lunedì 3 novembre 2014

La Stampa 3.11.14
Zagrebelsky: quello di Renzi è decisionismo andreottiano
Il costituzionalista: usa la forza per tirare a campare, non per imporre visioni strategiche
colloquio di Giuseppe Salvaggiulo


«Professorone». Gustavo Zagrebelsky, già presidente della Corte costituzionale, insegna Diritto costituzionale a Torino
Nei mesi scorsi aveva firmato un appello contro le riforme, polemizzando con il governo

Una conversazione con Gustavo Zagrebelsky a margine di un convegno su «Bobbio costituzionalista» conduce dalle cime della filosofia politica alle bassure italiane.
Tra i principi della democrazia secondo Bobbio c’è il voto uguale: come lo spiega ai suoi studenti che le chiedono di Porcellum e Italicum?
«Nella sentenza sul Porcellum, per la prima volta la Corte costituzionale parla dell’uguaglianza del voto non solo “in entrata”, come valore potenziale, ma anche “in uscita”, nell’attribuzione pratica dei seggi. Il premio di maggioranza creava un’abnorme distorsione. Ora si prova a superare l’obiezione stabilendo una soglia per accedere al premio. Ma c’è un criterio razionale o è puro e semplice arbitrio: 37%, 40%? Il criterio sta nelle previsioni dei partiti che sperano di avvantaggiarsene, sulla base dei sondaggi. Ma la legge elettorale deve servire ai cittadini o ai partiti? L’unica soglia giustificabile sarebbe il 50,1% dei voti: un premietto per rafforzare chi ha già la maggioranza dei voti».
La «legge truffa» del 1953.
«Famigerata. Se era truffaldina quella, che cosa dire di una legge che porta dal 37 al 55%?».
Ma che cosa ne sarebbe della governabilità, senza premio di maggioranza?
«Governabilità, parola scorretta. Che cosa significa? Attitudine a essere governato. Significato passivo. Se dico “l’Italia è ingovernabile” penso a corporazioni, corruzione, mafia. Da Craxi in poi, con un rovesciamento semantico, governabilità vale come aumento della forza di governo. Significato attivo. Tutte le riforme di cui parliamo non sono per la governabilità, perché non toccano la società, ma vogliono rafforzare il governo, razionalizzando uno spostamento di baricentro che c’è già stato».
A danno del Parlamento?
«Il Parlamento ha perso iniziativa legislativa, ratifica solo quelle del governo. Quando fu introdotta la proporzionale, un secolo fa, vi fu chi disse che tanto valeva eliminare i deputati e far decidere tutto dai segretari dei partiti, secondo il rispettivo peso elettorale. “Tanto gli eletti in ciascuna delle nostre liste devono fare quello che diciamo noi”. Una proposta che al nostro Renzi potrebbe piacere: disciplina a costo zero».
Nel frattempo il Pd è diventato il partito della nazione.
«Per Bobbio una delle condizioni della democrazia è la presenza di una pluralità di offerta politica. Il partito-tutto non è concepibile secondo la nostra definizione di democrazia. C’è una classica definizione del partito politico come “parte totale”. Quando un partito sceglie una connotazione totalizzante, come la nazione, diventa parte totalitaria».
A vocazione maggioritaria.
«A vocazione totalitaria, direi. La vocazione maggioritaria mi sembra una banalità: quale partito ambisce alla minorità?».
Come mai la suggestione totalizzante funziona?
«In una fase d’inquietudine, è ovvia la tendenza a compattare. Ma una cosa è la grande coalizione, in cui le parti restano tali contraendo un patto, altra è questa strana e melmosa combutta italica, senza nemmeno la nobiltà dell’union sacrée».
C’è un deficit di conflitto?
«Il professor Bobbio, in altri tempi, aveva usato una formula molto forte: la discordia è il sale della democrazia. Discordia è parola estrema: Tucidide la riteneva premessa della stasis, la quiete prima della tempesta della guerra civile. In realtà Bobbio, radicalmente dicotomico sul piano teorico, nella pratica era un mediatore. Infatti per lui, come per il suo maestro Kelsen, la democrazia non può esistere se non ha al fondo un compromesso e il compromesso è la Costituzione».
Arte anacronistica, il compromesso: va di moda la decisione. Renzi pare ispirarsi più a Schmitt che a Kelsen e Bobbio.
«C’è decisionismo e decisionismo. Schmitt aveva un’idea bellica della decisione: il nemico non va sconfitto, ma eliminato. L’attuale decisionismo mira piuttosto all’andreottiano tirare a campare. Serve a fronteggiare le difficoltà del giorno per giorno, a tappare buchi, a tamponare con urgenza le situazioni. Un decisionismo non tragico, diciamo in salsa mediterranea, all’amatriciana. Il governo non combatte nemici per imporre una sua visione strategica, che si stenta a vedere, ma cerca aggiustamenti temporanei, posticipando i problemi».
E la piazza fisica, delle manifestazioni di protesta?
«Schmitt avrebbe approvato la manganellatura degli operai, ovvero del nemico. Non è andata così. Il governo non ha approvato il manganello. Anzi, ha espresso solidarietà a manganellati e manganellatori: più andreottiani di così!».
Non si può dire che l’idea del nemico da riportare all’ordine sia estranea alla fase politica attuale.
«L’ordine attuale è una somma di compromessi quotidiani. L’ordine duro e puro è quello invocato per porre fine al “biennio rosso” in Italia, o al caos tinto di socialismo della Germania di Weimar. Sappiamo dove ha portato. Oggi, in Italia, il pericolo mi pare che possa derivare dal difetto d’opposizione politica efficace in Parlamento e dalla supplenza da parte d’una opposizione di piazza. Qui, vedrei il rischio della radicalizzazione. La manifestazione di Roma aveva un evidente significato ultrasindacale. Farsene troppo facilmente una ragione può essere irresponsabile».
Quando coniò la formula «democrazia dell’applauso» per Craxi, Bobbio si beccò l’insulto «intellettuale dei miei stivali». A voialtri è toccato «professoroni e parrucconi».
«È già una bella soddisfazione avere a che fare con parrucche e non con stivali. Cambiamo le parole, ma siamo sempre lì. Ci sono “no” che sono degni quanto i “sì”. Ha presente Bartleby, lo scrivano di Melville?».

Corriere 3.11.14
«Una fase di transizione difficile». I timori di Libertà e Giustizia
di Massimo Rebotti


Un gruppo di lavoro per far superare a Libertà e Giustizia «una fase di transizione difficile». La base dei sostenitori si domanda con preoccupazione quale sarà il futuro dell’associazione dopo la scelta dell’ingegner Carlo De Benedetti di ridurre i finanziamenti. In tutta Italia i circoli di Libertà e Giustizia sono una quarantina e proprio dai coordinatori è partita l’idea di creare una squadra che studi come uscire dalla crisi. Il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, che è presidente onorario dell’associazione, ha partecipato ai primi incontri: potrebbe essere lui la figura di riferimento per la nuova fase. Dovrebbe invece farsi da parte entro l’anno Sandra Bonsanti che presiede Libertà e Giustizia dal 2002. A conferma del passaggio delicato i due presidenti sono per ora molto cauti. La riduzione dei finanziamenti da parte di De Benedetti potrebbe comportare lo smantellamento della sede centrale di Milano con la disdetta dei contratti per le persone che si occupavano a tempo pieno delle attività. Tra i circoli si teme che, senza strutture né persone dedicate, diventi difficile tenere in vita l’associazione basandosi solo sul tesseramento. Tanto più che i proventi delle tessere sono in calo: erano oltre 140 mila euro nel 2011 — anno in cui governava ancora Berlusconi e Libertà e Giustizia realizzava contro l’allora premier manifestazioni con migliaia di persone —, ma poi sono scesi costantemente fino a circa 90 mila euro nel 2013, alle soglie dell’era di Matteo Renzi. «Sono nel consiglio di presidenza da poco» dice la costituzionalista Lorenza Carlassare, «ma le ragioni per continuare ci sono tutte: non c’è più il nemico, Berlusconi, ma ora il nemico ce l’abbiamo in casa, ed è Renzi: con la riforma del Senato la democrazia costituzionale è sotto attacco».

il Fatto 3.11.14
Quel che resta della Bolognina
di Alessandro Ferrucci


Lacerante, drammatico, sofferto, duro: aggettivi vari, per una sensazione collettiva. È il 12 novembre del 1989, giorno in cui il Pci ha ufficialmente iniziato a morire. Chi lo ha vissuto, ancora oggi, lo ricorda così, ne parla con toni pacati, termini soppesati, immagini nitide. Alcuni non vogliono rispondere, troppa sofferenza. E sono passati 25 anni. Ore 11 del mattino, è domenica, fa freddo, i compagni sono imbottiti da maglioni, giacche, cappotti, comunque eleganti, perché una vecchia regola recitava: nel giorno di festa è giusto vestirsi bene, per far vedere al padrone che non si è dei pezzenti. Ed è festa, almeno sulla carta. Alla sezione del Pci della Bolognina arriva l’allora segretario Achille Occhetto, per ricordare il 45º anniversario della battaglia partigiana, non era prevista la sua presenza, ma una volta dentro chiede la parola “e nulla è più stato come prima”, ricorda Mauro Zani. Ex deputato del Pci, ex segretario della “Federazione più grande d’Italia, quella di Bologna con oltre centomila iscritti”, e soprattutto uomo molto vicino a Occhetto: “Mi chiamò la sera prima e con sua moglie (Aureliana Alberici) ci invitarono a cena insieme ad altri compagni. A metà sera Achille buttò lì la questione, parlò della necessità di cambiamenti, cercò la nostra reazione. Il giorno dopo ho capito che era stato un primo test... ”. Un test superato, in pieno.
L’intervento del segretario
Queste le parole di Occhetto in quel 12 novembre: “Ora occorre andare avanti con lo stesso coraggio che fu dimostrato durante la Resistenza (...) Gorbaciov prima di dare il via ai cambiamenti in Urss incontrò i veterani e gli disse: voi avete vinto la II guerra mondiale, ora se non volete che venga persa non bisogna conservare ma impegnarsi in grandi trasformazioni”. Per l’allora segretario, in definitiva, era necessario “non continuare su vecchie strade ma inventarne di nuove per unificare le forze di progresso. Dal momento che la fantasia politica di questo fine ’89 sta galoppando, nei fatti è necessario andare avanti con lo stesso coraggio che allora fu dimostrato con la Resistenza”. Sette minuti in tutto, non un secondo di più, per quel periodo un record in quanto a brevità. “E quasi nessuno riuscì a comprendere la sostanza, Achille non era stato chiaro, esplicito”, continua Zani, “solo i giornalisti presenti, in particolare il cronista dell’Unità, Walter Dondi, mi fermarono per capire meglio, così chiamai Occhetto per decidere quale linea tenere, e lui rispose: ‘Mantieni tutte le strade aperte’. Tipico suo... ”. Ma Dondi fa comunque la domanda a Occhetto: “Le sue parole lasciano presagire un cambiamento del nome? ” “Lasciano presagire tutto”, fu la risposta dell’allora segretario Pci. Dondi ha così sul taccuino la notizia più importante della sua vita professionale (oggi è direttore della Fondazione Unipolis, oltre che dirigente del Gruppo Unipol, contattato non vuole parlare con il Fatto). “Se ci ripenso trovo il tutto incredibile – interviene Marco Demarco, allora caporedattore all’Unità, oggi al Corriere della sera – L’11 novembre Occhetto aveva chiesto la presenza di un cronista politico, c’era qualcosa di grosso in ballo, non sapevamo cosa. Ma poi siamo stati gli unici a pubblicare la notizia, gli unici! Ancora oggi non mi spiego il motivo, ma non fu facile: il direttore era Massimo D’Alema, irreperibile perché in barca con Federico Geremicca (oggi vicedirettore a La Stampa, anche lui conferma: “Diretti verso Ponza”), il condirettore Renzo Foa, anche lui fuori campo, e a Botteghe Oscure non trovavo nessuno, né Petruccioli, né altri. Allora certe notizie andavano concordate”. Andavano valutate, ponderate, discusse. “Alla fine trovai Walter Veltroni, poi Petruccioli e quest’ultimo mi chiese di toglierla (l’interessato smentisce), il compromesso fu un centro pagina invece di un’apertura. Ma la parte interessante iniziò dal giorno dopo... ”. Il giorno delle prime lacrime, le prime proteste, “il centralino del giornale fu preso in ostaggio – ricorda Rocco Di Blasi, allora all’ufficio centrale dell’Unità – I giorni successivi sono stato perennemente impegnato a rispondere ai lettori, erano tra l’incredulo e l’incazzato. Anche in redazione si consumarono dei drammi, con giornalisti, marito e moglie, che litigavano tra favorevoli e contrari”.
D’Alema ricorda in una recente intervista a l’Unità: “Non c’è dubbio che il giornale di quel 13 novembre rivela una certa freddezza, con un titolo così generico in prima e la notizia relegata a pagina 8 , dove invece c’era il titolo più forte (“Il Pci cambierà nome? Tutto è possibile”). Insomma, il contrario della logica giornalistica. Per quale motivo? “Prevalse in me la prudenza. In fondo, pensavo, Occhetto aveva solo risposto alla domanda di un giornalista, dicendo che non escludeva nulla. E così il giorno della Bolognina divenne per l’Unità il giorno di Modrow (ultimo Primo Ministro comunista della Germania Est) ”. Eppure anche il futuro lìder Maximo non passò indenne la nottata: il 13 novembre convocò la redazione, i presenti lo ricordano turbato per una lite con moglie e madre, tutte e due in disaccordo con Occhetto, “tanto che iniziò a giocare con un foglio di carta – spiega Demarco – poi diventato un origami, uno dei suoi classici origami, e dopo aver deciso il da farsi, ci disse: ‘Adesso vado a Botteghe Oscure per spiegare ai presenti come si fa politica... ’”. Era convocata la segreteria. “Sì, loro a Roma, noi sul territorio – ricorda Zani – Voi non potete immaginare quante lacrime, giorni durissimi, molti compagni si sentirono persi, era come perdere la propria famiglia. Io a consolarli, nonostante fossi d’accordo con Occhetto”.
Oggi, alla Bolognina, non c’è quasi più nulla del 1989. Nelle stanze dove Achille Occhetto strappò col passato ora c’è un negozio di parrucchieri gestito da cinesi. La stessa città, Bologna, grassa e comunista, è diventata con gli anni di un arancione sbiadito, a luci intermittenti. Nel 1989 gli iscritti al Pci nazionale erano circa un milione e quattrocentomila, alla Bolognina oltre 1200 tesserati, oggi “siamo in 280 – interviene Mauro Oliva, segretario della sezione attuale
– ma allora erano raggruppate quattro realtà, comunque non ci sono più i numeri di allora, questo è chiaro. In quel periodo ero uno studente universitario, non stavo qui, ma ogni tanto chiedo agli anziani un ricordo di quel giorno: alcuni restano zitti, altri mi parlano di dramma e mi vengono i brividi”.
Renziani e Spi-Cgil
Oggi la sezione è renziana, ma con poco distacco rispetto alle ultime primarie: per il premier il 55 per cento dei voti, il resto diviso tra Gianni Cuperlo e Pippo Civati. “Le ultime posizioni del segretario hanno creato qualche imbarazzo e confronto, specialmente rispetto alla questione del lavoro. Ma restiamo comunque tutti uniti, pronti al confronto franco”. Sarà. Non sono così d’accordo i pensionati iscritti allo Spi-Cgil, organizzati con un paio di stanze proprio accanto la sede attuale del Pd, condividono la sala riunioni, una volta condividevano anche le battaglie. Una volta. “C’è imbarazzo – interviene Gianni – Ma come si fa ad attaccare l’articolo 18? Ma scherziamo? Eppoi questa alleanza sottaciuta con Silvio Berlusconi. Un tempo ci sentivamo a casa, oggi non lo so. È cambiato tutto, troppo in fretta, e senza rispettare il nostro ruolo politico, nonostante appesi alle pareti ci siano ancora alcuni simboli di un passato comune”. Dentro la nuova sede della Bolognina c’è sempre una foto di Berlinguer, una pagina dell’Unità, il colore rosso alle pareti, il manifesto per una tombola di finanziamento, il calendario delle riunioni. Nient’altro. “Sa cosa mi manca di allora? – conclude Zani – Lo stress costante della manutenzione di un gruppo così grande, eravamo obbligati a continui miglioramenti”. Fino a quella mattina del 12 novembre, quando il respiro di molti si è fermato, la Storia ha accelerato, e le pietre di Berlino hanno reso macerie il Partito comunista italiano.

il Fatto 3.11.14
I protagonisti da D’Alema a Napolitano

GLI INCARICHI ricoperti nel 1989 dalle figure chiave. Da sinistra: Massimo D’Alema, direttore de L’Unità, deputato e coordinatore della Segreteria nazionale. Walter Veltroni, responsabile delle Comunicazioni di massa e membro del Comitato centrale. Nella terza foto Achille Occhetto, segretario del Pci, e Claudio Petruccioli membro della segreteria nazionale. A seguire Giorgio Napolitano, parlamentare europeo, a capo della Commissione politica estera e relazioni internazionali del partito (Kissinger lo definiva: “il mio comunista preferito”). Affianco Luciano Lama, storico leader della Cgil nel suo periodo d’oro (fino al 1986), senatore indipendente nelle liste del partito e sindaco di Amelia (Terni). Armando Cossutta senatore e membro della direzione della segreteria, lasciò il partito in polemica e contribuì alla nascita di Rifondazione comunista. Pietro Ingrao, all’epoca membro del comitato centrale, aderì al Pds ma ne annunciò l’addio nel 1993.

il Fatto 3.11.14
Fabio Mussi
“Dovevamo cambiare molto tempo prima”
intervista di Alessandro Ferrucci


Fabio Mussi nel 1989 aveva 41 anni ed era nella segreteria del Partito comunista, “insieme ad altri sette compagni, tutti giovani o giovanissimi, il più grande era Occhetto con i suoi cinquanta, poi una serie di ragazzi come Livia Turco, Massimo D’Alema o Walter Veltroni che ne aveva 34”. Sono loro, gli otto, ad aver discusso, consumato, traghettato, affrontato quei giorni, poi diventati mesi, quindi anni, in cui il Pci finisce, falce e martello escono dall’immagine centrale per finire sotto una quercia. E un’intera comunità perde molte delle sue certezze.
Secondo quasi tutti i testimoni dell’epoca, Occhetto non avvertì nessuno delle sue intenzioni alla Bolognina...
Dobbiamo dividere i piani: è vero, nessuno sapeva che quello sarebbe stato il giorno dell’annuncio, il giorno preposto per avviare un processo ufficiale di trasformazione, ma la discussione si era aperta da tempo. Insomma, non è stato un fulmine a ciel sereno, avvertivamo l’esigenza di un cambiamento, il distacco dall’Unione Sovietica.
Quindi, già si discuteva dell’addio al Pci...
Pochi mesi prima era apparso un articolo su Rinascita dedicato a tale argomento, e nessuno si era scandalizzato, io stesso gli avevo risposto agli articolisti parlando “della necessità di un tempo per ogni cosa”.
Un “tempo” partito da quando?
Credo dall’invasione della Cecoslovacchia poi seguita, anni dopo, dalle vicende in Polonia del 1981, con un’intervista di Berlinguer nella quale lui stesso prendeva le distanze. Ma Enrico venne fermato dalla sinistra del partito.
Se parliamo di date, le proteste di piazza Tienanmen iniziate nell’aprile del 1989, sono considerate fondamentali per il Pci.
Vero, sono state la classica goccia che fa traboccare il vaso, con l’intera segreteria del partito schierata davanti l’ambasciata cinese per un sit-in di protesta.
Nel dopo-Bolognina molte famiglie furono attraversate e segnate da lacerazioni interne.
Eccome! Pensi, a casa dei miei il ritratto di Stalin è rimasto appeso fino al 1956, tolto solo dopo i fatti d’Ungheria, mentre mio padre era convinto che Krusciov (protagonista di alcune aperture fondamentali) fosse un uomo in mano all’intelligence statunitense! Questo per dirle il contesto nel quale sono cresciuto...
E quindi?
Sì, è stato un periodo difficile, nel quale una parte di noi comprese il momento, un’altra ci accusò di tradimento, si sentì abbandonata, non si rendevano conto che le pietre del Muro di Berlino ci stavano rotolando addosso.
Secondo lei, Occhetto come gestì la situazione?
Era impossibile comportarsi diversamente, era necessario operare uno strappo improvviso, altrimenti ci saremmo insabbiati in infinite discussione con i più anziani, e penso a compagni come Pajetta, Ingrao o lo stesso Napolitano, personalità di fronte alle quali mi tolgo sempre il cappello, ma che avrebbero portato la discussione verso un vicolo cieco.
25 anni dopo, quale errore non rifarebbe?
Quello di non aver trovato prima il coraggio di abbandonare l’Unione Sovietica, di archiviare il Pci.
Qualche rimpianto?
Non era obbligatorio arrivare a questo Pd e a questo Renzi: quello di oggi è un non-partito, è puro spazio elettorale. Mentre sono orgoglioso di aver fatto parte del Pci, un gruppo che ha contribuito in maniera fondamentale allo sviluppo democratico del nostro Paese.

Corriere 3.11.14
L’alba della Prima Internazionale
Un’eredità che sembra smarrita
di Luciano Canfora


Escono, certo per caso, quasi contemporaneamente, due libri tra i quali non è fuor di luogo stabilire un collegamento. Un volume che racconta e documenta l’atto di nascita della Prima Internazionale ( Prima Internazionale , a cura di Marcello Musto, Donzelli) e inoltre un libro di Domenico Losurdo significativamente intitolato La sinistra assente (Carocci). Per fortuna l’editore Donzelli si è ricordato che, col 2014, sono 150 anni dalla nascita della Prima Internazionale, e così ha preso la saggia iniziativa di far raccogliere in traduzione italiana i documenti fondativi, a partire dall’indirizzo di saluto di Marx, nonché via via i successivi documenti (per lo meno i principali) della vivacissima vita di quella organizzazione.
Dopo un secolo e mezzo si può guardare al cammino compiuto a partire da allora con mente sgombra dallo spirito di fazione e concludere che, senza quella grande impresa, la condizione operaia e più in generale del lavoro dipendente sarebbe stata di gran lunga peggiore. La vita tormentata, la fine prematura, la rinascita sotto altre forme (Seconda, Terza, Quarta Internazionale) nulla tolgono alla fecondità di quella iniziativa pionieristica attuata a Londra nel 1864, e grazie alla quale furono posti sul tappeto già tutti i problemi fondamentali di libertà e di giustizia che i liberali, già intorno a quegli anni, avevano ormai dimostrato di non essere in grado di risolvere, e forse non ne avevano ormai più la voglia.
L’altro volume, opera di uno studioso benemerito della storia politica euro-americana tra Secondo Impero francese e fine del «socialismo reale», affronta invece il vuoto determinatosi a seguito di tale tracollo. Il titolo, La sinistra assente , ben simboleggiato dalla sedia vuota che campeggia sulla copertina, dice molto meno di ciò che il libro contiene. Esso affronta alcuni temi fondamentali che caratterizzano gli attuali comportamenti dell’ex «mondo libero», di dullesiana memoria. In primo luogo la risorgente lotta di potenza contro Russia e Cina, nonché, strettamente connessa a ciò, la capacità degli Usa di tenere per lo più al guinzaglio la inconsistente politica estera della Ue, anche grazie all’apporto di fedeli «quinte colonne». Poco o nulla importa che il capitalismo sia stato restaurato sia in Russia che in Cina (e in Russia anche la ginnastica elettorale): anzi forse questo accentua la rivalità. Prova definitiva, se pur ve ne fosse bisogno, del fatto che lotta di potenza fu già a suo tempo, quando si favoleggiava di una inevitabile lotta contro l’impero del male, e lotta di potenza è adesso. Ammantata però da cangianti foglie di fico: un giorno l’integrità dell’Ucraina, un altro giorno i diritti di libertà dei terroristi islamici ceceni e così via mentendo.
Un altro tema forte del volume è la sistematica manipolazione dei fatti ad opera della macchina informativa, o meglio disinformativa: dalla esibizione dei cadaveri torturati delle vittime di Ceausescu, trafugati dagli obitori al fine di fabbricare la scena madre, alla grandinata di notizie sul conflitto interetnico jugoslavo.
Il terzo punto, che dà il titolo al libro, è la autodistruzione della sinistra, ambito nel quale all’Italia spetta un posto d’onore. Non si riesce invero a capire perché mai i tedeschi o gli svedesi, o i belgi, o gli austriaci, abbiano diritto ad avere un partito socialdemocratico nei loro parlamenti, ma non gli italiani. Hanno impiegato oltre quindici anni, dalla «Bolognina» alla nascita del cosiddetto Pd, a demolire quanto ancora restava dell’insediamento sociale, culturale e umano del maggior partito riformista che l’Italia abbia avuto nella sua storia repubblicana, e che Togliatti chiamò «partito nuovo».
Le simpatie di Losurdo vanno a quella che ancora oggi si chiama «Repubblica popolare cinese». Imbarazzato dalla rinascita, in quel Paese, di un selvaggio capitalismo fondato su una radicale disuguaglianza (non solo di salario, ma anche di condizione umana), Losurdo ricorre ad alcune autorità teoriche, da Trotsky, a Gramsci a Deng, per giustificare, appellandosi a formule quali «collettivismo della miseria», «eguaglianza della miseria comune», lo stato di cose che si è determinato in quel grande Paese, trasformatosi ormai nell’esatto contrario di ciò che si proponeva di essere alla metà del Novecento. Mi sembra uno sforzo ermeneutico mal riposto. Sarebbe molto più utile proporsi di comprendere quale inedita formazione economico-sociale e politica sia nata sotto i nostri occhi in quello che oggi è il punto nevralgico del pianeta.

Corriere 3.11.14
Matteo Renzi
Un leader liberale per la sinistra
di Michele Salvati


Un totus politicus come Renzi nutre un comprensibile scetticismo per i programmi e per gli intellettuali che si dilettano a scriverli: il messaggio è affidato ad atti politici, a fatti, dichiarazioni, annunci, atteggiamenti. E dagli atti compiuti sinora mi sono fatto l’idea delle sue convinzioni politiche — della sua visione del mondo e dell’Italia — che provo a riassumere schematicamente nei seguenti cinque punti.
(a) L’orientamento ideologico di fondo è una versione del liberalismo di sinistra, attento non solo alle «libertà da», ma anche ad effettive «libertà per», ad una ragionevole uguaglianza di opportunità per le persone socialmente più svantaggiate, nella misura in cui è possibile assicurarla dati i vincoli economici e sociali che oggi l’ostacolano. Vincoli che però lentamente possono essere rimossi. Si tratta dunque di un liberale, non di un socialdemocratico. Come liberale non arriva agli estremi della signora Thatcher («ci sono gli individui, una cosa come la società non esiste»), ma non intende legarsi agli interessi di gruppi sociali organizzati e alle loro rappresentanze. Neppure a quelle dei lavoratori dipendenti, ai sindacati, il nesso che invece caratterizza la socialdemocrazia: per lui sono tutti lavoratori — «padroni» e dipendenti — e l’importante è che tra loro ci siano rapporti cooperativi, che le loro capacità siano valutate e premiate, che l’occupazione si estenda e che nessuno si accaparri di rendite non meritate.
(b) Questo ha come conseguenza che egli si rivolge al Paese nel suo insieme, non ad una parte di esso. Vuole forse costruire un «partito della nazione»? Ma tutti i grandi partiti che competono per il governo non pongono limiti alle loro capacità di rappresentanza: chiunque accetti i valori che Renzi sostiene e creda nella sua capacità di attuarli può votare per lui, come in passato ha votato per Berlusconi chiunque ha creduto nei valori da lui un tempo sostenuti.
(c) Come ogni liberale Renzi è convinto che in larga misura efficienza ed equità viaggino insieme: l’Italia è ingiusta anche (e forse soprattutto) perché è inefficiente, perché le amministrazioni pubbliche non funzionano e non soddisfano le domande dei cittadini che ad esse si rivolgono, spesso i più bisognosi; l’occupazione e dunque il benessere ristagnano perché il mercato del lavoro funziona male, le imprese sono troppo piccole e inefficienti e anche le più grandi ed efficienti vanno incontro ai problemi recentemente esemplificati dal caso di Luxottica: è questa la tesi sostenuta da economisti liberali come Pietro Reichlin e Aldo Rustichini ( Pensare la sinistra , Laterza) che mi sembra Renzi abbia fatto propria.
(d) Renzi è anche convinto che l’Italia, le cui inefficienze e ingiustizie affondano in un lontano passato, richiede un lungo periodo di manutenzione straordinaria. Non c’è un singolo grande problema di riforma su cui concentrare le scarse risorse del Paese, ma numerosissime inefficienze e ingiustizie che l’affliggono, sia nel settore pubblico che nel privato: nel regime fiscale, nella scuola, nella magistratura, in quasi tutti i comparti della pubblica amministrazione, nella legislazione sul lavoro e sul welfare, nelle imprese e nel sistema finanziario, nel Mezzogiorno, tutti cantieri che Renzi ha aperto o intende aprire. Come poi un politico consapevole della difficoltà del compito che si è addossato riesca ad essere (o a sembrare credibilmente) così ottimista — un aspetto fondamentale della sua immagine pubblica — è problema che sfugge alle mie capacità di com-prensione. Ma io sono un intellettuale pieno di dubbi e di paure, lui un politico.
(e) Se le cose sono così difficili, la prima delle riforme è «la riforma del riformatore», un riassetto costituzionale, istituzionale ed elettorale che dia al governo le risorse amministrative, regolamentari e di consenso necessarie ad una lunga legislatura riformatrice guidata da un unico partito, libero dalla necessità di compromessi. Di qui la fragile alleanza sulla legge elettorale con Berlusconi, il quale dovrebbe avere lo stesso interesse di Renzi a frenare l’avanzata di Grillo. Olent ?, chiedeva Vespasiano contando i sesterzi ricavati dai suoi gabinetti pubblici.
Forse voglio leggere troppo nella svolta di Renzi: dopo questi pochi mesi di governo, non sono in grado di escludere che Renzi sia un personaggio di caratura politica e intellettuale più modesta di come l’ho rappresentato. E che di lui, più che prendere sul serio l’ideologia, sarebbe il caso di scrivere una «fenomenologia», come fece Umberto Eco per Mike Bongiorno più di cinquant’anni fa. In fondo — potrebbero dire coloro cui Renzi sta antipatico di pelle — le riforme che sta tentando sono assai simili a quelle che ha tentato, e in parte è riuscito ad attuare Monti. O a quelle di Letta: anche queste rispondevano ad un orientamento liberal-democratico. Vero. C’è però il «piccolo» particolare che, con la sua innovazione mediatico-organizzativa Renzi è riuscito a scalare e a far vincere (per ora alle europee) un partito che quelle riforme o le ostacolava, o le digeriva piuttosto male, ed ora, a seguito di una evidente mutazione politico-ideologica — o si tratta dell’italico «correre in soccorso del vincitore»? — sembra in grado di sostenerle con maggiore convinzione. Se sarà veramente così, lo vedremo tra non molto.

Corriere 3.11.14
L’assurda amnesia sulla storia socialista
di Pierluigi Battista


Damnatio memoriae forse è troppo, ma questa cancellazione di ogni sia pur minimo frammento che ricordi la tradizione socialista italiana, questo annichilimento persino lessicale, questa sparizione assoluta di un pezzo importante della nostra storia, come vogliamo definirla? Se persino un «post» assoluto come Matteo Renzi, uno che con la tradizione comunista non ha niente a che fare e anzi sta smantellando ogni traccia residuale di ideologismo di marca comunista, se persino lui, senza nemmeno avvedersene, schiaccia tutta la storia della sinistra italiana come emanazione del Pci, che segno è? Dice Renzi che la sinistra nemmeno votò a favore dello Statuto dei lavoratori con l’articolo 18. Ma come, lo Statuto dei lavoratori è stato fatto dalla sinistra, quella socialista. Il padre dello Statuto è stato un socialista, Giacomo Brodolini e il suo ispiratore un grande giuslavorista socialista, Gino Giugni. E invece passa l’idea che la «sinistra» sia stata contro. Il socialismo espulso dalla storia e dalla sinistra. Una dimenticanza. Ma molto eloquente.
Fa bene sul Foglio Guido Vitiello a menzionare, con ironia e conservando il senso delle proporzioni, qualche precedente. Come le «mani di Karl Radek che continuavano a dimenarsi, staccate dal corpo del loro proprietario, nel filmato di un congresso della Terza Internazionale»: Stalin voleva azzerare ogni traccia del dirigente bolscevico caduto in disgrazia, ma quel particolare delle mani gli era sfuggito. Oppure le tre versioni nelle fotografie della Rivoluzione cubana. «La prima con Castro che parla animatamente accanto a Carlos Franqui e ad Enrique Mendoza» nella terza, strappati via i dissidenti Franqui e Mendoza solo Castro che parla come uno squilibrato. Ma sulla cancellazione della storia socialista nessun Commissariato degli archivi , come si intitola uno splendido libro di Alain Jaubert, provvede a distruggere i reperti scomodi del passato, come accade negli Stati totalitari. Qui è solo il trionfo del più vieto luogo comune, l’incapacità di capire, secondo gli stereotipi del senso comune, quanto sia stato importante il riformismo socialista nella storia italiana fino a Bettino Craxi, anzi soprattutto con l’accelerazione modernizzatrice impressa da Craxi, mentre il Pci ancora non aveva spezzato il legame di ferro con le mitologie del comunismo realizzato. Un luogo comune così pervasivo da sfiorare persino un campione della politica post-ideologica come Renzi.

Corriere 3.11.14
La marcia su Roma
Memorie del 28 Ottobre cronaca di Paolo Monelli
risponde Sergio Romano


Il 28 ottobre è trascorso quest’anno senza che venisse ricordata la ricorrenza infausta per l’Italia. Nel libro «In Italia ai tempi di Mussolini» di Emilio Gentile viene ricordata la sera del giorno successivo, il 29 ottobre 1922, in cui Mussolini, alla domanda del giornalista Edgar Hansel Mowrer che gli chiedeva che cosa stesse succedendo, rispose tronfio: «Vado a Roma ad instaurare il fascismo». Però malgrado la sua prosopopea non si può trascurare quello di cui lo rimproverò De Vecchi, che aveva mandato gli altri in avanscoperta e si era mosso solo quando non rischiava più nulla.
Antonio Fadda

Caro Fadda,
Recentemente è stato ristampato dall’editore Mursia un piccolo libro di Paolo Monelli in cui sono raccolti, a cura di Beppe Benvenuto, gli articoli apparsi su «Storia Illustrata» nell’ottobre del 1972, in occasione del cinquantesimo anniversario della Marcia su Roma. Il quadro che ne emerge, sotto la penna di uno dei migliori giornalisti italiani del Novecento, è quello di una tragicommedia in cui i maggiori personaggi recitano a soggetto con progetti imprecisi, dubbi, incertezze.
Monelli racconta tra l’altro il suo incontro con Italo Balbo in Libia nel 1934 quando il governatore della colonia gli aveva fatto qualche confidenza sui continui tentennamenti di Mussolini. La marcia aveva avuto luogo, secondo Balbo, perché lui stesso aveva bruscamente costretto Mussolini a fare una scelta: o la fai tu o la faremo senza di te. Il capo del partito fascista esitava perché non sapeva quali sarebbero state le reazioni delle autorità e non escludeva la possibilità di una sorta di rimpasto in cui il fascismo sarebbe andato al potere senza assumere la guida del governo. I timori non erano interamente infondati. A Milano, la mattina del 28 ottobre, quando la marcia stava per cominciare, una trentina di guardie regie, appoggiate da tre autoblindo, decisero di dare l’assalto a una specie di fortilizio che era stato costruito intorno alla redazione del «Popolo d’Italia». Mussolini scese dal suo ufficio e andò a negoziare con il comandante delle guardie quando un colpo di fucile, sparato da un fascista troppo nervoso ed eccitato, gli sfiorò l’orecchio. Un soffio più in là e il fascismo avrebbe perso il suo capo.
A Roma, nel frattempo, il maggior problema del governo dimissionario di Luigi Facta era quello della proclamazione dello stato d’assedio, lungamente discussa, ma non ancora decisa. La decisione fu presa nella notte del 28 ottobre, e una copia del decreto fu inviata ai comandi militari e alle prefetture. Ma occorreva la firma del re e questi, quando Facta apparve nel suo studio, rifiutò di apporla. Sappiamo ora che Vittorio Emanuele, mente i ministri scrivevano il decreto per lo stato d’assedio, aveva convocato a palazzo alcune personalità fra cui due generali: Armando Diaz, comandante supremo dell’esercito italiano dopo la rotta di Caporetto, e Guglielmo Pecori Giraldi, governatore militare della Venezia Tridentina dopo la fine della guerra. Ad ambedue Vittorio Emanuele chiese quale sarebbe stata la reazione dell’esercito se gli fosse stato chiesto di fermare le camice nere con le armi. Diaz rispose: «Credo che l’esercito obbedirà all’ordine che gli sarà dato, ma le consiglio di non metterlo a questa prova». E Pecori Girardi fu ancora più asciutto: «L’esercito è fedele; ma è bene non farne l’esperimento».
Per Mussolini la strada di Roma era aperta.

Corriere 3.11.14
L’aut-aut alla minoranza del pd
di Paolo Franchi


Il concetto non sarà originalissimo. Mai, però, era stato espresso da Matteo Renzi con tanta durezza. Nessuna concessione, alla Camera sul lavoro non si cambia: prendere o lasciare. E se la sinistra del Pd, d’intesa con Cgil e Fiom, reagisse creando problemi al governo, peggio per lei. Perché il segretario-presidente, che giura di non perdere il sonno per Maurizio Landini, conosce bene la debolezza dei suoi contestatori, e a una scissione continua a non credere. Ma, nel caso, nessun dramma. Volete andare con la sinistra radicale «in nome della purezza delle origini»? Fate pure, roba vecchia: per questo Pd «è più facile perdere qualche parlamentare che qualche voto». Renzi tratta i critici come dei sopravvissuti che dovrebbero ringraziare il cielo per essere ancora politicamente in circolazione. E, fin qui, siamo nel suo stile, all’interno di una concezione e di una pratica della leadership forse post democratiche, sicuramente post partitiche, che si affidano tutte al rapporto tra il capo e gli elettori, riservando al dissenso toni infastiditi e sprezzanti.
Ma c’è di più. La sinistra interna (per intenderci: quel che resta della tradizione del Pci- Pds-Ds o, più prosaicamente, del partito di D’Alema e Bersani) può scegliere la via della scissione, magari in concorso con una sinistra sindacale che, oltretutto, certo non stravede per lei, o chinare il capo. La scelta, è il messaggio di Renzi, è in ultima analisi irrilevante, perché la sua parabola è ormai compiuta: il futuro non le appartiene nemmeno in quota parte. Per il semplice motivo che ormai è appannaggio del post partito renziano, di un centrismo del Terzo Millennio che, a differenza della Dc degasperiana, a sinistra (o almeno a ciò che per sinistra storicamente intendiamo) non guarda neanche un po’. Se ne è almanaccato assai. Adesso, a dare retta a quel che manda a dire (via Bruno Vespa) Renzi, staremmo per passare ai fatti.

il Fatto 3.11.14
Joao Pedro Stedile
“Noi marxisti con il Papa per fermare il diavolo”
Parla il leader dei Sem Terra
Viva Gramsci. Il dirigente contadino, di formazione marxista, organizzatore dell’incontro in Vaticano dove ha proposto di canonizzare Sant’Antonio... Gramsci
di Salvatore Cannavò


Joao Pedro Stedile guarda la prima pagina del Fatto in cui si vede Maurizio Landini fronteggiare la polizia. “Un leader sindacale senza cravatta? Davvero? ”. La battuta sintetizza molto profilo e storia di questo dirigente, ormai di levatura internazionale, del movimento “campesino”. Il Movimento Sem Terra è un’organizzazione fondamentale in Brasile, immortalata dalle storiche immagini Sebastião Salgado e con una storia trentennale fatta di vittorie e sconfitte ma sempre in primo piano nell’organizzazione dei contadini. Stedile ne è il dirigente più importante. Lui, la cravatta non l’ha mai portata e ha sempre concepito il suo ruolo come portavoce di una realtà povera ma in cerca della propria emancipazione.
Marxista, legato alla storia della teologia della liberazione, è stato uno degli organizzatori dell’Incontro mondiale dei movimenti popolari che si è svolto in Vaticano la settimana scorsa. In una delle sessioni di quel dibattito, svoltosi tra le volte suggestive dell’aula del Vecchio Sinodo, ha suggerito ai porporati presenti di canonizzare anche “sant’Antonio... Gramsci”. I Sem Terra, l’imponente organizzazione che dirige, circa 1,5 milioni di aderenti, hanno una storia antica di occupazioni di terre, di lotte e conflitti anche aspri. Ma coltivano anche un rapporto “laico” con il potere o, come lui spiega, di “autonomia assoluta”. Per cui, alle scorse elezioni brasiliane, pur non impegnandosi molto nel primo turno elettorale hanno poi sostenuto Djilma Roussef al secondo. Venuto in Italia per l’incontro in Vaticano, ha effetuato un giro di incontri per la penisola presentando il libro La lunga marcia dei senza terra (Emi edizioni), di Claudia Fanti, Serena Romagnoli e Marinella Correggia. Sabato pomeriggio, poi, è andato a visitare la Rimaflow, a Trezzano sul Naviglio, fabbrica recuperata, che Stedile, davanti a trecento persone ha battezzato “ambasciatore dei Sem Terra a Milano”.
Come è nato l’incontro in Vaticano?
Abbiamo avuto la fortuna di avere rapporti con i movimenti sociali dell’Argentina, amici di Francesco con cui abbiamo iniziato a lavorare all’incontro mondiale. Così abbiamo riunito cento dirigenti popolari di tutto il mondo senza confessioni religiose. La maggior parte non erano cattolici. Un incontro molto profittevole.
Lei è di formazione marxista. Che giudizio dà del Papa e dell'iniziativa vaticana?
Il Papa ha dato un grande contributo, con un documento irreprensibile, più a sinistra di molti di noi. Perché ha affermato temi di principio importanti come la riforma agraria che non è solo un problema economico e politico ma morale. Di fatto ha condannato la grande proprietà. La cosa importante è la simbologia: in 2000 anni nessun Papa ha mai organizzato una riunione di questo tipo con dei movimenti sociali.
Lei è stato uno dei promotori dei Forum sociali nati a Porto Alegre. C'è una sostituzione simbolica da parte del Vaticano rispetto alla sinistra?
No, credo che Francesco abbia avuto la capacità di porsi correttamente di fronte ai grandi problemi del capitalismo attuale come la guerra, l’ecologia, il lavoro, l’alimentazione. E ha il merito di aver avviato un dialogo con i movimenti sociali. Non credo ci sia sovrapposizione ma complementarietà. In ogni caso mi assumo l’autocritica, come promotore del Forum sociale, del suo esaurimento e della sua incapacità a creare un’assemblea mondiale dei movimenti sociali. Dall’incontro con Francesco nascono due iniziative: formare uno spazio di dialogo permanente con il Vaticano e, indipendentemente dalla Chiesa ma approfittando della riunine di Roma, costruire nel futuro uno spazio internazionale dei movimenti del mondo.
Per fare cosa?
Per contrastare il capitale finanziario, le banche, le grandi multinazionali. I “nemici del popolo” sono questi. Come direbbe il Papa, questo è il diavolo. Anche se l’inferno lo viviamo noi. I punti tracciati dall’incontro di Roma sono molto chiari: la terra, perché l’alimento non sia una merce ma un diritto; il diritto di ogni popolo ad avere un territorio, un proprio paese, si pensi ai curdi di Kobane o ai palestinesi; un tetto dignitoso per ognuno; il lavoro come diritto inalieanbile.
I Sem Terra organizzano corsi di formazione su Gramsci e Rosa Luxemburg. Nessun problema a lavorare con il Vaticano?
Noi viviamo in una crisi epocale. Le ideologie del secondo dopoguerra sono sprofondate. La gente non si sente più rappresentata. Eppure questa crisi offre anche opportunità per il cambiamento a condizione che nessuno si presenti con la soluzione pronta in tasca. Servirà un processo, di movimento di partecipazione popolare. E chiunque disposto a partecipare va incluso.
In Brasile avete sostenuto l'elezione di Djilma Roussef. Qual è il giudizio sul governo del Pt e sul suo futuro?
L'autonomia è per noi un valore importante. Il Pt ha gestito il potere con una linea di “neo-sviluppismo”, più progressista del neoliberismo ma basata su un patto di conciliazione tra grandi banche, capitale finanziario e settori sociali più poveri. L’operazione di redistribuzione del reddito ha favorito tutti ma soprattutto le banche. Ora, però, questo patto non funziona più, le attese popolari sono cresciute. L’istruzione universitaria, ad esempio, ha integrato il 15% della popolazione studentesca ma l’85% che resta fuori preme per entrare. Solo che per rispondere a questa richiesta servirebbe almeno il 10% del Pil e per reperire risorse di quelle dimensioni si romperebsemblea costituente per la riforma della politica. La forza del popolo non è in Parlamento
Qual è la situazione del Movimento Sem Terra oggi?
La nostra idea, all'inizio, era di realizzare il sogno di ogni contadino del XX secolo: la terra per tutti, battere il latifondo. Ma il capitalismo è cambiato, la concentrazione della terra significa anche la concentrazione delle tecnologie, della produzione, delle sementi. È inutile occupare le terre se poi si producono Ogm. Non è più sufficiente ripartire la terra ma occorre un’alimentazione per tutti e un’alimentazione sana e di qualità. Oggi puntiamo a una riforma agraria integrale e la nostra lotta riguarda tutti. Per questo occorre un’ampia alleanza con gli operai, i consumatori e anche con la Chiesa. Siamo alleati di chiunque desidera il cambiamento.

La Stampa 3.11.14
La mistica Natuzza verso gli altari
Sul suo corpo i segni di ferite e stimmate
L’annuncio dell’avvio del processo del Vescovo di Mileto, davanti a migliaia di persone
di Domenico Agasso ir

qui

Corriere 3.11.14
Satana c’imbroglia e noi lo cerchiamo nel posto sbagliato
di Paolo Foschini


Il libro di Luciano Regolo e Raffaele Talmelli «Il Diavolo» (Mondadori, pp. 336, e 17) sarà presentato oggi a Milano dagli autori, alle ore 18.30, presso la libreria Mondadori di piazza Duomo

Sul fatto che il Diavolo esista o no si potrà anche discutere, ma che il Male ci stia da sempre attorno è una realtà così evidente da averci quasi abituati a non scandalizzarcene più. E naturalmente è questo, ogni volta, il momento esatto in cui il Diavolo segna un punto. Ma è solo un punto: la partita è destinato a perderla. Se ci credete.
È bizzarro notare, se solo uno ci pensa, come la più varia pubblicistica sul Maligno inteso come tutto ciò che è occulto e paranormale non abbia mai conosciuto tanta fortuna come in questa nostra epoca, fondata in apparenza sulla logica e la scienza. Ecco perché invece merita di essere letto, se vi interessa quel grande «mistero dell’iniquità» con cui tutti prima o poi facciamo i conti, un libro appena stampato da Mondadori: che si intitola appunto Il Diavolo e che, a dispetto di una copertina un filo grottesca, tratta il problema con una profondità rara. In parte questo si deve alla formazione degli autori, vale a dire il giornalista Luciano Regolo, ma soprattutto il padre benedettino Raffaele Talmelli: il quale tra le altre cose è anche medico psichiatra, dottore in filosofia, in psicologia della comunicazione, nelle discipline musicali, postulatore della causa di canonizzazione della beata Maria Bolognesi. Nonché esorcista diocesano, titolo che gli importa di esibire assai meno che non l’ imprimatur — cui tiene molto — del suo arcivescovo, e quindi della Chiesa, alla pubblicazione di ogni parola che ha scritto. E ciò che rende profondo il libro è in effetti il suo approccio al tema. Per carità, i racconti di casi particolari ci sono: da Adolf Hitler in giù, per dire. Ma se cercate un’antologia degli orrori da cinema fate a meno di comprarlo. Anzi il punto è proprio lì. «Aggiornando Baudelaire — spiega padre Talmelli — secondo cui il più grande inganno del Diavolo è lasciarci credere che non esiste, bisognerebbe dire che uno dei suoi imbrogli stia oggi nel farcelo cercare negli sbalzi d’umore, nell’insonnia, nelle fobie, nelle voci minacciose… insomma nell’ambulatorio dello psichiatra». Al contrario: «Fissarsi sul polverone paranormale significa distogliere lo sguardo dalla realtà in cui il Maligno agisce realmente» e che è fatta di cose purtroppo assai normali, tipo «guerre, ingiustizie, egoismi, cultura dell’indifferenza» e l’elenco sarebbe abbastanza lungo da poterlo completare noi semplicemente guardandoci in casa.
Nessuna speranza? Tutt’altro. «Satana non è un dio alternativo ma un cane alla catena», scrive il priore: nella prospettiva cristiana è un bugiardo assassino, già sconfitto in partenza. Peccato che non si arrenda mai, e proprio lì sta il suo mistero. Per batterlo è sufficiente non arrenderci neanche noi, insistono gli autori. E lo dicono citando la battuta con cui papa Francesco, nell’agosto dello scorso anno, fece ridere i ragazzi di Bobbio e Piacenza: «Quando incontro un giovane che mi dice: “Che brutti tempi, Padre, non si può fare niente”… lo mando dallo psichiatra!».

Il cardinale Poletto
"Pazzi i sindaci  che trascrivono i matrimoni gay"
E sulla lezione choc della prof di religione: "Sembra che essere omosessuale diventi un vanto, così si rovina l'equilibrio naturale"
di Diego Longhini

qui

La Stampa 3.11.14
Il governo ingordo rende inefficace il Parlamento
Il rapporto OpenPolis: l’84% delle nuove norme sono soltanto opera dell’esecutivo
I deputati di Salvini i più attivi, i “dem” i peggiori della Camera
di David Allegranti

qui

La Stampa 3.11.14
Lavoratori e sinistra, duello Landini-Renzi
Il premier alla minoranza Pd: «Scissione? Facciano pure. Ma la gente non capirebbe»
«Il dissenso? Non mi toglie il sonno»
Landini: «Noi non ci fermeremo. Senza i lavoratori non va da nessuna parte»
Affondo del leader della Fiom: «Il governo non rappresenta gli interessi dei lavoratori»
L’intervista integrale di Maurizio Landini a “In mezz’ora”

qui

Corriere 3.11.14
La sinistra in trincea sul lavoro. E Landini «sfiducia» il premier
Il leader Fiom: il governo non ha la maggioranza nel Paese
di Enrico Marro


ROMA Matteo Renzi stoppa sul nascere l’ipotesi di qualsiasi cedimento sul Jobs act, il disegno di legge delega che, tra l’altro, semplifica i licenziamenti. Un messaggio mandato innanzitutto agli investitori e ai mercati finanziari, ma che sembra pregiudicare le possibilità di compromesso con la minoranza del Pd e acuire lo scontro con la Cgil e la Fiom. L’unica cosa che resta da verificare, nelle prossime settimane, è se la chiusura registrata ieri rispetto a possibili cambiamenti non sia soprattutto tattica, senza impedire alla fine qualche aggiustamento del testo.
La sinistra pd intanto si prepara a presentare i suoi emendamenti in commissione Lavoro della Camera, che tra una settimana riprenderà l’esame del provvedimento che ha già ricevuto l’ok del Senato con il voto di fiducia. Lo stop del premier («il Jobs act non cambierà») ha suscitato non solo le proteste della sinistra pd, ma anche di un lettiano come Francesco Boccia, che minaccia di non votare il provvedimento se non verrà modificato. L’ultima mossa di Renzi ha poi allargato anche il fosso con la Cgil, che tira dritto verso lo sciopero generale a dicembre.
Camusso ha deciso ieri di non replicare direttamente alle critiche del premier («non è una questione di feeling, ma un’idea del Paese, della sua modernizzazione», a dividerci). Del resto, i suoi collaboratori confermano che è così: niente di personale, ma sono divisi su tutto. «Renzi — sostengono — non fa che continuare le politiche di destra dei suoi predecessori». Insomma, nessuna possibilità di accordo e via verso lo sciopero generale. Si comincia con tre giornate di mobilitazione insieme con Cisl e Uil: mercoledì le manifestazioni dei pensionati a Milano, Roma e Palermo; sabato tocca ai dipendenti pubblici, in piazza nella capitale e il 29 novembre sarà la volta degli alimentaristi. Nel frattempo i metalmeccanici Cgil da soli faranno due scioperi di categoria: venerdì 14 e venerdì 21, accompagnati da manifestazioni rispettivamente a Milano e a Napoli. Ieri il segretario della Fiom, Maurizio Landini, intervistato su Rai 3 a In mezz’ora , è stato durissimo con Renzi. Prima ha confessato di aver cambiato idea sul premier «quando ho capito che scelse di seguire le politiche di rigore europee che lo porteranno a sbattere». Poi ha detto che se Renzi si mette contro il lavoro, «non va da nessuna parte». Infine ha sostenuto che «la fiducia che il governo ha in Parlamento, nel Paese non ce l’ha». Landini ha però assicurato: «Oggi non voglio impegnarmi in politica, ma rappresentare i lavoratori».
A metà novembre si riunirà quindi il direttivo Cgil per proclamare lo sciopero generale, per la prima metà di dicembre. Non è escluso che la data possa essere concordata con la Uil, se questa dovesse essere d’accordo con la mobilitazione generale. Sembra invece da escludersi un’intesa con la Cisl.
Nonostante le proteste, Renzi ostenta sicurezza. Oggi, a Brescia, interverrà all’assemblea degli industriali nella fabbrica Palazzoli. La Cgil ha annunciato un’assemblea fuori dai cancelli e nello stesso posto si concluderà un corteo di un centro sociale. La Fiom, intanto, attacca la Palazzoli perché ha sospeso la produzione e messo in ferie forzate i lavoratori in occasione della visita del premier. Pippo Civati, uno dei leader della Sinistra pd, ieri proprio da Brescia, ha replicato a Renzi: «O la delega cambia alla Camera o quei trenta che al Senato hanno fatto un passo indietro per responsabilità maturano una posizione diversa». Infine, il presidente della commissione Lavoro, Cesare Damiano, ripete: il Jobs act va cambiato, no al voto di fiducia.

il Fatto 3.11.14
Il lavoro e la politica
La Fiom in piazza a Brescia contesta il premier
Renzi-Landini, lo scontro oggi arriva a Brescia
di Salvatore Cannavò


Sarà l’ennesimo bagno di folla. Tra gli industriali. Come d’abitudine, ormai, Matteo Renzi visite le fabbriche italiane per parlare con gli imprenditori evitando gli operai. Lo aveva già fatto a Bergamo, durante il seminario di Cernobbio, lo farà di nuovo oggi a Brescia dove interverrà all’assemblea annuale dell’associazione degli industriali bresciani (Aib), presieduta da Marco Bonometti. Il premier farà tre tappe: la prima, la più contestata, alla Palazzoli, storica azienda di impianti elettrici per l’energia. Qui, dopo Renzi, parlerà anche il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi e l’appuntamento si carica di un significato politico più che evidente. La Palazzoli, del resto, è una delle pochissime aziende bresciane che impedisce ai metalmeccanici della Cgil di tenere assemblee in fabbrica visto che la Fiom non ha firmato il contratto nazionale. Inoltre, questa mattina, metà dei 130 dipendenti sono stati messi in ferie forzate. Situazione emblematica se è vero, come risulta al sindacato, che a questa assemblea, prima di invitare Renzi, era stato invitato Sergio Marchionne.
Dopo aver parlato agli industriali bresciani il capo del governo farà altre due visite: una, alla Italcementi di Rezzato e l’altra, all’azienda dello stesso Bonometti, la Officine meccaniche Rezzatesi, azienda che lavora a stretto contatto con laFiat e tiene buoni rapporti con il manager italo-canadese.
L’INTERVENTO di Renzi non potrà che evidenziare la sintonia con gli industriali della città lombarda. Qui, da mesi, si sta discutendo il “Patto per Brescia” basato su flessibilità, contrattazione decentrata e formazione tutti cavalli di battaglia del premier. Il Patto, però, non è ancora stato siglato con il sindacato perché i “falchi” della Aib vogliono condizioni di maggior vantaggio.
Fuori dalla Palazzoli si terrà però la contro-assemblea organizzata dalla Fiom bresciana che conta di riunire almeno 600 persone. “La scelta della Palazzoli dove la Fiom è debole – spiega al Fatto il segretario dei metalmeccanici, Francesco Bertoli – non è casuale ma fuori dall’azienda noi ci riprendiamo la parola”. Oltre alla Fiom, poi, sono previsti altri due cortei, uno dei sindacati di base e l’altro del centro sociale Magazzino 47. “Per Renzi il sindacato semplicemente non esiste, commenta Mirco Rota, segretario della Fiom lombarda. “È la terza volta che viene in Lombardia e ha sempre incontrato solo gli imprenditori. Immaginiamo come sarebbe se facesse un giro delle fabbriche a incontrare solo operai o rappresentanze sindacali”.
LA GIORNATA bresciana costituisce lo specchio dell’ennesima giornata politica giocata da Renzi in attacco, a cercare la radicalizzazione dello scontro. Ieri sono state diffuse le sue dichiarazioni rilasciate a Bruno Vespa per il suo nuovo libro. Esono tutte di chiusura rispetto al sindacato e alla minoranza Pd. “La delega (sul lavoro, ndr) alla Camera non cambierà di molto rispetto al Senato”, dice il premier. E se qualcuno non vota la fiducia poco male a meno di non mettere a rischio la stabilità del governo: “In quel caso, le cose cambiano”.
Se la minoranza Pd volesse poi raggiungere la sinistra radicale “in nome della purezza delle origini, faccia pure”. “Non mi tolgono certo il sonno Vendo-la o Landini ma le crisi industriali”. Sicurezza assoluta del proprio percorso e volontà di polarizzare il dibattito con l’antagonista sindacale del momento, Maurizio Landini. Che non si tira indietro. Intervistato da Lucia Annunziata a In mezz’ora, il leader delle tute blu ribadisce a Renzi che nel suo governo “non sono rappresentati gli interessi dei lavoratori” e che senza il lavoro “non si va da nessuna parte”. Il segretario Fiom non fa nessuno sconto al governo accusato di fare gli interessi di Confindustria e dell’Unione europea ragione per cui, dopo una prima fase di apertura, Landini ha deciso di non aspettarsi più nulla da Renzi. Ma niente discese in campo. “Io oggi non voglio impegnarmi in politica”, spiega, perché “voglio continuare a fare il sindacalista per rappresentare tutti i lavoratori. Di fare la minoranza non me ne frega niente”. Quindi appuntamento il 14 a Milano e il 21 novembre, a Napoli, per lo sciopero generale. Chi sta organizzando le due date assicura che ci saranno manifestazioni davvero imponenti.

Repubblica 3.11.14
Matteo & Maurizio, da gemelli della sinistra ad antagonisti
Anche in tempi di post-politica renziana, la fisica del potere non ammette vuoti e così, forse per la prima volta a sinistra, si intravede la figura dell’antagonista.
di Filippo Ceccarelli


Che Landini lo stia diventando con un’intervista la domenica pomeriggio o nell’ennesimo soporifero talk-show in seconda serata è probabilmente, per il giovane premier, abbastanza trascurabile.
Ma l’effetto-verità che trasmettevano anche su YouTube i tanti video degli scontri dell’altro giorno, la suggestione anche visiva del segretario della Fiom con lo zainetto sulle spalle dislocato in mezzo al parapiglia, con gli agenti anti-sommossa alle spalle e i lavoratori dell’Ast davanti a sé, quella sua sicurezza sulla strada, il megafono con lo scotch in mano e poi “anch’io ho preso le botte dai poliziotti!”, “abbassate i manganelli!” e “basta slogan del cazzo alla Leopolda!”, ecco, sarà anche l’epoca del calore mediatico artificiale e del messaggio preconfezionato, però un vero capo operaio come Landini pone oggi di sicuro a Renzi più problemi di Bersani, Letta e Cuperlo messi insieme.
Non solo. Ma il punto singolare e il dato insolito, una specie di ripicca della cronaca, è che lui stesso ha finora sempre mostrato di stimare Landini, il quale da parte sua ha in qualche misura ricambiato e tuttora ostinatamente si guarda dall’attaccare Renzi sul piano personale, né mai lo ha assimilato a Berlusconi.
E insomma per una volta si può notare che il duello o il “derby”, secondo il lessico del giovane premier, è partito in modo abbastanza civile e perfino dignitoso, comunque senza scomuniche ed esasperazioni, né — caso raro al giorno d’oggi — sconfinamenti nella volgarità.
Si dirà: c’è sempre tempo e di questo passo le occasioni non mancheranno. D’accordo, ma intanto è potuto accadere perché nell’ultimo anno i due personaggi hanno pubblicamente e decisamente flirtato. L’espressione suona intimistica e stucchevole, specie se rapportata a problemi gravi come il lavoro, l’articolo 18 o il rapporto del governo con le organizzazioni sindacali; ma se le parole hanno ancora un senso — cosa di cui peraltro si è spesso portati a dubitare — un testimone per così dire equidistante come il senatore alfaniano Sacconi ha parlato già nell’aprile scorso di “abbraccio”, mentre si deve all’ammirevole immaginazione del capogruppo berlusconiano Brunetta un lancio d’agenzia che testualmente recitava: “Landini miagola e Renzi fa le fusa”.
Si può aggiungere che l’immagine di tenerezza felina fu accolta allora nel Giglio magico con qualche sghignazzo deviante e supplementare, se non altro per il fatto che la signora Agnese, moglie del neo premier, di cognome fa Landini, con il che la faccenda trovava una sua legittima collocazione di ordine coniugale.
Ma tornando in ambito politico e sindacale, dopo aver evocato miagolii e fusa l’ignaro Brunetta poneva la più classica e sospettosa delle domande: “Che c’è sotto?”. E qui, cioè sotto, ciascuno, nel governo, nel Pd e nella Cgil poteva rispondere dando sostanza a maliziosi sospetti. Il principale era che Renzi usava Landini come sponda contro i dinosauri del Pd; e che Landini si appoggiava a Renzi per mettere in difficoltà la Camusso. Eppure, l’evidente e simmetrico strumentalismo non esauriva la questione perché le cortesie seguitavano, sia pure con maggiore o minore cautela.
In un “pensierino della sera” il presidente si compiaceva di utilizzare le stesse parole del sindacalista, che naturalmente in un’altra occasione chiamava “Maurizio”; il quale Maurizio, per quanto più sorvegliato e diffidente rispetto all’idea dell’”uomo solo al comando”, non faticava a riconoscerne la novità del segretario- presidente, il cambiamento che incarnava, gli 80 euro che distribuiva e poi i voti che prendeva.
In agosto Renzi, come ovvio con le telecamere al seguito, andò a fare shopping in libreria e ne uscì fuori con alcuni, non troppi volumi tra cui l’ultimo di Landini, “Forza lavoro” (Feltrinelli). Non è chiaro se durante le ferie l’abbia letto o no. A giudicare dal Jobs Act, dalla linea sull’articolo 18, dal ripudio lessicale della parola “padrone”, dall’entusiasmo di Marchionne e dalle sparate della Leopolda, dove non ha parlato un “lavoratore” che sia uno, e al leader della Fiom toscana è stato chiesto in anticipo il testo dell’intervento, ma siccome ha detto no non ha parlato nemmeno lui, insomma, a occhio l’opera landiniana non deve aver troppo influenzato Renzi.
E così, anche rapidamente, la figura dell’antagonista, tanto più rispettabile, ha cominciato a prendere corpo. Ma corpo sul serio, nel senso che nel tafferuglio pure Landini ha avuto il suo, cosa che non accadeva da diversi decenni — fra tutti gli errori di comunicazione di Palazzo Chigi il meno rimediabile con un tweet.
Poi sì, certo, ieri il segretario della Fiom ha confermato in tv che non farà politica. Ma l’esperienza in casi del genere consiglia di aggiungere: per ora, o non ancora. Del resto annuncia Renzi che il futuro è “solo l’inizio”, un modo quasi brillante per dire che bisogna aspettare.

Repubblica 3.11.14
Lavoro, lite Renzi-Landini “Non cambierò la delega” “Così andrai a sbattere”
Il premier: “Qualcuno dei nostri con la sinistra radicale? Faccia pure”
“Il sonno me lo tolgono la crisi e i disoccupati, non Vendola o Landini Non mi interessa se qualcuno dei nostri va con la sinistra radicale, faccia pure”
Landini: “Renzi ha la fiducia in Parlamento, non nel Paese. Gli italiani stanno con noi Renzi teme di aprire un conflitto con l’Europa e si accorda coi poteri forti”
di C. L.


ROMA Il Jobs act non sarà modificato alla Camera. E con molta probabilità sarà blindato anche lì dalla fiducia.
Queste le dichiarazioni di Matteo Renzi a Bruno Vespa che riaccendono lo scontro con la sinistra del Pd e col sindacato. Il leader Fiom Landini mette in guardia proprio il governo e gioca la carta dello sciopero, in piazza il 14 novembre a Milano e il 21 a Napoli.
La riforma del lavoro arriverà in aula a Montecitorio subito dopo la legge di stabilità, quindi da metà novembre. Anche nel Pd l’opposizione interna confidava in possibili ritocchi, soprattutto sull’articolo 18. «La delega sul lavoro non cambierà rispetto al Senato» avverte invece Renzi, stando alle anticipazioni fornite dallo staff di Vespa (e non smentite). «Alcuni dei nostri non voteranno la fiducia? Se lo faranno per ragioni identitarie, facciano pure. Se mettono in pericolo la stabilità del governo o lo faranno cadere, le cose naturalmente cambiano». Così il premier che dà dunque per scontato che la riforma verrà blindata, come avvenuto al Senato. «Spero si tratti di dichiarazioni datate» dice Cesare Damiano, presidente pd della commissione Lavoro della Camera. «Se non ci sarà sintesi io non voto» fa già sapere un altro dem di peso come Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio. Per non dire dell’ala sinistra del partito.
«Irresponsabile blindare il ddl alla Camera», attacca Alfredo D’Attorre, «Renzi taglia fuori tutti, così è scontro», per Giuseppe Civati. Dall’opposizione anche il forzista Renato Brunetta parla di «inaccettabile forzatura» del premier: «Così distrugge il Parlamento».
Nonostante il clima, il presidente del Consiglio ritiene improbabile una scissione, «la nostra gente non capirebbe». Detto questo, «se qualcuno dei nostri vuole andare con la sinistra radicale faccia pure: non mi interessa. È un progetto identitario, lo rispetto ma non mi toglie il sonno». E così, massimo rispetto per la piazza Cgil che ha accolto anche alcuni (dissidenti) pd, «ma io sono per il cambiamento che è nel dna della sinistra e a casa mia la sinistra che non si trasforma si chiama destra».
La reazione del capo della Fiom, Maurizio Landini, arriva con un’intervista tv con Lucia Annunziata: «Renzi si convinca, contro il lavoro non va da nessuna parte, possono mettere tutte le fiducie che vogliono, noi non ci fermiamo. Gli interessi dei lavoratori non sono rappresentati dal governo».
Scioperi da Nord a Sud, insomma lotta dura contro un premier dal quale il capo del sindacato dei metalmeccanici si dice «deluso», dopo un iniziale feeling.
Landini nega quindi di volersi impegnare in politica, nonostante i sondaggi che accrediterebbero una sinistra da lui guidata di un ipotetico 10 per cento: «Voglio continuare a fare il sindacalista. Sia chiaro: di fare la minoranza non me ne frega proprio nulla. Io voglio essere maggioranza perché uno che vuole cambiare il Paese non può stare all'opposizione». Ci saranno manifestanti Cgil e Fiom anche oggi ad accogliere il premier durante la sua visita alla fabbrica Palazzoli, nel Bresciano.

L’Huffington Post 3.11.14
Maurizio Landini: "Di fare la minoranza non me ne frega nulla"
La sfida diretta a Matteo Renzi
“Il Paese deve liberarsi di Renzi”
"Sciopero generale il 14 novembre al nord e 21 novembre al sud"

qui
 

Corriere 3.11.14
Gli italiani regolari i nuovi deboli che non hanno voce
di Isabella Bossi Fedrigotti


C’ è stato un sorpasso all’inverso in fondo alla classifica e i penultimi sono diventati gli ultimi. Hanno altri volti di un tempo, questi nuovi derelitti, e anche altri nomi. Non sono più gli stessi della nostra trentennale tradizione, gli immigrati, cioè, i clandestini, comunque stranieri, magari con un passato spaventoso alle spalle, arrivati in Italia privi di tutto: non sempre, almeno, lo sono, non in modo prevedibile, scontato.
Sembrano piuttosto essere oggi, i più deboli, coloro che nessuno ascolta, cui nessuno porge attenzione, cui nessuno viene in soccorso perché non hanno voce, soprattutto non hanno voce collettiva, bensì singola, isolata e, quindi, inevitabilmente, flebile.
Sono questi protagonisti del sorpasso all’inverso, questi nuovi deboli e debolissimi, per esempio, coloro dei quali parlano oggi e hanno parlato nei loro articoli sul Corriere di ieri e dell’altro ieri Andrea Galli e Gianni Santucci, e cioè i regolari delle case popolari, italiani per lo più, spesso soli, spesso anziani, non raramente con famiglie fragili, difficili.
Inermi contro gli occupanti abusivi, contro i soprusi del racket delle case, contro le minacce e le intimidazioni anche violente, non possono permettersi di assentarsi qualche giorno per andare in ospedale pena ritrovarsi sbattuti fuori dai loro appartamenti da senzatetto che hanno abbattuto porte e rotto chiavistelli. Ma a volte temono perfino di uscire per fare la spesa, una visita di qualche ora da un amico, da un parente oppure dal medico, perché rischiano, al rientro, di ritrovare il loro alloggio occupato dal qualcun altro. E se questo qualcun altro è una donna con figli minori, per i legittimi inquilini c’è il pericolo concreto di finire in strada. Sono vicende delle quali una volta le cronache riferivano con allarme, con scandalizzato sconcerto, mentre ora non fanno più notizia e quasi non se ne riferisce più perché succedono in continuazione.
Risulta ovvio, allora, chi siano oggi i più deboli in certi quartieri semiabbandonati delle città. E a nulla serve che, come ultima ratio , probabilmente, essi scrivano ai giornali lettere desolate, rievocando tempi migliori: speranze non ne hanno più, ma rabbia, comprensibile rabbia — perché vedono calpestati i loro diritti — invece sì. Ma ci sono altri nuovi deboli che nessuno ascolta, perché ascoltarli e, magari, prendere posizione sarebbe, chissà, politicamente scorretto, Perciò anche a loro, spesso, non resta che scrivere ai giornali la loro indignazione, il loro sconforto. Sono coloro che a un passo da casa hanno campi rom o accampamenti di profughi vari i cui occupanti usano aiuole e giardinetti di quartiere come bagno, cucina, dormitorio e pattumiera. E poiché succede che a queste colonie si aggreghino malviventi, ecco che agli abitanti della zona toccano anche furti e violenze, spaccio, risse e vandalismi. Se si rivolgono a poliziotti o vigili, difficile che qualcuno intervenga, perché troppo pochi, perché impegnati in fatti più gravi e perché tanto, poi tutto tornerebbe come prima. Se, invece, tentano di organizzarsi, di protestare vengono facilmente — e per lo più indebitamente — tacciati di razzismo.
Poi ci sono nuovi deboli di tutt’altro genere. Soggetti che nella tradizione erano i più forti, che tenevano il coltello dalla parte del manico, dei quali si parla ancora meno perché si vergognano del loro stato e perciò raramente lo segnalano, pur essendo aumentati in modo esponenziale in questi anni di crisi. Sono i mariti separati che la rottura del matrimonio ha fatto precipitare nella scala sociale, e da classe media che erano, con stipendio più o meno normale, con casa e figli, al momento di separarsi in un momento si trasformano in classe debole. Mentre «prima», in famiglia, si potevano permettere una vita dignitosa, «dopo» non riescono più a pagare alimenti per i figli, affitto della casa e, insieme, un’abitazione per se stessi. Se sono ancora in vita devono allora rifugiarsi dai genitori, altrimenti vi sono — a tempo determinato — amici o parenti. Finito tutto questo, a molti non resta che la Caritas oppure la macchina come stanza da letto. Erano i forti d’un tempo, i vincenti, quelli che se la cavavano sempre, che avevano comunque la meglio: ira, molti di loro stanno passando o già sono passati nella categoria dei nuovi deboli.

Corriere 3.11.14
In Liguria il ritorno di Cofferati
La minoranza cerca la rivincita
di Marco Imarisio


GENOVA Altro che laboratorio politico. Ci vuole il cappellaio matto per immaginare insieme l’uomo di piazza San Giovanni e i nostalgici della Leopolda primordiale. Con questi chiari di luna nazionali, poi. Eppure ci siamo quasi. Bussano in tanti alla porta di Sergio Cofferati, per convincerlo a candidarsi alla guida della Regione Liguria. L’attuale europarlamentare, ex segretario Cgil, ex grande speranza della sinistra italiana, ci sta pensando, e sul serio.
La tentazione è forte ma il tempo stringe. In visita a Genova, il vicesegretario nazionale Lorenzo Guerini ha cercato invano la strada di una candidatura unitaria in un partito spaccato come una mela. Via libera a delle surreali primarie di Natale, allora. Si voterà il 21 dicembre, in un clima terribile. I vertici locali, consapevoli dell’aria che tira, volevano far slittare le consultazioni a gennaio. Guerini non ha sentito ragioni. La promessa di destinare alle vittime della recente alluvione i soldi raccolti con le primarie potrebbe essere un bel gesto ma anche la prova di scuse non richieste in luoghi ancora furibondi per il fango e i danni subiti, non proprio ben disposti nei confronti della politica. L’elettore medio di queste primarie potrebbe essere un operaio dell’Ilva con casa allagata nel quartiere genovese di Brignole e conto corrente in Carige. C’è poco da stare allegri.
Quasi a sua insaputa, la Liguria rischia così di diventare, se non un laboratorio, certo un incrocio di destini alquanto interessante. Il prossimo 15 marzo, data più probabile per le elezioni regionali, si chiuderà un’epoca. È ormai un anno abbondante che l’attuale presidente Claudio Burlando sta tirando la volata per la sua successione dopo due mandati a Raffaella Paita, attuale assessore regionale alla Protezione civile, incarico ricoperto da pochi mesi ma che è diventato un’arma nelle mani dei suoi detrattori dopo la recente alluvione. Come il suo mentore, la delfina è una renziana della seconda ora. Addirittura proviene dalle riserve della tanto celebrata Margherita.
Ma la Liguria non è l’Italia. A guardarla da una prospettiva democratica, è un microcosmo capovolto. Il segretario è l’archeologo cuperliano Giovanni Lunardon, i civatiani sono l’ago della bilancia. A farla breve, in via Fieschi, sede del gruppo regionale Pd, hanno sempre visto come fumo negli occhi la corsa in solitaria di Burlando e Paita, fatta a dispetto di un gruppo dirigente che non può vantare rapporti personali con Matteo Renzi ma ha i numeri dalla sua. Le imminenti primarie sembravano una barzelletta. Da una parte oppositori interni alla vana ricerca di nomi forti. Dall’altra una candidatura costruita con pazienza certosina sul territorio.
Nel giro di un mese è cambiato tutto. Il pasticcio delle primarie emiliano-romagnole, dove le ingerenze esterne hanno causato notevoli danni d’immagine, ha indotto Renzi a una linea netta sulle Regionali. Fate vobis, se la sbrighi chi è sul posto. Poi ha piovuto, tanto. E le ricorrenti alluvioni non sono un gran biglietto da visita per chi ha governato la regione negli ultimi anni. All’improvviso la Liguria democratica è tornata contendibile. Mancava il briscolone da calare sul tavolo delle primarie. Dopo lunga ricerca si sono accorti di averlo in casa. A fare pressioni su Cofferati non sono soltanto i cuperliani ma anche i renziani di primo conio, che scavalcati da Burlando e Paita si accontenterebbero di una candidatura che segni una rottura con il passato recente. Da fuori hanno bussato associazioni, pezzi di società e cultura ligure, sempre alla ricerca della discontinuità. La sinistra di Sel, che si era chiamata fuori dalle primarie in polemica con Burlando, sarebbe pronta a rientrare sotto l’ombrello dell’ex segretario Cgil.
Cofferati vive a Genova da ormai sei anni. La sua voce si fa sentire spesso, nelle riunioni di partito e non solo. I rapporti con il premier sono migliorati dai tempi delle primarie del 2012, quando i due ebbero feroci scontri televisivi, e non ci voleva poi molto. Nonostante le evidenti differenze e divergenze, una volta diventato segretario Renzi ha riproposto Cofferati a Bruxelles, incassando dal rivale un ringraziamento pubblico e sentito. In caso di rinuncia, è pronto alla pugna il deputato cuperliano Mario Tullo. E con tutto il rispetto, non è la stessa cosa. D’accordo che la politica è l’arte del possibile, ma l’eventuale candidatura del sindacalista che nel 2002 portò in piazza San Giovanni tre milioni di persone a manifestare contro la paventata modifica dell’articolo 18 sarebbe una trovata che il cappellaio matto se la sogna.

il Fatto 3.11.14
Napoli. Insultato dalla folla
Un senegalese “cattura” due rapinatori


Loro sul motorino, lui a piedi. Li ha inseguiti e raggiunti, poi ha tenuto bloccato la parte posteriore del mezzo con una presa energica. Ecco il caos, la folla che lo circonda, le minacce. Ma lui non si è fatto intimidire, ha resistito e la sua mossa ha consentito l'intervento dei carabinieri. Così a Napoli un immigrato senegalese di 36 anni, protagonista di un esempio di coraggio civico, ha fatto arrestare uno dei due rapinatori che avevano appena portato via la borsa ad una turista francese mentre l’altro, che è riuscito a scappare approfittando del parapiglia, viene ora ricercato. Il fatto è successo al corso Garibaldi, non lontano dalla Stazione centrale.

il Fatto 3.11.14
Lo scandalo Cucchi
Roma, la Procura: riapriremo le indagini
di Ilaria Cucchi


Venerdì sera continuavo a ripetere a Fabio: “Abbiamo vinto”. Lui (Fabio Anselmo, il legale della famiglia, ndr.) mi guardava, sorrideva triste e non credeva alle mie parole ma io continuavo a dire: “Fabio abbiamo vinto noi. Hanno perso loro. Tutti sanno e tutti hanno capito. In quell’aula di tribunale le tue foto hanno creato sconcerto e imbarazzo. Ma tu hai solo rappresentato ciò che è successo”. Poi sono scoppiata in lacrime. Il senso di colpa per non avere aiutato mio fratello in quei giorni mi ha travolta. Non volevo essere nessuno, volevo solo tornare indietro, volevo solo avere la possibilità di fare qualcosa per lui. Continuavo a ripetere a me stessa quanto tutti mi considerino una gran rompiscatole. In quei giorni io dovevo rompere le scatole, avrei dovuto urlare, avrei dovuto farmi arrestare, avrei dovuto far sentire la mia voce attraverso i muri, attraverso le porte chiuse a Stefano, mio fratello.
QUANDO HO SMESSO di piangere mi sono resa conto di quanta strada avevamo fatto in questi cinque anni, attraverso le umiliazioni, attraverso le menzogne, attraverso gli insulti e attraverso la nebbia alzata da consulenze e perizie che sembravano fatte a regola d’arte per portare a quel drammatico risultato. Fabio ce lo aveva sempre detto ma non gli avevamo creduto. Glielo avevamo sentito dire con forza all’udienza preliminare, lo avevamo visto litigare con i giudici di primo grado fino a far sospendere l’udienza.
Ma non volevamo credere che fosse possibile che lo stato potesse dichiarare il proprio fallimento quando tutto era così chiaro: avevamo negli occhi l'immagine di Stefano nelle ultime ore che lo avevamo visto libero e avevamo negli occhi l'immagine di Stefano quando ci è stato restituito dall'ospedale Sandro Pertini con la patente di morte naturale.
Di fronte a professori luminari o pseudo tali che, con la più grande sfacciataggine possibile avevano il coraggio di affermare verità medico scientifiche assolutamente incompatibili con tutte le osservazioni e le diagnosi compiute dai numerosi medici che hanno potuto visitare Stefano in vita prima del suo ricovero al Pertini, ci sentivamo impotenti e avevamo solo il conforto del nostro avvocato e del prof. Fineschi, che mai si sono stancati di ripetere a tutti, sia pur inascoltati, la più semplice delle verità. E cioè che se mio fratello non fosse stato pestato non sarebbe mai stato ricoverato al Pertini e non avrebbe mai potuto soffrire così tanto fino a morirne.
Abbiamo partecipato a tutte le udienze, siamo andati a tutte le riunioni dei periti. Se in quei sei giorni non siamo riusciti a stargli vicini non abbiamo mai abbandonato i poveri resti di Stefano in tutti questi anni. Siamo stati costretti a vedere le foto del suo corpo sezionato da autopsia, siamo stati costretti a vedere fisicamente i pezzi nelle mani dei periti della sua colonna vertebrale, siamo stati attenti ad ogni loro espressione, ad ogni loro sguardo e ad ogni loro parola. Il dolore che abbiamo provato ci ha dato e ci da la determinazione per andare avanti.
Non accettiamo ipocrisie. Non accettiamo contentini. Non accettiamo false verità.
STIAMO OSSERVANDO quanto sta accadendo in questi giorni. Posso dire che la solidarietà dei quasi tre milioni di persone che mi hanno seguita su Facebook, ma soprattutto di tutti coloro che si sono civilmente ribellati ad una ingiustizia inaccettabile ci ha scaldato il cuore, perché non ci sentiamo soli.
Il nostro piccolo Stefano non era certamente un eroe, ma era un ragazzo qualunque con i suoi problemi, con i suoi difetti ma anche con le sue virtù. Ed era un essere umano. Un ragazzo qualunque.
Ora è diventato, grazie a tutti coloro che ci sono stati vicini, il simbolo dei cosiddetti ultimi, privi di privilegi, alla base della scala sociale i cui diritti da vivo non hanno avuto alcun significato e nulla hanno contato per lo Stato.
Nella vicenda processuale di Stefano Cucchi io capisco che tanta gente riveda un po’ una sorta di possibilità di riscatto per una giustizia troppo spesso prona ai potenti e arrogante e spietata con i deboli.
L’HO GIÀ DETTO. Noi abbiamo un profondo rispetto per la magistratura, ma non una venerazione. E in nome di questo rispetto rimaniamo in attesa come abbiamo sempre fatto in questi lunghi cinque anni che giustizia venga fatta. Visto che la verità grazie al nostro avvocato e al prof. Fineschi l’hanno già capita tutti.

La Stampa 3.11.14
Cucchi, il procuratore di Roma vedrà i familiari
“È inaccettabile morire se affidati allo Stato, Siamo disponibili a riaprire l’indagine sul caso”

qui

Corriere 3.11.14
Metro C, cantiere infinito di Roma L’opera avrà costi da record
«Si rischia un conto da 6 miliardi». E intanto, il tratto completato resta chiuso
di Sergio Rizzo

qui

Repubblica 3.11.14
Non trasformate il Colosseo in una scenografia
di Tomaso Montanari

qui

il Fatto 3.11.14
A Dachau
Rubata la scritta “Arbeit macht frei”


Rubata, portata via. Scomparsa. E non è la prima volta che accade. È a targa con la scritta “Arbeit macht frei” (tradotto dal tedesco: “Il lavoro rende liberi”) staccata nella notte tra sabato e domenica dal cancello del campo di concentramento di Dachau, costruito nel sud della Germania. Lo denuncia il quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung. Il personale di sicurezza se ne è accorto ieri all’alba che dall’ingresso dell’ex campo mancava una parte di 190x95 centimetri: a differenza di Auschwitz, infatti, a Dachau la scritta “Arbeit macht frei” era incorporata nel cancello stesso, e non piazzata sopra.
SECONDO LA POLIZIA i ladri hanno agito di notte scavalcando un altro cancello e muniti di potenti torce: il gruppo deve aver approfittato dell’assenza di telecamere (anche se la direzione dichiara di averle accese 24 ore su 24) per raggiungere il punto chiave del lager. Ma al momento non hanno altre informazioni.
Immediate le reazioni di sdegno in tutta la Germania, ma soprattutto in Baviera, dove si trova Dachau. Il direttore della Fondazione bavarese dei memoriali dell’Olocausto, Karl Frellerm, ha parlato di un “atto vergognoso”. Per la direttrice del museo locale, Gabrielle Hammermann, è una “profanazione” e ha sottolineato come sotto quella porta di ferro battuto costruita nel 1936 (quindi tre anni dopo l’apertura ufficiale) siano transitate più di 200 mila persone, di cui oltre 41 mila vi sono morte.
Dachau, infatti, fu il primo campo di concentramento aperto dai nazisti, già nel 1933, subito dopo l’ascesa al potere di Adolf Hitler, e inaugurato su iniziativa dello stesso Heinrich Himmler, futuro capo della Gestapo (nominato nel 1934) e uno degli uomini più vicini al fuhrer.
GLI INQUIRENTI lavorano su due ipotesi: o un blitz di neonazisti per impossessarsi di un oggetto da “venerare” nei loro deliri, oppure un furto su commissione.
La questione, però è un’altra: non è la prima volta che accade un episodio del genere. Circa cinque anni fa (era ildicembre del 2009) un furto identico era stato commesso nel campo di sterminio di Auschwitz. I ladri erano stati catturati tre giorni dopo, due ragazzi legati agli ideali nazisti: il cancello con la scritta “Arbeit macht frei” era stato segato in più parti e sepolto in un bosco.
Nel 2010 l’organizzatore del furto è stato arrestato in Svezia, ma la scritta recuperata quasi subito dopo il colpo.

Repubblica 3.11.14
Nuovo oltraggio all’Olocausto rubata l’insegna di Dachau
di Adriano Sofri


LA NUOVA impresa è il furto dell’intera porta-inferriata di Dachau, col motto “ARBEIT MACHT FREI” (il lavoro rende liberi), che là fu inaugurato e poi si diffuse alla maggioranza dei campi di concentramento e di sterminio nazisti

L’insegna con la scritta “ARBEIT MACHT FREI” era già stata rubata ad Auschwitz e ritrovata poco dopo (bisogna scriverla maiuscola com’era, anche nelle citazioni, almeno per non perdere la B invertita dal prigioniero costretto a lavorarla). Una bravata di neonazisti inetti, e largamente svedesi, per giunta. (Rileggere Larsson, prego). Del resto, chi può dire chi stia dietro la provocazione di Dachau… Già. Si oscillerà, così, “responsabilmente”, fra la preoccupazione di eccedere nei toni indignati e quella di minimizzare. C’è qualcosa di meglio da dire e da fare? Forse. Intanto, si può aver voglia di imparare, o richiamare alla memoria, che cosa fu Dachau. È così facile oggi informarsi, e perfino fare un viaggio. Dachau non fu solo il prototipo, il lager- scuola del concentrazionismo e dello sterminio nazionalsocialista. Fu anche il luogo in cui gli alleati occidentali, gli americani soprattutto, videro coi propri occhi che cosa vi si fosse consumato, e lasciarono documenti impressionanti del loro sgomento.
Ma c’è un’altra sollecitazione che viene dall’impresa di Dachau, ed è legata alla stessa incertezza sulla sua matrice. Non che il neonazismo sia introvabile: non è mai stato così in salute, anche nel parlamento europeo. In salute rigogliosa è l’antisemitismo, modello fondatore e perpetuo in ogni tempo di crisi, e di razzismi, nazionalismi, cospirazionismi, separatismi e altre purezze. Se Auschwitz tiene il primato simbolico e materiale della Shoah, la storia di Dachau è segnata fin all’origine dalla persecuzione di dissidenti, “minorati”, e di omosessuali, zingari, migranti. A contrassegnare l’Europa della crisi non è tanto l’auge del neonazismo, quanto la sua coincidenza e combinazione con chiusure e regressioni che sembrano avere, o pretendono di avere, un segno altro e magari opposto. L’equivoco la fa da padrone. L’allarme motivato — e tardo, esitante — contro il fanatismo jihadista sta sull’orlo del confine, e spesso lo scavalca, dell’intolleranza per i musulmani. La solidarietà con la gente palestinese e l’opposizione alla politica del governo di Israele sconfina volentieri nei discorsi su “gli ebrei” e nella confusione fra governo e stato israeliano. L’esasperazione contro la confisca di libertà e ricchezza da parte di poteri sovranazionali e indifferenti, anzi insofferenti delle regole della democrazia, fomenta una paranoia collettiva che istupidisce e incattivisce.
Non è vero, ed è losco, che non ci sia più distinzione, bisogno di distinzione, fra sinistra e destra. È vero che il peggio della sinistra e della destra vanno sempre più nutrendosi e confondendosi nella frustrazione della crisi, nella paura della retrocessione e dell’invasione, nella convinzione che un burattinaio tiri i fili, e che tutto ciò che si vede sia la mascheratura di ciò che è.
Il po’ di buono che succede nell’Europa di oggi ha del paradosso. Nella Polonia che vuole riscattare l’antisemitismo proprio, non quello altrui, con il museo dedicato a Varsavia, prima che alla memoria della Shoah, alla lunga, preziosa vita ebraica polacca. Oppure nell’Ungheria del plebiscitato Orbán costretto a ordinare una clamorosa marcia indietro sulla tassazione dell’uso della rete dopo la mobilitazione delle strade.
Quanto al resto, desolazione. Il governo di sinistra francese ha sul collo il fiato del Fronte Popolare, e non trova una parola decente per dolersi dell’uccisione di un giovane botanico nella manifestazione contro una diga sciagurata. L’alleato italiano della signora Le Pen sale nei sondaggi al ritorno da una missione internazionalista nella Corea del Nord e nella Piazza Rossa di Mosca, con tanto di maglietta putinista. Una buona parte della “sinistra” europea trova nella fatica dell’Ucraina a fare i conti con il proprio passato una giustificazione alla simpatia, o almeno all’indulgenza, nei confronti di Putin. Il quale fa la sua lezione sull’arroganza planetaria degli americani chiamandoli, lui, “nuovi ricchi”. Del resto sono la stessa Lega e la stessa “sinistra radicale” che al tempo della Bosnia andavano a cercare a Belgrado la loro illuminazione. Dei pasticci a Cinque Stelle meglio tacere. Nemmeno l’avventura mostruosa dello “Stato Islamico” basta a fare un po’ di ordine in tante teste voltate.
Ciò avviene dentro una crisi mondiale acuta, si vieta l’ingresso all’ebola e si drizzano frontiere artificiali mentre qualche migliaio di volontari armati di barba parte dall’Europa alla volta della Siria, e qualche centinaio di migliaia di siriani spogliati di tutto arranca alla volta dell’Europa. Abbiamo 29 ministri della difesa e degli esteri, e nemmeno una politica estera e una difesa europea. Facciamo finta che siano ancora affari nazionali. Il ministro degli interni dispone del primo problema internazionale, i migranti. (Finito Mare Nostrum, aspettiamo che affoghino all’ingrosso, in una volta sola, almeno 350 altri fuggiaschi — al minuto lo fanno ogni giorno — per riparlarne). L’Europa soccombe sotto l’incapacità di occupare i quattro cantoni della crisi economica e sociale, delle migrazioni, della sfida jihadista e di Israele-Palestina. Qualcuno ha pensato che fosse il momento, l’altroieri notte, di provvedere, ed è andato a prendersi il cancello di Dachau, con la scritta: “ARBEIT MACHT FREI”.

Repubblica 3.11.14
Gerusalemme
Sulla Spianata delle Moschee dove i fanatismi accendono l’odio
Il Monte del Tempio è il centro di una nuova contesa che ultraortodossi e ammiratori della jihad vogliono trasformare in una guerra mondiale tra ebraismo e islam
La città brucia e cresce la protesta giovanile nei quartieri arabi
Così si prepara la Terza Intifada
di Gad Lerner


GERUSALEMME È UNA parola sconsigliata. In Israele circola sottovoce, la pronunciano con tremore: di nuovo Intifada, cioè rivolta, sollevazione, per la terza volta in 27 anni. Solo che stavolta l’Intifada palestinese, siccome non c’è limite al peggio, sta divampando proprio là dove più la si temeva, nel cuore di Gerusalemme, cioè dove ebrei e arabi, pur odiandosi, saranno in ogni caso costretti a vivere mescolati. Destino reso ineluttabile dall’annessione della città santa divenuta capitale “indivisibile” d’Israele nel 1967, quindi priva di check point e confini tracciati.
L’Intifada per ora sta risparmiando le mete del turismo e del pellegrinaggio cinte dalle mura ottomane. Ma l’epicentro della contesa, che forse qualcuno ha pianificato di trasformare in guerra mondiale fra islam e ebraismo, sorge proprio lì, meraviglioso e inavvicinabile: la spianata delle Moschee edificate tredici secoli fa sopra il Monte ove fino al 70 dopo Cristo svettava il Tempio d’Israele. Luogo divenuto islamico e come tale vilipeso dai crociati cristiani, prima che nel 1187 Saladino li cacciasse definitivamente. Luogo che fino a oggi nessun politico israeliano con la testa sulle spalle ha mai rivendicato per un revival messianico del culto ebraico. Tutto intorno alla città vecchia, Gerusalemme brucia. La polizia israeliana preferisce credere che la maggior parte dei focolai di protesta giovanile nei quartieri arabi siano di natura spontanea, e cerca di reprimerli con modalità poco appariscenti. Ma proprio ieri il governo, nella sua riunione domenicale, su proposta di Netanyahu, ha approvato un disegno di legge che inasprisce fino a 20 anni di carcere le pene per chi tira sassi sulle automobili provocando danni alle persone. Mentre lo Shin Bet indaga su una possibile regia di Hamas o addirittura dell’Is (Stato islamico) dietro agli incendi, ai finti incidenti stradali, alla strategia del terrorismo individuale di strada.
Anche perché le provocazioni non appaiono quasi mai casuali. Era del quartiere di Silwan il palestinese che ha investito con l’auto, uccidendole, una donna e una neonata alla fermata del métro leggero. E guarda caso a Silwan prometteva di traslocare, qualche giorno prima, il ministro dell’edilizia Uri Ariel, d’intesa coi coloni che ne rivendicano l’ebraicità in quanto parte dell’antica città di Davide.
Più mirato ancora il tentato omicidio di Yehuda Blick, rabbino-simbolo del nuovo integralismo contemporaneo, che proprio sulla controversia della Spianata riscuote consensi impensati. Non uno di quei pazzi estremisti che da anni predicano la demolizione di al-Aqsa e della Cupola della Roccia (luoghi sacri all’islam) per ricostruirvi il Terzo Tempio degli ebrei. No, Blick presenta un volto moderato e chiede “solo” che anche gli ebrei abbiano il diritto di pregare lassù. In amicizia coi musulmani.
Bisognerebbe chiedergli se sarebbe favorevole, per reciprocità, a libere preghiere musulmane al Muro del Pianto, se non versasse in gravi condizioni all’ospedale. Fatto sta che Brick a destra viene rappresentato come uomo di pace e di buon senso. Se sia un piromane consapevole o inconsapevole, poco importa. Ha convinto non pochi seguaci a praticare la disobbedienza recandosi sulla spianata a pregare. Trascina dalla sua parte una componente in ascesa del sionismo religioso cui fa capo anche il ministro Ariel: il partito della “Casa ebraica” guidato dal concorrente più temibile di Bibi Netanyahu, cioè Naftali Bennett, oggi ministro dell’Economia.
Siamo proprio sicuri che l’Intifada di Gerusalemme nuoccia al disegno di potere impersonato da Bennett? Lui è il prototipo perfetto della nuova destra israeliana. Patrocina i coloni insediatisi nei territori palestinesi, elevandoli a autentici prosecutori del pionierismo sionista delle origini. È religioso ma senza anacronismi estetici, basta una kippà ricamata all’uncinetto senza travestirsi da ebreo polacco del diciassettesimo secolo. È stato un abile uomo d’affari della new economy, ma ciò non gli ha impedito di fare il suo dovere nei reparti d’eccellenza dell’esercito. Di origine statunitense, ma duro fino alla tracotanza nella polemica pubblica con i liberal e Obama… Se nei giorni scorsi Netanyahu ha contribuito a riscaldare gli animi dichiarandosi pronto a rilasciare licenze edilizie per mille nuove case ebraiche a Gerusalemme est, è perché Bennett da tempo di case ebraiche fra gli arabi ne chiede il doppio, duemila.
Così accade che il sionismo religioso assuma l’egemonia culturale dentro a un establishment israeliano chiamato a misurarsi con le nuove forme del jihadismo. Al meeting del Centro Begin di Gerusalemme dedicato a “Il ritorno di Israele sul Monte del Tempio”, funestato dall’attentato al rabbino Brick, altri oratori in precedenza esprimevano così la loro protesta: «Vi sembrerebbe pensabile che Washington rinunci alla Casa Bianca e Parigi alla Torre Eiffel? Noi siamo proprio il più umiliato dei popoli!».
Per fortuna venerdì scorso ci ha pensato anche la pioggia a sbollire gli animi nella città vecchia, mentre tutto intorno continuavano le sassaiole, il lancio notturno di razzi, le aggressioni e i sempre più frequenti incendi dolosi. Lassù a al-Aqsa è stato necessario vietare la funzione religiosa islamica ai minori di 50 anni. Ma al tramonto, quando proprio lì sotto al Muro del Pianto si affollavano gli ebrei per la preghiera del sabato, faceva una certa impressione vedere i soldati col mitra a tracolla abbracciarsi in cerchio e cantare e danzare insieme ai rabbini ortodossi: una volta soldati e rabbini erano due mondi non comunicanti fra loro, oggi invece il sionismo religioso pervade anche l’esercito e assegna alla guerra sinistre virtù teologiche.
A Gerusalemme le respiri nell’aria, queste ideologie contemporanee affiorate improvvisamente, dal Califfato islamico che recluta volontari pure fra gli arabi israeliani, alla pretesa ebraica di calpestare la Spianata. Solo che a Gerusalemme non c’è muro di separazione che tenga: questa è la città in cui meno realistico appare il progetto europeo e statunitense fondato sulla spartizione di due popoli in due Stati, separati in pace e sicurezza. Qui, nel mezzo dell’Intifada di Gerusalemme, diviene impossibile eludere la domanda più radicale e politicamente scorretta che aleggia nell’ultimo splendido romanzo di Amos Oz, non a caso intitolato Giuda. Ambientata mezzo secolo fa in una città ancora divisa fra Israele e Giordania, con i luoghi santi interdetti agli ebrei, la sua è una storia di traditori e tradimento. Ma a queste infedeltà, al tradimento, Oz sente di dover tributare benevolenza. Siamo proprio sicuri che fosse la soluzione migliore per gli ebrei, costruirsi uno Stato tutto per loro? Al grande scrittore è consentito chiederselo, mentre i gerosolimitani condannati a vivere mescolati testimoniano quanto sia faticoso, ma inevitabile, cercare ogni giorno la convivenza possibile, lì in mezzo ai fanatici. Più imbarazzante è rispondere alla stessa domanda per la sinistra israeliana, che lo scorso sabato sera si è ritrovata, numerosa e spaventata, a Tel Aviv per commemorare il diciannovesimo anniversario dell’omicidio del “suo” primo ministro Rabin. C’era anche il patriarca di questa sinistra oggi senza leader, il novantenne Shimon Peres, a ripetere con voce tonante che “due popoli, due Stati” è l’unica soluzione per fermare la prossima guerra. Nessuno osa contraddire questo assioma, anche se i più dubitano che sia davvero praticabile.
Sono belli, e sono davvero tanti, almeno 15 mila, quelli che in piazza a Tel Aviv impersonano l’Israele laica che resiste all’offensiva del sionismo religioso. Ma ormai alcuni dei loro dirimpettai giovani arabi di Gerusalemme ammirano piuttosto i tagliagole dell’Is. E le moderne kippà all’uncinetto, seguaci del messianismo politico di Bennett, ora che hanno preso il posto degli ultraortodossi intabarrati di nero, puntano gli occhi sul Monte del Tempio. Senza accorgersi che forse anche loro stanno precipitando nell’infernale Geenna posta a strapiombo sul versante orientale di un luogo sempre meno santo, dissacrato dal fanatismo.

Corriere 3.11.14
Siria, quei bimbi che studiano da assassini
di Antonio Ferrari

il video qui

Corriere 3.11.14
Boicottaggio anti Israele,  a pagare sono i lavoratori
di Davide Frattini


SodaStream è più conosciuta per dove lavora che non per aver dato lavoro a Scarlett Johansson. Il 29 per cento delle conversazioni su Internet parla della macchinetta che permette di farsi le bibite in casa per parlarne male. Il marchio è rimasto marchiato dalla campagna del movimento Bds (Boicottaggio Disinvestimento Sanzioni) che preme per interrompere le relazioni con Israele fino a quando continuerà l’occupazione dei territori palestinesi. Perché è in una di queste aree, tra Gerusalemme e Gerico, che SodaStream ha installato una fabbrica: dà lavoro anche a 500 palestinesi, resta inaccettabile per chi considera qualunque operazione nelle colonie in Cisgiordania come uno strumento del controllo israeliano.
Martedì il titolo ha perso il 70 per cento del valore al Nasdaq di New York, una depressione più profonda del Mar Morto che sta a pochi chilometri dallo stabilimento contestato. Così i manager hanno deciso di chiuderlo, di trasferirsi nel Negev, allettati — dicono — da 15 milioni di euro in aiuti dello Stato che vuol far fiorire il deserto con le bollicine della soda. I leader dell’organizzazione per il boicottaggio esultano, i lavoratori arabi meno: SodaStream aveva in parte diminuito la disoccupazione che colpisce la zona.
La campagna per le sanzioni comincia a preoccupare anche il governo israeliano o almeno i più moderati tra i suoi ministri. Yair Lapid, che guida le Finanze, ha avvertito che senza un accordo di pace le ritorsioni finanziarie possono costare al Paese quasi 5 miliardi di euro e 10 mila posti di lavoro. L’ha detto all’inizio di quest’anno, quando i negoziati con i palestinesi respiravano ancora. Adesso le trattative sono ferme e il premier Benjamin Netanyahu spera di rafforzare i rapporti economici con nazioni — la Cina — meno preoccupate degli europei o degli americani di arrivare a una soluzione per il conflitto che non finisce mai.

La Stampa 3.11.14
Si è suicidata Brittany Maynard, aveva annunciato la sua morte
Ha preso i farmaci letali nel letto della sua nuova casa di Portland, circondata dal marito Dan Diaz, la madre Debbie Ziegler, e il padrino Gary Holmes
di Paolo Mastrolilli

qui

Repubblica 3.11.14
Antonicelli un crociano dalla parte degli oppressi
Da Gobetti alle lotte contro le repressioni alla Fiat e la guerra in Vietnam
Quarant’anni fa moriva l’intellettuale e politico torinese
di Massimo Novelli


NEGLI anni Trenta del Novecento l’editore e tipografo torinese Carlo Frassinelli pubblicò per la sua casa editrice la «Biblioteca Europea», che fece conoscere in Italia libri come Il processo di Kafka, Moby Dick di Melville (nella traduzione di Cesare Pavese), Dedalus di Joyce, L’armata a cavallo di Babel’, Riso nero di Sherwood Anderson. Il direttore e ideatore della collana era Franco Antonicelli, un letterato raffinato, nato a Voghera nel 1902, formatosi nella Torino di Piero Gobetti e di Antonio Gramsci.
Ricordando quel catalogo in una testimonianza resa a Corrado Stajano, il musicologo Massimo Mila avrebbe detto qualche decennio dopo: «Se cose simili le avessero fatte Cecchi o Linati, non si finirebbe più di portare alle stelle “la loro funzione insostituibile nella cultura italiana”. Le ha fatte Antonicelli che aveva la sfortuna di essere un uomo elegante, e queste cose faceva quasi en passant con una certa noncuranza e tutti dicono allora che era un dilettante».
Di Antonicelli ricorre il quarantesimo anniversario della morte, avvenuta il 6 novembre del 1974. Viene ricordato a Torino e Sordevolo (Biella) dal 5 al 7 novembre, in tre iniziative curate dall’Unione Culturale, che porta il suo nome, e dal Centro studi Piero Gobetti. A distanza di anni, riemergono la sua figura, i suoi studi di letteratura — dai decadentisti francesi a Gozzano, a Pascoli, a D’Annunzio — , l’attività di editore — da Frassinelli a De Silva, dove stampò per primo Se questo è un uomo di Primo Levi, rifiutato dall’Einaudi — , la sua presenza nella vita pubblica.
Ha scritto Stajano, che nel 1976 ne raccolse scritti e discorsi in La pratica della libertà : «Le sue scelte politiche nacquero sempre da intuizioni di ordine morale». Fu così per l’antifascismo maturato tra Gobetti e Benedetto Croce, Giustizia e Libertà e il partito liberale, gli arresti e il confino, e per la Resistenza, che lo vide presidente del Cln piemontese. Fu così nello schierarsi a sinistra, eletto in Parlamento come indipendente nelle liste comuniste, e nelle battaglie per i diritti civili, contro la guerra nel Vietnam e il franchismo, il golpe di Pinochet, la strategia della tensione.
Di sé e delle sue scelte parla con efficacia nel testo inedito che in parte qui pubblichiamo, una specie di lettera a sua figlia. Raccontava: «Il mio strappo fu Gobetti. (...) Lo andavo a prendere qualche volta alla scuola allievi ufficiali, allora comandata da mio padre». In seguito arrivò il legame con Croce, «che ho sempre amato come un padre». Sotto il fascismo, proseguiva Antonicelli, «feci il mio dovere; non fui fascista, con le naturali conseguenze ». Ed «entrai nel “giro”, il giro che ci faceva trovare tut- ti quanti allo stesso posto, particolarmente noi di Torino: Monti, Ginzburg, Pavese, Mila, Bobbio Foa, e poi alcuni altri, Umberto Cosmo e suo figlio, Zino Zini, Salvatorelli, Barbara Allason». Tutto ciò «corroborò la mia disposizione morale all’intransigenza ».
Fortemente repubblicano, all’indomani della Liberazione lasciò il Pli, convinto, sulla scia di Gobetti, che la classe operaia fosse l’erede della tradizione liberale democratica. L’elegante letterato divenne poi l’uomo delle mobilitazioni democratiche, denunciò la repressione alla Fiat e le violenze della polizia, il governo Tambroni e gli attacchi ai valori resistenziali. Memorabile un discorso ad Alba nel novembre 1949, davanti a Luigi Einaudi. Rievocando il Risorgimento democratico, esclamò: «Lei lo sa, Signor Presidente, quel che successe ai garibaldini, quando l’epopea dei Mille fu conchiusa! (...) C’è questa malinconia della dispersione generale — quella che abbiamo sofferta tutti noi, dopo la Liberazione (...) Ma anche lì c’è, come in noi, una speranza ».

Corriere 3.11.14
Tullio De Mauro
«Sì all’inglese lingua europea. Allarme rosso per la scuola»
De Mauro: l’Italia ignora il tema dell’istruzione, specie quella degli adulti
intervista di Paolo Di Stefano


Punto primo: l’Europa è, storicamente, un’entità multilingue sia pure con importanti spinte di convergenza. Punto secondo: la questione della lingua in Europa non riguarda solo gli aspetti istituzionali e burocratici, ma è una questione di democrazia, perché è difficile costruire una grande comunità politica democratica se i suoi cittadini non dispongono di una lingua comune. Punto terzo: come tale, la questione linguistica è un problema che riguarda la cultura e che investe la scuola. Punto quarto: gli Stati e l’Ue nel suo insieme se ne disinteressano totalmente. Sono queste, a grandi linee, le tesi che Tullio De Mauro espone nel suo libro, In Europa son già 103 , in uscita per Laterza. Sottotitolo: Troppe lingue per una democrazia? . Con i suoi 82 anni portati appassionatamente, in poco più di 80 pagine, coniugando leggerezza e profondità, De Mauro affronta cronologie, mutamenti, contaminazioni, aspetti geopolitici. Senza dimenticare il caso italiano, per molti aspetti esemplare.
Professore, perché la questione della lingua in Europa è diventata cruciale?
«Se la prospettiva verso cui vogliamo andare è quella di una federazione di Stati, bisogna che ci sia, come già Aristotele insegnava, un terreno linguistico comune. Non è possibile che uno svedese e un napoletano discutano di politiche finanziarie in lingue diverse. E non è possibile delegare la discussione a un’élite ristretta».
Il guaio è che il multilinguismo, come lei mostra nel libro, è un tratto distintivo europeo. Come si può conciliare questa storia con l’aspirazione unitaria?
«Le due cose non si escludono. Ricordo che l’aspirazione all’unità nazionale, statale, intorno all’italiano è stata un filo conduttore della nostra storia. Tanti, compreso qualche linguista, pensavano che l’unità linguistica, raggiunta negli anni Sessanta, avrebbe spazzato via i dialetti, ma non è successo: oggi, dopo cinquant’anni, i dialetti sono ancora vivi. Così, adottando diffusamente una lingua comune in Europa, non è prevedibile che vengano lese le lingue nazionali radicate nella storia e nella cultura».
Lei si sofferma sulle affinità genetiche tra le lingue indoeuropee, sulla prossimità grammaticale e lessicale. Questo cosa significa?
«Già il linguista francese Antoine Meillet diceva, a proposito del vocabolario, che a dispetto dei nazionalismi miopi, tra le lingue europee c’è un fondo comune molto superiore alle differenze, che si è creato grazie a una rete fitta di condivisioni. E lo stesso Leopardi nello Zibaldone scrisse che guardando al vocabolario della cultura intellettuale, ci si accorgerebbe che esiste una specie di “piccola lingua” che accomuna, nelle diversità, tutte le lingue europee e che deriva in gran parte dal latino e dal greco. Il vocabolario inglese oggi è composto al 75% di prestiti dal francese o direttamente dal latino. Ci sono consonanze profonde. L’inglese è tutt’altro che vuoto di spessore culturale, e qualcuno l’ha definito una lingua neolatina ad honorem. Anche per questo sostenere che la sua adozione cancelli le identità nazionali è sbagliato».
Resta il problema della scuola, che in Italia ha già difficoltà a tenere un accettabile livello di formazione nella lingua materna.
«L’insegnamento della lingua materna resta prioritario. Ma il dato più preoccupante riguarda la popolazione adulta. Anche in Germania o nei Paesi del Nord (e persino negli Stati Uniti) più della metà della popolazione ha gravi difficoltà nel leggere e capire un testo semplice o nell’adoperare banali strumenti di calcolo. In Giappone e in Finlandia si arriva al 38%, in Italia si supera il 70. Direi che è un dato costante l’alto tasso di problemi nell’uso completo delle lingue materne: appena uscite dalla scuola, le persone finiscono per perdere ogni capacità».
Dal documento del governo sulla «Buona Scuola» si intravedono segnali in questo senso?
«Semplicemente la “Buona Scuola” ignora il problema linguistico e non fa alcun cenno alla dimensione dell’istruzione degli adulti, che è cruciale per la vita produttiva e per la vita sociale, perché ricade necessariamente sui figli. Una cosa è sicura: il livello di cultura sostanziale in famiglia è determinante sull’andamento scolastico dei ragazzi. Di istruzione degli adulti parlava la legge Berlinguer del 1999, ma da allora è rimasto tutto sulla carta».
La detrazione fiscale sui libri potrebbe servire?
«Se ne parla da anni, i tecnici temono che diventi una fonte di microevasione, ma sarebbe certamente utile, anche se ormai una pizza costa più di un Meridiano».
Al di là della questione lingua, la «Buona Scuola» come le sembra?
«Lasciamo stare la sovrabbondanza di anglicismi persino ridicoli tipo “gamification”… In sé è un documento accattivante, c’è un’atmosfera scherzosa, nello stile di Renzi, piacevole, con contenuti bizzarri. Io non voglio buttarla sul tragico, ma i problemi della scuola purtroppo lo sono: le strutture edilizie, le lacune del personale tecnico, il rapporto con il mondo del lavoro, le prospettive didattiche… Bisognerebbe rimettere mano all’impianto della scuola media superiore, formare gli insegnanti, che hanno ancora una visione disciplinarista e che invece dovrebbero collaborare tra di loro in funzione di una prospettiva trasversale, sul saper ragionare, argomentare, parlare… La “Buona Scuola” tace su questi argomenti, ma in compenso ne parla la finanziaria, che continua a tagliare sulla scuola, per non dire dell’università che è prossima a defungere».
Cosa pensa del Clil, cioè quel metodo che prevede l’insegnamento di una disciplina in lingua straniera?
«Va usato con parsimonia. È già difficile avere dei buoni insegnanti di storia, figurarsi averne pure che parlino bene inglese. Diciamo che è un metodo auspicabile per alcuni insegnamenti universitari, ma per gli altri livelli mi pare poco realizzabile».
La «Buona Scuola» vorrebbe estendere il Clil alle elementari.
«La riforma Gelmini prevedeva corsi di formazione inglese, per insegnanti, di 30 ore faccia a faccia e 20 ore via internet: ma con 50 ore complessive non si arriva neanche all’Abc. Le primarie sono le scuole in cui si lavora meglio, in cui le discipline sono strumentali alla maturazione complessiva del bambino. Nei test internazionali i nostri si collocano al vertice: toccare le elementari sarebbe un delitto, perché i guai cominciano dopo. Le analisi Invalsi mostrano che tra i ragazzi usciti dalla media di base e i maturandi lo scarto di competenze è minimo».
L’iniziativa del Politecnico di Milano di adottare solo l’inglese per gli insegnamenti di master la convince?
«No, neanche nei master si può rinunciare alla lingua materna. Nel mondo ci sono masse di studenti che si spostano, sono i nuovi clerici vagantes : ma è difficile pensare che dei giovani trovino suggestive le università italiane perché offrono corsi in inglese. Quel che conta sono altri fattori: la qualità scientifica e le condizioni dell’accoglienza, ma questi aspetti vengono ignorati».
Tornando alla Babele europea, lei accenna al modello indiano e a quello del plurilinguismo svizzero.
«Lo ripeto: sono contro l’immagine catastrofista secondo cui l’inglese diffuso come lingua standard metterebbe a rischio le lingue nazionali. In India, nonostante le diversità etniche e religiose, l’inglese è diventato negli ultimi 60 anni una lingua secondaria affiancata al sanscrito come lingua nazionale: questo però non ha comportato la morte delle parlate locali, l’urdu e l’hindi. In Parlamento si parla in inglese, nei comizi in una delle 45 lingue locali. L’esempio indiano è interessante per l’Europa».

Corriere 3.11.14
Il rischio è perdere il patrimonio del latino
di P.D.S.


Anche le nuove ondate migratorie contribuiscono a cambiare le 103 varietà linguistiche presenti in Europa: gli arabofoni in Francia, i turchi in Germania, i romeni in Italia, i cinesi a Londra, a Manchester, a Parigi, a Berlino, a Prato... Il panorama linguistico europeo presenta una fisionomia eccezionale: i circa 740 milioni di persone dei 50 Stati dall’Atlantico agli Urali usano 62 lingue ufficiali. Di queste, 50 hanno lo status di lingue nazionali ufficiali, altre sono lingue di minoranza. Ricorda De Mauro che, al di là delle differenze, c’è un patrimonio comune che va valorizzato: «Mentre in India c’è una ripresa molto forte dello studio del sanscrito, mentre nelle zone arabofone resta importantissimo lo studio dell’arabo classico e in Israele c’è un rilancio dell’ebraico biblico, nei Paesi europei si tende a trascurare la tradizione latina. È un’autentica sciocchezza, perché la conoscenza del latino classico resta indispensabile per tutti, anche per gli anglofoni». In quella che De Mauro definisce l’«innovatività permanente» di ogni realtà linguistica, intervengono oggi, come si sa, i linguaggi tecnologici. A questo proposito, dal 6 all’8 novembre si terrà a Firenze, organizzato dall’Accademia della Crusca, la VII edizione della Piazza delle Lingue su «L’italiano elettronico». Per informazioni sul convegno www.accademiadellacrusca.it. (p.d.s.)

Corriere 3.11.14
La fisica quantistica va oltre Schroedinger

Uno studio condotto al Quantum Science and Technology (Qstar) di Arcetri (Firenze) è un bel passo avanti nell’esplorazione di effetti quantistici macroscopici. Augusto Smerzi e Luca Pezzè sono arrivati vicino a dimostrare il paradosso del fisico austriaco Erwin Schroedinger, che per spiegare il mondo quantistico usava l’esempio di un gatto che era vivo e morto al tempo stesso. I risultati del nuovo lavoro sono stati pubblicati sulla rivista «Science». Su queste basi è stato realizzato un prototipo di orologio atomico con sensibilità oltre il limite della fisica classica. Si tratta di un metodo che premette applicazioni, oltre che nelle misure di precisione, nelle tecnologie quantistiche emergenti quali la computazione quantistica e la criptografia.