché si sorprende? L’arcaico è qualcosa di rimosso che continua a vivere in forme invisibili nel moderno».
Una specie di inconscio?
«Appunto, che ogni tanto affiora, viene alla luce senza che se ne abbia consapevolezza. Su tutt’altro versante ho studiato il fenomeno del razzismo inconsapevole. C’è un immaginario razzista, che non sa di esserlo e che si comporta da razzista».
Il suo lavoro mi fa pensare a un’antropologia del vuoto di coscienza.
«Mi piace la definizione. Verrebbe voglia di approfondirla ma sono vecchia e malandata. Cambia non il modo di percepire le cose, ma la forza con cui portarle avanti».
Si acuiscono certe difficoltà.
«Diciamo che si passa da un regime di autosufficienza a qualcosa che lo minaccia seriamente. A un certo punto ho sofferto di una forma idrocefalica — hanno riscontrato del liquido nel cervello — e mi è stato diagnosticato un tumore alla base della cervice che è risultato benigno. Mi hanno installato una valvola in testa e un cannello diretto allo stomaco per drenare quel liquido. La mia vita è cambiata. Sono i progressi della medicina!».
Le consentono di lavorare.
«Lo dicevo ironicamente. In realtà lavoro pochissimo ormai. Dopo l’ultimo intervento ho dimenticato l’impiego del computer. So ancora usarlo come una macchina da scrivere. Ma non so fare più tutto il resto. È bizzarro per una che in tarda età si è occupata di cyber, non trova? Vorrei interrogare il mio vuoto di coscienza. Chissà cosa risponderebbe ».
Ha figli?
«Non ne ho, non li ho mai agognati. E il fatto di essere rimasta una donna nubile ha contribuito a questo stato di single solitaria».
Posso chiederle se è mai stata innamorata di De Martino?
«Me lo sono chiesto e la verità è che avevo troppo timore reverenziale perché accadesse. Del resto, non ha mai manifestato per me un interesse in quel senso. Però le posso dire che il primo vero innamoramento l’ho avuto solo quando è morto. Improvvisamente mi sono sentita liberata dalla sua presenza. Poi ci sono state solo storie casuali. Niente di importante».
Cos’è la malattia per chi che ha studiato le guarigioni?
«Non sto qui ad attendere che il miracolo si compia. Quando si è malati si pensa solo al proprio corpo e a cosa si dovrà fare per tenerlo relativamente in esercizio. Diventano fondamentali gli appuntamenti con l’oculista, con il neurologo, con il geriatra. I farmaci scandiscono il mio tempo, la mia giornata».
È un po’ come se l’arcaico tornasse anche nella malattia.
«Mi fa pensare questa affermazione. Non solo il corpo, perfino la mente finisce con l’esserne coinvolta».
Crede nella fine del mondo?
«Allude al libro di De Martino, immagino. Il prossimo anno saranno cinquant’anni dalla sua morte. La fine del mondo uscirà in un’edizione francese. Lo curai negli anni Settanta. Quanto tempo è trascorso. I miei astri guardano immobili e beffardi. Sì, credo che a un certo punto il mondo finirà. Siamo una specie a rischio. I nostri convulsi anni saranno niente. È difficile immaginare qualcosa di eclatante. Effetti speciali. Certo. Con la magra consolazione che noi non ci saremo».

Corriere La Lettura 2.11.14
L’ultimo segreto (nero) di Heidegger
Nei «Quaderni» inediti un antisemitismo metafisico
«L’ebraismo mondiale sradica i popoli dall’Essere»
Gli scritti del pensatore tedesco appena pubblicati gettano nuova luce sulla sua adesione al Terzo Reich
Riteneva che la Germania, per salvare l’Occidente, dovesse ricollegarsi al paganesimo della Grecia e di Roma
Ma il suo errore è stato teorico prima che politico
di Donatella Di Cesare


Pubblicati in Germania nella primavera del 2014, i Quaderni neri assomigliano al diario di bordo di un naufrago che attraversa la notte del mondo, rischiarata da profondi sguardi filosofici e potenti visioni escatologiche. Martin Heidegger parla con una cruda libertà, l’occhio teso al futuro. Dal suo «avamposto» si rivolge a nuovi interlocutori che, grazie alla distanza della storia, potrebbero intendere in modo differente quell’epoca tragica dell’Europa. La pubblicazione dei Quaderni neri è stata infatti voluta da Heidegger, quasi a coronamento della sua opera. Qual è allora il significato di questi inediti che vanno dal 1931 al 1941?
L’intenso dibattito che i Quaderni neri stanno suscitando non solo in Germania, ma anche in Francia, negli Stati Uniti, in Israele, riguarda però soprattutto quello che finora era un non-detto: la «questione ebraica». Per la prima volta Heidegger parla apertamente degli ebrei e dell’ebraismo. All’indomani dell’offensiva tedesca a est, scatenata da Hitler il 22 giugno 1941, Heidegger annota: «La questione riguardante il ruolo dell’ ebraismo mondiale non è una questione razziale, bensì è la questione metafisica su quella specie di umanità che, essendo per eccellenza svincolata , potrà fare dello sradicamento di ogni ente dall’Essere il proprio compito nella storia del mondo».
Heidegger avverte che il tema dell’ebraismo va affrontato nella storia dell’Essere. Qual è il rapporto tra l’Essere e l’Ebreo? Ecco dunque la novità dei Quaderni neri . L’Ebreo è insediato nel cuore del pensiero di Heidegger, nel centro della questione per eccellenza della filosofia. Ma, d’altra parte, proprio all’Ebreo viene ascritto l’oblio dell’Essere, la colpa più grave.
L’antisemitismo metafisico getta nuova luce sulla adesione di Heidegger al nazismo, che non può essere considerata né un dettaglio biografico né un errore politico. Piuttosto si tratta di una scelta coerente con il suo pensiero. E di una coerenza esemplare appare anche il suo silenzio dopo la Shoah. L’antisemitismo non è infatti un di più ideologico, ma è il cardine del nazionalsocialismo.
Di fronte ai Quaderni neri c’è chi si è affrettato a tacciare Heidegger di essere un sinistro oscurantista, chiudendo il tema del totalitarismo con un gesto altrettanto totalitario; dal versante opposto non è mancato chi lo ha già assolto, liquidando immediatamente la questione. Entrambi questi gesti, del tutto inadeguati, sono profondamente antifilosofici. Proprio la gravità dei temi dovrebbe vietare sia la condanna criminalizzante che la reticenza complice, sia l’indignazione morale che la banalizzazione cinica. Eppure in questi mesi si sono moltiplicati giudizi sommari e verdetti apodittici che fomentano il processo postumo a Heidegger. Inaccettabile è lo schema del processo che, soprattutto in Francia, ha assunto tratti imbarazzanti e caricaturali.
A che cosa servirebbe processare il filosofo? E a chi? La speranza, neppure troppo segreta, di vecchi e nuovi procuratori, è quella di chiudere una volta per tutte con Heidegger. Il che consentirebbe anche una resa dei conti con la filosofia continentale, che al suo pensiero si richiama.
Ma liberarsi di Heidegger significherebbe anche sbarazzarsi dei difficili interrogativi che ha sollevato, aggirare la questione — forse la più complessa? — sulle responsabilità dei filosofi verso lo sterminio. Soprattutto in Germania sono gli scritti più radicali di Heidegger, quelli degli anni Trenta, a incutere timore. Chi definisce «patologiche» le sue riflessioni vuole continuare a rimuovere il nazismo, come se si fosse trattato di una «follia». Al contrario i Quaderni neri possono essere l’occasione per pensare filosoficamente quel che è accaduto, e cioè non solo il Terzo Reich, non solo Auschwitz, ma la «questione ebraica» nella storia dell’Occidente.
Nel suo antisemitismo metafisico Heidegger non è isolato, ma segue una lunga scia di filosofi. Se Immanuel Kant aveva accettato gli ebrei come cittadini a condizione di una «eutanasia dell’ebraismo», G.W.F. Hegel li aveva fermati sulla porta dell’Europa e della salvezza: dal punto di vista teologico l’ebraismo doveva essere superato dal cristianesimo, da quello politico gli ebrei erano stranieri privi di terra e di Stato, incapaci di possesso e proprietà. In breve: come cittadini erano «un nulla».
Come ha detto Hannah Arendt, la «questione ebraica» viene sollevata dal mondo non ebraico che non sa come definire gli ebrei. Appartengono a una religione? Oppure a un popolo? E se costituiscono una «nazione ebraica», allora sono una minaccia. Prenderanno il sopravvento? Friedrich Nietzsche adombra un’alternativa inquietante: «Ormai non resta loro che divenire i padroni d’Europa oppure perdere l’Europa, come una volta persero l’Egitto». Ma c’è già chi lancia l’allarme: gli ebrei avrebbero subdolamente dato inizio alla guerra contro i tedeschi.
Da Lutero a Schopenhauer, fino a Hitler, viene ripetuta l’accusa della menzogna: gli ebrei falsificano e mentono. In Mein Kampf la menzogna diventa la chiave per decifrare l’arcano dell’ebraismo: maestri dell’inganno, gli ebrei si spacciano per tedeschi, mentre sono «stranieri», fanno credere di essere quello che non sono, mimetizzano il loro non-essere, il loro costitutivo nulla. Proprio questa accusa metafisica ha avuto esiti devastanti.
La storia dell’Essere, che Heidegger delinea nei Quaderni neri , si dispiega lungo l’asse greco-tedesco. Solo il popolo tedesco può tentare di salvare l’Occidente. E gli ebrei? Per loro non c’è posto — non solo in Europa, ma neppure in una periferia del mondo. Il loro destino non è quello di altri popoli emarginati. Gli ebrei sono esclusi dall’Essere.
Si può ancora dire che l’antisemitismo sia solo una forma di razzismo? Certo l’Ebreo è il nemico metafisico che dissimula l’Essere, lo occulta. Heidegger giunge a denunciare un nesso di complicità tra ebraismo e metafisica. «Il motivo per cui l’ebraismo è andato temporaneamente accrescendo il proprio potere è che la metafisica dell’Occidente, almeno nel suo sviluppo moderno, ha offerto un punto di partenza per il diffondersi di una altrimenti vuota razionalità e abilità di calcolo». L’ebraismo si è insediato nello «spirito» dell’Occidente e lo ha minato. Esito ultimo della modernità, il potere ebraico è legato al destino della metafisica. Oltrepassare quest’ultima significa liberarsi anche dell’ebraismo. Sta qui uno dei nodi della visione di Heidegger e una delle novità dei Quaderni neri.
In modo analogo a Carl Schmitt, che ricorre ai codici della retorica antisemita, Heidegger descrive l’immagine dell’ebreo anche quando parla di «circoncisione del sapere», «abilità di calcolo», «comunità degli eletti». Accusa gli ebrei, privi di radici, di portare lo sradicamento, di desertificare il pianeta, di derazzificare i popoli, cioè di imbastardirli. L’accusa è molto grave: la «autoestraneazione dei popoli» è la strategia che gli ebrei perseguono per realizzare la democrazia, il parlamentarismo, l’uguaglianza e raggiungere così il «dominio sul mondo». A questo scopo non combattono lealmente; con l’inganno cancellano i confini e la distinzione amico-nemico. Gli ebrei più temibili sono perciò quelli assimilati.
Heidegger sembra prendere parte all’impresa di definire l’ebreo nel periodo intorno alle leggi di Norimberga, un’impresa che non impegna solo giuristi e scienziati, dato che le fantasie razziste non sono basate su criteri «scientifici». Invano si cerca di definire l’«essenza» ebraica attraverso una metafisica del sangue. Proprio il filosofo è chiamato a rispondere.
Privo di mondo, im-mondo, impuro, l’ebreo complotta per il dominio del pianeta. Non può non sorprendere che Heidegger parli di «poteri» che reggono le fila di una inarrestabile «macchinazione». Il «giudeobolscevismo», un messianismo secolarizzato, non è che una realizzazione di quell’occulto potere ebraico che combatte con l’inganno, assumendo figure diverse. In un testo del 1941 scrive: «L’ebraismo mondiale, istigato dagli emigranti, lasciati andar via dalla Germania, è penetrato ovunque, fino ad essere impercettibile e, con tutto quel dispiegamento di potere, non c’è luogo in cui abbia bisogno di prendere parte alle azioni belliche, mentre a noi non resta che sacrificare il miglior sangue dei migliori del nostro popolo».
Nella sua apocalittica Heidegger vede nell’Ebreo la figura di una fine che si ripete ossessivamente impedendo al popolo tedesco di risalire all’«altro inizio», cioè a un nuovo mattino dell’Occidente. Non diversamente da altri intorno a lui, crede che la Germania, chiamata a difendersi, si costituisca ricollegandosi, oltre a Roma, alla Grecia mai realizzata, quella mistica e arcaica, puramente pagana. Ma l’ Imperium si è trovato sempre contro Israele. Il secolare scontro teologico-politico diventa guerra planetaria contro gli ebrei.
In quegli stessi anni sono gli allievi ebrei di Heidegger, già «emigrati», a riconoscere in quel che sta per accadere un nuovo bellum judaicum . Ma a Hans Jonas non sfugge la differenza: se Roma aveva consentito a un ebraismo politicamente sconfitto di continuare a sopravvivere, ciò non sarebbe accaduto «sotto il tacco della Gestapo». Questo è stato d’altronde il nazionalsocialismo: il primo progetto di rimodellamento biopolitico dell’umanità. Nel non-essere dell’ebreo risuona già l’annientamento. Ma prendere alla lettera le metafore dei filosofi è stato il lavoro dei boia nell’organizzazione burocratica dei campi.
Dopo i Quaderni neri Auschwitz appare più strettamente connesso con l’oblio dell’Essere. Per quel che riguarda Heidegger, le domande, almeno per chi non cerchi risposte sbrigative, si moltiplicano. Tanto più che a lui si devono quei concetti che oggi consentono una riflessione sulla Shoah: dal dispositivo alla tecnica, dalla banalità del male alla «fabbricazione dei cadaveri». Il suo errore è stato filosofico prima che politico, e cioè il compromesso con la metafisica che lo ha spinto a definire l’essenza dell’Ebreo, piuttosto che a scorgere in questo altro, così prossimo, il varco verso un nuovo oltre. Se in seguito avesse riconosciuto l’evento traumatico di Auschwitz, avrebbe lasciato che quel trauma mandasse in frantumi la storia dell’Essere.

«è probabile che siano state mani femminili»
Corriere La Lettura 2.11.14
Il primo atto creativo dell’uomo
I misteri della più antica forma di pittura figurativa rupestre
Una mano di 39.900 anni fa mette in forse il primato europeo
di Roberta Scorranese


La ricerca
La rivista «Nature» ha dedicato alla scoperta il fascicolo numero 514, uscito il 9 ottobre 2014, a firma di Maxime Aubert e degli altri componenti della spedizione archeologica I saggi Tra i libri appena usciti sulla ricerca archeologica e paleo-antropologica, segnaliamo L’uomo di Neanderthal. Alla ricerca dei genomi perduti di Svante Pääbo, responsabile del dipartimento di Genetica evoluzionistica del Max Planck di Lipsia (Einaudi, traduzione di Daniele A. Gewurz, pagine 294, e 32)

Che cosa spinse un essere umano vissuto circa 40 mila anni fa ad appoggiare una mano sulle pareti della propria grotta e a segnarne i confini contornandoli di colore (forse sputato da una cannula), è un mistero che resiste alle ipotesi della scienza e alla curiosità degli appassionati d’arte.
Ma dal 9 ottobre scorso un importante mattone si aggiunge alla (ri)costruzione della cattedrale della preistoria: a Sulawesi, isola della Repubblica Indonesiana tra Borneo e Molucche, i ricercatori delle università di Wollongong, di Griffith (Australia) e del Centro nazionale di archeologia di Giacarta, hanno annunciato la datazione del più antico disegno figurativo rupestre raffigurante una mano. L’impronta di cinque dita semicancellata dal tempo che risale a 39.900 anni fa.
«È stata un’emozione fortissima», commenta l’archeologo Maxime Aubert, dell’Università di Griffith e a capo della spedizione nella zona di Maros, raggiunto da «la Lettura». Sì, perché questa datazione rimette in discussione il primato europeo delle scaturigini creative. «Finora — continua Aubert, canadese di Toronto — si credeva che le più antiche pitture rupestri fossero nel Vecchio Continente, in particolare nelle grotte spagnole di El Castillo. E in parte lo sono ancora. Ma le mani qui raffigurate hanno poco più di 37 mila anni, circa 2 mila in meno di quella che è affiorata in Indonesia».
A El Castillo c’è anche una sorta di deposito di calcite rossa, simile a una macchia a forma discoidale che ha 40.800 anni, ma sul suo carattere simbolico (legato all’arte) gli studiosi sono ancora divisi. Insomma, in Indonesia è stata trovata quella che forse è la prima forma di pittura figurativa della storia, «il più antico segno della creatività umana», come l’ha definito David Cyranoski nel presentare la ricerca sulla rivista «Nature» di ottobre, che ha ospitato l’articolo scientifico a firma degli studiosi autori della datazione. Aubert sottolinea: «Adesso c’è una nuova interpretazione del momento in cui l’uomo è diventato cognitivamente moderno ».
Ma c’è dell’altro. Nella stessa zona la spedizione ha datato anche alcune pitture che raffigurano animali, due grossi cinghiali primitivi che «risalgono — dice Aubert — a 35.400 anni fa. Potrebbero essere i più antichi al mondo nella loro tipologia figurativa, perché hanno più o meno la stessa età degli animali dipinti nella cava di Chauvet, in Francia; però la datazione di questi ultimi è molto controversa». Le cave esplorate nella missione erano conosciute sin dal 1950, ma le centinaia di pitture che qui riposano da millenni non erano ancora state datate e si pensava che fossero molto più recenti. Il metodo di datazione si basa sull’analisi delle piccole concrezioni di roccia che si è depositata sopra le figure, usando il rapporto tra uranio e torio. Piccola nota, ma importante: l’analisi dunque è sulle formazioni calcaree, quindi le pitture sottostanti potrebbero essere ben più antiche. Anche per questo la ricerca pubblicata su «Nature» rimette in discussione molte cose.
«Innanzitutto, l’eurocentrismo con il quale, finora, abbiamo letto il cammino controverso dell’arte» osserva Alistair Pike, dell’Università di Southampton, autore della datazione di molte pitture rupestri in Spagna e non coinvolto in questo progetto. Già: la datazione di opere molto simili (impronte di mani e figure di animali) a una distanza di migliaia di chilometri, impone una riflessione.
«Ci sono diverse ipotesi — suggerisce Aubert — e una di queste è che le popolazioni che raggiunsero questa parte del mondo oltre 40 mila anni fa possedevano già un bagaglio culturale abbastanza complesso. È possibile che queste prove di “arte sulla roccia”, chiamiamole così, siano emerse in modo indipendente da due parti del mondo quasi opposte. Oppure possiamo arguire che le pitture rupestri fossero largamente diffuse presso i primi Homo Sapiens che lasciarono l’Africa millenni prima. Dunque, quelle meravigliose pitture, anche più recenti, che ammiriamo in Europa potrebbero avere una doppia origine: europea e indonesiana».
Ma che cosa simboleggiano queste figure? Le mani sono un topos ricorrente nelle grotte europee, come quelle di El Castillo e secondo alcuni studi potrebbero essere un segno di attaccamento originario a quel luogo specifico — curiosità: è probabile che siano state mani femminili. La rappresentazione di grossi animali pericolosi (come i babirusa , i cinghiali primitivi datati a Maros) può dar vita a centinaia di interpretazioni, da quella puramente illustrativa a quella, più profonda, legata al sistema di credenze diffuse tra quelle popolazioni. Certo, stilisticamente sono diversi: quelli indonesiani sembrano fatti con colore distribuito a puntini, quelli europei hanno tratti più lineari.
Rodolfo Coccioni, presidente della Società paleontologica italiana, preferisce non sbilanciarsi: «Difficilissimo dire che cosa rappresentava il simbolo 40 mila anni fa. Più interessante allora cercare di capire chi fossero questi esseri umani che si erano stabiliti in quelle zone. Sono stati gli stessi che si erano mossi dall’Africa? E quanto era “pesante” il loro bagaglio di conoscenze?». È questo uno dei nodi più affascinanti.
Alla luce di una serie di scoperte avvenute di recente, pare che anche la specie umana vissuta nel Paleolitico medio (tra i 200 mila e i 40 mila anni fa) fosse capace di pensare per simboli o almeno secondo quel che noi oggi intendiamo per simbolo . Basti pensare alle incisioni su roccia simili all’arte astratta rinvenute mesi fa in una grotta nei pressi di Gibilterra, che pare siano state opera di ominidi vissuti 40 mila anni fa. Oppure, cosa ancora più sorprendente, si pensi alla scoperta avvenuta nel 2005 a opera di ricercatori dell’università di Tubinga: in una caverna nei pressi di Vogelherd (Germania), hanno trovato un flauto vecchio di 35 mila anni, ricavato dall’osso di un avvoltoio. Non molto distante da questo sito, nel 2008, altri ricercatori hanno rinvenuto una scultura femminile in avorio di mammut, databile tra i 31 mila e i 39 mila anni fa.
Più complicato è stabilire quale valenza concettuale avessero questi manufatti o molti altri rinvenuti, come le meravigliose pitture policrome delle grotte di Altamira, in Spagna (a partire da 16 mila anni fa); o le tavolette in pietra con pitture di animali di 28 mila anni fa ritrovate in Namibia; o le statuette femminili nei dintorni del lago Baikal, in Siberia, e datate circa 34 millenni fa.
L’archeologo fiorentino Emmanuel Anati ha azzardato un’ipotesi affascinante: quando questi uomini si spostavano, portavano con sé anche un piccolo patrimonio di conoscenze e tra queste la capacità di esprimersi con le figure, come se esistessero «analogie tra le esigenze dell’uomo di esplorare il territorio e quella di esplorare dentro di sé, di farsi domande». Come se la cultura nascesse con l’esperienza di altri luoghi e persone. Con l’apertura all’«altro da sé».
«La scoperta indonesiana — conclude Coccioni — apre prospettive interessantissime. Adesso si dovrebbe continuare a esplorare quella zona e le terre vicine». E Aubert conferma: «Ci aspettiamo altre datazioni sorprendenti. Finora abbiamo datato dodici impronte di mano (che risalgono a circa 20 mila anni fa, ndr ) e due pitture di animali. È poco».
E molti studiosi indicano l’India — sulla rotta tra l’Africa e l’Indonesia — come prossima sorgente di novità provenienti dal passato.

Corriere La Lettura 2.11.14
Quei bovini primitivi stupirono Picasso


«Noi non abbiamo inventato» Picasso confesserà sempre la sua fascinazione per l’arte primitiva: collezionerà maschere e feticci, di cui elogerà la dimensione concettuale. Decisiva, per lui, è anche la scoperta degli animali dipinti sulle pareti della grotta di Lascaux (sopra) , nel sud della Francia. Quando il padre del cubismo si trova al cospetto di quei bovini monumentali, sorretti da rigide zampe, esclama: «Noi non abbiamo inventato». Studia quelle figure. In alcuni fogli, le rifà in più versioni, abbandonandosi ad abili esercizi di stile. Poi, se ne appropria. E le colloca nella parte sinistra (sotto) di Guernica . In questo capolavoro epico, elabora una riscrittura violenta, che suggerisce nette mutazioni iconografiche e simboliche. Nel quadro vediamo un toro. Che è quasi avulso dalla tragedia scolpita con il colore da Picasso. Il toro, un’icona eterna, senza tempo.

Corriere La Lettura 2.11.14
È il gesto che genera: come la nascita della vita
di Michelangelo Pistoletto


Creatività è la caratteristica primaria degli umani. A un certo momento nel tempo si è prodotto un fermento che ha avviato la capacità di alcuni esseri viventi di articolare il pensiero oltre alle pratiche funzioni fisiche e mettere in connessione queste due parti, creando così la dualità corpo-mente che produce come terzo elemento l’organismo creativo. Personalmente ho ideato un teorema, denominato «della Trinamica» che rileva e puntualizza il fenomeno stesso della creazione. Il segno-formula della Trinamica è il simbolo del Terzo Paradiso che aggiunge un terzo cerchio al simbolo matematico dell’infinito. I cerchi esterni rappresentano due elementi tra loro differenti o contrari che nel cerchio centrale trovano la loro simbiosi producendo, in tal modo, un terzo elemento che prima non esisteva, come ad esempio avviene tra un uomo e una donna che danno vita a una nuova persona. È la dinamica del numero tre, cioè la combinazione di due unità che dà origine a una terza unità distinta e inedita. Nella Trinamica il tre è sempre una nascita, dunque una creazione. La Trinamica è la dinamica creativa, essenzialmente assunta dall’arte, si ritrova nella natura, cioè nella chimica, nella fisica e si estende nella fisiologia dei corpi semplici e complessi come due cellule o due individui e si estende nella vita sociale nei suoi aspetti culturali, politici, economici e spirituali.

Il Sole Domenica 2.11.14
Hegel e lo spirito del (nostro) tempo
Il filosofo Remo Bodei interroga le radici profonde del pensiero del grande tedesco. E spiega come ha agito. La «civetta» non basta più
di Remo Bodei


Per comprendere il pensiero di Hegel nel suo sviluppo sistematico sono partito dalla forza di suggestione ancor oggi esercitata da alcune metafore e dalla cascata di luoghi comuni, pregiudizi ed errori che sono derivati dalla loro interpretazione. Mi sono soffermato, in particolare, sulla più famosa, quella della «civetta di Minerva», intesa come emblema della filosofia al suo crepuscolo, quando il processo di formazione della realtà appare ormai concluso. La civetta ha, tuttavia, un antagonista-collaboratore nella «talpa», che testimonia come la storia non finisca con il tramonto di un'epoca e come la filosofia non concluda affatto il suo cammino. L'immagine dominante di un sistema chiuso o di un atteggiamento politico sostanzialmente rinunciatario nello Hegel della maturità, poggia, appunto, anche sul fascino di queste fortunate metafore. Ma quale è il rapporto fra la "civetta" della filosofia, che interpreta in maniera vigile e cosciente le modificazioni prodotte dall'epoca, e la "talpa" dello "spirito", che trasforma inconsciamente l'epoca stessa mediante un lavorio cieco ma rivolto a un fine sconosciuto ai contemporanei? Fra la filosofia, che sembra vedere e non fare, e il movimento storico, che sembra fare e non vedere?
Hegel sarebbe stato davvero un folle se avesse creduto di essere l'ultimo filosofo o che si fosse di fronte alla «fine della storia». Riteneva, invece, di essere un ordinatore sistematico di concetti ed esperienze, un filosofo che non inventa niente, ma che è chiamato a dare forma intelligibile a un'intera fase storica ormai al tramonto, agli anni «più ricchi che la storia universale abbia avuto». In questo senso si paragonava implicitamente ad Aristotele, che presentò la sua summa alla fine dell'Atene classica. A sua volta, la storia del mondo per lui ovviamente continuerà, ma – soprattutto quella europea – dovrà superare una fase critica i cui esiti imprevedibili sono provocati dal sotterraneo scavare della "talpa".
Lo mostrano con abbondanza di documentazione i corsi di Heidelberg e di Berlino che continuano a essere pubblicati da alcuni decenni. In essi si descrive, ad esempio, la mutata funzione dello Stato e della società civile in un periodo storico in cui i processi di globalizzazione non avevano ancora raggiunto le proporzioni attuali, ma in cui le crisi economiche avevano già mostrato un altro volto nei loro contraccolpi sulla precarizzazione dell'esistenza di individui e popoli. Interessato fin dalla gioventù all'economia politica, lettore di giornali e riviste inglesi, scozzesi e francesi, legato alle discussioni sui sansimoniani, egli analizza le idee di lavoro, disoccupazione e miseria in una civiltà dominata dalle macchine e dal Kapital, un «animale selvaggio» che si sottrae a qualsiasi tentativo di addomesticamento. Osserva come la ricchezza si concentri sempre più in poche mani, con la conseguente creazione di una enorme massa di «lavoratori disoccupati», di esseri umani sospinti nella miseria più spaventosa e umiliante che li abbrutisce e alla quale si cerca inutilmente di porre rimedio con dei "palliativi", come l'emigrazione nelle colonie. Giunge a dire che tale estrema miseria rende lecito a chi la subisce anche il furto per la propria sopravvivenza: «tale azione è illegale, ma sarebbe ingiusto considerarla come un furto comune. Sì, l'uomo ha diritto a tale azione illegale». Il tramonto di un'epoca è per lui sostanzialmente legato all'insolubilità di conflitti come questi.
Ho posto inoltre una serie di domande cruciali e ineludibili, a partire dalla definizione hegeliana della filosofia come «il proprio tempo appreso col pensiero»: Cosa significa pensare il proprio tempo? Come si configura la concretezza del presente attraverso la sua trascrizione in concetti, mediati da una approfondita conoscenza dell'analisi infinitesimale e delle scienze naturali (fisiologia, zoologia, chimica, geologia), frutto del serrato confronto con gli scienziati del tempo, da Lagrange a Bichat, da Lamarck a Cuvier o da Wener a Hutton? Qual è il senso dell'isomorfismo fra la struttura sistematica della sua filosofia e il campo dei mutamenti storici? Perché, in polemica con i romantici, Hegel disprezza il mondo della natura a favore di un patriottismo dell'umanità e della civiltà, fino al punto da definire il cielo stellato una «eruzione cutanea luminosa» e «il pensiero criminale di un malfattore è più grandioso e sublime delle meraviglie del cielo»? Perché il sistema pretende ora di essere la forma suprema della filosofia come scienza rigorosa?
Se Hegel si fosse limitato ad attribuire alla filosofia la natura di filia temporis, o se anche (per citare Ruge e Marx) avesse osato «metterne in piazza il segreto» e farla retrocedere da messo celeste a Zeitungskorrespondent, a inviato speciale di un'epoca, in fondo non avrebbe compiuto alcuna mossa teorica particolarmente scandalosa. Perfino un filosofo relativamente modesto come Karl Leonhard Reinhold aveva scritto nel 1801 un'opera intitolata Lo spirito dell'epoca come spirito della filosofia. Fichte, poi, era giunto nei Tratti fondamentali dell'epoca presente a caratterizzare la propria età come un fronte che avanza dall'oscuro dominio dell'«istinto della ragione» al trasparente autogoverno della «scienza della ragione», come un momento storico «in cui si scontrano e si combattono mondi fra loro assolutamente ostili» e in cui, nel medesimo «tempo cronologico», possono «incrociarsi e scorrere l'una accanto all'altra, in diversi individui, epoche differenti»; soltanto il «tempo del concetto» era per lui in grado di correlare e di esprimere questi dislivelli nella storia dei singoli e dei popoli.
Nessuno, prima di Hegel, aveva, tuttavia, osato tradurre integralmente e consapevolmente lo svolgimento del proprio tempo sul piano di un organico sviluppo di forme del pensiero, di un sistema che avesse l'ardire di raffigurare, nel «semplice fuoco» del concetto, l'immagine virtuale dell'epoca. Nessuno aveva dato tanta importanza alla storia e costruito una «rete adamantina» di categorie volta a rappresentare l'orizzonte massimo di intellegibilità di un'epoca che pretende di includere in sé, telescopicamente, i principi delle epoche antecedenti; nessuno, tranne – a suo modo – Montaigne, aveva svuotato il preconcetto che attribuiva alla «natura umana» un'essenza metastorica, mostrando come «la natura vivente è eternamente altro che il suo concetto, per cui quello che per il concetto era semplice modificazione, pura accidentalità, qualcosa di superfluo, diviene necessario, vivente, forse ciò che unicamente è naturale e bello». In un appunto che aveva preparato poco prima di morire per l'introduzione al corso di filosofia del diritto del 1831-1832, al posto tenuto dalla civetta nella Prefazione del 1820, compare ora la «talpa», quasi a significare che l'avvenire è segnato dalle oscure forze dell'istinto e che l'unica cosa che gli occhi della civetta sembrano ora cogliere è proprio l'incertezza del futuro. Il mondo ha di nuovo accelerato il suo movimento inconscio, costringendo la filosofia a portare i propri "lumi" in un crepuscolo su cui incombe lo «spirito nascosto, che batte alle porte del presente». Il lavoro di decifrazione della realtà effettuale attraverso il pensiero non può, dunque, giungere a compimento.

Il Sole Domenica 2.11.14
Sigmund Freud
L'uomo che provò a capire il cervello
Il saggio ponderato di Élisabeth Roudinesco ricolloca la figura del creatore della moderna psicanalisi nel giusto contesto
di Riccardo de Sanctis


«Grazie per i mondi che ci hai fatto scoprire e che adesso dovremo percorrere da soli, senza guida...». Incomincia così il suo discorso Stefan Zweig al funerale di Sigmund Freud a Londra il 23 settembre 1939. Da venti giorni la Francia e l'Inghilterra sono entrate in guerra contro la Germania. Poco più di un anno prima il creatore della psicanalisi, ricco e famoso, aveva dovuto lasciare Vienna per sfuggire ai nazisti.
Negli ultimi anni le analisi del suo pensiero, ma soprattutto le polemiche non sono mancate. Alcune ferocissime come quelle provocate nel 2011 dalla pubblicazione de Il Crepuscolo di un idolo del filosofo francese Michel Onfray.
Alle leggende dorate si sono contrapposte quelle nere. L'inventore della soggettività, dell'io moderno, è stato spesso trasformato in un ciarlatano, un incestuoso, un imbroglione, un fascista... Chi era veramente Freud?
Per comprendere l'uomo piuttosto che giudicarlo era necessario ricollocare la psicanalisi e il suo ideatore nel suo contesto storico.
È quello che ha fatto la storica della psicanalisi Élisabeth Roudinesco dell'Università Parigi VII - Diderot con il suo Sigmund Freud en son temps et dans le nôtre uscito l'11 settembre scorso in Francia per le edizioni Seuil. Più di cinquecento pagine ricche di fatti e di testimonianze, che si leggono come un romanzo.
La Roudinesco ha potuto accedere agli archivi di Freud alla Library of Congress di Washington, aperti dopo trent'anni di battaglie fra le varie associazioni psicanalitiche. E ha potuto chiarire molte questioni controverse. Non esiste – ad esempio – alcuna traccia di una relazione con la cognata Minna, ed è fuori di dubbio l'avversione di Freud per ogni dittatura.
Non si può comprendere il suo pensiero senza collocarlo in un contesto molto particolare, quello degli ebrei a Vienna fra '800 e '900, in un momento di profonda trasformazione delle norme familiari e delle pratiche mediche e di vivace dibattito intellettuale. Gli psicanalisti hanno spesso avuto una concezione antistorica della psicanalisi, che sarebbe sorta come per magia, da un'autoanalisi di Freud, dalla scoperta del suo inconscio. Una costruzione a posteriori che non regge alla prova dei fatti. In realtà Freud è andato avanti per tentativi, si è ispirato a teorie scientifiche del suo tempo, ha sofferto, ha avuto esitazioni, ha soprattutto discusso molto con i suoi discepoli... La storica ripercorre la vita di Freud, la genesi dei suoi scritti, la rivoluzione simbolica di cui fu l'iniziatore all'alba della Belle Époque e poi il tormento dello scienziato e il pessimismo degli anni 20, fino ai momenti drammatici dell'avvento del nazismo. Lo studio parte con la nascita il 6 maggio del 1856 di Schlomo Sigmunde fonte di orgoglio per la mamma Amalia che lo chiamava «il mio Sigi d'oro», erede di una stirpe di commercianti ebrei della Galizia orientale. Il libro ricostruisce la storia di Sigmund in un periodo storico turbolento. Era un conservatore illuminato, che cercava di liberare il sesso per meglio controllarlo, un ebreo erede del romanticismo tedesco che voleva smantellare il giudaismo e le identità comunitarie, un appassionato cultore delle tragedie greche e di Shakespeare. Pensò all'inizio di darsi alla carriera politica, poi decise che voleva fare il filosofo, il giurista, infine il naturalista... voleva imbarcarsi per attraversare gli oceani come Charles Darwin ma si paragonava anche a Cristoforo Colombo o a Copernico. Nel 1881 Freud sostenne la tesi di dottorato e l'anno seguente decise di orientarsi verso la carriera medica. Aveva studiato la sessualità delle anguille poi, affascinato dalla magia del microscopio, si era dedicato allo studio dei neuroni dei gamberi e successivamente del midollo spinale di un pesce primitivo; fino allo studio del sistema nervoso umano. Lavorò a una teoria del funzionamento delle cellule nervose mentre seguiva il laboratorio di chimica del professor Carl Ludwig. Sarebbe potuto diventare uno dei migliori ricercatori della sua generazione in anatomia, biologia e fisiologia. Fu quest'ultimo insegnamento che influenzò più d'ogni altro l'elaborazione di una nuova dinamica materialista della psiche. Il termine psicoanalisi appare per la prima volta in un testo di Freud del 1896. Ma il metodo lo praticava già da circa sei anni: faceva distendere il paziente su un lettino ornato da tappeti e cuscini orientali che gli era stato donato da una certa signora Benvenisti... Lo scienziato positivista e fisiologo, incomincia nel 1897 a elaborare una teoria dell'Eros in cui estende la nozione di sessualità a una sorta di disposizione psichica universale e ne fa l'essenza dell'attività umana. Al contempo «cambia lo sguardo che tutta un'epoca ha verso se stessa e il proprio modo di pensarsi. Inventa un nuovo racconto delle origini di cui il soggetto moderno è l'eroe, non di una semplice patologia, ma di una tragedia. Per circa un secolo questa invenzione freudiana segnerà le mentalità».
Freud, contemporaneamente all'invenzione del cinema (grande fabbrica di sogni, di miti e di eroi), e proprio quando si elaborano in tutta Europa importanti programmi di ricerca fondati sullo studio dei fatti, compie una strana rivoluzione intima, ricerca la parte oscura di sé, in un rovesciamento della ragione nel suo contrario, alla ricerca della morte che opera nella vita... «È – come afferma Thomas Mann – un romanticismo divenuto scientifico».
La Roudinesco sostiene che quello che Herr Professor credeva di scoprire non era in fondo che il frutto di una certa società, di un certo ambiente familiare, di una situazione politica che egli interpretava magistralmente per farne un prodotto dell'inconscio. Fu un errore pensare la psicanalisi come una scienza. Freud stabilisce, o tenta di stabilire, i fatti rigorosamente, ma le sue conclusioni sono interpretazioni. Esperimenti non se ne possono fare, né si possono applicare modelli matematici... Un interessante capitolo è dedicato alle donne. Si racconta come dagli anni 20 esse fossero sempre più presenti nel movimento psicanalitico e di come apportarono uno sguardo nuovo sul modo di curare. Si ricostruisce anche la lunga corrispondenza fra Freud e la scrittrice e psicanalista Lou Andreas-Salomé. Una bella testimonianza di amicizia e di scambio intellettuale alla pari che contraddice l'immagine di un Freud misogino.
«A settantacinque anni dalla sua morte Freud – scrive la Roudinesco alla fine del libro – continua a disturbare la coscienza occidentale...».

Elisabeth Roudinesco, Sigmund Freud en son temps et dans le nôtre, Seuil, Paris, pagg. 592, € 25,00

Il Sole Domenica 2.11.14
Documenti ritrovati
Lettera di auguri di Thomas Mann, Romain Rolland, Jules Romains, H.G. Wells, Virginia Woolf, Stefan Zweig
di Vittorio Lingiardi


Virginia Woolf e Sigmund Freud si sono incontrati una sola volta. Nel diario del 29 gennaio 1939 lei annota: «Un uomo vecchissimo, contratto e rinsecchito: con un lampo di furbizia negli occhi, movimenti spasmodici paralizzati, difficoltà a esprimersi: ma vigile. Un potenziale immenso, un fuoco antico che si sta spegnendo». I Woolf erano gli editori inglesi di Freud, e di questo incontro ne scriverà anche il marito Leonard: «Quasi tutti gli uomini famosi sono deludenti o noiosi, o entrambe le cose. Freud nessuna delle due: lui aveva un'aura, non di fama, ma di grandezza. Era straordinariamente cortese, in un modo formale e vecchio stile – per esempio, in modo cerimonioso, offrì un fiore a Virginia». Il fiore era un narciso.
Ma di un altro regalo voglio parlarvi, di una lettera pubblica di auguri che il 6 maggio 1936 fu consegnata (a mano? da Thomas Mann?) a Freud in occasione del suo ottantesimo compleanno. La lettera è firmata da un comitato di sei membri: Thomas Mann, Romain Rolland, Jules Romains, H.G. Wells, Virginia Woolf, Stefan Zweig. Una rappresentanza equa di tedeschi, francesi e inglesi. Sembra che i sei rappresentassero in realtà circa altri duecento scrittori e artisti, tra cui Hermann Broch, Salvador Dalì, André Gide, Knut Hamsun, Hermann Hesse, Aldous Huxley, James Joyce, Paul Klee, Robert Musil, Pablo Picasso, Bruno Walter, Franz Werfel, Thornton Wilder. La lettera compare per la prima volta sul British Medical Journal del 9 maggio 1936 e viene poi pubblicata sul periodico The New Republic il 17 giugno 1936. Ignoranza mia, non la conoscevo. L'ho scoperta pochi giorni fa sfogliando appunto The New Republic, che sta facendo una campagna di autopromozione pubblicando le lettere più importanti ricevute nel corso della sua lunghissima vita editoriale.

Il Sole Domenica 2.11.14
La lettera
Le sue conquiste per tutti


«Sir: L'ottantesimo compleanno di Sigmund Freud ci dà la gradita opportunità di porgere le nostre congratulazioni e i nostri omaggi al Maestro le cui scoperte hanno aperto la via a una nuova e più profonda conoscenza del genere umano. Ha contribuito in maniera eminente alla medicina, alla psicologia, alla filosofia e all'arte ed è stato per due generazioni il pioniere nell'esplorazione di regioni finora sconosciute della mente. Intellettualmente indipendente, «ein Mann mit erzenem Blick» come Nietzsche disse di Schopenhauer, in grado di stare solo e attrarre a sé allievi, ha seguito il percorso da lui scelto e le sue avanzate verità, le quali, per il solo fatto di aver portato allo scoperto ciò che era nascosto e per aver illuminato ciò che era oscuro, sembravano pericolose e allarmanti. Ovunque egli ha proposto nuovi problemi e cambiato vecchi princìpi. I risultati del suo lavoro hanno ampliato il campo della ricerca, e lo stimolo che ha dato al pensiero creativo ha fatto sì che anche i suoi avversari divenissero suoi debitori. Gli anni a venire potranno ricostruire o limitare questa o quella conclusione, ma le sue domande non saranno mai taciute, né le sue conquiste oscurate in modo permanente. Le idee che formulò e i termini che coniò sono diventati parte della nostra vita quotidiana, e in ogni campo del sapere, in letteratura, arte, ricerca, storia delle religioni, preistoria, mitologia, folklore, pedagogia e, ultimo ma non meno importante, in poesia, siamo in grado di scovare tracce della sua influenza. I successi più memorabili della nostra generazione saranno, senza ombra di dubbio, le conquiste in ambito psicologico raggiunte da Sigmund Freud. Non possiamo immaginare il mondo intellettuale di oggi senza il suo lavoro, e gioire della sua presenza tra noi e della sua ininterrotta attività. Possa la nostra gratitudine accompagnare i suoi giorni.»
Thomas Mann, Romain Rolland, Jules Romains, H.G. Wells, Virginia Woolf, Stefan Zweig (traduzione di Eleonora Piacentini)
London, England

Corriere 2.11.14
Pippo Civati, filosofo della scissione mediatica
Brianzolo, si muove tra web e politica, piace più a giornali e tv che alle masse
di Aldo Grasso

qui

La Stampa 2.11.14
“Terni, stop allo sciopero o non vi paghiamo”
La Thyssen agli operai: stipendi arretrati solo se riprendete il lavoro. I sindacati: la protesta continua
di Roberto Giovannini


L’amministratore delegato di Ast, Lucia Morselli, lo aveva solennemente promesso mercoledì scorso al ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi: «Pagheremo immediatamente gli stipendi», aveva detto. Giovedì non è successo niente, venerdì nemmeno: anzi, gli impiegati che si erano recati in azienda per fare le buste paga ed erogare gli stipendi dei lavoratori - in sciopero da oltre una settimana contro il piano di ristrutturazione presentato dall’azienda, controllata dalla multinazionale tedesca ThyssenKrupp - si erano sentiti dire dai dirigenti di cambiare aria e tornarsene a casa. E ieri, tanto per gettare altra benzina sul fuoco, la nota ufficiale dell’azienda: gli stipendi di ottobre saranno pagati solo «al ristabilimento della necessaria operatività aziendale». Ovvero, quando gli operai dell’acciaieria cesseranno di scioperare.
Una lettera che deflagra come una bomba incendiaria su una città sconvolta da questo conflitto. «Acciai speciali Terni - si legge nel comunicato - precisa di avere già anticipato nel comunicato del 24 ottobre scorso che le difficoltà nello svolgimento delle normali prestazioni lavorative avrebbero potuto comportare un ritardo nella normale erogazione degli stipendi del mese. Nello stato attuale, persistono le medesime difficoltà a causa del protrarsi delle astensioni dal lavoro dei dipendenti dell’azienda e quindi al momento non è stato possibile dare corso al pagamento delle retribuzioni». Ast dunque pagherà gli stipendi alla fine degli scioperi, «e auspica che tale operatività possa essere ripresa con la massima urgenza».
«È l’ennesima provocazione», dicono i rappresentanti dei lavoratori, ieri impegnati in una lunga riunione delle segreterie provinciali. «Noi non ci muoviamo, lo sciopero andrà avanti», dice Claudio Bartolini, della segreteria della Fim Cisl di Terni, mentre la Uilm sta decidendo se avviare un procedimento legale per attività antisindacale contro un atto che per alcuni è anche una appropriazione indebita di stipendi che sono comunque dovuti. «Non sta pagando le retribuzioni - dice un operaio della Ast, furioso - ma non sta pagando nemmeno i fornitori, non paga nessuno». «Ci sono lavoratori che non hanno neanche un euro per pagare il pane, non ce la facciamo più», accusa Stefano Garzuglia, delegato della Fiom. Per Riccardo Marcelli, leader della Fim-Cisl di Terni e dell’Umbria, «negli ultimi tre mesi sono state cancellati venti anni di relazioni sindacali serie». Ovvero, da luglio, da quando Morselli è arrivata a guidare lo storico stabilimento di Terni. 
La protesta quindi continua; almeno fino a giovedì, quando è convocato il nuovo appuntamento al ministero dello Sviluppo Economico per discutere del piano industriale. Un appuntamento delicatissimo. Anche perché nonostante le valutazioni ottimistiche del ministro Guidi, per i lavoratori e i sindacati la riduzione degli esuberi promessa dall’azienda a Guidi si basa fondamentalmente solo sulle circa 150 persone che hanno deciso di licenziarsi o di optare per una mobilità incentivata che li accompagna al pensionamento. «In realtà non c’è stato alcun vero passo in avanti - spiega Marcelli - non è stato modificato di una virgola il piano industriale di ThyssenKrupp, che mette a rischio il futuro dello stabilimento».
Un invito a «rivalutare le modalità di lotta», per cercare di «compiere fino in fondo il primo passo utile per svelenire il clima» è arrivato e dal sindaco di Terni, Leopoldo Di Girolamo. Nel frattempo, in una lettera ai presidenti delle Fondazioni bancarie della regione, Sinistra Ecologia Libertà Umbria ha proposto la costituzione di un fondo straordinario e temporaneo di solidarietà per anticipare gli stipendi ai lavoratori.

il Fatto 2.11.14
La lady d’acciaio della Thyssen: “Se scioperate niente salario”
di Sandra Amurri


Oggi è la festa dei defunti. “Io non potrò portare fiori sulla tomba dei miei genitori perché non ho soldi. Non ci hanno pagato lo stipendio e con i pochi risparmi debbo sfamare i miei figli”. Scrive su Facebook uno degli operai dell’Ast-ThyssenKroup di Terni. “Sospeso lo stipendio di Ottobre fino a quando non smetteranno di scioperare”, recita la nota affissa in bacheca, stranamente non firmata dell’amministratrice delegata Lucia Morselli. Ma nonostante le manganellate della polizia subite durante il corteo di mercoledì scorso - come quella che ha provocato il trauma cranico al coordinatore Fiom Gianni Venturi che un video di You reporter ora vorrebbe attribuire a un uomo in borghese con caschetto blu e zainetto in spalle e stipendio negato - gli operai continueranno a lottare. “Non cederemo al ricatto per spaccare il fronte come soluzione della vertenza nella speranza che i più disperati, i separati che debbono pagare il mantenimento a mogli e figli, quelli che hanno un mutuo o un affitto sulle spalle, cedano e tornino al lavoro” spiega Massimiliano Catini delegato Fiom, 17 anni all’acciaieria. E come non definirlo ricatto mettere un operaio di fronte alla scelta fra due diritti, lo stipendio e lo sciopero in difesa del posto di lavoro? “Al ristabilimento della necessaria operatività aziendale, l’erogazione delle retribuzioni di ottobre verrà immediatamente effettuata”, afferma l’Ast nella nota precisando di aver “anticipato”, come dire, eravate stati avvisati, “nel comunicato del 24 ottobre scorso che le difficoltà nello svolgimento delle normali prestazioni lavorative avrebbero potuto comportare un ritardo nella normale erogazione degli stipendi del mese”.
STATE SERENI, termina la nota: “Al ristabilimento della necessaria operatività aziendale, l’erogazione delle retribuzioni di ottobre verrà immediatamente effettuata con priorità assoluta”. Ci sarebbe da ringraziare per tanta sensibilità l’ad Morselli soprannominata “lady di ferro” o “lady d’acciaio” arrivata alla ThyssenKroup il 3 luglio al posto di Marco Pucci dimessosi per andare all’Ilva di Taranto come direttore commerciale. La sua fama di tagliatrice di teste era nota. Alla Berco di Copparo, stabilimento ThyssenKroup, da dove arriva, aveva fatto quadrare i conti mandando a casa 438 persone. A Terni, dove il suo piano prevede la chiusura di uno dei due forni elettrici, sull’altare del profitto dovrebbero essere sacrificati 537 esseri umani, 445 operai e 92 impiegati.
Nata a Modena, 58 anni, sposata senza figli, laureata in Fisica è stata assunta a Finmeccanica poi a Telepiù, socia della Franco Tatò e partners, fino a essere stata incaricata dalla ThyssenKroup di tagliare i costi e rilanciare l’azienda. Di lei dicono: “È una donna che non lascia mai trasparire una briciola di umanità” e non arretra neppure di fronte al rispetto istituzionale. Quando gli operai circondarono la Palazzina per chiederle un incontro, ovviamente negato, restò chiusa in ufficio per 15 ore. Raccontano che al Questore che la invitava ad uscire dalla porta secondaria rispose: “Se ne vada, non è casa sua, questo è territorio tedesco”. Lei sa bene che la sola possibilità di “sbarazzarsi” degli esuberi è frantumare l’unità della lotta. Con questo intento all’una di notte, un freddo cane, si è presentata al presidio della portineria centrale chiedendo agli operai: “Che fate qua? Parliamo tra noi, basta a dar retta ai sindacati”. “È stato un miracolo che nessuno abbia reagito prima che arrivasse la Digos” dice Massimiliano. Lei che, come raccontano, poco prima aveva svegliato il Questore così: “Se hai le palle vieni con me al presidio”.
Ora il governo, dopo le manganellate, torna a promettere il suo intervento. Mentre risuonano le parole scritte da Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, a Franco Marinotti, Presidente della Snia-Viscosa (che aveva rilevato la fabbrica di armamenti Pignone con conseguente licenziamento di migliaia di operai): “Come può lei abbandonare al loro destino 3.000 lavoratori? Il capitano non abbandona mai la nave... La vita terrestre è un impegno per gli altri e non per noi: in vista di questo impegno ci sono conferiti gratuitamente i talenti spirituali, economici e fisici che possediamo”.
GLI DIEDERO del “pesce rosso nell’acquasantiera”, del “comunistello di sagrestia”. Lui continuò a difendere i diritti degli operai: “Pane e casa non si toccano”. Nessuno fu licenziato. Era il 1956. Altri tempi. Altri uomini.

La Stampa 2.11.14
In Italia il divario con i maschi vale quanto una busta paga
Lavoro, stipendi e disparità di genere Così in Italia le donne restano indietro
di Giacomo Galeazzi


Il sociologo De Masi: incidono figli e contratti con meno garanzie
Mezzo secolo di ritardo: di questo passo per arrivare alla parità di stipendio, secondo le ultime statistiche, bisognerà aspettare il 2058. E così nel 2014 il gap con i colleghi maschi costa alle lavoratrici italiane una busta paga. In Europa la differenza retributiva penalizza in media le donne del 16% (in Estonia il 27%), in Italia la distanza scende al 6,7% solo perché la proporzione di donne che lavorano è più bassa e nel Mezzogiorno solo due giovani su dieci hanno un impiego.
Il tasso di occupazione delle italiane è appena del 46%. Perciò il campione delle donne che lavorano, per le quali quindi si osservano i salari, comprende in misura relativamente maggiore donne laureate ed esclude quelle che, sulla base delle loro caratteristiche, avrebbero prospettive di remunerazione più basse. «In passato le italiane non lavoravano per un ritardo culturale, oggi invece si scoraggiano prima degli uomini nella ricerca di un salario e ripiegano sugli impieghi domestici- spiega a La Stampa il sociologo del lavoro Domenico De Masi-. Quando un’azienda deve ridurre la manodopera, si libera prima delle donne».
E gli stipendi più bassi dipendono da «una questione contrattuale», cioè «il datore di lavoro tende a pagarle meno e loro accettano di guadagnare meno perché altrimenti non vengono prese», precisa De Masi. Quindi «incide molto la maternità: se resta incinta l’imprenditore continua a pagarle una parte dello stipendio (l’altra la paga l’Inps) senza poter contare su di lei per un lungo periodo». Negli Stati Uniti, «la gravidanza viene trattata come una malattia e indennizzata per settimane non per mesi come nel nostro Welfare». Insomma, in Italia la proporzione delle donne nel mondo del lavoro è nettamente inferiore che in altri Paesi, dove guadagnano meno degli uomini, ma almeno riescono a lavorare. Molte italiane, o non entrano affatto nel mondo del lavoro o ne escono presto. L’Institute for women’s policy research attesta che «l’altra metà del cielo» rappresenta quasi la metà della forza lavoro, quattro volte su dieci è capofamiglia, è più istruita degli uomini eppure continua a guadagnare meno.
In Gran Bretagna il divario salariale è del 19,1%, nella Germania della cancelliera Angela Merkel arriva addirittura al 22,4%, in Francia al 14,8%. La differenza di stipendio è maggiore negli inquadramenti medi e bassi. Tra gli impiegati raggiunge il 15%, in ambito operaio si ferma al 10%. Mentre dirigenti e quadri si attestano al 10% e 6%. Secondo l’ultimo rapporto Almalaurea, in Italia a un anno dal titolo gli uomini guadagnano in media il 32% in più delle loro colleghe (1.194 euro contro 906). A cinque anni dalla laurea, il divario aumenta al 31% (1.587 contro 1.211).
Da quando, nel 2011, è stata inaugurata la Giornata europea per la parità, il divario salariale fra uomini e donne in Europa è passato dal 17,5% al 16,4. Ma la differenza grava come un macigno e si può tradurre in giorni di lavoro extra. In Italia ne servono trentasei alle donne per riempire il gap nel settore dei servizi, quello più «rosa», dove si concentra un terzo delle occupate (segretarie, impiegate, assistenti). La retribuzione oraria netta parla chiaro. In agricoltura ci vogliono due mesi per arrivare alla parità, in banca e nelle compagnie assicurative 59 giorni, nella pubblica amministrazione 39.
«Al momento di assumere un dipendente il datore di lavoro tiene conto del percorso lavorativo futuro- osserva De Masi-. Nella programmazione di un imprenditore non è la stessa cosa prendere in azienda una ventenne o un coetaneo maschio». Sono 702mila, infatti, le occupate con figli minori di otto anni che hanno interrotto temporaneamente l’attività lavorativa per almeno un mese dopo la nascita del figlio più piccolo: il 37,5% del totale delle madri occupate.
L’assenza temporanea dal lavoro per accudire i figli continua a riguardare solo una parte marginale di padri. Anche il congedo parentale è utilizzato prevalentemente dalle donne, riguardando una madre occupata ogni due, a fronte di una percentuale del 6,9% dei padri.

Corriere 2.11.14
Gli stipendi in Italia. Aumenta il divario rispetto agli uomini
di Elvira Serra


Goldman Sachs ha stimato che la parità di genere tra gli occupati potrebbe produrre incrementi del Pil del 13% nell’Eurozona e del 22% in Italia e nei Paesi più lontani dall’uguaglianza. Nessuno ha ancora calcolato, invece, quali frutti darebbe la parità di stipendio tra gli occupati.
Ce ne sarebbe bisogno? Sì. Altrimenti non si spiega perché quest’anno la Commissione europea abbia fatto cadere, per il secondo anno consecutivo, la Giornata per la parità retributiva nell’ultimo giorno di febbraio: è come se le donne lavorassero gratis per i primi due mesi del calendario.
Eurostat dice che in Italia il divario salariale uomo-donna ( gender pay gap ) è del 6,7%. Una tendenza, purtroppo, in salita: era del 4,9% nel 2008, del 5,5% nel 2009, fino al 6,7% del 2014. Sarebbe (abbastanza) confortante, se il campione preso in esame dalla Commissione europea non fosse di donne perlopiù laureate, dunque con una competenza misurabile, escludendo però quelle che svolgono mansioni più umili e meno retribuite.
Od&M Consulting, invece, società che fa capo a Gi Group, ha analizzato gli stipendi di quasi 400 mila lavoratori dal 2009 a oggi. E qui, guarda caso, si scopre che la differenza di stipendio raggiunge il 15% tra gli impiegati e il 10% tra gli operai. E va peggio subito dopo la laurea. L’ultimo rapporto di Almalaurea calcola che un anno dopo aver completato gli studi universitari i ragazzi guadagnano il 32% in più rispetto alle ragazze: 1.194 euro contro 906.
Interpellata al proposito dal Corriere della Sera qualche mese fa, Simona Cuomo, dell’Osservatorio sul Diversity Management della Sda Bocconi di Milano, ha fatto notare: «Le donne in materia di stipendi sembrano condannate all’inadeguatezza: se non chiediamo l’aumento siamo considerate poco determinate e consapevoli; se lo chiediamo, l’assertività viene scambiata per arroganza». E il gender pay gap resta.

Corriere 2.11.14
Le schiave nelle serre siciliane non sono più una «leggenda rurale»
di Dario Di Vico


A Vittoria qualcosa si muove. Dopo i reportage dell’ Espresso , del Corriere della Sera e di Piazzapulita che hanno raccontato il dramma delle braccianti rumene sottoposte ad assoggettamento sessuale da parte dei padroncini si è riunito per la prima volta in prefettura a Ragusa un «tavolo di crisi» al quale hanno partecipato anche sindacati e magistratura. Il prefetto Annunziato Vardè ha riconosciuto la gravità della situazione, il degrado del lavoro nelle campagne e la violenza ai danni delle donne romene. Un sopruso continuato e sordo che riduce in condizioni di schiavismo, secondo le stime del parroco don Beniamino Sacco, più di un migliaio di braccianti venute dall’Est per lavorare in Sicilia. Un’enormità che è rimasta celata per troppo tempo e che solo ora la società locale ha deciso di affrontare a viso aperto. Fino a qualche settimana fa, infatti, la tendenza in città era a considerare le ricostruzioni del sacerdote e della Flai-Cgil alla stregua di «leggende rurali» come se dietro non ci fosse una condizione reale di illegalità che andava e va affrontata e ribaltata. Naturalmente le autorità vorrebbero che le donne romene uscissero allo scoperto in un numero consistente e avanzassero formali denunce, ma non è facile che ciò avvenga da un giorno all’altro, senza adeguate garanzie di incolumità. È più realistico iniziare creando un’unità di intervento che veda operare insieme le istituzioni e le forze sociali e che attui un programma di controlli per rompere l’isolamento della comunità rurale e creare trasparenza su ciò che avviene di giorno e di notte nelle serre. Aumentare la pressione legale e reputazionale serve anche come deterrente verso i proprietari agricoli che altrimenti sono portati a pensare di poterla fare, sempre e comunque, franca.

Corriere 2.11.13
Pantofole e guanti nelle celebrazioni. Scarpe fatte a mano e vesti ricamate
Scandali, pedofilia e sfarzo nella diocesi ipertradizionalista
di Francesco Alberti


Albenga, voci di una sostituzione per il vescovo Oliveri. La replica: solo chiasso DAL NOSTRO INVIATO ALBENGA (Savona) Un sospiro e via, nel silenzio solido della cattedrale di San Michele: «Beati i perseguitati perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male di voi per causa mia…». Monsignor Mario Oliveri, il vescovo più discusso d’Italia, sceglie le parole di Matteo nel ponte di Ognissanti e solo un marziano in trasferta da Marte non coglierebbe nella sua omelia il tratto personale.
Non c’è angolo del suggestivo centro storico medievale di Albenga che non sia percorso da spifferi affilati. «Se ne va? Non se ne va?». «È in cima alla lista nera di papa Francesco». «È in arrivo il commissario». Le finestre hanno gli occhi. Nessuno si fida più di nessuno. Troppi scandali, troppi preti a dir poco disinvolti. Episodi boccacceschi, in certi casi da codice penale: preti indagati e condannati per pedofilia, sacerdoti che scappano con la cassa o posano nudi su Facebook o corteggiano le fedeli o fanno i barman in locali notturni. Sentenze, fascicoli della Procura, dossier anonimi. Tutto inevitabilmente ricondotto sulle spalle di monsignor Oliveri, 71 anni, da 24 dominus incontrastato, accusato di aver troppo tollerato, troppo coperto, troppo di tutto.
Fazioni contro. Nessuna possibilità di tregua. Al piano terra del Vescovado, il direttore della Caritas, Filippo Barbino, 46 anni, affonda il colpo: «La verità è che il vescovo ormai ha perso il contatto con la realtà, nega l’evidenza. Come Vicario di Cristo in terra dovrebbe ricercare il bene comune e non il proprio personale interesse: dovrebbe farsi da parte, dare un segno di umiltà». La risposta dello stesso vescovo, raggiunto telefonicamente dal Corriere , è un inno all’incomunicabilità: «Sono sereno. Le accuse ad alcuni sacerdoti? Solo un gran chiasso che non genera alcun bene alla Chiesa…». Se è per questo nemmeno ad Albenga, a sentire il sindaco Giorgio Cangiaro: «La gente è scossa, si rincorrono voci di ogni tipo: non è materia che mi compete, ma spero che tutto ciò finisca».
Sembrerà azzardato, ma tra i planetari problemi che assillano papa Bergoglio la pratica Albenga un posticino se l’è conquistato. «In quella diocesi ci sono problemi seri» è la voce che si rincorre da settimane in Vaticano. E i comportamenti più o meno libertini di alcuni sacerdoti sono solo un aspetto della questione.
La realtà è che questa diocesi, sotto il governo di Oliveri, è da sempre una sorta di ultima ridotta degli ultrà della tradizione preconciliare. Che qui sono tanti, forti e controllano il territorio. Sacerdoti che mal digeriscono (eufemismo) il nuovo corso di papa Francesco. Parrocchie (vedi Loano) nelle quali durante la Messa, anziché la formula «in comunione con papa Francesco», si continua a citare il predecessore Benedetto XVI. E di questa enclave fortemente «tradizionalista» il vescovo Oliveri è il punto di riferimento, lui che non ha mai nascosto simpatie per i lefebvriani, che fu tra i primi a celebrare la messa in latino dopo la liberalizzazione da parte di Ratzinger, che non disdegna vistosi paramenti d’oro e costose scarpe con fibbia d’argento a dispetto degli inviti alla sobrietà di Francesco. Inamovibile e intoccabile, il monsignore.
Lo stesso cardinale Bertone cercò inutilmente di convincerlo a trasferirsi a Roma. Rocciosamente difeso dai suoi come «un uomo di fede dal cuore generoso, un pastore sempre pronto ad accogliere preti scomodi e in difficoltà».
Ma ora sul suo regno sembrano scorrere i titoli di coda. Il recente invio ad Albenga del nunzio apostolico Adriano Bernardini è letto da tutti come premessa di un cambiamento ineluttabile (per la successione si fa il nome del salesiano Antonio Castellano). Dal Vaticano padre Lombardi non si sbilancia: «Non ci sono decisioni». Oliveri può ancora contare su sponde nella Santa Sede (i cardinali Leo Burke, Domenico Calcagno e Mauro Piacenza, oltre al vescovo di Ferrara, il ciellino Luigi Negri).
Ma, come dice un anonimo all’ombra del Battistero, «è sotto assedio, questione di giorni».

Repubblica 2.11.14
Il prete accusato di pedofilia
Trieste, protesta contro il vescovo nella chiesa del sacerdote suicida
di Irene Maria Scalise


TRIESTE Tutti fuori dalla chiesa in segno di protesta, mentre il vescovo si commuove. È successo ieri mattina nella parrocchia dell’Invenzione di Santa Croce a Trieste, dove martedì scorso si era suicidato don Maks Suard, accusato di pedofilia. I fedeli si sono fermati sul sagrato della chiesa contestando la scelta dell’arcivescovo di Trieste, monsignore Giampaolo Crepaldi, di celebrare la messa per la ricorrenza dei Santi proprio nella chiesa di Santa Croce, rinunciando alla cerimonia prevista in cattedrale a San Giusto.
La comunità è piuttosto sconvolta dai fatti accaduti negli ultimi giorni: don Maks era stato infatti accusato del reato di pedofilia per una vicenda di molti anni fa, relativa a una ragazzina di 13 anni, e martedì si era tolto la vita. E monsignore Crepaldi aveva deciso ieri di cambiare chiesa per la celebrazione festiva, proprio per essere vicino ai fedeli. «Vengo a condividere il vostro dolore — ha detto in lacrime nell’omelia — e vi parlo a cuore aperto». Ma Don Maks era molto apprezzato nella piccola comunità e alcuni fedeli avevano trovato quasi sospetto che gli venisse contestata una storia vecchia di 17 anni. Dopo l’accusa Don Maks aveva chiesto due giorni per preparare la lettera di dimissioni e una memoria scritta. E quando proprio monsignore Crepaldi si era presentato in parrocchia, per un incontro chiarificatore, aveva trovato il corpo privo di vita. Anche se le indagini sono ancora in corso, la Curia ha fatto sapere — con una nota — che il sacerdote aveva «ammesso le proprie responsabilità». E il vescovo ha ribadito di «aver agito per dovere di giustizia anche nei confronti della vittima».

il Fatto 2.11.14
Cattivi maestri
Caso Cucchi e migranti: la caccia al debole è aperta
di Furio Colombo


È una situazione da fiaba malefica, quella che ti trovi di fronte con il caso Cucchi, E non ha niente a che fare con il diritto e la procedura penale. Dunque: c’è un corpo martoriato di botte, lesioni, denutrizione, abbandono, complicazioni curabili ma non curate, e questo Cucchi muore per tutte queste ragioni, da solo. Ma non nel senso della solitudine, che è sempre una brutta cosa. E noi sappiamo che non può essere morto di sua iniziativa perché uno non può picchiarsi da solo, non può essere morto per denutrizione (e relative conseguenze fisiche) perché è sempre stato ospite di istituzioni (polizia di Stato, polizia carceraria, ospedale) e non può essere morto per mancanza di cure perché intorno al suo caso si alternavano ben sette medici in una rispettabile Azienda ospedaliera italiana.
Adesso una sentenza d’appello, che segue una sentenza di parziale condanna, decide le seguenti tre cose: primo: Cucchi è certamente morto nelle tragiche circostanze descritte. Secondo, Cucchi è stato certamente ospite detenuto di diverse strutture pubbliche. Terzo, Cucchi è morto nelle condizioni fisiche descritte (dunque non suicida ma per grave e indotto deterioramento fisico) mentre era scortato e “assistito”. Però non ci sono colpevoli. Per esempio, non uno dei medici, che erano tutti sul luogo della sua morte e responsabili del suo corpo da vivo, lo hanno visto passare da vivo a morto senza avere la minima nozione dell’evento e del che fare.
Il vento gelido della morgue per pestaggio, poi per abbandono, poi per celebrazione, ultimo scandalo (sentiamo dire: “vedete? Accuse ingiuste! Siamo tutti innocenti!” frase che implica: “Adesso chiedeteci scusa”) si sente in queste ore in Italia.
Una cosa capisci, o almeno intravedi: l’abbandono crudele e totale che ha provato, morendo, Cucchi. E ti rendi conto che non una sola voce politica (ovvero a nome e in rappresentanza dei cittadini) si sente in giro, né dal “partido blanco” né dal “partido colorado” (federati insieme, dicono, causa “riforme”) per dire che l’indignazione, ma anche lo stupore, non è sul diritto della sentenza, ma sul fatto, che si spiega solo con un rito voodoo contro il povero Cucchi.
QUI MI TOCCA ricordare, come spesso in questi casi, che i diritti umani e civili non sono apprezzati dagli apparati politici italiani di tutti i tipi, tranne quegli strani personaggi del partito Radicale e delle sue associazioni, che in questi giorni sono riuniti a congresso e di Cucchi parlano. Come parlano, da soli, dei campi di prigionia e di abbandono degli immigrati o delle carceri. Ma del loro congresso, opportunamente, per non scomporre la grande armonia, non parla nessuno. È giusto ricordare gli immigrati accanto a Cucchi. Restiamo nella categoria dei deboli, che sta diventando gran moda mettere subito e disinvoltamente sotto i piedi. Gli immigrati, infatti, se li soccorrete costano troppo (e nessuno nelle istituzioni ha speso una parola per il lavoro solitario della Marina italiana, che ne ha salvati a decine di migliaia in pochi mesi), se arrivano vivi portano tubercolosi, nella mite visione della Lega Nord. E possono essere infetti da Ebola, nella più vigorosa descrizione di Grillo, che moralmente si è messo sul piano di Salvini, ma scientificamente è più informato. Ricordiamoci però che, proprio mentre stavo scrivendo e mentre voi state leggendo, è stato posto fine all’unico impegno internazionale davvero di pace che ha onorato l’Italia in molti anni: l’operazione “Mare Nostrum”. Non ho visto invadere l’emiciclo di almeno una delle Camere da deputati o senatori decisi a denunciare che si è trattato di un delitto. All’operazione italiana di vasto soccorso a persone morenti, tra cui molti bambini e molte mamme, è infatti subentrata una molto più economica operazione di sorveglianza delle coste con bandiera europea, con un modesto finanziamento che consente di fare la guardia alle coste ma non di salvare. C’è un documento rigorosamente narrato e scrupolosamente provato su come l’Italia tratta chi sopravvive al deserto e al mare credendo di trovare rifugio nel nostro Paese. È un libretto di Donatella Di Cesare, Crimini contro l'ospitalità, (Il Melangolo).
L’AUTRICE è docente di Filosofia teoretica all’Università La Sapienza di Roma. Ma in questo testo esemplare è implacabile investigatrice e cronista di uno dei più malfamati “centri di identificazione e di espulsione” che il crollo della nostra cultura ha costruito come un bunker di massima sicurezza guardato da mezzi militari blindati, in località Ponte Galeria, periferia di Roma. È importante leggerlo per capire come è stata devastata la cultura italiana in alcuni suoi aspetti che il mondo riteneva tipici, e che persino l’ultimo conflitto aveva confermato: accoglienza, tolleranza e un aiuto, almeno un aiuto, ai più deboli. Ecco spiegate le botte violente, ingiuste, inspiegabili con cui sono stati accolti a un ministero di Roma gli operai di Terni in cerca di solidarietà e di salvezza per il loro lavoro. Tutti sappiamo che i poliziotti non picchiano per gusto. Ma nessuno (certo non Alfano) ha confessato da dove è venuto un ordine così incivile.
E come non provare disorientamento di fronte a sindacati di polizia che, invece di difendere (come merita) l’onore della divisa, si schierano con chi picchia, come se fosse un gesto volontario dei poliziotti, e non una strategia imposta dall’alto e da altri, per ragioni che noi (e gli agenti di polizia) non sappiamo. È una brutta epidemia dei periodi peggiori, la caccia ai deboli. Come dimostrano gli eventi, questo è il contagio che dobbiamo temere di più.

Corriere 2.11.14
Tutti gli incredibili errori del caso Cucchi
Domiciliari mancati e divieti alla famiglia
Tutti gli errori dall’arresto alla morte
di Giovanni Bianconi


La Corte d’assise d’appello ha ritenuto insufficienti le prove raccolte contro tre guardie carcerarie e tre infermieri (per la seconda volta) e sei medici (ribaltando il giudizio di primo grado), dopo un’indagine che forse poteva essere condotta diversamente e di un’impostazione dell’accusa cambiata più volte in corsa.
Tuttavia, le cause della drammatica fine di Stefano Cucchi ( foto ), entrato vivo e uscito cadavere dalla prigione in cui era stato rinchiuso, risalgono a comportamenti precedenti a quelli finiti sotto processo, a responsabilità di strutture statali mai giudicate. Fin dalla sera dell’arresto, il 15 ottobre 2009. Lo sorpresero con qualche dose di erba e cocaina, lo accompagnarono in una caserma dei carabinieri e Stefano ha cominciato a morire lì, prima stazione di una via crucis dalla quale non s’è salvato.

La sentenza di assoluzione è il nuovo anello della catena di eventi relativi alla morte di Stefano Cucchi, non ancora l’ultimo. Altri se ne aggiungeranno, con il ricorso in Cassazione e i nuovi sviluppi giudiziari. Per adesso la Corte d’assise d’appello ha ritenuto insufficienti le prove raccolte contro tre guardie carcerarie e tre infermieri (per la seconda volta) e sei medici (ribaltando il giudizio di primo grado), dopo un’indagine che forse poteva essere condotta diversamente e di un’impostazione dell’accusa cambiata più volte in corsa.
Tuttavia le cause della drammatica fine di quel giovane entrato vivo e uscito cadavere dalla prigione in cui era stato rinchiuso risalgono a comportamenti precedenti a quelli finiti sotto processo, responsabilità di strutture statali che non sono mai state giudicate. Fin dalla sera dell’arresto di Cucchi, 15 ottobre 2009. Lo sorpresero con qualche dose di erba e cocaina, lo accompagnarono in una caserma dei carabinieri e Stefano ha cominciato a morire lì, prima stazione di una via crucis dalla quale non s’è salvato.
Nel verbale d’arresto i militari dell’Arma scrissero che Cucchi era «nato in Albania il 24.10.1975, in Italia senza fissa dimora»; peccato che fosse nato a Roma in tutt’altra data, e che l’abitazione in cui risultava ufficialmente residente fosse appena stata perquisita, senza esito, alla presenza sua e dei genitori. Evidentemente il verbalizzante aveva utilizzato, sul computer, il modello riempito in precedenza con i dati di un albanese, senza preoccuparsi di modificarli: una sciatteria che ebbe conseguenze fin dalla mattina successiva, visto che il giudice che convalidò l’arresto negò i domiciliari per la «mancanza di una fissa dimora risultante con certezza dagli atti». Fosse tornato a casa, sia pure da detenuto, probabilmente Stefano sarebbe ancora vivo.
Incredibile, ma vero. Nello stesso provvedimento venne anche scritto che «il prevenuto, interpellato, dichiara di non voler dare notizia del suo avvenuto arresto ai propri familiari»; in realtà i genitori l’avevano visto quasi in diretta, perché dopo il fermo e la perquisizione i carabinieri gliel’avevano comunicato. E al papà che chiedeva se dovesse avvisare l’avvocato, risposero che non c’era bisogno, avevano già provveduto loro. La mattina dopo, però, Stefano non trovò in aula il difensore di fiducia che voleva, ma uno d’ufficio.
Quel giorno, nei sotterranei del tribunale, Cucchi è stato picchiato come risulta dalle stessa sentenza che, in primo grado, non era riuscita a individuare le prove per condannare i responsabili (in quella d’appello si vedrà, ma è verosimile che sia avvenuta la stessa cosa). La morte del trentenne però — che certamente aveva un fisico gracile ma sano, tanto che poche ore prima di finire in gattabuia era stato nella palestra che frequentava regolarmente — non dipende solo dalle botte. È dovuta al viavai tra il carcere di Regina Coeli (dove a un medico che aveva constatato i segni delle percosse disse che era caduto dalle scale, tipica giustificazione dei detenuti che non si fidano di denunciare gli aggressori) e l’ospedale dove si decise di non farlo restare per evitare i piantonamenti, fino al ricovero nel reparto penitenziario del Pertini: un pezzo di carcere trasferito dentro un policlinico.
Anche qui si sono susseguiti eventi che hanno contribuito alla tragica fine di Stefano: l’assurdo divieto per i genitori che non solo non poterono incontrarlo prima di ottenere il permesso del giudice — e siccome c’era di mezzo il fine settimana, il via libera arrivò solo il giorno della morte —, ma per loro era vietato anche ricevere informazioni sul suo stato di salute. Avevano avuto la comunicazione del ricovero, ma era impossibile conoscerne il motivo: una regola talmente incredibile che dopo la morte di Stefano fu cancellata dalla burocrazia penitenziaria.
In quei giorni di isolamento — con papà e mamma lasciati dietro una porta blindata, ai quali fu concesso solo di lasciare un cambio per il figlio, rimasto però integro perché nessuno si preoccupò di aiutarlo a cambiarsi visto che non si poteva muovere dal letto — Cucchi chiese inutilmente di parlare col suo avvocato o con un assistente del centro per tossicodipendenti che frequentava in passato. Richiesta che non è mai uscita dal chiuso dell’ospedale Pertini, nonostante fosse annotata sul diario clinico, visto che per quel motivo Stefano rifiutava il cibo e le cure. Con la calligrafia ormai malferma per lo stato di sofferenza in cui versava, aveva perfino scritto una lettera all’operatore sociale, per chiedergli aiuto: qualcuno la spedì dopo che era morto.
Per tutta questa incredibile catena di fatti e misfatti, e altri ancora, Stefano Cucchi «ha concluso la sua vita in modo disumano e degradante», come scrisse il magistrato Sebastiano Ardita, all’epoca funzionario dell’amministrazione carceraria, nella relazione ispettiva del dicembre 2009. Cinque anni dopo quella fine è rimasta senza colpevoli, ma il problema non è certo — o non solo — l’ultima sentenza.

Corriere 2.11.14
Articolo 18, il governo blinda la riforma
Il sì della direzione al segretario
La partita con la sinistra anche sulle correzioni alla legge di Stabilità
di Enrico Marro


ROMA Il Jobs act resta la priorità del presidente del Consiglio. Ed è senz’altro in cima alle preoccupazioni di Matteo Renzi. Più della legge di Stabilità, che comunque, nonostante qualche modifica, verrà approvata entro il 31 dicembre. Sul ddl delega di riforma del lavoro, invece, la partita è più complessa. C’è il rischio di una terza lettura al Senato, se la sinistra del Partito democratico, maggioritaria in commissione Lavoro alla Camera, riuscirà ad ottenere modifiche del testo uscito dal Senato col voto di fiducia.
Presidente della commissione è l’ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano, esponente della stessa sinistra pd e relatore di maggioranza della riforma. Ma perché Renzi tiene così tanto al Jobs act? Perché è convinto, e non si stanca di farlo notare a chi fa finta di niente, che è sulla riforma del lavoro che sono puntati gli occhi degli investitori e delle istituzioni estere e dei mercati. Ai quali non si possono lanciare messaggi sbagliati.
Tanto più che, come ha sottolineato il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, «è tornata la volatilità sui mercati finanziari europei». Gli input che il presidente del Consiglio ha dato al suo staff e al ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, sono due: niente cedimenti sull’articolo 18 e fare presto. Questo non significa che modifiche siano impossibili.
I pontieri sono al lavoro. Dal vicesegretario del Pd Debora Serracchiani al capogruppo alla Camera Roberto Speranza. Ma un compromesso sarà possibile solo a tre condizioni: eventuali aggiustamenti non devono compromettere la semplificazione dei licenziamenti; ritocchi si possono fare solo se la sinistra pd non continua a far campagna contro la riforma; ogni modifica deve essere concordata con Ncd, per essere sicuri che poi il Senato si limiti a una rapidissima ratifica. Da domani la commissione Lavoro si occuperà della legge di Stabilità e solo tra una settimana riprenderà ad esaminare il Jobs act. Sul quale tutti i gruppi presenteranno emendamenti. Quelli più insidiosi verranno dalla sinistra pd. Che come minimo chiederà di recepire nel testo il documento approvato dalla direzione del Pd che garantisce il diritto al reintegro anche sui licenziamenti disciplinari (oltre che su quelli discriminatori). Renzi vorrebbe evitare. Secondo lui basta l’impegno di Poletti, già dichiarato in Senato, che si provvederà con i decreti attuativi della delega. Probabilmente Damiano non presenterà emendamenti. Ma come relatore dovrà comunque esprimersi su quelli in votazione.
Al fine di evitare incidenti lo stesso relatore Poletti e i consiglieri di Renzi sono in contatto. Ma la soluzione non è stata ancora trovata. Molto dipenderà da cosa accadrà sulla legge di Stabilità. Osserva Damiano: «Stabilità e Jobs act sono collegati ed entrambi vanno modificati. Nella manovra vanno inserite maggiori risorse per gli ammortizzatori sociali e va tolto l’aumento del prelievo fiscale sui fondi pensione al 20%. Nel Jobs act bisogna almeno garantire il diritto al reintegro sui licenziamenti disciplinari e togliere le norme sul demansionamento, sui controlli a distanza e sull’abolizione della cassa integrazione per cessazione di attività».
Insomma: se sulla Stabilità ci saranno più soldi sugli ammortizzatori, come chiede per la sinistra pd anche Alfredo D’Attorre, il clima potrebbe migliorare e favorire un compromesso sul lavoro. Ma i margini sono stretti. Piuttosto che dare l’idea di aver sbracato sul Jobs act Renzi chiederà la fiducia anche alla Camera.
Ieri il presidente del Consiglio ha incassato un’indagine della Cna (artigiani) dove un’impresa su due si dice convinta che questo governo vincerà la battaglia contro la burocrazia e un sondaggio della Confesercenti dove invece si avverte che solo 2 lavoratori su 10 sarebbero interessati al Tfr in busta paga. Nei prossimi giorni Renzi visiterà più di un luogo di lavoro, da Brescia a Savona a Trieste fino a Taranto. E nella seconda metà di novembre convocherà di nuovo la direzione del Pd.

il Fatto 2.11.14
Il governo è diviso, si prepara lo scontro sulla Tav Torino-Lione
Gli esperti economici di Palazzo Chigi vogliono imporre l’analisi costi-benefici mai fatta
Dimostrerebbe che sono soldi buttati
Lobbisti del cemento in allarme
di Giorgio Meletti


Un tecnicismo è il detonatore e la bomba sta per esplodere sulla scrivania di Matteo Renzi. Ancora una volta - come ai tempi di Prodi - un governo guidato dal centro-sinistra sta per spaccarsi sulle grandi infrastrutture, rilanciate con entusiasmo dal decreto Sblocca Italia. Il tecnicismo è una strana mossa di Rfi, la società Fs che gestisce la rete ferroviaria. Nel nuovo contratto di programma con il ministero delle Infrastrutture ha corretto da 8,4 a 12 miliardi di euro il costo previsto del Tav Torino-Lione, con un’impennata del 40 per cento. In realtà è stata solo applicata al preventivo originario, stilato a prezzi 2012, l’inflazione degli anni occorrenti alla realizzazione, calcolata al tasso pessimista del 3,5 per cento annuo. Tanto che Mario Virano, commissario governativo della Torino-Lione, ha subito minimizzato: il costo previsto per il governo italiano (2,9 miliardi se arriva un cospicuo finanziamento europeo) non aumenterà di un euro.
MA TANT'È, quel numerino scritto da Rfi ha toccato nervi scopertissimi. Stefano Esposito, sostenitore acceso della Torino-Lione – tanto da essere nel mirino di frange violente dei No Tav – considera la correzione verso l’alto un siluro all’opera, tanto da aver ottenuto per l’11 novembre prossimo la convocazione dei vertici di Rfi alla commissione Trasporti del Senato. Il parlamentare piemontese punta a stroncare subito ogni resistenza facendo uscire allo scoperto i frenatori delle grandi opere. Solo che stavolta la lobby del cemento non se la dovrà vedere con localismi e ambientalismi, bensì con un’agguerrita pattuglia di economisti piazzati proprio a palazzo Chigi.
Il Tav Torino-Lione è solo la prima stazione di una via crucis destinata a toccarne numerose, soprattutto ferroviarie, come il terzo valico Genova-Tortona, il nuovo tunnel del Brennero e l’alta velocità Napoli-Bari, investimenti più celebrati che finanziati nel decreto Sblocca Italia, approvato alla Camera e in attesa del voto del Senato.
Il fatto è che la tesi principale degli oppositori della Torino-Lione – sono soldi buttati – ha sempre convinto anche Renzi. Ancora un anno e mezzo fa diceva: “Prima lo Stato uscirà dalla logica ciclopica delle grandi infrastrutture e si concentrerà sulla manutenzione delle scuole e delle strade, più facile sarà per noi riavvicinare i cittadini alle istituzioni. E anche, en passant, creare posti di lavoro più stabili”. Sulla Torino-Lione la bocciatura era quasi sprezzante: “Non credo a quei movimenti di protesta che considerano dannose iniziative come la Torino-Lione. Per me è quasi peggio: non sono dannose, sono inutili. Sono soldi impiegati male”.
Poi la politica ha imposto i suoi prezzi e Renzi, conquistando palazzo Chigi, ha confermato Maurizio Lupi al ministero delle Infrastrutture per non perdere l’appoggio parlamentare del Ncd e quello lobbistico del potente e trasversale partito del cemento. Il decreto Sblocca Italia è stato il trionfo di Lupi e dei suoi sostenitori, con grandi opere a strafare e ampi varchi per cementificazioni di ogni tipo.
Adesso però sono proprio i lobbisti del cemento e delle imprese di costruzione a notare con preoccupazione che tra gli esperti economici che Renzi ha portato a palazzo Chigi ci sono autorevoli avversari dello spreco di miliardi in nome delle imprescindibili infrastrutture. Il più insidioso è il bocconiano Roberto Perotti, uno che già sei anni fa pubblicò sul Il Sole 24 Ore rasoiate del seguente tenore: “Che cosa sarebbe più utile per l’immagine del Paese: ripulire i treni utilizzati da milioni di turisti stranieri o fare una galleria di dubbia utilità a costi esorbitanti? (...) Nonostante i loro eccessi, gli ambientalisti hanno ragione: deturpare una vallata per ridurre le emissioni dell’1% al costo di 16 miliardi è un buon investimento per le imprese appaltatrici, ma non per il Paese”.
SOLDI BUTTATI, dunque, come diceva Renzi finché ha potuto. E come pensa un altro esperto di palazzo Chigi, il deputato Pd ex McKinsey Yoram Gutgeld, che già in tempi non sospetti definiva le nuove linee ad alta velocità “opere faraoniche, miliardarie e inutili”. Per adesso la legge di Stabilità andrà liscia, e vedrà la conferma di tutti i finanziamenti previsti per la Torino-Lione e le altre grandi opere. Ma lo scontro è solo rinviato. Gutgeld e Perotti pensano all’arma totale, a uno scherzetto che per il partito del cemento è come l’aglio per i vampiri: imporre al Cipe - l’opaco comitato interministeriale dove si fanno i giochi per i grandi investimenti, una cosa che in Italia nessuno ha mai fatto, la cosiddetta analisi costi-benefici. Un esercizio che serve agli economisti per sapere se si sta spendendo bene o male. Domande come: serve davvero questa nuova ferrovia? Quanti posti di lavoro crea? È possibile spendere gli stessi soldi in qualcosa che dia risultati più interessanti? Siccome in Italia l’analisi costi-benefici non è mai stata adottata, a domande del genere si è risposto finora con slogan come “è per la competitività” o “ce lo chiede l’Europa”. Ma oggi l’unico argomento politicamente solido per andare avanti con la Torino-Lione è anche il più antipatico: non darla vinta ai No Tav.
IL NODO ADESSO sta per arrivare al pettine. Già la Corte dei Conti francese ha fatto notare che i miliardi di euro per la nuova ferrovia Torino-Lione sono sostanzialmente soldi buttati. Gli esperti di palazzo Chigi adesso si preparano a dare una spallata nella stessa direzione, scommettendo che nella difficile situazione dei conti pubblici si potrebbero risparmiare o spendere meglio decine di miliardi. Per adesso l’operazione è tenuta sotto traccia. Il momento propizio, superato lo scoglio della Legge di stabilità, potrebbe essere l’inizio del 2015, per evitare un duello con la lobby del cemento in un momento politicamente complicato. Nello scontro frontale tra il partito anti-spreco e quello del cemento guidato da Lupi è proprio Renzi che rischia di trovarsi schiacciato, se non si inventa una delle sue mosse.

Corriere 2.11.14
Senato, Italicum, regolamenti
Vedi alla voce riforme smarrite
di Michele Ainis


Sarà che siamo tutti un po’ nevrotici, volubili, distratti. Sarà che la memoria non è la prima qualità degli italiani. Ma non ci avevano raccontato che le riforme istituzionali devono precedere quelle economiche e sociali? Non si erano impegnati a liquidarle in un baleno? Certo, ammesso che la certezza trovi spazio fra le categorie della politica. E allora perché nessuno più se ne rammenta? Perché giacciono sepolte in una bara?
Proviamo a salire sulla macchina del tempo. Legge elettorale: timbrata il 12 marzo dalla Camera, al culmine d’una maratona notturna
e di molte polemiche diurne. Ma da 7 mesi chiusa nei cassetti del Senato, che non l’ha mai discussa. Riforma costituzionale: promessa da Renzi entro maggio, poi per giugno, infine approvata l’8 agosto dal Senato, con la minaccia di confiscare le ferie ai senatori. Nel frattempo sono andati in vacanza i deputati, perché alla Camera la riforma è ferma al palo. Regolamento della Camera: un anno di lavoro per generare un testo, poi sommerso da oltre 300 emendamenti. La prossima seduta cadrà dopo il 15 novembre, ma i 5 Stelle e Forza Italia non ci stanno. Vogliono attendere il nuovo bicameralismo, per non rischiare incoerenze.
Da qui il dubbio che tormenta la politica: nasce prima l’uovo o la gallina? Da qui la
nostra unica certezza: anche per oggi, non mangeremo l’uovo e non vedremo razzolare
la gallina. Non è affatto vero, però, che nel dubbio la politica stia con le mani in mano. No, su ogni riforma rimugina, riflette, ripensa. E cambia idea come san Paolo sulla via di Damasco. L’ Italicum ? Premio di maggioranza alla coalizione, anzi alla lista. La riforma costituzionale? Licenziata con l’impegno del governo di modificarla su aspetti per nulla secondari, come l’elezione del capo dello Stato. Significa che i mezzi risultati fin qui raggiunti sono in realtà falsi risultati. La revisione della Costituzione richiede 4 letture; ma se la seconda correggerà la prima, ne serviranno 5. Quanto alla legge elettorale, se cambia il suo principio fondativo toccherà riscriverla.
«Ci vorrebbero degli dei per dare leggi agli uomini», diceva Rousseau. Se ci fosse, questo dio legislatore scriverebbe prima le norme costituzionali, poi i regolamenti parlamentari, poi la legge elettorale. E magari con l’ultima riga d’inchiostro detterebbe pure una legge sui partiti. Invece quaggiù c’è al lavoro un diavoletto, che forse ha deciso d’anteporre la legge elettorale a tutto il resto. E forse il resto è un’elezione in primavera, con un sistema che presume l’abolizione del Senato, perché l’ Italicum vale solo per la Camera. Dal paradiso all’inferno, ma dopotutto ci siamo abituati.

Il Sole 2.11.14
Perché la legge elettorale rischia di bloccarsi nel «porto delle nebbie»
di Roberto D'Alimonte


Nebbia fitta sulla riforma elettorale. C'è un testo approvato alla Camera che da mesi aspetta di essere discusso in Senato. E invece non succede niente. È vero che si è parlato di modifiche e pareva che esistesse un accordo tra Renzi e Berlusconi per introdurne alcune. Ma dopo mesi di silenzio sembra tornato tutto in alto mare. Non si spiega diversamente la dichiarazione del presidente del Consiglio sul premio di maggioranza da assegnare alla lista e non alla coalizione. Per i non addetti ai lavori può sembrare una cosa marginale, ma non è così. Ricordiamo i fatti. Nell'attuale testo dell'Italicum se un partito o una coalizione arriva al 37% dei voti ha diritto a un premio in seggi del 15% che gli consente di arrivare ad una maggioranza pari al 52%.
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Se nessuno arriva al 37% i due competitori più votati si sfidano al ballottaggio. Con queste regole allearsi non è un obbligo ma solo una possibilità. Dato l'attuale quadro politico, questa possibilità dovrebbe interessare più a Berlusconi che a Renzi. È il Cavaliere che deve rimettere insieme i vari pezzi del centrodestra per tornare a essere competitivo. Ed è per questo che il patto del Nazareno non solo prevede che il premio possa andare alla coalizione, ma prevede anche un meccanismo che "costringe" i piccoli partiti a entrare in coalizione con i grandi, volenti o nolenti.
Questo meccanismo è rappresentato dalle soglie con lo sconto. L'invenzione è tutta italiana. Nell'attuale versione dell'Italicum se un piccolo partito decide di presentarsi da solo deve prendere l'8% dei voti per avere seggi; se invece decide di allearsi con uno dei partiti maggiori la soglia si abbassa al 4,5%. Con questo meccanismo il Ncd di Alfano, Fratelli d'Italia e forse anche la Lega Nord potrebbero difficilmente sottrarsi all'abbraccio del Cavaliere. Se invece il premio va solo alla lista, spariscono le coalizioni e con loro anche le soglie scontate. Non avrebbero più senso. Ci sarebbe quindi una sola soglia più bassa dell'attuale, visto che non è più scontabile, e i partiti minori potrebbero restare single.
Nella situazione politica attuale, in cui né Alfano, né la Meloni né Salvini hanno interesse a tornare sotto la bandiera di Berlusconi il premio alla sola lista va bene anche a loro. Sempre che la soglia per prendere seggi sia sufficientemente bassa, diciamo il 3-4%. Tanto gli va bene che pare che il Ncd ne abbia già discusso col premier. Alfano e colleghi aborrono talmente l'idea di essere costretti ad allearsi con Forza Italia da essere disposti anche ad accettare un premio che dà a Renzi la possibilità di vincere da solo.
Verdini, e con lui Berlusconi, hanno sempre considerato premio alla coalizione e soglie scontate come ingredienti essenziali del patto con Renzi. Perché improvvisamente e inaspettatamente vengono rimessi in discussione dal premier? In realtà il primo a pronunciarsi su questa modifica fu Berlusconi qualche tempo fa. E questo è molto curioso. Perché il Cavaliere dovrebbe rinunciare a uno schema che è funzionale al ricompattamento del centrodestra intorno a Forza Italia?
Come suo solito Verdini non parla. Berlusconi invece parla troppo, ma è indecifrabile. Un giorno dice una cosa e il giorno dopo il suo contrario. Spesso la giravolta avviene nello stesso giorno, a seconda di chi è l'ultimo interlocutore che incontra. Dare un senso a tutto ciò è impossibile. Al momento l'unica cosa certa è che non si sa cosa vuole veramente il Cavaliere. Si possono fare solo supposizioni come quella che voglia solo intorbidare le acque per evitare il voto anticipato.
Ma anche Renzi è un mistero. Il suo unico interesse dovrebbe essere quello di chiudere la riforma elettorale. Premio alla lista o premio alla coalizione per il Pd non fanno una grande differenza. La vera differenza è fare o non fare la riforma. È vero che il premio alla lista semplifica tutto ma perché rimettere in discussione ora il patto del Nazareno su una questione cruciale per Berlusconi? Insomma, è apparentemente irrazionale per Berlusconi accettare un premio alla lista ma se lui non lo vuole non si spiega perché Renzi tiri fuori ora questa idea. Quindi, cosa c'è sotto?
Oggi Renzi ha in Senato i voti per far approvare l'Italicum anche senza Forza Italia. Infatti se, insieme al premio alla lista, includesse nella riforma una soglia più alta per andare al ballottaggio, una soglia più bassa per accedere alla ripartizione dei seggi e il voto di preferenza potrebbe contare su una maggioranza anche senza Berlusconi. Tanto più che è probabile che il M5s sia favorevole a queste modifiche.
Né per Renzi queste modifiche rappresentano un problema perché non cambiano la vera sostanza dell'Italicum che sta nel fatto che – grazie a premio e doppio turno – saranno gli elettori a decidere nelle urne chi governa. Questo è ciò che conta veramente. Quindi delle due l'una: o Berlusconi è d'accordo sul premio alla lista e allora si aggiunga questa modifica alle altre sui cui esiste già un consenso o non è d'accordo e allora si lasci perdere. In ogni caso si vada avanti e si voti. A meno che Renzi non voglia rimescolare del tutto le carte e puntare a fare la riforma senza il Cavaliere. Cosa non facile, visto che c'è di mezzo anche la riforma costituzionale. Se così è, lo dica. È tempo di decidere. Non si può continuare con questa incertezza che inquina la vita politica. La chiarezza è un dovere per i partiti e un sacrosanto diritto per i cittadini.

Repubblica 2.11.14
La storia non si fa con un uomo solo al comando
di Eugenio Scalfari


HO SCRITTO più d’una volta nelle scorse settimane che abolire l’articolo 18 come il governo si propone di fare ritenendolo della massima importanza per il nostro prestigio a Bruxelles, non interessa invece né gli altri Stati dell’Unione né il Parlamento di Strasburgo né la Germania. Che l’articolo 18 esista oppure no è un fattore del tutto irrilevante per quanto riguarda la politica estera e il prestigio italiano in Europa.
Così scrivevo ma mi rendo conto che sbagliavo. Ed infatti: «Ai sensi dell’articolo 30 della Carta dei diritti, ogni lavoratore e quindi anche quelli extracomunitari ha diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato e incompatibile al diritto dell’Ue e alle legislazioni e prassi nazionali ».
Pertanto dell’articolo 18 il governo e addirittura il Parlamento italiano non possono decidere alcun provvedimento perché la legislazione europea fa premio su quelle nazionali di ciascun Paese, sempre che ovviamente i Parlamenti nazionali abbiano approvato e ratificato le disposizioni europee, ciò che da tempo è ovunque avvenuto.
È strano che neppure la Cgil e la Fiom, che portano avanti combattendo a mani nude la loro battaglia, ricordino l’articolo 30 della Carta europea; basterebbe invocarla per bloccare qualunque provvedimento nazionale in merito. Ed è altrettanto strano che neppure l’opposizione interna del Pd richiami quelle disposizioni di Bruxelles. Così si dimostra a sufficienza che il Pd si è trasformato in un partito personale guidato da un uomo solo. Del resto ciò sta avvenendo in tutta Europa, dove il partito personale prevale su ogni altra forma fin qui applicata o almeno ostentata.
ESISTE ancora un ostacolo al partito interamente personale ed è rappresentato dalle Istituzioni che esercitano la tutela della vigente Costituzione: il presidente della Repubblica, la Corte costituzionale, l’Ordine giudiziario.
Quest’ultimo non è neppure definito un potere e la ragione è evidente: si tratta di un potere diffuso del quale ciascun membro dell’Ordine è titolare. Il potere diffuso non è un potere costituzionale perché manca una gerarchia democratica che lo renda tale.
Il Consiglio superiore della magistratura sì, è depositario di un potere attivo di autogoverno e lo esercita infatti avvalendosi di una gerarchia democratica, ma ovviamente non può e non deve entrare nel merito dei singoli processi, sia nella fase inquirente sia in quella giudicante. La gerarchia esiste ma è molto debole. Le conseguenze si vedono e non sono particolarmente confortanti.
In particolare non è confortante la contrapposizione costante tra magistratura ordinaria e magistratura amministrativa. Accade sempre più frequentemente che i Tar intervengano sull’operato della magistratura ordinaria, la quale è strutturata su una triplice struttura organizzativa. Questo dovrebbe costituire un apparato garante del diritto delle parti in causa: ma il fatto che a questa gerarchia si aggiunga anche l’intervento della magistratura amministrativa non accresce anzi indebolisce quelle garanzie, come del resto ha già notato qualche giorno fa il presidente Napolitano.
L’esempio più recente e calzante riguarda il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris. È probabile che la magistratura ordinaria avesse male applicato la legge Severino, ma esistevano appunto gli altri gradi di giurisdizione per correggere; invece è intervenuto il Tar con una sospensiva, neppure con una sentenza di merito. La sospensiva ha reintegrato il sindaco con tutti i suoi poteri, rendendo in tal modo inevitabile l’intervento della Corte costituzionale. Tutto ciò non accresce le garanzie ma accresce la confusione e la perdita di tempo, uno dei fattori di debolezza non solo della giurisdizione ma anche dell’economia italiana e della sua competitività.
Quanto all’ostacolo di chi tutela la Costituzione nei confronti del partito personale, esso ha un solo modo per ottenere un risultato: aumentare il ruolo del potere legislativo nei confronti dell’esecutivo.
Purtroppo in questo caso, come già abbiamo più volte osservato, il presidente della Repubblica ha manifestato il suo appoggio alla proposta di diminuire la presenza del Senato nel potere legislativo e alla sua nuova funzione di organo amministrativo, per di più nominato o eletto in secondo grado dagli stessi organi e persone che spetterà al Senato controllare, correggere ed eventualmente sanzionare.
Da questo punto di vista mi torna in mente una recente immagine estremamente efficace di papa Francesco. La Chiesa, ha detto Bergoglio, è un castello fornito di un ponte levatoio. Se il ponte non è abbassato consentendo l’entrata e l’uscita delle persone, ma è costantemente elevato e il castello non ha conoscenza della società esistente, la Chiesa morirà. Un Papa non aveva mai detto una simile perturbante verità che se è vera per un organismo che rappresenta addirittura una religione, vale mille volte di più per un organismo amministrativo che ha fatto parte finora del potere legislativo. Se così non sarà più, la forza del potere legislativo decadrà pesantemente e contribuirà al predominio del potere esecutivo. Non è certamente un bel vedere il fatto di assistere ad una così profonda trasformazione del sistema.
*** C’è ancora un tema che desidero esaminare brevemente e che è diventato di attualità tra le persone riunite per tre giorni alla Leopolda. Una riunione di fatto di molti politici renziani, di data antica o recente.
Ad un certo punto di quella riunione Renzi ha detto una battuta piuttosto feroce nei confronti dei cosiddetti intellettuali che vengono spesso applauditi. Ed è giusto farlo, ha aggiunto il leader leopoldiano, ed ha battuto tre o quattro volte le mani. Era evidentemente un motto di spirito e come tale è stato interpretato dai presenti i quali hanno anche essi tributato agli intellettuali un ampio applauso-sberleffo e subito dopo l’hanno trasformato in una lunga orchestra di fischi e lazzi di vario genere.
Che avessero ragione? Che gli intellettuali siano dei vecchi o dei giovani bacucchi, delle impettite e spesso inutili presenze e supponenze? Che non siano mai stati loro a fare la storia, a prevedere un imprevedibile futuro e a sostenere a proprio vantaggio un passato che meriterebbe di essere collocato in soffitta o in cantina?
Questo, per quel che vale, hanno detto Renzi e i suoi accoliti e su questo sono stato indotto a riflettere.
In effetti, tra le due guerre del secolo scorso e poi con sempre più opere e approfondimento conoscitivi, nacque a Parigi L’École des Annales, di cui maggiori ispiratori furono Bloch e Febvre e alla quale collaborarono Levi-Strauss e Foucault. Questa scuola — ovviamente fatta di intellettuali — sosteneva la tesi che comunque non fossero i singoli, le persone con un nome illustre, gli eroi, i poeti, gli scrittori di tragedie o commedie, i letterati a fare la storia, ma piuttosto i ceti sociali, le numerose etnie, i ricchi, i poveri. Bisognava aver letto Ricardo e Malthus e magari Marx ed Engels per capire chi e come fa la storia. Fossero anche i renziani, che considerano il presente come la sola vera realtà. Attenzione: non Renzi (che è il nome di un singolo) ma i renziani che rappresentano la cornice di un quadro dentro al quale ciascuno può fare un segno, disegnare un paesaggio, ravvivare un colore.
È questa la realtà? E coloro che si pretendono e sono intellettuali non si amareggiano d’esser fischiati o tutt’al più ignorati? Ci ho pensato a lungo e poi mi sono chiesto: chi sono gli intellettuali? Quelli che intelligono, cioè capiscono. Capiscono se stessi e gli altri, tengono abbassato il ponte levatoio tra il dentro e il fuori. Fanno la storia. Sì, la storia la fanno loro e sono di parola. Vogliamo dirne i primi nomi? Vogliamo cominciare da Omero? Da Esiodo? Da Solone? E poi avanti, fino a Dante, Petrarca, Boccaccio, Marlowe, Shakespeare, Rabelais, Cervantes, Montaigne; e finendo il nostro elenco che potrebbe durare chissà quanto, con Einstein, Freud, Nietzsche?
Ce ne sarebbero pareti e pareti della Leopolda dove stampare alcuni di questi nomi. Forse perfino quello di Renzi. Lui è convinto di essere l’uomo della storia di oggi. Attento però: la storia si può far bene oppure male. Da soli si fa male. Ci vuole una squadra. Una squadra senza un nome non ha senso. Un nome senza squadra meno ancora.

Repubblica 2.11.14
Il partito di Renzi
Dopo un anno cambia l’elettorato, con un leader che strizza l’occhio al centrodestra e conquista lavoratori autonomi ma anche operai
La Cgil abbandonata dagli elettori Pd solo 1 su 4 la sostiene
di Ilvo Diamanti


IL CONTROCANTO fra la Leopolda e Piazza San Giovanni: sembra non finire mai. Le polemiche, nell’ultima settimana, si sono moltiplicate. Trainate da diversi protagonisti, di entrambe le parti. Camusso e Renzi. Picierno e Landini.
Interpreti e comprimari di una rappresentazione che ha fatto parlare di una frattura profonda. Fra due sinistre. Fra il Pd di Renzi e un nuovo partito. Alla sua sinistra. Tuttavia, il distacco fra la Cgil e il Pd di Renzi, il Pdr, non è recente. Non si è prodotto nelle ultime settimane. Si è consumato molto prima. A causa di un reciproco risentimento, fra la base della Cgil e i vertici del Pdr. Renzi, infatti, ha ri-posizionato il suo PD prendendo le distanze dalle tradizioni della sinistra comunista. Ma anche post-comunista. Da cui proviene la Cgil.
In parte, però, questi contrasti sembrano voluti dallo stesso Renzi, per ragioni di mercato elettorale. Il Pdr, infatti, si è definito di Sinistra e ha aderito al Partito del Socialismo Europeo. Ma si è orientato al centro. Volgendo lo sguardo più in là. A Centro-destra. La polemica con la Cgil riflette questa strategia di marketing politico. Alimentata dalle politiche sul lavoro condotte dal governo, in particolar modo attraverso la revisione dell’articolo 18. Simbolo di una stagione politica e sociale caratterizzata dalla mobilitazione sindacale e dalla concertazione. Alla quale Matteo Renzi ha posto fine definitivamente, dichiarando che “il posto fisso non esiste più”. E che, dunque, hanno poco senso anche le organizzazioni dei lavoratori “a tempo indeterminato”. I sindacati, appunto, con cui ha stabilito relazioni di reciproca diffidenza. E “senza concertazione”.
Naturalmente, Renzi ha scelto un bersaglio indebolito da anni di declino, nella percezione sociale. Il sindacato. Dal 2009 ad oggi, negli ultimi 5 anni, la fiducia verso Cisl e Uil, tra i cittadini, è scesa dal 26% al 16%. Nei confronti della Cgil: dal 35% al 22%. Così, Renzi ha fatto della Cgil il simbolo della sinistra della nostalgia, che si accontenta del 25%. E, anche per questo, è finita ai margini del PD di Renzi. Oggi, infatti, fra gli elettori del Pd, i simpatizzanti della Cgil sono circa il 25%. Poco più della media. Ma nel 2012 erano il 53%. Oltre il doppio. E nel 2009 oltre il 60%. Questa tendenza rispecchia, dunque, il reciproco distacco, fra il Pdr e la Cgil. A Renzi non piace la Cgil. E viceversa.
Tuttavia, la “caduta” della fiducia nella Cgil fra gli elettori del Pd (come ha osservato, fra gli altri, Lorenzo Pregliasco, di Quorum) costituisce anche un indice (e una conseguenza) dei cambiamenti avvenuti nella base elettorale del Pd. Che, coerentemente con le intenzioni del leader, si è allargata verso il centro e il centrodestra. Ha, infatti, assorbito Scelta Civica, l’Udc. Ma anche Ncd. Inoltre, ha intercettato frazioni significative di Forza Italia. Aree politiche che hanno scarsa sintonia con il sindacato e, soprattutto, con la Cgil.
Altrettanto evidente e profondo è il cambiamento, avvenuto in pochi mesi, nella base sociale del Pdr. Alle elezioni politiche del 2013, infatti, circa il 20% degli operai aveva votato per il Pd. Alle elezioni europee del 2014 questa componente era salita al 34%. Oggi, dopo le polemiche sull’articolo 18, si è ridimensionata al 28%. Comunque, più che al tempo del Pd di Bersani. Perché è da tempo, ormai, che gli operai non votano più per il Pd. Parallelamente, il peso degli imprenditori e dei lavoratori autonomi è cresciuto in modo sensibile e progressivo: dal 13% alle politiche del 2013 al 28% alle Europee, fino al 40% oggi.
Il Pd(R), in altri termini, oggi è più forte fra gli imprenditori e i lavoratori autonomi — ma anche fra i dirigenti, gli impiegati e i liberi professionisti — che fra gli operai. E se il suo peso, fra gli studenti, è cresciuto (oggi è il 40%), la categoria sociale che garantisce al Pd i maggiori consensi resta quella dei pensionati: 58%.
Anche la fiducia nel governo Renzi, peraltro, risulta molto elevata fra i pensionati, gli imprenditori e i lavoratori autonomi. Mentre appare decisamente bassa fra gli operai e, soprattutto, i disoccupati.
È come se Renzi avesse, davvero, spezzato i legami della “sua” sinistra con il passato. Con la sinistra storica, rappresentata dal Pci, dalla Cgil. E con il riferimento sociale — simbolico — da cui ha tratto senso e radicamento. Il lavoro — dipendente. La classe operaia. E, inoltre, con gli “esclusi” (dal mercato del lavoro). Già da tempo, d’altronde, la sinistra, in Italia (e non solo) ottiene i maggiori consensi fra i pensionati e i dipendenti pubblici. Fra le professioni “intellettuali”. Gli operai sembrano, invece, sempre più attratti dalla Lega di Salvini e dal M5s. Mentre il PdR ha intercettato il voto del lavoro “in-dipendente”. Degli imprenditori — grandi e, ancor più, piccoli. Quelli che, per riprendere il mantra di Renzi, non conoscono “posto fisso”.
Il problema, però, è che, così, anche il futuro politico di Renzi e del Pdr rischia di divenire instabile e precario. Come il lavoro. Come le organizzazioni e le identità politiche del passato. Dissolte, insieme ai vecchi partiti. Così non resta che correre, alla continua ricerca di nuove parole, nuovi luoghi, nuovi alleati e nuovi nemici. Senza fermarsi mai. Una professione che Renzi, fino ad oggi, ha saputo esercitare abilmente. Ma che nessuno, intorno a lui, è in grado di svolgere con altrettanta efficacia. Correre senza sosta e, in fondo, senza mèta. Detto così, più che una missione sembra una condanna.

Repubblica 2.11.14
Il lento addio del Pd alle primarie
Scontro sulla possibilità che saltino in vista delle prossime elezioni regionali in Veneto, Liguria, Campania e Umbria
Oggi la direzione democratica veneta deciderà di lanciare Alessandra Moretti senza il test del voto dei militanti
di Giovanna Casadio


Oggi in Veneto si decide. Non sarà uno spareggio facile tra “primarie sì o primarie no”. Ma d’altra parte Alessandra Moretti, eurodeputata di fresca nomina, veneta di Vicenza, è disposta a sfidare il leghista Luca Zaia, “governatore” uscente, solo se ha tutto il Pd dietro, compatto e unito. Il primo scontro sulle primarie in casa Pd parte quindi dal Veneto. Dove Simonetta Rubinato, parlamentare dem di Treviso, è pronta a correre e ritiene «un errore non fare le primarie». La sinistra del partito vuole che a trarre il dado sia il fronte renziano. «Non abbiamo nessun problema a evitare le primarie, lo dicano però i renziani — spiega Davide Zoggia — prendo atto che c’è un nuovo atteggiamento... Su Moretti siamo d’accordo, più che d’accordo, però non vengano poi a dire che siamo noi che non vogliamo le primarie». Se si facessero, l’appuntamento per le primarie venete è il 14 dicembre.
In vista delle regionali della prossima primavera, lo scontro sulle primarie si accende. Non sembra esserci effettivamente una gran voglia: da un lato si teme il flop, il calo di partecipazione che c’è stato sia in Calabria che in Emilia; dall’altro — accusa la minoranza dem — «c’è il decisionismo di Renzi...». Nico Stumpo, ex responsabile dell’organizzazione del Pd ai tempi della segreteria Bersani, sostiene che «il problema è la selezione della classe dirigente, bene se le candidature sono unitarie, se no meglio le primarie».
Concretamente, in Toscana le primarie non si faranno perché Enrico Rossi il “governatore” uscente, già anti renziano, ha avuto il viatico alla ricandidatura dallo stesso premier-segretario. In Umbria la situazione è più complessa. Catiuscia Marini vorrebbe ricandidarsi. Ma una parte del Pd chiede almeno le primarie perché dopo la sconfitta del centrosinistra a Perugia e la vittoria a Terni solo al ballottaggio si teme che il “continuismo” non paghi.
E poi c’è il “caso” Liguria. Dopo l’alluvione si vorrebbe evitare di stressare i liguri anche con le primarie. Ma la sinistra dem non la pensa così. A sorpresa spunta Sergio Cofferati, l’ex segretario della Cgil, leader anti renziano, come possibile sfidante di Raffaella Paita. Da Roma hanno sempre in mente di calare l’asso: candidare cioè Andrea Orlando, il Guardasigilli, spezzino e con un buon consenso. Che non sembra interessato. Conferma Daniele Marantelli, deputato dem: «Quando un ministro della Giustizia dice in un’assemblea di avvocati e magistrati che “quando uno inizia un lavoro lo deve finire” e riceve gli applausi, allora la discussione è chiusa». Però una personalità come Orlando eviterebbe le lacerazione nel Pd. Il lento addio alle primarie potrebbe colpire anche la Campania dove sempre si cerca un candidato forte e che tenga insieme tutti. Per ora il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca è più che mai intenzionato a presentare la sua candidatura alla presidenza della Regione e la minoranza potrebbe contrapporgli Andrea Cozzolino. Mentre Pina Picierno, eurodeputata, che ha attaccato alzo zero la Cgil e la Camusso inimicandosi mezzo Pd, sembra fuori dai giochi.
Fissate per fine mese, il 30 novembre, le primarie in Puglia tra Emiliano, Minervini e Stefàno di Sel. Michele Emiliano, ex sindaco di Bari, segretario del Pd regionale, è il super favorito. Nelle Marche ancora da decidere. Gian Mario Spacca vorrebbe essere confermato per un altro mandato, ma nel Pd la contrarietà è netta. A questo punto sarebbero inevitabili le primarie che vedono in lizza Alessia Morani, ex responsabile giustizia della segreteria renziana e Luca Ceriscioli, ex sindaco di Pesaro.

La Stampa 2.11.14
Rutellismo, start-up del renzismo
di Massimiliano Panarari


Se l’estremismo era la malattia infantile del comunismo, il «rutellismo» lo si potrebbe considerare l’atto iniziale (e la scena primigenia) del renzismo. O, sempre a suon di metafore, la sua start-up. Nella post-politica di Matteo Renzi c’è infatti parecchio dell’eredità di Francesco Rutelli segretario della Margherita e candidato primo ministro dell’Ulivo. Come pure del lascito da primo cittadino di Roma, punta negli Anni Novanta della compagine di quel «partito dei sindaci» scrutato con malcelata diffidenza da alcuni dei leader principali della sinistra postcomunista (in seguito rottamati), e divenuto fulcro della narrazione e retorica renziane prima dell’arrivo a Palazzo Chigi. Il Campidoglio di quegli anni, difatti, è stato il vivaio di molti degli esponenti dell’inner circle del premier, dal portavoce Filippo Sensi al freschissimo ministro degli Esteri Paolo Gentiloni; e, analogamente, dalla stagione ambientalista di Rutelli provengono altri dirigenti di spicco del nuovo corso renziano, come la pattuglia di estrazione legambientina. Insomma, il rutellismo come incubatore e nocciolo duro del renzismo, a partire dal fatto (lo ricordava ieri Fabio Martini) che la carriera politica del presidente del Consiglio ha preso la volata dalla presidenza della Provincia di Firenze, a cui era approdato proprio in «quota Rutelli».
Ma le affinità elettive si sprecano specialmente sotto il profilo della piattaforma politica, con la rivendicazione, che fu rutelliana, di un centrosinistra da rivestire di connotati sempre più post-ideologici. A ben guardare, infatti, il concept di «partito liquido» non è tanto (o non soltanto) di Walter Veltroni (il quale, innanzitutto per ragioni personali, sentimentali e di formazione politica, non è mai riuscito a strappare davvero e fino in fondo con certe formule e «visioni» della sinistra storica), ma ancor più di colui che si proponeva come la declinazione italica della terza via. La rottamazione ante litteram della forma-Partito di matrice gramsciana (e togliattiana) era assolutamente nelle corde (e nei desiderata) dell’ex radicale ed ex verde che fuoriusciva da un orizzonte di politica postmoderna e post-materialista antitetico alle macchine e organizzazioni di massa novecentesche. Memore anche della lezione della politica-spettacolo di Pannella, Rutelli ha spinto l’acceleratore sulla comunicazione all’americana (adottandone il marketing e invitando gli spin doctor dei democratici), e ha modificato il look del politico (giocando, da «piacione», a recitare il Clinton italiano, e non lesinando perciò il ricorso alle camicie immacolate). Liberal e filo-atlantista in politica estera, si era inventato, a imitazione del New Labour blairiano, il Big Talk che, visto oggi, assomiglia tanto alla Leopolda.
Poi, è vero, mancava la rottamazione in senso stretto, ma c’era la competition – e «senza far prigionieri» – per l’egemonia con gli eredi del Pci, e si intravedeva già distintamente la famosa «vocazione maggioritaria»… Vi ricorda qualcuno?
@MPanarari
Se l’estremismo era la malattia infantile del comunismo, il «rutellismo» lo si potrebbe considerare l’atto iniziale (e la scena primigenia) del renzismo. O, sempre a suon di metafore, la sua start-up. Nella post-politica di Matteo Renzi c’è infatti parecchio dell’eredità di Francesco Rutelli segretario della Margherita e candidato primo ministro dell’Ulivo. Come pure del lascito da primo cittadino di Roma, punta negli Anni Novanta della compagine di quel «partito dei sindaci» scrutato con malcelata diffidenza da alcuni dei leader principali della sinistra postcomunista (in seguito rottamati), e divenuto fulcro della narrazione e retorica renziane prima dell’arrivo a Palazzo Chigi. Il Campidoglio di quegli anni, difatti, è stato il vivaio di molti degli esponenti dell’inner circle del premier, dal portavoce Filippo Sensi al freschissimo ministro degli Esteri Paolo Gentiloni; e, analogamente, dalla stagione ambientalista di Rutelli provengono altri dirigenti di spicco del nuovo corso renziano, come la pattuglia di estrazione legambientina. Insomma, il rutellismo come incubatore e nocciolo duro del renzismo, a partire dal fatto (lo ricordava ieri Fabio Martini) che la carriera politica del presidente del Consiglio ha preso la volata dalla presidenza della Provincia di Firenze, a cui era approdato proprio in «quota Rutelli».
Ma le affinità elettive si sprecano specialmente sotto il profilo della piattaforma politica, con la rivendicazione, che fu rutelliana, di un centrosinistra da rivestire di connotati sempre più post-ideologici. A ben guardare, infatti, il concept di «partito liquido» non è tanto (o non soltanto) di Walter Veltroni (il quale, innanzitutto per ragioni personali, sentimentali e di formazione politica, non è mai riuscito a strappare davvero e fino in fondo con certe formule e «visioni» della sinistra storica), ma ancor più di colui che si proponeva come la declinazione italica della terza via. La rottamazione ante litteram della forma-Partito di matrice gramsciana (e togliattiana) era assolutamente nelle corde (e nei desiderata) dell’ex radicale ed ex verde che fuoriusciva da un orizzonte di politica postmoderna e post-materialista antitetico alle macchine e organizzazioni di massa novecentesche. Memore anche della lezione della politica-spettacolo di Pannella, Rutelli ha spinto l’acceleratore sulla comunicazione all’americana (adottandone il marketing e invitando gli spin doctor dei democratici), e ha modificato il look del politico (giocando, da «piacione», a recitare il Clinton italiano, e non lesinando perciò il ricorso alle camicie immacolate). Liberal e filo-atlantista in politica estera, si era inventato, a imitazione del New Labour blairiano, il Big Talk che, visto oggi, assomiglia tanto alla Leopolda.
Poi, è vero, mancava la rottamazione in senso stretto, ma c’era la competition – e «senza far prigionieri» – per l’egemonia con gli eredi del Pci, e si intravedeva già distintamente la famosa «vocazione maggioritaria»… Vi ricorda qualcuno?

il Fatto 2.11.14
Il miracolo del Faraone
La scalata del neo sotto-segretario alla scuola, dalla Sicilia al ministero
di Luca De Carolis


Il proconsole al Sud del divin Matteo. L’uomo delle trattative poco rottamatrici e tanto necessarie. Il neo sottosegretario all’Istruzione, Davide Faraone, è il renzismo trapiantato in Sicilia, corretto alla bisogna. Li ha gestiti e li gestisce lui, deputato palermitano di 39 anni, i rapporti con i capi bastone dell’isola. Preziosi innanzitutto nelle primarie del dicembre 2013, che hanno dato a Renzi la segreteria del Pd e un trampolino verso palazzo Chigi. In quel serraglio impazzito che è la politica sicula, Faraone piazzò accordi di peso.
PRIMO TRA TUTTI quello con Francantonio Genovese, signore del Pd a Messina, arrestato nel maggio scorso per accuse che vanno dall’associazione a delinquere alla truffa. Nelle consultazioni dem, Genovese portò in dote a Renzi il 90 per cento dei voti della sua città. Nessun patto invece con Mirello Crisafulli, eterno dominatore a Enna, che il 90 per cento abbondante lo regalò a Gianni Cuperlo. Ma il tempo e i calcoli politici sanano ogni ferita. Così nel febbraio scorso Crisafulli e l’uomo di Renzi, cioè Faraone, si sono accordati per appoggiare d’amore e d’accordo Fausto Raciti come nuovo segretario democratico in Sicilia. E pazienza, se poche settimane prima il Matteo prendi tutto aveva sibilato contro Crisafulli, cancellato come “impresentabile” dalle liste per le Politiche dalla commissione di garanzia del Pd. “La politica deve cambiare verso anche togliendo da ruoli apicali personaggi come Crisafulli” assicurava Renzi. Era quasi un anno fa. Ora l’ex sindaco fiorentino è premier. E Faraone ha un incarico di governo. Notizia molto prevista. Ex responsabile
Welfare del partito, Faraone era rimasto fuori dalla segreteria nell’ultimo rimpasto proprio perché destinato a più alta mansione. Così eccolo al ministero di Stefania Giannini, data più che in bilico nelle settimane scorse. Faraone l’aveva già scortata in estate, alla festa nazionale dell’Unità di Bologna. Erano giorni difficili per la Giannini, rampognata dal premier per le coperture insufficienti alla riforma della scuola. Faraone salì sul palco e disse qualche frase di circostanza. L’importante era esserci, per dimostrare che la ministra non era rimasta sola.
FIGLIO di un dirigente della Cgil, cresciuto nel Pds, più volte consigliere comunale a Palermo, Faraone fa il salto nel 2008, quando viene eletto nell’assemblea regionale siciliana con oltre 8mila preferenze. Nel 2012 si candida alle primarie per il Comune di Palermo. Arriva solo terzo, dietro Fabrizio Ferrandelli e Rita Borsellino. Per di più, inciampa in una telecamera. Un’inviata di Striscia la Notizia lo sorprende mentre rassicura il membro di una cooperativa di disoccupati, che poco prima si erano riuniti peri nvitare tutti i soci a votare per lui. “Sono caduto in un trappolone ordito dai miei rivali” protesta il renziano. Ma l’amarezza passa presto. Nel febbraio 2013 viene eletto deputato. In dicembre sono le primarie che incoronano Renzi con il 68 per cento. Il rottamatore fa il pieno anche in Sicilia, grazie al suo coordinatore regionale Faraone. Presto ricompensato, con l’entrata in segretaria nazionale. Appena nominato si ritrova indagato per peculato per le spese pazze nell’Ars. Gli contestano esborsi per 3330 euro. “Se mi rinviano a giudizio mi dimetto, anche da uomo. Ma sono tranquillo, so come ho speso quelle somme” assicura a La Zanzara. Il rapporto con Renzi prosegue sereno. Anche se il sostegno di Faraone al governatore Crocetta ha creato malumori ai piani alti. E allora, ecco le voci dalla Sicilia che parlano di una crescita nelle gerarchie isolane di Enzo Bianco, sindaco di Catania. Faraone potrebbe perdere la primazia, azzardano. Ma intanto è al governo. Con Matteo.

il Fatto 2.11.14
Vigilanza
La Banca d’Italia multa papà Boschi
La sanzione alla Popolare dell’Etruria ammonta a 2,54 milioni
Per lui 144mila euro
di Davide Vecchi


Al termine di due ispezioni avviate nel 2012 e nel 2013, banca d’Italia ha multato la popolare dell’Etruria e del Lazio per 2,54 milioni di euro. La maxi sanzione è a carico di 18 tra componenti ex componenti del collegio sindacale e del cda, tra cui Pier Luigi Boschi, padre di Maria Elena Boschi, ministro delle Riforme nonché direttore generale della fondazione Open, la cassaforte che finanzia l’attività politica di Matteo Renzi e ha coperto, tra l’altro, l’esborso di circa 300mila euro per la recente Leopolda.
Il padre di Boschi è vicepresidente di Banca dell’Etruria dal maggio 2014 e componente del cda dal 3 aprile 2011. Gli ispettori di via Nazionale a lui hanno comminato una multa di 144mila euro per “violazioni di disposizioni sulla governance, carenze nell’organizzazione, nei controlli interni e nella gestione nel controllo del credito e omesse e inesatte segnalazioni alla vigilanza”.
Da inizio 2013, inoltre, la sua posizione, come quella degli altri amministratori dell’istituto di credito, è al vaglio di due procure, Arezzo e Firenze. L’inchiesta della magistratura ipotizza i reati di false comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori, ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza e di falso in prospetto. Il padre del ministro però non sarebbe indagato, a differenza degli ex vertici della banca il presidente Giuseppe Fornasari, il direttore generale Luca Bronchi e David Canestri, dirigente centrale con deleghe alla pianificazione e al risk e compliance.
Lo scorso 21 marzo gli uomini del nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza ha perquisito gli uffici dei dirigenti dell’istituto su richiesta del procuratore di Arezzo, Roberto Rossi. L’inchiesta ha preso avvio, così come in tutti i casi simili a partire da Mps, dalle ispezioni svolte da Banca d’Italia. E se la magistratura, a quanto si apprende, è ancora in piena fase investigativa, via Nazionale ha invece completato i propri rilievi e, come detto, emesso la multa. I rilievi segnalati dalla Vigilanza sono molteplici: “Violazioni delle disposizioni sulla governance”, “carenze nell’organizzazione e nei controlli interni” “carenze nella gestione e nel controllo del credito”, “violazioni in materia di trasparenza” nonché “omesse e inesatte segnalazioni all’Organismo di Vigilanza”.
La multa, complessivamente, ammonta a 2,54 milioni di euro. La sanzione maggiore, 202.500 euro, è stata comminata all’ex direttore generale Bronchi, seguito, fra gli altri, da Massimo Tezzon (84mila euro), ex direttore generale di Consob e attuale presidente del collegio sindacale.

Corriere 2.11.14
Effetto crisi, De Benedetti meno prodigo
Conti in bilico per Libertà e Giustizia
di Massimo Rebotti


Milano L’ultimo bagno di folla, a Milano, è stato il 5 febbraio 2011. Erano i giorni del caso Ruby e 10 mila persone, chiamate a raccolta da Libertà e Giustizia, si riunirono al Palasharp per chiedere le dimissioni da premier di Silvio Berlusconi. Per l’associazione, fondata nel 2002 tra gli altri da Enzo Biagi, Umberto Eco e Alessandro Galante Garrone, Milano è un luogo centrale e proprio a Milano tra i sostenitori ora c’è preoccupazione.
I tesserati sono in calo, il quadro politico è cambiato e anche i conti scricchiolano. La sede centrale dell’associazione potrebbe essere smobilitata, disdetti i contratti per storici collaboratori, impegnati sui temi della legalità fin dai tempi di Mani Pulite. Alle origine delle difficoltà ci sarebbe anche un disimpegno economico dell’ingegner Carlo De Benedetti che, con Carlo Caracciolo, fu tra i fondatori e per tanti anni il principale sostenitore e finanziatore dell’associazione. Dalla Cir, la holding che presiede alle attività del gruppo, confermano «un ridimensionamento del contributo dovuto alla congiuntura». Dall’imprenditore ed editore di Repubblica è giunta in questi anni la gran parte dei contributi liberi (l’anno scorso circa 140 mila euro, poco più delle entrate provenienti dal tesseramento), serviti anche per ripianare i conti, e ora il «ridimensionamento» potrebbe portare conseguenze.
Milano non è solo la città dove Libertà e Giustizia è nata, al Piccolo Teatro nel 2002 davanti a migliaia di persone, ma anche delle tante sfide lanciate al centrodestra di Berlusconi. La chiusura della sede avrebbe quindi il significato simbolico di una stagione che si chiude. Ma le preoccupazioni dei sostenitori non finiscono qui. Potrebbe essere vicina all’abbandono anche Sandra Bonsanti, presidente dalla fondazione. L’ultima battaglia è stata contro la riforma del Senato: «Una svolta autoritaria». Tanti gli interventi del presidente onorario Gustavo Zagrebelsky, uno dei «professoroni» irrisi da Renzi nel momento più caldo della polemica. Poi il testo è stato approvato, Bonsanti ha annunciato un referendum ma, a differenza di altre volte, non ci sono state manifestazioni di piazza. Alla base della crisi quindi non solo le casse vuote ma forse anche un quadro politico molto cambiato.

Il Sole 2.11.14
Nazareno. In settimana possibile incontro tra i due
Il «piano B» di Renzi spaventa Berlusconi
di Barbara Fiammeri


ROMA Per un amante del calcio a tre punte, la melina è vissuta assai male. Ma è proprio questo lo schema di gioco che mister Silvio Berlusconi ha deciso per Fi. Prendere tempo, portare avanti il più possibile il confronto sulla legge elettorale e scavallare la possibile finestra elettorale primaverile. A condizione però che non pregiudichi la sopravvivenza del Patto del Nazareno. Per questo nei giorni scorsi ha telefonato a Matteo Renzi rassicurando il premier sulla volontà di andare avanti anche sul nuovo Italicum, quello che prevede non più il premio alla coalizione ma alla lista. Una disponibilità che però dentro Fi è vissuta malissimo. Così Berlusconi è rientrato sulla scena mostrando un po' i muscoli. Ha attaccato Renzi. «Il governo ha applicato una patrimoniale nascosta ai danni della classe media», ha detto a Bruno Vespa nel libro «Italiani voltagabbana» che uscirà a giorni. E, contemporaneamente, è tornato ad occuparsi a tempo pieno del partito. Va letta in questa direzione l'assemblea del 6 novembre dei gruppi parlamentari (compreso quello europeo) allargata anche ai coordinatori regionali e provinciali nella quale si decideranno le date dei congressi e il rilancio della campagna per il tesseramento.
«Io ci sono», è il messaggio di Berlusconi che da marzo tornerà un uomo libero e che dopo la sentenza del Tar, con cui de Magistris è nuovamente sindaco di Napoli, è convinto di poter ottenere dalla Corte di Strasburgo anche la piena agibilità politica e quindi la possibilità di ricandidarsi. Un argomento che il Cavaliere vorrebbe far entrare anche nel prossimo incontro con Renzi dove però il piatto forte resta l'Italicum.
Berlusconi lo sa e sa anche che Renzi vuole una risposta chiara sul premio di lista. «Siamo leali, responsabili ma non fessi. Va bene il premio di lista, ma discutiamone le implicazioni istituzionali», scriveva ieri Renato Brunetta su «Il Mattinale», la nota politica redatta dallo staff del capogruppo alla Camera. Implicazioni che imporrebbero di rivedere non solo soglie e premi ma di introdurre anche ulteriori modifiche costituzionali e quindi tempi decisamente più lunghi. Berlusconi però non può permettersi di tirare troppo la corda. Sa bene che Renzi ha già pronto un piano B, ovvero portare a casa la riforma elettorale senza Fi. I voti non gli mancherebbero. La Lega per ora preferisce giocare da battitore libero e rosicchiare consensi al suo ex alleato e quindi non si metterebbe sulle barricate. I partiti minori sarebbero addirittura favorevoli. Ieri la leader di Fdi Giorgia Meloni ha detto che «non si possono imporre le coalizioni attraverso la legge elettorale». Quanto al Ncd di Alfano, se al premio alla lista si accompagnasse l'abbassamento delle soglie di ingresso lo considererebbe decisamente un successo. Resta il M5s. Che non ha però una posizione definita e che continua a perdere pezzi. Gli ex grillini al Senato, dove i numeri della maggioranza sono esigui, sono già una quindicina. La verifica arriverà a breve. La riforma della Pa sta per lasciare la commissione Affari costituzionali che volente o nolente dovrà calendarizzare l'Italicum. Ecco perché l'incontro Renzi-Berlusconi probabilmente avverrà già in settimana.

Corriere 2.11.14
Mancino e le stragi: è vero, ci fu un ricatto
La deposizione di Napolitano: normale il coordinamento tra procure, nessuno interferì
di Giovanni Bianconi


ROMA C’è una questione che aleggia sul processo alla cosiddetta trattativa Stato-mafia: il presunto tentativo di condizionamento dell’inchiesta condotta dalla Procura di Palermo. Che, visto da un’altra angolazione, si chiama richiesta di coordinamento fra indagini di diversi uffici giudiziari (in quel caso, oltre a Palermo, Caltanissetta e Firenze).
È il motivo «ufficiale» delle telefonate dell’ex ministro Nicola Mancino al Quirinale, sfociate nelle polemiche sui colloqui con il consigliere giuridico di Napolitano, Loris D’Ambrosio, poi nella lettera di D’Ambrosio al capo dello Stato e infine nella deposizione di Giorgio Napolitano davanti alla Corte d’assise. Il quale ha toccato anche questo argomento, pur senza entrare nel merito della vicenda, sostenendo la correttezza dei comportamenti del suo consigliere; come già avevano fatto, nel corso del dibattimento, il segretario generale del Quirinale Donato Marra e il procuratore generale della Cassazione Gianfranco Ciani.
«Sul tema del coordinamento — ha spiegato il presidente della Repubblica rispondendo a uno dei difensori di Mancino —, sicuramente ne abbiamo discusso con D’Ambrosio, e condividevamo in pieno la necessità di dare rilievo a questo che d’altronde è qualcosa di scritto nelle norme. È scritto nell’ordinamento che ci debba essere coordinamento di attività investigative che insistano sugli stessi oggetti. L’ho detto poi pubblicamente parlando al Csm, e non ho motivo per modificare quella mia convinzione».
Più avanti, su domanda dell’avvocato di Totò Riina, Napolitano ha precisato che in passato c’era stato un intervento a seguito dei conflitti tra le Procure di Salerno e Catanzaro: «Sui contrasti tra autorità giudiziarie il dottor D’Ambrosio interveniva con suoi consigli presso di me, indipendentemente dalle indagini portate avanti da più Procure sulle stragi. Anche in altra precedente occasione, su altra materia, ci si era trovati di fronte a un contrasto aperto, lei ricorderà i titoli dei giornali “Guerra tra Procure”; lo dico perché come presidente del Csm non potevo ignorare la cosa. E di fronte a questi contrasti, invocava appunto il principio del coordinamento».
Dopo le parole del presidente della Repubblica sul «ricatto o addirittura pressione a scopo destabilizzante di tutto il sistema» ad opera della mafia con le bombe del 1993, Mancino — all’epoca ministro dell’Interno e oggi imputato di falsa testimonianza — commenta: «Non è una rivelazione di oggi, e io la condivido. Fu una strategia che cominciò dopo la sentenza della Cassazione che a gennaio del ’92 confermò gli ergastoli contro i mafiosi, a partire dall’omicidio Lima in poi. Ed è vero che se non ci fosse stata la strage di via D’Amelio avremmo impiegato molto di più a far approvare il decreto legge che introdusse il carcere duro. Io sono stato uno di quelli che ha sempre combattuto la mafia, basta rileggere gli atti parlamentari. Quando ci fu l’attentato ai Georgofili (maggio 1993, ndr ) convocai a Firenze un comitato per l’ordine pubblico, e c’era chi sosteneva che la mafia non c’entrava. Io invece dissi, anche in televisione, che si trattava di una bomba di origine mafiosa; sono stato uno dei primi a parlare di persone e terrorismo mafioso. Dopodiché se tutti dicono di non aver saputo niente della trattativa, perché avrei dovuto saperne qualcosa io che sul carcere duro per i boss non avevo alcuna competenza funzionale?».

Repubblica 2.11.14
Nicola Mancino
L’ex ministro dell’Interno, imputato al processo di Palermo: “Sono vittima di una campagna di stampa, telefonai a D’Ambrosio perché ero esasperato”
“La mafia ci ricattava ma noi non trattammo se credete a Napolitano dovete fidarvi di me”
intervista di Salvo Palazzuolo


La notte del blackout fu terribile. Ma non sospettammo infedeltà nelle istituzioni
Il consigliere del Colle si sentiva assillato? Io non volevo l’avocazione ma coordinamento fra le procure

PALERMO Nicola Mancino ha appena finito di leggere il verbale con la deposizione del presidente della Repubblica. Dice: «Se Napolitano non ha saputo niente della trattativa, se non ne hanno saputo niente i presidenti Ciampi e Scalfaro, perché avrei dovuto conoscerla io che non avevo alcuna competenza funzionale sulla questione del carcere duro?». Alle nove del mattino, l’ex ministro dell’Interno disquisisce al telefono sul suo processo: «La ricostruzione di Napolitano su quella stagione del 1992-1993 è molto interessante — dice all’inizio del colloquio con Repubblica — però francamente mi sorprende il clamore attorno alle sue parole, perché certe cose sul ricatto che la mafia voleva fare allo Stato le ho già dette io ai giudici di Palermo». Fa una pausa e riprende: «Queste parole non sono l’esordio di un’intervista, per adesso voglio solo ragionare su quanto sta accadendo attorno al mio caso e al processo di Palermo».
Ricordo il giorno in cui lei depositò in udienza una corposa rassegna stampa con le sue dichiarazioni. Fa riferimento a quelle parole a proposito del ricatto mafioso?
«Era la rassegna stampa del secondo semestre 1993 e del 1994. Vada a rivedere quello che dissi a Firenze, all’indomani della strage di via dei Georgofili. Era il 27 maggio 1993, dunque due mesi prima delle bombe di Roma e Milano citate da Napolitano. Mi trovavo a presiedere un comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza. Appena uscito, i giornalisti mi assalirono di domande. E io parlai senza mezzi termini di terrorismo mafioso, dissi che la bomba di Firenze era chiaramente di origini mafiose».
Cita questo episodio per dirmi che già due mesi prima degli attentati di Roma e Milano, quelli citati da Napolitano come segnale del «ricatto mafioso allo Stato», lei aveva già compreso la posta in gioco?
«È scritto nella rassegna stampa che ho consegnato al giudice delle indagini preliminari Morosini, molti mesi fa. Ma nelle cronache giornalistiche su quanto accade dentro l’aula bunker di Palermo non trovo equilibrio, anzi certe mie argomentazioni sono proprio ignorate dalla stampa. Lo ripeto: io non ho saputo mai nulla di una trattativa fra mafia e Stato. Così come non sanno nulla Napolitano, Ciampi e Scalfaro. E sono sicuro che anche Spadolini avrebbe detto la stessa cosa se fosse stato ascoltato dai magistrati prima di morire».
Come ricorda la notte delle bombe di Roma e Milano — 28 luglio 1993 — la notte del black out al centralino del Viminale? Nella sua audizione, Giorgio Napolitano ha rievocato, dopo una domanda del pm Nino Di Matteo, le parole del presidente del consiglio Ciampi, che arrivò a ipotizzare un colpo di Stato.
«Dopo l’esplosione riuscì a parlare con Ciampi, ma poi le comunicazioni si interruppero. All’epoca abitavo in corso Rinascimento, abbastanza vicino a Palazzo Chigi. E allora andai a piedi fino alla presidenza del consiglio. Ricordo che feci chiamare il capo della polizia Vincenzo Parisi, per convocare al più presto il comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza. Bisognava avviare subito degli accertamenti, per capire cosa fosse accaduto».
Aveste il sospetto che qualcuno all’interno delle istituzioni stesse tramando?
«Fu una notte terribile per le bombe che avevano dilaniato il paese. Ma non avemmo alcun sospetto di infedeltà all’interno delle istituzioni, tanto che per quelle nostre verifiche così delicate ci affidammo senza alcuna riserva alle forze che avevamo a disposizione, nell’ambito delle polizie e degli apparati di sicurezza».
Napolitano è tornato a ricordare le telefonate che lei fece al consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio, due anni fa. Ha dichiarato che D’Ambrosio si sentiva assillato.
«Ho già spiegato in aula qual era il clima di quei giorni. Il problema che mi spingeva a telefonare a D’Ambrosio era la mancanza di coordinamento fra le procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze sul tema della trattativa. Io solo quello volevo, il coordinamento. Non chiedevo alcuna avocazione dell’indagine di Palermo. E, in realtà, in quelle conversazioni più che chiedere, ascoltavo».
Ma il presidente utilizza un’espressione pesante: «D’Ambrosio si sentiva assillato ».
«Guardi, anche io sono stato destinatario di una pesante campagna di stampa, proprio come D’Ambrosio. Detto questo, telefonavo perché pure io ero esasperato, per la mancanza di coordinamento. Ho un doloroso ricordo di quei giorni».
Mancino si prepara alla sua audizione davanti ai giudici di Palermo, anche se ci vorrà ancora qualche mese. Già in un precedente colloquio ci aveva spiegato che alla corte riferirà «altre circostanze che risulteranno decisive ». Ora dice: «Nella mia lunga carriera non sono mai stato sospinto dagli eventi, il mio impegno contro la mafia è stato meticoloso ».

Corriere 2.11.14
Tangenti e sprechi. Sei miliardi di euro sottratti allo Stato
L’Italia degli sprechi sanitari, delle consulenze false e inutili, degli appalti truccati, delle truffe alla Comunità europea, della corruzione: sono oltre 13.300 le persone che in meno di due anni hanno provocato una voragine nelle casse dell’Erario di 5 miliardi e 700 milioni di euro
di Fiorenza Sarzanini


ROMA Ci sono i medici e gli operatori sanitari, i funzionari ministeriali e i lavoratori di primo livello, e anche i manager e gli impiegati. Negli elenchi compaiono tutti i dipendenti pubblici «infedeli», colpevoli di reati e di illeciti amministrativi, chiamati a risarcire i danni allo Stato.
Le ruberie e gli abusi
Sono oltre 13.300 persone che in meno di due anni hanno provocato una voragine nella casse dell’Erario di ben 5 miliardi e 700 milioni di euro. I dati dei controlli effettuati dalla Guardia di Finanza e dalla Corte dei conti dal 1 gennaio 2013 al 30 settembre scorso, fotografano l’Italia degli sprechi sanitari, delle consulenze false e inutili, degli appalti truccati e delle truffe alla Comunità europea. Ma forniscono, soprattutto, l’immagine di un Paese ancora segnato dalla corruzione. Perché è vero che molti di questi dipendenti pagano per omissioni e abusi, ma sono migliaia quelli che hanno intascato mazzette per sbloccare una pratica, pilotare una gara, sottrarre beni al pubblico per incrementare la propria attività privata.
Obiettivo degli accertamenti affidati agli specialisti del Terzo Reparto che si occupano di tutela della Spesa, è quello di verificare «l’impiego e l’utilizzo delle risorse pubbliche a seguito delle quali possono configurarsi ipotesi di responsabilità amministrativa per danno erariale». E dunque «possono essere chiamati a rispondere di tale particolare forma di responsabilità gli amministratori e i dipendenti pubblici che, nell’esercizio delle proprie funzioni, hanno determinato lo sperpero o la cattiva gestione della "cosa pubblica" attraverso comportamenti dolosi o determinati da colpa grave».
Un’attività che il comandante generale della Fiamme Gialle, Saverio Capolupo, ha voluto inserire tra gli «obiettivi strategici perché consente di combattere ogni forma di frode o spreco nell’utilizzo delle risorse della collettività».
I numeri e il «buco» della malasanità
Nei primi nove mesi del 2014 gli interventi sono stati incrementati del 24 per cento rispetto all’anno precedente consentendo di segnalare ben 7.368 persone e chiedere danni per 2 miliardi e 248 milioni di euro. Queste cifre altissime si sommano a quelle dello scorso anno: 5.987 dipendenti portati di fronte al giudice contabile e chiamati a risarcire tre miliardi e 541 milioni di euro. Il totale fa ben comprendere quale sia l’interesse di finanzieri e Corte dei conti a proseguire su questa strada e cercare in questo modo di far recuperare all’Erario ben cinque miliardi e 789 milioni di euro.
Proprio per individuare i settori maggiormente penalizzati dagli abusi di chi dovrebbe invece lavorare per tenere i conti in regola, si è deciso di scorporare i risultati relativi ai controlli compiuti. E si è evidenziato come la maggiore sofferenza riguardi la spesa sanitaria, con 1.176 dipendenti segnalati e un danno pari a un miliardo e 200 milioni di euro.
La Calabria rimane una delle Regioni dove più alto è il numero di episodi di malagestione, ma anche nel resto d’Italia si moltiplicano i bilanci in rosso causati dagli illeciti commessi dai dirigenti. I casi accertati sono nella maggior parte eclatanti, però fa impressione scoprire che ci sono medici disposti a rischiare il posto di lavoro anche per poche migliaia di euro.
È accaduto a un dottore dell’ospedale di Ivrea sorpreso ad effettuare visite private mentre aveva già timbrato il cartellino e risultava presente nella struttura pubblica. Guadagno calcolato tra il 2009 e il 2013: 110 mila euro (poco più di 27 mila euro all’anno) che gli sono costati la denuncia per truffa e il deferimento alla magistratura contabile. Comportamento analogo quello del direttore sanitario dalla Asl di Spoleto: mentre risultava in servizio, andava presso la Onlus che aveva fondato senza però comunicarlo alla sua struttura e così percepiva l’indennità di esclusiva da 23 mila euro l’anno.
I doppi pagamenti di Napoli
Tutt’altra entità di danno allo Stato ha provocato quello che è accaduto presso la Asl di Napoli 1 Centro. Gli investigatori del nucleo Tributario hanno scoperto che dal 2000 al 2012 tutti i fornitori sono stati pagati due volte, con un esborso non dovuto pari a 32 milioni di euro.
La Corte dei conti ha contestato gli ammanchi ai quindici amministratori che nel corso di questi dodici anni sono stati incaricati di gestire la contabilità della struttura. Non solo. Durante le perquisizioni sono state trovate in un archivio abbandonato documenti da contabilizzare — e dunque da controllare — per 560 milioni di euro.
«L’azienda sanitaria — annotano gli investigatori nella loro relazione di servizio — ha stipulato contratti con una società di revisione che ha effettuato un vaglio delle carte mai esaminate per un valore di circa 233 milioni di euro, rilevando ulteriori doppi pagamenti per 17 milioni di euro». Soldi che certamente potevamo essere utilizzati in maniera diversa, per migliorare le condizioni degli ospedali partenopei.
Le case popolari di Asti
Le ruberie dalle casse pubbliche certamente sono rese possibili anche da un sistema di controllo che appare totalmente inefficace. Per dieci anni nessuno ha verificato quanto accadeva all’Agenzia territoriale per la casa di Asti, dove il direttore Pierino Santoro è riuscito a portarsi via ben 9 milioni di euro grazie all’uso personale delle carte di credito dell’Ente e i prelevamenti in contanti.
Le indagini hanno accertato «la contabilizzazione di falsi mandati di pagamento, imputati a generiche “spese tecniche” mai sostenute, ai sistematici prelievi sul conto corrente postale intestato all’Agenzia dove gli ignari inquilini versavano i canoni di locazione». Con la carta di credito il direttore acquistava «abbigliamento e gioielli», mentre il resto delle risorse lo ha reinvestito in «auto di lusso, immobili a Torino e Asti, moto di serie limitata, polizze assicurative». Santoro ha patteggiato una condanna per peculato, adesso la Corte dei conti ha avviato il giudizio per il recupero del denaro.

il Fatto 2.11.14
Medicina, tilt del cervellone. Ottomila esami da rifare
Scuole di specializzazione, clamoroso flop al Ministero dell’università
di Chiara Daina


Vorrebbero che fosse solo un incubo i giovani medici che venerdì sera si sono visti annullare dal ministero dell’Istruzione (Miur) le prove scritte del primo concorso nazionale per l’ingresso alle Scuole di specializzazione. E invece è pura realtà. La selezione si è svolta tra il 28 e 31 ottobre e la per la prima volta è avvenuta per via telematica con test identici in tutta Italia. Ma per la maggioranza dei candidati, cioè 8.319 su 12.168 totali che hanno sostenuto le prove sia per l’Area Medica sia per l’Area dei Servizi, si è rivelata subito un disastro, perché le 30 domande comuni a ciascuna delle due aree sono state invertite e per un errore del genere dovranno ripetere il quiz il 7 novembre.
TUTTA COLPA del Cineca, il Consorzio interuniversitario incaricato di somministrare i test, che ha ammesso immediatamente lo sbaglio fatale. Ecco come sono andate le cose. Due sere fa, a seguito dei controlli di ricognizione finale sullo svolgimento dei test, il Miur si è accorto di “una grave anomalia” e per questo ha chiesto un approfondimento urgente al Cineca. A stretto giro il consorzio ha comunicato tramite lettera ufficiale di aver commesso “un errore nella fase di codifica delle domande durante la fase di importazione” di queste ultime nel database utilizzato per la generazione dei quiz. Erano le ore 20.52. Un secondo dopo il Miur ha deciso di vanificare i trenta quesiti sotto accusa per quei poveretti che credevano di dare una svolta alla loro carriera e invece hanno iniziato un altro calvario. E ha fissato per venerdì prossimo la data in cui potranno ripetere la prova. L’avviso è stato dato nelle ultime ore attraverso il sito riservato ai partecipanti per l’iscrizione ai test e attraverso il portale www.universitaly.it  .
“SONO ALLIBITO, non voglio ripetere la prova venerdì, non è giusto – si sfoga uno dei partecipanti, avvertito sul cellulare ieri pomeriggio da un collega -. Potrei non passarlo adesso, perché dovendo rifare solo una parte, nell’altra metà già consegnata potrei non aver raggiunto i punti sufficienti. Avevo calcolato il numero di risposte date e le domande lasciate in bianco, capisce? ”. Per non parlare dei soldi che ci ha rimesso. “Mi hanno chiamato per la selezione a Milano, così ho dovuto prenotare quattro notti in albergo, al mattino infatti si iniziava presto, alle 8.30, in treno sarebbe stato impossibile arrivare puntuale da Cremona. Quindi per alloggio, pasti e trasporto ho speso oltre 500 euro, libri esclusi, senza contare che intanto ho perso dei giorni di sostituzione in ambulatorio”. Ci sono altre pecche inaccettabili. “Eravamo disposti uno accanto all’altro senza un minimo di distanza e senza rispettare l’ordine alfabetico. Quindi gli amici si sono seduti vicino e volendo si poteva copiare. Abbiamo chiesto di mettere a verbale le modalità della prova ma gli organizzatori si sono rifiutati”. L’idea di un concorso unico per accedere alle scuole di specializzazione in Medicina era venuta all’ex ministro all’Istruzione Maria Chiara Carrozza (poco prima che passasse il testimone a Stefania Giannini), che ha tenuto a sottolineare la sua innocenza con un post su Facebook: “Io non ho partecipato alla sua organizzazione e non sono stata informata mai”. E poi: “Sono amareggiata per questo brutto esempio di storia con cui si è voluto umiliare i giovani medici e tutti quelli che credono nel principio dell’equità e trasparenza”.
Il Codacons ha detto che avvierà una causa collettiva contro il Cineca e il ministero dell’Istruzione. Il primo per l’errore materiale commesso e il secondo per i mancati controlli che hanno portato alla cancellazione delle prove. Già da domani i candidati interessati potranno scaricare dal sito www.coda cons.it   il modulo per chiedere un equo risarcimento ai due enti.

il Fatto 2.11.14
Torino
“L’omosessuale può guarire” Bufera sulla prof di religione
di Valeria Pacelli


Dopo il caso dell’insegnante accusato di offrire soldi agli alunni in cambio di sesso, l’istituto tecnico industriale Pininfarina di Moncalieri (Torino) torna a far parlare di sé. Questa volta, a fare scandalo sono state le frasi omofobe attribuite a un’insegnante di religione che durante una lezione ha sostenuto che l’omosessualità è “un problema psicologico da cui è dimostrato scientificamente che si può guarire”.
È questo l’epilogo di una discussione avviata da una platea di venti sedicenni che – secondo quanto riportato da Repubblica – avrebbe chiesto il parere dell’insegnante sugli omosessuali: “Secondo lei sono normali? ”. A questo punto il docente ha spiegato di “rispettarli, ma no, ovviamente non sono normali”, e poi ha raccontato la vicenda di un medico che, traumatizzato nella prima infanzia dalla vista del cadavere della madre, si sarebbe sentito attratto dalle persone del suo stesso “per timore di essere abbandonato da quelle dell’altro”. Poi, dopo mesi di terapia, si sarebbe “convertito” all’eterosessualità. “Grazie all’analisi, ha anche avuto dei figli”, ha sentenziato l’insegnante, secondo la quale dall’omosessualità si può guarire. Un’affermazione che ha scatenato le reazioni di molti alunni, che hanno raccontato la vicenda anche al preside dell’istituto, Stefano Fava. Questi ha sentito anche il parere del docente che ha minimizzato, spiegando di aver illustrato agli alunni le diverse teorie sull’omosessualità: quelle che lo considerano un orientamento naturale e quelle che la attribuiscono a un evento traumatico.
LUNEDÌ, IL PRESIDE deciderà se prendere provvedimenti o meno. Idea non condivisa dal radicale Silvio Vitale, che commentando la vicenda ha spiegato: “Io non chiedo provvedimenti punitivi di alcun tipo, ma un corso di aggiornamento sì. L’omosessualità non è una malattia. Una persona può cambiare, può essere eterosessuale esclusiva, può essere bisessuale, può essere omosessuale, può cambiare e diventare omosessuale. In ogni caso, nessuno di loro è un malato. Anche per questo è importante che lunedì il Consiglio Comunale di Torino discuta, finalmente, la mozione per la Trascrizione dei Matrimoni delle Persone dello Stesso Sesso nei registri comunali. Il significato simbolico, politico e pratico è evidente”. Il senatore Pd Andrea Marcucci, presidente della commissione Istruzione a Palazzo Madama, ha chiesto anche un intervento del ministro dell’Istruzione Stefania Giannini: “Il ministro intervenga per verificare ciò che è accaduto al Pininfarina di Moncalieri. Se confermate le ricostruzioni date finora, sarebbe un fatto intollerabile”.

Corriere 2.11.14
«Terapie per guarire dall’omosessualità»
Preside e Comune contro la professoressa
di Elena Tebano


«Essere gay è un problema psicologico da cui è scientificamente dimostrato che si possa guarire». Un’insegnante di religione dell’istituto tecnico Pininfarina di Moncalieri, nel Torinese, ha risposto così allo studente che le chiedeva cosa pensasse dell’omosessualità, e ha imbastito una lezione illustrando i supposti benefici delle «terapie riparative». «Di scientifico in quell’affermazione non c‘è alcunché: come spiega l’Organizzazione mondiale della sanità l’omosessualità è una variante normale della sessualità. E l’orientamento sessuale non si può cambiare» spiega Vittorio Lingiardi, psichiatra e professore di Psicologia dinamica alla Sapienza di Roma. E infatti l’Ordine degli psicologi italiano non solo vieta nel suo codice deontologico le terapie che mirano a trasformare gay e lesbiche in etero, ma chiede anche ai terapeuti di non ritenere «l’eterosessualità una condizione preferibile all’omosessualità». «Un’insegnante che definisce l’essere gay una malattia non soltanto fa un’affermazione sbagliata — aggiunge Lingiardi —, ma offre materiale a potenziali bulli», legittimando un fenomeno diffuso tra gli adolescenti. Il preside del Pininfarina ha annunciato un’indagine interna e il vicesindaco di Moncalieri Paolo Montagna ha assicurato che il Comune si muoverà per «adottare provvedimenti». Sul caso c’è anche l’interrogazione parlamentare del senatore democratico Andrea Marcucci, che ieri ha chiesto al ministro Giannini di intervenire.

il Fatto 2.11.14
Cagliari
Rivolta delle mamme: “Via quelle bidelle rom”
di V. P.


Dopo essere state assunte come bidelle, Vasvja Severovic e Sena Halilovic, due donne di rom, per poter lavorare devono fronteggiare l’ostilità di una quarantina di madri che non le vogliono più nelle loro scuole. È quanto accaduto a Monserrato, un paesino di 22mila abitanti in provincia di Cagliari, dove una delegazione di genitori si è rivolta al sindaco Gianni Argiolas per chiedere spiegazioni sull’assunzione di due donne nomadi nella suola elementare di via San Gavino. Al primo cittadino le madri hanno detto che “i loro bambini non frequenteranno mai istituti dove lavorano due che provengono da un campo rom” e hanno cercato di giustificare questa loro scelta sostenendo che “la presenza delle due bidelle non era inserita nel piano di offerta formativa”. Solo una piccola minoranza di queste madri, inoltre, si sarebbe lasciata andare anche a valutazioni meno eleganti. “Non le vogliamo perché sono sporche, puzzano, fanno paura ai bambini e si vestono in modo strano con le gonne lunghe”, queste le affermazioni riportate dalla stampa locale.
Il sindaco così ha ascoltato le opinioni dei genitori, ma allo stesso tempo, dopo aver parlato di un vero episodio di razzismo, si è detto “orgoglioso della scelta fatta” e di provare “vergogna” a nome di Monserrato. Argiolas ha spiegato che l’assunzione di Vasvja Severovic, vedova con sei figli, e dell’amica Sena Halilovic è avvenuta grazie a un finanziamento europeo, ottenuto con l’impegno di una Fondazione locale “Anna Ruggiu” proprio per favorire l’integrazione dei rom.
“ESSENDO AL CORRENTE delle carenze di organico nelle scuole elementari e medie – ha spiegato il sindaco – ho chiesto al preside di far lavorare le due donne per un anno. Ma oltre nelle scuole, verranno impiegate in altri settori dell’amministrazione per far conoscere loro il mondo del lavoro ai fini dell’integrazione. ”
Scelta evidentemente non condivisa da alcuni genitori. “Rubare ovviamente non si può, chiedere l’elemosina non sta bene e se lavoriamo è anche peggio”, ha commentato Vasvja Severovi, vittima di questo accaduto, che adesso, grazie allo stipendio di un anno, potrà mandare anche suo figlio a scuola. Da parte loro, le due donne hanno anche detto di non ascoltare più i commenti che sempre più frequentemente sentono fare da alcuni genitori e che continueranno a svolgere il lavoro per cui sono state assunte.

Corriere 2.11.14
Quell’indice dell’ignoranza primato senza gloria
Un sondaggio condotto in 14 Paesi ci assegna l’ingloriosa medaglia
La maggioranza crede che gli immigrati siano il 30%, mentre sono il 7%
La scarsa conoscenza della realtà è funzionale alla cattiva politica
di Beppe Severgnini

qui

il Fatto 2.11.14
Berlino. La caduta del muro che cambiò le vite degli altri
La scrittrice Schadlich: “Non sapevamo fare la spesa, c’era troppa scelta”
di Carlo Antonio Biscotto


C’era una tale quantità di prodotti e di marche nei supermercati che era impossibile fare la spesa. Ricordo che accompagnai mia madre subito dopo aver sentito alla televisione la notizia”, rievoca oggi la scrittrice Susanne Schadlich che ha trascorso l’infanzia nella Germania comunista, l’adolescenza in quella capitalista e ha finito per non sentirsi a casa propria né nell’una né nell’altra. Poco tempo prima suo padre, lo scrittore Hans Joachim Schadlich, era caduto in disgrazia per aver difeso pubblicamente il cantautore Wold Biermann che aveva osato criticare il regime e tutta la famiglia era finita nel mirino della polizia politica.
Sembrano giorni lontanissimi. Il 9 novembre i tedeschi festeggeranno il 25° anniversario della caduta del Muro di Berlino che consentì la riunificazione del Paese e determinò la fine di un regime che per moltissimi cittadini era diventato un incubo. Alcune cicatrici non si sono ancora rimarginate, ma le differenze tra Est e Ovest si sentono sempre di meno, specialmente tra i giovani. Lo conferma il responsabile dell’archivio della Stasi, la temuta polizia segreta della DDR: “Quando parlo con i giovani non fanno mai riferimento alla ex DDR o alla Germania dell’ovest; mi dicono semplicemente che sono tedeschi e in quale quartiere di Berlino abitano”.
QUALCUNO RICORDA i 100 marchi che il governo di Bonn dava come regalo di benvenuto ai cittadini della Germania orientale. “Lo ricordo benissimo quel giorno. Andai con mio padre a vedere cosa stava succedendo. Avevo appena otto anni e mi colpì vedere gente che si abbracciava e che cantava. Non che capissi, ma mi rendevo conto confusamente che stava accadendo qualcosa di eccezionale”, ricorda Katharina Marggraff, giovane pediatra di Berlino ovest che ha trascorso l’infanzia in un’isola occidentale circondata dal cosiddetto “socialismo reale”. Da piccola le sembrava normale vivere in una enclave, in una sorta di città-isola, oggi ha un atteggiamento diverso: “Non vedo significative differenze tra noi cresciuti a ovest e i tedeschi cresciuti a est. Ci divideva un muro, niente altro”.
Comunque sia, trionfalismi a parte, di differenze ce ne sono ancora e le promesse del Cancelliere Kohl ai cittadini della DDR nel corso della campagna elettorale del 1990 sono state mantenute solo in parte. Malgrado i progressi nell’ex DDR, permane una differenza del 6% circa in termini di PIL tra i cinque Land orientali e il resto del Paese. Inoltre i territori orientali hanno perduto il 20% circa della popolazione trasferitasi a ovest in cerca di migliori opportunità di lavoro. “È vero che non siamo ancora arrivati alla totale uguaglianza, ma non si sono nemmeno avverate le previsioni pessimistiche secondo cui l’ex Germania dell’Est sarebbe diventata una regione cronicamente sottosviluppata”, dice lo storico Heinrich August Winkler. Due nomi sono stati l’esempio emblematico della riconciliazione: quello della cancelliera Angela Merkel e quello del presidente Joachim Gauck, entrambi nati e cresciuti nella DDR.
È molto difficile incontrare un tedesco dell’Est che non ricordi con immenso piacere la caduta del Muro e la riunificazione delle due Germanie. Secondo una indagine condotta recentemente da Focus, il 75% degli abitanti dell’ex DDR si dichiarano soddisfatti del processo di riunificazione e della loro attuale condizione. Tra i giovani la percentuale supera il 96%. Ovviamente meno entusiasti del processo di riunificazione sono gli occidentali e infatti solo il 50% di loro considera un “buon affare” per la Germania la riunificazione del Paese. “Siamo una democrazia compiuta, ma il passato non ci consente di sentirci del tutto “normali”. Pesa ancora sulla Germania la maledizione di Auschwitz, un crimine con il quale dovremo sempre convivere”, sottolinea lo storico Winkler che proprio in questi giorni sta per dare alle stampe il terzo volume della sua monumentale storia dell’Occidente: Dalla guerra fredda alla caduta del Muro.
“ABBIAMO GUADAGNATO molte cose, ma abbiamo perso quel sentimento di solidarietà che provavamo nella DDR”, assicura Peter Steglich, ex ambasciatore trovatosi disoccupato alla caduta del Muro. Sua moglie, Mercedes Alvarez, spagnola, la prende con senso dell’umorismo: “Tempo fa mio marito parlando con un amico che aveva fatto il suo stesso lavoro per la Germania occidentale, gli disse quanto guadagnava. Alla settimana? rispose quello quando sentì la cifra. No, al mese. E scoppiarono a ridere”. Ovviamente non mancano i nostalgici. “Avevamo una sensazione di sicurezza. Non vivevi con la continua paura di perdere il lavoro, di finire in mezzo alla strada, di non poterti guadagnare da vivere. Ricordo la faccia di mio figlio quando per la prima volta vide un barbone a Berlino ovest. Non riusciva a capire per quale ragione in pieno inverno dormisse su una panchina”, dice Dagmar Enkelmann eletta deputata per il PDS alle prime elezioni del dopo-comunismo. “Nella DDR c’erano problemi di alcolismo, ma non sapevamo cosa fosse la droga”. La scrittrice Susanne Schadlich si ribella: “Argomenti risibili. I nostalgici in realtà rimpiangono la loro giovinezza. È ovvio che anche io ho dei buoni ricordi. Ma le cose positive esistevano malgrado il regime, non grazie al regime”.
Manfred Roseneit, uno degli ultimi ad abbandonare la DDR prima della costruzione del Muro, batte sul tasto della situazione economica: “Volevo semplicemente un lavoro migliore e meglio pagato e sono passato all’Ovest. Purtroppo per tanti anni non ho potuto vedere mia madre e mia sorella”. Anche la vita di Eric Pawlitzky cambiò completamente in quel fatale giorno di novembre del 1989. Aveva militato nel Partito socialista unificato, che però aveva abbandonato essendosi convinto che non era possibile cambiare il regime dall’interno.
Dopo la caduta del Muro ebbe la possibilità di leggere il dossier redatto su di lui dalla Stasi. Lo si descriveva come “nemico dello Stato socialista e diffamatore”. “È la prima volta che gli archivi dei servizi segreti vengono messi a disposizione dei cittadini comuni”, dice Eric. “Hanno potuto leggerli due milioni di tedeschi orientali e in questo modo i crimini del regime sono diventati di dominio pubblico”.

il Fatto 2.11.14
Diario del 9 novembre 1989
Quei giorni al centro dell’universo la libertà era una maglietta dei Clash
di Francesco Ridolfi


Quel contrasto tra i cittadini di Berlino Est me lo porterò nel cuore per tutta la vita: chi era cresciuto in una città senza muro guardava il foro in quella barriera dell’anima, scrutava la parte ovest, con gli occhi bagnati di gioia; chi invece era nato nella parte sovietica e ora si affacciava nell’occidente - che aveva visto solo gettando gli occhi al di là della barriera - aveva lo stupore di chi scende su un altro pianeta. Una cosa però era comune a tutti: quella gioia immensa che è la libertà. Avevo appena finito il servizio militare e con due amici ci imbarcammo in auto nel viaggio verso il luogo che sapevamo essere il centro dell’universo. Era da poco passato il 9 novembre, ancora non era stata fatta l’unificazione politica. Ma quella che la propaganda chiamava antifaschistischer schutzwall (barriera di protezione antifascista) era stata forata per sempre. Per arrivare a Berlino bisognava percorrere un centinaio di chilometri di una autostrada fatta a lastroni e con le torrette per le sentinelle, che spaccava la Ddr in due. Nessuna pompa di benzina lungo il tragitto. In quei giorni non si vedeva una macchina. Ci fermammo in qualche cittadina, dormendo in tenda per i campi. Alberghi neanche a parlarne. Gli abitanti della provincia non avevano mai visto un turista. Ti scrutavano, si radunavano attorno all’auto. Difficile comunicare. E nei bagni non c’era la carta igienica, ma i giornali di partito. Ogni tanto capitava anche una pattuglia della polizia della Ddr che ti seguiva e spiava da lontano, con una certa nostalgia. A Lipsia, per dire, città che con la “manifestazione del lunedì” del 9 ottobre 1989 diede uno scossone agli equilibri dell’epoca, c’era un improbabile ufficio turismo. Una stanza con un sonnolento impiegato che parlava solo il dialetto locale.
ENTRARE A BERLINO era come fare un tuffo nella vita. La gente si muoveva attorno al muro elettrizzata dall’euforia. Di varchi aperti ce n’erano pochi e per passare da una parte all’altra della città bisognava fare lunghe file in auto: da un lato quelle occidentali, dall’altra le squadrate Trabant, rigorosamente uguali. E colpiva il contrasto tra i vestiti colorati degli occidentali e il grigiore uniforme degli abitanti dell’est, quello tra i neon e le piatte insegne dei negozi della parte russa. Contrasti che si univano in abbracci spontanei e nello scambio di oggetti (molti ragazzi dell’est ti chiedevano le magliette dei Clash o dei Joy Division). Un contrasto ben rappresentato dall’installazione tridimensionale che si trova a Checkpoint Charlie, il posto di blocco del settore a controllo americano, oggi divenuto luogo della memoria.
In quei giorni il muro attraeva come una calamita. Gli artisti accorsi da ogni parte del mondo (molti dell’accademia di Berlino) stavano dipingendo quel chilometro di muro che diverrà un museo a cielo aperto, la East Side Gallery. Pitture come il bacio tra il segretario del Pcus, Leonid Il’i› Brenev e l’ex leader della Ddr Erich Honecker. Oppure quello che rappresenta la Trabant che squarcia il muro. Intorno a quei 155 km di barriera si accalcavano i mauerspechte (in tedesco significa letteralmente “picchi del muro”), ossia persone che staccavano pezzi di muro da tenere come souvenir. Ho continuato a tornare a Berlino regolarmente, l’ho vista fiorire e trasformarsi nella New York d’Europa. Una città viva e frizzante, tollerante e colta. Una città che ha dato una lezione al mondo.

il Fatto 2.11.14
La ragazza dell’Est che sognava le ostriche
La parabola di Angela Merkel, simboilo dell’unificazione
Dall’Università Karl Marx di Lipsia al ruolo di primo piano nel governo Kohl
Per il cancelliere era “La mia bambina”
di Mattia Eccheli


Berlino Una birra dopo la sauna. Niente di strano, lo fanno in molti, i finlandesi anche durante. Ma era la notte del 9 novembre e la città era Berlino, sul versante occidentale dove i primi tedeschi della ormai ex DDR si stavano riversando dopo aver superato il muro. Fra loro c’era Angela Merkel, la prima donna cancelliera, che lo scorso luglio ha festeggiato il sessantesimo compleanno. E che fra qualche giorno celebrerà anche i 25 anni di quella simbolica caduta. Che ha cambiato la storia del mondo, non solo la sua. “Era una birra in lattina”, ricorderà Merkel. E poiché era giovedì - “e il giovedì andavo sempre a fare la sauna” - la futura cancelliera aveva mantenuto l’appuntamento con una amica. Mentre il paese implodeva. Con la madre scherzava: “Se mai il muro non ci dovesse più essere – diceva – andiamo a mangiare le ostriche al Kempinski”. Un quarto di secolo più tardi, le due donne ancora non hanno onorato l’impegno.
L’UNIFICAZIONE è costata almeno 2000 miliardi di euro. Il che spiega come mai il 75% dei tedeschi dell’Est la giudichi positivamente (solo il 48% all’Ovest), anche se lo sviluppo economico è ancora un terzo sotto il livello della parte occidentale del paese e il salario medio lordo è di 3.094 euro da una parte e 2.317 dall’altra. Le differenze non finiscono qui.
Nata ad Amburgo, nella Germania Federale, Angela Dorothea – un destino nel secondo nome, lo stesso della storica corrente moderate della DC italiana – è cresciuta nella Germania Democratica. Dove, insinuano anche gli autori del libro Das erste Leben von Angel Merkel (La prima vita di Angela Merkel), godeva di ottime entrature negli ambienti politici, tanto da poter studiare all’università Karl Marx di Lipsia, una facoltà d’élite; faceva anche parte dell’organizzazione Freie Deutsche Jugend, il movimento della Libera gioventù tedesca del partito socialista della DDR occupandosi, secondo alcune fonti, della propaganda. L’adesione era volontaria.
L’EX GERMANIA dell’Est che si “riscatta” ha il suo volto, proprio quello della Merkel, anche se la cancelliera sorride raramente. E sempre con contegno. Conduce un’esistenza ritirata, confessa ancora di sentirsi “brandeburghese” e parla perfettamente il russo. La caduta del muro ha sancito la fine improvvisa di promettenti carriere. Non è stato il suo caso: Merkel fu protagonista di Risveglio Democratico (Demokratische Aufbruch), il partito nato in quel periodo nella ex DDR, finendo quasi subito a lavorare per il numero uno, Wolfgang Schnur, un avvocato “bruciato” di lì a poco quando emerse che per 24 anni era stato collaboratore del Ministero per la sicurezza. La giovane fisica non risente dello scandalo e pochi mesi dopo diventa la portavoce del nuovo presidente del consiglio dei ministri transitorio della DDR, Lothar de Maizière, cugino di Thomas, attuale fidato ministro degli interni e in precedenza alla difesa del gabinetto Merkel. Non due dicasteri qualsiasi.
Poi l’incontro con Helmut Kohl, il padre della riunificazione – recentemente apparso alla Fiera del libro di Francoforte in una affollatissima conferenza stampa per la riedizione di un suo libro, accompagnato dalle polemiche con il suo “biografo” - e la definitiva consacrazione nel firmamento della politica: nel 1991 è già ministro. Per l’allora imponente cancelliere – incarico svolto per 5 volte per un totale di 16 anni – lei era “mein Mädchen”, la “mia bambina”. Che ha sostenuto e incoraggiato.
Chi l’ha sottovalutata, è stato Gerhard Schroeder, cancelliere socialdemocratico al quale Merkel è succeduta: “Gliel’ho detto che prima o poi lo metterò all’angolo come lui ha fatto con me. Ho solo bisogno di tempo, ma quel giorno arriverà”.
Figlia della Germania “povera”, Angela Merkel guida ora quella “ricca”, che tira le redini dell’economia e della finanza europea. È la versione tedesca del “sogno americano”, anche se lei non era proprio “figlia di nessuno”.
Il padre, Horst Kasner, era un teologo della chiesa evangelica, destinato in missione oltre cortina, a Quitzow, assieme alla moglie, un’insegnante di inglese.

Corriere 2.11.14
L’ultima crudeltà sulle ragazze rapite
Boko Haram le ha fatte sposare
Smentito l’annuncio di tregua con il governo
di Michele Farina


«Le ragazze rapite? Acqua passata — ride il capo di Boko Haram nel video diffuso ieri — Le ho date via in matrimonio già da un pezzo. Tutte le oltre duecento ragazze di Chibok si sono convertite all’Islam perché è la religione migliore. I genitori devono fare altrettanto o rischiano di morire. Le loro figlie sono nelle case dei mariti. Hanno già imparato a memoria due capitoli del Corano».
Abdubakar Shekau ride attorniato da 14 uomini mascherati e da quattro gipponi, le bandiere nere mutuate da Al Qaeda e il tipo di boscaglia che ha fatto da sfondo ad altri suoi proclami. In lingua hausa, e a tratti in inglese, Shekau si fa beffe della tregua annunciata dal governo nigeriano il 17 ottobre. «Chi lo dice che stiamo dialogando o discutendo con qualcuno? State forse parlando a voi stessi? Noi non facciamo altro che ammazzare gente, con machete e armi da fuoco. La guerra è ciò che vogliamo». Il trentenne fanatico che un tempo si guadagnava da vivere raccogliendo lattine vuote al mercato di Maiduguri, il capoluogo dello Stato del Borno, minaccia il sedicente negoziatore Danladi Ahmadu, l’uomo che secondo le autorità di Abuja a nome di Boko Haram avrebbe trattato il cessate il fuoco e annunciato l’imminente liberazione delle studentesse rapite sei mesi fa nel villaggio di Chibok la notte prima degli esami. «Danladi? Non conosciamo nessuno con questo nome. Ma se lo incontriamo gli taglieremo la testa».
La beffarda videocassetta di Shekau consegnata a giornalisti locali non contiene sorprese. Il califfato proclamato ad agosto da Boko Haram non è dotato di una moderna casa di produzione media come l’Isis, non usa Twitter e YouTube ma ancora le vecchie modalità comunicative di Osama Bin Laden: videocamera, cassetta e postini in moto. Ma l’efficacia fa il paio con la ferocia. D’altra parte l’annuncio di tregua e le speranze di liberazione delle ragazze di Chibok erano subito state accolte da grande scetticismo già due settimane fa, prima ancora che il gruppo rapisse altre 60 donne e assaltasse altri villaggi. Certo le buone notizie venivano da fonti autorevoli: il capo delle forze armate e il portavoce del presidente Goodluck Jonathan. Ma già in passato i governanti del più ricco Paese d’Africa hanno dimostrato di non essere credibili: pochi giorni dopo il sequestro delle studentesse di Chibok un ministro disse che erano già libere!
Nessun commento ufficiale ieri sul messaggio di Shekau, arrivato a poche ore dalla ricandidatura di Goodluck alla poltrona presidenziale in vista delle elezioni del prossimo febbraio. Beffe, figuracce, giochi di propaganda e rimpalli di responsabilità si susseguono sulla pelle delle famiglie: «Non avevamo preso sul serio la notizia della tregua — ha detto ieri al Guardian Pogo Bitrus, capo degli anziani di Chibok — Quelli non hanno mai smesso di attaccare». Gli fa eco il pastore cristiano Enoch Mark, che ha una figlia e una nipote tra le ragazze rapite: «E’ un altro colpo, ma non smettiamo di sperare».
In cinque anni di guerra almeno 500 donne da zero a 65 anni sono state rapite da Boko Haram, secondo un rapporto presentato questa settimana da Human Rights Watch. C’è chi ipotizza che il gruppo sia diviso tra fazioni in lotta, altri che evidenziano invece la struttura fortemente gerarchica della struttura che fa capo a Shekau. Il governo nei mesi scorsi l’aveva addirittura dichiarato morto in combattimento. Se quello del video è il sosia, non ha certo mostrato indecisioni nel minacciare di morte l’unico bianco in ostaggio, un insegnante tedesco prigioniero da luglio.
Nel Nord-Est si continua a combattere di villaggio in villaggio. I droni inviati dagli americani non sono serviti, anche se secondo il governo il nascondiglio è stato individuato. E’ più probabile che siano state divise in gruppi fin dall’inizio. Su 276 studentesse rapite, 219 rimangono missing , in gran parte cristiane. Una delle scampate, Maria, ha raccontato alla Bbc il modo in cui si presentarono i miliziani quella notte: «Cosa ci fate a scuola? Venite qui a prostituirvi».

il Fatto 2.11.14
L’intervista Piercamillo Davigo
“M’immaginavo i corrotti con la lingua verde come i Visitors”
Il magistrato si racconta: gli studi, gli inizi, Tangentopoli
“La prima volta che ho interrogato un indagato per tangenti, avevo di fronte un giovane uomo proprio uguale a me
Stiamo antipatici non alla gente, ma a chi governa”
”La corruzione? È un reato seriale: chi lo fa, lo fa tutte le volte che ne ha occasione e con ragionevole certezza di impunità”
di Silvia Truzzi


Tutti sono stati bambini. Anche quelli che nell’immaginario collettivo assomigliano molto a Javert – l’implacabile ispettore di polizia che per tutta la vita sta alle calcagna di Jean Valjean nei Miserabili di Hugo e che rappresenta l’ineluttabilità della Giustizia. Molto prima di Mani pulite, a metà degli anni 50 in un piccolo centro della Lomellina, incontriamo un ragazzino con i pantaloni corti che gioca per le strade del paese. All’anagrafe Piercamillo Davigo: mamma impiegata della Stipel (l’antenata della Sip), papà agente di commercio. La scuola non è cominciata per il meglio: “Il maestro, il secondo giorno in prima elementare, ci disse: ‘In Italia l’istruzione è obbligatoria per almeno otto anni, questo significa che potete fare otto volte la prima elementare. Come accade a lui’. E fece alzare un ragazzo altissimo che lui aveva avuto in prima elementare ed era stato bocciato da tutti i maestri che si erano succeduti: si accingeva a fare con noi per la sesta volta la prima elementare. Questa storia mi levò il sonno: pensavo al mio triste futuro, otto volte in prima elementare. La scuola dei miei tempi era irragionevolmente autoritaria”.
Non farà l’elogio dell’anarchia?
Non ho assolutamente nulla contro l’autorità, altrimenti non potrei fare il mestiere che faccio. Una cosa che mi ha colpito nel Piccolo principe di Saint Exupéry è quando il re spiega al piccolo principe che l’autorità riposa soprattutto sulla ragione. Se ordini al tuo popolo di andare ad affogarsi in mare, farà la rivoluzione. Nel ’68 il ministro della Pubblica istruzione aveva autorizzato i capi d’istituto a far svolgere assemblee studentesche. Il preside rispose così alle nostre richieste: non se ne parla neanche. Un professore, con cui ci lamentavamo del diritto negato, ci disse che era giusto. Noi ci indignammo: “Ma è un nostro diritto! ”. E lui: “Diritto? Se io vado dal sarto con una stoffa per fare un vestito, il sarto ha dei diritti, io anche ma la stoffa no. I vostri genitori vi hanno mandato qui per prendere la maturità: loro hanno dei diritti, noi abbiamo diritti. Voi siete la stoffa”.
La scuola che è venuta dopo non era meglio.
No, forse però la nostra era basata solo sull’apprendimento di nozioni.
È vero che ha preso 7 in condotta?
Io ero molto vivace, però allora la disciplina era di ferro.
Ha fatto l’università negli anni Settanta, un periodo movimentato.
All’epoca mi facevo dare i volantini perché su di me non avevano effetto, ma almeno ne toglievo un po’ dalla circolazione. Chiedevo: posso averne anche degli altri? Ho frequentato Giurisprudenza a Genova, la contestazione lì è arrivata tardi. Poi mi sono laureato in scienze politiche a Torino.
Perché due lauree?
I giuristi non hanno nessuna preparazione nelle scienze sociali e questo significa che in genere non capiscono i fenomeni sottostanti alle norme. Mentre Giurisprudenza qualcosa che sia suscettibile d’immediata applicazione t’insegna, Scienze politiche serve a poco da un punto di vista pratico, molto da un punto di vista culturale. M’iscrissi alla seconda facoltà mentre lavoravo all’Unione industriali di Torino. Avevo già fatto il militare, come ufficiale. Siamo nel ‘76.
Pieno terrorismo. E Torino era una città pericolosa allora.
Io mi occupavo di relazioni sindacali, ovviamente dal punto di vista delle organizzazioni imprenditoriali.
Non la parte giusta...
Una volta un mio amico mi ha detto: una vita al servizio della repressione. Comunque, dopo una trattativa molto dura, avevano cominciato a scrivere su un muro antistante il mio ufficio: “Davigo fascista sei il primo della lista”. Regolarmente gli imbianchini la cancellavano e loro la riscrivevano. Non mi sono mai preoccupato perché dopo un po’ cambiarono frase: “Davigo abbiamo perso la lista, ma tu sei sempre il primo”. La trovai meravigliosamente ironica e pensai che nessuno con quel senso dell’umorismo poteva davvero spararmi.
Questa cosa del fascista le è rimasta appiccicata. Cossiga una volta ha detto a Claudio Sa-belli Fioretti: “Borrelli, un aristocratico conservatore, D’Ambrosio, un vero comunista, Davigo, un fascista, Colombo, un extra-parlamentare e Di Pietro uno di estrema destra”.
Quando mai! Chi fa questo mestiere crede nel rispetto delle regole, nell’uso della ragione e non della forza: l’esatto opposto del fascismo.
Ma i magistrati hanno il monopolio dell’uso della forza!
Certo. Infatti io non penso che uno che ha fatto l’obiezione di coscienza al servizio militare possa fare il magistrato. Che differenza c’è tra usare la forza e ordinare di farlo?
Torniamo a lei. Quando diventa magistrato?
Dopo l’Unione industriale vinsi il concorso e feci l’uditorato a Milano. Il mio decreto ministeriale è del 27 giugno 1978. Subito dopo il sequestro Moro, sembrava che lo Stato non esistesse più. Ricordo le immagini sconfortanti del Palazzo di giustizia circondato da cani lupo, agenti armati, poi costruirono addirittura un’inferriata. Una volta ero insieme al magistrato con cui facevo il tirocinio. Gli agenti, in ottemperanza agli ordini ricevuti, pretendevano di perquisire la sua borsa. Lui si rifiutò, ebbe una reazione molto ferma: “Le persone che sono qui, sono qui perché l’ho disposto io”. Da allora non fecero più le perquisizioni ai giudici. L’idea che lo Stato, che non riusciva nemmeno a impedire la consegna delle lettere di Aldo Moro, pensasse di perquisire dei magistrati era a dir poco una stravaganza.
Gherardo Colombo in un’intervista a questo giornale ha detto: “Milano negli anni Ottanta, alle dieci di sera e nei weekend, era deserta: io andavo in giro in moto, quando mi fermavo al semaforo e qualcuno attraversava la strada dietro di me, mi aspettavo un colpo in testa”.
Io ho sempre avuto una forte dose d’incoscienza. Ma quando mi occupavo di criminalità organizzata – dal 1982 all’86 – ero scortato in modo pesante: avevo l’auto blindata e un’altra macchina con tre carabinieri di scorta. La radiomobile di zona arrivava quando entravo e uscivo da casa e ufficio. Quando si avvicinava una moto, magari con due che portavano il casco integrale, e il carabiniere armava la M12, il cuore aumentava le pulsazioni. Erano tempi in cui le persone venivano uccise e per ragioni incomprensibili. Non voglio togliere nulla ai meriti di chi è morto, ma molti di loro sono caduti senza una ragione. Sotto questo profilo il crimine organizzato è molto più attento nella selezione dei propri obiettivi. I terroristi uccidevano persone che ritenevano un pericolo, ma non lo erano più di altri.
Falcone era veramente un pericolo per la mafia?
Era un pericolo, inoltre era pericoloso l’esempio che aveva dato. Il maxiprocesso era stato un risultato straordinario. Bisognava impedire che a qualcun altro venisse in mente di fare altrettanto. Non ha funzionato. Ricordo quando la procura mandò Corrado Alunni - brigatista fondatore di Prima linea - a giudizio per direttissima: era l’epoca in cui non si riuscivano a fare le Corti d’Assise perché i giudici popolari si davano malati. E perfino qualche magistrato lo faceva. Borrelli era il presidente dell’ottava sezione penale, davanti alla quale Alunni fu tradotto per essere giudicato. Ma era a casa con una gamba ingessata. Rientrò in servizio, presiedette il processo, condannò Corrado Alunni a 12 anni. Una pena severa e a quei tempi una sovraesposizione.
Perché lo fece?
Disse: se si devono correre dei rischi, li deve correre il presidente di sezione e non qualcun altro al suo posto. Io pensai: questo è un uomo coraggioso e con il senso delle istituzioni. C’è un altro episodio che mi ricordo di quegli anni. Dopo l’omicidio di Emilio Alessandrini, l’Anm convocò un’assemblea. E venne anche Pertini, allora Capo dello Stato. Un giovane pretore, Giovanni Porqueddu, si alzò e disse: “Io credo che abbiano ucciso Emilio Alessandrini per intimidire i colleghi della Procura. Devono sapere che per ognuno che cade, c’è qualcuno che prenderà il suo posto. Oggi stesso presenterò domanda di trasferimento alla Procura. Io non li so fare i processi che faceva Alessandrini, però potrò sollevare quelli che sono capaci da un po’ di lavoro, in modo che si possano concentrare su quei processi”.
Prima di Milano la sua sede era stata Vigevano. Piccolo tribunale.
Nel ’79, eravamo in sei magistrati, sette con il presidente. M’imbattei subito in una vicenda che suscitò clamore. Tre impiegati dell’Ufficio Iva di Pavia vanno a fare un controllo fiscale da un orefice a Mortara, vicino a Vigevano. E gli chiedono un orologio d’oro per il loro capo e cinque milioni per loro. L’orefice - contrariamente alle statistiche era una persona per bene - va dai Carabinieri, che lo portano subito dal procuratore. Questo gli dice: lei paghi, ci dia il numero di serie delle banconote e domani fuori dal suo negozio troverà i Carabinieri. Cosa che puntualmente accade e i tre vengono arrestati in flagranza. Il procuratore li va a interrogare e nota un particolare: cioè che questi facevano il servizio insieme per la prima volta. E spiega: ma se la prima volta uscite insieme fate una cosa del genere, vuol dire che lo fate sempre! Sennò ognuno avrebbe dovuto aver paura degli altri. Questi confessano tutto, cioè una marea di fatti antecedenti, chiamando in correità tutti i loro colleghi. Tranne uno, che alla fine sarebbe stato prosciolto per insufficienza di prove. L’ufficio Iva fu chiuso.
E lei?
Facevo il giudice istruttore e il procedimento mi è stato subito trasmesso. Dovevo interrogare tutti questi qui, far tornare i conti delle mazzette, che non tornano mai perché se li dividono e ognuno deruba gli altri. Andai a interrogare il mio primo imputato di corruzione. Un giovane funzionario che aveva già confessato di aver ricevuto denaro in quattro occasioni, la prima volta 250mila lire. Mentre lo aspettavo cercavo d’immaginarmelo: non avevo mai visto un corrotto in vita mia. Me li immaginavo come i Visitors, con la lingua verde. Invece no, era identico a me. Quasi la stessa età, avrebbe potuto essere un mio compagno di università o di serate in discoteca.
Scusi, lei andava in discoteca?
Si certo, e ballavo anche.
Torniamo al suo primo corrotto.
L’unica domanda che gli feci fu: come fa un ragazzo di 27 anni a vendersi per 250mila lire? È un’età in cui bisognerebbe essere pieni di entusiasmo, di ideali... Lui rimase un po’ in silenzio e poi mi disse: “Lei non può capire, perché fa parte di un mondo dove essere onesto o disonesto dipende soltanto da lei. Io dopo qualche giorno che ero arrivato lì ho capito, non solo che rubavano tutti, ma anche che non sarebbe stato tollerato un comportamento differente: sarebbe stato un pericolo per gli altri. Quando il mio superiore mi ha messo in mano i soldi la prima volta, ho temuto che se non li avessi presi mi avrebbero cacciato. E non avuto il coraggio che ci voleva per essere onesto. Lei non lo può capire perché a lei questo coraggio non è richiesto”. Questa risposta me la sono portata dietro per tutta la mia vita professionale. A oggi non è mi è mai capitato che qualcuno mi offrisse dei soldi.
Solo un matto potrebbe pensare di offrire a lei del denaro.
Vabbè adesso perché sono famigerato, ma non lo sono sempre stato.
La morale di questa storia?
Serve a capire come funziona la corruzione. Le condizioni facilitano il meccanismo. La corruzione non è come normalmente viene dipinta dai media, un insieme di episodi. La corruzione è un reato seriale. Chi fa queste cose, le fa tutte le volte che ne ha occasione e con una ragionevole certezza d’impunità. Poi è diffusiva: chi è dedito a queste pratiche cerca di coinvolgere altri, per creare un habitat favorevole alla commissione di reati.
Come ha cambiato, umanamente, la sua vita
Mani pulite?
C’è stata la conseguenza di essere riconosciuto, che è svantaggiosa. Perché non ti permette di essere in incognito. Se nessuno sa chi sei, puoi parlare con gli altri e ascoltarli sentendo commenti, idee, opinioni che non arrivano più quando sei riconosciuto.
Mentre facevate cadere un intero sistema di potere un po’ di euforia l’avete provata?
Al contrario! Gran parte della giornata la occupavamo a parare i tentativi di impedirci di fare le indagini o di mandarci in galera.
In che senso?
A qualcuno di noi hanno cercato di aprire un conto in Svizzera. Un ex maresciallo dei carabinieri si era inventato una serie di calunnie contro di noi per mandarci in galera. E non è stato l’unico.
La privazione della libertà è una cosa violenta, specie per quelli di cui lei si è occupato a lungo: i colletti bianchi. Chi l’ha subita ha raccontato spesso le difficoltà e il dolore. E chi la ordina, come si sente?
Qualcuno dice: chi finisce in carcere per reati non violenti, come quelli contro la pubblica amministrazione, non è abituato al carcere, dunque la detenzione gli fa più male. Però o la legge vale per tutti o no. La legge vale per tutti vuol dire che mi spiace molto per te se non sei abituato, ma l’assunto è universale.
Le dispiaceva mettere in galera le persone?
Infliggere dolore non è mai bello. Ma nemmeno il medico è contento di operare qualcuno, lo fa perché è necessario. S’interviene per eliminare un male maggiore.
Le è mai capitato che un suo detenuto s’ammazzasse in cella?
Due volte. Una volta era un tossicodipendente arrestato in flagranza di reato, che era in crisi d’astinenza. L’altra una guardia giurata che aveva ucciso i suoi vicini che facevano rumore e non lo lasciavano dormire.
Ne ha sofferto?
Ma che domanda è? Ovviamente sì. Però vede, sul lato di via Manara del Palazzo di giustizia di Milano, c’è un bassorilievo con la figura di un patibolo e a fianco un’incisione latina che dice: “I delitti eressero”. Cioè: le conseguenze dei delitti ricadono su chi li ha commessi, non su chi li persegue.
Qualcuno sostiene che avete abusato delle norme sulla custodia cautelare.
(silenzio, sorriso). Forse abbiamo esagerato con le scarcerazioni....
Poi le danno del forcaiolo manettaro.
Esiste il reato di corruzione? Allora va perseguito.
La sua tesi sulla custodia cautelare è: noi non li mettiamo dentro per farli parlare, è che quando parlano cessano le esigenze cautelari. Secondo lei qualcuno ci crede?
(sorriso) Ci pensi: chi collabora si rende inidoneo a commettere questi reati. Darebbe mai denaro a uno che quando lo arrestano fa l’elenco di quelli che gli han dato soldi? Quelli che non collaborano o che lo fanno parzialmente, tenendosi aree di ricatto, lo fanno per assicurarsi un futuro come intermediari. Questo è il tema centrale, che non si vuole vedere. Etorniamo al punto: la corruzione dà vita a un mercato illegale in cui tutti gli attori accettano le regole del gioco. È chiaro che puoi far uscire qualcuno da questo gioco solo se lo rendi inidoneo. Ricordo che una volta, durante Mani pulite, avevo dei giornali sotto il braccio. Quel giorno i quotidiani davano conto dell’arresto di un politico – ora davvero non ricordo chi fosse – che mi accingevo a interrogare. Lui mi chiese: posso leggerli? C’era, oltre alla cronaca dell’arresto, qualcuno del suo partito che diceva la solita frase: è un’isolata mela marcia. Mi restituì il giornale e mi disse: adesso le descrivo il resto del cestino.
Stare dalla parte dello Stato è un bello stare. Vuol dire sentirsi dalla parte giusta: le è mai capitato di avere un dubbio?
Non è affatto un bello stare, perché lo Stato dovresti averlo sempre dietro le spalle e qualche volta non accade. Il sistema di pagamento generalizzato che è emerso con Metropolitana milanese, secondo quanto hanno raccontato molti, era stato ideato da Antonio Natali. Noi l’abbiamo scoperto alla fine del ‘92. Ma poteva essere scoperto nell’87 quando Natali venne arrestato, per il fallimento di una società con bancarotta fraudolenta e vennero fuori le mazzette. Allora il presidente del Consiglio, che era Craxi, chiese di avere un colloquio in carcere con Natali, facendolo sapere ai giornali. Secondo lei la gente ha pensato che lo Stato lo rappresentassero i magistrati o il detenuto, visto che il Presidente del Consiglio lo voleva incontrare? Comunque ho sempre detto ai miei collaboratori: ricordatevi che noi siamo i buoni.
Mai successo di pensare di essere dalla parte sbagliata?
C’è un aneddoto raccontato da Cicerone, su Alessandro Magno e il pirata. La flotta macedone catturò una nave pirata e portò il comandante al cospetto del re perché lo giudicasse, allora non c’era la separazione dei poteri. Il pirata s’immaginò che il processo sarebbe finito male e si permise di essere impertinente. Quando Alessandro gli chiese: con che diritto infesti i mari? Lui rispose: con lo stesso tuo, solo che io lo faccio con una nave e sono chiamato pirata, tu con una flotta e sei chiamato re. Questo aneddoto lo riporta Sant’Agostino, che lo commenta così: “Bandita la giustizia, che cosa sono i grandi imperi se non bande di briganti che hanno avuto successo? E che cosa sono le bande di briganti se non imperi in embrione? ”. Allora ciò che fa la differenza non è, come pensava il pirata, il numero delle navi. Ma la giustizia. Perché la norma più importante della Costituzione – nessuno la ricorda mai, chissà perché – è l’articolo 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”. Attenzione: non li istituisce, perché se tu una cosa la istituisci, puoi anche revocarla. Li riconosce, sono un limite di sovranità. Cosa nostra non riconosce i diritti inviolabili dell’uomo: questo fa la differenza. Io sono dalla parte giusta perché rappresento o dovrei rappresentare un’organizzazione che si fonda sul riconoscimento e sulla tutela dei diritti inviolabili. Certo, a volte ci sono leggi sbagliate, ma il nostro sistema prevede una serie di rimedi e correttivi.
Il momento in cui è stato più in difficoltà, stando dalla parte dello Stato?
Nel 1994, dopo il decreto Biondi che impediva la custodia cautelare per i reati di corruzione: li scarcerarono tutti. Dicemmo allora che avremmo applicato la norma – le leggi si applicano anche quando non ti piacciono – ma chiedemmo di essere assegnati a un settore dove fosse meno stridente il contrasto tra ciò che imponeva la legge e ciò che le nostre coscienze avvertivano.
Perché state così antipatici alla gente?
Ma no! Alla gente no. A chi governa, a chi detiene il potere economico certamente perché rappresentiamo ciò che non è compromettibile fuori dalle regole legali e quindi siamo un ostacolo. È un sistema di gestione delle cose diverso da quello il potere pratica.
È un discorso senza nessuna autocritica.
Mario Cicala ha detto una cosa che sottoscrivo in pieno: “Noi magistrati paghiamo per i nostri pochi meriti, non per le nostre gravi colpe”. Tristemente vero. I processi fatti dai pm incapaci si sfasciano in dibattimento: ma sono quelli portati avanti dai pm bravi che li impensieriscono.
Un avvocato, dovendo prendere accordi economici per la sua parcella con il cliente, gli chiese chi fosse il pubblico ministero che lo aveva indagato. Quello rispose: “Davigo”. “Allora voglio il doppio”. È vero?
Sì, ma lei non lo scriva.

Corriere 2.11.14
Picasso, Stalin e la (nostra) deriva giovanilistica


Marzo 1953, alla morte di Stalin il poeta Louis Aragon commissiona al compagno Pablo Picasso un ritratto del «padre dei popoli» da pubblicare su Les Lettres Françaises . Picasso rappresenta Stalin come un giovane condottiero e non come un canuto vegliardo. Per i comunisti francesi, una «profanazione». Su Libération la sociologa Nathalie Heinich parte da quell’episodio per misurare una distanza culturale incolmabile: oggi è la vecchiaia a dare scandalo, l’indignazione per la messa in scena della giovinezza ci è incomprensibile. Cortocircuiti ideologici.

Corriere 2.11.14
Così la polizia del Duce «salvò» l’antifascista Lombardi
di Antonio Carioti


Il regime fascista era una dittatura centralizzata, ma al suo interno coesistevano vari centri di potere, spesso in conflitto tra loro. E di quelle liti intestine potevano giovarsi anche oppositori irriducibili del regime, come Riccardo Lombardi, per schivare i colpi della repressione. La vicenda è ricostruita dallo studioso Luca Bufarale in un ampio saggio, edito da Viella, sulla prima parte dell’attività del leader socialista: Riccardo Lombardi. La giovinezza politica 1919-1949 (pagine 416, e 29). Siamo nell’estate del 1930. Ormai nel mirino della polizia politica di Mussolini (Ovra) per l’attività cospirativa condotta insieme ai comunisti, Lombardi viene però arrestato dai militanti del Fascio milanese, indiavolati per l’uccisione di un loro camerata in una rissa che nulla aveva a che fare con la politica. Duramente pestato, confessa i suoi rapporti con ambienti «sovversivi». E viene portato in questura. Ma a quel punto interviene l’Ovra, che non sopporta di essere scavalcata dal partito e preferisce chiudere un occhio per sconfessare l’operato della federazione locale del Pnf e «ribadire così la propria superiorità su di essa». Perciò Lombardi viene rilasciato e non avrà più problemi sotto il regime. Parteciperà poi alla Resistenza nel Partito d’Azione e sarà anche il prefetto della Liberazione a Milano. Finita l’esperienza del Pd’A, diventa il leader di maggior spicco della sinistra socialista. Bufarale narra l’impegno di Lombardi a partire dall’esordio giovanile siciliano nel Partito popolare di Sturzo (suo fratello Ruggero Lombardi rimarrà in ambito cattolico e sarà deputato della Dc). La ricostruzione termina nel 1949, quando Lombardi, fautore dell’autonomia socialista nei riguardi del Pci, viene battuto al Congresso del Psi di Firenze dai filocomunisti guidati da Pietro Nenni. Una sconfitta che peserà sulle sorti della sinistra italiana.

Corriere La Lettura 2.11.14
Matematica La scienza che si nutre di foschia
di Giulio Giorello


Talora «ciò che sappiamo in più è appunto che non ne sappiamo di più» dei nostri predecessori, scriveva André Weil, un titano della matematica del Novecento, alla sorella Simone. Non è solo un paradossale gioco di parole, ma la constatazione di quanto sia aspro il lavoro del matematico. Quando «inventa» nuove strutture in cui inquadrare i «fatti» pertinenti, si sente come un ragazzino «che si diverte a fare un pupazzo di neve»; ma poi scopre che ha di fronte «un materiale duro e resistente», come «certi porfidi usati a volte dagli scultori». È proprio questa difficoltà a far sì che le sue invenzioni non restino sterili giochi mentali, e si colleghino invece al complesso delle conquiste ottenute in secoli di sforzi. Simone, affascinata a sua volta da numeri e figure, nei suoi Quaderni annotava: «Matematica: universo astratto in cui io dipendo unicamente da me ». Era una versione laica del «Regno della giustizia» promesso dai Vangeli! Il fratello sottolineava piuttosto che, pur svincolatasi dall’obbedienza all’intuizione sensibile, la matematica non cessava di sfidare l’intelligenza del matematico-artista che scolpiva i suoi concetti, lasciandolo talvolta insoddisfatto del risultato, non diversamente da un Leonardo o da un Michelangelo. Nel libro La fredda bellezza. Dalla metafisica alla matematica (Castelvecchi, pp. 78, e 12), in uscita il 5 novembre, Niccolò Argentieri presenta con attenta cura due testi di André Weil: una lettera alla sorella del 1940 e un commento del 1960 a un convegno. Se Simone era ossessionata dall’impossibile attuazione della giustizia divina in terra, André (che trovava le scelte di vita di lei «incomprensibili») era affascinato dalla «fredda bellezza» della disciplina cui si era consacrato. Insofferente a istituzioni e burocrazie, dotato di invincibile curiosità, esploratore di genti e Paesi, ma anche di nuovi continenti dello spirito, non dimenticava però la «nebbia» di idee «metafisiche» che preludono alla costruzione delle teorie controllabili. «Come sanno tutti i matematici, nulla è più fecondo di queste oscure analogie, questi indistinti riflessi tra una teoria e un’altra, queste carezze furtive, queste indecifrabili foschie», diceva. E a evitare che la conoscenza, purificata dal rigore della logica, si tramutasse nell’indifferenza della routine era solo l’eventualità che la nebbia potesse sempre ricomparire altrove. Simone, tormentata dalla sfida congiunta di politica e arte, avrebbe forse sottoscritto l’elogio della foschia, condizione essenziale della vita della mente. Per quanto separati dagli eventi, il matematico avventuroso e la pensatrice sospesa tra «l’ombra e la grazia» erano entrambi «amanti dell’Orsa Maggiore», come nel grande Nord si definiscono i «contrabbandieri» per cui non esiste frontiera inviolabile.

Il Sole Domenica 2.11.14
Berlinguer a Ivrea
Carlo De Benedetti consolidò, durante la guida dell'Olivetti, il rapporto con il leader del Pci, confrontandosi su economia e industria
di Paolo Bricco


Con la fine degli anni Settanta, i tradizionali legami fra i ceti produttivi e le formazioni più inclini a rispondere alle esigenze e a corrispondere alle sensibilità della borghesia si allentano. Non sfioriscono. Né si recidono. Ma mutano. Anche perché gli istinti – e i progetti – riformatori che il Pri e il Pli hanno sempre propugnato – rispetto a partiti di massa più attenti alle esigenze "onnicomprensive" della società italiana come la Dc e il Psi – hanno avuto esiti poco incisivi. In questa profonda rimodulazione, ecco che Carlo De Benedetti svolge il suo ruolo di imprenditore avendo un rapporto laico con la politica. Nel senso che, pur continuando a conservare una preferenza pubblica per il Partito Repubblicano, si trova a instaurare un legame con il Partito Comunista Italiano. Non lo fa a freddo. A tavolino. Semplicemente, durante la sua attività, crea legami che, poco alla volta, si infittiscono. Il primo incontro è casuale. E risale al 1976, l'anno della sua breve permanenza in Fiat.
"Mi telefonò Tonino Tatò, il portavoce di Enrico Berlinguer – ricorda De Benedetti – dicendomi che il segretario avrebbe gradito fare la mia conoscenza. Avevo appena lasciato la guida della Fiat. Ci incontrammo in via riservata, senza che nessuno lo sapesse. Fu l'inizio di un rapporto che sarebbe durato fino alla sua morte. Periodicamente ci vedevamo per parlare di politica e di economia, di solito a cena a casa di Tatò".
Per Enrico Berlinguer, il mese di dicembre del 1982 è fitto di impegni personali e politici. Il 1° dicembre è caduto il secondo governo Spadolini, formato dal Partito Repubblicano, dalla Democrazia Cristiana, dal Partito Socialista, dal Partito Socialdemocratico e dal Partito Liberale. La tensione politica è molto forte. In particolare, è dalla primavera che si sta coagulando e si sta inasprendo la competizione fra la sinistra della Democrazia Cristiana e il Partito Socialista craxiano, che segnerà la vicenda politica italiana per buona parte degli anni Ottanta. L'esperienza del primo repubblicano a capo del governo, in realtà, è iniziata già il 28 giugno dell'anno prima, il 1981, quando Spadolini si insedia a Palazzo Chigi. Il suo esecutivo inizia, fra aprile e maggio, a subire un processo di logoramento interno. L'ostilità quotidiana prende forma nella contrapposizione fra il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e Rino Formica, il dirigente socialista che ha la responsabilità del ministero delle Finanze. Quello scontro, in realtà, mostra una contrapposizione personalistica che rappresenta il calco minore della giustapposizione a tratti palesemente rude e a tratti sotterraneamente violenta fra i due leader di riferimento Ciriaco De Mita e Bettino Craxi. Nel 1982, si consolidano il potere e l'influenza del Partito Socialista di Bettino Craxi che, l'anno successivo, andrà a Palazzo Chigi. La realtà italiana è quanto mai complessa. Alla fine di quell'anno tanto complicato Enrico Berlinguer, oltre a condurre il partito, cerca di vivere con serenità le proprie passioni private e con raziocinio uno scenario economico e industriale non facile da decrittare. Berlinguer ha una grande passione per il calcio.
Sull'agendina parlamentare del 1982, mercoledì 8 dicembre Berlinguer annota con la sua grafia minuta, al mattino, una segreteria di partito, e poi Roma-Colonia. Sono gli ottavi di finale della Coppa Uefa. Gara di ritorno. All'andata il Colonia ha vinto per uno a zero. Al ritorno, allo Stadio Olimpico la Roma si impone con un gol di Maurizio Iorio, al quarantunesimo del primo tempo, e uno di Paulo Roberto Falcão, a due minuti dalla fine della partita. Martedì 21 dicembre, alle 10 è in programma una segreteria. A seguire, un appuntamento con Ugo Pecchioli, responsabile della sezione problemi dello Stato. Dunque, la giornata politica è stata intensa. E, mentre volge alla fine, ecco alle 21 comparire l'appunto sull'agendina parlamentare di Berlinguer: De Benedetti. Una delle cene organizzate, in via riservata, da Tonino Tatò, per fare incontrare periodicamente il segretario generale e l'industriale, che in quel momento ha almeno due ragioni per risultare un interlocutore interessante agli occhi del leader del principale partito comunista occidentale.
In quel 1982 la ristrutturazione della Olivetti si è ormai completata, tanto che il gruppo si è posizionato nelle fasce alte della informatica distribuita grazie a un prodotto come l'M20. Inoltre, De Benedetti ha un rapporto diretto e privilegiato con Bruno Visentini, uno dei personaggi più autorevoli di quel Pri che, dopo la caduta dell'esecutivo Spadolini, ha scelto di non rimanere al governo.
De Benedetti, dopo una fase iniziale da falco nelle relazioni industriali coincisa con la necessità di ridurre del 10% la forza lavoro di un gruppo ingrassato all'inverosimile negli anni precedenti, ha dato luogo a una strategia del dialogo con il Pci, la cui struttura e la cui dirigenza – al di là del rapporto personale fra lui e il segretario del partito – sembrano cogliere i punti di contatto fra la necessità di una politica industriale nazionale, invocata dall'imprenditore, e l'esigenza intellettuale interna al Pci di costruire un rapporto con il mercato e con il lavoro che sia di regolazione morbida delle dinamiche economiche e di scelta dall'alto delle priorità industriali. Il rapporto fra De Benedetti e il Pci berlingueriano è organico e strutturato. Viene rinnovato periodicamente. È fatto di cene riservate e di incontri pubblici. Di conversazioni private e di analisi comuni. E del legame personale fra De Benedetti e Berlinguer. Per esempio, il 9 febbraio 1983 De Benedetti scrive una lettera a quest'ultimo allegando una serie di analisi e di proposte economiche: «Caro Onorevole, con riferimento al nostro colloquio le unisco il documento di cui le ho parlato, che mi pare rappresenti la radiografia oggettiva del disastro economico italiano». Il documento – sei pagine fitte di tabelle e di numeri – sottoposto a Berlinguer appare interessante perché identifica, quale primo dei "dati del disastro economico italiano" (secondo il suo titolo), il deterioramento dei conti pubblici: "Nel 1982 il deficit del settore pubblico allargato non doveva valicare nelle intenzioni del governo i 50.000 miliardi. A consuntivo si stima un deficit di 71.000 miliardi, il 42% in più del tetto programmato". E ancora: "L'incidenza percentuale del deficit pubblico sul Pil nel 1982 dà un'idea delle distanze fra l'Italia e i principali Paesi industrializzati: Italia 12,5, Germania 4,1, Usa 3,7, Giappone 3,3, Francia 2,9, Gran Bretagna 2". Il gruppo dirigente che si trova intorno a Enrico Berlinguer è formato da Napoleone Colajanni, che si occupa in particolare della Fiat e di Mediobanca, Gerardo Chiaromonte, Alfredo Reichlin e Giorgio Napolitano. Insieme a Luciano Barca, a seguire la Banca d'Italia e a determinare le linee concrete di politica economica, è Franco Rodano, legato da un'antica amicizia con il banchiere della Banca Commerciale Italiana Raffaele Mattioli. "La specificità di De Benedetti – rammenta Alfredo Reichlin – era duplice. Dal punto di vista della fisionomia dell'imprenditore per noi era l'homo novus delle tecnologie, che aveva risanato e rilanciato una impresa, anomala ma centrale nella storia italiana, come la Olivetti. Dal punto di vista personale era un uomo dal lato paterno di origine ebraica che sapeva che cosa era stato il fascismo, che aveva costretto lui e la sua famiglia a emigrare in Svizzera durante la Seconda guerra mondiale. Anche questo contava, per un partito la cui classe dirigente era formata per la più parte da esponenti che avevano fatto la Resistenza".

Il Sole Domenica 2.11.14
Paul Valéry
Liberi grazie a Voltaire
Un ritrattto inedito di un grande francese: più che filosofo, benefattore del genere umano attraverso le lettere
di Paul Valéry


La vita stessa di Voltaire ha l'aria d'un racconto fra i suoi racconti. C'è vaudeville, favola, riflessi di dramma e apoteosi nella sua storia. Si fa ammirare, adorare, aborrire, odiare e venerare, bastonare e incoronare, con una sorta di padronanza enciclopedica nell'arte di suscitare i sentimenti più diversi, di crearsi dei nemici mortali, dei devoti e dei fanatici, di non essere indifferente a nessuno, mentre niente d'umano gli è estraneo, e una curiosità mai soddisfatta lo tormenta. Tutto eccita il suo desiderio di conoscere, di ridimensionare, di combattere; tutto gli è nutrimento, e gli serve ad alimentare quel fuoco così chiaro, così vivo, dove ha corso una perpetua trasformazione, dove s'avvicendano gli entusiasmi, dove il talento scompositivo scioglie ogni apparenza di verità che permane nel secolo e ancora s'impone alla pigrizia delle menti. I filosofi dopo di lui non lo vorranno filosofo. Gli rifiutano un rango che tutto il suo tempo gli assegnava. Pensano, forse, che un filosofo è un uomo che s'attarda sui termini, come se le parole avessero più consistenza e profondità dello spazio e dell'istante mentale nel quale s'accendono in ciascuno. Ma Voltaire vola su tutti costoro. Forse avverte troppo acutamente, con tutta la sua indole nervosa, che un valore dello spirito non dura più d'un lampo, e che lo spirito è vita, e la vita essenzialmente transitiva. No, non è un filosofo. È un uomo che s'è cimentato in tutti i generi, li ha toccati tutti, tragedia, epigramma, storia, epopea, racconto, saggio e quella sterminata corrispondenza; un uomo che ha reso Shakespeare di moda, assicurato e fissato la gloria di Racine; che ha celebrato del suo meglio, studiato e persino cantato Newton; che ha sbertucciato Leibniz, mosso contro le religioni una sorta di guerriglia perpetua; ma eretto e dedicato a Dio stesso una piccola chiesa, all'ingresso della sua dimora di Fernay: DEO EREXIT VOLTAIRE. Un uomo che ha tanto scritto e sul quale si è tanto scritto, di cui si può dire tanto bene e tanto male – come è stato fatto –, un uomo sul cui conto Joseph de Maistre che lo ammira e lo detesta, pronuncia questa sentenza in forma d'antitesi dove mette insieme la sua dottrina e il suo gusto: «Vorrei» dice «fargli erigere una statua... di mano del boia». No, non è affatto un filosofo questo diavolo d'uomo, di cui mobilità, risorse e contraddizioni fanno un personaggio cui soltanto la musica, la musica più viva potrebbe tener dietro, seguire fino alla fine, fino a quell'ora in cui non potendo tener fermi i suoi ottantaquattro anni, si fa portare a Parigi, nel teatro dove lo aspetta il trionfo. Lo si incorona. Muore, e questo demolitore d'idoli, muore idolo lui stesso. Ma così come i filosofi l'hanno esiliato dalla loro filosofia, così i poeti, quelli che presto verranno, i figli del nuovo secolo, gli rifiuteranno il divino dono della poesia. Gli troveranno un'aridità, un'assenza di calore e colore, uno scetticismo desolante. È vero che a noi sembra poco musicale e i suoi versi troppo conformi al detestabile parere di d'Alembert che aveva osato indicare come migliori i versi che più s'approssimano a una buona prosa.
Ma chi sa come l'avvenire giudicherà i Romantici, a loro volta? Ronsard, al tempo di Voltaire, era in una condizione disperata; e Racine parve ben in affanno verso il 1840. Nell'eternità letteraria, i più morti hanno qualche possibilità di rivivere; i più amati d'una volta sono anche i più esposti a dissolversi ben presto nelle biblioteche dell'oblio. Quasi tutti questi argomenti contro Voltaire s'indirizzano insomma a quell'eccesso d'intelligenza che ebbe. Poiché ne aveva tanta, era dunque superficiale. E poiché aveva troppo ingegno, di certo mancava di cuore. Questi sono i giudizi del mondo. Ma, contrariamente al proverbio, nessuno ha più acume di Voltaire, e accade che siano tutti piuttosto stupidi. I fatti, ahimè, che sono in definitiva l'effetto dell'azione di tutti su tutti, troppo spesso sono lì a dimostrarlo. Ma il nostro uomo di spirito per antonomasia, a un tratto, e quando sta per entrare nell'ultimo terzo della sua vita, e come se tutto questo acume non gli fosse stato dato, ed egli non l'avesse esercitato, né gli avesse dato forma, né lo avesse affilato e acuminato per quarant'anni per farne un'arma destinata alle battaglie più nobili, si scopre una vocazione e un ardore inediti. Lo dicono arido e superficiale, e sia! Ma quanta gente profonda, quanti uomini sensibili hanno fatto per gli uomini in generale quel che fece allora questo scettico, questo versatile Voltaire? Bisogna pur riconoscere che il suo «orrido sorriso» ha messo in luce e avviato la rovina di molte orride cose. Per la sua immortalità, il fatto decisivo della sua carriera è questa metamorfosi in amico e difensore del genere umano. All'età in cui le carriere di regola si concludono, quando aveva ormai acquisito tutta la fama che le Lettere possono dare a qualcuno, ammirato dovunque, ricco, non avendo più che da godere di quella universalità leggera, alla ribalta nel clima enciclopedico del suo tempo, così eccitante per l'intelligenza e di cui quel tempo fu l'età dell'oro, eccolo trasformarsi in colui che celebriamo oggi. Fosse morto a sessant'anni, sarebbe oggi pressoché dimenticato e non saremmo solennemente qui a rendere omaggio all'autore di Merope, di Zaira e della Enriade. Noi sappiamo bene che il vero oggetto di quest'incontro non è tanto la commemorazione della nascita di un uomo illustre, l'omaggio a quest'uomo e alla sua opera, per cospicua e brillante che sia, quanto d'esaltare fra noi, Francesi, quella che fu la sua passione più costante e generosa, quella della libertà di pensiero.
Noi sappiamo quanto vale questa libertà. Noi sappiamo quanto costa. Ma dovremmo forse sapere meglio che il suo più degno impiego, e il suo banco di prova, e la garanzia della sua durata sono nei limiti che deve essa stessa tracciare al suo potere tanto prezioso e tanto temibile di rimettere ogni cosa in questione. Questa libertà è in pericolo, è perduta quando oltrepassa quelle frontiere talvolta difficili da individuare.

Stralcio dal saggio su Voltaire pubblicato per la prima volta in italiano nel Meridiano Mondadori in uscita nei prossimi giorni (Opere scelte, pagg. 1772, € 65,00)

Il Sole Domenica 2.11.14
Amos Oz
Se appare Giuda
Il nuovo romanzo dell'autore israeliano è ambientato nella Gerusalemme degli anni 50. Ma c'è una sorpresa...
di Giulio Busi


Quattro mesi non sono poi così pochi. Se è inverno, se Gerusalemme è livida e intirizzita. Se la vostra ragazza ha deciso di sposare un altro, e voi, per aggiungere guaio su guaio, vi siete convinti che è meglio lasciar tutto, abbandonare gli studi, andarvene da casa, cercare rifugio chissà dove. Quattro mesi bastano per perdersi, per scendere lungo la strada sdrucciola delle delusioni e provare a risalirla, bravo chi ci riesce. Amos Oz s'è impratichito dell'arte più difficile, quella di piegare il tempo al proprio volere, come fosse una tigre nel recinto. Tempo lento e poi sincopato, infinito dove serve ai ricordi, scuro e pesante se è notte, mal speso o troppo rapido quando scorre nell'amore. Oz dilata le ore, scalda i minuti, li fa malleabili più dell'oro, e in questo è il suo grande verismo, la capacità di raccontare la vita così come la conosciamo: insulsa, abbacinante, sempre fuori ritmo.
Shemuel Asch, il protagonista venticinquenne, non sa decidersi tra impazienza e pigrizia. «Morbido come un guanto di lana, ma anche confuso», Shemuel ha già oltrepassato le soglie dell'età adulta, e pure si volta indietro, gioca a fare il ragazzo, o forse non può comportarsi altrimenti. Se cercate un eroe smarrito nella Terra promessa, ottimista-svogliato-non all'altezza, eccovelo davanti: «timido, sensibile, socialista, asmatico, propenso tanto all'entusiasmo quanto alla precoce delusione». E poiché siamo nell'Israele del secolo scorso, tra il 1959 e il 1960, il romanzo sussulta senza meta apparente, devia dal proprio corso, rallenta e s'incaglia in brandelli di sionismo. Ça va sans dire, Shemuel è di sinistra, un po' per ragioni biografiche e un po' perché ce n'erano molti, come lui, nello Stato ebraico di cinquant'anni fa, prima delle fughe nel privato e delle disillusioni. E poi, prendere parte alle riunioni del Circolo del Rinnovamento socialista è un buon modo per corteggiare le ragazze, o almeno per provarci, visto che il Nostro, tenero e carino com'è, è anche irrimediabilmente imbranato con le donne. C'è una certa regalità e predestinazione nell'inadeguatezza di Shemuel, e Amos Oz sa far crescere le aspettative del lettore, sempre più irretito da cotanta labilità di carattere e di destino. Come in ogni buona educazione sentimentale che si rispetti, le indecisioni e i dubbi dell'eroe servono a preparare la scena, a farci scivolare in quella metaforica foresta incantata in cui le virtù e il coraggio del cavaliere verranno messe a cimento. Nella fattispecie gerosolimitana inscenata da Oz, anziché in un bosco medievale ci troviamo in una vecchia villa in rovina, abitata da un invalido, anziano e male in arnese, e da una donna non più giovanissima ma conturbante. In cambio di una modesta mercede, Shemuel s'impegna a far compagnia al burbero malato, parlatore inarrestabile, cinico, disperato, lucidissimo. E la dama? Come non innamorarsene, visto che è lei a provocare, e parecchio, il giovanotto? Vista, piaciuta, desiderata, il resto vien da sé.
Anche in questo labirintico romanzo cavalleresco all'israeliana, per aver la bella il protagonista deve lottare con draghi e demoni malefici. Sono nemici evanescenti e inafferrabili: spettri dei ricordi, violenze della guerra contro gli arabi, tormenti di vite di diaspora. E, terribile su tutti, lo spirito di un antico tradimento. Tanto vecchio che ne abbiamo sentito parlare anche noi. Nella pace forzata della dimora cadente, quando la dame sans merci gli lascia un po' di respiro, il ragazzo riprende i suoi studi universitari su Gesù ebreo. Sarà l'atmosfera della magione spiritata, o forse la luna che grandeggia sulla Città santa, fatto sta che, dalle pagine di Oz-Shemuel, spunta Giuda in persona, il discepolo dei trenta danari. È come se c'imbattessimo finalmente nel vero genius loci, quasi che tutto il lungo antefatto, e le peripezie del protagonista alla ricerca di se stesso, trovassero ora ordine e senso. «Un'emozione a mezza via fra piacere e malinconia. Come un'unica nota di violoncello nel buio fitto della notte». In trance, Shemuel confonde il giardino della casa in rovina e l'orto di Getsemani, il proprio destino irrisolto col bacio al maestro, doppiezza e amore, e annota di getto un'ipnotica riscrittura del Vangelo, in cui Giuda la fa da profeta e da rabbi. Non un vaso di sapienza, ma una verità andata in pezzi, un fallimento bello e buono, che un amore fallito, in confronto, è cosa da poco. Intendiamoci, Amos Oz non pretende di insegnarci nulla, se non che, dopo aver accompagnato Shemuel fuori dai suoi incubi e lontano da una Gerusalemme troppo antica per essere felice, i dubbi e i guai ce li lascia tutti in bella mostra e ben assortiti. Quattro mesi saranno pure sufficienti per dimenticare una donna, innamorarsi di un'altra, abbandonare l'università e scoprirsi una vocazione da storico. Cosa sono, però, centosessanta giorni, in confronto al buio di un'unica, interminabile notte? «Shemuel rimase dov'era, in mezzo alla via deserta. Posò per terra lo zaino...». Se volete, potete ricominciare a leggere dall'inizio.

Amos Oz, Giuda, traduzione di Elena Loewenthal, Feltrinelli, Milano,
pagg. 330, € 18,00

Repubblica 2.11.14
La poesia del mondo
Un testo “scritto senza impegno” per dire un semplice e gentile “no grazie” Ma anche nelle cose minori il grande poeta dimostrava il suo talento
e paragonando la nobile rinuncia alla purezza dell’acqua fresca metteva in versi traumi e misoginia
L’angoscia nascosta di Rilke per le donne
di Walter Siti


L’AUTORE Rainer Maria Rilke (Praga 1875 - Montreux 1926) è stato uno dei più grandi scrittori e poeti austriaci, autore di numerosi drammi, poesie e opere in prosa in lingua tedesca Online su Repubblica.it lo speciale dedicato alla serie “La poesia del mondo” di Walter Siti

MOLTA filosofia si è fatta intorno alle poesie di Rilke, dai riferimenti alla fenomenologia di Husserl alle pagine che gli dedicò Heidegger; e certo la sua scrittura vi si presta, coi riferimenti a Orfeo, il privilegio dell’invisibile sul visibile e dell’astratto sul concreto, la distanza insuperabile e continuamente evocata tra esistere ed essere. I suoi testi (soprattutto le Elegie Duinesi ) reggono le interpretazioni, sia chiaro, ma sottopelle corre il sospetto della sopravvalutazione – di voler cercare coerenza di pensiero dove non ci sia che estetismo ed esagerata ambizione. C’è di che trovarlo antipatico, questo narciso cosmopolita che non ha mai seriamente lavorato in vita sua: lamentoso corrispondente di nobildonne e di artiste, coccolato in castelli non suoi. Peccato che sia un poeta vero e che anche nelle cose minori sappia dimostrarlo vittoriosamente. Per esempio in questo madrigaletto scritto senza impegno per una delle tante ragazze che si mettevano in contatto con lui e che lui rigorosamente teneva a distanza di sicurezza; è cinquantenne ormai, separato dalla moglie, tormentato da malattie apparentemente psicosomatiche che si trasformeranno dopo solo due anni in una leucemia fulminante e mortale. È un no-grazie gentile, un rifiuto in forma di paragone che si traveste da diagnosi indiscutibile: io sono fatto in questo modo e quindi… L’accadimento è minimo: una passeggiata intorno al palazzotto svizzero dove viveva, lungo una strada consueta (il neologismo composto “sonngewohnten” può voler dire sia “abitata dal sole” che “abitualmente al sole”). Il contrasto piacevole ai sensi è quello tra la strada assolata e il freddo dell’acqua raccolta nell’abbeveratoio; è l’inizio d’estate, il silenzio è rotto solo dal chioccolare piano dell’acqua nel tronco cavo – acqua limpidissima che dà voglia di bere. Lui sazia la sua sete ma non, come farebbero tanti, avvicinando le labbra: solo immergendo i polsi nello specchio della vasca. Con uno scatto di sensibilità trova che sarebbe smaccato, volgare, bere con la bocca – una troppo esplicita ammissione di desiderio. Soddisfare così direttamente un bisogno porterebbe a non capire tutti i sottintesi di quell’acqua: che è materialmente limpida ma anche serena, allegra (“heiter”); e la sua origine è sì quella geografica (gli acquedotti, i monti) ma anche meteorologica (il circuito perpetuo dal cielo alla terra e viceversa) e intellettuale (l’eterno che presiede all’effimero). Solo la rinuncia e l’attesa acquisiscono alla coscienza un’acqua più pura di quella fisica, un’acqua quintessenziata e spirituale. Dunque, dice alla donna, se tu venissi non ti berrei tutta, mi basterebbe sfiorarti. Lo dice più per rassicurarsi che per rassicurarla: è una conclusione fintamente ragionativa ma liberatoria (anche il ritmo lo sa, dalla prima strofa franta e piena di enjambements audaci si passa a una quartina prima esitante poi cantabile e simmetrica).
«Compresi», scrive Rilke in un appunto del 1910, «che sarei sempre stato in torto se mi fossi aspettato dalla vita qualcosa di più che di essere sfiorato da lei, lievemente, sul braccio»; e aggiunge il ricordo delle stele sepolcrali dell’antico cimitero di Atene – quei gesti trattenuti tra vivi e morti, gli addii tra cari che «si uniscono piano nel cuore indimostrabile di uno specchio», il «salire di una mano alla spalla senza alcuna volontà di possesso». L’allusione a quelle “mani che poggiando non premono” tornerà nella Seconda Duinese, dove si parla degli amanti che avvicinano le bocche come per bersi l’un l’altro (“bevanda a bevanda”) ma poi non consumano il gesto; gli amanti in cui si infiltra qualcosa dell’essenza angelica. La Seconda Duinese è l’elegia degli angeli: angeli che diventano “specchi” perché riattingono nel proprio volto la bellezza piovuta da Dio, proprio come fa l’acqua nel perpetuo giro dell’umidità. In un appunto del 1913 Rilke aveva scritto «l’angelo è ciò che l’acqua è sulla terra e nell’atmosfera: torrente, rugiada, abbeveratoio, fontana d’esistenza dell’anima ». Sotto il minuscolo episodio di quel giorno di giugno si stringe un nodo di significati: la donna è acqua e angelo, rinunciare a possederla vuol dire accedere a una conoscenza più pura e a una più pura origine – sotto l’acceso desiderio erotico dei seni, rintracciare l’amore materno (“stillen” è “saziare” ma anche “allattare”).
C’è molto Unbewusste, inconscio, dietro quella chiara coscienza; nell’esaltazione rilkiana della donna cova un’oscura misoginia – una pittrice polacca da lui trascurata l’aveva capito scrivendogli “accetto tutto da voi, anche la vostra paura”. Paura pura e semplice, dietro tutte le razionalizzazioni; e rispondendo alla pittrice Rilke lo conferma con un’immagine terribile: «L’amore ha avanzato spesso pretese nei miei confronti, come se un frutto ammirato dovesse essere schiacciato dentro l’occhio che lo guardava rapito, come se fosse una bocca». Affermando che Rilke è un poeta vero, affermavo che l’autenticità dei suoi traumi trova nei versi la strada più naturale per rivelarsi, e che soltanto il ritmo delle parole concilia l’inconciliabile (vedi qui il parallelismo tra “Anruhn meiner Hände” e “Andrang deiner Brüste”).