martedì 4 novembre 2014

Il Sole 4.11.14
Le due sinistre e il corporativismo
Liberare l'Italia dalla guerra fredda
di Sergio Fabbrini

Non è questione di carattere, né di stile politico. Ciò che contrappone il primo ministro Renzi ai due principali leader della Cgil, Camusso e Landini, è una diversa visione del l'Italia. Tale contrapposizione si basa su due diversi paradigmi politici di riferimento, da cui poi derivano opposte strategie di azione politica. Naturalmente, non bisogna mai esagerare quando si vuole assegnare una visione coerente all'uno o all'altro leader politico e sindacale. Chi fa quel mestiere si muove per di più sulla base di passioni o di interessi. Tuttavia, sarebbe altrettanto riduttivo assumere che quei leader agiscano solamente sulla base di questi ultimi. Per di più, nel caso dello scontro tra Renzi e la Cgil, esso ha portato in superficie una divisione che ha le sue radici almeno negli anni Novanta del secolo scorso. Una divisione così profonda che ha portato, da allora, alla paralisi minoritaria della sinistra ovvero alla sua sconfitta reiterata.
La Cgil, i suoi esponenti di riferimento all'interno del Pd, buona parte dei funzionari che hanno avuto il controllo delle strutture periferiche del partito, tutti costoro si muovono sulla base di un paradigma che assume come ruolo primario della sinistra quello di combattere la diseguaglianza. Per costoro, la sinistra coincide con la lotta alla diseguaglianza prodotta necessariamente e inevitabilmente dal mercato capitalistico. Lo schema che interpreta le società moderne come società di classe è stato aggiornato ma non alterato. Nella lotta contro la diseguaglianza, la sinistra deve fornire la rappresentanza politica a quel mondo del lavoro dipendente a cui il mercato non riconosce i diritti. L'aggiornamento socialdemocratico ha portato questa sinistra ad accettare di fatto il mercato, mantenendo però un istintivo sospetto nei suoi confronti. È la sinistra dei diritti (sociali in particolare) a prescindere. Per confrontarsi con i suoi avversari di classe, la sinistra deve disporre di un'organizzazione coesa e introversa, espressione dei gruppi sociali di riferimento del lavoro dipendente, le cui dirigenze condividono con la leadership del partito gli stessi valori politici (e stili di vita).
Come ha detto Landini a Rai 3, il lavoro deve essere il centro della politica della sinistra: chi tocca il lavoro (organizzato) si prende la scossa. Da tale paradigma derivano inevitabili conseguenze. Siccome la società italiana è divisa in classi contrapposte, allora è bene che le decisioni governative siano prese dopo un lungo lavoro di mediazione tra gruppi sociali e forze politiche. La concertazione costituisce la condizione per tenere sotto controllo le contrapposizioni di classe e il bicameralismo simmetrico è necessario per prevenire la tirannia dei poteri forti sui gruppi deboli. Inoltre, l'apparato pubblico e il suo enorme sistema di imprese e agenzie deve essere permeabile alle esigenze di protezione della sinistra, prima ancora che a quelle di promozione dell'efficienza.
È evidente che questo paradigma non riesce a spiegare la società italiana di oggi, né riesce a dare conto delle trasformazioni economiche e tecnologiche che sono state indotte dalla globalizzazione. Naturalmente, la diseguaglianza è un grande problema, ma la sua esistenza è il risultato della chiusura corporativa del Paese. Infatti, per il primo ministro e la nuova generazione politica che ha preso il controllo del governo centrale e di molti governi periferici, il problema principale della società italiana è la sua chiusura corporativa, da cui poi deriva la sua configurazione diseguale. Per questa sinistra, il paradigma politico di riferimento è quello della società chiusa: la frattura principale nell'Italia di oggi è tra chi è "dentro" e chi è "fuori", tra chi beneficia di diritti, protezioni e privilegi e chi invece è costretto ogni giorno a ricominciare da capo. Come lo stesso Renzi ha ricordato nel discorso di Brescia, l'Italia è ingessata da micro-interessi, un'ingessatura che le ha finora impedito di svilupparsi come potrebbe. E, infatti, gli avversari di questa sinistra sono trasversali a tutti i gruppi, perché in tutte le posizioni, pubbliche e private, si sono formate rendite di posizione ovvero surrettizi autogoverni corporativi. A causa di governi deboli e instabili, la politica ha lasciato agli interessi organizzati, pubblici e privati, il compito di regolare le attività sociali e istituzionali. Per questo motivo, il nuovo Pd non può limitarsi a rappresentare i vari gruppi organizzati, ma deve rivolgersi alla società nel suo complesso (deve avere cioè una vocazione maggioritaria). La lotta alle corporazioni richiede una politica autonoma dagli interessi organizzati, perché solamente così essa può rappresentare l'interesse del Paese.
Se questo è il paradigma, allora è evidente che la concertazione non costituisce la garanzia di stabilità sociale, ma piuttosto la fonte dell'ingiustizia tra generazioni, tra generi e tra gruppi. Ed è anche evidente che la politica può aprire la società se è dotata di basilari strumenti decisionali. Di qui la necessità, per questa sinistra, di riformare il sistema parlamentare e la legge elettorale per sottrarre la politica ai condizionamenti e veti delle corporazioni politiche.
L'esito dello scontro tra le due sinistre non riguarda solamente le sorti di una parte politica. Con Renzi, forse per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, l'Italia può beneficiare di una sinistra liberale finalmente maggioritaria. Il successo di questa sinistra è una condizione per la nascita anche di una moderna destra liberale. Anche se in grande ritardo, l'Italia può finalmente liberarsi dalla prigionia della guerra fredda.

il Fatto 4.11.14
Il funzionario ordinò: “Caricate”
Le riprese inedite di Gazebo smentiscono la versione della polizia
Un video di “Gazebo” incastra la Questura di Roma sugli incidenti al corteo Ast
di Sandra Amurri


Caricate, caricate” urla il funzionario di Polizia agli agenti antisommossa. L’ordine è inequivocabile come le immagini che seguono. Gli agenti sfilano i manganelli e iniziano a colpire gli operai. A dare un volto a chi, di fatto, ha ordinato la carica è il video girato da Diego Bianchi, alias Zoro, mandato in onda a Gazebo, programma di RaiTre. Il corteo dei lavoratori della Ast-Tyssenkrupp, dall’ambasciata tedesca, pacificamente, si sta dirigendo verso il ministero dello Sviluppo economico dove era in programma l’incontro con il governo quando, in Piazza Indipendenza, viene caricato dalla polizia. Il sangue riga il visodei lavoratori colpiti. Gianni Venturi cade a terra. La carica non si arresta. Maurizio Landini, mentre con le mani cerca di afferrare i manganelli urla: “Smettetela, basta, siamo come voi ma che cazzo state facendo. Siamo gente come voi che lavora”. Il funzionario, che aveva ordinato la carica con il telefono in mano si rivolge a Landini: “Aspetta, fammi chiamare, fammi chiamare, porca troia”. Gli operai urlano: “Vergogna, vergogna, menate gli operai, stiamo qua perché vogliamo lavorare”. Landini che, nel parapiglia ha perduto gli occhiali, li calma: “Smettetela, non capite che cercano la provocazione?”.
RIAPPARE il funzionario con il giubbetto di pelle marrone. Landini lo affronta: “Sei tu quello che ha dato l’ordine, perché l’hai fatto?”. E lui con tono duro reagisce: “Non sei tu che mi dai gli ordini, non dovevamo farvi uscire da qui”. Ma invece di spiegare quale fosse l’ordine ricevuto usa il linguaggio dei manganelli: “Caricate, caricate!”. Inizia la trattativa per poter continuare il corteo verso il ministero dello Sviluppo economico. Il segretario nazionale della Fiom prende il megafono: “La prima cosa è che andremo al ministero, la seconda è che chiediamo un incontro con il ministro e il capo della Polizia perché quello che è successo qui è inaccettabile. Siamo lavoratori come loro e non vogliamo avere scontri né essere menati”. Abbiamo cercato invano di contattare il questore, il capo di gabinetto e il capo della Polizia. Una pagina buia della democrazia sulla quale è calato il silenzio istituzionale. “Capisco che il Prefetto di Roma sia impegnato ad annullare matrimoni ma potrebbe trovare un minuto per spiegare le nuove immagini sulla carica della polizia” commenta il presidente del Pd Matteo Orfini di fronte al video che “riapre la discussione sulla gestione della piazza”. Intanto ieri Matteo Renzi a Brescia intervenendo all’assemblea annuale degli industriali ha trovato il tempo per visitare altre aziende ma, contrariamente a quanto si era impegnato a fare, non per ricevere i delegati Fiom che gli avevano inoltrato la richiesta il 27 ottobre. I delegati della Iveco, Beretta, Cobo e Brandt Italia che ha licenziato 440 operai, autorizzati dalla Questura, si sono recati all’ingresso delle Officine Meccaniche Rezzatesi del presidente degli Industriali Marco Bonometti dove si trovava Renzi, ma dopo qualche ora di attesa hanno visto sfilare il corteo delle auto blu dirette all’aeroporto. “È la seconda volta che Renzi viene a Brescia a incontrare gli industriali e non trova il tempo per ascoltare le nostre ragioni, è una vergogna” commenta Francesco Bertoli, segretario Fiom di Brescia

il Fatto 4.11.14
Poteri (quasi) forti che imbarazzano Renzi
Davide Serra. Il finanziere che guarda a Mps e non ama gli scioperi
Marco Carrai. L‘amico d’infanzia sempre più in affari tra Firenze e Israele
Sergio Marchionne. Lo spot a Detroit, il piano ”Fabbrica Italia” è un ricordo
Patrizio Bertelli. Mister Prada alla Leopolda e l’accusa di evasione fiscale


Davide Serra. Il finanziere che guarda a Mps e non ama gli scioperi
PIER LUIGI BERSANI aveva definito Davide Serra, fondatore del fondo di investimento Algebris, un “bandito delle Cayman”. In effetti nella costellazione societaria di Algebris c’è anche una società basta nel paradiso fiscale che fa da appoggio a molte società britanniche. Serra ha querelato Bersani ma, come rivelato dall’Espresso, il pm di Milano Luigi Orsi ha chiesto e ottenuto l’archiviazione. Dalla Leopolda Serra ha criticato l’eccesso di scioperi in Italia.

Marco Carrai
L‘amico d’infanzia sempre più in affari tra Firenze e Israele
LUI DICE DI ESSERE soltanto un piccolo imprenditore fiorentino, ma essere amico del premier da sempre ha reso Marco Carrai un personaggio sempre più ambito. Al suo matrimonio c’erano top manager e ambasciatori (chissà, forse nella speranza di incontrare Renzi). Negli ultimi mesi interviene spesso sui giornali con editoriali su Israele, paese al quale è legato da amicizie (inclusa quella con il falco americano Michael Ledeen) e affari.

Sergio Marchionne
Lo spot a Detroit, il piano ”Fabbrica Italia” è un ricordo
IN PASSATO tra Renzi e Sergio Marchionne, ad di Fiat Chrysler, ci sono state tensioni. Oggi sono l’uno il testimonial dell’altro, a Roma, a Torino come a Detroit. Il manager ha da tempo stracciato il piano di investimenti “Fabbrica Italia” e si concentra all’estero. Il governo lo supporta e sta anche avallando una improbabile cordata che deve rilevare lo stabilimento di Termini Imerese di cui finalmente la Fiat potrà liberarsi.

Patrizio Bertelli
Mister Prada alla Leopolda e l’accusa di evasione fiscale
SUL PALCO DELLA Leopolda, a Firenze, l’amministratore delegato di Prada Patrizio Bertelli è stato molto applaudito. Chissà se il pubblico sapeva che il manager e azionista con moglie Miuccia della casa di moda ha da poco pagato 400 milioni al fisco per regolarizzare la posizione del suo gruppo. E comunque è ancora indagato per evasione fiscale dalla Procura di Milano: l’accusa è di aver “esterovestito” le società del gruppo per pagare meno tasse in Italia.

il Fatto 4.11.14
Andate e delocalizzate: il governo vi applaudirà
L’esempio del ministro Guidi: la sua Ducati Energia, dopo un contributo pubblico di 750.000 euro, ha aperto uno stabilimento in Croazia
di Giorgio Meletti


Non dev’essere un caso se il governo Renzi ha in squadra una delle più lucide teoriche della delocalizzazione, il ministro dello Sviluppo economico (dovunque si sviluppi, par di capire) Federica Guidi. Già anni fa l’imprenditrice emiliana spiegava: “Per restare competitivi dobbiamo avere un basso costo del prodotto. Quindi un basso costo della manodopera. In Italia il costo varia dai 18 ai 21 euro, in Croazia è di poco superiore ai tre, in Romania è inferiore a un euro”. Infatti la sua Ducati Energia aprì uno stabilimento in Croazia, con un contributo finanziario di circa 740 mila euro della finanziaria pubblica Simest. Bersagliata da rabbiose interrogazioni di M5S e Lega Nord, la scorsa primavera, la ministra non si scompose: “Non è una delocalizzazione ma un’operazione finalizzata a mantenere la presenza di Ducati Energia in un settore pesantemente aggredito da produttori del Far East asiatico”.
LE MIGLIAIA di lavoratori che stanno perdendo il posto perché il loro lavoro viene riallocato a colleghi di Paesi più competitivi sono le vittime della delocalizzazione, e hanno poco da stare allegri. Perché delle variegate accezioni negative del termine (da “carognata” a “male inevitabile”) al governo Renzi non ne piace nessuna. La delocalizzazione gli piace proprio. Non c'è caso che li commuova. Per dire, il comune di Roma mette in gara l’appalto per il call center 060606, la società romana Almaviva che lo gestiva perde la gara e 280 addetti dipendenti il lavoro. A risultato acquisito, un mese fa, si è scoperto che il bando non prevedeva l’obbligo di assorbire il personale, ma soprattutto di svolgere il servizio a Roma. Sono notizie quotidiane, grandi e piccole. A Ferragosto ha chiuso la Bronte Jeans di Catania, gruppo tessile che produceva per grandi marchi come Benetton e Diesel, 175 posti di lavoro in fumo, altrettante assunzioni pronte a scattare in Vietnam, in Bangladesh o in Cina. I sindacalisti dei tessili siciliani hanno subito chiesto un tavolo al ministero dello Sviluppo economico, dove c’è un interlocutore credibile e informato, la Guidi appunto, che sa a memoria i minimi salariali dei cinque continenti e almeno non alimenterà vane illusioni.
Se ne vanno a frotte. Non solo la Moncler, ma anche altri storici marchi del made in Italy vanno altrove per risparmiare. Hanno delocalizzato le calze Omsa, le tute da moto Dainese, la caffettiere Bialetti, le scarpe Geox, le attrezzature da sci della Rossignol. Producono da sempre all’estero la Tod's di Diego Della Valle e la Benetton.
Quest’ultima un anno e mezzo fa ha perso molti collaboratori nel crollo del Rana Plaza, la fabbricona tessile alla periferia di Dacca, in Bangladesh, dove sono morte 1134 persone e però 2400 circa si sono salvate. Le varie multinazionali coinvolte hanno litigato sui risarcimenti e, nessuno volendo fare la prima mossa, nessuno ha versato il pattuito. Il Bangladesh, a dispetto dei crolli delle fabbriche sulla testa di chi lavora, rimane stra-competitivo. Nonostante un recente aumento del 77 per cento, il salario dei 3,6 milioni di lavoratori tessili (quasi tutte donne) non supera i 50 euro al mese. Di fronte a tanto orrore, il ministro del Lavoro Giuliano Po-letti ha trovato il modo di argomentare che la delocalizzazione è una mano santa se ci aiuta a evitare che il suddetto orrore entri nelle nostre fabbriche. Meglio chiuderle. Lo ha detto per celebrare il Primo maggio. Dopo aver premesso che “non bisogna pensare all’imprenditore solo come uno sfruttatore”, ha teorizzato: “Non sono disposto a far restare in Italia le imprese a ogni costo. Se hanno intenzione di danneggiare i lavoratori, territorio e ambiente possono andare altrove”.
L’idea di Poletti è la cosa più di sinistra che c’è nel governo Renzi. L’imprenditore non è uno sfruttatore ma se lo fosse, per deprecabile ed estremo caso, delocalizzi al più presto. Meglio disoccupati che sfruttati, e via di mezzo evidentemente non c’è.
IL PREMIER INVECE, non venendo dalla paludata scuola comunista di Poletti, è proprio entusiasta della delocalizzazione. In Cina, a giugno scorso, ci ha regalato impagabili perorazioni, come quella declamata a Shangai: “Chi viene ad investire all’estero non è un fuggitivo. Si è dato della delocalizzazione un significato solo negativo. Ma così si è scoraggiata l’apertura al mondo del Paese”. Le migliaia di persone che perdono il lavoro non hanno capito ciò che Renzi in Cina ha compreso con chiarezza, tanto da bollare come “polemiche stucchevoli” il lamento dei nuovi disoccupati: “Con i ricavi all’estero le aziende italiane portano business e posti di lavoro alle filiali in Italia”.
Naturalmente nessun esempio concreto è stato portato a supporto dell’ardita suggestione. Anche perché passando dal generale al particolare cambia tutto, come sa il deputato renzianissimo Michele Anzaldi, alle prese con la delocalizzazione della pasta Garofalo. Non sapendo come conciliare l’umore dei pastai presto disoccupati con quello del capo, ne è uscito con una contorsione che illumina la difficoltà dei politici di fronte ai prezzi della crisi: “Se, come ha detto il premier Matteo Renzi, non sarebbero accettabili interventi governativi di carattere nazionalistico, è invece quanto mai opportuno tutelare l’identità delle nostre produzioni”. Adesso è tutto più chiaro.

il Fatto 4.11.14
P3, grana per il Nazareno: Verdini va a processo
di Davide Vecchi


Secondo rinvio a giudizio per Denis Verdini. Il gup di Roma, Paola Della Monica, ieri ha deciso di mandare a processo per corruzione l’ex coordinatore nazionale del Pdl, nonché trait d’union tra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi per la stesura del Patto del Nazareno. A giudizio anche l’ex sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino con l'accusa di diffamazione e violenza privata mentre è stata stralciata la posizione di Marcello Dell’Utri, indagato come Verdini per corruzione, ma in attesa di estradizione dal Libano. Infatti, nonostante sia già nel carcere di Parma a seguito della sentenza definitiva a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa, Dell’Utri deve essere estradato per il procedimento specifico.
L’INCHIESTA è quella relativa alla cosiddetta P3 ideata, tra gli altri, dall'imprenditore Flavio Carboni. Un’associazione segreta che aveva come obiettivo la realizzazione “di una serie indeterminata di delitti di corruzione, di abuso d’ufficio e di illecito finanziamento” oltre “a condizionare il funzionamento di organi costituzionali e di rilevanza costituzionale, nonché gli apparati della Pubblica amministrazione dello Stato e di enti locali”. A Verdini, in particolare, è contestato di aver fatto pressioni sulla Corte di Cassazione per anticipare l’udienza che doveva discutere il merito della misura cautelare emessa nei confronti di Nicola Cosentino; di aver tentato di influire sul giudizio della Consulta sulla costituzionalità del lodo Alfano e, infine, di aver interferito nei confronti del Csm affinché venisse nominato presidente della Corte d'appello di Milano Alfonso Marra.
Cosentino è invece ritenuto responsabile di aver fatto pubblicare su un blog notizie false relative all’attuale presidente della Campania, Stefano Caldoro, per screditare l’allora candidato alle Regionali del 2010. All’ex sottosegretario è contestato anche l'aver compiuto atti diretti a costringere Caldoro a rinunciare a partecipare alle elezioni. La prima udienza è fissata per il 5 febbraio, mentre il processo a carico degli altri imputati nel filone principale, tra cui Carboni e l’ex giudicetributario Pasquale Lombardi, è già cominciato ormai da un anno e proseguirà il 10 novembre. La posizione dei tre era stata stralciata in attesa della decisione della giunta per l’immunità che, per quanto riguarda Verdini, a fronte della richiesta della magistratura formulata il 21 aprile 2010, è stata autorizzata solamente nel marzo 2014.
“Mi sento perseguitato dalla magistratura”, ha detto ieri sera Verdini ad alcuni parlamentari che lo hanno contattato per esprimergli la loro solidarietà. Da Gasparri a Fitto, mentre Berlusconi ha osservato un religioso silenzio. Sul futuro di Verdini incombe del resto anche un altro processo che si aprirà il 21 aprile a Firenze. Il gup del tribunale toscano Fabio Frangini lo ha rinviato a giudizio, insieme al parlamentare di Forza Italia Massimo Parisi, per associazione a delinquere, bancarotta fraudolenta, appropriazione indebita e truffa ai danni dello Stato. L’inchiesta è relativa alla gestione del Credito cooperativo fiorentino (Ccf) del quale Verdini è stato presidente fino al 2010.
SECONDO le indagini preliminari, chiuse nell’ottobre 2011, finanziamenti e crediti milionari sarebbero stati concessi senza “garanzie”, sulla base di contratti preliminari di compravendite ritenute fittizie. Soldi che venivano dati a “persone ritenute vicine” a Verdini stesso sulla base di “documentazione carente e in assenza di adeguata istruttoria”. In totale il volume d’affari - ricostruito dai carabinieri dei Ros - sarebbe stato pari a “un importo di circa 100 milioni di euro” di finanziamenti deliberati dal Cda del Credito i cui membri, secondo la notifica della chiusura indagini “partecipavano all’associazione svolgendo il loro ruolo di consiglieri quali meri esecutori delle determinazioni del Verdini”. Inoltre il coordinatore di Forza Italia è chiamato a rispondere dell’accusa di truffa ai danni dello Stato per i fondi per l’editoria, che avrebbe percepito illegittimamente per la pubblicazione di Il Giornale della Toscana: 20 milioni di euro.

La Stampa 4.11.14
E la teoria del complotto oscura nel premier la filosofia del sorriso
Cambio di clima, il leader si sente braccato
di Federico Geremicca


Braccato quasi piazza per piazza. Contestato ovunque vada da operai che rischiano il posto, da precari e disoccupati, e ieri anche dai centri sociali. Ecco le ultime foto del più giovane presidente del Consiglio della storia repubblicana in visita a città e fabbriche. Dopo tanto tirare la corda, era forse inevitabile che accadesse: Cgil e Fiom, irrise e sfidate ad ogni occasione, cominciano a «muovere la piazza», e per Matteo Renzi un autunno che già s’annunciava caldo, va facendosi rapidamente rovente.
Si può ormai dire, insomma - e le prossime settimane lo dimostreranno - che è ufficialmente partita la «caccia al premier». Ma, ancor più del nuovo capitolo della Grande Guerra in corso nel triangolo Renzi-Camusso-Landini, a colpire - dopo la giornata di ieri - sono il tono ed il profilo che va assumendo la strategia del premier nello scontro coi sindacati.
«Non mi spavento delle contestazioni - dice, una volta a Roma, a qualcuno tra i più preoccupati dei suoi collaboratori -. Sono manifestazioni organizzate e fanno parte dei rischi e del lavoro di chi governa. Forse dà fastidio il fatto che io vada nelle fabbriche a parlare con imprenditori e operai senza chiedere il permesso e la mediazione di nessuno. Ma devono abituarsi, perché continuerò a fare così». E ha già in calendario nuove visite a importanti realtà produttive come la Piaggio e l’Alcatel...
Eppure la teoria del disegno, del complotto - alla quale, in verità, quasi nessun governante è riuscito a sfuggire nei momenti di più acuta difficoltà - va lentamente oscurando la filosofia dell’ottimismo che aveva distinto i primi sei mesi almeno dell’azione del premier. Può darsi si tratti perfino di una sorta di autodifesa psicologica da parte di un leader che presume molto di sè, che ama esser amato e che ha forse difficoltà ad accettare che qualcuno possa non restare ammaliato dalle sue sirene politiche: ma se anche fosse così, il dato non cambia. E il dato è appunto questo: la teoria del complotto che lentamente sostituisce la filosofia del sorriso, gufi e rosiconi che volteggiano ovunque a dispetto del cambiamento di verso, la «bella politica» - l’evocata e tanto esaltata «bella politica» - che cede il passo ad una cupezza inattesa: una lamentazione che comincia a preoccupare anche i renziani della prima e addirittura primissima ora, che non capiscono ancora se Matteo si trovi di fronte a difficoltà che giudica serissime o se stia, più semplicemente, cambiando lo schema di gioco.
La sola mattinata di ieri è sufficiente a confermare il mutamento di argomenti e tono. Prima denuncia: c’è un disegno, studiato e progettato, per dividere il mondo del lavoro e spaccare l’Italia. Seconda denuncia: si sfrutta il dolore dei disoccupati per cercare di far saltare il governo. Terza denuncia: prima dicevano che eravamo ragazzini, oggi che siamo poteri forti... Oggetto nient’affatto misterioso degli allarmi del presidente del Consiglio è naturalmente il sindacato che - in maniera per molti sorprendente - sta diventando per Renzi quel che la magistratura era per Berlusconi. Con una differenza non di poco conto: che Cgil e Fiom hanno deciso, ufficialmente e apertamente, di accettare la sfida e di rispondere colpo su colpo. «C’è molto nervosismo nelle parole del presidente del Consiglio che ancora una volta evoca fantasmi e complotti, lancia invettive e ammonimenti ma evita accuratamente di dire come si crea lavoro e come si rilancia il Paese», replica così ieri sera la Cgil: «Quella imboccata non è la strada giusta. Al contrario, è proprio quella che divide il Paese». Lo sforzo organizzativo messo in campo, del resto, è enorme. La manifestazione di piazza San Giovanni due sabati fa; lo sciopero dei metalmeccanici, che Maurizio Landini ha addirittura deciso di sdoppiare (il 14 a Milano e il 21 a Napoli); lo sciopero generale della Cgil, per il quale si stanno solo definendo modalità e giorno; e proteste e contestazioni ovunque il premier dovesse recarsi in visita. Un autunno che rischia, dunque, di farsi incandescente: e addirittura difficilmente controllabile se alle tensioni sociali si sommerà l’opposizione che la minoranza Pd (in aperto accordo con la Cgil) preannuncia nelle aule del Parlamento. La scintilla che potrà dare fuoco alle polveri dovrebbe essere la decisione di porre la fiducia sul Jobs Act anche alla Camera dei deputati. «Il Parlamento non può esser ridotto a passacarte», ha minacciosamente avvertito Roberto Speranza, presidente dei deputati pd.
Dunque non resta che attendere. Un mese, non di più, potrebbe esser sufficiente per ipotizzare con maggior precisione la traiettoria della parabola di Renzi. Il bivio non è cambiato, rimane lo stesso: puntare al 2018, se ce ne sarà la possibilità; cercare la resa dei conti con elezioni in primavera, se i «nemici» non dovessero arrendersi. Cercare, appunto. Napolitano permettendo...

La Stampa 4.11.14
Il primo ministro e la tentazione di concedere qualcosa
di Marcello Sorgi


Dopo aver sfidato la minoranza del Pd a fare la scissione («Non temo nemici a sinistra»), Renzi ha ripreso di mira il sindacato, e in particolare la Cgil, accusandola di aver messo a punto un piano per dividere il mondo del lavoro e riacuire, sul piano sociale, quello scontro che il premier conta di chiudere in Parlamento con l’approvazione del Jobs Act.
Toni durissimi, quelli adoperati dal presidente del Consiglio a Brescia, mentre la sua visita a due stabilimenti industriali veniva aspramente contestata dai manifestanti della Fiom di Landini e tra polizia e esponenti dei centri sociali si arrivava nuovamente allo scontro fisico. Renzi alza i toni perché si è convinto che ciò che la minoranza Democrat non può ottenere alla Camera, dove in compenso Lega e Movimento 5 stelle si stanno organizzando per tornare all’ostruzionismo, la Cgil, e in particolare la Fiom, tenteranno di metterlo in atto in piazza e sul piano sociale. La strategia del segretario della Fiom Landini, l’avversario numero uno del premier, è proprio l’aggancio dei precari, per convincerli che il progetto di riforma portato avanti dal governo, invece di favorire il loro riassorbimento nel mercato del lavoro, aggraverà la loro condizione di incertezza.
È esattamente questo che preoccupa Renzi, anche se, l’idea che l’approvazione del Jobs Act avvenga in un clima di contestazione forte non è affatto sconveniente: dimostrerebbe all’Europa che l’Italia sta pagando a carissimo prezzo la riforma, scontando reazioni pesanti in piazza, mentre il governo riesce ad ottenerne l’approvazione in Parlamento.
Ma un crescendo di scontri come quello a cui si sta assistendo negli ultimi giorni, è inutile nasconderlo, contiene elementi di rischio che non possono essere sottovalutati. A cui si aggiungono le incognite di un calendario parlamentare di fine anno terribilmente affollato, in cui il premier dovrebbe ottenere negli stessi giorni il varo della legge di stabilità oltre che della riforma del lavoro. Con una progressione che vedrebbe più logico dare la precedenza alla manovra economica, che contiene anche i fondi per gli ammortizzatori sociali, e solo dopo passare al Jobs Act, sebbene non si possa escludere che l’iter delle due leggi si intrecci, data la connessione tra le due materie, con conseguenze sulla discussione e sulle votazioni in aula che è facile prevedere.
Per questo, è possibile che all’ombra della voce grossa fatta negli ultimi giorni, Renzi tratti e faccia qualche minima concessione. Sotto sotto, questa è anche la speranza della minoranza Pd: un compromesso dietro le quinte di un grande scontro solo di facciata.

il Fatto 4.11.14
“Vogliono spaccare il Paese” (e la colpa è dei sindacati)
di Davide Milosa


Due volti, stesso Paese. Dentro e fuori la Palazzoli spa, storica fabbrica dell’energia italiana. Ieri a Brescia è andata così. Con Matteo Renzi seduto al tavolo buono degli imprenditori e Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, a far da grande cerimoniere. “Renzi – ha detto – dimostra autorevolezza”. Con operai, precari, disoccupati, migranti, studenti, tutti fuori a protestare. La Fiom, reduce dalle manganellate prese a Roma durante la manifestazione dei lavoratori dell’Ast di Terni, in presidio davanti alla Palazzoli. Mentre il movimento antagonista, quello della “Brescia meticcia, antirazzista e antifascista”, sceglie il corteo che parte dal quartiere popolare Casazza e arriva davanti ai cancelli della Palazzoli. Tensione alle stelle. Con i centri sociali che inneggiano a Stefano Cucchi e minacciano le forze dell’ordine. Le cariche sono violente. Gli scontri ripetuti. Un carabiniere e un agente se ne vanno in ospedale. Il poliziotto ne avrà per venti giorni. Mattinata a due velocità, dunque. Il presidente del Consiglio va subito alla radice. Per capirci: Jobs act. Dice: “Se serve metteremo la fiducia, se non serve non la metteremo”. Il lavoro in primo piano. Renzi ne parla e risponde a Susanna Camusso. “Dobbiamo evitare un rischio pazzesco, c’è un disegno per dividere il mondo del lavoro: l’idea di fare del lavoro il luogo dello scontro, mettendo uno contro gli altri. Ma questa è una delle idee che ci ha bloccato per vent’anni. Non esiste una doppia Italia”. Risponde la Cgil: “Dal premier vorremmo sentire meno accuse e qualche riflessione in più sugli errori della finanza e delle imprese”. Renzi, però, tira dritto e sulle proteste dice: “Vogliono contestare il governo o il premier? Se vogliono contestare, lo facciano, ma non usino il mondo del lavoro come un campo di gioco di una partita politica, usando chi è senza lavoro”. Poi spiega: “Ieri dicevano che eravamo ragazzini, oggi che siamo poteri forti. Facciamo paura, perché hanno capito che questa è la volta buona” perché “se facciamo ciò che siamo in grado, l’Italia dei prossimi anni sarà locomotiva in Europa”. E ancora: “Non cerco un consenso facile ma voglio raccontarvi che oggi c’è una finestra di opportunità che non cogliere sarebbe gravissimo”. Sì, ma gli operai? Renzi s’intrattiene con le maestranze dell’Italcementi di Rezzato, ma tradisce la promessa fatta di incontrare una delegazione Fiom. “Ci ha fatto aspettare mezz’ora – spiega il segretario di metalmeccanici bresciani Francesco Bertoli – e non siamo stati ricevuti: è una vergogna”. Il resto è una giornata che alla cronaca consegna momenti di altissima tensione. Il corteo degli antagonisti, guidato da appartenenti al centro sociale Magazzino 47, parte dalla stazione Casazza verso le nove. Poco più di mezz’ora e la veloce passeggiata tra i lotti popolari della zona nord di Brescia li porta nel prato antistante la Palazzoli. In quel momento il premier è appena entrato. Il corteo non si ferma dove sta la Fiom. Devìa e prosegue lungo uno stretto vialetto che porta ai cancelli della Palazzoli. Da un lato ci sono un centinaio di manifestanti, dall’altro almeno venti carabinieri della prima Brigata Mobile. Pochi istanti e iniziano gli scontri. Calci, pugni e manganellate. Poi un dirigente ordina: “Giù gli scudi”. Gli antagonisti arretrano fino al presidio della Fiom. Quindi si spostano verso via Vittime d’Istria oltrepassando le transenne. L’obiettivo è aggirare il cordone e arrivare davanti alla fabbrica da un’altra parte. La zona qui è presidiata dalla celere che arretra. Il corteo avanza. Qualcuno lancia dei sassi. Da dietro chiudono i carabinieri. Il vicolo è cieco. Il pericolo molto alto. Si rischia di restare chiusi tra le vie strette. Il secondo scontro scoppia quando la testa del corteo gira in via Abbazia. Ora è guerriglia urbana. Con la polizia che tenta di contenere l’attacco. Un manifestante resta ferito. Per terra c’è sangue. In aria l’odore e il fumo dei fumogeni. In questo momento Matteo Renzi ha già lasciato la Palazzoli per andare a Rezzato a incontrare gli operai dell’Italcementi. Un take dell’Ansa sostiene che la Fiom ha negato agli antagonisti di unirsi agli operai. I centri sociali smentiscono (“siamo andati al presidio Fiom solo per raccontare le manganellate prese, come è capitato loro a Roma”), poi riprendono la manifestazione. Saranno oltre 500 persone. Ci si muove verso la tangenziale per intercettare il corteo presidenziale. In via Oberdan, arteria principale della città, il traffico va in tilt per mezz’ora. I manifestanti occupano entrambe le carreggiate. Poi la notizia: Renzi è andato. Inutile dirigersi verso la tangenziale. Si sceglie il centro. Fino nel cuore di Brescia. In piazza della Loggia.

il Fatto 4.11.14
Napolitano: “Contrastare minacce di estremismo e fanatismo”

qui

il Fatto 4.11.14
Un disegno per spaccare l’Italia
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, dopo le proteste operaie, gruppi grandi e gruppi piccoli che non capiscono o non condividono la sua politica, Renzi ha detto che “c’è un disegno per spaccare l’Italia”. Lei ci crede?
Elisa

DETTA DA CHI GOVERNA, una frase del genere è sempre ambigua. Potrebbe riferirsi a pericoli finanziari, economici, rivalità internazionali e crisi manovrate. Invece si riferisce ad avversari politici interni che bisogna liquidare come traditori. Il caso fa parte di una catena del disprezzo che rivela una accidia anziana (di solito frutto di delusione) piuttosto che la giovane freschezza di chi ha abbastanza fiducia in se stesso per non dedicarsi alla teoria delle dure e drammatiche accuse verso chi non condivide. Non so se c’è un disegno per spaccare l’Italia, perché non ho accesso a quel tipo di informazioni o di voci. So però che proprio chi tuona con queste accuse si dedica spesso a fare e dichiarare cose che non uniscono (dunque tendono a separare o, più drammaticamente, spaccare). Esempio. Quando un milione di persone si radunano in modo pacifico e civile per far sapere che non condividono una certa legge sul lavoro scritta personalmente, ci dicono, dal primo ministro, gli argomenti di rigetto sgarbato della risposta sono, nell’ordine, “non mi interessa il punto di vista dei falliti”, “con questi argomenti non otterrete mai il 40 per cento dei voti” e “siete vecchi”. L'obiezione sindacale alla legge, espressa in stretto ambito sindacale, era: “non potete offrire in dono alle imprese una cosa che non è vostra, i diritti civili e legali dei lavoratori”. L’argomento era (è) fondamentale per un Paese democratico, e non è politicamente utile rigettarlo con irata leggerezza (notate il curioso contrasto di queste due parole, che però non sono giudizio, sono cronaca). Aggiungere adesso, dopo la fastidiosa contestazione dei lavoratori di Bergamo, la frase “c'è un progetto per spaccare l'Italia”, vuol dire che si ripete la gravità frivola della strana linea scelta: attaccare, svilire, disprezzare tutti coloro che ti sono per forza vicini (sei il segretario del Pd oltre che il primo ministro) e fare una corte sfacciata e imbarazzante alla destra delle imprese (che non sono tutte le imprese, ma quasi solo quelle in fuga dalle tasse e dal lavoro italiano). Chi avrà persuaso Renzi che questa è la strada giusta per vincere ancora? Con chi?

il Fatto 4.11.14
Il giovane Matteo è diventato il complottista Renzi
di Wanda Marra


Poche ciance. Questa è un’altra Leopolda. Noi siamo al governo, io sono al governo”. Lo diceva così nell’intervento conclusivo della “sua” manifestazione, nella vecchia stazione industriale di Firenze, Matteo Renzi. Ammettendo e quasi rivendicando il fatto che ci sia un Matteo prima e un Matteo dopo. Un Matteo prima, rottamatore, con la battuta sempre pronta. E un Matteo dopo, col sorriso sghembo, più recriminatore che seduttivo.
“E con chi dovevo trattare, con Dudù? ”, si chiedeva l’allora segretario dem per giustificare l’accordo con Berlusconi, siglato nella sede del Pd. “Il Patto del Nazareno è un atto parlamentare”, protesta l’attuale presidente del Consiglio, con tono serioso e severo.
C’ERA UNA VOLTA il giovane premier, quello che le cronache glorificavano, a costo di sfidare il ridicolo. Qualche giorno prima delle Europee, sul supplemento del Sole 24 Ore un pezzo raccontava del capo del governo che mangiava pizza a taglio a notte fonda a Palazzo Chigi, tra una riunione e l’altra, che si aggirava per le stanze scalzo e con i jeans stracciati. E si favoleggiava di karaoke tra sottosegretari. Il presidente ragazzino, che fuggiva la scorta per andare a giocare a calcetto, era già leggenda per la stampa italiana. Lui forniva materiale continuo: ecco le slide, con tanto di pesciolino rosso, della prima conferenza stampa ufficiale a Palazzo Chigi; ecco il caffè nel villaggio di Sidi Bou Said con le giovani tunisine dellaprimavera araba, sulle quali cercava di fare colpo a botte di francese maccheronico; eccolo intento a illustrare alla Merkel l’architettura di Berlino; eccolo, compiaciuto e quasi incredulo, accanto a Obama.
Presto, però, la leggenda in costruzione si è scontrata con la dura realtà. E allora, eccolo, prima dell’estate, prendere a picconate l’intero Senato, reo di aver qualcosa da ridire sulla sua riforma costituzionale. Ricatto contro ostruzionismo. Eccolo promettere mari e monti per tutta l’estate sullo Sblocca Italia e la riforma della giustizia. E poi, rispetto al ridimensionamento dei provvedimenti, provare l’arma di distrazione di massa: l’offerta del gelato ai giornalisti nel cortile di Palazzo Chigi. Scena indimenticabile, con il premier intento a girare con un cono in mano, e nessuno che lo accetta. A guardarsi indietro, è proprio quello il momento in cui il film si incrina. Cambia verso. A Ferrara, al Festival di Internazionale, gli tirano le uova in piazza. Nei suoi discorsi, tra i nemici, insieme ai gufi, ai rosiconi, ai professoroni, appaiono gli editorialisti. Il 10 ottobre in Emilia Romagna il premier sembra più a suo agio mentre inaugura lo stabilimento della Philip Morris a Zola Predosa, che mentre apre la campagna elettorale per le regionali di Bonaccini a Medolla. Imprese e industriali sono al top dei suoi pensieri. E delle sue “comparsate” pubbliche. Sul jobs act in Senato mette la fiducia e liquida così le resistenze: “Mi preoccupa la disoccupazione, non l’opposizione”.
Il gioco si fa sempre più duro. Silenzio del premier sull’alluvione a Genova. Silenzio sugli incidenti in piazza a Roma congli operai picchiati. Silenzio su Stefano Cucchi. Se qualcosa non va, meglio non parlarne. Ed evocare piani di destabilizzazione da parte di ignoti non ben identificati. Arriva un grande classico dei leader in difficoltà, i complotti. Li ha fatti trapelare per giorni, Renzi. Poi ieri a Brescia li ha denunciati ad alta voce: “C’è un disegno per dividere l’Italia, usando il lavoro”. L’eloquio diventa sempre più cupo. Le ombre s’addensano. Le accuse e i sospetti s’infittiscono, con l’“odore di massoneria” evocato da De Bortoli e i “poteri forti” tirati in ballo dalla Camusso. Palazzo Chigi non è un pranzo di gala. Tra compromessi politici continui, economia che non riparte, riforme bloccate, favori obbligati alle lobby, corporazioni in ebollizione, Parlamento incompetente ma anche vendicativo, Renzi sembra un altro. Appesantito, solo e arrabbiato. “Ieri dicevano che eravamo ragazzini, oggi che siamo poteri forti. Facciamo paura, perché hanno capito che questa è #lavoltabuona”, scriveva ieri su Twitter. La paura, di certo, serpeggia.

Repubblica 4.11.14
Perché la sola leadership non basta
Qualora Renzi diluisse i connotati del suo partito concentrando l’attenzione su di sé potrebbe distruggere una risorsa identificativa importante
di Piero Ignazi


SEMBRA passato un secolo quando, alla vigilia delle elezioni europee, il conflitto politico ruotava intorno alle figure di Renzi e di Grillo. Ora sono altri gli attori in competizione. I clamorosi errori commessi durante la campagna elettorale da Grillo — una campagna speculare a quella del 2013 dove invece le aveva azzeccate tutte — e l’immagine sia rassicurante che fresca e dinamica del Pd ha ridimensionato il pericolo Grillo e incoronato il leader democratico. Il partito del 41%, al quale Renzi ama, con legittimo orgoglio, richiamarsi, però non può dormire sonni tranquilli: chi non ha la memoria corta ricorderà che anche Fi ottenne, dopo pochi mesi dall’insediamento del governo, uno strepitoso successo alle europee del 1994. Poi si è visto come è andata a finire. Il fatto è che nelle elezioni per il Parlamento europeo vige infatti la regola del mid-term e della luna di miele. E cioè, quando si vota a metà della legislatu- ra (mid-term) gli elettori puniscono il governo in carica, se invece si vota a ridosso dell’insediamento del governo (luna di miele) lo premiano. Renzi, arrivato a palazzo Chigi appena 91 giorni prima delle elezioni, ha certo beneficiato dell’effetto luna di miele. Un effetto che sta continuando visto il gradimento che il governo e il suo leader riscuotono tuttora nell’opinione pubblica. Il consenso che gli viene tributato, lo hanno descritto anche Ilvo Diamanti su queste colonne e Nando Pagnoncelli sul Corriere delle Sera, è trasversale: pur mantenendo intatto il bacino tradizionale del lavoro dipendente, il Pd ha sfondato nel lavoro autonomo e tra gli imprenditori, zoccolo duro dell’elettorato moderato forzaleghista, in parte transitato su Grillo nel 2013. Tuttavia il consenso viene anche dagli elettori più anziani, con livello di istruzione medio-basso e non metropolitani. Elettori poco stabili nelle loro scelte. Per catturarli e legarli al Pd non basta la leadership. I leader contano, eccome. È così da sempre nella storia, anche in quella dei partiti. Basti pensare alla recente santificazione di Enrico Berlinguer (e qui ha ragione la Boschi a preferirgli il Fanfani del primo centrosinistra, quello delle grandi riforme).
Dovunque in Europa si vota guardando ai leader anche più che in Italia, ma il ruolo del partito nello strutturare le preferenze politiche rimane centrale: si vota più per il partito che per il leader. Quindi, qualora Renzi diluisse i connotati del suo partito concentrando tutta l’attenzione su di sé distruggerebbe una risorsa identificativa importante, una risorsa che porta voti. Se invece Renzi e il Pd “convivono”, vale a dire se il partito viene trasformato dal nuovo gruppo dirigente senza perdere la propria identità di partito pro-labour e di sinistra, allora il mix tradizione-innovazione è vincente, come si è verificato fin qui. Uno strappo violento che sposti il Pd in una terra incognita dove le identità sono trattate da ferrivecchi non avrebbe altro effetto che lasciare campo libero alla sola risorsa leadership. Sembra proprio questa la tendenza emersa alla Leopolda, dove il meeting fiorentino, privo di ogni simbolo del Pd, si è presentato all’opinione pubblica come il nuovo contenitore di un partito da (ri) fondare. Dopo sette anni di tribolazioni in effetti il Pd può anche essere seppellito per far posto a qualcosa d’altro. Solo che a tutt’oggi non è chiaro il profilo di questo qualcos’altro, se non quello di essere un vero e proprio Pdr, Partito di Renzi. Ed è per questo che il segretario sta puntando ad un’altra contrapposizione mediatica, perché solo nel conflitto diretto e personale la leadership prevale sull’immagine collettiva del partito. Oggi lo scontro è con il segretario della Fiom, Maurizio Landini, e sarà una battaglia senza esclusione di colpi, come fa intravedere lo scambio di accuse sulla strumentalizzazione del problema del lavoro. Lo scontro sarà aspro perché Landini tocca con una determinazione e una grinta che gli altri dirigenti old style del partito non possiedono nemmeno lontanamente il punto debole del Pd: la sua tortuosa e complessa marcia di allontanamento dalla solidarietà “di classe” nei confronti della componente sotto-privilegiata della società e il suo conseguente vezzeggiamento della classe imprenditoriale. Più che necessario, in una fase critica come questa, intessere buoni rapporti con il mondo dei produttori; del tutto inutile e controproducente invece offrire ad una classe imprenditoriale di così bassa caratura la cancellazione di una conquista simbolica della classe operaia come l’articolo 18.

Repubblica 4.11.14
Chi aspira oggi a diventare operaio?
di Nadia Urbinati


LA BATTAGLIA sul lavoro che sta dividendo il Pd è più di una contesa sulla rappresentanza politica dei lavoratori. Il 25 ottobre scorso ha messo in scena una spaccatura che è più che politica, e che per questo peserà sui destini del Pd, come ci ha tra l’altro mostrato il sondaggio di Ilvo Diamanti pubblicato domenica scorsa su Repubblica. La contrapposizione tra Landini/Camusso e Renzi, tra Piazza San Giovanni e la Leopolda, mostra una divisone interna alla rappresentazione del lavoro, alla percezione sociale del ruolo e dell’identità dei lavoratori. È l’esito del declino del lavoro industriale che, non va dimenticato, ha marciato insieme al declino della Guerra fredda, alla fine del mondo diviso. La dimensione globale dei mercati e la decadenza del valore sociale del lavoro stanno insieme e si riflettono nella diaspora e trasformazione della sinistra.
Il secondo dopoguerra è nato su fondamenti molto strutturati, a livello nazionale e internazionale. Un mondo diviso ha significato per alcuni decenni una limitata possibilità per il capitalismo occidentale di attingere all’immensa riserva di mano d’opera offerta dalle aree più povere del mondo. Su quei confini si è costruita la cultura dei diritti dei lavoratori occidentali e la forza delle loro organizzazioni sindacali. I cui cardini erano tenuti insieme dalla filosofia lavorista, dall’idea che il lavoro fosse certamente fatica e necessità ma che l’azione politica e associata avrebbe avuto il potere di renderlo prassi e condizione di emancipazione. Lavoro prometeico come forza creatrice di beni materiali e immateriali, tanto per la sinistra marxista quanto per quella socialdemocratica. La condizione operaia, se non la meta più agognata, era certamente dignitosa e perfino nobile. Questa rappresentazione è stata per buona parte del Novecento condivisa da giovani e non giovani, da uomini e donne. Ora non lo è più.
Chi oggi aspira a diventare operaio? Chi coltiva l’utopia del lavoro produttivo come opportunità per ridisegnare i rapporti di forza nell’azienda e fuori? Il globo senza interni steccati è un luogo maledetto per il lavoro, perché qui vince chi offre mano d’opera a basso costo e possibilmente con scarsa professionalità e senza diritti. La globalizzazione da un lato ha aperto le porte ai mercati e alla diversità delle preferenze, dei gusti e delle culture, e dall’altro ha aumentato il numero dei concorrenti che si confrontano non più solo all’interno di un mercato nazionale protetto da barriere legali e/o culturali, ma nell’arena del mercato globale. In questa dimensione aperta si verifica l’attacco ai lavoratori “protetti”, non solo da parte degli amministratori delegati ma anche di altri lavoratori.
Per chi è parte del mondo del lavoro, il lavoro con diritti è sempre più spesso un lusso e perfino un privilegio. Per chi non è parte del mondo del lavoro, il lavoro è sempre più spesso un non valore. Il lavoro manuale si fa non solo meno pagato e meno meritevole di diritti, ma anche meno dignitoso, e anzi oggetto di una rappresentazione sociale penalizzante e umiliante. È spesso visto come sinonimo di sconfitta sociale perché le aspettative dei giovani sono di avere una carriera, una professione magari precaria inizialmente, raramente di diventare operai. Il creatore di futuro, il Prometeo dei decenni passati non fa parte del loro immaginario perché le preferenze e le aspirazioni favorite dal mondo globale sono essenzialmente individualiste e associate alla gratificazione personale immediata. È la realizzazione individuale, psicologica e monetaria, e il riconoscimento sociale che danno valore all’occupazione. Fatte le dovute eccezioni (come l’orgoglio dell’operaio specializzato nelle aziende meccaniche dell’Emilia) l’operaio corrisponde nella vulgata popolare a una condizione in molti casi di ripiego o perfino di sconfitta personale. Questa è del resto la rappresentazione che i media alimentano. Anche per questa ragione, il lavoro non trova facile e omogenea collocazione in una sinistra che vuole essere targata giovane. Come ci ha mostrato Diamanti, per la maggior parte di chi oggi si orienta verso il Pd, il lavoro non ha valore simbolico se non è carriera e segno di riconoscimento sociale.
La dissociazione nel Pd è quindi tutt’altro che di poco conto. Non riguarda tanto un modo “vecchio” o “nuovo” di essere della sinistra come forse conviene sostenere per ragioni propagandistiche. Riguarda la formazione, si potrebbe dire, di due classi sociali, di una gerarchia, dentro il mondo del lavoro: da un lato il lavoro per chi non ha realizzato sogni di carriera (la categoria dei lavoratori dipendenti o degli operai); dall’altro un lavoro associato alla carriera e alla mobilità verso l’alto (a questa i giovani aspirano). È una gerarchia tra lavoratori, e interna al mondo del lavoro, quella che si misura e cerca rappresentanza politica nella battaglia che sta dividendo il Pd.

Repubblica 4.11.14
Carla Cantone
“Il premier ha creato la divisione e adesso è lui a fare la vittima”
intervista di Luisa Grion


ROMA . «Renzi fa la vittima e cerca lo scontro. Pensa di poter fare tutto da solo, ma la storia di questo Paese dimostra il contrario».
Carla Cantone è la leader dei pensionati della Cgil, con il premier ha avuto in passato buoni rapporti. «Ora - dice da due mesi e mezzo non mi parla né risponde ai miei tweet. Deve essere perché gli ho chiesto di mantenere una promessa fatta: quella di dare il bonus di 80 euro anche ai pensionati».
Il premier dice che c’è un disegno per spaccare in due l’Italia. Secondo lei questo è un Paese diviso?
«Non ancora, a meno che non lo divida lui. Ma la sua ostinazione a voler cambiare le cose da solo, ignorando i corpi intermedi, è un errore enorme che ci porta nella direzione sbagliata. Renzi calpesta i sindacati, calpesta la lezione che ci ha lasciato Di Vittorio: mai cercare lo scontro. Ha volutamente creato la divisione e poi fa pure la vittima».
Si riferisce alla battaglia sull’articolo 18?
«Certo, che senso ha dividersi sulle regole e sui contratti di lavoro quando è il lavoro che non c’è? E’ stata una scelta demenziale».
Anche secondo lei il premier è uomo dei poteri forti?
«Credo che quella detta da Marchionne - mi riferisco al “l’abbiamo messo là” - sia stata una cattiva frase. Ma mi aspetto che il premier dimostri il contrario di quanto detto dalla Fiat. E non lo sta facendo».
Lei assicura che il Paese non è diviso, non crede che ci sia invece una frattura netta fra chi ha lavoro e diritti e chi no?
«Lo scontro generazionale non esiste perché la disoccupazione dei figli e l’assenza di investimenti per creare posti di lavoro pesano moltissimo anche sui padri. Non facciamo guerre fra poveri e non facciamole sui diritti».
Non c’è divisione nemmeno fra lavoratori e padroni, come dice il premier?
«Li c’è, quando le imprese non rispettano i diritti dei lavoratori e quando, dopo essere diventate grasse grazie a quanto ricevuto dal Paese, non fanno investimenti, vanno a produrre all’estero e ci lasciano in mutande. Ecco, vorrei che Renzi spendesse qualche parola anche per quel genere di imprenditori invece di limitarsi ad attaccare il sindacato».
Lei è sempre stata nella Cgil una dei leader che più interloquiva con il premier; Landini dice che questo governo non rappresenta gli interessi dei lavoratori. E’ così?
«Landini è un sindacalista puro, vero e non è affatto un massimalista».
Ma non aveva qualche perplessità sullo sciopero generale?
«Non sono una fan dello sciopero generale, penso che sia l’ultima carta che un sindacato debba giocare perché pesa sui lavoratori e impone sacrifici. Vi si ricorre quando si fanno politiche che non danno risposte e questo è uno di quei momenti. Quindi - se la segreteria lo propone - io lo voto».
Lei domani va in piazza con Cisl e Uil contro le politiche del governo sui pensionati. E per i giovani?
«Non protestiamo solo per le politiche sui pensionati, che non hanno ricevuto il bonus, non sono tutelati dalla no tax area e che vivono - nel 43 per cento dei casi - con assegni inferiori ai mille euro. Protestiamo anche per la mancata redistribuzione della ricchezza, di cui invece abbiamo estremo bisogno e che non vedo nella legge di Stabilità. Una redistribuzione che serve per trovare risorse da investire sul lavoro, e sui giovani appunto».

Repubblica 4.11.14
Cofferati: pronto a scendere in campo in Liguria
intervista di Giovanna Casadio


ROMA . «Entro la fine della settimana decido se candidarmi alle primarie». Sergio Cofferati, l’ex leader della Cgil che portò in piazza 3 milioni di persone in difesa dell’articolo 18 nel 2002, dice di essere tormentato sulla scelta di correre in Liguria, sua terra d’adozione dove vive da anni, per la carica di “governatore”. Cofferati in campo è la rivincita della sinistra dem nelle primarie per le regionali della prossima primavera, miccia di scontri nel partito.
Cofferati, allora si candida in Liguria?
«Ci sono molte sollecitazioni perché lo faccia. Ci sto pensando, però nel giro di pochi giorni deciderò. È indispensabile che scadenze delicate come quelle elettorali avvengano con la linearità del caso e con i tempi necessari per definire le scelte».
Quindi, entro quando decide?
«Entro la fine della settimana, sabato o domenica. Credo sia giusto dare una risposta».
È una sfida a Renzi e ai renziani?
«No. Penso che questa Regione stia vivendo una vera e propria emergenza, che riguarda la sua economia e di conseguenza anche la messa in discussione della coesione sociale del territorio Questa emergenza porta a caricare le elezioni regionali di una tensione e di una aspettativa in più».
Con una sua candidatura le primarie sono inevitabili?
«Le primarie sono già state decise. Trovo sbagliata la scelta della data, che è il 21 di dicembre, praticamente la domenica di Natale. Non mi pare una scelta oculata. Spostarle dal 21 all’11 di gennaio non cambierebbe nulla. Ma l’11 gennaio rappresenterebbe un segno di rispetto per i cittadini che, a pochi giorni dal Natale, sono impegnati nel costruirsi qualche ora di serenità».
Pensa ci voglia discontinuità nell’amministrazione ligure?
«Si. Il modello economico ligure è in crisi verticale, perché lo schema di qualche decennio fa, che vedeva nel superamento dell’industria primaria e della sua sostituzione con attività a forte contenuto tecnologico e forte capacità di innovazione, si è oggettivamente arenato. Dunque bisogna ripensare non soltanto ai pur gravi problemi idrogeologici, che hanno rappresentato il dramma di questi ultimi tempi, ma ancora prima il tema complessivo del lavoro e dei luoghi in cui il lavoro si incardina, siano essi quelli industriali o siano essi quelli dei servizi».
Il nodo lavoro-articolo 18 si ingarbuglia?
«Sono due le priorità assolute: una riguarda lo sviluppo e la crescita - senza una politica fatta di robusti investimenti pubblici in grado di stimolare anche gli investimenti dei privati, l’economia non tornerebbe a crescere e dunque non ci sarebbe nuovo lavoro. L’idea che l’occupazione si crei con la flessibilità del mercato del lavoro è un’idea priva di fondamento e smentita dai fatti degli ultimi anni. Il secondo grande tema è quello del rilancio delle attività produttive. Un suggerimento a Renzi. Penso sarebbe utile che il governo stabilisca insieme ai suoi interlocutori, cioè imprese e rappresentanze dei lavoratori, quali sono le materie sulle quali negoziare con loro, quali quelle sulle quali si confronta per raccogliere le loro valutazioni e quelle di cui li informa, fissando anche i tempi e le modalità di questi confronti».
Comunque il decisionismo renziano manda in soffitta anche le primarie in vista delle regionali della prossima primavera?
«No, perché le primarie si fanno. L’unica accortezza è che siano primarie contendibili e di non farle, come potrebbe capitare in Liguria, in una data che crea difficoltà ai cittadini. Occorrono attenzione e un po’ di rispetto per gli elettori».

Corriere 4.11.14
D’Attorre: chi sbaglia è Matteo, noi così votiamo no
L’esponente della minoranza pd: impensabile una delega in bianco con una fiducia blindata
di Monica Guerzoni


ROMA «Chi sbaglia è Renzi».
Non è vero che la Cgil ha un disegno per spaccare il Paese, onorevole Alfredo D’Attorre?
«Sono stupito. La caratteristica più felice di Renzi era la capacità di cogliere gli umori del Paese, invece la Cgil si è fatta veicolo di una protesta sociale molto più ampia e lui non lo sta capendo. La linea della spallata per mettere fuori gioco i corpi intermedi è fallita».
Non è la minoranza che tenta la spallata al governo?
«No. Io vorrei che tornasse alle ragioni per cui è nato. L’avvio, con gli 80 euro e la tassazione delle rendite, era stato positivo. Ma dopo le Europee ha imboccato la via sbagliata».
È arrabbiato perché Renzi blinda il Jobs act?
«Sbaglia a non fidarsi di noi, che ci siamo esposti all’accusa di un eccesso di lealismo nei confronti del governo. È impensabile che la delega possa essere approvata alla Camera in una versione fotocopia del Senato, sarebbe insostenibile dal punto di vista costituzionale. Non si può espropriare il Parlamento facendogli votare per due volte, con una fiducia blindata, una delega in bianco».
Darete battaglia?
«Ripresenteremo gli emendamenti, ci sono correzioni che vanno assolutamente introdotte. Ma è paradossale che si chieda disciplina rispetto a una decisione della direzione del Pd che non viene attuata da chi l’ha proposta».
Voterà la fiducia?
«Lavoreremo fino all’ultimo per un’intesa, le condizioni ci sono. Se così non fosse è evidente che ognuno sarà coerente e si assumerà fino in fondo le proprie responsabilità».
Lei contesta una «disciplina da soviet» e Guerini le ricorda com’era con Bersani.
«Con Bersani il Pd ha visto l’impallinamento di Marini e Prodi, Guerini si riferiva a questo? E non è rispettoso accusarci di difendere una posizione solo per finire sui giornali, forse Guerini è condizionato dal modus operandi di Renzi».
Bersani sosterrà la battaglia per l’articolo 18?
«L’ex segretario si preoccupa dell’unità del Pd molto più di quanto non faccia il segretario in carica. Un paradosso».
Pensa che Renzi voglia spingervi verso la scissione?
«Talvolta sembra più preoccupato del fatto che noi rimaniamo. Il mondo del lavoro però non ci chiede di chiuderci in una nicchia, ma di rimanere protagonisti del confronto politico, dentro il Pd».
E la manovra, la vota?
«Non ci sono risorse aggiuntive per gli ammortizzatori sociali e il Jobs act si riduce all’abolizione dell’art. 18 più una montagna di chiacchiere».
Volete riprendervi il Pd?
«Adesso vogliamo correggere una politica economica sbagliata che non ha ottenuto nulla di sostanziale in Europa e che rischia l’anno prossimo di aggravare recessione e disoccupazione».
Landini leader di una sinistra del 10 per cento?
«Landini ha ragione, sindacato e politica devono mantenere ruoli distinti. E concordo sulla necessità di lavorare a un patto dei produttori tra imprese e lavoratori. È uno dei grandi errori di Renzi, che delegittima il mondo del lavoro ed è totalmente sbilanciato sulle ragioni dei grandi imprenditori».

Repubblica 4.11.14
Marco Rizzo
“Lenin e Stalin sono meglio di Renzi”
intervista di Concetto Vecchio


ROMA Un manifesto campeggia sui muri di Roma: “Viva la Rivoluzione sovietica!” c’è scritto. E mostra i faccioni di Lenin e Stalin. Chi c’è dietro? Marco Rizzo, il segretario del riesumato Partito comunista.
Lei è matto?
«Beh, questo sicuro. Ma prima di chiamare il 118 mi ascolti».
L’ho chiamata apposta.
«Allora, voglio parlare a un ipotetico giovane che chiede una via d’uscita dalla crisi».
Lei gli offre il comunismo?
«Infatti lui mi dirà: “Ma il comunismo ha fallito”. E io gli ribatterò: “Non è fallito il socialismo, ma la sua revisione, da Krusciov a Gorbaciov”».
E quindi viva Lenin e viva Stalin?
«Sì, assolutamente. Il giovane mi controreplicherà: “Ma i gulag, le purghe, le carestie?».
E lei?
«Io gli direi che bisogna storicizzare. Stalin aveva di fronte Hitler, Mussolini, gli Usa con la bomba, mica Vendola».
Insomma, questo giovane pensa di convincerlo?
«Ne abbiamo già convinti a centinaia. Sabato pomeriggio ci riuniremo al Centro congressi di via dei Frentani a Roma, dove un tempo c’era la Federazione del Pci».
Non è da cabaret pensare di abolire il capitalismo?
«Ma le pare quello che stiamo vivendo invece un modello vincente? Il moloch del profitto messo a religione del fare soldi a tutti costi».
Ma Rizzo qua non c’è più il lavoro!
«Pensi a cos’era l’Unione sovietica nel ’17. E pensi cos’era diventata durante la Seconda guerra mondiale. Da Paese medievale a secondo potenza industriale del mondo. Bisogna ripartire da lì, da quel modello di società».
Di questo parlerete sabato?
«Lukacs, che pure era un eretico, diceva che il peggior socialismo reale era preferibile al miglior capitalismo».
Ma il muro è caduto 25 anni fa
«Fa niente. Abbiamo costituito un’Internazionale comunista in Europa, il nostro è uno dei 29 partiti operai. Mi piacerebbe far ragionare criticamente un giovane, aprirgli la mente, farlo appassionare a “una passione durevole”. Per la nostra idea 70 anni fa la gente moriva. Lei pensa che qualcuno sia disposto a morire oggi per un Renzi o un Grillo?».
E per un Rizzo?
«Per carità!»
Quindi Renzi non ha sedotto anche lei?
«Ma figurarsi, Renzi guida un treno che va sempre nella direzione che vuole la Bce, come accadeva già con Monti e Letta».
E lei quel treno vuole deviarlo?
«Deragliarlo».

il Fatto 4.11.14
Record di governo
Fiducia anche sulla giustizia civile


Il governo ha posto la questione di fiducia sul dl sulla riforma della giustizia civile, in esame alla Camera. A chiedere il voto di fiducia in aula è stato il ministro delle Riforme e dei Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi. Si voterà in aula dalle 16:30 di oggi. L’ennesimo provvedimento blindato (con questo sono 26 i voti di fiducia chiesti dall’esecutivo sui propri provvedimenti, quasi un record nazionale) non è piaciuto alle apposizioni. “Questo governo è malato di ‘fiducite’. È inaccettabile, non abbiamo avuto la possibilità neanche minima di discutere il provvedimento. 180 emendamenti sono stati considerati ostruzionismo, Sel ne aveva presentati appena 12”, si lamenta in aula a Montecitorio, subito dopo l’annuncio, il capogruppo di Sinistra ecologia e libertà, Arturo Scotto. Il governo Renzi ha in effetti chiesto in media una fiducia ogni dieci giorni, cinque (è quasi record assoluto) nel passato mese di ottobre. Per adesso Mario Monti guida la classifica con 51 fiducie, Enrico Letta s’era fermato a nove.

Repubblica 4.11.14
L’incognita della legge elettorale e la partita del Quirinale
di Stefano Folli


I tempi per l’approvazione del nuovo sistema di voto si allungano. Il sì del Senato non arriverà prima di gennaio
UNpasso dopo l’altro, ci si avvicina ai passaggi cruciali che decideranno il futuro della legislatura e le prospettive del governo Renzi. Le scadenze si affollano nell’agenda di fine anno, dalla riforma del lavoro alla legge di stabilità, ma la vera incognita resta ancora la legge elettorale. Sulla quale l’incertezza è ovviamente aumentata dopo che il presidente del Consiglio ha rimescolato le carte e ha avanzato la proposta di assegnare il premio di maggioranza non più alla coalizione vincitrice, bensì alla lista, cioè al partito. Questo significa che quando il Senato l’avrà votata, nella migliore delle ipotesi non prima di gennaio inoltrato, la legge tornerà alla Camera per una seconda lettura non solo formale. I tempi insomma si allungano, anche perché gli accordi in Parlamento attendono di essere definiti. Nessuno mette in discussione il “patto del Nazareno”; ma i fatti dimostrano che l’intesa con Berlusconi, pur solida, non è una camicia di forza in grado di coprire tutte le contraddizioni. Prova ne sia l’infinita altalena sui candidati alla Corte Costituzionale.
In altri termini, Renzi va per la sua strada, ma gli ostacoli potrebbero essere più insidiosi del previsto. Il suo tallone d’Achille - egli stesso ne è ben consapevole - è l’economia, o meglio il rischio concreto che le misure già in atto o in preparazione non riescano a imprimere uno stimolo significativo al sistema produttivo. A maggior ragione il premier deve consolidare in fretta il suo “blocco sociale” e di conseguenza un sistema di potere ancora imperfetto. Anche nel discorso di ieri agli industriali di Brescia è emersa questa determinazione, nel segno del dinamismo innovatore, ma si è avvertita fra le righe l’inquietudine di chi teme che non tutti i tasselli del mosaico vadano al loro posto in tempo utile.
Sotto il profilo politico-istituzionale, le carte migliori in mano a Renzi sono due. La prima è la condizione di grave prostrazione in cui versa la minoranza del Pd, incapace di costituire una minaccia alla stabilità del governo e tanto meno di prefigurare una scissione credibile, che non sia cioè l’uscita alla spicciolata dal Pd di tre o quattro irriducibili oppositori del “renzismo”. La seconda è invece l’appoggio fermo e costante garantito al premier dal presidente della Repubblica. La capacità di Napolitano di influenzare le decisioni di Renzi si è vista ancora la settimana scorsa, in occasione della scelta di Paolo Gentiloni come ministro degli Esteri. Al tempo stesso abbiamo avuto conferma della disponibilità del presidente del Consiglio ad accettare i consigli del Quirinale, ricercando il compromesso. Questa è la falsariga che segnerà i rapporti istituzionali anche nel prossimo futuro. Fino al momento in cui Napolitano deciderà di lasciare il Quirinale.
Il presidente ha superato di recente la prova più dura, anche sotto il profilo psicologico: la testimonianza resa davanti ai magistrati di Palermo. Ne è uscito rinfrancato, avendo rintuzzato quella che poteva diventare una prova di forza contro gli equilibri costituzionali del paese. Ciò nonostante, egli non fa mistero della sua intenzione di voler mettere fine al suo secondo mandato in ragione dell’età e della salute. È ragionevole pensare che questo non accadrà prima della fine del semestre europeo dell’Italia, ma nemmeno troppo più in là. Ne deriva un intreccio molto delicato. È impensabile che quel giorno, quando sarà, il governo abbia completato il percorso delle riforme, anzi con ogni probabilità non avremo nemmeno la nuova legge elettorale. Il rischio è allora che i due piani s’intreccino e che sul cammino della legge elettorale si scarichino tutte le tensioni e gli inevitabili veleni della contesa per il Quirinale.

Il Sole 4.11.14
Resa dei conti sull'Italicum
di Roberto D'Alimonte


Tra Renzi e la sinistra sindacalista, dentro e fuori il suo partito, si sta giocando in questi giorni una partita molto importante. Non è la prima volta che un fatto del genere accade a sinistra. Per il Prodi del periodo 1996-1998, e di nuovo dieci anni dopo, è stato più o meno la stessa cosa. La sinistra radicale fa fatica ad accettare l'idea che per vincere occorra cambiare.
Meglio la difesa dell'identità che la conquista del governo. Si sa come è andata con Prodi e i suoi successori. L'Ulivo del 1996 vinse le elezioni grazie alla divisione del centro-destra e, dopo il divorzio a sinistra, riuscì a completare la legislatura grazie alle defezioni di pezzi dello schieramento di Berlusconi. L'Unione del 2006 vinse le elezioni per 25.000 voti alla Camera e grazie a Tremaglia al Senato. Ma di nuovo le divisioni al suo interno le impedirono di governare. A distanza di due anni dal voto Prodi fu costretto a gettare la spugna.
Sarà diverso questa volta? Tutto lascia presagire di sì. Ed è questo che spiega la virulenza dello scontro in atto tra Renzi e la sinistra sindacalista. La questione non è tanto l'art.18. La posta in gioco è la capacità della sinistra sindacalista di continuare a condizionare l'azione di governo esercitando a volte un potere di iniziativa e più spesso un potere di veto che per anni le ha consentito di essere uno degli attori decisivi del sistema. Non è scontato come vada a finire. Ma il quadro politico ed economico è molto cambiato rispetto al passato. Questa volta potremmo essere di fronte ad un esito diverso. La crisi economica non rafforza il sindacato. Né lo aiuta la politica di austerità dell'Unione. Anzi, per il sindacato di sinistra, compreso quello di Landini, l'Europa è un problema irrisolto. Da che parte sta rispetto a questa nuova linea di divisione della politica italiana e europea? Si sa da che parte stanno Grillo, la Lega e i loro omologhi europei. Ma in che cosa si differenzia la posizione della Cgil da quella di Renzi su questa questione cruciale?
Ma è la diversità del quadro politico a fare la vera differenza. Renzi non è Prodi. E il Pd di Renzi non è né l'Ulivo né l'Unione. Il premier non è interessato ad assemblare coalizioni di partiti e di interessi organizzati. Sono i voti il suo vero obiettivo, non gli accordi con elites politiche, sindacali o altro. E nell'Italia di oggi il Pd di Renzi può legittimamente aspirare a diventare un partito tendenzialmente maggioritario. Anzi, lo è già.
Lo hanno dimostrato le elezioni europee e lo confermano i sondaggi. Per quanto poco attendibile possa essere il singolo sondaggio, la media dei sondaggi dell'ultima settimana ci dà pur sempre una indicazione di tendenza che conferma come il partito di Renzi sia stabilmente intorno al 40% delle intenzioni di voto. Una percentuale straordinaria di questi tempi che si spiega solo con l'appeal che il premier ha in settori dell'elettorato che non hanno mai votato Pd o altre formazioni di centro-sinistra.
Due volte in tempi recenti la sinistra italiana ha perso l'occasione di allargare la sua base di consensi. Sia nel 1994 che nel 2013 c'erano milioni di voti disponibili. Milioni di elettori delusi che avevano abbandonato le vecchie appartenenze. Ebbene, in entrambe le occasioni la sinistra si è presentata a questo appuntamento storico con proposte vecchie che non hanno saputo cogliere la grande voglia di cambiamento dell'elettorato italiano. Ed è andata come è andata. Nel 1994 ha vinto Berlusconi. E nel 2013 ha vinto Grillo. Adesso è diverso. Renzi sta riuscendo nell'impresa di creare intorno al Pd un nuovo blocco elettorale maggioritario. E non saranno la Cgil e la sinistra del suo partito a fermarlo. Anzi, lo scontro a sinistra lo aiuta a conquistare nuovi consensi tra quegli elettori moderati, e sono tanti, che non hanno nessuna simpatia per il sindacato.
Solo una cosa manca a Renzi per completare il suo disegno strategico: una riforma elettorale che trasformi il suo 40% di voti in una maggioranza assoluta di seggi. Ma come riuscirà ad arrivarci è ancora tutto da vedere. Con una riforma del genere, calata in un contesto con gli attuali rapporti di forza tra i partiti, la sinistra radicale rischia di diventare del tutto irrilevante elettoralmente e politicamente. Questa è la vera posta in gioco.

Corriere 4.11.14
Le pressioni su FI per piegarla alla riforma del premier
di Massimo Franco


Il nervosismo di Forza Italia sulla legge elettorale comincia ad essere vistoso. Il richiamo continuo agli accordi presi tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi lascia capire che quelle intese si stanno modificando; e a tutto favore del presidente del Consiglio. I rapporti tra Pd e centrodestra sembrano plasmati dalla volontà di Palazzo Chigi di arrivare ad una riforma che dia un premio alla lista vincente: e dunque al partito maggiore. Significa assegnare un vantaggio oggettivo al premier, che si troverebbe nella condizione di proporre all’elettorato un referendum tra il suo Pd e il Movimento 5 Stelle, con FI probabile terza.
I seguaci di FI non avrebbero grande scelta: dovrebbero optare tra Renzi e Beppe Grillo. E con un Berlusconi che non smette di dichiarare la sua ammirazione per «la fortuna e il coraggio» del capo del governo, l’ipotesi di uno sfondamento del maggior partito della sinistra sul fronte moderato diventa assai meno inverosimile di un anno fa. D’altronde, le elezioni europee del 25 maggio scorso sono state una prima avvisaglia di quello che può succedere. Giovanni Toti, consigliere-principe berlusconiano, avverte che qualunque modifica all’ Italicum , la bozza di sistema elettorale emersa nel famoso accordo di via del Nazareno, va «condivisa».
Traduzione: o Renzi la concorda con l’ex premier, o non se ne fa nulla. È possibile, ma il Pd sembra deciso ad approvare la legge con o senza il placet di FI. Meglio: è convinto di poter piegare il centrodestra ad un «sì», facendo balenare in alternativa un accordo con l’odiato Movimento di Grillo. Gli inviti un po’ ruvidi che arrivano dal vicesegretario Lorenzo Guerini confermano la volontà di arrivare ad un risultato in tempi rapidi. «La legge elettorale è pronta per essere votata in Senato», assicura Renzi. E l’impressione è che entro un paio di giorni ci saranno novità.
Il premier è convinto di avere ancora dalla sua un consenso più o meno intatto. E constata con soddisfazione: «Ieri dicevano che eravamo ragazzini. Oggi che siamo poteri forti facciamo paura». Rimane da capire a chi e per quali motivi. Di certo, la minoranza del Pd e FI sembrano temere il voto anticipato. Soprattutto, lo considerano probabile se sarà approvata la riforma elettorale. In realtà, è una prospettiva che il vertice del Pd continua a smentire, additando il 2018 come traguardo.
La diffidenza degli avversari, però, resta. Lo stillicidio dei dati dell’Istat, l’Istituto di Statistica, non dà grandi speranze di ripresa dell’economia nel 2015. E Bankitalia allunga l’ombra di nuove tasse delle Regioni come conseguenza dei tagli. La stagnazione e l’incertezza internazionale fanno pensare che la legge di Stabilità avrà effetti limitati. E oggi arriveranno le prime stime sui Paesi della Ue da parte della nuova Commissione presieduta da Jean-Claude Juncker.

il Fatto 4.11.14
Manovra flop, la rivincita dei gufi di Bankitalia e Istat
Corte dei Conti: Le nuove tasse cancellano gli effetti positivi
di Stefano Feltri


Adesso che ci sono i numeri precisi, quelli che Matteo Renzi chiama “i gufi” si prendono la rinvincita sull’ottimismo degli annunci governativi: la Banca d’Italia e l’Istat, in audizione in Parlamento, segnalano gli effetti collaterali di due misure fondanti della legge di Stabilità. Il taglio dell’Irap e l’anticipo del trattamento di fine rapporto in busta paga.
IL VICEDIRETTORE generale della Banca d’Italia Luigi Federico Signorini nota che la spesa pubblica continua ad aumentare (+0,7 per cento nel 2015) e che “l’incidenza delle entrate sul Pil resta invariata”. La “più grande riduzione di tasse nella storia della Repubblica”, come l’ha presentata Renzi, viene compensata da aumenti fiscali che alla fine dovrebbero lasciare la pressione del fisco invariata, anche se redistribuita tra diversi soggetti (scende il carico per le imprese, sale quello sui risparmi dei fondi pensione, per esempio). I tecnici di via Nazionale si confermano “gufi” anche nel sottolineare che i tagli lineari agli enti locali, per 6,2 miliardi complessivi, avranno conseguenze spiacevoli: “L’evidenza degli ultimi anni mostra che a fronte di una riduzione dei trasferimenti dallo Stato gli enti decentrati hanno reagito anche aumentando significativamente le entrate e, nell’ambito delle spese, riducendo soprattutto quelle in conto capitale”. Tra 2010 e 2013 i trasferimenti da Roma al territorio sono scesi di 30,3 miliardi, ma Regioni, Comuni e Province hanno ridotto la spesa primaria per 16,3 miliari, 10,7 dei quali era per investimenti. Le entrate sono state aumentate per 14 miliardi. Se entro gennaio Regioni e governo non trovano un miracoloso accordo su dove e come tagliare voci specifiche di bilancio, le riduzioni lineari di trasferimenti decise da Renzi si tradurranno in aumenti di tasse. Altra nota gradita alle orecchie governative: l’anticipo del trattamento di fine rapporto in busta paga è un’utile mossa anti-crisi, perché spinge nell’immediato i consumi, ma “è cruciale che la temporaneità del provvedimento, motivato dalla fase congiunturale eccezionalmente avversa, venga mantenuta” altrimenti si aggrava il rischio che i lavoratori a basso reddito “abbiano in futuro pensioni non adeguate”.
A proposito di poveri, l’Istat regala a Renzi una notizia che di sicuro il premier userà nei prossimi talk show: grazie al bonus Irpef e "porterebbe una lieve riduzione della diseguaglianza economica e del numero di famiglie a rischio di povertà (circa 97 mila famiglie in meno rispetto allo scenario base nel 2015) ”. La statistica a volte regala anche queste soddisfazioni, basa qualche variazione “al margine” per muovere grandi numeri. Ma è l’unica cosa davvero positiva nell’audizione del presidente dell’Istituto di statistica Giorgio Alleva e nel documento sulle “Prospettive dell’economia italiana 2014-2016” di ieri.
L’ANALISI DELL’ISTAT è che i benefici che derivano dalla manovra sono compensati dai costi aggiuntivi e si va in pareggio: “I provvedimenti adottati sono previsti avere un impatto netto marginalmente positivo nel 2014 e un effetto cumulativo netto nullo nel biennio successivo per la compensazione degli stimoli legati ad aumenti di spesa pubblica e alla riduzione della pressione fiscale e contributiva con l’inasprimento dell’imposizione indiretta previsto dalla clausola di salvaguardia”.
Se per dare un responso definitivo sull’utilità del bonus Irpef da 80 euro è troppo presto (bisogna aspettare i dati finali sul 2014), guardando al futuro è sicuro che il taglio dell’Irap per le imprese sarà completamente inutile ai fini della crescita se scatteranno le clausole di salvaguardia introdotte dal governo per rassicurare l’Europa. Se, cioè, l’esecutivo di Renzi non troverà altre forme di copertura nei prossimi 12 mesi per evitare che da gennaio 2016 le aliquote dell’Iva sui consumi salgano dal 22 al 24 per cento e dal 10 al 12 per cento. Un salasso che avrebbe un impatto pesante sulla domanda interna, perché farebbe salire parecchio i prezzi. Tutti dubbi condivisi dalla Corte dei conti che ne aggiunge un altro: “le incertezze e i rischi insiti nel ritorno ad un utilizzo improprio dei proventi (per loro natura incerti) della lotta all’evasione, per coprire spese o sgravi fiscali certi”.
POI CI SONO le variabili che la politica italiana non può controllare, come le crisi geopolitiche e il rallentamento dei Paesi emergenti: secondo l’Istat possono ridurre la crescita ddel 2015 e del 2016 potrebbero essere più bassi dello 0,2 per cento. Ma anche nello scenario migliore, secondo l’Istituto di statistica, il Pil il prossimo anno aumenterà soltanto dello 0,5 e non dello 0,6 previsto dal ministero del Tesoro. Renzi è avvertito.

Il Sole 4.11.14
Legge di stabilità
Istat: legge di stabilità non espansiva
Effetto nullo sul Pil 2015-2016
In risalita nel 2014 la spesa delle famiglie dopo 3 anni di calo
di Rossella Bocciarelli


ROMA Sarà lenta l'uscita dalla recessione per il nostro paese: secondo l'Istat, che ieri ha pubblicato le sue previsioni, dopo aver archiviato un 2014 di recessione (-0,3 per cento) nel 2015 la crescita non riuscirà a superare il mezzo punto percentuale, per poi salire all'uno per cento nel 2016, senza riuscire tuttavia ad allinearsi con il ritmo dei più dinamici concorrenti europei.
Il quadro presentato ieri dall'Istituto nazionale di statistica è solo lievemente più negativo di quello programmatico del governo: la nota di aggiornamento del Def scatta una foto altrettanto realistica del nostro paese, ma attribuisce un +0,6 per cento all'aumento del Pil nel 2015. Per l'Istat non si tratta, insomma, di descrivere "fase tossica dell'economia italiana" secondo la fosca immagine del nostro Paese fornita ieri dal Wall Street journal, che nel giustapporre le cifre della recessione italiana ai dati sul suo debito pubblico si ostina tra l'altro a non tener conto della revisione apportata al livello dello stock (127,9% del Pil è ora l'ultimo dato disponibile per l'Italia). Anzi, l'analisi Istat contiene anche una nota positiva che è quella relativa al recupero dei consumi: già nel 2014 la spesa delle famiglie segnerà un aumento dello 0,3 per cento in termini reali mentre nel 2015 è previsto un ulteriore miglioramento dei consumi privati (+0,6 per cento) che proseguirà anche nel 2016 (+0,8 per cento) trainato dalla crescita del reddito disponibile e da un graduale aumento dell'occupazione. Insomma, seppure a passo di lumaca, questa importante componente della domanda interna dovrebbe gradualmente riprendere. Analogamente, per quel che riguarda gli investimenti, dopo l'ulteriore, secca flessione registrata nell'anno in corso (-2,3%) nel 2015 la formazione di capitale dovrebbe aumentare dell'1,3% per salire al +1,9 per cento nel 2016.
Le stime Istat, tuttavia, incorporano gli effetti della manovra del governo. E nelle valutazioni dell'Istituto «i provvedimenti adottati sono previsti avere un impatto marginalmente positivo nel 2014 e un effetto cumulativo netto nullo nel biennio successivo». In pratica, l'Istituto mette in evidenza il fatto che la manovra non è espansiva per l'economia italiana ma avrà un impatto pari a zero negli anni prossimi perché gli stimoli all'economia derivanti da aumenti di spesa pubblica e dalle disposizioni che riducono la pressione fiscale verranno compensati, dice l'Istat dall'inasprimento dell'imposizione indiretta previsto dalla clausola di salvaguardia.
Inoltre, secondo le stime Istat, ci vorrà parecchio tempo per vedere miglioramenti significativi sul mercato del lavoro: il tasso di disoccupazione raggiungerà il 12,5% nel 2014 per effetto della caduta dell'occupazione (-0,2 per cento in termini di unità di lavoro). Nel 2015 il tasso dei senza lavoro diminuirà lievemente (al 12,4%) e le Ula (unità di lavoro) aumenteranno dello 0,2 per cento: solo nel 2016 le stime dell'Istat collocano la disoccupazione al 12,1 per cento e la crescita delle unità di lavoro occupate intonro allo 0,7 per cento. Quanto alle retribuzioni continueranno a mostrare una dinamica moderata (1 per cento nel triennio di previsione) dovuta anche al blocco retributivo nel settore pubblico. Come risultato, la produttività del lavoro sarà ferma nel 2014 per poi tornare ad aumentare nel biennio prossimo. Infine, l'inflazione: l'Istat ricorda che nel corso dell'estate è diventata negativa e che dovrebbe confermarsi su tassi prossimi a zero anche nei mesi finali, mentre nel 2015 risalirà leggermente ma sarà sempre al di sotto dell'uno per cento.

il Fatto 4.11.14
Il dizionario
Ecco cosa volevano dire Matteo e i suoi
di Francesca Fornario


Dicono che Matteo Renzi sia solo slogan, solo frasi ad effetto da twittare e sparare in tv. Balle. Renzi e il suo governo hanno una visione precisa della società e una strategia per metterla in pratica. Una visione che prevede, ad esempio, di sostituire i servizi, che sono un diritto, con i bonus, che sono un regalo. Di sostituire il partito, che è una parte, con il tutto, che è dei più ricchi, perché i poveri non hanno niente. Di trasformare i diritti degli ultimi in privilegi e i privilegi dei primi in diritti. Diventa così “un privilegio” l’art. 18 che tutela il lavoratore e “un diritto” quello dell’imprenditore di licenziare. Trattandosi di teoria antiquata, oggi fatichiamo a decifrarla. Per aiutarvi, vi offriamo questo dizionario di renzismo applicato, con il vero significato delle più comuni affermazioni renziane:
“Il posto fisso non c’è più, il lavoratore deve sapersi spostare”. Per schivare le manganellate.
“Io stesso, per lavoro, mi sono dovuto spostare molte volte”. A destra.
“Garantire il lavoro è la grande sfida interna alla sinistra! ” Quindi, lasciamola a loro
“Se i sindacati voglio negoziare le leggi si facciano eleggere in Parlamento” Proprio come non ho fatto io. “Se c'è una lattina per terra non bisogna chiedersi chi non l'ha spazzata via ma chi è il cretino che l'ha buttata”. Poi tirare dritto e lasciarla lì.
“Non voglio che la scelta di licenziare o assumere sia in mano al giudice, deve essere in mano all’imprenditore”. Inoltre, pensavo di far arbitrare le partite di calcio al portiere della squadra più forte.
L’europarlamentare già demitiana veltroniana franceschiniana bersaniana e infine renziana (un ritorno alle origini) Pina Picierno: “La Camusso? eletta alla Cgil con i pullman pagati e le tessere false! ” Lo so perché tanti iscritti Cgil hanno la tessera Pd. Maurizio Lupi, ministro delle Infrastrutture: “Il Ponte sullo stretto è una fondamentale infrastruttura di collegamento”. Tra il governo e Berlusconi. Davide Serra, finanziere renziano con le finanze in un paradiso fiscale: “Lo sciopero nel pubblico impiego dovrebbe essere vietato! ” Come prevede la Costituzione. Delle Cayman.
Andrea Romano, già montezemoliano montiano infine Renziano (un ritorno alle origini): “Io e Migliore di Sel possiamo stare nel Pd come Che Guevara e Madre Teresa in una grande chiesa”. Migliore mi ha chiesto se può fare lui Madre Teresa.

il Fatto 4.11.14
Caro Franceschini
Bene, bravo, bis. Ma i soldi chi li mette sul Colosseo?
di Elisabetta Ambrosi


Altro che sicuro “dagli all’untore” da parte di “archeologi onanisti”, morbosamente attaccati al cadavere del Colosseo, come preconizzato da Vittorio Sgarbi sulle colonne del Giornale. L’aria è cambiata e più che un diffuso “sadismo archeologico” sembra spirare un certo renzismo archeologico, se è vero che il tweet di Dario Franceschini – con il quale il ministro dei Beni culturali ha rilanciato la proposta dell’archeologo Daniele Manacorda di piazzare una pedana sopra i labirinti dell’anfiteatro Flavio per consentire spettacoli e rappresentazioni – è stata accolta da un profluvio di consensi. “Basta un po’ di coraggio”, ha cinguettato il ministro domenica, postando la foto di una bella spianata – così appariva prima degli scavi otto-novecenteschi – con tanto di croce al centro.
POCHE ORE e si scatena un coro celebrativo tale da spiazzare lo stesso professore Manacorda (“La mia idea non ha nulla di eccezionale”, dichiara all’Ansa). Nel quale, a colpire, è proprio l’omogeneità delle dichiarazioni: più che note tecniche, soprattutto accuse contro i gufi dell’archeologia e inni all’audacia della proposta. “Basta con i feticismi, è un’idea coraggiosa che punta a rendere il Colosseo più comprensibile e fruibile”, dichiara Giuliano Volpe, presidente del Consiglio superiore per i Beni culturali e paesaggistici del Mibact, augurandosi il ripristino dell’arena per ospitare “concerti, magari a gare di lotta greco-romana”. “Guerre ideologiche preconcette non aiutano la crescita della cultura: servono idee e coraggio”, aggiunge l’assessora alla cultura di Roma Giovanna Marinelli, rassicurata dagli interventi favorevoli di Volpe e di Adriano La Regina, ex Soprintendente delle antichità di Roma. Ringraziamenti immediati al ministro arrivano anche della Soprintendenza speciale per i Beni Archeologici di Roma e dall’Associazione Nazionale Archeologi.
Ma qual era la proposta al centro dell’invettiva del professore di Metodologia e tecnica della ricerca archeologica all'Università di Roma Tre contro l’“archeologia necrofila” che lascerebbe il Colosseo con le viscere aperte, “come un Grande Ignudo”?
TUTTO NASCE, ebbene sì, da un poster dell’ufficio del turismo tunisino, che sponsorizzava una visita all’anfiteatro di El Jem piazzandoci all’interno, con un fotomontaggio, un bel campo da golf verde brillante. La bucolica visione ricorda a Manacorda, per contrasto, “l’intrico inquietante di muri scoperchiati al sole” dell’interno del Colosseo. Di qui l’idea, riportata in un articolo sulla rivista mensile Archeo uscita a luglio: restituire al Colosseo la sua arena, magari inaugurandola “con un incontro di judo o di lotta greco-romana, o forse con un coro di bambini, o forse con una recita di poesie, o con un volo di aquiloni…”. E perché, anche, non il “golf”, visto che “lo spazio non mancherebbe”?
Già, perché non farlo? Lo spiega, con poche e concise parole, la voce autorevole di Salvatore Settis. “Questa idea, sorella gemella dell’iniziativa presa da Bondi, quando, nel momento in cui il ministero agonizzava, comprò un (falso) crocifisso di Michelangelo, conferma il grande gioco a ribasso dei beni culturali, dal quale speravo che Franceschini si fosse tirato fuori. Il problema del nostro paese non sono i punti culminanti – i Bronzi di Riace, Pompei, Caravaggio – ma la tessitura, la presenza capillare, come gli scavi dell’Abruzzo o della Sardegna: le piccole cose che stanno andando in malora. Viviamo nell’ossessione del poco perché stiamo abbandonando il molto: ma ignorare la pianura per guardare solo le vette è un errore politico e culturale. Ma soprattutto: noi mettiamo la pedana all’interno del Colosseo e nessuno può occuparsi dell’intero sito, perché non si assume più nessuno cosa facciamo? E perché, mentre dovremmo rilanciare un piano nazionale di salvaguardia del paesaggio, in un momento drammatico per la tutela del patrimonio culturale, lo Sblocca Italia contiene una serie di norme devastanti che vanno in direzione contraria, sulla quale non c’è stata un’opposizione sufficiente del ministero?”.

Corriere 4.11.14
Il prete indagato per pedofilia: «Mi vogliono ammazzare»


BRINDISI Ha formalizzato denuncia per minacce contro persone non identificate padre Giampiero Peschiulli,
il parroco 72enne di Brindisi indagato per abusi sessuali
su minori e destinatario mercoledì scorso di un decreto di perquisizione e sequestro
e contestuale informazione
di garanzia. Il sacerdote, difeso all’avvocato Roberto Cavalera, sostiene di aver appreso
da un collaboratore della parrocchia che due uomini
a bordo di un’auto di grossa cilindrata si sono recati
nella chiesa di Santa Lucia, dove fino al giorno delle proprie dimissioni dall’incarico, giovedì scorso, prestava la sua opera, chiedendo di lui e riferendo di volerlo «uccidere». Lo stesso giorno erano apparse sui muri, vicino alla chiesa, scritte offensive rivolte allo stesso sacerdote e alla Curia arcivescovile di Brindisi.
A quanto si apprende,
don Peschiulli ha manifestato l’intenzione di lasciare la città. La messa, domenica scorsa,
è stata celebrata da un altro prete designato temporaneamente dall’arcivescovo Domenico Caliandro, in attesa di assumere decisioni. Gli inquirenti nel corso della perquisizione a casa del religioso avrebbero trovato materiale pornografico.

Corriere 4.11.14
Crescita e migranti
Le sfide immediate del nuovo governo Ue
di Enzo Moavero Milanesi


In Europa, inizia il suo mandato di cinque anni (2014-2019) la nuova Commissione europea, presieduta da Jean-Claude Juncker. Sono passati alcuni mesi dall’esito delle elezioni per il Parlamento europeo, a valle delle quali si è aperto l’iter per la designazione della Commissione. L’insediamento è avvenuto alla data prevista, smentendo chi pronosticava slittamenti, per possibili difficoltà politiche durante l’articolato processo di nomina. Adesso, dopo aver illustrato i loro intenti, nel corso delle pubbliche audizioni davanti al Parlamento europeo, i ventotto componenti sono attesi alla prova delle azioni concrete. La situazione generale resta complessa: la crisi economica non è superata, difetta la crescita, la disoccupazione è alta; perdurano contrasti e guerre in aree geografiche vicine; i sondaggi mostrano la disaffezione dei cittadini per un’Unione europea che non risponde alle loro attese. La Commissione, benché abbia perso la centralità di un tempo, mantiene importanti poteri esecutivi, resta molto visibile ed è bersaglio delle critiche più accese. La nuova compagine deve agire subito e vedo soprattutto due terreni di sfida.
Il primo è istituzionale e riguarda ruolo e funzionamento della Commissione. Juncker ha più forza politica, in virtù della novità del suffragio ricevuto, quale candidato del Partito popolare europeo, vincitore nel voto per il rinnovo dell’Europarlamento. Potrà farne buon uso, specie con i governi nazionali, sovente propensi a visioni unilaterali. Ha rivoluzionato gli assetti interni, conferendo funzioni effettive ai vice presidenti: ognuno coordina un gruppo di commissari e sovrintende al contenuto delle iniziative che intendono prendere. Gli effetti su un organo collegiale come la Commissione possono rivelarsi notevoli. L’autonomia individuale dei singoli dovrebbe ridursi, a beneficio di più approfonditi dibattiti preparatori. È possibile che questioni consensuali o meno spinose siano risolte nei diversi gruppi e poi, formalizzate dal plenum a 28. Così, quest’ultimo potrebbe concentrarsi sulle decisioni difficili, delicate e magari, deliberare votando, senza rincorrere compromessi consensuali. Sarà interessante vedere come funzionerà nelle materie in cui è più incisivo il potere sugli Stati o sulle imprese, quali: la politica economica e finanziaria; l’antitrust e gli interventi pubblici nell’economia; le procedure per le infrazioni alle normative Ue. Altra novità per la Commissione è l’inedita carica di «primo vice presidente», l’olandese Frans Timmermans, fiduciario di Juncker e vera persona chiave del nuovo sistema, in quanto responsabile della legalità degli atti, della semplificazione normativa, del perseguimento di uno sviluppo sostenibile. Sulla carta, tutti questi cambiamenti sembrano positivi, ma è indispensabile averne al più presto la prova nella realtà operativa.
La seconda sfida per la Commissione riguarda l’azione politica. Anche qui, bisogna che fatti concreti seguano immediatamente le dichiarazioni. Le aspettative sono notevoli, si chiede un deciso cambio di passo. Nel programma del presidente Juncker c’è tutto il necessario, in particolare: priorità a crescita e occupazione, Europa digitale, mercato unico dell’energia, attenzione al cambiamento climatico, nuova politica per le migrazioni, accordo transatlantico, tutela dei diritti fondamentali. Non sono obiettivi nuovi e sono temi obbligati: la sfida sta nei risultati e nella tempistica. I cittadini hanno perso fiducia: bisogna ridargliela e riconquistarli.
Fra le iniziative davvero urgenti, ricorderei le seguenti. Entro l’anno c’è l’impegno a spiegare come saranno mobilitati gli annunciati 300 miliardi di euro di investimenti europei addizionali, pubblici e privati, nel prossimo triennio. L’interdipendenza economica nell’Unione funge da cinghia di trasmissione di problemi e opportunità: va accentuata la convergenza, vincolando tutti i governi — nessuno escluso — alle indispensabili riforme, da tempo ben note. Il continuo flusso di migranti è scandito da tragedie e ha un impatto asimmetrico nei diversi Stati dell’Ue: s’impongono soluzioni cooperative ed eque di schietta impronta solidaristica. La sudditanza energetica e gli effetti del cambiamento climatico preoccupano molto e — dato il rilievo —, sono questioni affrontabili solo a livello europeo: occorre rompere gli indugi, modulare strategie industriali rispettose delle esigenze ambientali e della salute, investire su scala continentale, in un’ottica di condivisione che superi le attuali frammentazioni.

Repubblica 4.11.14
L’addio di Brittany: “Ho scelto la dignità”
Si è suicidata la giovane malata di tumore. Ma sul web è polemica


È MORTA con dignità, come aveva scelto di fare, prima che il cancro al cervello la rendesse incapace di decidere. Brittany Maynard ha rivendicato fino all’ultimo il diritto di vivere come voleva, di scegliere la sua strada nella vita e anche nella morte. Il 19 novembre avrebbe compiuto trent’anni, ma non ha atteso. Se n’è andata sabato: «È morta come ha voluto lei, nel suo letto», racconta chi le è stato vicino. Ha potuto farlo con l’aiuto dei medici dell’Oregon, uno dei cinque stati americani che riconoscono il diritto all’eutanasia. Nel suo ultimo messaggio ha ancora una volta rivendicato la sua scelta: «Se cambiamo i nostri pensieri, cambiamo il mondo». Il video su YouTube in cui raccontava la sua storia è stato visto da oltre un milione di persone, che in tutto il mondo si sono divise fra critici e sostenitori: da chi la accusa di aver fatto «la scelta dei codardi», a chi esprime compassione e cordoglio. Secondo Marcia Angell, ex direttore del New England Journal of Medicine , il caso di Brittany cambierà il dibattito sulla morte assistita. Per l’esperto di bioetica Arthur Caplan la ragazza non ha fatto nulla di immorale: «Dio ci ha creato con il libero arbitrio. Farlo intromettere in decisioni sulla dialisi o le macchine cuore-polmone equivale a banalizzare la sua divinità». Anche in Italia la discussione è accesa: si va dal richiamo al rispetto, pronunciato da Salvino Leone, docente di Teologia morale ed esperto di bioetica, alla «tristezza» segnalata da monsignor Vincenzo Paglia, che parla di «grande sconfitta per tutti». Il «grazie» dei radicali si affianca alla valutazione di Umberto Veronesi, che considera quella di Brittany «una grande lezione di civiltà». (g. cad.)

Repubblica 4.11.14
L’ultimo messaggio prima di morire “Aspettare? Domani potrei non farcela”
Vorrei che tutti i cittadini americani avessero accesso agli stessi diritti
Guardavo il volto di mio marito e non riuscivo più a dire il suo nome
di Brittany Maynard


QUESTO è il testo dell’ultimo messaggio video di Brittany Maynard. È stato diffuso ieri, dopo l’annuncio della sua morte, dal sito www. thebrittanyfund.org, a lei dedicato dall’associazione “ Compassion & Choices” che si batte per l’eutanasia

SE IL 2 novembre sarò morta, la mia speranza è che la mia famiglia sia ancora fiera di me e delle scelte che ho fatto. Ma se il 2 di novembre io fossi ancora viva, già so che continueremo ad andare avanti come una famiglia grazie all’amore che ci lega. In quel caso, la decisione verrà posticipata.
Certa gente mi critica perché non aspetto più a lungo; altri hanno deciso per conto loro cos’è meglio per me. Tutto questo mi addolora perché sono io quella che rischia: rischio ogni singolo giorno, ogni volta che mi sveglio al mattino. Lo faccio perché mi sento ancora abbastanza bene, perché riesco ancora a gioire, perché rido e scherzo con gli amici e la famiglia, e perciò non sembra ancora il momento giusto. Però, so che quel momento arriverà, infatti sento che sto peggiorando, di settimana in settimana. Esco ancora a passeggiare con mio marito, con la mia famiglia, con i cani, e sono proprio queste le cose che ultimamente mi fanno sentire meglio. Ma dal primo di gennaio, quando è stata fatta la diagnosi, le cose non fanno che peggiorare. È così che procedono le malattie terminali: si peggiora sempre di più.
Allora cosa fai? Cominci a eliminare tutte le cose materiali, le sciocchezze a cui sembriamo essere così attaccati nella nostra società, e ti rendi conto che sono quelli i momenti che contano.
La cosa peggiore che può capitarmi è di prolungare l’attesa troppo a lungo: nonostante io sia pronta alla sfida, ogni singola giornata, la malattia mi priva sempre più della mia autonomia: è la natura del mio tumore.
Se vogliamo parlare degli aspetti più terrificanti... Ad esempio, ho avuto una brutta serie di crisi, circa una settimana fa. Me ne sono capitate due al giorno, un fatto insolito. A un certo punto stavo guardando il viso di mio marito e pensavo: è mio marito, lo so, ma non riesco più a pronunciare il suo nome. Per colpa di quella crisi sono andata in ospedale.
Svegliarsi ogni giorno nel mio corpo è una sensazione strana, perché è così diverso da com’era appena un anno fa. Tanto per chiarire, negli ultimi tre mesi sono ingrassata di oltre dieci chili, solo per i farmaci che ho inghiottito.
Non mi piace essere fotografata, non mi piace essere filmata e non mi piace starmene troppo tempo davanti allo specchio. Non è che io provi odio e ripugnanza verso me stessa: è solo che il mio corpo è cambiato tanto rapidamente, che quasi non mi riconosco. È una faccenda intima.
Penso che a volte la gente mi guardi e pensi: non hai l’aria della malata, come dici di essere. Anche questo mi addolora, perché se ho una crisi e poi non riesco a parlare, è ovvio che io senta tutto il peso della mia malattia.
Se tutti i miei sogni potessero avverarsi, sopravvivrei, ma è molto improbabile che ciò avvenga; perciò, quando penso a mia madre e al fatto che io sia figlia unica, voglio che lei si riprenda, che non crolli, che non soffra di depressione. Quanto a mio marito, è un uomo meraviglioso. È naturale che tutti debbano poter piangere un lutto, ma voglio che lui sia felice, che abbia una famiglia, che non passi la vita a piangere sua moglie. Insomma, spero che continui la sua vita, che diventi un padre.
Il mio obiettivo, ovviamente, è di influenzare la politica affinché approvi il cambiamento consapevole. Vorrei che tutti i cittadini americani avessero accesso agli stessi diritti legati alla salute. Ma al di là della politica, i miei obiettivi sono piuttosto semplici: si riducono alla mia famiglia e ai miei amici. Voglio assicurarmi che sappiano quanto sono importanti per me e quanto li amo.
Traduzione Luisa Piussi

Corriere 4.11.14
Il suicidio assistito di Brittany  e il dibattito sull’eutanasia negli Usa
di Massimo Gaggi

qui

La Stampa 4.11.14
Suicidio o ultimo viaggio in Svizzera
Così gli italiani sfuggono ai divieti
Negli ultimi tre anni 50 hanno chiesto l’aiuto dei medici elvetici. Oggi aspettano in 27
di Flavia Amabile


Chiamatela scelta di fine vita, eutanasia legale, o anche suicidio assistito o dolce morte. In Italia semplicemente non esiste. Non esiste nelle aule parlamentari, né in alcun tipo di documento, luogo o situazione ufficiale.
Esiste, però, eccome. Secondo l’Istat ogni anno un migliaio di italiani vorrebbero scegliere di morire quando credono. E secondo il Rapporto Italia dell’Eurispes il 64,6% degli italiani si dichiara favorevoli all’eutanasia e il 77,3% si dichiara favorevole al testamento biologico.
Gli italiani hanno le idee chiare. In 50 negli ultimi tre anni sono riusciti ad andare in Svizzera e chiudere senza troppi clamori e con dignità la propria vita. In attesa ci sono altri 27 italiani, di cui 11 giovani sotto i 30 anni affetti da malattie psichiche molto gravi certificate da medici psichiatri, come spiega Emilio Coveri, presidente di Exit Italia all’Adnkronos.
E tutti gli altri? Si arrangiano come possono e, trattandosi di voler porre fine alla propria vita, farlo arrangiandosi è davvero orribile.
In sette mesi, da marzo ad ottobre, «più di 500 malati, non potendo ottenere l’eutanasia, si sono suicidati ed almeno altrettanti hanno tentato di farlo, mentre più di diecimila malati terminali, nei reparti di rianimazione, sono morti con l’aiuto attivo di medici pietosi e coraggiosi, che rischiano fino a 14 anni di carcere per aiuto al suicidio», spiega Carlo Troilo dell’associazione Luca Coscioni.
Alcuni di questi suicidi diventano fatti di cronaca e accendono anche un minimo dibattito, ma soltanto quando a compiere gesti così estremi sono grandi artisti ed intellettuali come è accaduto con i suicidi di Mario Monicelli, Carlo Lizzani e Franco Lucentini.
Tutti gli altri rimangono avvolti nel silenzio più totale spesso aiutato dalla complicità tra famiglie e medici.
Volendo esprimere sotto forma di classifica questo dramma, si può ricordare che l’Italia è al 26mo posto su 36 Paesi per quel che riguarda i diritti di fine vita secondo il World Congress for Freedom of Research.
E la politica per il momento resta a guardare. Ci sono stati due richiami del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a Camera e Senato chiedendo di affrontare il tema. Ma si contano sulle dita di due mani i politici che hanno provato a fare qualcosa. Sono state presentate tre proposte di legge per la legalizzazione dell’eutanasia e una legge di iniziativa popolare. Le tre proposte sono state presentate a partire dall’ottobre scorso alla Camera da Titti di Salvo di Sel, e al Senato da Luigi Manconi del Pd e Francesco Palermo del gruppo delle Autonomie. La legge di iniziativa popolare, invece, è stata promossa dall’associazione Luca Coscioni.
Tutto qui. Iniziative e proposte sono state depositate e messe da parte, come denuncia Matteo Mainardi, coordinatore della campagna Eutanasia Legale. L’associazione Luca Coscioni ha scritto una lettera alla presidente della Camera Laura Boldrini per chiederle di mantenere le promesse e di prevedere delle date per la discussione della legge di iniziativa popolare. «La speranza a questo punto è che almeno il regolamento venga modificato e si decida di porre una scadenza temporale alla discussione delle leggi di iniziativa popolare». Per evitare che le richieste di una larga fetta di italiani finiscano nel nulla.

Corriere 4.11.14
La Germania Est torna «rossa» E si riapre il dibattito sulla Ddr
Gli eredi dei comunisti lanciati verso la guida del Land della Turingia
di Paolo Lepri


BERLINO Il gioco della politica sembra voler beffare le ragioni della Storia nella Germania che celebra questa settimana il venticinquesimo anniversario della caduta del Muro. La Repubblica democratica tedesca, il regime che dominava ossessivamente le vite degli altri, è certamente ancora ben presente nell’immaginario collettivo. Sarebbe strano il contrario, in un Paese che ha vissuto ferite così recenti. Ma in questi giorni di cerimonie e ricordi, il suo fantasma recita un ruolo da protagonista, ben al di là della rievocazione della libertà riconquistata in quel novembre 1989 e in una prospettiva diversa rispetto al mercato ingenuo della nostalgia.
Questo spettro che si aggira per la Germania ha un nome e cognome. Si chiama Bodo Ramelow, l’ex sindacalista che sta per diventare, salvo sorprese, il primo governatore di un Land appartenente alla Linke, il partito che ha parzialmente raccolto l’eredità dei comunisti dell’Est. Che tutto questo non sia un episodio marginale, legato alla dialettica futile della cronaca politica, lo ha dimostrato l’intervento del presidente Joachim Gauck. L’ex pastore evangelico e militante dei diritti umani ha detto chiaramente, come del resto è abituato, che le persone della sua età che hanno vissuto nella Ddr trovano molto difficile accettare quanto sta accadendo in Turingia. Si è chiesto se la Linke abbia realmente preso le distanze dalle idee in nome delle quali i suoi predecessori hanno oppresso la popolazione e si è domandato se sia possibile averne oggi fiducia. Ha dato un forte scossone un po’ a tutti, insomma, mentre a Berlino si preparano i palloncini luminosi che segneranno il percorso del Muro e verranno liberati in cielo nel giorno che ricorda la fine delle divisioni.
Gli interrogativi provenienti dallo Schloss Bellevue, densi di passione e meno di diplomazia istituzionale, hanno provocato l’indignazione dei diretti interessati, il plauso dei conservatori, i rispettosi dissensi dei socialdemocratici. Fedele ad Angela Merkel nella grande coalizione, la Spd ha deciso infatti di entrare in un governo «rosso-rosso-verde» nel Land di Goethe e Schiller, scalzando dal potere i cristiano-democratici ed alleandosi con la Linke, arrivata seconda nelle elezioni con il 28 per cento dei voti. I risultati della consultazione con gli iscritti sono attesi per oggi. Va comunque detto che Ramelow, personalmente, non ha niente a che vedere con l’armamentario ideologico di una consistente ala del suo partito. Viene da Ovest e non ha radici nel mondo che altri suoi compagni, come Gregor Gysi o Sahra Wagenknecht, hanno attraversato ripensando poi parzialmente il valore di quell’esperienza. E’ un interprete di quella voglia di sicurezza sociale che anima molti elettori dei nuovi Länder.
Ma il problema del giudizio sulla Germania comunista e della affidabilità dei suoi eredi, veri o presunti, non è esploso improvvisamente con il successo della rivoluzione guidata da Ramelow. Già nelle settimane scorse, sempre partendo dalla Turingia, si era aperto un dibattito sulla definizione, respinta da Gysi, della Ddr come «stato ingiusto».
Secondo il presidente della Linke, che ha però riconosciuto le «ingiustizie» del regime, se la Repubblica democratica tedesca viene descritta in questo modo «si sostiene anche che solo le potenze occidentali avevano il diritto di fondare la Repubblica federale, mentre l’Unione Sovietica non aveva lo stesso diritto». Molte le reazioni negative. Anche in questo caso è arrivata un netta presa di posizione del presidente Gauck, che ha parlato di «uno Stato totalitario senza un sistema giudiziario indipendente». L’ex pastore vuole sconfiggere i fantasmi. L’anniversario del 9 novembre servirà anche a questo.

Repubblica 4.11.14
La carica di Podemos anti-casta primo partito battuti Psoe e popolari
Sondaggio di “El Pais”: in otto mesi hanno raccolto il 27,7% Tracollo del Pp del premier Rajoy: indietro di 7 punti
di Alessandro Oppes


MADRID Un terremoto politico rischia di far saltare le fondamenta del bipartitismo spagnolo. Nato appena otto mesi fa, il movimento anti-casta Podemos è già il primo della classe: stando al sondaggio Metroscopia pubblicato domenica su El País, raccoglierebbe il 27,7 per cento dei consensi, un punto e mezzo in più rispetto ai socialisti del neoleader Pedro Sánchez e un vantaggio di 7 punti sui popolari del premier Mariano Rajoy, fermi al 20,7 per cento (contro il 44 delle ultime politiche, che gli valse la maggioranza assoluta in Parlamento). Una scossa radicale che è conseguenza della strategia vincente adottata fin dall’inizio dalla nuova formazione, guidata da un gruppo di politologi e sociologi sotto la leadership indiscussa del docente universitario Pablo Iglesias, dal maggio scorso parlamentare europeo insieme a un agguerrito gruppo di altri quattro rappresentanti della stessa formazione. Con il rigore dei ricercatori, hanno saputo realizzare una diagnosi perfetta dei mali della Spagna, e con una maestria unica nell’utilizzo della Rete (unica rispetto ai ritardi dei partiti tradizionali) hanno ampliato a una velocità vertiginosa la base del consenso. Al punto che, se quando si sono buttati nella mischia, non avevano un minimo di struttura, ora hanno già oltre 200mila affiliati (più del Psoe), anche se le iscrizioni avvengono online senza l’obbligo del versamento di una quota.
Iglesias — che ha acquisito un’enorme notorietà nel corso dell’ultimo anno grazie alla frequente partecipazione a programmi tv di dibattito politico, in cui ha rotto gli schemi affrontando a viso aperto i rappresentanti dell’odiata “casta” — ha sempre detto fin dall’inizio che l’obiettivo della sua avventura politica era quello di «andare al potere». Ma né lui né i suoi più stretti collaboratori (lo hanno ammesso in questi giorni) pensavano che l’ascesa potesse essere così rapida e travolgente.
Il fatto è che, a dare loro una mano involontaria è lo stesso sistema di potere in vigore dal periodo della transizione postfranchista, che si sta sgretolando a vista d’occhio sotto i colpi delle inchieste della magistratura. Decine di scandali, alcuni di enorme portata, colpiscono al cuore i vecchi partiti, a cominciare dal Pp, al governo del paese come della maggior parte delle autonomie regionali. Uno dopo l’altro, in pochi giorni, sono caduti personaggi di primissimo livello come l’ex ministro dell’economia ed ex direttore dell’Fmi Rodrigo Rato, travolto dal caso delle carte di credito in nero di Bankia (istituto di cui è stato presidente) distribuite tra alti funzionari e consiglieri di amministrazione per sostenere spese personali fuori controllo, dagli acquisti di gioielli e automobili alle vacanze da sogno; l’ex ministro dell’Interno di Aznar, Ángel Acebes, poi nominato da Rajoy segretario generale del Pp, coinvolto nello scandalo dei finanziamenti in nero del partito, per il quale è già in carcere l’ex tesoriere del Pp Luis Bárcenas. E, ultimo, il potentissimo Francisco Granados, che per anni fu il numero due dei popolari a Madrid: si è scoperto che, mentre pontificava in tv sulla lotta alla corruzione, organizzava su scala regionale un’impressionante rete di traffico d’influenze che, in questi giorni, ha portato in carcere decine di amministratori locali (Granados è stato rinchiuso in una prigione che lui stesso aveva inaugurato sei anni fa).
Poche ore prima che scoppiasse quest’ultimo caso (“Operación Púnica”, come è stata definita dalla Guardia Civil), Rajoy aveva minimizzato la rilevanza degli scandali definendoli «algunas pocas cosas», qualche cosetta. Subito dopo ha dovuto chiedere perdono in Parlamento. Ma agli spagnoli, forse, le scuse non bastano più.

Corriere 4.11.14
I libri di scuola dati in appalto all’amico di Putin
«Purga» in Russia contro i testi scolastici
di Fabrizio Dragosei


MOSCA Vladimir Putin aveva pensato addirittura a un solo libro di testo per ogni materia. Questo per tutti i 14 milioni di studenti sparsi in 43 mila scuole russe. Alla fine però si è deciso «semplicemente» di ridurre il numero dei manuali e di accertarsi che tutti seguano le direttive dello Stato: un «singolo standard storico-culturale», basato sui «Fondamenti della politica culturale statale» elaborati dal ministero per la Cultura. Tanto per capirci, concetti che implicano il rifiuto dei punti di vista «liberali dell’Occidente» e che ribadiscono il principio che «la Russia non è Europa». Benvenuti nel nuovo sistema scolastico-educativo.
La storia, soprattutto, va trattata con grande attenzione. Nei frenetici, caotici ma liberi anni Novanta si era proseguito con la demolizione della figura di Stalin che, in fin dei conti, aveva pur sempre edificato l’Unione Sovietica. E visto che il presidente russo ebbe a definire lo scioglimento dell’Urss «una delle più grandi catastrofi del Ventesimo secolo», non c’è da sorprendersi se del Piccolo Padre, dei suoi massacri e delle sue deportazioni si parla ora in maniera un po’ diversa.
In un recente testo si afferma che il Grande Terrore degli anni Trenta (con milioni di persone deportate e trucidate) fu attuato perché Stalin «non sapeva chi avrebbe assestato il prossimo colpo, e per questa ragione attaccò ogni gruppo e ogni movimento».
Il manuale include istruzioni per gli insegnanti: «È importante mostrare che Stalin agiva in una situazione storica concreta». In un’altra «Storia della Russia» scritta da due accademici, si afferma che quei milioni di cittadini colpiti «costituivano una potenziale quinta colonna che non era affatto immaginaria».
Libri attentamente selezionati, dunque. Ma a chi affidare il compito? Come è spesso avvenuto in questi anni, nelle vicende più spinose sono sempre comparsi personaggi legatissimi al presidente russo. Nel caso specifico colui che sembra destinato a diventare il supercontrollore delle nuove generazioni è Arkadij Rotenberg, compagno di judo di Vladimir Vladimirovich dall’età di 14 anni, ricco costruttore, finito nella lista dei personaggi sottoposti a sanzioni in Usa ed Europa. In Italia gli sono state sequestrate due ville in Sardegna e un albergo a Roma.
Rotenberg è riuscito a mettere le mani (per quattro soldi) su quella che era l’unica casa editrice sovietica, la Prosveshcheniye (istruzione), che oggi è il principale editore scolastico. I libri di tutti gli altri vengono bloccati con una scusa o con l’altra. E così rimangono solo i testi «giusti» della Prosveshcheniye.
Ma non si epurano solo i manuali di storia. Via, ad esempio, un libro che illustrava problemi di matematica parlando di Biancaneve. E in letteratura il prossimo obiettivo potrebbe essere Aleksandr Solzhenitsyn che, secondo il direttore della famosa Literaturnaya Gazeta Yurij Polyakov, non andrebbe più studiato, visto che emigrò «volontariamente» in America. Il suo Arcipelago Gulag che descrive gli orrori dei lager, poi, «è ben lontano dai dati della scienza storica e del buon senso».

Corriere 4.11.14
Quegli eventi in un volume Dall’8 novembre sarà in edicola con il Corriere della Sera un volume dedicato alla caduta del Muro di Berlino. Le firme e i collaboratori del nostro quotidiano rievocano i fatti che hanno cambiato la Storia dell’Europa e non solo. Il prezzo del volume sarà di 7,90 euro più il costo del quotidiano mentre sarà disponibile anche la versione ebook a 4,99 euro.

Corriere 4.11.14
I filosovietici d’Europa si ritrovano a Roma
di Maria Serena Natale


C’è chi torna ai fondamentali, al nucleo teorico del socialismo come messaggio (in)attuale di trasformazione e armonia. «Viva la Rivoluzione sovietica» è l’inequivocabile titolo dell’evento organizzato dall’Iniziativa dei partiti comunisti e operai d’Europa sabato prossimo a Roma (Centro Congressi di Via dei Frentani 4, ore 14.30). In tempi di sinistre in cerca d’autore, terze vie sperimentate con vario successo dal Nord al Sud del Vecchio Continente, quello romano sarà «un appuntamento dal carattere celebrativo e politico», spiega il segretario del Partito comunista italiano Marco Rizzo.
Spagnoli, russi, greci, francesi, una nuova Internazionale che guarda al 1917 nella convinzione che l’anima rivoluzionaria di quel progetto sia sopravvissuta alle tragedie del Novecento e possa essere oggi più che mai in intima sintonia con lo slancio ideale delle giovani generazioni. «Partiamo dall’assunto che non sia stato il socialismo a fallire, ma la sua revisione, il processo storico di demolizione dall’interno tentato da Krusciov e Gorbaciov dopo l’era di Lenin e Stalin — prosegue Rizzo —. Da quando esistono la spada e la ruota, la storia dell’umanità è una storia di classi sociali che cercano l’emancipazione. Un percorso che unisce Spartaco, Thomas Müntzer, il socialismo scientifico». Ma anche violenze e soprusi che hanno incatenato interi popoli... «Milioni di morti, gulag, carestie, tutto questo è innegabile. Dall’altra parte, però, cosa c’è stato? Le camere a gas di Hitler, le leggi razziali di Mussolini, le bombe atomiche degli Stati Uniti. Il punto ora non è rimettere indietro le lancette dell’orologio ma portare avanti una riflessione libera sul passato guardando al futuro. Abbiamo di fronte ventenni che cercano risposte e il capitalismo ha dimostrato di non averne, un sistema che viene dal mercantilismo e dalla rivoluzione industriale, con molti più secoli di storia alle spalle del socialismo. Ecco, questo è il messaggio che vogliamo lanciare, il socialismo come idea nuova, come rinnovamento possibile».

La Stampa 4.11.14
Insediamenti e rivolta araba
Israele e palestinesi al bivio
di Maurizio Molinari


Assenza di negoziati di pace fra Israele e palestinesi, rivolta araba a bassa intensità a Gerusalemme Est e tregua precaria a Gaza fanno del Medio Oriente un dossier ad alto rischio. E tutti i protagonisti si allontanano dalla soluzione dei due Stati: a Ramallah Abu Mazen persegue il riconoscimento della sovranità con una risoluzione Onu e non più grazie ai negoziati bilaterali come previsto da Oslo; a Gerusalemme Benjamin Netanyahu autorizza nuove costruzioni oltre la linea verde del giugno 1967 sospinto dal 74% dei cittadini che non credono più a Oslo; a Gaza la leadership di Hamas è convinta di aver vinto il conflitto estivo contro Israele e si sente più forte di Abu Mazen non rinunciando alla lotta armata. È uno scenario di disgregazione aggravato dalla diffusa sfiducia nei confronti di Washington e da quanto avviene ai confini della regione: Hezbollah ha 100 mila missili, Isis minaccia la Giordania, Al-Nusra si impone sul Golan siriano e nel Sinai i salafiti spadroneggiano.

Corriere 4.11.14
La leggenda dell’angelo di Kobane la guerrigliera curda terrore dell’Isis
La giovane Rehana spopola su Twitter: avrebbe ucciso più di cento miliziani
di Guido Olimpio


Per i terroristi del Califfato è un incubo. Per i combattenti curdi è Rehana, «l’angelo di Kobane»: una combattente che ha ucciso «un centinaio di nemici» nella città siriana assediata dall’Isis. «Gli estremisti hanno ucciso mio padre e io mi sono unita alla guerriglia», ha detto. Gli islamisti hanno annunciato di averla decapitata, ma lei è riapparsa più viva che mai: e la fama della sua icona — vera o finta che sia — continua a crescere.

WASHINGTON Kobane è la sottile linea curda. Un’enclave assediata da più di un mese dall’Isis. I guerriglieri hanno tenuto, grazie al sacrificio e ai raid alleati. Una battaglia che ha fatto scoprire a molti il movimento YPG e i fratelli del Pkk, curdi siriani e turchi insieme contro il Califfo. Realtà di resistenza dove hanno avuto un ruolo le donne, presenti in buon numero tra i difensori della cittadina. Partigiane spesso senza nome. A parte la comandante Nalin Nafrin e una combattente, Rehana, ribattezzata l’angelo di Kobane. Sempre che esista davvero e non sia la figlia della propaganda.
La storia di questa ragazza — o meglio, del simbolo — inizia ad agosto, quando lo scontro nella cittadina curda al confine siriano deve ancora accendersi. Il giornalista svedese Carl Drott fotografa una militante dell’YPG che lo saluta con il segno di vittoria. La ragazza racconta: «Vengo da Aleppo, dove studiavo Legge, ma l’Isis ha ucciso mio padre e allora mi sono unita alla guerriglia». All’epoca però non è ancora Rehana. Sul taccuino del reporter svedese restano i dettagli ma non il nome. Che spunterà più tardi, sui media del Kurdistan.
Quando i combattimenti diventano feroci e la situazione per i ribelli a Kobane appare disperata, i giornali di tutto il mondo indugiano sull’azione delle donne. E i simpatizzanti curdi forniscono via web materiale insistendo su un tasto: «I jihadisti temono molto le nostre ragazze». Quelli dell’Isis rispondono irritati o con sberleffi macabri quando ne eliminano qualcuna. Certamente gradiscono poco, anche perché la vittoria che sembrava vicina diventa complicata. Gli assediati sono tenaci. Non possono ritirarsi, alle spalle c’è la nemica Turchia, l’unica risorsa è stare nelle case diventate trincee. Allora ecco la parola chiave: «Rehana».
Questa volta sono i pro Isis a usarla. Sull’account di Twitter del saudita @alfaisal_ragad è postata una foto cruda: mostra un mujahed che tiene in mano la testa mozzata di una curda. Sostengono che sia proprio lei, la ragazza che ha incarnato la lotta. Ma è davvero così? Il 13 ottobre — come ha ricostruito la Bbc — «Rehana» ricompare. Anzi, sembrerebbe più viva che mai in prima linea ma sopratutto su Twitter. È il blogger indiano Pawan Durani a rilanciare la notizia in Rete. Un’informazione che corre accompagnata da un dettaglio: l’angelo di Kobane ha ucciso «un centinaio di terroristi». L’immagine e la fama crescono insieme all’ammirazione per quello che stanno facendo i curdi. In inferiorità numerica, con poche armi, davanti ad un avversario dotato di cannoni e tank, non sono scappati. E lì c’è l’icona Rehana, vera o finta che sia, ma che rappresenta molte sue compagne.
Un personaggio, quello dell’amazzone misteriosa, presente su altri fronti. Nell’aprile del 2011, quando la Tunisia scende in piazza contro il presidente Ben Alì, i dimostranti vedono cecchini del regime ovunque. E tra loro ci sarebbe anche una donna. Molto temuta. Riescono a catturarla, la buttano giù da un palazzo ma sopravvive. Dopo un ricovero in ospedale, scompare e con lei qualsiasi prova della sua esistenza.
Gli insorti libici a Misurata, invece, denunciano la presenza di tiratrici colombiane, forse ex appartenenti alle Farc accorse in Libia per ricambiare l’appoggio dato a Gheddafi nel corso degli anni. Altra battaglia: Aleppo, gennaio 2013. Insieme ai ribelli dell’Esercito libero spunta una ex insegnante d’origine palestinese. Dice di chiamarsi Guevara in omaggio al Che. Imbraccia un fucile di precisione. La fotografano tra le rovine mentre aspetta il nemico, la descrivono in molti articoli. Il regime di Assad, con l’aiuto della tv russa, risponde mostrando le «Leonesse della Difesa Nazionale» schierate a pattugliare alcune strade di Homs. L’Isis si gioca la sua carta. Nel bastione di Raqqa ha un’unità femminile, la al Kansaa. Sono le poliziotte velate e, per forza, senza volto. Nessuna può raggiungere la leggenda «Rehana».

Corriere 4.11.14
Le schiave yazide al mercato jihadista
«Ha gli occhi blu? Allora costa cara»


Discutono, negoziano e scherzano su come comprare o vendere schiave yazide perché «oggi c’è il mercato degli schiavi». È l’agghiacciante scena mostrata da un video diffuso dal canale panarabo Al Aan TV , che mostra un gruppo di terroristi dell’Isis mentre si mettono d’accordo per avere nuove «schiave sessuali» o liberarsi di quelle che non vogliono più. Ognuno di loro può comprarne una. I loro dialoghi sono sottotitolati in inglese. Se la schiava ha gli occhi azzurri o verdi, o è molto giovane il prezzo è più alto e se non ha i «denti buoni» o magari gliene «manca uno» allora può anche non valere la pena di acquistarla, perché è necessario comprarle una protesi. «Oggi è il giorno di distribuzione a Dio piacendo. Ognuno prende la sua parte», spiega quello che sembra il capo del gruppo, ripreso all’interno di una casa. «Spero di trovarne una», dice uno di loro e poi ridendo aggiunge, «dove è la mia ragazza yazida?». «Chi vuole vendere la sua?», chiede un altro. «Io, voglio vendere». «Te la pago tre banconote», «o una pistola». Intanto duecento membri della minoranza yazida, in maggioranza donne, rapiti nell’agosto scorso dall’Isis durante l’avanzata nel Nord dell’Iraq, sono stati liberati in cambio del pagamento di ingenti riscatti. Gli ostaggi rilasciati sono 130 donne e una settantina di bambini e anziani. Altre centinaia di donne e bambini rimangono prigionieri.

Repubblica 4.11.14
Rapimenti e decapitazioni: niente inviati sul terreno. E l’informazione è dimezzata
La guerra al buio così il Califfo spegne la voce dei giornalisti
di Thomas L. Friedman


LO STATO Islamico ha associato alla brutale conquista di ampie porzioni di Iraq e Siria il rapimento e la decapitazione di giornalisti. Qualunque giornalista osi avventurarsi nel territorio dell’Is rischia la vita ogni secondo. Così gli Usa sono oggi impegnati nel primo conflitto prolungato nel moderno Medio Oriente che i reporter e i fotografi americani non possono seguire in prima battuta quotidianamente, liberi di osservare e scrivere a proprio piacimento, offrendo con la loro continua presenza sul territorio una prospettiva sull’evolversi della situazione. Questo non è un bene.
Ma c’è di peggio. Il New York Times ha rivelato la settimana scorsa che l’Is ha usato un ostaggio britannico nel ruolo di corrispondente di guerra dalla città siriana di Kobane per «pronosticare la caduta della città nelle mani dei militanti nonostante i raid aerei americani», a testimonianza di una cresciuta abilità dello Stato Islamico nel promuovere la propria causa adottando le tecniche dei notiziari televisivi. «Salve, sono John Cantlie », dice l’ostaggio nel video, vestito di nero, «ci troviamo nella città di Kobane, al confine tra Siria e Turchia. Alle mie spalle, appunto, c’è la Turchia». E andrà ancora peggio. Dylan Byers, esperto di media della rivista Politico , ha scritto il 23 ottobre che l’Fbi ha avvertito le testate giornalistiche che l’Is ha identificato giornalisti e personaggi mediatici come «obiettivi legittimi di rappresaglie» in reazione ai raid aerei guidati dagli Usa.
Non avere giornalisti costantemente presenti sul territorio dell’Is è una grossa perdita. Significa non poter dare una nostra risposta a interrogativi importanti: che impatto hanno i nostri bombardamenti? Portano i combattenti dell’Is e i sunniti iracheni ad unirsi o sono fonte di divisione? Come governa lo Stato Islamico? Come funzionano le scuole e il sistema giudiziario? Che percezione ne hanno gli iracheni e i siriani? Cosa spinge tanti disperati ad aderire a questo movimento jihadista? Stiamo dando loro il giusto messaggio? E potrei andare avanti ancora.
Il vicesegretario di Stato Bill Burns ha dispensato alcuni consigli ai diplomatici americani in un articolo scritto per la rivista Foreign Policy . Citando Edward R. Murrow, il gigante della Cbs News , ha ammonito che «l’anello davvero importante nella catena della comunicazione internazionale è la distanza che si può coprire col contatto personale — parlandosi». Lo stesso vale per i giornalisti e i fotografi. Certo, i sondaggi, i grafici e i tweet sono importanti. Sono informazioni e dati importanti anche quelli. Ma intervistare un altro essere umano su quelle che sono le sue speranze e i suoi sogni, su ciò che teme e ciò che odia, è a sua volta un modo di raccogliere e analizzare dati: è quello su cui si basano i migliori diplomatici, giornalisti e storici. Non si possono tradurre in cifre uno sguardo perplesso o stupito, un sorriso tirato, la paura negli occhi di un profugo o il rammarico nella voce di un miliziano. A volte un silenzio parla più di mille parole.
Spesso ripenso alle interviste che feci in un seggio riservato alle donne nel quartiere più povero del Cairo nel 2012, durante le elezioni che portarono alla presidenza un leader dei Fratelli Musulmani. Quasi tutte le intervistate avevano votato per Mohammed Morsi, ma come motivazione nessuna di loro adduceva la religione. Dicevano invece che Morsi avrebbe portato posti di lavoro, sicurezza, marciapiedi, migliori condizioni di vita e avrebbe posto fine alla corruzione — in breve, avrebbe governato meglio. Morsi è stato poi cacciato perché non ha portato nulla di tutto questo, non a motivo della sua irreligiosità. Recentemente Vice News ha incaricato il fotoreporter Medyan Dairieh, veterano di Al Jazeera, di realizzare dalla Siria un avvincente documentario, dal titolo “Lo Stato Islamico”. Ma il direttore, Jason Mojica, ha dichiarato ad una tavola rotonda alla New York University che si è trattato di un’iniziativa una tantum, con garanzia che il giornalista «potesse tornare sano e salvo».
Ho chiesto alla giornalista Mina al-Oraibi, vice direttore di Asharq Al-Awsat, testata con sede a Londra, in che modo un quotidiano arabo segue l’Is. «Abbiamo dei corrispondenti supportati da pochi freelance locali che rischiano la vita per essere in contatto con noi dall’Iraq. Tuttavia dalle zone controllate dall’Is in Siria, soprattutto Raqqa, è blackout. L’uso dei telefoni e della posta elettronica in Iraq è problematico per la sicurezza dei collaboratori, che spesso lavorano senza sapere come verranno poi pagati… A parte questo, per la copertura ci avvaliamo di reti di iracheni e siriani che ci raccontano le loro storie, oltre ad avere contatti con iracheni, siriani ed altri arabi che hanno interagito con i combattenti dell’Is o avevano rapporti con loro quando militavano sotto altre bandiere ». Ma in realtà, ha aggiunto, «quello che sappiamo ci viene in gran parte o dai militanti dell’Is o dai racconti di osservatori o di persone che hanno familiari nelle località controllate dallo Stato Islamico».
A dire il vero l’Is ci dice quello che vuole che sappiamo attraverso Twitter e Facebook, nascondendoci quello che non vuole farci sapere. Quindi attenzione a cosa vi raccontano su questa guerra, che ne parlino bene, male o con indifferenza. Senza un giornalismo indipendente sul campo ci aspettano delle sorprese. Se non vai, non sai. © The New York Times Traduzione di Emilia Benghi

Repubblica 4.11.14
L’amaca
di Michele Serra

CON apprezzabile fatica la giornalista arabo-israeliana Rula Jebreal ha tentato di spiegare a uno sbrigativo comico americano che “Islam” vuol dire troppe cose perché se ne possa parlare un tanto al chilo. Guardatevi, se ne avete tempo, il video: perché è a noi tutti, ciascuno nel suo, che toccherà affrontare in futuro questa discussione. E non per una banale questione di “correttezza politica” o di etica democratica; ma per l’assoluta, urgente necessità di affrontare il terrorismo e il fanatismo jihadista evitando il marchiano errore di “regalare” a quel campo d’odio e di regressione più di un miliardo di persone, tanti quanti sono i musulmani. L’islamofobia non è solo un pessimo esempio di pregiudizio e di ignoranza. È, in questo momento, un tremendo errore politico, che ingrassa il motore del terrorismo, radicalizza le differenze, spaventa gli inermi e i neutrali (cioè la stragrande maggioranza degli umani) convincendoli che è in atto un ferale “scontro di civiltà” e dunque è necessario schierarsi da una parte o dall’altra. Chi alimenta l’ostilità per “i musulmani” in quanto tali è perfettamente speculare alla predicazione violenta delle madrasse dove si insegna a odiare tutto ciò che non è Islam. Il terrorismo conta sul panico e teme la lucidità. Dire che “l’Islam vuole distruggerci” è puro panico, zero lucidità.

il Fatto 4.11.14
Cina, l’ossessione delle “quote” e il traffico dei cadaveri
Il potere centrale esige la cremazione di un certo numero di persone per evitare l’occupazione di terreni, ma non tutte le regioni riescono a soddisfare la richiesta
E così molti funzionari si trovano “costretti” a trafficare in cadaveri...
di Ilaria Maria Sala

qui

Corriere 4.11.14
Azzariti, un antisemita alla Suprema Corte
Lavorò alle leggi fasciste, anche quelle contro gli ebrei
Ma grazie a Palmiro Togliatti fu riabilitato e promosso
di Gian Antonio Stella


Cosa ci fa il busto del presidente del Tribunale della razza nel corridoio nobile della Corte costituzionale? È insopportabile, dopo aver letto finalmente un’inchiesta stringente, documentatissima e implacabile sulla vita di Gaetano Azzariti, sapere che un uomo così arrivò, grazie alla lavanderia di Palmiro Togliatti, alla presidenza della Suprema Corte senza che alcuno gli rinfacciasse il ventennio passato a confezionare leggi su misura per il Duce e per la caccia all’ebreo.
Ben 45 libri, saggi e discorsi vari ci sono, nel catalogo delle biblioteche italiane, con Azzariti nel titolo o tra gli autori. Non uno cita la sua devozione fascista e razzista. Così come non ne parlano mai, lo diciamo arrossendo, gli articoli nell’archivio del «Corriere». Mai. Dopo la morte, anzi, l’«Informazione» si spinse a scrivere che con la sua elezione alla Consulta era stata «coronata la carriera di un uomo che aveva dedicato tutta la sua vita al trionfo della giustizia e della verità».
Non è così. E lo dimostra un saggio di Massimiliano Boni, consigliere della Corte costituzionale. S’intitola Gaetano Azzariti: dal Tribunale della razza alla Corte costituzionale pubblicato dalla rivista «Contemporanea» del Mulino. Un saggio che, documenti alla mano, ricostruisce la vita di Azzariti, dalla nascita a Napoli nel 1881 (nonno, padre e due fratelli magistrati) alla carriera di altissimo burocrate all’ufficio legislativo del ministero della Giustizia che comandò negli anni in cui il fascismo si impossessò dello Stato, dal 1927 al 25 luglio 1943, quando Mussolini fu rovesciato e lui si riciclò come guardasigilli «tecnico» per un mese e mezzo nel governo Badoglio, precipitandosi a concedere l’immediata scarcerazione dei detenuti politici.
C’è chi dirà: furono tanti i giudici che applicarono le leggi fasciste. Vero. E la Repubblica non poteva certo processarli tutti. Ma lui non si limitò ad applicarle: le fece. Come scrive Silvia Falconieri nel libro La legge della razza (Il Mulino, 2012), non bastò proclamare la superiorità della stirpe: la razza divenne «affare dei giuristi». E lì, spiega Boni, fu «necessario selezionare un ceto di chierici che da un lato traducesse in norme e provvedimenti quanto deciso a livello politico, dall’altro fornisse un fondamento teorico al nuovo corpus di norme».
Azzariti è in prima fila: «I documenti attestano la piena partecipazione di Azzariti al processo di edificazione della legislazione fascista, compresa quella razziale». Il Duce se ne fida al punto di promuoverlo nel 1939 alla testa del Tribunale della razza. Un ruolo svolto con zelo fino alla caduta del regime. Lo dimostra un discorso del 28 marzo 1942. Dove si compiace che «l’egualitarismo dominante (…) senza differenza di età di sesso di religione o di razza», non sia più «una specie di dogma indiscutibile»: col fascismo «ora è relegato in soffitta». E afferma che «la diversità di razza è ostacolo insuperabile alla costituzione di rapporti personali, dai quali possano derivare alterazioni biologiche o psichiche alla purezza della nostra gente». Infame.
Non è l’«errore di gioventù» di tanti ragazzi allevati nel culto del Duce. Quando sputa sui diritti inalienabili con la tesi che «nel campo del diritto non esistono “immortali principi”, i quali, del resto, anche fuori del campo giuridico sono ormai morti o agonizzanti», Azzariti è un sessantunenne laureato da quaranta. È il più potente burocrate del ministero. È il capo di quel Tribunale della razza, spiegherà il grande accusatore Raffaele Gioffredi, istituito per «arianizzare», inventandosi una madre adulterina e un padre ariano, «gli israeliti cari al cuore del Duce» o «quelli che più fossero disposti a mollar danaro, ville, gioielli o altre utilità di gran pregio». È insomma in primissima fila tra quanti selezionano chi nel 1943 sarà salvato e chi verrà sommerso dall’Olocausto.
Questo fu, Gaetano Azzariti. Premiato, accusa Boni, anche da una pioggia di prebende: un documento dell’Alto commissario per l’epurazione «riassume l’elenco dei pagamenti a lui effettuati, tra il 1932 e il 1943, ulteriori a quelli percepiti come ordinarie competenze mensili di stipendio e indennità accessorie». Fedele al fascismo sì, ma non gratis…
Come fece, uno così, a uscire indenne dalla caduta del Duce? Per cominciare, spiega Boni, ebbe la «fortuna» che tutti gli atti dei processi del Tribunale della razza, prodigio prodigioso, sparirono. Tutti. A seguire, contando sull’omertà di una rete di rapporti intessuta per decenni, affrontò l’inchiesta truccando le carte. «Ha fatto parte di uffici o commissioni razziali?», chiede il questionario. E lui risponde: «No. Fece però parte di una commissione tecnico-giuridica, composta in prevalenza di magistrati (…) che consentiva di far dichiarare ariane le persone le quali dagli atti dello stato civile risultavano ebree. Parecchie famiglie israelite furono così sottratte ai rigori delle leggi razziali». In poche righe, commenta Boni, «tutto è rovesciato, il nero diventa bianco». «Ha fatto pubblicazioni o conferenze di carattere razziale?». «No». «È stato autore di libri, opuscoli e pubblicazioni in genere, avente anche indirettamente carattere politico?». «No».
«Un documento indirizzato al presidente della Commissione per l’epurazione, datato ottobre 1944», insiste Boni, «descrive Azzariti come componente di una “cricca” (sic) che orbita attorno ai ministri di Grazia e giustizia che si sono succeduti nel ventennio fascista», gli attribuisce «la competenza a “rivedere” e “compilare” tutte le leggi», ricorda la sua ammirazione per il fascismo e la sua presidenza alla «commissione di persecuzione degli ebrei».
Il «parere conclusivo» è duro: il magistrato va messo subito «a riposo». Ma lì, sulla minuta conservata negli archivi, una mano misteriosa scrive: «Non lo ritengo opportuno». Chi lo scrive? Non si saprà mai. La stessa firma in calce alla relazione è cancellata. Sono ignorate anche le denunce del giudice Gioffredi: «Bastava si accennasse qualche idea del provvedimento legislativo repugnante (sic) ai più elementari principi del diritto e della coscienza civile, perché egli la formulasse e riducesse in tanti articoli delle così dette norme giuridiche (…) accompagnandole con relazioni e commenti apologetici che la mano di ogni onesta persona si sarebbe rifiutata di sottoscrivere».
Tutto evapora nel nulla. Gli italiani sono occupati a tornare a vivere. Gli ebrei sopravvissuti devono ancora riprendersi dal trauma. Nei giornali son tanti ad aver la coda di paglia. Ma è Togliatti a dare l’ultima sbiancata alla fedina di Azzariti. Prendendoselo come collaboratore al ministero della Giustizia. Pochi anni e il presidente del Tribunale della razza salirà alla presidenza della Corte costituzionale. Dove ancora oggi c’è quel busto. Che ci ricorda come in Germania, lo racconta il film Vincitori e vinti , i giudici più compromessi col nazismo finirono a Norimberga e da noi al Palazzo della Consulta. E nessuno dice niente?

Corriere 4.11.14
Bruno Bottai, il diplomatico amico di Dante
di P. Pan.


Oggi la camera ardente a Palazzo Firenze (piazza Firenze 27, Roma) e domani, alle 10, i funerali a Santa Maria in Trastevere per Bruno Bottai, figura di spicco nella cultura italiana, diplomatico, presidente della Società Dante Alighieri ed emerito della Fondazione Balzan.
L’ambasciatore Bruno Bottai era nato a Roma il 10 luglio 1930. Era figlio di Giuseppe Bottai, governatore di Roma, di Addis Abeba e ministro della Educazione nazionale di Benito Mussolini, una delle figure più importanti del regime fascista sotto il profilo culturale. Bruno era entrato a 24 anni in carriera diplomatica, rivestendo la carica di vice console a Tunisi e rappresentante italiano presso la nascente Comunità Europea dal 1958 al 1961. Ha poi seguito gli sviluppi europei negli anni di servizio alla segreteria generale del ministero quale capo del Servizio coordinamento (1961-66) e alla presidenza del Consiglio quale consigliere diplomatico del presidente (1970-72). Fu poi capo del servizio stampa della Farnesina (1972-76) e ambasciatore presso la Santa Sede (1979-81), carica rivestita di nuovo dal 1994 al ‘97. Ambasciatore di grado nel maggio 1981, ebbe successivamente incarichi di direttore generale degli affari politici (1981-85), ambasciatore a Londra (1985-87) e segretario generale della Farnesina (1987-94). Dall’aprile del 1995 era presidente della Società Dante Alighieri. Era anche presidente emerito della Fondazione Premio Balzan, già presidente del consiglio di fondazione dal 1999 al 2013, e aveva conferito al Premio «un inestimabile contributo di sensibilità e passione», si legge in una nota diramata dalla stessa Fondazione.

Corriere 4.11.14
Noi, i pessimisti. Ci mancano i sogni
L’Italia che non sogna più: al 134° posto su 142 Paesi
Spagnoli e francesi temono meno il futuro
Ci superano in ottimismo anche ucraini e thailandesi
di Beppe Severgnini


E ra l’ultima certezza: nonostante tutto siamo un popolo resiliente e tenace, capace di reagire alle difficoltà! Il timore è che non sia più così. Forse stiamo perdendo anche l’ottimismo. Il rapporto Prosperity Index 2014, appena pubblicato dal Legatum Institute, ogni anno mette a confronto 142 Paesi. Nell’indice di prosperità siamo scesi al 37° posto, perdendo cinque posizioni rispetto al 2013.
L’Italia registra i picchi negativi alle domande «L’economia andrà meglio?» e «È un buon momento per trovare lavoro?»: siamo 134° su 142 Paesi. Siamo più pessimisti di spagnoli (132°), francesi (120°) e ucraini (107°). Uscendo dall’Europa, più di peruviani (36°) e thailandesi (quarti!). Le grandi masse cinesi e indiane (rispettivamente 54° e 67°) sono più ottimiste di noi.
Sorprendente? Non tanto. L’ottimismo delle nazioni non è legato ai numeri, ma alle prospettive. Non ai fatti, ma alle percezioni e alle aspettative. Gli umani sono esseri sognatori e misurano la felicità sul progresso. È un grande sabato del villaggio globale: e in Italia stiamo perdendo il gusto del dopo. Kazaki (30°) e uruguayani (43°) non stanno meglio di noi, oggettivamente; ma sono convinti che oggi sia meglio di ieri e domani sarà meglio di oggi. Queste cose contano, nella vita delle persone, delle famiglie e delle nazioni.
I più grandi masticatori di futuro vivono negli Usa. Non dipende solo dall’economia e dall’occupazione (248.000 nuovi posti di lavoro in settembre). Vecchi residenti o nuovi arrivati, gli americani sono convinti di poter condizionare il proprio futuro. Gli Stati Uniti sono una nazione fondata sul trasloco, nuove residenze e nuove conoscenze. Ogni presidenza è una catarsi; ogni elezione un inizio; ogni lavoro una sfida. Il fallimento, che in Italia è un marchio d’infamia, negli Usa vuol dire: almeno ci ho provato.
Non possiamo, né dobbiamo, scimmiottare l’America. Ma dobbiamo ammettere che il nostro realismo è diventato cinismo, e il cinismo ci sta conducendo al pessimismo. I continui, pessimi esempi pubblici — 5,7 miliardi l’anno il costo della corruzione, stimano Guardia di Finanza e Corte dei Conti — contribuiscono a questo umore. Altrove non accade. I Paesi che hanno una libertà di informazione simile alla nostra non hanno la nostra corruzione; e i Paesi che hanno la nostra corruzione non hanno la nostra libertà di informazione. Una consapevolezza scoraggiante, quella italiana.
L’economia e l’occupazione influiscono sull’umore collettivo; e l’umore collettivo, lentamente, diventa narrativa nazionale. Quali Paesi possiedono oggi la capacità di vedere se stessi come protagonisti di una storia che va avanti? Dell’America, abbiamo detto. Cina e India, in competizione tra loro e col resto del mondo, hanno una visione epica di questo momento storico. In Europa è una tranquilla consapevolezza che accomuna Germania e Polonia, Irlanda e Regno Unito. Perfino la Russia ha un’idea di se stessa. Putin, in cerca di consenso, ha rispolverato i miti sovietici. In mancanza di meglio, molti connazionali gli hanno creduto.
L’Italia ha saputo raccontarsi negli anni Sessanta, quando l’economia tirava e le famiglie sognavano (sì, anche grazie a un’automobile o a un elettrodomestico). A metà degli anni Ottanta, quando ha intravisto il sorpasso dell’Inghilterra. Nei primi anni Novanta, quando ha provato a battersi contro il malaffare. Negli anni Duemila, quando la maggioranza ha creduto al «contratto con gli italiani» di Silvio Berlusconi. Tre illusioni e tre delusioni, seguite da questi anni di crisi economica.
Facciamo fatica a sognare ancora.

Corriere 4.11.14
De Masi: ci deprimono redditi bassi da decenni
intervista di Leonard Berberi


«Il rapporto conferma che siamo depressi e disorientati. Nel resto dell’Europa non va meglio, ma noi siamo tra i meno entusiasti».
Domenico De Masi, sociologo dell’Università «La Sapienza» di Roma, sostiene che il Prosperity Index «fotografa quello che vedo da qualche anno: Paesi come Brasile e Cina galoppano, noi arretriamo».
Ci classifichiamo male per i nostri risultati economici?
«Non solo. Storicamente gli andamenti culturali seguono delle curve che vanno su e giù, dall’entusiasmo alla depressione. Oggi ci sono nazioni che stanno vivendo un periodo di prosperità economica ma in parallelo anche una fase di vivacità sociale. Noi non siamo tra questi».
E dove ci collochiamo?
«Dove dice quella classifica, forse qualche gradino più in basso. E non può essere altrimenti: il nostro reddito non cresce come dovrebbe dal 1952 e da tempo siamo in attesa che succeda qualcosa. Ma se non si muove nulla quello che si prospetta è una lunga fase di realismo».
L’Italia quindi è depressa, disorientata e realista?
«Sì, ci stiamo accorgendo che le finanze personali sono peggiorate e che il problema non è la produzione, ma la distribuzione del denaro. Siamo meno ricchi di prima e stiamo perdendo il nostro posto nel mondo che conta. Guardiamo al passato».
Abbiamo smesso di progettare...
«Certo. Ma se non lo facciamo noi qualcun altro lo farà per l’Italia. Ed è ovvio che questo non avverrà nell’interesse del nostro Paese».
Però alla domanda «puoi contare sui parenti o sugli amici per un aiuto?» l’Italia si colloca dodicesima...
«Il “familismo” da noi funziona ancora. Ma non dimentichiamoci delle sue conseguenze negative: il clientelismo, l’assenza di meritocrazia...».

Corriere 4.11.14
Franz Schubert. Furore creativo prima della fine
di Paolo Isotta


La enormi tragedie della storia della musica sono la morte precocissima di Pergolesi e Bellini e quella, a quarantatré anni, del cardinale Rodolfo d’Asburgo, l’amico di Beethoven, un mecenate che per intelligenza, cultura e generosità può esser paragonato solo al settecentesco cardinale Pietro Ottoboni. Ma la tragedia somma è la morte di Franz Schubert, avvenuta il 19 novembre 1828. Schubert aveva dato impareggiabilmente; ma, a differenza di Mozart, non ancora nella misura che dal Creatore gli era stata concessa e poi, atrocemente, revocata. Solo Agostino il Filosofo potrebbe spiegarci perché il Creatore ha voluto così. Quando la morte giunse era passato appena un anno e mezzo da quella di Beethoven; e qui risiede una spiegazione della fioritura, immensa e tale che nella storia di tutte le arti non v’è alcuna possibilità di paragone. Colla morte di Beethoven Franz provò un immenso dolore ma si tolse dallo stomaco, a voler essere brutali, un ancor maggiore peso. Fu privato della remora che, per troppa lungimiranza, gl’impediva di accedere allo stile eroico e sublime, pur toccato se non sistematicamente. Nell’ultimo anno egli compone opere che rivoluzionano la forma musicale (le Sonate pianistiche e il Quintetto) e altre che rappresentano nuove possibilità nell’interpretare il testo della Messa, dopo il culmine della Solemnis di Beethoven.
Sandro Cappelletto scrive un bellissimo libro proprio su questo tema: Da straniero inizio il cammino – Schubert, l’ultimo anno (Biella, Accademia Perosi editore, pp. 240, e 24). Egli parte, con una trascinante analisi, dall’unico concerto dedicato solo a sue composizioni che Schubert nella vita ottenne, nel marzo del 1828; e poi descrive la febbrile ebbrezza creativa e i miracoli prodotti grazie a essa, molti dei quali eseguiti tanti anni dopo la morte del Maestro. L’autore conosce mirabilmente la biografia, le fonti e l’ambiente sociale e artistico nel quale il dramma finale si svolge.
Resta una vera e propria crux : quanto era consapevole Schubert che fosse per morire in breve spazio? E quanto, un’eventuale consapevolezza, incide sull’ansia creatrice? Un fatto è che Schubert era scisso tra ottimismo e nichilismo; e certe sue opere estreme, come il ciclo di Lieder Il viaggio d’inverno , sono una potentissima affermazione di nichilismo. Ma nei capolavori dell’ultimo anno io vedo un ottimismo eroico e addirittura volontà di potenza. Faccio un esempio a pro dell’ottimismo e uno a pro del nichilismo. L’ultima opera importante di Franz, dell’ottobre, è il grandioso Offertorio Intende voci orationis meae ; ma l’ Agnus Dei della Sesta Messa si basa su di un tema ch’egli adopera anche a base dell’atroce Lied Der Doppelgänger , ossia Il sosia : il che in altri anni m’indusse a sostenere l’erronea tesi che Schubert intendesse sostenere che l’Agnello di Dio è solo un sosia.
Nella prospettiva sono dunque diviso da Cappelletto; ma non pretendo di aver ragione. Onde auguro al libro il maggior numero possibile di lettori affinché ciascuno si faccia la sua idea.

Corriere 4.11.14
L’America maccartista. E l’Europa dei fanatismi   
risponde Sergio Romano


Il «maccartismo» è un periodo nella storia degli Stati Uniti caratterizzato da un intenso sospetto anticomunista e durato dall’immediato dopoguerra fino al 1954. Potrebbe descriverci il clima di allora e chi ne fece le spese? Il termine «maccartismo» è successivamente entrato in uso nel dibattito pubblico, per indicare in maniera estensiva un clima di sospetto generalizzato (da Wikipedia). Il principale problema che incombe (oggi e sempre più in futuro) sul mondo occidentale è come fronteggiare la minaccia terroristica, proveniente dall’estremismo islamico. Non è tanto un esercito che preoccupa, quanto i cosiddetti «lupi solitari», individui pronti ad immolarsi, comunque e ovunque, per la «giusta causa», creando più danno possibile a persone e cose. A mio avviso, esiste una sola soluzione: arrestare tutti i sospetti, prima che sia troppo tardi! A male estremo, estremo rimedio!
Arturo Passalacqua

Caro Passalacqua,
Qualche parola anzitutto sul «maccartismo». Il clima politico a cui la parola allude fu opera soprattutto di un senatore repubblicano del Wisconsin, Joseph McCarthy, che divenne enormemente popolare, all’inizio degli anni Cinquanta, per le sue velenose campagne contro i «numerosissimi comunisti» che, a suo dire, si erano infiltrati nella pubblica amministrazione, negli ambienti intellettuali, nei mezzi d’informazione e soprattutto nel mondo dello spettacolo. Esistevano in effetti scrittori e sceneggiatori che avevano visto nel New Deal del presidente Roosevelt la promessa di un socialismo americano e si erano iscritti al Partito comunista degli Stati Uniti. Ma la Guerra fredda, le campagne di McCarthy e il caso dei coniugi Rosenberg, condannati a morte per avere trasmesso all’Unione Sovietica informazioni segrete sulla costruzione della bomba atomica, crearono una «red scare» (paura dei rossi) che ricorda quella scoppiata nel primo dopoguerra e di cui furono vittime gli anarchici italiani Ferdinando Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Le vittime della seconda «scare» furono soprattutto gli scrittori e gli sceneggiatori che vennero convocati da un Comitato senatoriale per le attività antiamericane e rifiutarono di fare il nome di coloro che avevano aderito alla stessa cellula. Fece grande scandalo, in quegli ambienti, il caso di un grande regista cinematografico, Elia Kazan, che dopo una prima esitazione accettò di parlare e denunciò una decina di compagni.
Il maccartismo durò poco più di tre anni e la sua stella cominciò a impallidire quando la grande maggioranza degli americani capì che il veleno sparso dal senatore repubblicano avrebbe fatto dell’America un Paese meno democratico. Alla fine McCarthy fu sconfitto dalla volgarità dei suoi interventi, dalla sua propensione all’alcol e da una epatite che lo stroncò nel 1957, all’età di 48 anni.
Spero che questo ricordo del maccartismo, caro Passalacqua, la dissuada dal pensare che la battaglia contro il fanatismo islamico possa essere vinta «arrestando tutti i sospetti». La frase viene attribuita ironicamente a quei poliziotti che non sapendo come tranquillizzare i loro superiori quando l’opinione pubblica è preoccupata da un pericolo, reale o immaginario, pescano a piene mani fra i nomi di coloro che sono stati schedati, per una ragione o per l’altra. È un sistema illiberale e, per di più, produce effetti opposti a quelli desiderati.

Repubblica 4.11.14
Tutta la verità del mondo è racchiusa in una sfera
L’opera monumentale del filosofo Peter Sloterdijk rilegge l’intera avventura umana attraverso la più suggestiva delle figure geometriche: dalla polis fino all’era globale
La prima “bolla” ci fu nell’antichità: mito e trascendenza controllavano le forme sociali
di Antonio Gnoli


PETER Sloterdijk è un personaggio insolito. Metamorfico. Lo conobbi una decina di anni fa. Era agli esordi di una popolarità che nel tempo sarebbe cresciuta. L’incontro avvenne nel contesto del bellissimo festival di cinema che Enrico Ghezzi organizzava a Procida. Sloterdijk si aggirava spesso solo. Timido e intimidente. Presentò un documentario su un volo spaziale. Di quelle imprese che si affrontavano negli anni Settanta.
Mi sembrò singolare che un filosofo invece di parlarci di Platone, Aristotele o Kant ci intrattenesse sulle foto della Nasa e sulla stazione spaziale Mir, vista fantasiosamente come una sfera. Quei voli — commentò Sloterdijk — dimostravano come la tecnica era diventata un’entità “trascendente”. Superava, una volta per tutte, i confini che la Terra con la sua conformità rotondeggiante si era da sempre data. Il volo spaziale aveva inoltre sciolto quel nesso gerarchico tra alto e basso di cui la metafisica era stata per lungo tempo garante assoluta.
Ho ritrovato qualche spunto di quella storia nelle parti conclusive di Sfere che esce ora nelle edizioni di Raffaello Cortina in due ponderosissimi volumi (con una intensa introduzione di Bruno Accarino e la cura ottima di Gianluca Bonaiuti). Sempre sul punto di esplodere, per eccesso di immaginazione e di stravaganza, il libro si presenta come una straordinaria nave dei folli. Del resto, la navigazione ha un posto notevole nella riflessione di Sloterdijk. Il quale — sulla falsariga del suo illustre predecessore, Oswald Spengler — prova a riscrivere la storia del mondo occidentale attraverso il nascere e morire delle civiltà delle sfere.
Perché, ci si potrebbe chiedere, Sloterdijk privilegia proprio questa forma geometrica? Nelle sfere, come pure nella trasformazione in globi, in bolle, e in schiuma (l’ultima sostanza caotica che contraddistingue, a quanto pare, la nostra contemporaneità), il filosofo tedesco simboleggia il riprodursi di certi ambienti vitali che fin dall’antichità (si pensi alla casa, al villaggio, ma anche al ventre materno) hanno immunizzato la vita sociale dell’uomo. Ciò che Sloterdijk ci prospetta è una originalissima storia della globalizzazione, di cui conosciamo i recenti effetti, ignorandone l’origine, le scansioni, gli sviluppi nel corso del tempo. La prima globalizzazione, ci avverte Sloterdijk, il mondo antico la realizzò nel controllo che la trascendenza e il mito seppero operare sulle forme sociali. La polis greca fu la prima vera bolla democratica. Il cui spazio politico contrastò quella “scienza del soffio” cui perfino Dio non si sottrasse, almeno da quando decise di animare due esseri che da perfette sfere divennero bolle precarie. Una “catastrofe sferologica”, osserva Sloterdijk, designò la cacciata dal paradiso.
La prima grande globalizzazione, dunque, è un evento che accade sulla scena teologica della creazione del mondo e nella testa di alcuni filosofi, le cui qualità speculative servono a controllare e domare l’impetuosità del reale. Le sfere sono lo spazio ideale che regola l’andamento del mondo, le sue pulsioni, le sue inopportune fragilità. Le sfere, in altre parole, sono un campo di forze circoscritto in grado di proteggere l’uomo da se stesso e dagli altri. Quello spazio, tutto interno, ci dice Sloterdijk, disegnò, a un certo punto, un “cerchio magico”. L’espressione oggi carica di una stanca ovvietà politica, nell’epoca premoderna, diede alla legge dell’intersoggettività — ossia ai rapporti fra gli uomini — la forma dell’incantamento. Perché contro ogni previsione illuministica Sloterdijk vede nell’uomo un essere irrazionale, esposto alla trance, al sonnambulismo, alla possessione. E quando la fascinazione era la regola tra gli uomini, il disincanto rappresentava l’eccezione.
Con l’affermazione del moderno il disincanto da eccezione diventerà il sentimento prevalente. L’uomo non si aspetta più niente che non sia prodotto dalla sua scienza e dalla tecnica. Sloterdijk fa coincidere questo processo di esteriorizzazione con le grandi avventure oceaniche che interesseranno l’Europa a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento. Le traversate, in nome delle scoperte e del commercio, daranno vita alla seconda grande globalizzazione. Grazie alla quale “non sono più i metafisici, bensì i geografi e i navigatori ad avere il compito di disegnare la nuova immagine del mondo”. A costoro verrà affidata la pratica anticontemplativa di ridurre i rischi che ogni grande navigazione, soprattutto transoceanica, presenta. Alle società di assicurazione spetterà il ruolo che un tempo ricoprivano le religioni. La sola metafisica che viene adottata è quella del denaro. E sebbene nel mondo tutto si diversifica e cambia, continuerà a vivere un Dio la cui moneta liturgica saprà tenere insieme anche le cose più diverse.
Nell’età del moderno tutto tende a proiettarsi verso un esterno sconfinato dove possono nascere nuove e provvisorie sfere. Le sole durature, ma oggi agonizzanti, sono gli Stati nazione che proprio in quel periodo fanno la loro comparsa. Per Sloterdijk anche nello spazio post-metafisico della modernità la sfera conserva il compito di proteg- gere l’uomo, ricondurlo a una sorta di idillio materno, in quel ventre dove la nascita ha avuto luogo al riparo da tutto.
Sfere è un libro strano, esuberante, immerso in una specie di liquido barocco. Un libro che rimpiange l’uscita definitiva dalle antiche sfere, dalle antiche case. Il mondo si è ormai trasformato in un’incredibile avventura termica. Fuori incombe e si propaga il freddo raggelante che la modernità con il suo illuminismo ha creato e combattuto con il calore artificiale. «Cosa abbiamo fatto liberando questa terra dal suo sole?» si è chiesto Nietzsche. La tecnica nei suoi processi emancipatori, con le sue potenti accelerazioni novecentesche, è il tentativo di soffocare nella comodità l’interrogativo posto da Nietzsche.
La seconda parte di Sfere si conclude con un capitolo intitolato Air conditioning . L’Occidente, nei suoi sbalzi di temperatura, negli stravolgimenti climatici, non può più fare a meno delle tecniche del freddo e del caldo. «La tradizione di tutti i climi estinti pesa come un incubo sugli stati d’animo dei viventi», osserva minaccioso Sloterdijk. La sferologia di cui egli è inventore e interprete qui trova un punto di contatto con l’ecologia: con le scelte dalle quali dipenderà la salvezza del pianeta. Bisognerà rinunciare ad alcuni privilegi del passato. Siamo, quasi inavvertitamente, passati da un’epoca di grandi azioni a un’epoca di grandi temi.
Vista dal di fuori, da quelle foto satellitari che tanti anni fa il nostro commentava, ci si apre a un nuovo interrogativo di salvezza. Non c’è nulla nella tecnica che non sia già contenuto nella metafisica. Ma se quest’ultima ha fallito come immaginare che l’altra possa farcela? Come poter pensare che l’”aria condizionata” sarà un fattore di salvezza per la razza umana e non la sua definitiva condanna?

I LIBRI Sfere I (pagg. 593 euro 36) e Sfere II (pagg. 941 euro 39)sono i due volumi di Peter Sloterdijk a cura di Gianluca Bonaiuti ( Raffaello Cortina Editore)

Repubblica 4.11.14
L’Ingegnere e l’Olivetti la trasformazione di un’impresa nella crisi di fine Novecento
Dalle macchine da scrivere all’informatica e alla telefonia mobile
Nel saggio di Paolo Bricco le vicende della fabbrica di Ivrea fra il 1978 e il 1996, quando alla sua guida c’era Carlo De Benedetti
di Guido Crainz


FA pienamente parte della “storia d’impresa” il libro che Paolo Bricco ha dedicato a L’Olivetti dell’ingegnere (Il Mulino, pagg. 426, 20 euro) ma conduce in molti altri campi: la più generale storia economica del paese, il nesso fra economia e politica, o fra industria e sistema finanziario, e così via. Ha anche un ambito temporale definito (1978-1996), segnato appunto nella storia dell’azienda da Carlo De Benedetti. Anni di grandi trasformazioni: il loro inizio si colloca in un’Italia già segnata dal declinare della grande fabbrica (e con essa del sindacalismo tradizionale: è del 1980 la “marcia dei quarantamila” alla Fiat) mentre il sistema dei partiti inizia a mostrare i segni di una crisi drammatica (ed è del 1978 la cesura più traumatica, simboleggiata dall’assassinio di Aldo Moro). Nella fase finale invece siamo già oltre il crollo della “prima repubblica”: o meglio, siamo all’avvio di quella “stagione di Berlusconi” che si nutre delle peggiori tare degli anni Ottanta.
In questo stesso arco temporale l’azienda passa dall’età dell’oro delle macchine da scrivere a quella dei computer, e poi oltre di essa: e in avvio è evocata la grande stagione di Adriano Olivetti, scomparso nel 1960, segnata da ansie utopiche e da ricchezza culturale, da solidarismo sociale e da capacità imprenditoriale (sin con il primo addentrarsi nell’era dei grandi calcolatori). Vi è poi la pesantissima crisi intervenuta alla sua morte: e sul palcoscenico del dramma olivettiano, annota Bricco, avanzano le figure di Bruno Visentini, Raffaele Mattioli, Enrico Cuccia e altri, con il Gruppo di intervento che salva l’azienda pur “congelandola”, in qualche modo (e privandola delle cellule proiettate nell’elettronica).
Nel 1978, dopo i lunghi anni trascorsi «nella camera iperbarica allestita da Mediobanca», per dirla ancora con Bricco, la Olivetti è «un’impresa senza imprenditore», con «un’organizzazione slabbrata» e un diffuso «senso di sradicamento da sé». In salute dal punto di visto produttivo, anche se fondamentalmente legata a una meccanica declinante, ma con una situazione debitoria pesantissima (siamo in uno scorcio d’anni in cui l’inflazione oscilla fra il 15 e il 20 per cento, e molte altre nubi si addensano). Inizia qui la storia della “Olivetti dell’ingegnere”, cui Visentini propone l’acquisto, e il libro è davvero “storia di impresa”, con una ricostruzione amplissima, quasi monumentale: sin troppo, in qualche tratto, per il lettore non specialista, che qua e là rischia di smarrirsi (e con una presenza talora eccessiva, forse, della “voce” dello stesso De Benedetti, anche se non manca qualche significatini vo controcanto).
L’uscita dal tunnel della fine degli anni Settanta si connette rapidamente a uno sviluppo dell’azienda incentrato su due assi. Da un lato un risanamento profondo, con una «violenta razionalizzazione manageriale », una forte ristrutturazione finanziaria, un «controllo di gestione che diventa una sorta di ossessiva, ed efficace, filosofia di impresa», e una riduzione drastica del personale che infrange quel «mito della narrazione olivettiana che rendeva il posto di lavoro un diritto intangibile ». E dall’altro un riorientamento verso l’elettronica in parte già avviato, e poi la piena e precoce immersione in quella dimensione informatica — a partire dai primi personal computer dell’azienda, nel 1982 e soprattutto nel 1984 — che segna in profondità gli an- Ottanta (anni che vedono maturare nel nostro paese la crisi della grande impresa pubblica e privata).
Nel 1985 il Time può dedicare la copertina a L’incredibile ritorno della Olivetti, e l’anno successivo l’azienda sale al decimo posto fra le aziende informatiche. Diventa qui centrale lo scenario internazionale, e il libro lo scandaglia su più versanti: la competizione e al tempo stesso la ricerca di differenti sinergie, ma anche le occasioni perdute, le intraprese difficili, le intuizioni solo parzialmente concretizzate. E poi il passaggio dalla rapidissima ascesa ad un declino quasi altrettanto rapido, in un contesto scandito dalla crisi internazionale delle aziende informatiche di matrice fordista e al tempo stesso dal tracollo del nostro sistema paese (in una degenerazione del rapporto fra politica e imprese che tocca anche “l’Olivetti dell’ingegnere”). Si collocano in questo scenario sia la “tempesta perfetta” che travolge l’azienda fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del decennio successivo, sia quell’intuire le potenzialità della telefonia mobile che le permetterà di sopravvivere a se stessa, per così dire, a differenza di altri gruppi. Mutando radicalmente ruolo, fisionomia e assetti: e questo passaggio all’economia della conoscenza e dei servizi pone più generali domande sulla traiettoria dell’informatica e sulla fuoriuscita produttiva dal Novecento.
IL LIBRO L’Olivetti dell’Ingegnere di Paolo Bricco (Il Mulino, pagg. 426, euro 20) esce giovedì e sarà presentato lunedì 10 a Milano, alla Bocconi, da Carlo DeBenedetti, Michael Spence e Giuseppe Berta