mercoledì 5 novembre 2014

il Fatto 5.11.14
“Brittany senza dignità” Vaticano contro la web-morte
Monsignor Carrasco critica l’eutanasia della malata terminale americana
di Caterina Minnucci


La dignità è un’altra cosa rispetto a mettere fine alla propria vita. Non giudichiamo le persone ma il gesto in sé è da condannare”. Lo ha dichiarato il presidente della Pontificia Accademia per la Vita, monsignor Ignacio Carrasco de Paula, commentando il caso di Brittany Maynard. Colpita da un tumore inguaribile al cervello, sabato sera la 29enne americana ha messo fine al suo calvario ingerendo un farmaco che provoca la morte in pochi minuti, senza dolore.
Per riceverne la somministrazione si era trasferita, con suo marito Dan, da San Francisco all'Oregon, uno degli Stati che offre protezione legale ai malati terminali che decidono di ricorrere all'eutanasia. “Se il 2 novembre arriva e sono morta, spero che la mia famiglia sarà ancora orgogliosa di me e delle scelte che ho fatto” aveva detto Brittany nel video che ha scosso l'opinione mondiale, visto più di 9,5 milioni di volte su Youtube e che ha riacceso il dibattito sul tema della “dolce morte”.
Il “ministro” vaticano della Bioetica ha aggiunto: “È una questione che pone molte domande, una a esempio è come mai proprio questo caso abbia avuto tanta risonanza nell’opinione pubblica, ovviamente per la coincidenza con una situazione di tipo elettorale”. Un tema cruciale per Obama alle elezioni di Mid-term, un tema che in Italia è diventato un problema, l'eterna discussione tra etica e diritto che fatica a trovare uno spazio in sede legislativa con la proposta di legge popolare impantanata in parlamento dallo scorso anno. “Senza alcuna discussione in commissione”, denunciano i Radicali Italiani.
PAPA FRANCESCO invita alla riflessione demonizzando il falso modello di società nascosto dietro questa scelta e aggiunge: “Favorisce la cultura dello scarto, quella per cui ciò che diviene un peso per la società viene buttato via”. “Il suicidio rappresenta per la Chiesa Cattolica la morte nel peccato, è quindi immeritevole di benedizione. Il gesto di Brittany – osserva ancora monsignor Carrasco - è in sé da condannare. Una morte così non ha assolutamente nulla di degno, la Chiesa ricorda che ci sono cose che si possono fare e altre no, procurarsi la morte è un sostituirsi dell’uomo a ciò che solo Dio può togliere o dare”.
Il Vaticano in alcuni casi, non di suicidio assistito, ha permesso la sospensione del giudizio con la concessione delle esequie. Non è avvenuto infatti per Piero Welby, simbolo della lotta per il riconoscimento legale del diritto al rifiuto dell'accanimento terapeutico e per il diritto all'eutanasia, come era nei desideri della moglie cattolica che a proposito dichiara: “Non giudichiamo Brittany, la misericordia di Dio è più grande. Le parole del Vaticano sono ingiustificabili”, ha detto Mina Welby, co-presidente dell’Associazione Luca Coscioni: “Non credo che Dio non porga un abbraccio a Piero o alla coraggiosa Brittany. Quello che monsignor Carrasco e come lui molti altri non comprendono è che il suicidio assistito o l’eutanasia non sono affatto in contrapposizione con le cure palliative e l’assistenza”.
Domani in prima serata la Rai, a pochi giorni dalla morte di Brittany, trasmetterà “La Bella Addormentata” di Marco Bellocchio ispirato alla storia di Eluana Englaro. Suo padre Beppino a chi gli chiede un commento risponde: “È stata una libera scelta, e va rispettata per quello che è, ma si tratta di un suicidio assistito, un caso assai diverso da quello di mia figlia”.

La Stampa 5.11.14
Dignità
di Massimo Gramellini


Per il Vaticano la scelta della malata terminale californiana Brittany Maynard di anticipare di qualche settimana una fine dolorosa e scontata è da considerarsi «priva di dignità». La Chiesa ha ovviamente tutto il diritto di fare la Chiesa e di interpretare i dettami della divinità a beneficio di coloro che le riconoscono la funzione di intermediaria. Ma definire indegna la decisione di una donna colpita da un tumore devastante al cervello significa non sapere più dove stia di casa la parola «umanità». Nelle astrazioni della dottrina si possono anche costruire scintillanti cattedrali di ghiaccio. Ma la vita, per chi la conosce e la ama, è un’altra storia e ci racconta che qualsiasi strada percorsa con coraggio conduce a destinazione. Una persona che combatte fino all’ultimo contro il dolore e l’umiliazione della malattia ha la stessa dignità di chi preferisce sottrarre il suo corpo e i propri cari a un simile strazio.
Nessun condannato a morte si avvia volentieri al patibolo, a meno che sia un martire invasato: categoria di cui da sempre abbondano soprattutto le religioni. Se sceglie di anticipare l’esecuzione, è solo perché vuole andarsene con consapevolezza. C’è molta più dignità nelle lacrime di congedo della vitalissima Brittany che in chi, ancora una volta, ha deciso di salire sull’onda di un caso mediatico per zavorrare di aggettivi infamanti la libera e drammatica scelta di un essere umano.

La Stampa 5.11.14
Le vere domande di fronte a un suicidio
di Vladimiro Zagrebelsky


Ancora una volta un suicidio è stato accompagnato da un forte richiamo mediatico, preparato dalla stessa persona che ha deciso di togliersi la vita. Altri casi, anche in Italia, hanno avuto, per scelta espressa, grande risonanza mediatica. E questo aspetto, accanto a quello dell’atto in sé di abbandonare la vita, è stato oggetto di critica o almeno fonte di disagio; quasi che si trattasse di impudicizia o addirittura di esibizionismo, mentre un simile comportamento, quandanche inevitabile, richiederebbe almeno discrezione. Credo invece che debba riconoscersi che la gestione pubblica della propria scelta, in questo come in altri casi, ci costringe a pensare a ciò che si cerca di rimuovere, a pensare cioè agli altri e a noi stessi alla fine della vita. E cercare una risposta alla domanda giusta. Non chiedersi, cioè, perché consentire, ma domandare se sia lecito vietare. E in più considerare se consentire o vietare appartenga, non alla legge morale che ciascuno riconosce, ma alla legge dello Stato; alla maggioranza cioè in Parlamento, la quale come si sa non esprime la «volontà generale», ma più o meno quella di una parte degli elettori.
Perché vietare e con quale legittimità dovrebbero essere sempre le domande prioritarie. Se, come è in una società libera e rispettosa dell’autonomia delle persone, tutto ciò che non è vietato è lecito, occorrono buoni motivi per proibire. Esporli tocca a chi vuole imporre un divieto, non è chi rivendica una sua libertà che deve giustificarne il fondamento. Il fondamento dell’autonomia sta nella dignità della persona, la quale non ha da esser «gestita» da altri. Né la maggioranza (spesso pretesa, anagrafica) ha uno speciale diritto d’intervento. Ove un diritto o una libertà fondamentale sono in discussione, entra in gioco non il principio di maggioranza, ma quello contro-maggioritario. Non nel senso evidentemente che comandi la minoranza, ma in quello ovvio che la maggioranza deve inchinarsi davanti alla libertà di chi, se anche fosse solo, la rivendica. L’individuo deve essere protetto dalle pretese della dittatura della maggioranza. Si tratta di elementari principi di libertà e rispetto di ciascuna persona.
Il suicidio in questa parte del mondo non è più un delitto. Qui da qualche secolo ormai, chi tenta di uccidersi non è punito, né, se vi riesce, il suo cadavere è oggetto degli oltraggi usuali in tempi andati. E’ dunque accettato che l’individuo possa suicidarsi. Ed anzi, la compassione rispetto a un suicida e alla sua famiglia è maggiore di quella che accompagna una morte naturale. Si pensa a quanto debba aver sofferto chi decide di morire, quanto deve essergli stata insopportabile la prospettiva di continuare a vivere.
Tuttavia in paesi come l’Italia si ha compassione per chi si getta dalla finestra, ma si contrasta chi vorrebbe morire degnamente, nel suo letto, addormentandosi senza risveglio. Cosa di più crudele? Si dice che occorre proteggere le persone da azioni impulsive non meditate e questo sarebbe un motivo che giustifica il divieto nell’interesse pubblico generale. Certo la vigilanza rispetto alla reale e libera formazione della volontà della persona è non solo legittima, ma necessaria. Essa rappresenta il vero problema, come nel caso diverso, anche se confinante, del rifiuto di trattamenti medici o della loro continuazione. Vi sono però soluzioni, che – queste sì – dovrebbero essere imposte dalla legge e che invece un generale divieto lascia assenti e nascoste nella pratica reale della vita e della morte. Un esame medico collegiale, un tempo di riflessione in una procedura garantita, potrebbero proteggere la vera autonomia della volontà espressa dalla persona. Il Parlamento però continua a evitare di considerare gli aspetti di questi problemi che richiedono una disciplina.
Si tratta in ogni caso di argomento che riguarda il suicidio di chi, disperato, si getta nel vuoto, che infatti, se possibile, ne viene fisicamente impedito. Non vale per chi, esaminata la propria malattia, la penosità delle possibili terapie e la prognosi ineluttabile e atroce, sceglie di abbreviare la propria vita. Così, legalmente e attorniata dalla sua famiglia, ha fatto ora l’americana Brittany Maynard dopo aver dato una lezione di amore per la vita nella bellezza di questo mondo. Prima, tra mille difficoltà e battaglie legali l’avevano fatto altri anche in Italia. Altri ancora avevano dovuto passare il confine. Incapaci costoro di decidere? Persone da tutelare? Al contrario, persone lucide e consapevoli della propria libertà.
E’ difficilmente accettabile l’argomento secondo il quale occorre vietare a tutti, perché qualcuno potrebbe non essere pienamente consapevole e quindi libero. Annullando la individualità della sua condizione, l’argomento fa della persona singola lo strumento di una esigenza collettiva. E’ quanto ha ammesso la Corte europea dei diritti umani, affermando che la liceità o la punibilità dell’aiuto al suicidio, che pur interferisce nella vita privata della persona, rientra nell’ambito della valutazione discrezionale dell’interesse pubblico da parte dello Stato. Vero è che, decidendo il ricorso di una malata in gravissimo stato, che chiedeva di morire e il cui marito era disposto ad aiutare, lo ha detto sottolineando il fatto che nel sistema legale britannico, cui il caso si riferiva, prevedeva la ragionevole discrezionalità della decisione di accusare il responsabile dell’aiuto dato. Ma la tragedia di quella donna le è stata imposta fino alla fine, supponendo che l’interesse pubblico non fosse altrimenti tutelabile.
E’ arduo distinguere la liceità del suicidio dalla criminosità dell’aiuto al suicidio: come è stato nel caso americano o è nella pratica in uso in alcuni Paesi a noi vicini, si tratta dell’aiuto dato dal medico che fornisce o somministra il composto letale. Vi sono situazioni in cui il malato non è in grado di togliersi la vita, perché non può più muoversi o perché non gli è possibile da solo procurarsi le sostanze letali. Fermo il rispetto dell’obiezione di coscienza di chi fosse richiesto di aiutarlo a realizzare il suo proposito, non è ragionevole impedire a chi vuole, ma non può morire, di raggiungere lo scopo che potrebbe ottenere se le sue condizioni gli permettessero di agire da solo.
Questo non è un inno al suicidio. Se vivere a qualunque costo non è un dovere che possa essere imposto a chi non lo faccia derivare dalle proprie convinzioni morali, vi sono però situazioni in cui restare in vita è comunque di aiuto o conforto per altri, famigliari o estranei o la stessa collettività. Non si vive soli e spesso non si muore per sé soli. Ma chi avrebbe il coraggio o la presunzione di sostituire il proprio al giudizio di chi in quelle situazioni è immerso?

Corriere 5.11.14
Remo Bodei: «Un atto grave di cui va rispettato il coraggio»
intervista di El. Ser.


Remo Bodei, filosofo: davvero non c’è dignità nel mettere fine alla propria vita?
«La morte è un’ovvietà che non smette di sorprenderci e di interrogarci. Ma ogni storia è diversa, e ci vuole rispetto di fronte a quello che gli altri scelgono sulla loro pelle. Anche la Chiesa dovrebbe dimostrarsi un po’ più misericordiosa e cominciare ad applicare quel “Chi sono io per giudicare?” che il Papa ha pronunciato in un altro contesto».
Il suicidio «assistito» è diverso dal suicidio «tout court»?
«Il suicidio è sempre un atto gravissimo, perché non riguarda soltanto il singolo individuo, ma la famiglia, la società. Ma è un atto coraggioso, e questo lo rende degno».
Condivide la scelta di Brittany Maynard di rendere pubblica la sua morte?
«C’è forse un problema di spettacolarizzazione, che può risultare sgradevole. Ma in questo caso, diventa una testimonianza. Non condivido la crudeltà inutile che il dolore nobilita: chi ne stabilisce il limite?».

Repubblica 5.11.14
Lasciare la libertà di battersi fino alla fine o decidere di andare
di Michela Marzano


CI SONO momenti in cui battersi non serve più. Perché è troppo tardi, non c’è più niente da fare, non servirebbe. Oppure perché si è già combattuto a lungo, e non si ha più l’energia o la voglia di continuare a farlo. Soprattutto se si è in fase terminale di una malattia grave e incurabile, e si desidera solo che tutto finisca il più velocemente possibile.
Andandosene via con dignità, o con quel che ne resta quando si è da tempo devastati dalla sofferenza o dalla disperazione. Ecco perché nessuno dovrebbe permettersi di giudicare chi decide di ricorrere a un suicidio assistito, parlando talvolta con troppa leggerezza di “gesto assurdo” o, ancora peggio, di “negazione della dignità”, perché la dignità sarebbe altra cosa che mettere fine alla propria vita. Allora perché ancora tante polemiche dopo la morte annunciata di Brittany? Ci si può veramente permettere di affermare che la giovane donna abbia detto di no alla vita?
Il problema della vicenda di Brittany, in realtà, non è né quello dell’ipotetica assurdità del suo gesto, né quello della dignità violata. Il problema, forse, è altrove.
Nell’estrema mediatizzazione che ha avuto il suo suicidio. Ma anche nella banalizzazione delle scelte che si trova ad affrontare una persona cui i medici hanno dato pochi mesi di vita. Come se, in situazioni come questa, non si potesse fare altro che pianificare a tavolino la propria fine e smetterla di illudersi. Perché non cercare di lottare anche contro ciò che sembra ineluttabile? Perché non mettercela tutta?
Certo, nella vita non basta volere per potere . E molte volte — tante, sicuramente troppe — le battaglie le si perde. Ma si può decidere di rinunciare ancor prima di aver provato? E tutti quei medici e quei pazienti che non accettano di non avere più speranza? Intendiamo bene: solo chi attraversa la sofferenza estrema può sapere che cosa sia giusto fare o decidere. Può essere giusto scegliere di andarsene. Ma può anche essere giusto decidere di battersi fino alla fine. Ecco perché, forse, sarebbe opportuno riconoscere la pari dignità di queste scelte. Senza stabilire una volta per tutte, e per chiunque, come affrontare gli ultimi momenti della propria vita.

Repubblica 5.11.14
Imu alla Chiesa, la Ue riapre il caso
Ammesso dalla Corte di giustizia un ricorso che punta a recuperare le somme non pagate dagli enti ecclesiastici nel periodo di “fiscalità agevolata” dichiarato illegittimo nel 2012. Il valore del contenzioso è stimato in 4 miliardi
di Alberto D’Argenio


ROMA L’Unione europea riapre il caso sugli sconti fiscali alla Chiesa. Lo fa con una decisione, a suo modo clamorosa, della Corte di giustizia del Lussemburgo: i giudici europei hanno deciso di ammettere nel merito un ricorso che potrebbe costare agli enti ecclesiastici che operano in Italia fino a quattro miliardi di euro, l’ammontare di Ici e Imu non pagato dal 2008. E in discussione potrebbero entrare anche le nuove regole approvate dal governo Monti nel 2012 che, secondo i ricorrenti, hanno confermato gli sconti fiscali cambiando solo apparentemente le regole già condannate dalla Commissione europea come aiuti di Stato illegali.
Il caso è stato aperto nel 2006 da una denuncia dell’ex deputato Maurizio Turco e del fiscalista Carlo Pontesilli, esponenti del Partito Radicale, contro una legge varata dal governo Berlusconi in piena campagna elettorale. Dopo una serie di archiviazioni (secondo alcuni osservatori in odore di insabbiamento) da parte di Bruxelles e numerose contro denunce, nel 2012 hanno ottenuto la condanna del regime fiscale di favore concesso ad alberghi, scuole e cliniche gestite dagli enti ecclesiastici. Si trattava dello sconto del 100% sull’Ici, poi diventata Imu, e del 50% sulle tasse sul reddito, ovvero l’Ires sulle attività nei settori dell’istruzione e della sanità privata. Un sistema di favore che per l’Antitrust europeo distorceva il mercato, favorendo i beneficiari rispetto ai concorrenti che invece le tasse le pagavano tutte. Aiuto di Stato discriminatorio. Ma allora Bruxelles non è andata fino in fondo e rinnegando una giurisprudenza ultra trentennale non ha ingiunto al governo di recuperare i balzelli non pagati negli ultimi cinque anni. Una montagna di soldi che l’Associazione nazionale dei comuni appunto stima intorno ai quattro miliardi.
Ora - con una decisione del 29 ottobre dell’Ottava sezione del Tribunale che ha applicato una nuova norma del Trattato di Lisbona - la Corte del Lussemburgo ha dato torto alla Commissione europea che chiedeva l’irricevibilità della causa e rinvia la questione a un giudizio sul merito. Bruxelles avrà tempo fino al 10 dicembre per presentare una memoria difensiva in grado di giustificare la decisione di non chiedere i rimborsi per «generale e assoluta» impossibilità di procedere al recupero. Poi saranno i ricorrenti a presentare una memoria e infine si arriverà a sentenza. Nel caso immediatamente esecutiva, appellabile ma i cui effetti non potranno essere sospesi se non da un ribaltamento definitivo del giudizio.
Ma la partita non si chiude qui. I ricorrenti sono convinti che la decisione della Corte possa aprire a ulteriori sviluppi. Nel 2012 il governo Monti dopo un lungo negoziato con la Commissione Barroso (allora si sussurrava di insistenti telefonate da entrambe le sponde del Tevere in direzione Bruxelles) non solo era riuscito a limitare i danni e ad evitare il recupero dei soldi trattenuti dagli enti ecclesiastici, ma aveva anche ottenuto la chiusura del dossier sul futuro varando nuove regole che avrebbero dovuto rendere più rigoroso l’accesso agli sgravi fiscali. Insomma, norme scritte per impedire che attività no-profit beneficiarie di sconti fossero in concorrenza sul mercato svolgendo attività commerciali. Ma i ricorrenti non la pensano così, e sono pronti ad allegare alla causa pendente di fronte ai giudici del Lussemburgo la documentazione per dimostrare che di fatto rispetto alla condanna del 2012 nulla è cambiato, impugnando anche la circolare del Ministero dell’Economia della scorsa primavera che ha definito nel dettaglio le nuove norme, secondo i denuncianti interpretando in modo troppo estensivo la legge di Monti e tornando a favorire la Chiesa, anche permettendo a qualsiasi ente formalmente no-profit di operare di fatto sul mercato senza pagare le tasse. La stessa denuncia sarà poi inoltrata ancora una volta alla Commissione europea ora guidata dal lussemburghese Juncker, che come commissario alla Concorrenza ha scelto la liberale danese Margrethe Vestager.

Repubblica 5.11.14
Le bugie del ministro Così Alfano ha mentito sui lavoratori picchiati
Ecco perché la versione ufficiale viene smentita dal video
Oggi alla Camera il voto sulla mozione di sfiducia
di Carlo Bonini


ROMAIn un perfetto déjà vu, per la seconda volta in appena sedici mesi, il ministro dell’Interno Angelino Alfano torna a sottoporsi al voto del Parlamento su una mozione di sfiducia individuale. Di cui cambia solo il proscenio: un anno e mezzo fa fu il Senato, oggi la Camera. Ma non la sostanza politica. Come nel luglio del 2013 (caso Shalabayeva), gli ingredienti della vicenda che lo investe — gli scontri di piazza del 29 ottobre scorso durante il corteo degli operai della Ast — ripropongono infatti un identico canovaccio. Come in quell’estate, Alfano mente al Parlamento, cui annuncia una «rigorosa e oggettiva ricostruzione dei fatti» che, al contrario, è costruita su circostanze ora fuorvianti, ora sapientemente manipolate. Non è dato sapere se figlie del dolo o della superficialità con cui le ha recepite da chi gliele ha confezionate (questura e Prefettura di Roma). In ogni caso, necessarie innanzitutto a sottrarlo alla sua responsabilità politica di ministro e, insieme, a dissimulare l’errore degli apparati. Ancora: come in quell’estate, la mossa gli è resa agevole dal silenzio di un Presidente del Consiglio (allora Enrico Letta, oggi Matteo Renzi), alla cui maggioranza sa di essere indispensabile. E in nome della quale ritiene per altro di poter chiudere la faccenda con una “democristiana” e dunque ecumenica «solidarietà ai lavoratori della Ast e della Polizia di Stato».
Per riuscire nell’operazione, è appunto necessario stravolgere i fatti e la loro sequenza. Ma questa volta, grazie alle immagini degli scontri del 29 mattina registrate dalle telecamere di “ Gazebo” e diffuse da Repubblica. it, l’azzardo mostra rapidamente la sua natura abusiva.
LA “VOCE COLTA IN PIAZZA”
Dice Alfano in Senato il 30 ottobre.
« Èsubentrata la preoccupa-zione che alcuni manifestanti vo-lessero dirigersi verso la vicina stazione Termini, atteso che ta-le voce era stata colta dai funzio-nari di polizia in servizio a piazza Indipendenza. Un folto numero di manifestanti, dando vita a un improvviso corteo, si è diretto verso via Solferino e, visto lo sbarramento opposto dalla poli-zia, ha poi deviato verso altre vie limitrofe che conducono comun-que a piazza dei Cinquecento e quindi alla stazione Termini.
Rafforzando così la preoccupa-zione che era già stata avvertita e cioè che volessero dirigersi alla stazione » .
Non è fortunato l’ incipit della ricostruzione «oggettiva e rigorosa » del ministro. Nelle sue parole, si contano infatti un’informazione tanto anodina quanto inverificabile («una voce raccolta in piazza» vuole che i manifestanti intendano dirigersi verso Termini per “occuparla”), e, soprattutto, una prima decisiva manipolazione che le immagini televisive svelano come tale. Per poter infatti sostenere che le intenzioni dell’«improvvisato» corteo siano, come vorrebbe la misteriosa “voce”, quelle di marciare su Termini, Alfano è costretto a collocarne la testa in via Solferino, nel tratto che unisce piazza Indipendenza a piazza dei Cinquecento. Ma è falso. Il corteo infatti non solo non si dirige o entra in via Solferino, ma, al contrario, piega sulla destra di piazza Indipendenza, per entrare in via Curtatone. Una «via limitrofa » che non conduce affatto «a piazza dei Cinquecento» (corre infatti in direzione esattamente opposta), ma al ministero, dove gli operai intendono e dichiarano di andare. E dove — mostrano ancora le immagini televisive — dirigono per scelta e non perché «uno sbarramento della polizia» gli abbia ostacolato il passo in via Solferino.
IL “CONCITATO CONTATTO FISICO”
Ancora Alfano: «Al corteo è stato inutilmente intimato l’alt.
Per cui si è in breve arrivati a un concitato contatto fisico tra manifestanti e polizia da cui è con-seguito il ferimento di 4manife-stanti e di 4operatori della Poli-zia di stato: un funzionario e tre agenti del reparto mobile, i qua-li hanno riportato tutti lesioni guaribili da un minimo di tre a un massimo di quindici giorni » .
Le immagini e il sonoro delle riprese televisive non lasciano percepire alcuna intimazione al corteo di fermarsi. Al contrario, mostrano una improvvisa frenesia che coglie i funzionari in borghese sulla piazza. Uno di loro indossa un giacca di pelle e lo si ascolta nitidamente impartire immediatamente l’ordine di “carica” agli agenti del reparto mobile che chiude l’accesso di via Curtatone. La “concitazione” comincia in quell’esatto momento. Con quell’ordine, con le visiere che si abbassano, gli scudi che si alzano, i manganelli che mulinellano sulle teste degli operai che sorreggono lo striscione in testa al corteo. Non c’è dunque un «concitato contatto fisico». C’è una carica. C’è un funzionario che perde la testa e ordina un uso sproporzionato della forza. Un funzionario così disorientato da vederlo gridare a favore di telecamera « Dovete dircelo dove andate!!! », quando ormai il guaio e fatto e qualche testa è già stata scassata. Ma anche di questo, nella «rigorosa e oggettiva relazione » del ministro non c’è, né può esserci traccia. Anche perché questo significherebbe non solo ammettere un errore e doversene scusare, assumendone il peso politico. Significherebbe anche dover rispondere ad alcune domande. L’ordine di caricare è stata l’iniziativa di un singo- lo? Quali indicazioni avevano ricevuto i funzionari in piazza circa l’uso della forza? E da chi? Dal questore? Dal prefetto? E quali erano state le direttive di ordine pubblico che questore e prefetto avevano ricevuto dal ministro? Il 29 mattina si doveva cercare la cogestione pacifica della piazza o, al contrario, la prova di forza muscolare con Landini e gli operai? La verità è che nel vuoto della relazione di Alfano non c’è traccia di responsabilità. Non è colpa di nessuno. Né «è stato il governo a dare l’ordine di caricare » , dirà il presidente del Consiglio intervistato da Massimo Giannini a Ballarò.
“SOPRAGGIUNGE LANDINI”
Manca un ultimo tassello: « È poi sopraggiunto il segretario generale della Fiom Landini, il cui intervento ha contribuito a ri-portare la calma fra i manife-stanti. In seguito, ha avuto avvio un breve negoziato per l’autoriz-zazione a effettuare un corteo verso la sede dello sviluppo eco-nomico, che si è concluso positi-vamente con la definizione di un percorso concordato » .
Anche nel dare conto di quest’ultimo anello della catena degli eventi, è necessario al ministro un sapiente ritocco, utile a sostenere, tra le righe, che l’animosità del corteo è stata raffreddata grazie alla “sopraggiunta” diplomazia del segretario della Fiom. Peccato che Landini non sopraggiunga. Lo si distingue nitidamente a pochi passi dalla testa del corteo nel tentativo insieme disperato e furioso di fermare i manganelli. « Che cazzo state facendo?! », urla alzando le mani al cielo davanti agli agenti del reparto Mobile. « Siamo lavoratori come voi! ». E peccato che Landini non negozi, ma gridi sul volto dello spiritato funzionario di polizia con la giacca di pelle che è al ministero che gli operai vogliono andare. Non alla stazione Termini. Al ministero. Perché è lì che porta la “limitrofa” via Curtatone.

Corriere 5.11.14
Le tensioni sul voto di sfiducia ad Alfano
Distinguo nel Pd dopo il video sulle cariche, ma non si prevedono sorprese. Forza Italia con il ministro
di Mariolina Iossa


ROMA C’era ancora molta agitazione nel Pd ieri per i fatti accaduti la settimana scorsa durante la manifestazione degli operai della TyssenKrupp. Stasera alla Camera si vota la mozione di sfiducia al ministro dell’Interno Alfano, a firma Sel, Cinquestelle e Lega e la posizione del Pd era chiara, nonostante le insofferenze di qualcuno, dopo che il ministro aveva spiegato in aula che non c’è stata volontà di colpire gli operai e dopo che Landini e Camusso hanno accettato le scuse.
Ma la trasmissione, domenica su Raitre, di un filmato nel quale un funzionario della polizia ordina agli agenti di «caricare» i manifestanti, getta un sasso pesante in un mare ancora mosso e ora di nuovo in tempesta. Già lunedì, il presidente del Pd Matteo Orfini aveva attaccato il prefetto di Roma («Capisco che è impegnato ad annullare matrimoni, ma potrebbe trovare un minuto per spiegare queste nuove immagini sulla carica»).
Ieri ha ribadito al Corriere : «L’informativa di Alfano è stata smentita dalle nuove testimonianze video. È evidente che il corteo non andava verso Termini e che c’è stata una “carica a freddo”. Non credo ci saranno sorprese in aula ma ci aspettiamo che il ministro vada oltre. Chi dice che lui è direttamente responsabile della gestione della piazza dice una sciocchezza, ma è responsabile del suo ministero e se lo mandano in Parlamento a raccontare cose che vengono poi smentite clamorosamente, bisognerà pure cercare di capire meglio che cosa è accaduto».
C’è tutta la giornata, conclude Orfini, per ascoltare cosa Alfano ha da dire di nuovo. Chiede più di un chiarimento, e cioè «individuare e rimuovere tempestivamente i responsabili di questa brutta pagina», la deputata Pd Chiara Grubaudo, mentre è esplicito il deputato Pd ed ex operaio della Tyssen, Antonio Boccuzzi: «Se dal ministro non arrivano novità rispetto alla scorsa settimana, sarà difficile per il sottoscritto votargli la fiducia».
Dal ministero dell’Interno non si aspettano sorprese, comunque. Alfano oggi probabilmente ripeterà che ci sono stati errori ma nessuna volontà di manganellare gli operai e aggiungerà che un video da solo non basta a dare un’interpretazione esaustiva della vicenda.
Nel Pd c’è chi vuole riportare la calma. «In aula — dice Stefano Fassina — prevarrà tra di noi un atteggiamento di ulteriore disponibilità a vedere correzioni sostanziali dei comportamenti nei confronti di chi compie errori come quelli della settimana scorsa». Come dire: niente voto di sfiducia ma qualche atto concreto. Forza Italia vota contro la sfiducia, Ncd «apprezza» con Sacconi e Quagliariello e accusa la Lega di scelta «sconsiderata».

il Fatto 5.11.14
Ideologia.Il tradimento di Laffer, Kuznets e la loro eredità
di Ste. Fel.


Il libro di Marco Revelli sembra fuori tempo massimo: a che serve parlare oggi di mode ideologiche degli anni 80? È davvero necessario smentire per l’ennesima volta la teoria dello “sgocciolamento”, cioè che i poveri devono gioire delle fortune dei ricchi perché prima o poi qualche briciola arriverà anche a loro? Sembrano incrostazioni di un’altra era geologica, oggi siamo nell’epoca sobria dei tecnici, del “TINA” (There is no alternative), della politica del pragmatismo e delle scelte inevitabili e dunque da condividere. Invece il libretto dal titolo marxista di Revelli (che ne richiama uno quasi omonimo di grande successo di Luciano Gallino) è sorprendentemente utile. L’idea di Arthur Laffer, che forse non fu mai davvero abbozzata su un tovagliolo al ristorante, è che oltre una certa soglia il gettito fiscale diminuisce all’aumentare dell’imposizione. E quindi in Paesi con un fisco pesante tagliare le tasse farà aumentare le entrate. Simon Kuznets, invece , negli anni Cinquanta ci rassicurò sulla disuguaglianza: in una fase di sviluppo è normale che le distanze tra ricchi e poveri aumentino, ma raggiunto un certo livello di benessere diminuiranno (Thomas Piketty ha dedicato un decennio di ricerche e un tomo imponente per dimostrare che così non è). Revelli predica ai convertiti: tutti quelli che apriranno il suo libro non hanno bisogno di essere convinti che Laffer e Kuznets sono geni del male, quindi la sequenza di numeri (alcuni non contestabili, altri meno) è tutto sommato inutile. O almeno è inutile dopo che il verbo di PIketty è diventato mainstream. L’aspetto più interessante del pamphlet del politologo torinese Revelli (qualche mese fa tra gli animatori della dimenticabile lista Tsipras) è l’analisi della pervasività di questi dogmi liberisti, di come idee un po’ schematiche elaborate durante fasi di benessere negli Stati Uniti siano diventate un paradigma da applicare al mondo intero. Dall’economia dello sviluppo alle grandi questioni ambientali ai rapporti tra economia e finanza. Tutto per giustificare la sopraffazione di una oligarchia rapace che, a parte alcuni onestamente avidi come il Gordon Gekko di “Wal Street”, aveva bisogno di alibi morali. Per sostenere che perseguire il benessere individuale, anche la ricchezza più estrema, è soltanto un modo per garantire la felicità di tutti. Il libro di Revelli è una introduzione al tema, ma non esaustiva.

il Fatto 5.11.14
La vera storia di Renzi & B.
Lo zio in affari con Fininvest
di Davide Vecchi


Dal libro “L'intoccabile, Matteo Renzi” di Davide Vecchi, edito da Chiarelettere, da domani in libreria, pubblichiamo alcuni stralci della sezione “I padrini”.
Nicola Bovoli, fratello della madre di Matteo aveva un contratto da 7 miliardi di lire col Biscione. Intervistato da Davide Vecchi per il libro “L’Intoccabile”, racconta: “Frequentavo il Cavaliere e Dell’Utri. Ed ero amico di Mike Bongiorno: lavoravo per lui, gli portai mio nipote e lui lo prese alla Ruota della Fortuna”. Dove vinse 48 milioni di lire.
Renzi impara molto presto che la comunicazione è tutto. Cresciuto nel ventennio berlusconiano è intimamente affascinato da quel mondo che vede per lo più in televisione e che ha il suo centro a Milano. Un mondo ben distante da Rignano sull’Arno dove Matteo trascorre l’infanzia e la giovinezza. La madre, Laura Bovoli, è un’insegnante di scuola media.
Un parente abita a Milano2 e lavora per il Biscione
Il padre Tiziano, gran lavoratore, ha sempre fatto il piccolo imprenditore, aprendo un’azienda dietro l’altra. Esclusa la prima, Raska, le altre si dedicano alla pubblicità e alla distribuzione in campo editoriale. È lo zio di Matteo, Nicola Bovoli, a creare la Speedy, di cui detiene il 50 per cento. Al cognato, suo socio, vende poi la sua quota, spingendo lui e la moglie a investire nel settore della comunicazione, di cui si occupa con buoni risultati da anni. Ha contatti, conoscenze, idee, e aiuta i coniugi Renzi a muoversi nell’ambiente. Lo zio Nicola rivoluziona la vita di casa Renzi e diventa modello ed esempio, per molti versi, del giovane Matteo, che gli somiglia anche per temperamento e carattere. È l’uomo di successo in famiglia. Veloce, sveglio, battuta sempre pronta e sorriso stampato in volto, Bovoli vive nella “Milano da bere” degli anni Ottanta e abita nel quartiere simbolo dell’imprenditoria berlusconiana: Milano 2. (...)
Nella seconda metà degli anni Ottanta lo zio di Matteo lavora anche per le riviste Mondadori distribuendo il Bingo e legandolo alle trasmissioni di Mike Bongiorno, con cui aveva iniziato a collaborare nel 1987. All’attività dedicata alla carta stampata Bovoli affianca nei primi anni Novanta le televisioni. Per le tre reti del Cavaliere (con cui stipula un contratto da 7 miliardi di lire) crea quella che viene da subito accolta come l’ultima frontiera dell’intrattenimento: il Quizzy, un telecomando che permette di partecipare dal divano di casa ai concorsi di alcune trasmissioni televisive. La campagna pubblicitaria di Fininvest in cui appare Mike rimanda alla Standa, dove il telecomando è in vendita a 39.800 lire. Il Quizzy viene applicato anche alla Ruota della fortuna. Ma dura appena sette mesi, dall’ottobre del 1993 all’aprile del 1994, quando sparisce, travolto dalle proteste dei telespettatori per la poca trasparenza e le costosissime telefonate al 144. Vincere è difficile: in media arrivano tra le 50.000 e le 100.000 telefonate per ogni trasmissione. A fine mese la bolletta aggiunge il danno alla beffa, perché chiamare il 144 comporta un sovrapprezzo di 635 lire al minuto. Quella somma viene poi così spartita: 307 lire alla compagnia Sip, 164 alla Edifin di Nicola Bovoli, le restanti 164 lire alla Audio 5, la società della Fininvest che gestisce gli introiti per conto di Berlusconi, ceduta all’inizio del ’94 alla neonata Diakron incaricata di svolgere sondaggi per la nascente Forza Italia. Parte del ricavato viene utilizzato per finanziare i circoli che devono diffondere il verbo berlusconiano.
Quella vincita al gioco di Canale5
Il Quizzy viene lentamente accantonato. (...) Il suo testimonial Mike Bongiorno, invece, finisce in Procura a Torino per la prima inchiesta sulle frequenze Fininvest: i magistrati sospettano una frode alla Ruota della fortuna. Il 30 settembre 1994 viene arrestato Giuseppe Mazzocchi, un perito dell’ufficio tecnico del ministero delle Poste e telecomunicazioni accusato di aver avvisato i dirigenti Fininvest che ci sarebbe stato un controllo sulle frequenze utilizzate da Italia1 per la trasmissione del Giro d’Italia. In cambio sarebbe stato invitato al quiz di Mike Bongiorno e favorito nella vincita di 30 milioni di lire. Il perito del ministero conferma le accuse: “Fui io a chiedere alle persone che conoscevo della Fininvest di aiutarmi a partecipare”. La sua prima richiesta, inoltrata seguendo l’iter normale, era stata rifiutata. A marzo del 1994, invece, riesce a partecipare. Gli inquirenti sospettano la corruzione: se il concorrente è stato aiutato a vincere, i 30 milioni sarebbero una tangente. (...) Nel 1999 Mazzocchi viene rinviato a giudizio, ma nel marzo del 2002 il processo si conclude con l’assoluzione: i giudici accolgono la tesi della difesa secondo cui avvisare dell’arrivo dei controlli era una prassi normale. Tra gennaio e febbraio del 1994 Matteo Renzi partecipa a cinque puntate della Ruota della fortuna, vincendo 48 milioni di lire. È lo zio Nicola ad accompagnarlo. “Ha partecipato perché lo segnalai io”.
Quando il colonnello di B. provò a “prendersi” Matteo
Il coordinatore del Pdl ha un debole per Renzi, tanto che all’inizio del 2008 il colonnello berlusconiano incontra il presidente della Provincia per arruolarlo nelle file di Arcore. Il solitamente riservato Verdini si spinge a una rara dichiarazione pubblica con una punta di dispiacere: “Renzi è uno in grado di rompere gli schemi. Certo, oggi è un candidato del Pd: ma se poi di là saltasse tutto e si facesse un percorso insieme, non escludo nulla”.
Il 31 maggio 2008, quando presiede la festa per i dieci anni di vita del suo Giornale della Toscana, Verdini è all’apice del potere. Fra i trecento invitati ci sono i parlamentari toscani del Pdl e gli imprenditori amici, ma l’ospite d’onore è lui, Matteo Renzi. Seduto al tavolo con Verdini e la moglie. (…) Nell’agosto dello stesso anno i due salgono insieme sul palco del meeting di Comunione e liberazione a Rimini. L’occasione è la presentazione del libro Sto registrando tutto per l’eternità, che raccoglie le lettere dello scomparso Graziano Grazzini, ex democristiano, ex Cdu e poi capogruppo di Forza Italia in Provincia, vicino al movimento di don Giussani dal 1980. Il presentatore fa gli onori di casa: “Ci aiuteranno a conoscere Graziano due amici: Denis Verdini e Matteo Renzi”. Lui non si fa pregare. Sa come rendersi gradito a un universo distante anni luce da quello del centrosinistra. Alla platea ciellina Renzi parla di Grazzini in questi termini: “Comunione e liberazione gli aveva cambiato la vita. Ai miei compagni di coalizione è sempre difficile far capire che Cl è senza dubbio un’esperienza che interviene nel sociale in tutte le modalità che ritiene opportune, ma che l’esperienza di Comunione e liberazione può cambiare la vita davvero”. (...) Verdini invece parla in libertà. “Il successo – argomenta – passa attraverso il consenso”, che si ottiene anche mediante modi per “far sognare la gente. Non voglio dire ingannare, perché sarebbe sbagliato, ma insomma, stimolare, sotto certi aspetti; e Graziano invece era una persona diversa, straordinaria dal punto di vista umano. Io gli dicevo: ‘È stupido quello che fai’, e lui invece lo faceva per generosità, perché era convinto che la politica è ‘al servizio di”. “Il problema è che lui era serio, profondamente serio”. La serietà è notoriamente un problema. “Quindi il mio rapporto con Graziano è stato molto complesso, molto difficile. Differenti profondamente in tutte le cose, però uniti da una grande simpatia”. Un collante importante, la simpatia, anche con Renzi, che solo un mese dopo ufficializza la corsa per il Comune di Firenze. (…) Al termine dell’incontro Verdini va a cena con il suo delfino Massimo Parisi, con Paolo Carrai, cugino di Marco nonché esponente della Compagnia delle opere, e con i vertici di Cl al gran completo capitanati dai fondatori Giorgio Vittadini e Giancarlo Cesana. Al momento di sedersi a tavola, a Verdini scappa una bestemmia. Con un sorriso indulgente, Cesana ribatte: “Ho sentito benissimo, certo. Non ha bestemmiato, ha detto zio”. Verdini poteva tutto. Anche sostenere, pochi mesi dopo, un sindaco di centrosinistra contro il candidato del Pdl scelto da Berlusconi, Giovanni Galli.
L’eminenza grigia renziana organizza cene ed eventi
“Se Matteo mi chiede un consiglio io glielo do perché è il mio migliore amico, ma gliel’ho detto: su ruoli ben distinti e distanti, ben distinti e distanti”. Marco Carrai lo ripete due volte, come per ricordarlo a se stesso. La realtà è ben diversa. I ruoli non sono né distinti né distanti. Simbiotici, piuttosto. Come le loro vite. Avanzano insieme, uno a fianco dell’altro. Nel giugno del 2012 è Carrai ad accompagnare Renzi a un pranzo con Tony Blair sulla terrazza dell’hotel St. Regis in piazza Ognissanti a Firenze, poi, nel settembre dello stesso anno, alla convention democratica di Charlotte per accreditarsi con lo staff di Obama, e infine, nell’agosto del 2013, da Angela Merkel a Berlino. Ma non ha voluto candidarsi alle politiche, né seguirlo al governo nel 2014, come invece gli aveva proposto il premier: “Matteo mi ha chiesto di fare il deputato ma non ho voluto, io faccio altro nella vita. Purtroppo ho dovuto prendere la mia prima tessera di partito, mi è toccato iscrivermi al Pd per votarlo”. Imprenditore di mestiere, per Renzi fa il lobbista e il fund raiser, ed è l’unica vera persona fidata del premier. Senza di lui, con ogni probabilità, l’ambizioso giovane di Rignano non avrebbe mai potuto trovare i fondi per finanziare l’attività politica. È lui che organizza le cene di raccolta fondi e gli eventi, invitando chi può sostenere la causa. Così, dal 2007 al 2013, vengono raccolti complessivamente circa tre milioni di euro. “Erano cene da mille euro a testa e io invitavo gli amici”. “Certo, all’inizio gli ho presentato tante persone”.
Nel 2004 Renzi lo chiama in Provincia come caposegreteria e gli chiede aiuto per comporre la sua giunta: “La sera della sua vittoria volo a casa mia in Sardegna. Lui mi chiama e mi fa: ‘Ho bisogno di una donna per fare l’assessore... una del tuo giro fiorentino”. Dico: “Giovanna Folonari”. E lui: “Chi è? ”. Non lo sapeva. Rispondo: “È una persona seria. I Folonari sono una famiglia importante e poi sono i cugini dei Bazoli”. E lui subito: “Perfetto, perfetto! ”.
La Firenze Parcheggi e le campagne elettorali
(...) Nel 2009, quando Renzi diventa primo cittadino (…) gli feci da consigliere economico, i primi tre mesi, poi andai da lui e gli dissi: “Matteo, qui c’è un problema, lucrum cessans, damnum emergens”. E lui: “Cioè? ”. Risposi: “Be’, che il consigliere economico lo fo gratis e in più non posso far nulla a Firenze”. Quindi mi dimisi, lui mi disse: “Ascolta, ma perché non rimani in qualche azienda? Perché comunque mi piace usare la tua intelligenza”. C’era qualche nomina pubblica in scadenza e mi propose di fare il consigliere. Firenze Parcheggi era in rovina Carrai accetta l’incarico a una condizione. “Dissi a Matteo: ‘Sto il tempo limitato di ristrutturare l’azienda, ma non mi nomini tu’, infatti entro con Monte dei Paschi”. (...) Nel 2009 è anche il committente responsabile della campagna per l’elezione a sindaco di Renzi. In tale veste si becca una multa da 700 mila euro per affissioni abusive. Vero, ammette Carrai: “Gli attacchini dei manifesti li avevano messi nei posti sbagliati. Arrivò la multa, era nominale e il committente ero io”. (...) Nell’ottobre del 2013 Renzi è impegnato nell’assalto finale al Pd: a dicembre ci sono le primarie per la segreteria e non vuole di certo essere sconfitto come l’anno precedente. Perciò concentra tutte le armate sull’obiettivo.
L’evento clou è la Leopolda (…). Intanto però i giornali hanno cominciato a occuparsi di Marco Carrai, dei suoi rapporti con Renzi, delle nomine ricevute dal Comune e della sua presenza nelle partecipate e nella fondazione Big bang che finanzia l’attività politica dell’amico Matteo. “Ci fu una persona che voleva mandare soldi da Israele, ma dissi di lasciar stare, chissà poi che cosa saltava fuori”. (...)
Nell’ottobre del 2012 Renzi partecipa a una cena a porte chiuse alla fondazione  Metropolitan di Milano per incontrare alcuni uomini d’affari, esponenti dell’alta finanza e imprenditori. Si diffonde la notizia che a organizzarla sia stato Davide Serra. “La cena di Milano l’avevo organizzata io. Davide è un amico, ma sbagliai, perché non pensai che sarebbe stato accostato alla finanza in maniera negativa, come poi è avvenuto”. I fondi all’ascesa renziana arrivano anche in forma diretta da “imprenditori come Guido Ghisolfi del gruppo M&G o Vito Pertosa” spiega Carrai. “Gli si dice: ‘C’è un ragazzo in gamba, va sostenuto, ti va? ’. E via. Funziona così. Semplice. Persone fuori dal giro che non vogliono apparire. In Italia c’è tanta bella gente”.

il Fatto 5.11.14
Fortunato al gioco Lo zio Nicola Bovoli
“Mike era un amico gli portai io Matteo”
di Davide Vecchi


“Matteo ha ripreso da me? Mi ha vietato di dirlo. In realtà, pochi sanno che siamo parenti, tant’è che quando capita che qualcuno mi chieda – racconta Nicola Bovoli, fratello della madre del premier – se sono suo zio, rispondo di no: è Renzi che è mio nipote”.
Infatti alla Ruota della Fortuna lo portò lei.
Io lavoravo con Mike dal 1987. Nel 1994, quando Matteo partecipò alla trasmissione, eravamo amici. Mike un giorno mi confessò di essere in tensione: non riusciva a trovare un concorrente che spiccasse, così gli proposi Matteo, sostenendo che era un ragazzo vispo. Mike mi disse di fargli fare la selezione e lo prese subito; sì, lo segnalai io.
Non solo Mike. Con Mediaset ha lavorato: inventò il Quizzy.
Avevamo un contratto in esclusiva per cinque anni da 200-300 milioni di lire alla settimana, poi quando B. ha lasciato l’azienda per entrare in politica abbiamo lasciato.
Ha conosciuto Berlusconi?
Certo. Dal punto di vista politico non condivido nulla, ma come imprenditore era un genio. È stato costretto a impegnarsi per salvarsi: lui non voleva fare politica. Lo chiamò Craxi per dirgli che era tutto finito, così B. è dovuto intervenire anche perché le sue aziende non andavano bene, poi ha risolto ed è andato avanti 20 anni difendendo i suoi interessi. Dovevo avere molti soldi, tutti i giochi di Mike li ho fatti io. Ma interruppero il contratto, mi crearono un danno: dovevo avere 6-7 miliardi di lire.
Ne parlò con Berlusconi?
Ricordo che una volta andai ad Arcore. Era il 1993, mi pare. Avevo piazzato la tombola Bingo su Sorrisi e Canzoni, il periodico Mondadori, e il concorso era collegato alle trasmissioni di Mike, ok? In quel periodo sia il giornale sia le tv erano di B., ma le due società si misero a discutere su chi doveva pagare la mia. Consideri che con quel giochino portammo le vendite di Sorrisi al record di tre milioni di copie.
Lei andò ad Arcore.
Per sbloccare la situazione andai da B. ldi entrano dalla tasca destra o da quella sinistra cosa cambia? ’. Fece due telefonate e la questione si sbloccò, purtroppo era già proiettato alla politica e Dell’Utri già stava facendo i circoli di Forza Italia.
Ha conosciuto anche Marcello Dell'Utri?
E non credo che abbia avuto rapporti con la mafia, è un uomo di infinita cultura, è impossibile: non può essere un mafioso.
Ora è in carcere con una condanna in via definitiva. Non la stupisce il legame profondo tra Berlusconi e Renzi?
Non lo giudico. Servono l’uno all’altro, ciascuno fa il proprio interesse.
Lei ha aiutato suo nipote?
Gli diedi una mano per diventare sindaco a Firenze, sì. Io e altri amici. Anche Dario Nardella fu d’aiuto.
È iscritto al Pd?
Ho preso la tessera solo per votarlo alle primarie contro Bersani.
Che poi perse.
Sì, ma seguì il mio consiglio.
Quale?
Gli dissi di riconoscere la sconfitta e lo fece, è stato forse il suo discorso più bello.
Vi sentite spesso?
Se ha bisogno mi chiama. Ora ha molto da fare e deve fare qualcosa.
Sta pensando alle elezioni anticipate?
Non può, prima deve realizzare qualcosa di concreto, tradurre in realtà le cose promesse. Ha detto tanto. Gli 80 euro, ad esempio, che cazzo vogliono dire? Solo se riesce a fare qualcosa può andare alle elezioni e lui lo sa.
L’ultimo nodo è l’articolo 18
Che è morto, se un’azienda è in crisi va in crisi che ci sia o meno l’articolo 18.

il Fatto 5.11.14
L’Italia chiamò. Glorie patrie
Grandi manovre dell’impavido Rottamatore
di Daniela Ranieri


Nel furibondo assalto all’ordine costituito – rissa coi sindacati, randellate agli operai, segreti patti con delinquenti, defenestrazioni dal Nazareno – qualcosa resiste granitico.
Se dove passa lui non cresce più l’erba, tutto ha divelto il Salvatore della Nazione fuorché l’encomio alla gloria patria e alla spada che la difende con sereno sprezzo del pericolo. Alla cerimonia all’Altare della Patria in onore del milite ignoto ivi sepolto, Egli presenzia con sguardo dritto e torace gonfio al conferimento della medaglia d’oro al valor militare al Caporal Maggiore Scelto Alpino Paracadutista Adorno da parte del capo dello Stato e delle Forze armate Giorgio Napolitano.
Radiosa, il ministro Pinotti, per la quale gli F-35 “servono che a parte che se hai delle truppe dove c’è necessità di avere una difesa aerea, però potrebbe succedere che qualcuno decide di sparare un missile magari”, sorride salda in shantung di seta turchese, mentre vibra nell’aere le retorica guerresca dell’italico onore. Forte una voce scandisce: “Nel corso dell’operazione mirata a limitare l’insurrezione afghana, egli”, l’alpino, “con non comune coraggio e assoluto sprezzo del pericolo reagiva con la propria arma all’azione dell’avversario”, e salvando i suoi commilitoni “non esitava a frapporsi tra essi e la minaccia”. Il Rottamatore, siccome fanciullo davanti ai carrarmati, sull’attenti ascolta di come egli “manteneva stoicamente la posizione”, “fulgido esempio di elette virtù militari”. “Viva le Forze Armate, viva l’Italia! ”, risuona commosso l’auspicio del capo dello Stato che, giunto ai piedi del sacello, si fa dappresso al capo del governo per stringerli la maschia mano. Egli ristà, pronto all’appello del Comando Supremo, quindi sorride a favor di cinepresa ripensando al real motteggio. Sotto il cielo solcato dalle tricolori frecce, Egli scherza con un soldato. La casta militare così celebrata e non rottamabile siede serena sul cadavere ignoto e su un potere che nessuno s’azzarda a discutere, alla faccia del non comune coraggio e assoluto sprezzo del pericolo.

il Fatto 5.11.14
Il premier preferisce lo sceicco
Il 7 novembre lo aspettavano a Bagnoli ma in agenda c’era già l’aereo Piaggio
di Salvatore Cannavò


A Bagnoli lo aspettavano in tanti a partire dal sindaco De Magistris, appena reinsediato. Ma soprattutto movimenti e attivisti sociali che per il 7 novembre, data in cui era prevista la visita di Matteo Renzi, avevano organizzato un “caloroso” corteo di benvenuto. Il corteo si farà lo stesso ma il presidente del Consiglio non ci sarà. Ha deciso di annullare l’impegno Perché sovrapposto a molti altri. “Solo un rinvio” assicurano da Palazzo Chigi. “Non scappo certo dalle difficoltà o dai conflitti” assicura Renzi ai suoi: “Lo conferma l’agenda che ho tenuto finora”. Il riferimento è alla visita di Brescia ma anche al dossier Terni dove il premier rivendica di aver incontrato Juergen Fitschen, l’amministratore delegato di Deutsche Bank advisor della ThyssenKrupp: “L’obiettivo è portare a casa il risultato” dice Renzi, “il resto sono polemiche”.
IL SOSPETTO che però voglia aggirare proprio le difficoltà, viene rilanciato dal M5S che con il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, parla della rinuncia a Bagnoli come la prova che “l’autunno caldo” per il premier è appena cominciato .
Renzi, in ogni caso, il 7 novembre si troverà a Villanova d’Albenga, in provincia di Savona, dove la Piaggio Aerospace, storica società dell’aeronautica italiana, inaugura il nuovo stabilimento. Il clima sarà molto più disteso e più in sintonia con il messaggio che interessa al leader Pd. La Aero Piaggio, infatti, dopo essere stata una eccellenza italiana, è stata venduta nel 2006 alla Mubadala degli Emirati Arabi che ne detiene il 98%. Mubadala in arabo, come recita il sito aziendale, significa “scambio”, parola che ben si presta all’immaginifica retorica del presidente del Consiglio. Fondata nel 2002 dal governo di Abu Dhabi “come attore principale della diversificazione economica dell’Emirato” è presieduta da “Sua Altezza lo Sceicco Mohamed Bin Zayed Al Nahyan, Principe Ereditario di Abu Dhabi e vice comandante supremo delle Forze Armate”.
A QUANTO RISULTA alla Fiom locale, la famiglia proprietaria sarà presente al completo durante l’inaugurazione dello stabilimento che è costato circa 400 milioni di investimento e la cui nascita è il frutto di un anno di trattative con il sindacato. “A noi di Renzi, onestamente, non importa molto, ci importa la società e gli investimenti fatti” confessa il segretario della Fiom di Savona, Andrea Pasa. “Sarebbe utile, anzi, che il nostro presidente del Consiglio prendesse qualche lezione di politica industriale dagli emiri”. Provocazione voluta da chi ha passato l’ultimo anno a seguire la chiusura dello stabilimento storico di Finale Ligure, il ridimensionamento di quello di Sestri Ponente e il rischio che Piaggio Aero esternalizzi parte delle produzioni. La Fiom dirà solo domani cosa intende fare il 7 novembre nel corso della visita del premier ma il contesto non assomiglia in nulla a quello dell’altro giorno a Brescia e nemmeno a quanto sarebbe potuto avvenire a Bagnoli.
A metà strada, invece, la situazione che Renzi troverà domani a Vimercate in provincia di Milano. Anche qui si tratta della celebrazione di un nuovo stabilimento, quello della Alcatel Lucent al centro dell’Energy Park. Un progetto ambizioso per la multinazionale francese che nell’ambito dei nuovi investimenti, però, ha previsto un piano di esuberi da 15 milia posti a livello mondiale. Di questi 586 sono in Italia. Renzi li incontrerà?

La Stampa 5.11.14
Farinetti: “Costretto al silenzio”
Dovevo parlare a Genova, ma la polizia temeva per la mia incolumità e quella del pubblico
C’è un clima avvelenato, contro di me accuse false perché amico di Renzi
intervista di Michele Brambilla


A tanto arriva l’odio nell’Italia dei nostri giorni: al fatto che anche una conferenza di Oscar Farinetti diventa un problema di ordine pubblico. L’uomo che ha inventato Eataly avrebbe dovuto parlare questa sera a Palazzo Ducale a Genova, ospite della Fondazione Edoardo Garrone. Giovanna Zucconi lo avrebbe intervistato sul futuro del nostro Paese, nell’ambito di una rassegna che si chiama «L’Italia s’è desta?». Ma l’incontro è stato annullato su suggerimento della Digos, che ha sentito puzza di bruciato, cioè di contestazioni e incidenti. Altro che desta: l’Italia rivive vecchi incubi.
Farinetti, che cosa è successo?
«Che tre o quattro persone hanno volantinato davanti a Eataly a Genova e da lì dev’essere partito un allarme. Fatto sta che dalla Fondazione Garrone mi hanno telefonato dicendo che non se la sentivano più. Avevano paura di disordini»
Lei ha avuto paura?
«No. Sono figlio di un partigiano della Matteotti. Sarei andato e avrei invitato sul palco qualcuno dei miei contestatori, in modo da potermi confrontare. Ma la polizia temeva per la mia incolumità e per quella del pubblico».
Che effetto le fa essere considerato un pericolo per l’ordine pubblico?
«Ci sto male da matti»
Le danno del nemico del popolo?
«Alcuni imprenditori miei amici mi considerano un comunista, eppure c’è gente che mi dà dello sfruttatore».
Ecco, tutto è nato da lì: dalle accuse di sfruttare i dipendenti.
«Le rispondo con un dato di fatto: a protestare contro le condizioni di lavoro nelle mie aziende non sono i miei dipendenti, e neppure i sindacati. Non ne avrebbero motivo: l’83 per cento dei dipendenti nei punti vendita storici di Eataly è a tempo indeterminato. In quelli nuovi la percentuale è del 50 per cento, ma solo perché i nuovi assunti devono imparare il mestiere: nel giro di pochi mesi, adeguiamo i contratti. Guardi, un 5-6 per cento di dipendenti incazzati ci sarà anche, ma è fisiologico in ogni azienda».
E allora perché la trattano come un padrone delle ferriere?
«Perché sono amico di Renzi».
Lei era un imprenditore stimato da tutti fino a poco tempo fa. Dunque i suoi guai sono cominciati quando ha detto di essere renziano?
«Sì, ma stia attento: io non sono renziano. Sono renzista».
Questa ci sfuggiva. Qual è la differenza?
«Vuol dire che non sono un suo sodale politico, sono uno che approva quel suo modo di affrontare i problemi e di cercare di risolverli rapidamente. Anche la sua imprecisione mi piace».
Imprecisione?
«Sì, Renzi non fa cose perfette. ma almeno comincia a fare. Aspettando la perfezione, per troppo tempo non si è fatto nulla».
Oggi comunque Renzi è un personaggio che divide.
«Sì, ma la divisione ci sta. Il guaio è che si usa un linguaggio troppo violento».
Ad esempio?
«È violenza dire “sei stato eletto dai poteri forti”. Ed è violenza - lo ammetto - anche dire che i sindacati non contano nulla».
Lei con i sindacati in che rapporti è?
«Ottimi. Le ripeto: ad attaccarmi non sono i miei dipendenti, e neppure Cgil Cisl e Uil, ma qualche cobas, qualche isolato. Il problema è che poi certe leggende metropolitane vengono rilanciate dai social forum e il clima si avvelena».
Quello che è accaduto a Genova è figlio di questo, di un clima avvelenato?
«Penso di sì. Io sono stato educato ad ascoltare tutti e anche a cambiare idea, se mi convincono. Ma ho l’impressione che adesso in Italia si dedichi pochissimo tempo ad ascoltare le ragioni altrui. Purtroppo la violenza verbale non corre solo on line: ha presente i talk show televisivi? Sono catini di livore rovesciati sugli italiani».
Torniamo ai suoi dipendenti. Quanti ne ha?
«Quattromila, di cui duemila in Italia. Capisce? In sette anni, da zero, ho dato lavoro - anzi, abbiamo dato lavoro, perché il merito è anche dei miei dipendenti - a duemila persone in Italia, in un tempo di crisi. E abbiamo ridato vita a dieci luoghi storici abbandonati senza ricevere un centesimo di contributo pubblico».
Bella riconoscenza, lei dirà: non la fanno neppure parlare in pubblico.
«Io non rinfaccio niente a nessuno: creare posti di lavoro è un dovere. La cosa di cui non mi capacito, la cosa che mi fa stare male, è che le accuse contro di me sono false».
Tentazione di lasciare l’Italia?
«Eataly è fatta di soci che hanno rischiato i propri capitali e non si sono mai distribuiti i dividendi. A marzo apriamo a san Paolo, a luglio a Mosca. E in Italia ci trattano così. Davvero verrebbe voglia di dire: andiamocene. Ma non mollo. Lo devo a un sacco di giovani italiani che cercano un lavoro».

La Stampa 5.11.14
Mille commensali per le cene con Renzi
E il Pd incassa un milione e mezzo di euro
di Carlo Bertini


«Un mese fa non mi sarei mai aspettato un tale interessamento», gongola Francesco Bonifazi, che del Pd renziano è il tesoriere. Nonché il deus ex machina, aiutato dalla giovane Alessia Rotta, delle cene di finanziamento che giovedì e venerdì a Milano e Roma vedranno il premier parlare di fronte ad oltre mille imprenditori e professionisti, ognuno dei quali dovrà sborsare almeno mille euro per entrare. Gongola Bonifazi, perché «abbiamo già dovuto chiudere i cancelli, come si dice», visto che ormai le due sale, lo spazio The Mall di Milano e il Salone delle Fontane di Roma all’Eur, sono in overbooking. Tutto esaurito. «Queste cene segnano l’inizio di una campagna di reperimento di risorse totalmente trasparente e innovativa - spiega Bonifazi - una piattaforma di crownfunding per il sostegno di iniziative. Che non ci farà abbandonare le tradizionali feste di partito da cui trarre più benefici». E che poggerà anche sul lancio di una nuova Fondazione, EYU - acronimo delle testate Europa, YouDem e Unità - che accorpa il brand di comunicazione del Pd. Che chiuderà il 2014 in pareggio, ripianando le perdite del 2013, fa notare senza polemiche Bonifazi. E i nomi che già circolano di chi siederà ai tavoli sono anche di peso: dai fratelli Gavio, ai manager della Nestlè; a Milano si berrà brut Ferrari e vini della Allegrini, a Roma Santa Margherita, Bertani e acqua Norda. Ci sarà la Rokivo, che ha sviluppato in Italia applicazioni per i Google Glass. Insomma, tanti imprenditori di marchi di agroalimentare, digital, casa, automobilismo e assicurazioni, disposti a donare fondi al partito di governo.
Il che apre inevitabilmente la discussione sulle lobby, su cui già ci sono leggi ad hoc in Parlamento e che sarà oggetto di un’apposita proposta del Pd proprio a firma Bonifazi. «Una legge che consenta di interloquire con il mondo dell’economia e della finanza senza nessuna ambiguità». Ma come era prevedibile questa iniziativa all’americana scalda le turbolente acque del Pd. Tre settimane fa venne convocata nella sala Berlinguer un’assemblea dei parlamentari Pd per coinvolgere tutti nello sforzo, ritenuto allora impervio, di procurare ospiti. E scoppiò una polemica, «discussione aspra», per come la raccontano gli stessi renziani. Con quelli della sinistra sulle barricate, «in che mani ci mettete?» protestarono acidi. E non deve stupire se fino a ieri su 400 eletti Democratici solo un centinaio si siano rimboccati le maniche: un po’ per scarsa dimestichezza con la novità del fundraising, ma non solo. Pare che i bersaniani non abbiano mosso un dito, lo stesso ex segretario non sarà presente alle cene con il leader Pd, neanche Enrico Letta ci sarà ovviamente. Ma a dispetto dello scetticismo di molti peones del Pd, Renzi si mostra orgoglioso di poter confermare ai gruppi parlamentari il primo successo: un milione e mezzo di euro in arrivo in tempi di magra per le casse dei partiti.

Corriere 5.11.14
Oltre un milione in due cene Ecco chi finanzierà il partito
A tavola i Gavio, tra gli sponsor Nestlè e Cantine Ferrari. La sinistra: a chi ci affidate
di Monica Guerzoni


ROMA Mille euro minimo per lanciare la «start up» del nuovo Pd, come amano dire al Nazareno. E la novità, alla vigilia della cena milanese di domani, è che la corsa a finanziare il «partito della nazione» di Renzi ha superato le attese più ambiziose. «Non me lo aspettavo, dovrò chiudere i cancelli» gongola il tesoriere Francesco Bonifazi, che ha già sfondato il muro del milione di euro e punta al milione e mezzo.
Star della due-giorni di auto finanziamento il premier e un bel po’ di ministri: Maria Elena Boschi, Maurizio Martina, Marianna Madia. A forza di aggiungere un posto a tavola, per la cena al The Mall di Porta Nuova sono previsti oltre 600 coperti, tra gli invitati Dolce&Gabbana (che non andranno) e i big di Confcommercio, che hanno chiesto un tavolo per 10. Tra i nomi più in vista Beniamino e Marcello Gavio, «re» delle autostrade del Nord. Attesi anche Valerio Saffirio, fondatore della società di digital design Rokivo, Alessandro Perron Cabus (ad della Sestrieres Spa), Pietro Colucci di Kinexia (energie rinnovabili), Roberto De Luca di Live Nation Italia, Flavio Paone di Dreamcos Cosmetics. Tutta gente che ha una gran voglia di far sapere da che parte sta. In cambio di cosa? Bonifazi risponde confermando è al lavoro per una legge sulle lobby, «uno strumento che mi consenta di interloquire col mondo della finanza senza ambiguità».
Molti commensali sono esponenti delle piccole e medie imprese, ma al Nazareno stanno cercando personaggi dello spettacolo e un calciatore di grido. Nei bicchieri verranno versati acqua minerale Norda, succhi di frutta Nestlé, vini Allegrini e Ferrari (a Milano) e Santa Margherita e Bertani (a Roma). E ogni marchio, sottolineano gli organizzatori, certifica l’adesione dei rispettivi produttori o manager. Il Pd cambia pelle anche così, tra un antipasto di mare e un dolcetto di Palombini, il catering dell’evento romano di venerdì al Palazzo delle Fontane dell’Eur. Bonifazi sogna in grande: «Parte una campagna totalmente innovativa di crowdfunding all’americana, che condurremo senza abbandonare la tradizione e che farà del Pd il partito più moderno d’Europa». I marchi della «ditta» saranno valorizzati attraverso la fondazione EYU, che sta per Europa , Youdem , Unità . E qui il tesoriere si concede una botta di orgoglio per aver raggiunto il pareggio di bilancio della Festa dell’Unità, dopo anni di perdite. «Il Pd ha in mano un tesoro e finalmente siamo riusciti a metterlo a regime» rivendica Alessia Rotta, che in segreteria ha la delega alla Comunicazione e che sta ragionando su una app in stile Obama per fare il pieno di donazioni. Bonifazi punta a chiudere in parità anche il bilancio del Pd dopo la chiusura del 2013 «con 10 milioni di perdite» e se fa di conto, giura, «non è per fare polemica con Bersani».
Ma le cene di Renzi agitano la sinistra. Giorni fa, durante un’assemblea per chiedere ai parlamentari di darsi da fare, Bonifazi ha registrato le preoccupazioni della minoranza, che si sarebbe espressa con interrogativi come questo: «In che mani ci vendete? Questa non è la nostra gente». Ma il presidente del Lazio Nicola Zingaretti si è attaccato al telefono e così hanno fatto Fioroni e il lettiano Galperti. Molti bersaniani invece si sono smarcati. A cominciare dall’ex segretario, che diserterà entrambe le cene .

Repubblica 5.11.14
Nestlè e i Gavio alle cene con il segretario
di Tommaso Ciriaco


ROMA . Due cene di autofinanziamento, mille partecipanti (si spera) e il traguardo di un milione di euro per ridare ossigeno alla casse democratiche. È l’obiettivo del tesoriere Francesco Bonifazi, alle prese con l’austerità imposta dal reset del finanziamento pubblico. Il biglietto per sedere a due passi da Matteo Renzi costerà mille euro e, giura il premier, contribuirà a «tutelare i lavoratori del Pd». Si sogna il sold out, più complicato che mai in tempi di crisi. E per i due eventi di Milano (domani sera) e Roma (venerdì) già spuntano alcuni nomi dei partecipanti. Ci saranno i big delle autostrade Gavio, l’ad di Sestriere Spa Alessandro Perron Cabus, il Presidente e amministratore delegato di Kinexia Pietro Colucci e Valerio Saffirio, fondatore di Rokivo, società impegnata nel progetto dei Google glass. Nella lista, pare, anche un noto calciatore. E ancora informa la deputata Alessia Rotta - contribuiranno alla causa anche la Nestlè e Roberto De Luca di Live Nation.
In tempi di austerity, si sa, ogni contributo è ben accetto. Ecco allora che qualche poltrona del salone delle Fontane e del Big spaces sarà riservata alle aziende che hanno offerto la “benzina” per la serata, dai vini Allegrini e Bertani agli spumanti Ferrari e Santa Margherita. L’opportunità di raccogliere i fondi ricorrendo a salate cene di autofinanziamento, però, ha fatto storcere il naso a più di qualche democratico. E un paio di settimane fa non sono mancate le scintille quando, nel corso di una riunione nella sala Berlinguer, Cesare Damiano e alcuni parlamentari emiliani hanno contestato frontalmente il format. «È questo il nostro pubblico di riferimento? hanno chiesto - In che mani ci mettiamo?». È seguito aspro confronto e una piccola “guerra fredda” intestina. Perché, sussurrano i maligni, cuperliani e bersaniani non hanno mosso un dito per raccogliere adesioni.
Ci saranno invece i ministri Martina, Boschi e Madia. E soddisfatto si mostra Bonifazi. Non tanto, sostiene, per aver coperto tutte le spese delle Feste dell’Unità ed essere a un passo dal pareggio di bilancio del partito, ma soprattutto per le prossime tappe della road map del risanamento. «La nostra è una campagna totalmente innovativa - spiega - Le cene sono solo un tassello. Importante sarà anche il ruolo della fondazione Eyu - il brand della comunicazione che gestirà Europa, l’Unità e Youdem - e le iniziative di crowdfunding». Il modello è la campagna di Obama, l’idea è raccogliere con una app targata Pd le micro donazioni, utili a finanziare anche le più piccole iniziative di partito.

il Fatto 5.11.14
Ventisei diktat in otto mesi. Il governo ha la “fiducite”
Sono pochissimi i provvedimenti sui quali il governo non pone il dilemma al Parlamento “O votate sì o ce ne andiamo (tutti) a casa
di Luca De Carolis


E fanno 26. Una fiducia ogni dieci giorni, e passa la paura del flop (causa gufi). Ripudia l’etichetta di “uomo solo al comando”, rivendica di essere “uno che fa sul serio” nel sacro nome del cambiamento. Ma sui voti di fiducia Matteo Renzi è ormai il premier del (quasi) record. Avviato a migliorarsi, con buona pace della centralità del Parlamento, del confronto democratico e di altri principi molto costituzionali ma poco rottamatori. Ieri in una Camera distratta, quasi rassegnata al suo ruolo di mero notaio, il governo ha incassato la 26ª fiducia in otto mesi sul decreto legge per la riforma del processo civile (già passato in Senato). La 28ª, se si tiene conto anche delle prime due che hanno dato il via libera al governo Renzi. I sì sono stata una valanga, 353, a fronte di 192 no. E il premier ha migliorato il suo primato. Come ricordava il sito Openpolis, era dalla XIII legislatura (il quinquennio di centrosinistra 1996-2001) che un esecutivo non ricorreva così di frequente all’ultima risorsa, quella per evitare tonfi in aula. Quasi l’80 per cento delle leggi approvate dal governo del rottamato-re hanno visto la luce così. Monti si era fermato al 45 per cento. Più sotto i vari governi Berlusconi. Perché Renzi tira più dritto di tutti. Lo conferma la media di decreti legge del governo, 2,5 al mese. E tanti saluti al 2,2 di Letta, all’1,5 di Monti e allo 0,7 del Caimano. Un po’ troppo anche per la presidente della Camera Laura Boldrini, che tre settimane fa aveva mandato al premier una letterina di protesta: “L’uso eccessivo dei decreti rischia di alterare il fisiologico funzionamento di Montecitorio”.
LA RISPOSTA è stata classicamente renziana: “Il decreto legge rappresenta talvolta l’unico strumento di cui il governo dispone per intervenire su temi caratterizzati dai requisiti della necessità e dell’urgenza”. Traduzione: andiamo di fretta e non si rallenta. Ieri pomeriggio, a Montecitorio, è stata la perfetta chiusura del cerchio. Voto di fiducia su legge di conversione di un decreto (ma il sì definitivo al testo arriverà domani). Nel dettaglio, in 353 hanno detto sì al primo pacchetto di norme per la riforma della giustizia civile. L’obiettivo principale è snellire l’enorme arretrato (5 milioni di cause pendenti), permettendo alle parti di ricorrere agli arbitrati sia in primo grado sia in appello. Per le cause di separazione e di divorzio si potrà utilizzare la negoziazione assistita dagli avvocati. In determinati casi si potrà procedere davanti al sindaco. Se ne parla un po’ in aula. Semivuota, fino alle tre chiame per la votazione. Quando il forzista Chiarelli prende la parola intorno alle 15, nell’emiciclo saranno in trenta. In Transatlantico si aggirano deputati avvolti da noia. “Si va avanti con la fiducia” dice un anonimo bersaniano. Niente animosità nel tono, suo e di altri “rossi”. Tira aria di quieta rassegnazione. In aula la voce la alza Alfonso Bonafede (Cinque Stelle): “Abbiamo un Parlamento imbavagliato, i deputati sono come burattini, devono solo sfilare per dire sì”. Prende un foglio di carta, lo stropiccia: “Così Renzi tratta la Costituzione”. Accusa: “In Commissione Giustizia abbiamo avuto un giorno per studiare il provvedimento e presentare i nostri emendamenti”. Protesta anche il leghista Davide Caparini: “Quando il democratico Zanda vota come il forzista Verdini per 551 volte su 552, ma perché mettere la fiducia? ”. Daniele Farina (Sel): “Si incardina il testo lunedì, si chiudono gli elementi il martedì e si applica una doppia tagliola il mercoledì, e ora eccoci qui”.
A RISPONDERE provvede l’iper-renziano David Ermini: “In Commissione tutti hanno avuto tempo per parlare, erano state assegnate 5 ore per poter presentare emendamenti: probabilmente qualcuno, abituato ai sermoni di ore e ore del loro sacerdote, non era in grado di poter spiccicare parola su qualche emendamento”. A metà pomeriggio il testo passa: domani diventerà legge. I deputati sfilano via. In corridoio appare Pippo Civati: “Il voto di fiducia ormai è un atto quotidiano, religioso. Ci devi credere”. Ma i fedeli sembrano svogliati.

il Fatto 5.11.14
Una ogni dieci giorni, l’incredibile record di Matteo


CON L’ULTIMA ieri alla Camera sul processo civile sono arrivate alla bella cifra di 26 (in appena 255 giorni di governo) le richieste di fiducia richieste dal governo Renzi sui propri provvedimenti. È un record assoluto: in media l’esecutivo ha richiesto una conferma del proprio operato ogni 9,8 giorni. Silvio Berlusconi (nel suo quarto governo) ne richiese sì 46, ma in 1287 giorni da premier (la media è di una ogni ventotto giorni). Mario Monti (29 in 529 giorni, ne richiese una ogni 18 giorni). Enrico Letta si sentiva più sereno: ne chiese solo 12 in 300 giorni (una ogni 25 giorni).

Repubblica 5.11.14
Matteo e il paradosso della corsa continua
La tattica di Renzi con la sinistra Pd e la necessità di una rinnovata coesione nazionale
di Stefano Folli


LE PAROLE di Napolitano sul pericolo di «violenze mai viste», figlie di un inedito intreccio fra fanatismo mediorientale e spinte « antagoniste » interne (i centri sociali, si suppone), aggiungono altre ombre a un quadro già dominato dalle tinte scure.
Anche il nuovo asse tra la Lega di Salvini e la destra è il segno delle tensioni sociali nel Paese
ANCHE nel prossimo anno, dicono fonti autorevoli, la crescita economica rischia di essere troppo debole, quasi insignificante, mentre il debito pubblico corre.
Del resto, non esiste solo la stagnazione economica: anche sul piano istituzionale la paralisi è foriera di gravi problemi. Soprattutto è il terreno propizio per chiunque voglia sfruttare le tensioni sociali e il malcontento che serpeggia nel paese. Alcuni centri “antagonisti” sono in grado di appiccare incendi dai quali altri trarranno vantaggio. E forse non è un caso che un esponente di Casa Pound abbia dato il suo sostegno al leader leghista Salvini, il personaggio che tenta di mettersi in luce, e con successo, come esponente di una destra radicale di tipo «lepenista»: vale a dire un profilo politico che in Italia non ha mai avuto spazio e oggi invece potrebbe trovarlo, sfruttando il relativo declino del movimento di Grillo non meno della mancanza di risultati certi nell’azione del governo.
In sostanza Napolitano è tornato a offrire il suo sostegno a Renzi, ma ha chiesto il massimo di responsabilità alle forze politiche. Il senso implicito dell’intervento è chiaro. Le polemiche all’interno del centrosinistra si possono, anzi si devono superare quando s’intravede sullo sfondo la minaccia di una nuova stagione di violenze. La coesione nazionale non può essere smarrita nell’ora del pericolo. Sono espressioni già sentite in bocca al presidente della Repubblica, ma il contesto oggi è diverso proprio perché si arricchisce della denuncia di possibili atti violenti. Fra le righe si intuisce anche che Napolitano si aspetta novità sul fronte delle riforme di natura istituzionale, a cominciare dalla legge elettorale. Il fatto che il progetto si sia arenato, fra una modifica e l’altra del testo già approvato dalla Camera, appare come una dimostrazione di inerzia. O forse la prova che le difficoltà erano state sottovalutate, al punto che oggi non è così banale riannodare certi fili.
Come è evidente, Berlusconi non ha alcuna intenzione di annacquare il cosiddetto «patto del Nazareno» e tuttavia esiste una forma di attrito vischioso nei rapporti politici e parlamentari, tale da complicare anche gli accordi già abbozzati. Senza contare che la tentazione di alzare un po’ il prezzo, quando ci si avvicina agli snodi decisivi, può essere irresistibile per l’animo mercantile del leader di Forza Italia. Ecco allora l’ipotesi ricorrente, negli ambienti renziani, di aprire un piccolo secondo forno presso i Cinque Stelle. Ma l’operazione, che pure è plausibile, rischia di allungare i tempi e non di rendere le cose più semplici.
In realtà si sta creando un paradosso. Renzi ha fatto capire agli italiani di conoscere solo la marcia avanti. Lo si è visto anche ieri sera, quando sul testo della riforma del lavoro ha concesso ben poco alla minoranza del Pd e si è preoccupato piuttosto di affermare che la nuova legge dovrà essere operativa a tutti i costi entro la fine dell’anno. È un’ottima tattica per ottenere un alto grado di consenso nel paese, specie nel mondo produttivo: come l’altro giorno a Brescia, dove il premier viene applaudito quando dichiara finito il potere di veto dei sindacati. Tuttavia la permanente corsa in avanti può non dare gli stessi risultati in Parlamento, a dispetto dei vari «patti» più o meno espliciti. L’ingorgo di fine anno verso il quale siamo diretti sta anzi diventando un banco di prova per la piena maturità politica del «renzismo», un’attitudine politica che tende a fare a meno delle mediazioni ogni volta che si può. Almeno delle mediazioni alla luce del sole. Ma i prossimi mesi, come ricorda il presidente della Repubblica, richiedono grande capacità di governo in un paese prostrato.

Il Sole 5.11.14
Debito e deficit, la Ue avverte l'Italia
Disavanzo strutturale stabile nel 2015 e in aumento dal 2016
Rischi di procedura d'infrazione
di Beda Romano


BRUXELLES La Commissione europea ha pubblicato ieri nuove previsioni da cui emergono dubbi sulla politica economica italiana. Il rischio che Bruxelles chieda al governo Renzi nuove misure di risanamento delle finanze pubbliche è reale, tenuto conto che Bruxelles non considera l'attuale situazione «una circostanza eccezionale», ai sensi del Trattato. Sull'Italia pesa la minaccia di una nuova procedura per squilibrio macroeconomico eccessivo.
L'esecutivo comunitario ha avvertito che il disavanzo italiano è destinato a raggiungere quest'anno il 3,0% del prodotto interno lordo. L'esecutivo comunitario – che parla di «fragile ripresa» l'anno prossimo – ha inoltre rivisto al ribasso le stime di crescita per il 2014 e per il 2015. «Dopo una ulteriore contrazione dell'economia nel 2014, l'accelerazione della domanda esterna dovrebbe consentire una fragile ripresa nel 2015», si legge in un rapporto reso pubblico ieri qui a Bruxelles.
La Commissione prevede una contrazione dell'economia italiana dello 0,4% quest'anno. La precedente previsione, che risale a maggio, era di una crescita dello 0,6%. La nuova stima è in linea con quella di altre istituzioni internazionali. Nel 2015, Bruxelles prevede invece una crescita dello 0,6% (1,2% in maggio). Sul fronte delle finanze pubbliche, la Commissione europea è pessimista: prevede un deficit del 3,0% del Pil quest'anno e del 2,7% del Pil nel 2015 (in maggio le stime erano 2,6 e 2,2%).
Respingendo l'ipotesi italiana di chiedere attenuanti per gli sforamenti di bilancio, in una conferenza stampa, il nuovo commissario agli affari monetari, Pierre Moscovici, ha spiegato: «Non abbiamo considerato che esistano a livello di zona euro circostanze eccezionali, così come definite dalle regole europee». Ha poi precisato che il risanamento dei conti rimane «una necessità». Bisognerà aspettare l'analisi approfondita della Finanziaria del 2015 per capire se Bruxelles chiederà nuove misure all'Italia.
Moscovici ha insistito sul fatto che è in corso con i paesi «un dialogo costruttivo ed esigente (...) per verificare se le azioni necessarie sono state adottate, se gli sforzi strutturali sono sufficienti e se le riforme sono solide». Dal canto suo, il vice presidente della Commissione Jyrki Katainen, anch'egli presente alla conferenza stampa di ieri, ha detto che le regole sono «relativamente flessibili». Ma ha subito aggiunto, rivolto all'Italia: «Le regole sul debito sono importanti quanto quelle sul deficit».
Nel suo rapporto, Bruxelles lascia intravedere un primo giudizio sul bilancio previsionale italiano, atteso entro fine novembre. Prima di tutto, nota che il deficit strutturale è praticamente stabile tra il 2014 e il 2015. Prevede un leggero calo tra quest'anno e l'anno prossimo (dallo 0,9 allo 0,8% del Pil), e poi tuttavia un nuovo aumento all'1,0% del Pil nel 2016. Le regole europee prevedono una riduzione del disavanzo strutturale di almeno lo 0,5% del Pil per i paesi a debito elevato.
Proprio a questo riguardo, la Commissione europea nota un aumento del debito italiano nel 2014 e nel 2015; un calo solo nel 2016 (sempre comunque al 132,7% del prodotto interno lordo). Il tema è delicato: sul paese pesa la minaccia di una procedura per squilibrio macroeconomico eccessivo, legata a un debito elevato e a una bassa competitività in un contesto nel quale dal 2016 in poi l'Italia sarà chiamata a ridurre il proprio debito di un ventesimo all'anno.
«Si sta discutendo animatamente all'interno della Commissione se chiedere nuove misure all'Italia per il 2015 – spiega un funzionario comunitario –. L'esito dipenderà anche dalle discussioni con Roma in queste settimane». Per ora, l'Italia non può sperare che la grave situazione economica venga considerata una circostanza eccezionale, e quindi una attenuante. La partita dipenderà soprattutto dall'energia con la quale il governo Renzi affronterà i nodi strutturali del tessuto economico italiano.

La Stampa 5.11.14
“Autunno di recessione: il deficit è sotto controllo, ma i conti sul debito non tornano”
Il documento previsionale diffuso dalla Commissione Europea delinea luci e ombre della situazione italiana e lascia aperta la questione del raggiungimento del pareggio di bilancio nel 2015
di Marco Zatterin

qui

il Fatto 5.11.14
Europa - Italia
Juncker al premier: “Burocrate sarai tu”
Il presidente Ue rottama Renzi: la manovra torna a rischio
“Ai vertici dice una cosa, ai giornali un’altra”.
di Marco Palombi


Doveva succedere ed è successo: le parole spot con cui Matteo Renzi struttura la sua comunicazione “politica” interna sono sbarcate a Bruxelles, dove – come qui – trovano evidentemente più conveniente discutere sulle parole che sulle cose. La scena si svolge all’incontro tra Jean-Claude Juncker, nuovo capo della Commissione europea, e i capigruppo dell’Europarlamento: “Vorrei sapere, presidente Juncker, cosa pensa del premier italiano che non vuole farsi dettare la linea dai tecnocrati di Bruxelles”, parte il numero 1 del Ppe, Manfred Weber, parlando di posizione “inaccettabile” (segue scontro col capogruppo dei socialisti, l’italiano Pittella).
“DEVO DIRE al mio caro amico Renzi che io non sono il presidente di una banda di burocrati, forse lui lo è”, è la replica un po’ infantile di Juncker: “Io sono il presidente della Commissione europea che è un’istituzione non meno legittimata rispetto ad altre” (seguono lamentele anche su David Cameron, che si rifiuta di aumentare di 2,1 miliardi il suo contributo all'Unione). Segue velata minaccia: “Se la Commissione avesse dato ascolto ai burocrati il giudizio sulla manovra italiana sarebbe stato molto diverso... ”. Infine il presidente dell’esecutivo Ue lascia anche intendere perfidamente che Renzi sia pure un po’ vigliacco: battagliero in pubblico e assai meno nelle riunioni formali (“i Consigli europei servono per risolvere i problemi, non per crearli: io prendo sempre appunti durante le riunioni, poi sento le dichiarazioni fuori e spesso i testi non coincidono”). Toni mai sentiti nemmeno mentre a Bruxelles tentavano di far fuori Silvio Berlusconi e che non saranno senza esiti - dicono fonti qualificate - nel momento in cui il confronto sulla manovra entrerà nel vivo: tra le altre cose, per dire, alla Commissione non è piaciuto affatto che un premier che fa propaganda sulla necessità degli investimenti, poi usi 4 miliardi di fondi europei per coprire le sue misure.
MATTEO RENZI, per parte sua ha continuato a fare il bullo. Su Twitter: “Per l’Italia pretendo rispetto”. Poi a Ballarò, su Raitre: “È cambiato il clima. In Europa non vado col cappello in mano, non vado a Bruxelles a farmi spiegare cosa fare: l’ho detto anche a Barroso e Juncker”. Magari i due non hanno capito, visto la fretta con cui il governo la scorsa settimana s’è affrettato ad obbedirgli sull’ulteriore taglio dello 0,3% del deficit, ma tant’è. Più diplomatico Sandro Gozi, il sottosegretario (prodiano) che ha la delega ai rapporti con l’Unione: “Nessuno dice che Juncker sia un tecnocrate, ma è bene che non dia troppo ascolto ai tanti tecnocrati che lo circondano”. Frase che, volendo malignare, testimonia di una certa preoccupazione di palazzo Chigi su quanto “i tecnocrati” potrebbero ancora combinare.
La commissione peraltro, e l’ex presidente dell’Eurogruppo Juncker in testa, deve fare i conti con l’esito delle politiche che ha sponsorizzato (e sponsorizza). Le previsioni autunnali dello stesso esecutivo confermano lo stato comatoso dell’economia del continente e rivedono al ribasso le stime di crescita rispetto a quelle di primavera: l’aumento previsto del Pil dell’Eurozona nel 2015 – ai paesi con la propria moneta va un po’ meglio – viene assai ridimensionato (da +1,8 a +1,1%), mentre le due economie maggiori vedono addirittura dimezzata la loro performance (la Francia dall’1,5 allo 0,7%, la Germania dal 2 all’1,1%). Pure l’inflazione è destinata a rimanere troppo bassa. Per questo il falco Jyrki Katainen si appella a Berlino: “Per il bene della stessa Germania ha senso investire in ricerca e sviluppo e in infrastrutture”. Come al solito, in queste previsioni della Commissione, tra due anni inizia la pacchia e si torna a crescere. Forse: “Rischi al ribasso sono legati all’ulteriore slittamento della domanda esterna”.
Quanto all’Italia, invece, le previsioni non sono piacevoli comunque: crescita anemica, debito verso il record del 133,8% del Pil nel 2015, disoccupazione che resta attorno al 12,5%, deficit in discesa (dal 3 di quest’anno al 2,2% del 2016) ma troppo piano secondo Bruxelles, che però è felice perché la bilancia dei pagamenti con l’estero continua a essere in attivo (è così che si pagano i debiti).

Repubblica 5.11.14
Italia al palo, la Germania non l’aiuta è l’economia la vera opposizione a Renzi
di Federico Fubini


ROMA Per una volta, l’ordine dei fattori si presenta invertito. La Commissione Ue conferma le previsioni dell’Italia per il 2015, mentre rivede in peggio quelle formulate poche settimane fa dal governo tedesco. L’anno prossimo la Germania doveva crescere del 2% in base alle previsioni di Bruxelles di primavera scorsa, dell’1,3% secondo le stime di Berlino di poche settimane fa, ma ora la Commissione stessa le taglia ancora all’1,1%. Nel frattempo l’Italia va anche peggio, naturalmente, ma la Commissione almeno mostra di condividere le valutazioni del governo: entrambi convengono che l’anno prossimo la crescita dovrebbe arrivare allo 0,6%. Fin qui le buone notizie. Quando però si va a vedere perché questa ripresa dovrebbe arrivare, qualche dubbio torna. Dovrebbe venire da fuori, si legge nella nota di Bruxelles: non da nuovi consumi o investimenti degli italiani, ma da un aumento della domanda di beni e servizi dal resto del mondo.
Benché l’euro più debole aiuti, non è chiaro come e perché ciò accadrà. Il principale cliente del made in Italy è la Germania, che nel 2015 frenerà per una ragione ben precisa: volge al termine il grande ciclo di ordini dai Paesi emergenti, Cina in testa, di impianti, treni o centrali nei quali l’economia tedesca è specializzata. Spesso le imprese italiane sono entrate in questa catena globale come fornitrici delle loro controparti in Baviera, o in Assia. Ma ora l’Asia ha perso molto del suo appetito per quei prodotti tedeschi ricchi di made in Italy. In Cina il debito totale del governo, delle imprese e delle famiglie è esploso dal 140% del Pil nel 2008 al 220% oggi, e paga interessi molto sopra alla crescita stessa dell’economia. Per qualche anno, il compratore di ultima istanza dell’export europeo dovrà rallentare. La Germania ne soffrirà e per l’Italia non è una buona notizia.
Questa vicenda, inevitabilmente, finirà per avere riflessi interni e può dare a Matteo Renzi qualche motivo per dubitare della sua stessa forza. Oggi il premier appare sul punto di consolidare un dominio definitivo sul sistema politico. Resta forte nei sondaggi. L’opposizione oggi appare senza idee, pronta a collaborare con la maggioranza in cambio della speranza di qualche favore personale, oppure troppo estrema per essere credibile. Mai come oggi il premier sembra padrone della situazione, persino aiutato dalle critiche da sinistra a conquistare elettori di centrodestra. Eppure questo premier ha trovato un avversario di cui non riesce a prevedere le mosse.
Ieri la Commissione ha detto che vede l’Italia in recessione fino alla fine di quest’anno, mentre persino la Grecia ne è uscita. La disoccupazione è ai massimi e, sempre secondo Bruxelles, ci resterà nel 2015 anche se la ripresa arrivasse. A torto o a ragione, molte banche italiane sono emerse dagli esami della Bce avvolte da un alone di sospetto. È probabile che non sia del tutto credibile la promozione in blocco delle loro concorrenti tedesche, ma l’ultima indagine sul credito dell’Eurotower rivela miglioramenti quasi ovunque in area euro e un peggioramento in Italia. I crediti deteriorati nei bilanci delle banche in questo Paese si aggirano attorno ai 350 miliardi, ma nell’inverno scorso si è smesso di parlare della reazione più ovvia, come fosse un tabù: un veicolo con garanzie pubbliche - chiamiamolo bad bankche asporti le sofferenze dai bilanci degli istituti e aiuti a far ripartire il credito.
L’Italia ormai è il solo Paese dell’Ocse simultaneamente in recessione e in deflazione. Della riforma del lavoro per ora è più chiara l’efficacia nel fomentare i conflitti a sinistra che il contenuto. In queste condizioni la ripresa minaccia di tardare, il debito di salire ancora e i mercati di non avere nel 2015 la pazienza che hanno dimostrato nel 2014. In questi anni il Paese è stato tenuto a galla in gran parte da Draghi e dall’impegno della Bce ad agire. Ora però la Bundesbank sta agitando contro il presidente italiano dell’Eurotower un’inaudita campagna di discredito personale, avendo perso contro di lui tutti gli argomenti. Non è chiaro che la Bce potrà di nuovo aiutare l’Italia, non prima che l’emergenza torni di nuovo a punti estremi. Renzi, il solo premier d’Europa (quasi) senza opposizione politica, ne ha trovata una forse anche più temibile: l’economia. Magari potrebbe occuparsene un po’ di più.

Corriere 5.11.14
Il rischio dell’isolamento dopo il monito di Bruxelles
di Massimo Franco


La durezza del presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, nei confronti del premier Matteo Renzi, sorprende e preoccupa. Stupisce perché emerge alcuni giorni dopo gli ultimi attacchi del capo del governo ai «burocrati di Bruxelles». E allarma perché si registra ad appena quarantotto ore dall’insediamento di Juncker e si rivolge al presidente del Consiglio della nazione che guida l’Europa per un semestre. Se il successore di José Manuel Barroso ha ritenuto di poter usare parole così ruvide nei confronti di Renzi, significa che riteneva di poterlo fare. Detto altrimenti: pensa o sa di avere dietro l’Europa che conta, unita nell’insofferenza contro le «critiche superficiali» di Roma.
L’altro aspetto che fa riflettere è il modo scelto dal neopresidente per contestare le tesi renziane. «Se la Commissione avesse dato ascolto ai burocrati il giudizio sul bilancio italiano sarebbe stato molto diverso», dice. E lascia capire che solo una sorta di «generosità» politica ha permesso di attenuare valutazioni più impietose. «A Renzi dico che non sono il capo di una banda di burocrati: sono il presidente di un’istituzione che merita rispetto, non meno legittimata dei governi». Ha tutta l’aria di un richiamo a misurare i giudizi sull’Ue; e a rendersi conto che, se non trova alleati, rischia l’isolamento.
È vero che la Commissione ha anche strigliato il premier britannico David Cameron per il suo rifiuto di pagare i contributi europei. Ma stranamente, la Francia che pure ha dichiarato esplicitamente di non voler rispettare il Patto di stabilità, non ha ricevuto lo stesso trattamento. È giusto contestare questo doppio standard vistoso; ma ci si deve anche chiedere perché venga applicato di nuovo a danno dell’Italia, come ai tempi di Silvio Berlusconi. Il semestre di presidenza è stato sempre considerato una vetrina internazionale per il Paese che guida l’Ue. A nemmeno due mesi dalla scadenza, il colpo che arriva da Bruxelles somiglia a un sasso scagliato contro le vetrate di palazzo Chigi.
E si aggiunge alle previsioni economiche diffuse ieri dalla Commissione. C’è una sfasatura di oltre mezzo punto di Pil tra quanto il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan vede da qui al 2017, e le proiezioni di Bruxelles. Il berlusconiano Renato Brunetta ne deduce che «l’Ue non crede a Renzi e Padoan». Lo stesso Movimento 5 Stelle, che pure non ha mai smesso di attaccare l’Europa e la moneta unica, approfitta delle parole di Juncker per puntare il dito strumentalmente sul premier. È un’offensiva che non aiuta gli sforzi di palazzo Chigi, stupito dalle critiche di Bruxelles.
Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, si limita a ribadire: «Confidiamo che le nostre previsioni siano adeguate. Non ho nulla da aggiungere se non quello che è scritto nella Legge di stabilità». Renzi ribadisce: «In Italia ce la stiamo giocando, la partita non è vinta né persa ma stiamo segnando dei gol. Non vado con il cappello in mano a Bruxelles a farmi spiegare cosa fare. L’ho detto a Barroso e Juncker». Se non è una sfida, le somiglia. Il problema è se l’Italia abbia la forza per sostenerla senza diventare il capro espiatorio di errori commessi anche dall’Europa. E dai suoi burocrati.

La Stampa 5.11.14
Il voto anticipato è preferibile a un nuovo giro di vite rigorista
di Marcello Sorgi


Il duro attacco di Juncker contro Renzi arriva undici giorni dopo le sue dichiarazioni sull’Europa dei burocrati. Il nuovo presidente della Commissione europea, che in un primo momento aveva lasciato correre, dev’essere stato sollecitato in questo senso dai suoi partners. Juncker infatti sa bene - è stato lui stesso a ricordarlo ieri - che il premier italiano anche in Europa si muove con un doppio registro, attento e dialogante nel chiuso delle stanze dei vertici, spavaldo e battagliero fuori, ad uso dell’opinione pubblica interna. Non a caso ieri a “Ballarò”, replicando a Juncker, Renzi non si è spostato di un centimetro. Reagendo pure alle più preoccupanti dichiarazioni del vicepresidente della Commissione Katainen, il vero guardiano dei conti dell’Unione, tornato a minacciare una procedura di infrazione per l’Italia se, com’è possibile, le cifre reali del bilancio dovessero discostarsi dalle previsioni della legge di stabilità. Ora, siccome la legge di stabilità è stata alla fine approvata con riserva (e con una notevole concessione politica, altro che burocrazia, ricorda Juncker) dalla Ue, dopo una significativa correzione del deficit e con ,la conseguenza di una sensibile riduzione del taglio delle tasse, le valutazioni della nuova Commissione, il cui percorso è appena cominciato, fanno temere che le difficoltà dell’Italia, che il governo tendeva ad attribuire a un atteggiamento personale dell’ex-presidente Barroso, siano, come dire, più strutturali, e in sostanza il nostro Paese rimanga una specie di osservato speciale, in convalescenza ma non stabilmente avviato alla guarigione.
Viene da chiedersi perché in un quadro del genere, attraversato da tensioni reali e non da semplici aggiustamenti politici, Renzi insista a prendere di petto quella che continua a considerare la burocrazia europea. Non è facile darsi una risposta. Probabilmente, Renzi, in cuor suo, condivide una parte dei timori della Commissione sulla possibilità che anche il 2015, settimo dopo sei anni di crisi, possa non essere l’anno della ripresa. E, piuttosto che rassegnarsi a un altro giro di vite di rigore, accarezzi sempre di più la via di uscita di un passaggio elettorale anticipato che riazzeri la partita.

il Fatto 5.11.14
Stabilità instabile
Tasse, tagli e altre magagne
di Ma. Pa.


Continuano le audizioni sulla manovra alla Camera e ogni giorno si delinea meglio il piccolo cabotaggio scelto dal governo Renzi per comporre il bilancio dello Stato. Dopo Bankitalia, Corte dei Conti e Istat, ieri è toccato - tra gli altri - all’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) smontare alcune verità sulle magnifiche sorti e progressive disegnate dalla Legge di Stabilità 2015. L’Autorità sui conti pubblici, infatti, svela il trucco: questa è “una manovra netta espansiva” peraltro limitato, soli 5,9 miliardi) l’anno prossimo, ma dal 2016-2017 questo svanisce e arrivano le mazzate.
HA SPIEGATO il presidente Giuseppe Pi-sauro: “Il punto debole sono le clausole di salvaguardia, vecchie e nuove, che nel solo 2016 rischiano di aumentare le imposte di 16 miliardi. Per impedirlo occorrerebbe tagliare la spesa” (secondo Confcommercio, se si procederà ad aumentare l’Iva come previsto “si avranno complessivamente 65 miliardi in meno di consumi”). Per l’Upb, poi, sono “incerte” e “problematiche” le entrate previste dalle nuove tasse sui giochi, mentre potrebbero essere “sottostimate” le coperture necessarie alla decontribuzione dei contratti a tempo indeterminato, visto che la durata annuale del benificio potrebbe spingere molte imprese a caricare sul 2015 tutti i nuovi ingressi. Pure le “perdite di gettito fiscale” derivanti dal nuovo “regime dei minimi” per le partita Iva sono conteggiate in modo “ottimistico”.
Già così comunque, come ha ribadito ieri sera Pier Carlo Padoan alla Camera, le tasse aumenteranno: “Con la legge di Stabilità la pressione fiscale mostra una riduzione contenuta nel 2015, passando dal 43,3% del 2014 al 43,2%, e si stabilizza al 43,6% in ciascuno degli anni 2016 e 2017”, ha spiegato il ministro dell’Economia.
Davanti alla commissione Bilancio della Camera, poi, sono arrivati Regioni, Comuni e anche le nuove Province e Città metropolitane, vittime di un taglio da un miliardo sulla spesa corrente l’anno prossimo. Il rappresentante di queste ultime, Daniele Bosone, ha avvertito che se questi restano i saldi loro non potranno garantire “alcun tipo di servizio, neanche il minimo”: a rischio ci sono dunque “strade, scuole e trasporto pubblico locale”, ma pure “gli stipendi del personale”. Tutte difficoltà che, probabilmente, si scaricheranno su sindaci e governatori, che hanno già i loro problemi (la trattativa col governo è iniziata ieri). Una buona notizia c’è: il fondo per la non autosufficienza viene portato a 400 milioni da 250, 50 in più rispetto agli accordi.

Repubblica 5.11.14
L’opposizione Dem al contrattacco
“Matteo ci sta prendendo in giro non ci ha offerto alcuna via d’uscita”
di Goffredo De Marchis


ROMA C’è una risposta sui tempi: il Jobs act dev’essere operativo entro il 1 gennaio 2015. Un paletto chiaro, una data cerchiata sul calendario. Non c’è la risposta sulle correzioni da inserire alla Camera. Da una parte Matteo Renzi lascia alla trattativa alcuni margini per arrivare a un’intesa con la minoranza Pd. Dall’altra, non offre una linea da sostenere o da criticare. «Ha fatto un catalogo — protesta Stefano Fassina — e sui titoli siamo tutti d’accordo. Sui tempi anche, bisogna fare in fretta. La riforma del lavoro si può approvare a Montecitorio anche la prossima settimana. Ma quale provvedimento votiamo? Come viene regolato il licenziamento? Matteo deve sapere che prima o poi il momento della verità arriva».
I dissidenti hanno vissuto l’assemblea di ieri sera come una presa in giro. È vero che il clima non si è scaldato e non ci sono stati ultimatum del premier. Ma i fronti restano aperti. Renzi non vuole scoprire le carte sul Jobs Act. Cerca di comprendere come si stanno muovendo i gruppi in Parlamento. Se Palazzo Chigi fa un’apertura a qualche modifica, il testo viene sommerso dagli emendamenti dei ribelli Pd e delle opposizioni, Cinque stelle in testa? Con le correzioni la minoranza Pd vota la fiducia? O tanto vale confermare la legge votata al Senato, perdere qualche pezzo e avere la certezza del risultato? Sono le domande alle quali Renzi ha scelto di non rispondere o per le quali non ha ancora una risposta.
Il premier preferisce l’accelerazione per incassare subito il Jobs Act. Ma molte sirene, non solo quelle “nemiche”, gli suggeriscono un’altra strada. Il capogruppo del Pd alla Camera Roberto Speranza lo ha messo in guardia: «Non credo che i ribelli non ti voteranno la fiducia. Ma credo che in tanti potrebbero uscire dall’aula. E saranno più di 20. Forse 30, forse di più. Non sarebbe indolore per il Pd». C’è una base che permetterebbe di assorbire la frattura interna. È l’ordine del giorno della direzione del Pd, votata da larga maggioranza, con l’astensione dello stesso Speranza e alcuni voti contrari. «Se Renzi recepisce quel testo anche io che ho votato no in direzione, in Parlamento voto la riforma», dice Francesco Boccia. «È due mesi che gli diciamo di tenere insieme il Partito democratico su questa materia — insiste Pippo Civati —. Conviene anche a lui». Ma Renzi non fa mai quello che gli conviene se a suggerirglielo sono i suoi oppositori.
Stavolta il caso è un po’ diverso. Il lavoro di tessitura svolto da Giuliano Poletti è già a un buon punto, esiste una trattativa avviata e alcuni dissidenti lavorano a un’intesa. A cominciare da Cesare Damiano e Guglielmo Epifani. Ma Renzi non si fida. Il punto per lui è avere uno strumento operativo entro dicembre. L’obiettivo è mettere in circolo le risorse necessarie alla decontribuzione dei contratti a tempo indeterminato. Il governo ha assoluto bisogno di risultati statistici già nei primi mesi del 2015. Per smentire le previsioni di Bankitalia e Istat e mandare un segnale all’opinione pubblico. «Il resto per me è tattica », ripete spesso il premier nei suoi colloqui privati.
Oggi riprende il dialogo. Con il retropensiero, espresso con chiarezza da Boccia che Renzi punti alle elezioni in primavera. E le dichiarazione sulla legge elettorale fatte all’assemblea di ieri sera hanno convinto anche qualcun altro. Per questo il premier ha precisato: «Si vota nel 2018 ma non possiamo attendere il 2017 per l’I- talicum». Dunque, in un gioco di specchi e di sospetti ricomincia la mediazione sul Jobs Act. E se i mediatori hanno ancora spazio per provare un accordo, i più scettici sono rimasti delusi per la vaghezza del discorso renziano. Fassina ad esempio resta sulle barricate, anche per quello che riguarda le ipotesi di correzioni: «Non basta inserire i disciplinari. Per me, così le modifiche sono inadeguate. Non è l’articolo 18 a frenare gli investimenti. Non è cancellandolo che si creeranno altri posti di lavoro».
Ieri è stato un giorno senza confronti. Di fronte all’attesa per le parole di Renzi, si sono tirati indietro il presidente della commissione Lavoro Cesare Damiano, il responsabile economico del Pd Filippo Taddei, il ministro Giuliano Poletti. È chiaro che a Palazzo Chigi si aspetta di capire di quante truppe dispone il dissenso. La minoranza sembra muoversi in ordine sparso. Civati e i bersaniani e Cuperlo più aggueriti. Area riformista che fa capo a Speranza disponibile al compromesso. Una parte, in queste ore, ragiona persino sul pericolo delle correzioni al Jobs Act. «Rischiamo di rendere più rigido l’articolo 18 se mettiamo le fattispecie dei licenziamenti disciplinari nella legge delega. Meglio affidarsi al ministero del Lavoro e ai decreti delegati», dice un deputato di questa minoranza della minoranza.

il Fatto 5.11.14
Pd, i bersaniani all’attacco sull’impresentabile Verdini
La Boschi elude il problema: “Il nostro referente è Forza Italia, non Denis”
di Fabrizio d’Esposito


Le camicie Verdini del Patto del Nazareno si stingono sempre di più dalle parti di Renzi. L’ennesimo rinvio a giudizio dello sherpa berlusconiano plurinquisito, stavolta per la P3, da un lato aumenta imbarazzi e no comment nel partito renziano. Dall’altro però accelera il relativo e silenzioso sganciamento dall’impresentabile Denis Verdini.
SOSTIENE Rosy Bindi, presidente della commissione Antimafia: “La verità è che a questo punto non bisognava proprio arrivarci, non c’era bisogno di quest’altro processo per capire che le riforme non si fanno con la garanzia di Verdini. Ma non mi faccia parlare troppo perché diventerei pericolosa”. Pippo Civati, altro volto della minoranza dem, la butta sull’ironia: “Sono sinceramente preoccupato per Renzi perché ha un amico nei guai”. L’ironia diventa pesantissima quando l’amicizia tra i due toscani, “Matteo” e “Denis”, entrambi di provincia, si trasfigura in uno dei tanti reati contestati a Verdini: “Associazione a delinquere, capito? ”. Eccome. Renzi coi processi dell’amico Denis non c’entra nulla, ma questo è solo uno dei modi in cui si infierisce sui colpi assestati al negoziatore principe del Nazareno, l’uomo davvero nero del patto. Dice Davide Zoggia, bersaniano: “Io mi limito a leggere politicamente la vicenda e ricordo che quando noi concordammo con Berlusconi il nome di Franco Marini per il Quirinale venne giù il mondo nel Pd. Adesso nessuno parla”. Ancora un bersaniano, Alfredo D’Attorre: “A Renzi dico che fare le riforme con Verdini non è stata un’idea brillante”. Renzi e i renziani evitano però di affrontare l’argomento pubblicamente. Troppo stridente, indecente l’ossimoro nazareno di un padre costituente che sarà protagonista di un processo dove la P3 dovrà rispondere anche di attentato a organi costituzionali. Interpellata in merito da ilfattoquoti  diano.it , ieri la ministra delle Riforme Maria Elena Boschi, che con Verdini ha lavorato spalla a spalla sull’abolizione del Senato, ha semplicemente eluso il problema, facendo finta di non vederlo: “Verdini? Il nostro referente è Forza Italia”.
LA QUESTIONE è che la bufera sullo sherpa impresentabile incrocia la tattica dilatoria di Berlusconi sulla legge elettorale, su cui lo stesso Verdini aveva dato rassicurazioni al premier per un’approvazione a fine anno. Al contrario, il Condannato vuole fare di tutto per non caricare la pistola di Renzi ed evitare quindi le elezioni anticipate. Fino a che punto, allora, le due vicende coincidono? Un riscontro forte dovrebbe arrivare dal prossimo vertice del Nazareno. Il premier vorrebbe farlo in settimana ma il cerchio magico di B. fa sapere che “incontri non sono all’orizzonte e che il presidente sarà a Roma solo giovedì (domani per chi legge, ndr) ”. Non solo.
I renziani che parlano con “Matteo” confermano che i rapporti tra Lotti e Verdini “sono molto raffreddati” e al Condannato è stata recapitata la richiesta di “nascondere” lo sherpa inquisito e imputato, cioè di non farsi accompagnare da lui ma solo da Gianni Letta. A far tremare i fedelissimi del premier sono sempre le voci su un’eventuale richiesta d’arresto per Verdini proveniente da Firenze. La vicenda è quella del buco da 100 milioni di euro della banca di Verdini, il Credito cooperativo fiorentino. Storia sulla quale ieri è tornato Massimo Mucchetti, senatore del Pd, intervistato da Alessandro De Angelis per l’Huffington Post: “Il principale negoziatore e testimone del patto del Nazareno è una persona che ha condotto al fallimento una banca di credito cooperativo. E questa non è materia di processo, ma un dato della realtà”. Altro che persecuzione.

il Fatto 5.11.14
La guerra dei soldi nel Pd: Renzi vuole le Fondazioni
La battaglia parte da Milano. E i circoili si vedono aumentare gli affitti
di Wanda Marra


Dopo sette anni dalla nascita del Pd, dobbiamo capire come le Fondazioni possono essere utili alle finalità del Pd stesso”. Così è intervenuto il tesoriere dem, Francesco Bonifazi, ieri a Milano, in una riunione convocata per parlare dei rapporti tra le Fondazioni (ovvero il tesoro rosso) e il Pd. In varie parti d’Italia, i circoli democratici si sono visti aumentare l’affitto da quelle stesse Fondazioni nate nell’ultima direzione degli ex Ds. Teoricamente, un patrimonio che sarebbe anche loro.
(EX) COMPAGNI contro: il bilancio del Pd è in rosso profondo (con 10,8 milioni di euro di perdite nel 2013), i finanziamenti pubblici ai partiti vanno a scomparire, con i dipendenti che rischiano la cassa integrazione. Eppure c’è un tesoro disseminato in 57 Fondazioni, costituite dall’ultimo tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti, che non solo non si può toccare, ma che sopravvive anche grazie ai contributi pagati in varie forme dai Dem.
Ieri a Milano c’è stata una riunione, convocata dal segretario cittadino Pietro Bussolati, con 150 quadri locali e tesorieri del Pd di tutta Italia per provare ad affrontare il problema. Presente, Bonifazi, tesoriere nazionale. Grande assente, Sposetti, che quel patrimonio non lo molla. Anche se erano presenti persone vicine alla Fondazione milanese Quercioli. “La decisione di dare vita alle Fondazioni – ha detto Bussolati – nasce dalla necessità di vigilare sul patrimonio del partito, in un momento storico che non è più l’attuale”. Per questo, “occorre un nuovo patto fra partito e Fondazioni”. Bussolati chiarisce: “Non vogliamo fare la guerra alle Fondazioni ma avere regole chiare”. Perché, “servono affitti calmierati e la proprietà e la vita dei circoli devono convergere. Anche se esistono limiti giuridici”. Insomma, la guerra dell’attuale Pd al tesoro rosso, è partita. Anche se forme e modalità sono tutte da inventare.
Il tesoro degli ex Ds si compone di 2300 immobili più 410 opere d’arte (alcune nella sede dei Ds a via Sebino, come “I funerali di Togliatti” di Guttuso), stimato in oltre mezzo miliardo. Gli ex Ds hanno 150 milioni di debiti e le Fondazioni sono state costituite anche perché le banche non si possono rivalere. Ma il paradosso è che Fondazioni e circoli invece di stare dalla stessa parte, si trovano su fronti contrapposti. Le stesse Fondazioni pagano l’Imu e le tasse e non navigano nell’oro (almeno è questa la difesa degli Sposetti’s boys). Peccato che si rivalgono, anche con gli affitti, sugli stessi militanti che magari un tempo quegli immobili li avevano comprati a forza di salsicce alla grigia alle Feste dell’Unità. Questione complicata: dentro le Fondazioni c’è un pezzo che poi è andato in Sel e in Rifondazione. Ma non è solo questo: il tesoro rosso garantisce tuttora quel che resta della ditta. Se mai gli ex Ds o una parte di loro decidesse che è arrivato il momento di fare la scissione, quel patrimonio serve tutto. Così parlava Sposetti a Repubblica, solo un mese fa: “Il Pd sta in 1.800 circoli di proprietà del famigerato Pci-Pds-Ds, e non paga né Tarsu né Imu né condominio. Sono sedi che vengono dal lavoro e dalla fatica di centinaia di militanti comunisti. Non mi sembra che a dirigere il Pd oggi ci siano grandi manager che possano gestire questo patrimonio. Quindi le cose restano come sono".
Il Pd intanto, se le inventa tutte. Domani a Milano e dopodomani a Roma ci sono le due prime iniziative di fundraising: ovvero due cene con imprenditori e professionisti vari, che per mangiare con Matteo Renzi devono pagare 1000 euro a testa. “Dalle cene pensiamo di ricavare un milione di euro”, ha detto il segretario premier ieri ai gruppi.
PER IL GOVERNO, alla cena di Milano ci saranno, oltre a Renzi, Maria Elena Boschi e Maurizio Martina. A Roma, Marianna Madia. Lo scouting era affidato ai parlamentari, cosa che ha provocato non pochi malumori. Difficile evitare ospiti sbagliati, ancor più difficile portare pesi massimi, che in una situazione troppo allargata non sono interessati a partecipare. Alla fine, i vertici dem si aspettano centinaia di partecipanti. Quasi tutti personaggi di media levatura. Ma anche qualche nome più “pesante”. A Milano ci saranno Valerio Saffirio fondatore di Rokivo inc., la società di San Francisco che produce i Google Glass, i Gavio, azionisti del gruppo Gavio Autostrade. E Alessandro Perroncabus, Ad di Sestriere Spa, la più grande società italiana di gestione impianti sciistici, 13esima al mondo. Ancora, Pietro Colucci, Presidente della Kinexia, società che si occupa di energie alternative e Roberto De Luca, presidente Live Nation Italia, la filiale italiana del più grande gruppo di Entertainment al mondo. E Ferrari Allegrini e Bertani, produttori di vini, Acqua Norda, Nestlè. E poi, notai e avvocati.

La Stampa 5.11.14
“Il nuovo Pd come il New Labour. La prima lotta fu con i sindacati”
Peter Mandelson, spin doctor di Blair: “I vecchi interessi danneggiano i lavoratori”
intervista di David Allegranti


Peter Mandelson, già storico braccio destro di Tony Blair, sarà a Roma questo venerdì per una conferenza. Proprio nei giorni di massimo scontro fra governo e sindacati (e non solo), parla con La Stampa di Matteo Renzi e Pd.
Lord Mandelson, Renzi litiga con i sindacati come Tony Blair fece in Gran Bretagna. Lei in questo vede qualche analogia?
«Senza dubbio, la cosa più difficile che abbiamo dovuto fare è stato cambiare il nostro atteggiamento con i sindacati e Blair puntualizzò subito che questa relazione non sarebbe stata “business as usual”. I sindacati erano abituati a fare la parte del leone nella costruzione delle politiche pubbliche del Labour, nell’elezione della nostra leadership e nella selezione dei parlamentari. E quando il Labour era al governo, i leader dei sindacati si comportavano come se condividessero il potere con i ministri».
Il New Labour al governo che cosa fece?
«Creammo una maggiore equità sul posto di lavoro, attraverso la legittima protezione e dei diritti dei lavoratori e dei sindacati, ma il loro potere non è mai tornato. È impossibile fare le necessarie riforme economiche e creare nuovi posti di lavoro se gli interessi acquisiti riescono a ritardare il cambiamento. Se Blair non avesse seguito un approccio rigoroso, non avremmo migliorato le performance dell’economia, aumentato l’occupazione a livelli record e offerto migliori servizi pubblici. Era un fatto di moderna, caparbia, socialdemocrazia».
Renzi vuole costruire un nuovo Pd più simile ai Democratici americani. È la risposta giusta alla crisi di legittimità della politica?
«Internet, i social media e la copertura delle notizie ventiquattrore su ventiquattro hanno trasformato la politica: i partiti politici vecchio stile devono rimettersi in pari o rischiano l’estinzione. In Gran Bretagna, il Labour era diventato un’organizzazione per piccoli gruppi di attivisti, che decidevano le politiche pubbliche dietro porte chiuse, al riparo dalle persone e dalle comunità che avrebbero dovuto rappresentare. I partiti politici hanno bisogno di reinventarsi per questa nuova era, facendo campagna elettorale tutto l’anno e non soltanto in tempo di elezioni, aprirsi alle nuove idee e ai mezzi di comunicazione e di rafforzamento delle comunità locali. Io non chiamo tutto questo “americano”, lo chiamo ventunesimo secolo».
Il Nuovo Pd somiglia al New Labour?
«Il New Labour ebbe successo al governo, e fu rieletto tre volte con grandi maggioranze, perché avevamo riformato il partito, introducendo nuove idee, nuove politiche pubbliche e nuovi metodi di governo prima di essere eletti. Coloro i quali nel partito si opposero al New Labour non avevano una valida alternativa di programma e avevano un appeal limitato tra l’elettorato. Nel New Labour, l’elettorato sapeva che cosa stava scegliendo, perché noi eravamo eletti come New Labour e governavamo come New Labour. Quando, intorno al 2010, le nostre politiche sono diventate meno chiare e ci è sembrato di perdere la nostra strada e le nostre punte di diamante, gli elettori hanno cambiato schieramento».
È la chiave anche per il Pd?
«Sì. L’elettorato vuole dal Pd una leadership chiara, politiche forti e un governo unito. Gli elettori vogliono un nuovo inizio dopo anni di politici screditati e politiche fallimentari. Sanno che l’Italia deve cambiare per avere successo e per offrire una vita migliore alla massa di persone. Se il Pd non offre una leadership forte e una chiara, credibile rottura con il passato – per quanto questo possa essere difficile nel breve periodo – molti elettori si rivolgeranno ad altri politici con meno principi o più populisti».
Pare non esserci alternativa a Renzi in Italia. È un rischio per la qualità della democrazia?
«Come Renzi sta reinventando il centrosinistra, sarebbe salutare una rigenerazione del centrodestra. Con la crisi finanziaria abbiamo visto in tutta Europa che gli elettori hanno spostato il voto dai partiti classici a quelli più marginali».
Lord Mandelson, come si possono finanziare oggi i partiti?
«Se l’elettorato avesse molto più rispetto per i suoi politici e credesse che i partiti fossero liberi dalla corruzione, potrebbe essere preparato a vedere più fondi statali come un’alternativa per questi partiti che dipendono dalle risorse private della finanza. La chiave è che i partiti politici non dovrebbero essere “di proprietà” degli uomini ricchi per servire il loro interesse piuttosto che l’interesse pubblico. E la raccolta fondi dovrebbe essere trasparente».

La Stampa 5.11.14
Il «principe delle tenebre»

Nel 1994 Tony Blair diviene segretario del partito Laburista inglese, dando una svolta al processo di trasformazione del partito, approdando ad una ideologia che fa riferimento alla socialdemocrazia liberale centrista ed adottando così come linea politica la cosiddetta terza via. Il partito vinse le elezioni nel ’97 con 179 seggi in più del partito conservatore e del partito liberal-democratico messi insieme. Mandelson è considerato il principale architetto del New Labour. Nella sua veste di consigliere di Blair è stato criticato come uno dei suoi più spregiudicati spin doctor ed è stato soprannominato «il principe delle tenebre».

il Fatto 5.11.14
Crisi di democrazia
Libertà e Giustizia, mannaia di CdB
di Sandra Amurri


È finita un’era facile. Inizia un’era difficile per Libertà e Giustizia, l’associazione nata 12 anni fa e tenuta a battesimo al Piccolo Teatro Studio di Milano da Enzo Biagi, Claudio Magris, Umberto Eco, Giovanni Sartori, Giovanni Bachelet e molti altri. L’ingegnere Carlo De Benedetti, alla soglia degli 80 anni, ha deciso di dimezzare il finanziamento che da 100 mila euro passerà a 50 mila euro. In sintesi, offrirà quella che era la sua parte fino alla morte di Carlo Caracciolo. Un duro colpo che costringerà la struttura a una riorganizzazione severa. Il nuovo cammino, che i circa 2 mila soci paganti si augurano continui, si prospetta denso di incertezze.
PRIMO FRA TUTTI, trovare un’altra sede meno costosa dell’appartamento in affitto di via Col Di Lana a Milano. Né la presidente Sandra Bonsanti, che si dimetterà a breve (ragioni personali attribuibili alla stanchezza per un impegno che ha sempre svolto gratuitamente), né il presidente onorario Gustavo Zagrebelsky, vogliono commentare la notizia sostanzialmente vera del dimezzamento del finanziamento di De Benedetti. Una cosa è certa: non è un caso politico. Nulla a che vedere, insomma, con le diverse posizioni nei confronti del governo Renzi all’interno di Repubblica: quella fortemente critica del suo fondatore Eugenio Scalfari e quella sostanzialmente a sostegno del direttore Ezio Mauro e dell’editore Carlo De Benedetti. Come dimostra la grande manifestazione organizzata da Libertà e Giustizia il 2 giugno scorso a Modena contro la svolta autoritaria di Renzi, fa notare chi non vuole che passi la versione “ci tagliano i fondi per censurarci”. Non è facile trovare un altro o altri finanziatori disposti a tirare fuori soldi, continuando a garantire quell’indipendenza affinché L&G possa continuare a essere “l’anello mancante fra i migliori fermenti della società e lo spazio ufficiale della politica”. Ma senza indipendenza e autonomia dalla politica o dagli interessi di qualunque altro genere, L&G non avrebbe più senso di esistere. Nonostante De Benedetti si sia impegnato a garantire la quota di 50 mila euro, non è sufficiente a scongiurare la fine dell’associazione. Come spiega la costituzionalista e socia onoraria Lorenza Carlassare: “La democrazia costituzionale ha ancora tanto bisogno di noi”.

il Fatto 5.11.14
Jobs act e dintorni. No il dibattito no
Zitti i gruppi del Pd, parla solo Renzi
La Cgil promette “Un’opposizione brutale” sull’Art. 18
Gli eletti dem invece tacciono


Un’ora e mezza o poco meno di arringa ai gruppi parlamentari di Camera e Senato. Ieri sera Matteo Renzi ha sentito il bisogno di presentarsi a deputati e senatori, per fare il punto sulle questioni in campo e dettare (in presenza) la linea. Tante le questioni di possibile disaccordo, ma il tutto si è concluso senza dibattito e senza opposizione. Motivazione ufficiale? I punti toccati erano troppi e allora il capogruppo a Montecitorio, Speranza ha aggiornato la seduta che dovrebbe essere riconvocata per il dibattito. Pratica singolare. La convocazione della riunione (con ordine del giorno generico) è arrivata ieri mattina. Evidentemente il premier, dopo giorni non facilissimi, ha voluto ribadire a maggioranza e minoranze del partito qual è la posta in gioco.
“DAL PRIMO gennaio deve partire la riforma del lavoro. Il jobs act è centrale: siamo d’accordo su tutto tranne che sull’articolo 18”. Il premier vorrebbe farlo votare il 17 novembre, presumibilmente con fiducia. In atto una mediazione con la minoranza Pd, con le fattispecie dei licenziamenti disciplinari (previste dall’odg della direzione Pd e non recepite dal testo del Senato). Se andrà in porto, poi il tentativo è fare un rapido passaggio in Senato, di nuovo con fiducia.
La minoranza in teoria sulla questione è sul piede di guerra. E ieri il segretario confederale della Cgil Danilo Barbi, nel corso delle audizioni sulla manovra 2015 nelle commissioni Bilancio di Camera e Senato ha avvertito: in Italia si rischia di “andare incontro a una rottura sociale”. Se “con la riforma dell’articolo 18 si vuole liberare un canale per i licenziamenti illegittimi, noi ci opporremo brutalmente”.
IL RESTO delle “comunicazioni” del premier riguarda il menù spicciolo della settimana politica. Paletti sulla Consulta: “Giovedì proviamo a chiudere lo stallo sulla Consulta, due donne alla Consulta, la nostra è Sciarra, e un designato di M5S al Csm. È positivo che M5S stia dentro la dinamica e spero che in queste ore decida anche Forza Italia”. Compiacimento per il voto sulla riforma della giustizia civile, con tanto di annuncio che in Cdm lunedì si proseguirà il lavoro sulla giustizia. Non manca l’accenno alla legge elettorale: “Abbiamo detto che si vota nel 2018 ma non dobbiamo aspettare il 2017 per cambiarla". Insomma, “non su tutto la pensiamo allo stesso modo, ma ci attende una sfida immane per cambiare l’Italia. Si possono avere le idee più disparate su Jobs act, riforma costituzionale, scuola, ma ci deve tenere insieme la battaglia che stiamo facendo in Italia, che segna anche il futuro dell’Europa”. Convincente o no, nessuno si è sentito in diritto (o dovere) di replicare.

Repubblica 5.11.14
Il dramma del lavoro che spacca l’identità della sinistra
Da anni il Pd attendeva di allargare la sua base elettorale. Questa è un’occasione per il partito, per il Paese
A condizione di non cambiare la propria natura
di Ezio Mauro


DICE il presidente del Consiglio che non bisogna usare il tema del lavoro per spaccare l’Italia. In realtà più che un tema è un dramma, con la disoccupazione al 12,6 per cento, e un ragazzo — quasi — su due che non ha un posto, nemmeno precario: l’Italia è in realtà già spaccata, e nel modo peggiore, tra chi è garantito e chi no. Dunque non possiamo permetterci strumentalizzazioni. Ma nemmeno ideologizzazioni. E invece ci sono state, in abbondanza. Anzi, per settimane abbiamo assistito ad una dichiarata trasformazione dell’articolo 18 in tabù, totem e simbolo per entrambe le parti in causa, governo e sindacati. Finché l’ideologia ha prevalso sulla sostanza. E nello scontro tra le opposte ideologie ha vinto quella dominante: perché anche i mercati e la Ue ne hanno una, capace di resistere persino all’evidenza della crisi che dovrebbe sconfessarla.
Bisogna dunque essere onesti, e dire che l’occasione ideologica è stata colta al volo da Renzi e dalla sinistra sindacale per un’evidente ragione identitaria, con obiettivi contrapposti. Per il Premier, un blairismo a portata di mano (in un Paese che però ha avuto vent’anni di Berlusconi, non di Thatcher: populismo demagogico invece di estremismo liberista), e soprattutto una carta da giocare sull’altare del rigore europeo, per provare a guadagnare credito da convertire in flessibilità per la crescita. Per la Cgil un plusvalore politico immediato, che richiama la tradizione, recupera la storia, costituisce l’identità, crea automaticamente un campo.
E INFATTI la minoranza interna del Pd si è immediatamente iscritta a quel campo, recuperando un significato generale per la sua battaglia particolare di resistenza al potere renziano.
Già qui, ci sarebbe da riflettere sull’importanza culturale della questione-lavoro, se nel 2014 è ancora capace di attribuire soggettività e dignità politica, di creare una piattaforma strategica, di costituire un perimetro identitario. Altro che Novecento, altro che post- fordismo, altro che stella morta. C’è un’evidente sostituzione tecnologica in atto con il capitale che tenta di farsi direttamente lavoro, c’è una lunga generazione che è diventata adulta restando precaria, c’è una nuova fascia di espulsi cinquantenni che perdendo il posto rischiano di perdere anche la fiducia nella democrazia materiale, sospettata in questi anni di crisi di far valere i suoi buoni principi soltanto per i garantiti. Ma la questione resta centrale per qualsiasi Paese, per qualunque governo: e per ogni sinistra contemporanea, di vecchio o nuovo conio.
Alla questione del lavoro si legano infatti i valori a cui la sinistra non può fare a meno di far riferimento, anche nel nuovo secolo, le opportunità, i bisogni, la nuovissima necessità — come dice il Premier francese Valls — di «orientare la modernità per accelerare l’emancipazione degli individui». Infine e come sempre l’uguaglianza, questa volta in forma difensiva. Perché non c’è dubbio che le disuguaglianze stiano diventando la cifra dell’epoca. E se in passato la crescita e l’ascensore sociale di una società in espansione “scusavano” le disuguaglianze, oggi la crisi del lavoro le trasforma in vere e proprie esclusioni, che una democrazia molto semplicemente non può permettersi, perché non le contempla.
Questo significa che Renzi doveva fermarsi sull’articolo 18? No, ho già spiegato le ragioni del suo calcolo europeo, di cui non conosciamo ancora l’esito. Ma c’era e c’è ancora una modalità diversa di governare la questione, cioè una cultura e una consapevolezza che sono il segno distintivo di un leader di sinistra, e a mio giudizio non tolgono efficacia all’azione di cambiamento, anzi l’aumentano.
Il Premier poteva infatti spiegare al Pd che tocca alla sinistra di governo affrontare la riforma del lavoro perché altrimenti lo farà la crisi che non è un soggetto neutro, ma trasformando in politica il dogma della necessità mette i Paesi con le spalle al muro, tagliando a danno dei più deboli e non riformando nell’interesse generale. Nello stesso tempo poteva richiamare davanti ai suoi ministri il rischio che la crisi comprima soltanto i diritti del lavoro, come se fossero — unici tra tutti — variabili dipendenti, diritti nani, pretendendo quindi un’attenzione particolare alle tutele degli ammortizzatori sociali.
Poi poteva dire agli imprenditori che non ci sono pasti gratis neppure per loro, e che dopo la modifica dell’articolo 18 e il taglio dell’Irap dovevano fare la loro parte contribuendo a mantenere i costi della democrazia, quindi del welfare, di quella qualità complessiva del sistema sociale di cui tutti ci gioviamo, qualunque sia il nostro ruolo. Quindi doveva avvertire tutti i soggetti sociali del rischio che si rompa il vincolo tra i vincenti e i perdenti della globalizzazione, con i primi (abitanti degli spazi sovranazionali dove si muove il vero potere dei flussi informatici e finanziari) che non sentono più alcun legame di comune responsabilità con i secondi, segregati nello Stato- nazione che non ha più alcun potere di intervento e di controllo sulla crisi, salvo subirne tutti i contraccolpi. E infine, doveva avvertire il sistema politico e istituzionale, e addirittura l’Europa, del pericolo che attraverso il lavoro salti il nucleo stesso della civiltà occidentale, ciò che ha tenuto insieme per decenni capitalismo, democrazia rappresentativa e welfare state .
Di questo si tratta: e capisco che sia difficile comprimere la questione in un tweet. Ma in politica non tutto è istantaneo e non tutto è istintivo, se non vuole diventare tutto isterico, e alla fine instabile. Renzi è percepito come un politico capace di cambiare, e la sua spinta al cambiamento ha tagliato le gambe al populismo della vecchia destra berlusconiana e al furore anti-istituzionale della nuova destra grillina. Dunque il processo di riforma può essere utile al Paese e persino ad un sistema politico screditato ed estenuato, di cui il Pd oggi è nonostante tutto la spina dorsale. Ma qui nasce una seconda domanda: per Renzi il Pd è uno strumento opportunistico attraverso cui conquistare il potere o è una scelta culturale, politica, identitaria di responsabilità? Io credo sia una scelta di convinzione, come dimostra anche il fatto che Renzi è il primo segretario democratico che ha portato il Pd nel Partito Socialista Europeo. Ma questa scelta comporta alcune conseguenze che possono sembrare obblighi, e a mio parere sono invece opportunità. Non mi spaventa l’idea di fare del Pd un partito-nazione, se questo significa non certo cambiare nome, natura e impianto, ma saper rappresentare l’interesse generale chiedendo un consenso maggioritario, nella scia del countryparty contrapposto al courtparty chiuso in sé. La sinistra italiana ha non solo il diritto, ma il dovere (come in altre democrazie) di parlare all’intero Paese. Ma a patto che lo faccia in nome e per conto della sua identità: questo è il punto. Un’identità certo risolta, compiuta, modernizzata, ma che si può testimoniare a testa alta senza camuffarla o renderla ambigua. Per intenderci: nel New Labour di Tony Blair c’è certo il new, inseguito da Renzi, ma c’è pur sempre il labour, che il Premier non vede.
Diventa dunque singolare che nella sua spinta al cambiamento il segretario del Pd non consigli al Premier di usare anche l’altra metà del partito, quella di non stretta osservanza renziana, e il suo deposito di valori, di passioni, di storia e di tradizione. Diventa incomprensibile che a questa metà regali addirittura la bandiera del lavoro, con tutti i riflessi — anche condizionati — che comporta, compresa la costituzione immediata di un’identità storico-culturale, dunque politica. Da anni il Pd attendeva un’occasione di allargamento della sua base elettorale, e se la leadership di Renzi la realiz- za (come testimonia la ricerca di Ilvo Diamanti sui ceti sociali e le professioni), questa è un’occasione per il partito, per la sinistra, per il Paese. A condizione di non cambiare la propria natura. Io credo, in sostanza, che la sinistra vada modernizzata in senso europeo, occidentale, riformista, intendendo con questo la capacità di assumersi le responsabilità che la sfida di governo comporta, compresi i compromessi, compresi gli strappi. Ma credo che la sinistra debba ricordarsi di sé cambiando, non smarrirsi. Anzi, più è cosciente di se stessa, e insieme della necessità di cambiare, più può spiegare al Paese che gli strumenti politici che ha nello zaino sono i più adatti a gestire questa lunga fase di crisi: non i manganelli di Alfano nei cortei degli operai che hanno perso il lavoro.
La sfida è tutta qui, e non è poco. D’altra parte lo ricordava proprio lunedì una vecchia lettera di un antifascista liberale come Franco Antonicelli riproposta da Repubblica: «Ci vuole molto, molto amore per distruggere a fondo, molto e tenace orgoglio del passato per rinnovarsi davvero».

La Stampa 5.11.14
Renzi-sindacati
Un gioco a perdere
di Luca Ricolfi


La nebbia che per settimane ha circondato la Legge di stabilità si sta finalmente diradando. Dopo le slide, i tweet, gli slogan, le promesse in tv di Renzi e dei suoi ministri, un po’ di chiarezza la stanno facendo gli altri. Dove per «altri» intendo soggetti leggermente più inclini a dire la verità, come l’Istat, la Banca d’Italia, la Commissione europea. E la verità che emerge, non detta a chiare lettere ma neppure nascosta, è decisamente deprimente: la manovra del governo non è né buona né cattiva, è semplicemente debole, molto debole. Nulla, nella Legge di stabilità, autorizza a pensare che, grazie ad essa, le cose possano andare in modo sostanzialmente diverso e migliore di come sarebbero andate senza.
Dicendo questo, naturalmente, non mi riferisco agli interessi particolari, che sono invece ben tutelati o colpiti come è sempre successo: i lavoratori dipendenti avranno la conferma del bonus, gli statali l’ennesimo blocco degli scatti stipendiali; le imprese pagheranno un po’ meno Irap e contributi, i risparmiatori pagheranno più tasse; i cittadini avranno peggiori servizi (per la riduzione dei fondi a Regioni, Province, Comuni), ma le mamme avranno il bonus bebè.
Tutto questo è normale, ogni governo si procaccia il consenso come può e come vuole, e la manovra di fine anno (che ora si chiama Legge di stabilità) serve innanzitutto a questo. Quello che non è normale, ed è anzi molto deludente, è che così poco si riesca a intravedere sul piano dell’interesse generale. La manovra è debole non perché favorisce alcuni e danneggia altri, ma perché il futuro che le tabelle della Legge di stabilità ci consegnano pare proprio essere la continuazione del nostro triste presente.
Per avere la prova di quel che dico c’è un mezzo semplicissimo: controllare che cosa si prevede sul versante fondamentale per il futuro dell’Italia, che è quello dell’occupazione. Ebbene, con 3 milioni di disoccupati e un tasso di occupazione fra i più bassi del mondo sviluppato, il governo prevede che nel 2015 l’occupazione aumenti dello 0,1%, e nel 2016 dello 0,5%, mentre l’Istat, che è un po’ più ottimista del governo, prevede un aumento dello 0,2% nel 2015 e dello 0,7% nel 2016.
Sono in entrambi i casi cifre irrisorie, che non incidono sul tasso di disoccupazione, e prospettano per l’Italia un futuro di stagnazione. Un futuro che, in realtà, potrebbe risultare anche più cupo se si considera che già fra 14 mesi potrebbero scattare gli aumenti dell’Iva e di altre tasse (messi in conto dalle «clausole di salvaguardia» della Legge di Stabilità), e che tutte le previsioni del governo sono state formulate prima che l’Europa ci obbligasse, in barba alle battute polemiche di Renzi, a ripiegare su una manovra meno espansiva.
In questa situazione non stupisce che gli unici a compiacersi delle scelte del governo siano gli industriali (il presidente Squinzi ha detto che «la manovra toglie il freno al Paese»), e che i sindacati siano in difficoltà. Gli industriali apprezzano il fatto che, con la riduzione dell’Irap e l’eliminazione dei contributi per i neoassunti, sia arrivato anche il loro turno: una boccata d’ossigeno per i conti delle imprese, dopo quella che il bonus da 80 euro ha dato ai conti delle famiglie. Così come apprezzano che con il decreto Poletti, e presumibilmente con il Jobs Act, la disciplina dei licenziamenti stia evolvendo in modo più favorevole alle imprese.
I sindacati, invece, soffrono come non mai perché Renzi, con il bonus da 80 euro e la polemica anti-casta, li ha messi in trappola. Vorrebbero marciare contro il governo (e lo faranno, presumo), ma sanno anche che una parte considerevole dei lavoratori dipendenti (la maggioranza?) non li seguirebbe, perché sta con Renzi. E ci sta per due elementari motivi, uno materiale e l’altro estetico: il bonus da 80 euro, che fanno sempre comodo, e il piacere di vedere un premier-ragazzo che fa il bullo con i vecchi tromboni della politica, siano essi parlamentari, sindaci, governatori o sindacalisti.
Di qui lo stallo. Renzi, dei sacrosanti diritti dei lavoratori, e delle gloriose conquiste di quarant’anni di lotte, se ne fa un baffo. Da parte loro i sindacati sembrano pensare solo a quello: sacrosanti diritti e gloriose conquiste. Non paiono rendersi conto che quel che non va bene nella politica di questo governo non è che cancella il mondo incantato dello Statuto dei lavoratori, ma che non ne offre in cambio un altro che funzioni. Il dramma della Legge di stabilità è che essa certifica proprio questo: anche fra qualche anno, nonostante migliaia di atti di legge e la riforma del mercato del lavoro, l’Italia avrà 3 milioni di disoccupati, e più o meno lo stesso numero di occupati di oggi.
Da questo punto di vista Renzi e i sindacati non sono nemici, ma parti in commedia dello stesso gioco infernale. Un gioco in cui sembra che tutto, nel bene e nel male, dipenda dall’articolo 18, mentre le tabelle della Legge di stabilità mostrano che non è così. Le vecchie regole del mercato del lavoro possono avere depresso l’occupazione, ma le fosche previsioni delle tabelle ministeriali svelano che le nuove regole del Jobs Act non basteranno a far «cambiare verso» all’Italia.
Il guaio è che né il governo, né il sindacato, hanno il coraggio di prendere atto che il problema dell’occupazione è un problema di costi, prima ancora che di regole. Il governo teme di non avere i soldi per abbassare veramente e stabilmente il costo del lavoro, e infatti prevede una decontribuzione limitata alle assunzioni del 2015, con un budget decisamente insufficiente (1,9 miliardi nel 2015). Il sindacato teme, e in questo ha perfettamente ragione, che la decontribuzione si limiti ad alleggerire i conti aziendali, senza creare occupazione addizionale. Entrambi appaiono sordi e ciechi di fronte al vero problema: che non è regolare i diritti di chi un lavoro già ce l’ha, ma di occuparsi dei milioni di italiani che un posto di lavoro non ce l’hanno.

il Fatto 5.11.14
L’agente assolto Nicola Minichini
“Stefano arrivò già picchiato. Indagate sui carabinieri”
di Silvia D’Onghia


LA RIVELAZIONE Uno degli agenti penitenziari assolti al Fatto: “Indagate sull’Arma che lo arrestò”
Nicola Minichini racconta: “Quando i carabinieri ce lo consegnarono, Cucchi aveva già gli occhi segnati, un livido sullo zigomo, mal di schiena e camminava a fatica. Non ho visto il pestaggio, ma mi domando perché la Procura non abbia trattato i militari (che lo avevano fermato) con lo stesso accanimento che ha usato contro di noi”
Aveva già quei segni sotto gli occhi, lamentava mal di testa. Al medico che lo ha visitato ha detto di avere anche mal di schiena. E quel medico l’ho chiamato io, cinque minuti dopo averlo preso in consegna. Io non ho visto il pestaggio, non ho assistito, ma secondo lei, uno che appena vede l’arrestato in quelle condizioni chiama il medico... ”. Nicola Minichini è un fiume in piena. Dopo cinque anni e due assoluzioni, uno dei tre agenti di polizia penitenziaria finiti alla sbarra per la morte di Stefano Cucchi adesso chiede di essere lasciato in pace, “per non passare il resto della vita additato come un mostro”.
Minichini, può ricostruire quello che è accaduto nei sotterranei di piazzale Clodio il 16 ottobre 2009?
Io ho ricevuto Cucchi alle 13:30. Lo hanno accompagnato da noi i carabinieri dopo l’udienza di convalida. Durante il passaggio di consegne, si fanno le domande di prassi: come stai fisicamente, hai qualche problema, ecc. Cucchi rispose al mio collega di avere mal di testa e immediatamente io chiamai il dottor Ferri. Fu lui a notare che, oltre ai segni, aveva anche un livido sullo zigomo. Gli chiese come mai e Stefano rispose di essere caduto dalle scale. Si rifiutò di farsi visitare. Ferri gli somministrò una pillola per il mal di testa. Poi rientrò in cella. E dopo un’ora lo vennero a prendere i colleghi per portarlo a Regina Coeli.
Non notò nient’altro?
Si alzò da solo, ma non di scatto, faceva fatica a camminare. Ma in cella entrò da solo.
Quindi la versione dell’altro detenuto, Samura Yaya, secondo cui Stefano si rifiutava di entrare e voi lo portaste dentro con la forza, non è vera?
Nessuno dei 150 testimoni ha confermato quella versione. Senta, immagini questa situazione. In quei sotterranei transitano mediamente 30/32 arrestati al giorno, ci sono due agenti ogni arrestato più il personale di Villa Maraini più gli avvocati. Ma secondo lei è veramente possibile riempire di calci e pugni una persona senza essere notati? E per cosa, poi?
Me lo dica lei: per cosa?
Ecco, non lo so. Me lo devono ancora spiegare. Perché ci aveva chiamato ‘guardie’? Ma ci chiamano in tutti i modi, persino ‘secondini’. Perché Cucchi era un rompiscatole? Quaranta arrestati al giorno e sa quanti rompiscatole ci sono. Perché mi doveva far trovare qualcosa, mi doveva far fare carriera? E io sarei così pazzo da menare uno davanti a tutti? Io quel reparto l’ho aperto nel 1993 e da allora non ho mai avuto un problema.
Minichini, lei però non ha mai accusato nessun altro di averlo pestato. A questo punto avrebbe potuto farlo.
Io non ho visto il pestaggio, se c’è stato io non c’ero. Quello che so per certo è che da noi non è successo niente.
Ma è certo che il pestaggio ci sia stato?
Lo dicono le sentenze, non lo dico io. Per quanto mi riguarda, quei segni sotto gli occhi potevano anche essere il risultato dell’eccessiva magrezza. Però, gliel’ho detto, la prima cosa che ho fatto è stata chiamare il medico.
Quindi lei ha la coscienza a posto, pur sapendo che è morto un ragazzo di 31 anni e che a cinque anni di distanza non c’è ancora un colpevole.
Io ho fatto tutto quello che era in mio potere per aiutare Cucchi, di più non avrei potuto.
Ha letto che adesso il procuratore capo Pignatone si è detto disposto a riaprire le indagini, qualora dovessero emergere nuovi elementi?
Io me lo auguro e mi auguro che possano trovare qualcosa. Sarebbe ora di allargare gli orizzonti. Non so perché finora la Procura non ha avuto lo stesso accanimento nei confronti dei carabinieri, che lo hanno arrestato e avuto in consegna prima di noi.
Come si sente da “innocente”?
Come uno che chiede giustizia. Per la famiglia Cucchi e per la mia. Senza un colpevole agli occhi dell’opinione pubblica sarò sempre quello del caso Cucchi. Ho dovuto spiegare ai miei vicini che non sono un mostro, pensi come mi sono vergognato. Anch’io cerco la verità, perché anch’io mi sento una vittima di questa storia.

il Fatto 5.11.14
Anche Grasso chiede la verità: “Chi sa parli”


IL PRESIDENTE del Senato Piero Grasso da Bari, dove è intervenuto per i festeggiamenti del 4 novembre, ha lanciato un appello alle istituzioni coinvolte nel caso Cucchi: “Chi sa parli. Che si abbia il coraggio di assumersi le proprie responsabilità perché lo Stato non può sopportare una violenza impunita di questo tipo". E con un post su Facebook Grasso ha aggiunto un ulteriore commento, dopo la sentenza di assoluzione: "È doverosa e giusta la massima solidarietà alle famiglie delle vittime di violenza. La violenza non può far parte della dignità di uno Stato civile, soprattutto quando viene da rappresentanti delle istituzioni. Bisogna continuare a cercare la verità, nonostante ci siano state delle sentenze che non hanno saputo o potuto trovarla". Questa dichiarazione arriva dopo l’incontro di lunedì tra la famiglia Cucchi e il capo dellaProcura di Roma, Giuseppe Pignatone, che aveva dichiarato: “Procederemo ad una rilettura di tutte le carte dell’inchiesta”, salvo poi difendere l’operato dei suoi pm. “Questo è il fallimento della Procura di Roma, è il fallimento della giustizia”, la replica di Ilaria Cucchi.

il Fatto 5.11.14
Lo Stato che uccide
“Un albanese in piazzale Clodio” Poi fu abbandonato in ospedale
di Si. D’O.


Aveva la faccia gonfia come un pallone e dei segni neri sotto gli occhi”. Giovanni Cucchi ha visto per l’ultima volta suo figlio Stefano la mattina del 16 ottobre 2009, durante l’udienza di convalida del fermo per droga, nel Tribunale di piazzale Clodio, lo stesso che oggi non riesce a dare una risposta adeguata a questa famiglia. “Ho visto Stefano con il viso pieno, gonfio, gonfio come una persona che è stata presa a schiaffi, a botte”, ha raccontato Giovanni durante le indagini dei pm Barba e Loy. Ma non è stato l’unico a vederlo così. “La segretaria di udienza – si legge nelle motivazioni della sentenza di primo grado – ha ricordato che Cucchi era magrissimo, aveva le occhiaie, gli occhi ‘cerchiati’, e le era parso anche un po’ sofferente”.
Il ragazzo era molto nervoso: scalciava contro sedie e tavoli e continuava ad alzarsi dalla panca sulla quale era seduto in fondo all’aula. Anche se “seduto” sembra una parola eccessiva: l’avvocato Rocca, quello che gli era stato assegnato d’ufficio perché nessuno dei carabinieri aveva chiamato il legale di fiducia, ricordò che Stefano “era sdraiato nella panca... era sdraiato su un gluteo... non era proprio seduto”. Quasi come uno che accusa dolore alla schiena. “Mi dichiaro innocente per quanto riguarda lo spaccio, colpevole per quanto riguarda la detenzione per uso personale – disse lo stesso Cucchi al pm che lo interrogava –. Mi scusi, non riesco a parlare bene”. Sarebbe bastato sollevare lo sguardo dalle carte per rendersi conto che quel detenuto non stava bene. Nessuno lo ha fatto.
A giudizio, e finora assolti in entrambi i gradi, sono andati tre agenti di polizia penitenziaria; Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. Il teste su cui si è basata parte dell’accusa è Samura Yaya, un uomo del Gambia che si trovava nella cella 5 dei sotterranei del Tribunale (Cucchi era nella 3). “C’era il ragazzo e qualcuno dava calci, faceva rumore con i piedi, sentito che il ragazzo caduto e stava piangendo” ha dichiarato ai pm in sede di incidente probatorio. Alle 14 Stefano venne visitato dal medico di piazzale Clodio, Ferri, che nel certificato scrisse: “Si rilevano lesioni ecchimotiche in regione palpebrale inferiore bilateralmente di lieve entità e colorito purpureo. Riferisce dolore e lesioni anche alle regioni del rachide e agli arti inferiori, ma rifiuta anche l’ispezione. Evasivamente riferisce caduta per le scale avvenuta ieri”.
ALL’ARRIVO nel carcere di Regina Coeli, Cucchi incontrò il dottor Degli Angioli, il primo e forse l’unico – nella catena delle 140 persone con cui ha avuto a che fare – che si rese conto della gravità della situazione: “Nel momento in cui ho detto di mettersi seduto lui mi ha detto ‘no, mi fa male la schiena’. Ha tirato giù i pantaloni e ho visto questo forte rossore, che c’era localizzato nella zona sacrale, un pochino alto, quasi lombare. Ho fatto una digitopressione e lui ha avvertito subito un contraccolpo”. Stefano finì all’ospedale Fatebenefratelli, con una frattura vertebrale, ma rifiutò il ricovero e preferì tornare in carcere, “dove c’è il medico che conosco”. Durò solo poche ore, perchè il ragazzo – si legge ancora nelle motivazioni della sentenza di primo grado – “lamentava nausea e dolenzia diffusa, aveva brividi e freddo e diceva di non potersi alzare per il dolore”. A tutti coloro che glielo chiedevano, continuava a ripetere di essere caduto dalle scale.
La notte, su indicazione dei medici, Stefano Cucchi venne trasferito nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini. Lo aspettavano cinque giorni di agonia, con la sua famiglia chiusa dietro la porta del nosocomio a chiedere informazioni sul suo stato di salute. Ma lui non lo sapeva. Lui chiese solo, e a più riprese, di poter parlare con il suo avvocato. In cambio, diceva, avrebbe ricominciato a nutrirsi. Stefano era molto dolorante, gli fu inserito un catetere vescicale ma, nonostante tutto, i medici e gli infermieri che ebbero a che fare con lui (i primi condannati in primo grado e assolti in appello, i secondi sempre assolti), lo trovavano “lucido” e “tranquillo”. La sera del 20 ottobre, la dottoressa Bruno – tentando di convincerlo a mangiare – “drammatizzò” la situazione: “Non è che gli dissi ‘domani muori se non ti fai le flebo’. Però gli spiegai che i rischi per la sua salute erano significativi”. Tanto significativi che la mattina dopo Stefano era morto davvero.

Corriere 5.11.14
Il prontuario sull’uso della forza per evitare nuovi casi Cucchi
Nelle ultime direttive agli agenti l’accento sulla soglia del dolore
di Fiorenza Sarzanini


ROMA Manifestazioni di piazza, servizi di controllo del territorio, gestione dei migranti, violenza su donne e minori: le nuove «regole d’ingaggio» per i poliziotti fissano i comportamenti da tenere in ogni situazione. E chiariscono in maniera netta le modalità di «intervento su persone che sono in stato di alterazione psicofisica» provocata da alcol o droghe. Perché mai più debba accadere un caso come quello di Federico Aldrovandi, morto per mano degli agenti che lo avevano fermato mentre tornava a casa ubriaco. Mai più possa ripetersi un caso come quello di Stefano Cucchi, morto dopo essere stato arrestato e «pestato», come hanno riconosciuto i giudici pur non trovando le prove per condannare gli imputati.
Le piazze d’autunno
La polemica per la gestione della piazza e di quei casi singoli finiti poi in tragedia non si placa e per questo i vertici del Dipartimento della sicurezza hanno ritenuto necessario accelerare l’entrata in vigore delle nuove norme. Anche in vista di un autunno che si preannuncia ricco di appuntamenti organizzati per protestare contro la politica del governo e più in generale per sollecitare interventi di sostegno per il mantenimento dei posti di lavoro.
Il regolamento del prefetto Alessandro Pansa parte da un principio generale, troppe volte dimenticato: «L’uso della forza deve essere sempre proporzionato al grado di resistenza e violenza del soggetto interessato e deve cessare non appena lo stesso abbia desistito». Non solo: «La fase di coazione fisica deve essere limitata al tempo strettamente necessario perché il soggetto alterato può presentare una soglia del dolore molto superiore alla media».
Il divieto di colpi al viso
La direttiva fissa i vari stadi da seguire e dunque sottolinea come «non devono essere inferti colpi sul viso o in parti vitali del corpo e non deve essere compromessa o minacciata la possibilità dell’interessato di respirare». Viene ribadito che «è vietata ogni forma di accanimento nell’utilizzo dei mezzi di coazione fisica» e che «in caso di soggetti alterati l’approccio deve essere maggiormente caratterizzato dalla gradualità dell’intervento privilegiando, ove possibile, l’azione di dialogo e persuasione».
Manette e sfollagente
Indispensabile, proprio per evitare eccessi e abusi, è ritenuto il corretto uso dei dispositivi e degli equipaggiamenti per i poliziotti in servizio di ordine pubblico. Per questo si specifica che «si può procedere all’ammanettamento quando è strettamente necessario per respingere una violenza o vincere una resistenza o per impedire la consumazione dei reati», ma soprattutto «quando è richiesto dalla pericolosità del soggetto, dal pericolo di fuga o da circostanze ambientali che ne rendono difficile l’esecuzione, sempre nel rispetto della dignità e della riservatezza della persona».
Ancor più vincolanti sono le nuove disposizioni riguardo l’uso dello sfollagente che «deve essere utilizzato come strumento di difesa-offesa e non deve essere considerato come mezzo punitivo; deve essere impiegato con decisione, mai con brutalità; deve essere adoperato indirizzando i colpi agli arti superiori e inferiori, mai al capo, al volto e a tutte le parti vitali del corpo». E quindi, «l’operatore deve astenersi dall’utilizzo della sfollagente nei confronti di persone inermi che abbiano desistito in maniera evidente dalla propria azione violenta oppure siano in posizione tale da non nuocere e non realizzino alcuna forma di resistenza». Regola nuova anche per l’uso delle armi: «non si può sparare in caso di fuga del soggetto a meno che non sia effettuata mettendo in pericolo l’incolumità degli altri».

La Stampa 5.11.14
Il nuovo divorzio “breve”
Norme confuse e troppi dubbi
La rivoluzione nasce zoppa
di Carlo Rimini


D’ora innanzi i coniugi possono separarsi e divorziare senza passare dal tribunale, ma con un semplice accordo negoziato con l’assistenza di un avvocato oppure – se non hanno figli minorenni o non autosufficienti – con un accordo concluso davanti al Sindaco. Anche se non viene modificato il tempo per ottenere il divorzio (rimangono per ora tre anni dalla separazione) si tratta certamente di una rivoluzione. Tuttavia le modifiche introdotte al Senato rendono assai complicata e incerta l’applicazione pratica della nuova legge. Tutti gli accordi devono essere trasmessi al Procuratore della Repubblica il quale ha il compito di verificare che non contengano «irregolarità» e che rispettino gli interessi dei figli. Gli avvocati che hanno assistito le parti hanno tempo 10 giorni per la trasmissione della separazione o del divorzio all’Ufficiale dello stato civile, ma il testo su cui il Governo ha ottenuto la fiducia non dice da quando decorrono i 10 giorni: da quando l’accordo è stato raggiunto o da quando il pubblico ministero rilascerà il suo nullaosta? E cosa accadrà nel caso, molto probabile, in cui il pubblico ministero rimarrà silente per molto tempo? Chi rilascerà il certificato previsto dalle norme europee perché il divorzio possa essere trascritto anche negli altri Stati, visto che il regolamento europeo sul divorzio prevede che il certificato sia emesso dall’autorità che ha pronunciato il divorzio? Se il controllo del giudice è sostituito da quello del Procuratore della Repubblica, non si vede dove sia il risparmio di tempo e di energie che il decreto vuole ottenere. La riforma è quindi del tutto inefficace per ridurre i tempi della giustizia, anche perché è probabile che i coniugi, giustamente intimoriti dai molti problemi interpretativi che le nuove norme pongono, finiscano col preferire la strada vecchia della separazione e del divorzio pronunciati dal giudice. Una riforma che tocca principi così rilevanti meritava molta maggiore attenzione.
Più in generale la famiglia e il diritto che la regola meriterebbero un diverso trattamento da parte della politica. Il diritto di famiglia è regolato da norme scritte quarant’anni fa. Basterebbe ascoltare che cosa pensano i giovani del matrimonio per capire perché, sempre più spesso, scelgono di non sposarsi: è un apparato di regole vecchie di cui non capiscono l’equità e l’utilità. La politica, la buona politica, dovrebbe davvero riformare il diritto di famiglia per rispondere alle esigenze di un mondo che è molto cambiato. Si potrebbe partire da quattro riforme fondamentali. 1) Basterebbe una legge di cinque righe per disciplinare le unioni omosessuali secondo il modello tedesco, come il Governo ha detto di voler fare (ma ora non ne ha il tempo). 2) È indispensabile ridurre i tempi fra separazione e divorzio perché costringere i coniugi ad un limbo di tre anni prima di ottenere lo scioglimento del matrimonio non ha più alcun senso. 3) È necessario riformare la comunione dei beni fra coniugi. La legge attuale non funziona ed infatti quasi tutti scelgono la separazione dei beni. Ma la separazione dei beni è un sistema profondamente iniquo se uno dei coniugi, come ancora spesso succede, rinuncia alle proprie aspirazioni lavorative per dedicarsi alle esigenze dei figli. 4) È indispensabile riformare gli effetti economici della separazione e del divorzio, ancora basati sul diritto all’assistenza da parte del coniuge debole. In tutta Europa ormai la separazione e il divorzio non attribuiscono al coniuge debole una pretesa assistenziale ma una giusta compensazione per i sacrifici fatti.
Il testo approvato ieri dimostra che nessuno crede più che sia compito dello Stato convincere i coniugi a non separarsi o a non divorziare: è un tentativo destinato all’insuccesso. Ma la vera sfida del diritto di famiglia è un’altra: oggi la vita per le famiglie è complicata e difficile; il matrimonio dovrebbe prevedere regole semplici ed eque per compensare ciascuno per i sacrifici fatti e garantire, fino a che è possibile, la serenità.

il Fatto 5.11.14
Lo sconcio dei disabili senza scuola


OGGI DAVANTI A MONTECITORIO LA CONSEGNA DEI DOSSIER: LE STORIE DEI RAGAZZI CUI È NEGATO IL DIRITTO ALL’ISTRUZIONE
Cos’è cambiato da metà settembre, quando è partita la campagna di Tutti a scuola con il Fatto? Poco o nulla. Anzi, qualcosa sì: nella legge di Stabilità è previsto un taglio di 100 milioni al Fondo per la non autosufficienza. Dopo l’estate delle docce gelate, il risultato è questo. La campagna era iniziata con il caso di Napoli: seicento ragazzi disabili lasciati a casa da scuola, perché la Provincia non ha fondi (la situazione è tuttora immutata). Oggi davanti a Montecitorio – dalle 11 alle 15 – si terrà una manifestazione con un presidio e la consegna del dossier al governo. Ci saranno i ragazzi di Tutti a scuola con le loro famiglie: chiedono solo di poter andare a scuola, di avere accesso a un diritto garantito dalla Costituzione. Ma che dovrebbe essere assicurato dall’umanità, da un’idea nemmeno troppo ampia di dignità. Per questi bambini e ragazzi, andare a scuola è tutto: la scuola è la vita, perché significa crescere, progredire, imparare, socializzare. Significa il tentativo di una normalità possibile. Leggete le loro storie qui sotto: e poi dite se questo è un Paese civile.

il Fatto 5.11.14
Questione Capitale
Sfacelo Atac, dopo cubiste e raccomandati ora bussano i creditori
L’azienda del trasporto pubblico di Roma sull’orlo del collasso
Conti pignorati per un debito di 115 milioni di euro
A rischio i rifornimenti di gasolio per i bus. Il Comune ci mette una pezza
di Antonello Caporale


Forse il gasolio sarà assicurato e i bus della Capitale proseguiranno serenamente il lento cammino verso il default. L’evento estremo, il fine corsa per assenza di benzina, sembra scongiurato da un intervento ponte del Campidoglio che risolve l’ultimo pignoramento dei fornitori nell’ultima catasta di debiti che espugna il miliardo di euro e pone l’Atac in cima alle aziende peggio governate d’Europa. Qui siamo nel centro di gravità permanente della bancarotta, nell’enclave debitoria di una città già ricoperta dai debiti, nel sistema più approfondito, specializzato e contabilizzato di frode della fede pubblica. Il passante pensa di viaggiare su un bus e non sa che galoppa su un vettore d’incoscienza, un turbine feroce di appalti farlocchi, bandi irregolari, arbitrati che sembrano arbitri, e uomini politici di tutte le razze, veramente tutte, che hanno preteso nel corso degli anni un pizzo personale. L’amico, l’amica, la fidanzata, la moglie, il segretario, il cognato, l’amante a ingrassare una pianta organica che arriva a dodicimila dipendenti, che perde all’anno circa 200 milioni di euro, che aumenta vertiginosamente i costi degli amministrativi (da 86 milioni di euro nel 2011 ai 115 del 2012), utilizza il 60 per cento delle vetture (1379 in transito contro le 2298 disponibili), pianifica la riduzione di 498 autisti e lascia già ora la città sulla pensilina. In attesa.
GIÀ ORA LE CORSE sono scese ben al di sotto del 2 per cento dichiarato, e questa riduzione, che l’assessore alla Mobilità Guido Improta chiama gentilissimamente razionalizzazione, è il segno del ritorno a Neanderthal: fortunati i romani con i piedi in salute. La goccia di gasolio che ha fatto traboccare il vaso e che ieri avrebbe potuto lasciare i bus in garage è illuminante: il consorzio Tpl chiede ad Atac 115 milioni di euro arretrati. Atac si oppone ma si arriva a una transazione. È l’anno 2010 e le parti si accordano per 68 milioni di euro. Ma l’assessore del tempo, Antonello Aurigemma, blocca tutto e chiede un parere all’Avvocatura. Non si sa cosa abbia fatto l’Avvocatura, si sa però che la causa riprende e i soldi tre anni dopo, grazie a rivalutazione e interessi, giungono a 115 milioni di euro. Atac non paga, il Consorzio pignora i conti correnti e il gasolio non esce dai serbatoi. Ecco in sintesi l’ultima crisi. Che si aggiunge, anzi si sovrappone come uno specchio e rimanda a scandali infiniti come le buche della città. Le linee saltano, la nuova geografia urbana che si organizza attraverso siti dedicati. I 5Stelle monitorano le vetture morte e chiamano alla collaborazione: da me non passa più il 51. E da te cosa succede? Non me ne parlare: il 117 è sparito dalla circolazione.
Immortale, ai tempi di Parentopoli, la cinquantina di persone assunte nel giro della galassia di Alemanno, la conversazione dell’assessore all’Ambiente Marco Visconti, che aveva appena favorito il destino della sua compagna in Tram-bus, con un collega consigliere comunale capitolino: “Purtroppo un assessore marchette sue ne può fare veramente poche. Io stavo al Patrimonio e la mia compagna è entrata con Bertucci... Cioè se tu assessore te metti 10-12 persone riconducibili a te e te le sistemi tutte sei un deficiente e crei scompiglio a tutti”.
Visconti in questo caso invocava sobrietà nelle assunzioni di favore e rigore nella modulistica familiare. Perché in Atac si è fatto veramente di tutto e di più. È riuscita, per fare un esempio che nel monte debiti appare poco più che una piuma d’oca, a corrispondere un milione e 850 mila euro alle aziende incaricate di selezionare personale (circa 800 assunzioni), quando, come conferma l’assessore nell’immortale telefonata intercettata, l’Atac riesce ad ingaggiare il personale anche solo “de visu” (“ovvio devi avere un minimo di curriculum”). Quel minimo che non mancò, per esempio, all’ex cubista GiuliaPellegrino come anche ad alcuni esponenti del Pd intercettati sulla strada del trasporto pubblico.
SI DIRÀ: TEMPI PASSATI. Invece no perché a Parentopoli è poi succeduta lo scandalo della bigliettazione farlocca, il nero di circa 70 milioni di euro espunto dalla contabilità attraverso la stampa e vendita parallela dei biglietti e soprattutto, questa è una delle pratiche più ostinate, attraverso la cogestione del malgoverno, una sorta di associazione politica tra destra e sinistra per dimostrare come si può spennare l’Atac. E se fanno sorridere (o piangere) le promesse dei manager ingaggiati da Alemanno per “rilanciare” l’azienda, il suo successore Ignazio Marino ha rimorchiato un nuovo amministratore delegato, Danilo Broggi, che contemporaneamente è consigliere di amministrazione di Sirti, vicepresidente di Quadrivio Group, Presidente di Poste Assicura, Presidente del centro di cultura d’Impresa. Quattro poltrone (una delle quali retribuita extra) in aggiunta a quella principale. Il segno che la politica è irredimibile ma pure i manager non fanno sconti.
Broggi guida l’Atac? L’Atac sa far peggio anche senza di lui e dimostra, dopo gli scandali, che il conto lo paga il cittadino (e contribuente) si paga alla fermata. Una, dieci, cento linee cancellate o ridimensionate, con una lista parallela dei bus pericolosi, le tratte sulle quali si viaggia a proprio rischio e pericolo. Non prendete il 20 se vi trovate alla fermata metro Anagnina, state attenti allo 042 e al 508 se siete diretti a Corcolle, attenzione per chi naviga nei dintorni di Tor Vergata allo 059 e al 511. Pericolo vandalismo. In centro guardia alta nella famigerata vettura del 60 che conduce borseggiatori e borseggiati da Termini alle soglie di Pietro, nella casa di Cristo.

il Fatto 5.11.14
Uber all’assalto di Torino, è finito il mondo dei tassisti
Tutto in una app. Il servizio che permette di chiamare un’auto con conducente sta riuscendo dove aveva fallito Bersani: liberalizzare un settore bloccato dalle lobby
di Stefano Feltri


Non è che per guidare un’auto ci voglia molto più che una patente”. Benedetta Arese Lucini, 30 anni, bionda, milanese, arriva in ritardo all'appuntamento: le grandi città sono bloccate da uno sciopero dei mezzi pubblici, lei ne ha approfittato per tagliare le tariffe di Uber a Milano così da conquistare nuovi clienti appiedati. Benedetta Arese Lucini è il general manager di Uber in Italia e sta riuscendo là dove aveva fallito Pier Luigi Bersani, ai tempi del secondo governo Prodi: riscrivere le regole di un settore arcaico come quello del trasporto locale, diviso tra mezzi pubblici inefficienti, tassisti costosi (e introvabili di notte o quando piove) e le elitarie auto Ncc, il noleggio con conducente. Quando nel 2007 Bersani provò a eliminare il divieto di cumulare più vetture per una sola licenza da tassista, il ministero dello Sviluppo finì sotto assedio. Oggi c'è qualche mugugno, un paio di contestazioni serie, ma la politica pare aver delegato a Uber il compito di liberalizzare un settore calcificato da 22 anni. E così, dopo aver conquistato Milano e Roma, Uber ha iniziato a esplorare il mercato di Genova e da domani parcheggerà anche a Torino, la città che senza più la Fiat è pronta a entrare in una nuova era in cui le auto non si comprano ma si usano. Uber è soltanto una app, un'icona su un telefono, dietro la quale c'è una compagnia californiana guidata da Travis Kalanick che fattura 200 milioni di dollari ed è valutata attorno ai 18 miliardi (per dare un'idea: in Borsa tutta Finmeccanica ne vale 4). Uber si limita ad aiutare chi ha un'auto a trovare chi è disposto a pagare per una corsa. In cambio trattiene una percentuale, a Milano per Uber Black – la vettura a noleggio con autista – è il 20 per cento. “L'azienda sta sviluppando un brand che ha una fedeltà impressionante da parte dei clienti e una certa mistica”, ha scritto su Bloomberg l'economista Mohamed El-Erian, tra gli opinionisti finanziari più influenti. Anche El-Erian usa Uber: quando arriva in un aeroporto o in una stazione guarda lo smartphone, prenota l'auto più vicina che in pochi minuti arriva a prelevarlo permettendogli di evitare la fila dei taxi. Il conto viene addebitato sulla carta di credito aziendale, niente più fastidi con monetine e ricevute.
SAPETE QUANTI POSTI DI LAVORO ha creato in Italia? Undici. Quelli di Benedetta Arese Lucini e dei suoi collaboratori. Di quanto sono aumentate le corse e qual è l'impatto sulla mobilità urbana? Mistero, per politica aziendale Uber non diffonde questi numeri, a conferma che vuole sedurre più che convincere. Le uniche cifre note del ramo italiano sono quelle, risibili, del primo e unico bilancio depositato relativo al 2013: fatturato 562 mila euro, utile di 9.100, spesa per stipendi 390 mila. Eppure Uber è un fenomeno mondiale che va oltre le sue dimensioni finanziarie: quando in Belgio è stata messa fuori legge, si è attivata la vicepresidente della Commissione Neelie Kroes per denunciare la “folle decisione”, usando argomenti pulp come “le 23 donne stuprate di recente da persone che si sono presentate come tassisti”. Uber sta diventando quello che Apple è per la tecnologia, qualcosa che bisogna aver provato: anche il premier Matteo Renzi si è premurato di far sapere che aveva provato Uber a New York. Per espandersi Uber sceglie le città in cui più persone scaricano la app senza ancora che ci sia il servizio, domanda inevasa. È un simbolo, come Napster (archeologia del web) o Spotify, non tanto compravendita di beni e servizi quanto condivisione, è la “sharing economy” che magari non aumenta il Pil ma migliora la qualità della vita. Questo racconta la Arese Lucini ai parlamentari che incontra, assieme allo studio di lobbying Cattaneo Zanetto cui si appoggia, per spiegare l'impatto positivo sull'Italia.
Il servizio offerto da Uber, infatti, è quasi legale. O meglio, nessuno ha ben chiaro se viola una preistorica legge del 1992 che regolava i taxi e per il noleggio con conducente fissava i seguenti paletti: “Si rivolge all'utenza specifica che avanza, presso la sede del vettore, apposita richiesta per una determinata prestazione a tempo e/o viaggio. Lo stazionamento dei mezzi avviene all'interno delle rimesse o presso i pontili di attracco”. Tradotto: ogni Ncc che porta un passeggero dal centro di Roma all'aeroporto di Fiumicino dovrebbe poi tornare alla rimessa, non potrebbe neppure caricare un passeggero che da Fiumicino deve andare in città. Una norma così assurda che l'autorità Antitrust ha suggerito di abrogarla “anche in considerazione delle nuove possibilità offerte dalle piattaforme on line”. Cioè Uber.
Benedetta Arese Lucini si è scontrata con i tassisti milanesi, poi con quelli genovesi, e con i loro referenti politici, a cominciare dal ministro dei Trasporti Maurizio Lupi. Ma lei insiste, supportata dal quartier generale di San Francisco. Dopo una laurea alla Bocconi e una specializzazione in matematica finanziaria, la Arese Lucini si è occupata di innovazione finanziaria a Morgan Stanley, poi un master alla New York University dove ha partecipato a progetti per i contenuti pagamento del network HBO, e si è trasferita in Malesia a lanciare start up di commercio via web. Poi Uber l'ha chiamata per affidarle l'Italia dopo aver letto il suo curriculum su LinkedIn.
NELLE ULTIME SETTIMANE ha deciso di sposare la frontiera tra lecito e il non ancora illecito: a Milano ha sperimentato Uber Pop. Hai un'auto? Se superi i requisiti di affidabilità previsti da Uber (21 anni, nessuna sospensione e fedina penale pulita), puoi diventare un driver da chiamare con la app. Le tariffe sono basse: 35 centesimi a chilometro, “quasi un rimborso spese”, dicono dall'azienda, una precisazione per presentare il servizio come una variante del car sharing (tipo Blablacar, si condividono auto private e si dividono le spese senza farci profitti) meglio tollerate e regolate. Uber praticamente non guadagna nulla da UberPop, “ma se non lo lanciavamo noi lo avrebbe fatto qualcun altro”, è l'analisi della Arese Lucini. Nell'era della connessione continua l'importante è controllare nodi della rete, persone che usano la tua app, un modo per fare soldi poi si trova. Infatti a Torino intanto arriva UberPop (per 15 giorni gratis), poi un modo per ottenere ricavi dal popolo Uber si troverà. “Siamo il simbolo del cambiamento”, dice Benedetta Arese Lucini. I tassisti, e i politici, possono solo restare a guardare.

Corriere 5.11.14
La gabella (da abolire) che pesa sugli studiosi
Impossibili le libere riproduzioni per motivi di studio dell’intero universo dei beni culturali, a partire dalle biblioteche
di Gian Antonio Stella


Che differenza c’è tra lo stud io dei «Princìpi di scienza nuova» di Giambattista Vico e l’acquisto di una bottiglia di Chateau Margaux per una serata con gli amici? Nessuna, secondo lo Stato italiano: sono entrambi due sfizi. Vuoi toglierti il capriccio? Paga. Pare impossibile, infatti, ma a distanza di mesi non è stato ancora posto rimedio a una delle leggi più insensate votate negli ultimi tempi. Quella che vieta ai ricercatori, agli studenti, agli studiosi in genere di fotografare con il telefonino o con una macchina digitale i libri sui quali stanno lavorando per una tesi, un dottorato, una ricerca…
All’estero, come ha spiegato su Il Giornale dell’Arte Mirco Modolo, non è così: «A Londra e Parigi gli studiosi possono riprodurre i documenti con mezzi propri». Ovvio: ogni Paese ha tutto l’interesse di mettere a disposizione il proprio patrimonio bibliografico. Più cresce la classe dirigente che vuole capire, approfondire i temi, più cresce il Paese. Da noi no: il decreto ArtBonus ha liberalizzato le foto nei musei e nei siti archeologici per i turisti, ma si è rimangiato l’apertura, che era nel testo originario, alle libere riproduzioni per motivi di studio dell’intero universo dei beni culturali, a partire dalle biblioteche. Con quella apertura, riassume Modolo, «si poneva fine a un vero e proprio commercio delle riproduzioni sulle spalle dei ricercatori: prima dell’entrata in vigore del decreto alcuni istituti consentivano l’uso della propria fotocamera dietro pagamento di un canone (che poteva giungere sino ai 2 euro a scatto), altri negavano invece tassativamente il ricorso al mezzo proprio per garantire il massimo del profitto alle ditte private cui era concesso l’appalto del servizio di riproduzione in esclusiva».
Due euro a scatto? Cento euro per una cinquantina di pagine? Non è un contributo spese: è una gabella. Così lenta, costosa, da costringere perfino qualche universitario a cambiare la tesi per le spese esorbitanti delle riproduzioni fotografiche. Fu salutato con gioia, il primo testo dell’ArtBonus. Macché: grazie a un emendamento galeotto, l’entusiasmo venne subito frustrato: libere foto per i turisti, libera gabella come prima per gli studiosi. Un suicidio: come possono le biblioteche pubbliche estorcere pedaggi a studenti, storici, studiosi? Non c’è scritto nella Costituzione, all’art. 9, che «la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica»?

Corriere 5.11.14
Messico
Studenti scomparsi, in manette  il sindaco e sua moglie «la regina»
Il sindaco di Iguala avrebbe commissionato il rapimento dei ragazzi perché non disturbassero il comizio della moglie Maria, sorella di guerriglieri e narcotrafficanti
di Guido Olimpio

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Corriere 5.11.14
I referendum
Washington legalizza la marijuana L’erba libera sempre più libera in Usa
Si può consumare liberamente seppur privatamente nella capitale degli Stati Uniti
di Maria Laura Rodotà

qui

Corriere 5.11.14
I prezzi delle schiave nelle mani dell’Isis
di Lorenzo Cremonesi


Il prezzo più alto sul mercato degli schiavi di Mosul resta quello per i bambini (maschi e femmine) compresi tra il primo anno d’età e i nove: 200 mila dinari iracheni, pari a circa 115 euro. Sono in stragrande maggioranza yazidi, ma viene segnalato anche qualche cristiano. Sembra che siano stati catturati durante le grandi offensive dello Stato islamico (noto come Isis) nel centro-nord Iracheno dai primi di giugno e fine agosto.
Per le donne le somme cambiano in proporzione all’età. Quelle comprese tra i 10 e 20 anni non possono essere vendute per meno di 150 mila dinari. Tra i 20 e 30 la cifra scende a 100 mila. Tra i 30 e 40 si abbassa sino a 75 mila. Oltre i 40 e sino a 50 il valore è di almeno 50 mila.
L’editto è stato promulgato dal «Califfato» il 20 ottobre 2014, lo riprendono i media di Bagdad e tra i funzionari Onu in Iraq desta gravi preoccupazioni. Il riferimento ai bambini rimanda alla recente accusa di Human Rights Watch per cui Isis avrebbe metodicamente torturato circa 150 minorenni curdi catturati in maggio attorno alla cittadina assediata di Kobane. L’editto specifica con tono rammaricato che il «prezzo delle donne e dei prigionieri è notevolmente calato» negli ultimi tempi, causando «effetti negativi» sulle finanze dello Stato islamico. I motivi sono evidenti.
La guerra costa. E, ora che i raid aerei della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti hanno danneggiato i pozzi petroliferi controllati dall'Isis in Siria, è ovvio che il traffico di esseri umani assurga a fonte di approvvigionamento importante per le sue casse. Da qui la necessità di alzare le quotazioni. Vi si rileva anche il tentativo di un controllo più serrato sulla popolazione. In altri decreti resi noti da Isis negli ultimi tre giorni, studenti e pubblici ufficiali sono obbligati a indossare lunghi caffetani in stile afghano. Inoltre tutte le abitazioni abbandonate vengono requisite. Ogni matrimonio va contratto presso le autorità Isis. Gli imam disposti a celebrare le nozze in privato saranno uccisi. E le feste per gli sposi non possono costare più di mezzo milione di dinari: i contravventori rischiano 30 frustate.

Repubblica 5.11.14
Dall’odio al Museo ebraico, la Polonia non è più maledetta
Solo quando 25 anni fa ha ottenuto la libertà Varsavia ha potuto affrontare la dolorosa verità per cui la vittima può anche essere carnefice
di Timothy Garton Ash


MIRZAYNEN do! (“Siamo qui”). Il fiero ritornello in Yiddish di un canto partigiano ebreo polacco, composto nei giorni più bui della Seconda guerra mondiale, risuona sotto il sole invernale tra il lugubre Monumento agli Eroi del ghetto di Varsavia e il lucente, nuovissimo Museo della storia degli ebrei polacchi. A cantare, con passione, è uno di loro, Marian Turski, sopravvissuto ad Auschwitz e rimasto in Polonia dopo la guerra. Qui, ancora qui, o di nuovo qui, dove tanta vita ebraica d’Europa si è consumata per molti secoli.
Al museo si entra serpeggiando lungo una sorta di gigantesco canyon in pietra color sabbia, che nelle intenzioni dell’architetto richiama la divisione delle acque del Mar Rosso. Discesa una scala di marmo a spirale si è accolti da una esposizione multimediale che documenta mille anni di storia della comunità ebrea polacca. L’Olocausto è presente, mi sembra chiaro, ma la storia non inizia e finisce con l’Olocausto. «Questo non è un museo della Shoah», dichiara il presidente israeliano alla cerimonia di inaugurazione, «è un museo della vita».
Per tutti quelli che conoscono un po’ la storia tormentata dei rapporti tra polacchi ed ebrei dopo la Seconda guerra mondiale questo evento ha del miracoloso. In vista del mio primo viaggio in Polonia, 35 anni fa, andai in una piccola libreria in centro a Londra a comprare dei libri sulla mia destinazione. «Perché diamine vuole andare laggiù?», mi chiese il libraio e poi citò in Yiddish un detto di sua madre, ebrea polacca, che, tradotto, suona: «Perché vuoi andare nella terra maledetta?». Ricordo una conferenza a Oxford e Claude Lanzmann, regista dell’indimenticabile Shoah, dire a un anziano storico polacco, sopravvissuto ad Auschwitz, che sopravvivere ad Auschwitz non significa essere intelligenti.
Se mi avessero dato un dollaro tutte le volte che, in Occidente, da una conversazione di carattere generale sulla Polonia si è passati nell’arco di pochi minuti a parlare dell’antisemitismo dei polacchi, ora sarei miliardario. Ma se mi avessero dato un euro ogni volta che, in Polonia, ho ascoltato o letto discorsi contorti e risentiti che negano la reale portata dell’antisemitismo polacco, prima, durante e dopo la Seconda guerra mondiale, sarei ricco lo stesso.
Ora siamo arrivati a un punto prima quasi inimmaginabile nell’intreccio storico, cultu- rale e individuale dei rapporti tra polacchi ed ebrei. Come è stato possibile? Innanzitutto grazie alle iniziative di donne e uomini di buona volontà che per decenni hanno spiegato, spesso a orecchie sorde, che certi stereotipi ostili si superano solo comprendendo appieno la storia nella sua complessità. In secondo luogo grazie alla libertà che la Polonia ha conquistato 25 anni fa. Solo nel momento in cui la Polonia non è stata più essa stessa vittima della Storia una parte più ampia della società polacca ha potuto confrontarsi con la dolorosa verità per cui la vittima può anche essere carnefice. Perché una parte della società polacca ha perseguitato gli ebrei, nei pogrom durante e subito dopo la guerra e nel 1968, in un ultimo sussulto di odio manipolato dai comunisti.
Questo atteggiamento psicologico di negazione non è esclusivo della Polonia. Gran parte della società israeliana oggi, ad esempio, sembra avere difficoltà a confrontarsi con la propria dura verità. Il fatto che gli ebrei siano stati la prima vittima della barbarie genocida nell’Europa del ventesimo secolo — cosa che nessun europeo dovrebbe mai dimenticare —non significa che oggi gli israeliani non stiano perseguitando i palestinesi. Chiaramente esistono importanti differenze, ma il principio generale resta: le vittime storiche possono anche essere carnefici.
Il confronto a lungo rimandato tra i polacchi e il loro difficile passato è stato burrascoso. La polemica scatenata dalle rivelazioni dello storico Jan Gross sull’eccidio di ebrei bruciati in un granaio nell’estate del 1941 dai concittadini del villaggio polacco di Jedwabne ha spesso avuto toni furibondi. Ma l’approccio alla verità non si è limitato allo scontro polemico. Migliaia di polacchi hanno dissotterrato senza clamore le proprie radici familiari ebree. Giovani polacchi privi di radici ebree hanno riscoperto il ricco retaggio della cultura ebraica polacca, pubblicando libri, allestendo mostre, organizzando dibattiti.
Non facciamoci illusioni. Abbiamo davanti ancora tanti passi faticosi da compiere su questa strada lunga e tortuosa e tanta rabbia da digerire. Ma nonostante tutto l’inaugurazione solenne di questo museo rappresenta una vetta da cui possiamo guardare verso un nuovo orizzonte: non la terra promessa, certo, ma senza dubbio non più la terra maledetta. E quanto a me, non dimenticherò mai il brivido lungo la schiena all’eco di quel ritornello nel sole invernale di Varsavia: Mirzaynen do!
Traduzione di Emilia Benghi

Repubblica 5.11.14
Giappone rosa shock
Il premier Abe l’aveva chiamata con enfasi “womenomics” Ma la riscossa dei diritti delle donne non c’è stata
Ecco quanto costano soprusi e discriminazioni
di Giampaolo Visetti


TOKYO LA pancia di Sanako Iwamoto, al quinto mese, sporgeva già troppo. Sabato il capo è andato nel suo appartamento a Shinjuku con un mazzo di fiori da parte dei colleghi. «Temono che il bordo della scrivania ti faccia male — ha detto — da lunedì stai a casa ». Segretaria modello, si è licenziata per denunciare la discriminazione delle donne che lavorano a Tokyo. Anche per Emiko Kitamura la gravidanza si è rivelata il capolinea. Ex modella, commessa in un negozio di lusso a Ginza, è stata tagliata perché il suo profilo «non rispecchia più lo stile del brand». I giornali giapponesi la chiamano matahara, all’inglese, crasi di “maternity harassment”: molestie causa maternità.
A dieci giorni dall’offensiva anti- quote rosa che travolge il governo di Shinzo Abe, lo scandalo oscura perfino il via libera di Sendai alla riaccensione dei primi due reattori nucleari nel Paese, dopo il disastro di Fukushima. L’altra faccia dell’esibita “Womenomics” è stata scoperta da Sayaka Osakabe, impiegata di 37 anni. Incinta per la seconda volta, si è sentita dire che la sua condizione «imbarazzava i colleghi». Il suo superiore le ha chiesto perché avesse deciso di «fare ancora sesso». «Il mio è un contratto a termine — dice — lo stipendio è necessario, non ho avuto alternativa: ho dovuto abortire per la seconda volta».
Scegliere tra il lavoro e la maternità, in Giappone resta un dramma per milioni di donne. Il conservatore Abe, all’ultimo Forum di Davos, aveva annunciato che «entro il 2020 il 30% dei nostri manager saranno donne». Sul Wall Street Journal ha scritto che «l’Abenomics è impossibile senza un ruolo sostanziale delle donne in economia». I media nazionali sono ora scatenati nel dimostrare che le parole del premier non rispecchiano i fatti. Il neo-governatore della capitale, Yoichi Masuzoe, ha detto che le donne non dovrebbero ricoprire incarichi politici «perché perdono l’equilibrio durante il loro ciclo mensile». Il governatore nazionalista di Osaka, Toru Hashimoto, ha confermato che «durante la guerra le donne di conforto erano necessarie per mantenere la disciplina militare ». Le sopravvissute agli stupri giapponesi, in Cina e in Corea del Sud, sono insorte contro «la vergogna di chi continua a considerare la violenza come un diritto».
Un appello online per rendere il sessismo un reato, in poche ore, è stato firmato da oltre diecimila persone. «Sesso e violenza — dice la leader delle femministe Chizuko Ueno — restano il modo con cui le giapponesi fanno dolorosamente conoscenza con il mondo». La svolta dei primi di settembre è già dimenticata. Shinzo Abe aveva rivoluzionato il suo governo, portando cinque donne al vertice dei ministeri, come Koizumi nel 2006. «Voglio aiutare le donne — aveva detto — a rompere la cupola di cristallo che le opprime». Il suo partito, come i democratici, non pensano evidentemente che sia opportuno. Yuko Obuchi, neoministra dell’Economia e simbolo del riscatto delle donne nel Paese, è stata costretta a dimettersi. È accusata di aver speso 246 mila dollari di fondi elettorali in cosmetici e regali. Nel 2009, già al governo, era stata la prima giapponese a osare partorire durante un mandato politico. Subito fuori anche Midori Matsushima, ministra della Giustizia. È imputata di aver donato ventagli agli elettori, ma pure di aver indossato una sciarpa nella Camera Alta e di vestire di rosso anche al lavoro. Si è salvato invece Yoichi Miyazawa, successore di Yuko Obuchi da pochi giorni. Il ministro di Industria e Commercio risulta aver saldato con soldi pubblici un conto di 170 euro in un locale sadomaso di Hiroshima. Le ragazze girano in biancheria intima, i clienti possono legarle e frustarle. Miyazawa ha detto che si è trattato di «un errore » dei suoi collaboratori, costretti a rimborsare lo Stato. «Se il caso avesse riguardato una donna — dice la manager di banca Hiroko Tatebe — sarebbe caduto il governo ».
Il problema, osservano anche i media, è che «se nasci donna in Giappone devi ancora scordarti il potere». Una Angela Merkel o una Dilma Rousseff qui sono impensabili. «Siamo una superpotenza — dice il docente di sociologia Masahira Anesaki — fondata su casalinghe, segretarie e commesse. Più in alto, semplicemente, le donne non vanno». Lo ha certificato l’ultimo rapporto del World Economic Forum. Nella classifica mondiale del divario di genere, il Giappone è al 104° posto su 142 Paesi, dietro al Tajikistan, ultimo nel G20. Le giapponesi, rispetto ai maschi, a parità di posizione guadagnano il 60% in meno. L’80% ha un’istruzione superiore, ma solo il 40,4% un impiego retribuito. Otto donne su dieci, appena diventano madri, sono costrette a lasciare il lavoro, solo la metà riprende quando i figli diventano indipendenti. Un quarto delle donne tra i 20 e i 40 anni è vittima del mobbing anti-maternità: 2 mila i casi ora al vaglio dell’Associazione “Matahara.net”. «Ero operaia — dice Tanaka Machi — ma appena sono rimasta incinta mi hanno spostata al turno di notte. Poi il medico mi ha consigliato di licenziarmi». Solo una madre su tre continua a lavorare, un terzo rispetto alla Svezia, e appena il 15% delle imprese nipponiche presentano una donna nel management. Solo due al top: una nel board della Japan Airlines, l’altra in quello della Panasonic.
Abe ha chiesto alle società di aumentare la presenza femminile, di coinvolgere in tutti i cda «almeno una donna», ma rischia ora di essere travolto dall’accusa di «ipocrisia». Un sondaggio rivela che per la metà dei giapponesi le donne non devono lavorare fuori di casa e che per il 63% il premier «pensa a reclutare nuova forza lavoro e all’economia, non alla parità tra i sessi». Avvertono i demografi: «L’invecchiamento della nazione è sconvolgente. Senza il 30% in più di donne occupate, a tutti i livelli, i posti dovranno essere assegnati a stranieri». Per le relatrici al Forum di Tokyo sul “gender gap”, la svolta rosa sarebbe suggerita dalla «necessità politica di scongiurare un’ondata di immigrati».
I conti però premono. «Il 56% delle giapponesi — dice Kathy Matsui, analista di Goldman Sarant’anni, chs — hanno un contratto a termine, rispetto al 21% dei maschi. Se le donne occupate stabilmente arrivassero all’80% della quota degli uomini, il Pil aumenterebbe del 15%». L’ex ministro alla sanità di Tokyo fu travolto dall’accusa di considerare le donne «solo una macchina da riproduzione». Abe, convinto che esse «potrebbero valere il 16% della produzione industriale», rischia l’imputazione di ritenerle «solo uno strumento per la crescita». La nomina delle cinque ministre doveva fermare il crollo di popolarità, dopo il disastroso aumento dell’Iva e in previsione di un altro salto della tassa sui consumi nel 2015. Risultato: più 11% in poche ore. Dopo le dimissioni coatte, lo stesso giorno, il gradimento è tornato ai minimi, sotto il 50%. «Il nesso tra offerta di pari opportunità e necessità di uscire dalla crisi economica — dice la executive di Itochu Corp, Mitsuru Chino — è il punto debole della cosiddetta Womenomics ». Un equivoco che le giapponesi, decise a non restare idol e konami girls ( le teenager-cantanti o mutuate dai videogiochi che sembrano fatte in serie), non perdonano. «Quella di Abe — dice la leader del movimento femminile Takazato Suzuyo — è un’operazione d’immagine. Pensa ad una manciata di donne-manager, non alla massa anonima che sta sotto. Moglie in giapponese si dice okusan , signora della casa: una condizione che nemmeno il premier vuole concretamente cambiare».
Nel 2006, appena nato un erede maschio al trono imperiale dopo qua- Tokyo ha bloccato la storica riforma della legge salica, che avrebbe permesso alla principessa Aiko di succedere al nonno Akihito. La stessa neo-ambasciatrice Usa, Caroline Kennedy, figlia del presidente assassinato, viene guardata con sospetto dai conservatori: riservatamente definiscono il suo attivismo pro-donne «uno schiaffo ai maschi giapponesi ». La terza economia del mondo non fa più figli, ha il debito pubblico al 240% del Pil e riaccende le centrali atomiche. Resta però fondata su casalinghe, commesse e segretarie: purché non si mettano in testa di diventare anche mamme.

Repubblica 5.11.14
Caro Shinzo non ascoltare i magnati
di Paul Krugman


TOKYO LA Banca del Giappone di recente ha messo in atto uno sforzo imponente per sconfiggere la deflazione che affligge l’economia giapponese da quasi vent’anni. In un primo momento le iniziative prese (fra le altre cose, stampare moneta in gran quantità) sono sembrate produrre risultati, ma ultimamente l’economia ha perso slancio e la scorsa settimana la banca centrale nipponica ha annunciato il varo di nuove misure monetarie, ancora più aggressive. Alcune delle persone con cui ho parlato sostengono che la contrarietà di molti importanti esponenti dell’industria alle misure della banca centrale sono la dimostrazione che quest’ultima sta sbagliando. Affermazioni che riecheggiano un sentimento diffuso in molti Paesi, e cioè la convinzione che se si vuole rimettere in sesto un’economia in crisi bisogna rivolgersi a persone che hanno avuto successo negli affari. D’altronde, se hanno fatto i soldi vuol dire che sanno come funziona veramente l’economia, no? In realtà no. In materia di economia gli uomini d’affari danno pessimi consigli, specie quando le cose fanno male. In Giappone, gli esponenti del mondo imprenditoriale hanno contribuito in larga misura alle politiche di bilancio sbagliate che hanno compromesso i recenti successi di politica economica, invocando un primo aumento delle tasse, che all’inizio dell’anno ha provocato una frenata della crescita, e un secondo aumento delle tasse per il prossimo anno, un errore ancora più grave.
Sull’altro versante, gli ultimi anni hanno dimostrato ripetutamente la validità dei provvedimenti assunti da policymakers che non hanno mai gestito un’impresa, ma conoscono a menadito la teoria e la storia economica. La Fed e la Banca d’Inghilterra sono riuscite a barcamenarsi in mezzo a una crisi di quelle che capitano una volta ogni tre generazioni, sotto la guida di ex professori universitari che, fra le altre cose, hanno avuto il coraggio di ignorare quei magnati dell’industria che chiedevano che si smettesse di stampare moneta. La Bce è riuscita a salvare l’euro dall’abisso sotto la guida di Mario Draghi, che ha passato il grosso della sua carriera nel mondo accademico.
Pensate che cosa succede quando un imprenditore di successo guarda un’economia traballante: la vede più o meno come un’azienda in difficoltà, che deve tagliare i costi e diventare competitiva. Per creare posti di lavoro, pensa l’uomo o la donna d’affari, i salari devono scendere e si devono ridurre le spese. E di sicuro espedienti come la spesa in disavanzo o lo stampare più moneta non possono risolvere un problema che è sicuramente di fondo. Nella realtà, però, tagliare i salari e la spesa in un’economia depressa non fa che aggravare il problema effettivo, che è l’inadeguatezza della domanda. La spesa in disavanzo e lo stampare moneta, invece, possono essere di grande aiuto. Qui in Giappone, la lotta contro la deflazione finirà con ogni probabilità per fallire se prevarrà il concetto convenzionale di prudenza. @ 2-014 New York Times News Service Traduzione di Fabio Galimberti

Il Sole 5.11.14
L'Asia testa le ambizioni della Cina
Da oggi a Pechino gli incontri Apec
Vertice dei capi di Stato e governo il 10 e l'11
di Rita Fatiguso


PECHINO La Cina si è rifatta il trucco in vista dell'Asia Pacific economic cooperation, proprio come ai tempi delle Olimpiadi, ma questa volta alza il tiro: seduta davanti allo specchio delle brame si chiede chi sia la vera potenza dell'area Asia Pacifico.
Gioca in casa, la Cina, inaugurando oggi l'ultimo round dell'Apec 2014, ma la risposta al quesito, forse, arriverà tra sette giorni, quando la cortina del silenzio sarà calata sul lago Yanqi al termine del gran finale politico e dei rituali fuochi di artificio. Il verdetto dello specchio non è scontato, ma Pechino ostenta sicurezza e nella settimana di intensi incontri ed eventi che sta per aprirsi si gioca tutte le carte.
«Nell'ultimo anno l'influenza cinese si è fatta sentire come non mai - ricorda al Sole 24 Ore Ruan Zongze, eminenza grigia del China Institute of international studies - molta acqua è passata sotto i ponti, la Cina ha spinto sull'acceleratore della public diplomacy con un occhio attento all'economia e ha accumulato una serie imponente di accordi bi o trilaterali, dando prova di grande attivismo e creativitaà». Adesso, visto che il contenuto dell'Apec dai tempi della fondazione un quarto di secolo fa è essenzialmente economico, la Cina vuol riesumare il progetto multilaterale della grande free trade zone dell'Asia Pacifico e portare a casa una serie di altri accordi tra cui quello sulla collaborazione di polizia, utile a riportare a casa fuggiaschi di ogni tipo. Le merci e le persone comunque devono viaggiare e l'Apec è il posto giusto in cui negoziare queste tematiche. Da oggi toccherà alle diplomazie soprattutto economiche ottimizzare la compresenza di chi può decidere, qui, a Pechino. Poi i temi nel week end saranno consegnati al Ceo Summit, una sorta di World economic forum tarato sui temi del libero scambio.
Sfogliando il ponderoso libro edito in questi dallo Stato cinese per raccontare l'Apec dagli esordi ai giorni nostri passano sotto gli occhi leader e contesti ormai superati, sbiaditi. Immagini che raccontano di un'altra Cina, Jiang Zemin, Hu Jintao. Figure che stanno sparendo anche dalle occasioni ufficiali.
Quella che fa gli onori di casa qui a Pechino è una Cina che ha acquistato consapevolezza, è una realtà politica che ormai detta legge con i suoi numeri e le sue decisioni in grado di ripercuotersi su tutte le economie mondiali, un gigante che ha una moneta non convertibile ma (sembra un paradosso) liberamente circolante e scambiabile proprio in questa immensa area, un'economia in cui ogni minimo punto di crescita o di calo del Pil può mettere i brividi alle borse di mezzo mondo.
È la Cina che ha superato i problemi della Guerra fredda con un vicino impegnativo come la Russia; archiviati i problemi di confine ora Xi si prepara a incontrare il presidente Vladimir Putin, ormai in Cina è una star, dall'insediamento nel marzo 2013 si sono già incontrati ben nove volte. Sebbene meno sbandierata, è la bilaterale con Putin a ricoprire la massima importanza per Pechino. L'asse Mosca-Pechino tenderà a rafforzarsi.
C'è l'atteso incontro con Obama dopo l'approccio rilassato di Sunnyland, si continuerà su quella falsariga, almeno così sembra di capire. Approccio rilassato nelle parole perché ad esempio la neutralità di Pechino sul fronte delle sanzioni alla Russia per l'Ucraina non piace alla Casa Bianca. Uniti dalla minaccia del terrorismo, Cina per l'estremismo islamico, Stati uniti per l'Isis, i due Paesi sono divisi su moltissime altre questioni. Un esempio? L'energia. Mentre la Cina compra sempre più petrolio dal Medio oriente, gli Usa puntano all'indipendenza energetica entro il 2020.
Con la stessa civetteria con la quale si definisce ancora un Paese in via di sviluppo, la Cina sostiene che nell'Asia Pacifico «c'è posto per tutti». Resta da capire come mai Pechino sia in ansia per il ruolo da pivot degli Usa, e perché nei mari del Sud della Cina la tensione resti pericolosamente alta. In un'area grande abbastanza per tutti i principali protagonisti si accusano a vicenda di spionaggio.
Il lago Yanqi portera' consiglio, intanto restano alla finestra il taiwanese Ma Yeong mentre Xi Jinping ha chiuso le porte a incontri bilaterali con il Giappone prendendo atto che i giapponesi tengono molto all'Apec, «ci saremmo lo stesso», avrebbero detto.
Ma come cambiano i tempi. Come ricorda Ruan Zongze «quando il nazionalista Shinzo Abe che tanto stuzzica la suscettibilità dei cinesi era al primo mandato, l'economia di Tokio era cinque volte quella di Pechino, adesso le parti sono invertite. E Pechino è due volte e mezzo Tokio».

il Fatto 5.11.14
Regina della fisica
La “particella di Dio” nelle mani di Fabiola, Lady Cern
di Roberta Zunini


L’esploratrice dell'invisibile, Fabiola Gianotti, due anni fa era finita sulla copertina del Time. Ritratta di profilo, sembrava una sovrana rinascimentale. La corona le è stata ufficialmente consegnata ieri quando è stata nominata direttrice generale del Cern di Ginevra. La scienziata 52enne italiana, già candidata al Nobel nel 2013 è ora a tutti gli effetti la regina della Fisica, perché il Cern è il regno della ricerca scientifica mondiale dove è stata provata l'esistenza del bosone di Higgs. Ed è stata proprio questa elegante signora, diplomata anche in pianoforte al Conservatorio di Milano, a coordinare gli esperimenti che hanno permesso di catturare la cosiddetta “particella di Dio”, il mattone sub atomico che costringe tutte le componenti della materia ad aggregarsi.
È la prima volta che una donna viene scelta per dirigere il laboratorio europeo di fisica delle particelle fondato 60 anni fa da alcune nazioni tra cui l'Italia e ancora oggi uno dei pochi fiori rimasti all'occhiello del nostro disastrato Paese, vista la costante presenza nel ruolo che è stato assegnato a Gianotti di “cervelli” laureati nelle università italiane: Edoardo Amaldi, Luciano Maiani e Carlo Rubbia, Nobel nell''84. Fabiola Gianotti è entrata al Cern appena laureata, distinguendosi fin dall'inizio anche per la sua abilità nel far interagire al meglio le squadre di ricercatori.
Il successo è arrivato con l'ideazione e il coordinamento di “Atlas”, uno dei mega-esperimenti lungo l’anello sotterraneo di 27 chilometri del Large Hadron Collider.
IN UN’INTERVISTA HA DETTO: “La leadership nasce per consenso e non può essere imposta dall’alto. Credo nelle organizzazioni leggere, dove le gerarchie servono per essere più efficienti, ma non diventano un elemento di rigidità che soffoca l’iniziativa e la creatività delle persone”. Renzi, che ha subito chiamato Gianotti per congratularsi, dovrebbe riflettere su queste parole e anche sui profitti in immagine e indotto che l'Italia ricava dal Cern. La nostra partecipazione quest'anno ci costerà circa 100 milioni di euro, più o meno 2 euro a contribuente. Molto meno del Senato: 540 milioni, e considerato che la fisica atomica ci ha regalato non solo Internet – sviluppato proprio al Cern – ma anche gli strumenti che hanno permesso a milioni di malati di cancro di salvarsi. È grazie agli esperimenti condotti al Cern se oggi disponiamo di strumenti di diagnosi e cura come Tac, Pet e radioterapia.

La Stampa 5.11.14
Fabiola Gianotti: “Io, Lady della fisica, sogno una scienza per unire il mondo”
Una donna italiana alla guida del Cern
intervista di Barbara Gallavotti

qui

La Stampa 5.11.14
Non sprechiamo un’occasione irripetibile
di Gabriele Beccaria


«Cosa c’è là fuori?». È la domanda delle domande che ossessiona i fisici e che da ieri ha un’eco ancora più profonda nel cervello di Fabiola Gianotti, ora Direttore del Cern. Dal 2015 l’acceleratore «Lhc» cercherà di dare una risposta definitiva a domande finora impenetrabili, come la materia e l’energia oscura. 
Fabiola Gianotti è stata considerata la scienziata migliore per questa avventura nell’Universo profondo che ha un’aura grandiosa, da far impallidire la trama di un kolossal come «Interstellar». Leader di uno dei due esperimenti che nel 2012 ha scoperto il Bosone di Higgs, ha dimostrato capacità multiple: la creatività della ricercatrice di razza e l’abilità - molto femminile - di motivare vasti team internazionali, spesso affollati di maschi che vorrebbero essere tipi «alfa», cioè dominatori.
Altri due grandi italiani l’hanno preceduta, Carlo Rubbia e Luciano Maiani. E il Cern stesso ha avuto tra i suoi padri fondatori, 60 anni fa, un’altra star tricolore, il «ragazzo di Via Panisperna» Edoardo Amaldi. Ora Fabiola Gianotti continua una tradizione di visione e genialità che il mondo ci riconosce e che non si è mai avvizzita: un made in Italy di formule, teoremi e tecnologie non meno elegante e seducente delle giacche e delle scarpe di cui sempre ci entusiasmiamo. L’Italia, poi, è il quarto contribuente di quella scintillante impresa europea che è il Cern e da anni invia tra Svizzera e Francia pattuglie di fisici che sono diventati personaggi di spicco di molti dei test che si conducono nell’anello sotterraneo dell’«Lhc». Ma la sfida è così impegnativa che, adesso, occorrono nuove risorse e nuove motivazioni. La nomina di una «First Lady» della fisica come Fabiola Gianotti è un’occasione unica per l’Italia: per ripensare il nostro posto nella scienza mondiale. E renderlo un po’ più grande e promettente. Il nostro passato dice che ce lo meritiamo.

Corriere 5.11.14
Signora delle particelle
Il sogno di ballare alla Scala e l’amore per il pianoforte
«Esploro l’infinita bellezza della musica della scienza»
di Giovanni Caprara


«Sognavo di diventare una ballerina del teatro Bolshoi o della Scala. Mi attirava danzare, disegnare figure nell’aria, ma ero anche una bimba curiosa, cercavo mondi nella fantasia. E così arrivai alla scienza».
Fabiola Gianotti, protagonista della scoperta del bosone di Higgs, la famosa «particella di Dio», ha appena ricevuto la notizia della nomina a direttore generale del Cern di Ginevra. «È capitato tutto all’improvviso e la giornata è diventata frenetica». Ma la voce è sempre calda, le parole veloci: «Avrò molto lavoro da fare», dice, come se dovesse affrontare uno dei tanti normali compiti che già affollano la sua agenda quotidiana.
Il Cern, il laboratorio europeo di ricerca nucleare, è oggi il luogo più importante al mondo per indagare la natura e, grazie al super acceleratore Large Hadron Collider, per volare in quel nuovo mondo inseguito da bambina. «Studiavo e leggevo la biografia di Marie Curie e la sua passione, la sua dedizione mi hanno contagiato portandomi a studiare fisica». Da allora ha dedicato la vita alla ricerca. Fabiola Gianotti, 52 anni, romana d’origine, si è formata all’Università Statale di Milano e vent’anni fa, scienziata dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, è entrata al Cern studiando alcune parti del superacceleratore con il quale avrebbe più tardi lavorato.
Quando guidava l’esperimento Atlas era a capo di tremila ricercatori di ogni nazionalità. «La fisica al Cern ti porta a vivere in una dimensione umana straordinaria senza differenze di sesso, età, nazionalità. Qui ci si misura con le capacità che si è in grado di esprimere e per certi aspetti potrei dire che al Cern la scienza è donna, perché ognuna di noi gode delle stesse opportunità, senza timori, in un confronto di cultura e valori individuali che forse non ha pari altrove. Bisogna solo credere e vivere fino in fondo ciò che abbiamo scelto».
E con questa consapevolezza guarda con entusiasmo al futuro. «So di avere davanti prove difficili da affrontare, dovrò compiere scelte ardue, ma sogno di mantenere il Cern al vertice dell’eccellenza scientifica mondiale. La fisica fornisce basi della conoscenza che possono trasformarsi in tecnologie preziose. Chi pensa che la fisica quantistica sia presente nelle telecomunicazioni per codificarle, ad esempio, oppure che nel Gps ci sia l’applicazione della teoria della relatività di Einstein? Eppure è così. Lo stesso Web è nato al Cern».
Quando racconta le sue ricerche, Fabiola usa con disinvoltura la parola «bellezza» per comunicare il fascino delle dimensioni che esplora con la mente. «La nuova fisica è un giardino incantato», spiega facendo scivolare le parole verso le altre passioni che l’accompagnano. Ha un unico rammarico: la sfida di cui è stata protagonista l’ha allontanata un po’ dalla musica, dall’amato pianoforte. «Le note di Schubert, il mio autore preferito, mi riempivano l’animo. Ora il mio tempo è tutto nella musica della nuova fisica».
«Non so se riuscirò a eguagliare i grandi italiani che mi hanno preceduto alla guida del Cern: Edoardo Amaldi, che ne è stato uno dei fondatori; Carlo Rubbia, che qui ha conquistato il Nobel; Luciano Maiani, che ha dato il via alla costruzione del nuovo acceleratore Lhc. Avverto la grande responsabilità del mio compito, il prestigio che l’accompagna, ma non sono preoccupata e sono cosciente della modestia con la quale devo guardare al mio impegno. Qui si può far progredire la scienza, ma il Cern ha anche valore come luogo di educazione, e come laboratorio di straordinaria interazione sociale nella quale il concetto di pace è alla base dello studio, della convivenza e dell’esplorazione».
Fabiola Gianotti ha conquistato la copertina del settimanale americano Time come donna dell’anno, la rivista Forbes l’ha inclusa tra le cento donne più influenti del mondo, il suo nome è di prestigio in tanti comitati internazionali, e numerosi sono i riconoscimenti attribuiti al suo lavoro. Lei sorride e accompagna le parole verso l’amore per la fisica ricordando con orgoglio di appartenere a una preziosa tradizione italiana che con Enrico Fermi ha avuto il suo caposcuola.

Il Sole 5.11.14
La «regina» della fisica e la lezione da capire
di Elena Cattaneo


Dopo l'emozione e la soddisfazione per il premio Nobel andato l'anno scorso ai fisici Higgs e Eglert, che avevano previsto la particella scoperta nel luglio scorso al Cern di Ginevra, Fabiola Gianotti, la quale aveva guidato uno dei team protagonisti di quella scoperta, consegue un traguardo di ulteriore prestigio. A lei, infatti, sarà affidata la guida del Cern per i prossimi cinque anni.
È un riconoscimento formidabile per la collega, laureatasi in Fisica nella mia stessa Università, la Statale di Milano, che sarà la prima donna a guidare l'importante laboratorio internazionale, e l'indicazione di una qualità scientifica indiscussa della tradizione italiana nel campo della fisica sperimentale. Essere scelta per coordinare ricerche complesse e che vedono coinvolti numerosi e diversificati gruppi capaci di produrre masse ingenti di dati, significa avere dimostrato grandi doti scientifiche, cioè una efficace padronanza delle più avanzate e sofisticate teorie che stimolano esperimento capaci di affascinare ancora l'uomo della strada, come quello che ha portato a dimostrare l'esistenza della cosiddetta "particella di Dio". Ma vuole anche dire che Fabiola Gianotti ha dimostrato superiori capacità organizzative, ovvero di saper mediare dinamiche politiche e governare una comunità di individui altamente competitivi, come sono gli scienziati che raccolgono e affrontano alcune delle più avanzate sfide della conoscenza. L'auspicio è che ai riconoscimenti internazionali che gli scienziati italiani stanno raccogliendo, nonostante il perdurante scarso interesse della politica per la ricerca scientifica, faccia quanto prima seguito un'inversione di tendenza sul piano del sostegno alla scienza in questo Paese. Segnali come questo dovrebbero essere amplificati dal Governo e dal Parlamento, per mandare ai giovani e al Paese messaggi di fiducia negli investimenti culturali e per costruire competenze specialistiche nei settori scientificamente e tecnologicamente più avanzati. I successi professionali e culturali di scienziati come Fabiola Gianotti dovrebbero altresì ispirare meglio i progetti di riforma della scuola, perché in un sistema economico e civile globale fondato sulla conoscenza, la "buona scuola" sarà tale solo se saprà dare la giusta centralità al metodo di produzione delle conoscenze scientifiche.

il Fatto 5.11.14
Onda su onda
Telecom e Netflix, sfide che la Rai sta perdendo
di Loris Mazzetti


Berlusconi sta ultimando gli ultimi ritocchi per la vendita di Mediaset Premium a Telecom: un business da un miliardo di euro con l’obiettivo di entrare nell’ex monopolista telefonico togliendo la pay tv dalla lunga stagnazione del mercato (230 milioni sono le perdite pubblicitarie di Mediaset nell’ultimo anno) collegandola agli abbonati dei servizi telefonici. Telecom pone una condizione: Premium deve pareggiare i conti. Telecom evidentemente non si fida, si sta muovendo anche con Sky. Murdoch, a sua volta, vorrebbe sbarcare definitivamente sul digitale terrestre aggiungendo a Cielo altri canali, portando l’informazione, le grandi serie e la fiction in chiaro per fare concorrenza alla tv generalista. All’orizzonte del mercato è apparso il vero pericolo: in Italia, nel 2015, sbarcherà Netflix (60 milioni di abbonati nel mondo), la tv leader online in Francia, Germania e Gran Bretagna. Con 8-10 euro mensili si potranno vedere le serie tv e tutti i film, senza limiti, per farlo è sufficiente avere la tv collegata a Internet. Al momento l’unico ostacolo è la banda larga che copre solo parzialmente il territorio, per questo Telecom, nell’ultimo periodo, ha intensificato i lavori. La Rai, invece, ha sempre più le mani legate per colpa di un governo che strategicamente (accordo del Nazareno?) non decide. Il sottosegretario Giacomelli aveva garantito che uno dei primi provvedimenti sarebbe stato il rinnovo della concessione di servizio pubblico in scadenza a maggio 2016 per permettere alla Rai di stare sul mercato nonostante i tagli economici: 150 milioni una a tantum e il perenne 5% del canone.
ALL’INIZIO di agosto è scaduta la convenzione con l’Agenzia delle Entrate che nel 2001 ha assegnato alla Rai la raccolta del canone, prologata solo alla fine di novembre, data entro la quale, per legge, il governo deve comunicare l’importo per il 2015. Il sottosegretario ha già annunciato che presenterà un decreto rivoluzionario: il canone passerà da un minimo di 80 a un massimo di 130 euro a seconda del reddito. È chiaro che la Rai, non avendo gli strumenti per il calcolo, che appartengono all’Agenzia dell’Entrate, rischia di perdere la concessione che ammonta a circa 10 milioni di euro. Rai Canone ha la direzione a Torino e uffici in ogni sede con alcune centinaia di dipendenti specializzati nella riscossione. Il governo, se i lavoratori non saranno assorbiti dall’Agenzia delle Entrate, avrà reso vano il faticoso dimagrimento del personale fatto dal dg Gubitosi.

La Stampa 5.11.14
Ciao Maschio, il futuro è nelle mani delle donne
Un libro di Telmo Pievani e Federico Tallia racconta tra serietà e ironia il declino del presunto sesso forte
di Telmo Pievani

qui

Repubblica 5.11.14
Se Wall Street stronca Mozart “Al comando in azienda meglio Salieri”
Il verdetto dei colossi Usa: dalla Borsa all’hi-tech, un capo “secchione” rende più di uno tutto genio e sregolatezza
di Ettore Livini


MOZART addio. La rivoluzione hitech ha bruciato in pochi anni l’era pionieristica dei leader alla Steve Jobs, tutti genio e sregolatezza come il musicista salisburghese. I tempi sono cambiati. Apple & C. hanno conquistato il mondo e Wall Street. Ma oggi al vertice dei colossi mondiali si sta consumando (copyright di Herminia Ibarra, professoressa all’Insead di Parigi) la vendetta dei Salieri. I capi pragmatici, secchioni, prevedibili e un po’ grigi come il compositore veneto – eclissato alla Corte di Vienna dalle note in libertà di Wolfgang – tornati di moda ora che la rivoluzione digitale deve consolidare in business che durino le intuizioni dei suoi irripetibili “guru”.
L’era degli uomini soli al comando della corsa è finita. Il Requiem, per rimanere in tema, è arrivato dall’ultima analisi della Harvard business review (Hbr): il boom delle start-up nate in un box o in un sottoscala e diventate conglomerati planetari ha fatto il suo tempo. I loro leader, capaci di raccogliere consenso e capitali grazie al carisma dell’«intelligenza emotiva», come provano le neuroscienze, sono stati costretti a passare la mano a chi è capace di gestire organizzazioni ormai troppo complesse. E non a caso 24 dei cento manager più redditizi d’America – ha calcolato Hbr – sono ingegneri. Magari meno spumeggianti dei loro predecessori ma capaci di quell’approccio «pragmatico e pratico», come dice il preside di Harvard Nitin Nohria, che (evidentemente) paga molto sul fronte dei bilanci.
Il tramonto dei leader-Mozart e la carica dei manager alla Salieri è un fenomeno a 360 gradi che attraversa tutta l’industria. L’avvento a maggio 2013 al timone di Intel di Brian Krzanich – un ingegnere a dir poco low-profile – aveva fatto storcere il naso a Wall Street, abituata agli eccessi del suo vulcanico predecessore Paul Otellini. Analisti e risparmiatori si sono dovuti ricredere. Il lavoro oscuro del nuovo ad ha funzionato. E i titoli Intel viaggiano oggi a una valore quasi doppio rispetto a un anno fa.
«Il leader gestisce il potere, un manager l’organizzazione» è il mantra di Jack Welch, ex numero uno di General Electric e forse il Salieri di maggior successo della storia delle imprese globali. Oggi è il momento degli organiz- zatori. Chris Viehbacher, il leader che ha gestito la francese Sanofi – con successo, va detto – come fosse il responsabile di un lunghissimo one man show è stato detronizzato dal cda. Stesso destino è toccato a Bill Gross, fumantino capo incontrastato per anni della Pimco (risparmio gestito), vittima della sua stessa gestione autoreferenziale. Dedicatosi ora, pare, a un nuovo hobby decisamente mozartiano come la meditazione trascendentale.
«Il tempo della retorica rivoluzionaria è finito – ha spiegato al Financal Times James Citrin, cacciatore di teste di Spencer Stuart –. Oggi vanno per la maggiore gli ingegneri capaci di risolvere i problemi con la logica e il “pensiero architettonico”». Resiste qualche leader a 18 carati come Mark Zuckerberg di Facebook. Ma fanno faville anche manager più puri come Jeff Bezos di Amazon (altro ingegnere) e Larry Ellison, capace di organizzare come un orologio perfettamente funzionante l’impero hitech di Oracle, ma anche di costruire un team sofisticato come quello che gli ha consentito di vincere la Coppa America di vela.
Persino Google, il tempio della creatività in progress e della fantasia (imprenditoriale) al potere, è stata costretta a una clamorosa retromarcia. Qualche tempo fa ha provato a costruire una organizzazione manager-free. Cementata solo dalle intuizioni un po’ anarchiche dei suoi geniali tecnici. È stato un flop. La società si è resa conto in pochi mesi che questo caos – ancorché creativo – era troppo. E ha dovuto reinserire nella scala gerarchica i manager per gestire i progetti, stabilire le priorità e i percorsi di carriera. Di Mozart ne basta uno. O al limite due, come Sergey Brin e Larry Page, i fondatori della società. Anche a Mountain View, oggi, va in onda la vendetta dei Salieri.

Corriere 5.11.14
Franco Antonicelli, il sogno coraggioso di «fare cultura»
di Ermanno Paccagnini


L’appuntamento Franco Antonicelli. Il coraggio della cultura è il titolo della tre giorni che si apre oggi alle 19 nella sede dell’Unione culturale «Franco Antonicelli» di Torino (via Cesare Battisti 4b, info tel 011 56 21 776, www.unioneculturale. org) in occasione del 40°anniversario della scomparsa dello scrittore e intellettuale avvenuta il 6 novembre 1974

È soprattutto come uomo politico — antifascista, presidente del Cnl, senatore nel gruppo Sinistra indipendente — che è spesso ricordato Franco Antonicelli (1902-1974). Finendo per dimenticare il fine letterato che, ad esempio, come direttore della Biblioteca Europea della Frassinelli ospita, oltre a Melville, Joyce, e altri ancora, le prime traduzioni italiane d’un Kafka appena riscoperto in Germania (Il processo e Il messaggio dell’Imperatore); e che, come editore in proprio con la Francesco De Silva, nel 1947 accoglie Se questo è un uomo di Levi, rifiutato da vari editori.
Del resto, nel panorama critico novecentesco la figura di Antonicelli si staglia come una delle più singolari per disposizione intellettuale, scelte metodologiche e concreto operare critico, proprio anche d’una formazione che coniuga il Croce «maestro e padre» con Gobetti, modello cui disperatamente rifarsi (e relativa appendice della scuola torinese di Augusto Monti). Che sono poi le direttive etico-estetiche cui si atterrà con tenace fedeltà nel suo lavoro critico e politico, nel quale rigore morale e rigore estetico stanno in lui strettamente connessi nella concezione d’una letteratura come dovere e come servizio. Che è quanto Antonicelli — «poeta» (con Improvvisi e altri versi) e fine lettore di poeti, aperto a cogliere l’aria del tempo presente ma disposto a una umanissima pietas verso chi ci ha preceduto lasciandoci quel suo po’ di bene; che anche questo appartiene alla civiltà letteraria», per dirla con Cesare Angelini, sul «Corriere della Sera» del 15 luglio 1970 — è venuto espletando in letture critiche nelle quali, come ha scritto sulla «Nuova Stampa» del 27 marzo 1953 parlando di Pancrazi, «dev’esserci tutto, ma anche, e sopra ogni cosa, il pensiero e il senso del presente, di ciò che appare e ha significato nel farsi dei nostri giorni, che si lega con gli altri discorsi, le altre creazioni, le altre lotte del tempo che trascorre».
Un operare instancabile, come ricordano i numeri della sua bibliografia: che contano 356 articoli su «La Stampa» (1949-1965), 468 sul «RadiocorriereTv» (1952-1968) nella rubrica significativamente titolata Leggiamo insieme, oltre a tanti contributi sparsi sulle teste più svariate, dall’«Unità», al «Giornale Storico della Letteratura Italiana», sino all’«Almanacco Biellese» o alla «Voce della Dora».
Ciò che evidenzia da un lato grande disponibilità, e dall’altro un Antonicelli lettore vorace e accanito, che vanta tra suoi presupposti la ricerca erudita, l’analisi filologica del testo pronta a un confronto delle varianti insieme rapido e puntiglioso (che sa trarre «soddisfazione e vanto dalla correzione anche soltanto di una virgola di una vecchia edizione», annotava Norberto Bobbio), curioso e sempre informato sulle ultime novità; ma anche pronto a cronache, divagazioni e note di costume, sempre con gran voglia di partecipare ad altri le proprie scoperte e amori letterari (Carducci, Pascoli, d’Annunzio, Gozzano). In un tono raffinato e familiare: una colloquialità nel segno di una «alta» semplicità.

La Stampa 5.11.14
Franco Antonicelli, l’intellettuale non va in pensione
di Giovanni De Luna


Senza arrivare agli eccessi renziani sui «pensionati» da accantonare, è un fatto che gli intellettuali hanno uno spazio sempre più irrilevante. È difficile oggi trovare traccia di quelli che, nel Novecento si definirono «maestri». Uno di questi, Franco Antonicelli, rispondeva così agli auguri per il suo 70° compleanno: «Io credo che la vita di un uomo sia terminata quando nessuno gli chiede più nulla, quando lui stesso non chiede più nulla a sé e perciò vive di rammarichi e di lamenti». Era il 1972. Antonicelli era allora senatore, eletto nelle liste del Pci come indipendente. E non si sentiva affatto un pensionato. Tutti gli chiedevano ancora molto e a tutti era in grado di dare ancora molto; sarebbe morto due anni dopo, al termine di un biennio intenso, vissuto nel clima delle grandi battaglie civili e politiche di quel tempo: la strategia della tensione, il referendum sul divorzio, le piazze degli operai e degli studenti.
Rompendo i compartimenti stagni in cui si era rinchiusa una certa cultura accademica, Antonicelli propose un modello di intellettuale caratterizzato da una spiccata autonomia dalla politica e da un’assoluta libertà di pensiero. Il suo «appello alla nazione», firmato insieme con Norberto Bobbio e Italo Calvino nel 1973, dopo il colpo di Stato che l’11 settembre stroncò la democrazia di Allende in Cile, non solo invitava il governo a non riconoscere il regime di Pinochet, ma trovava anche la forza di rivolgersi direttamente al paese («sia questo anche il segno del suo dolore, che non si è saputo esprimere con la bandiera nazionale a lutto») con accenti già allora inusuali e oggi del tutto incomprensibili.
A questo tipo di autorevolezza contribuì molto la sua «versatilità», la contraddittorietà di un personaggio che - come sottolineò il suo amico Norberto Bobbio - attraversava con disinvoltura mondi culturali opposti: Gobetti e Alfieri, l’intransigenza radicale degli «odiatori dei tiranni», da un lato; Gozzano e Gianduja, il compiacimento estetizzante, il buon senso di chi guarda con fastidio a ogni forma di conflitto, dall’altro. Nei salotti della borghesia colta e raffinata o nelle assemblee con i portuali di Livorno, Antonicelli proponeva la sua trasversalità come un «ponte», un territorio in cui si mischiavano l’alto e il basso, il tratto aristocratico del critico raffinato e il piglio popolaresco di chi sa anche infiammare le folle dei comizi. Fu un efficace intrattenitore radiofonico, realizzò importanti trasmissioni televisive, scrisse sui giornali, pubblicò per primo in Italia i fumetti di Disney, mise in scena spettacoli teatrali. Il cultore di Gozzano frequentò assiduamente i media diventando compiutamente quello che il ’900 gli chiese di essere e quello che oggi nessuno riesce più a essere.
E trasversale fu anche nel confronto con il suo tempo. «Io sono vissuto nel Medioevo», diceva di se stesso, «l’era moderna è cominciata oggi che in un solo anno vivo i settanta contati dalla mia nonna materna». Nel dialogo serrato con la generazione di sua figlia, tra il presente e il passato egli si proponeva di costruire ancora un altro ponte: «il disprezzo che ha mia figlia - naturalmente mitigato dall’affetto - per le mie abitudini e i miei passatismi è quel che le servirà per allontanarsi definitivamente dalla pianta paterna, ma non quello che le basterà per creare a se stessa il nuovo nido: ci vuole molto, molto amore per distruggere a fondo, molto e tenace orgoglio del passato per rinnovarsi davvero». Era l’altro segreto dell’autorevolezza di Antonicelli: nell’essere contemporaneo a più generazioni egli seppe farsi «maestro» mostrando come il passato fosse decisivo se si voleva costruire qualcosa di nuovo. Ma per i giovani di allora era più facile distruggere che costruire. E oggi la sua trasversalità sarebbe vissuta come una imbarazzante anomalia.

La Stampa 5.11.14
Le sue due anime tra Croce e Gobetti
di Bruno Quaranta


Torino, la città della formazione e dell’azione. Il Biellese, il mondo degli otia. A quarant’anni dalla scomparsa, Franco Antonicelli oscilla fra le due realtà, che ne rispecchiano, infine, le due anime: la crociana in letteratura (anche se non riteneva I promessi sposi un pamphlet ideologico, la convinzione di Don Benedetto) e la gobettiana in politica.
Due le immagini che esemplificano le identità di Antonicelli: sotto la Mole, in via Fabro 6, alla scrivania che fu di Piero Gobetti, intento a limare un discorso (la stagione senatoriale, per la Sinistra indipendente); a Pollone, nel Biellese, trascorrendo ogni mattina alcune ore nello studio di Croce, leggendogli il romanzo mai pubblicato sul confino, Autunno a Agropoli.
Fra la religione della libertà, Franco Antonicelli, e la «pratica della libertà». Compiendo - osserverà Bobbio - «per interna coerenza e quindi senza drammi» la scelta che lo conduce «dal liberalismo dei primi anni [presiederà il Cln piemontese come rappresentante del partito liberale, ndr] alla “rivoluzione liberale” degli ultimi».
Croce enuncia la «religione della libertà» introducendo la Storia d’Europa che esce nel 1932. Di lì a due anni acquisterà una casa a Pollone, di cui era originario Alfredo Frassati, a lungo proprietario-editore della Stampa. Ecco delinearsi una patria liberale in partes tres, ulteriori «capitali» Parella, nel vicino Canavese (villa Albertini, Luigi, già direttore del Corriere della Sera) e Sordevolo, dove svettava la tenuta del notaio Germano, villa Cernigliaro.
Annibale Germano è il padre di Renata, che Antonicelli sposerà nel Salernitano, al confino di Agropoli, seguito al secondo arresto (1935). Così via via compiendo le «molte esperienze» che gli consentiranno di colmare «un poco» la distanza con Piero Gobetti, «il mito di tutta una vita», secondo Stajano.
L’unico mito? Ve ne è almeno un secondo per Antonicelli: Guido Gozzano, onorato di studi raffinatissimi, sottratto alla retorica degli orizzonti angusti, scoprendovi una tempra moderna, il culto della tradizione che è forza, mai rimpianto. Sia pure giungendo ad ammettere: «Darei tutta la letteratura crepuscolare torinese per queste due righe di Gobetti che partiva per sempre e andava a morire a Parigi: “L’ultima visione di Torino: attraverso la botte traballante che va nella neve’’».
Letterato o politico, Antonicelli? Come Ginzburg, riteneva che «ci si libera dalla politica attraverso la politica» - ossia solo sciogliendo i nodi politici si potrà tornare agli otia. Mai trascurandoli, neanche tenendo un comizio ai portuali di Genova. Raccontò a Guido Davico Bonino: «Tale la pioggia che cadeva, ho cominciato con La pioggia nel pineto. Per analogia, ma anche, nella aristocratica schizzinosità del divino Gabriele, come esempio di lirica del primo capitalismo. Mi vergogno a dirlo, non smettevano di applaudire».

Repubblica 5.11.14
“Apriamo la Chiesa alle donne sacerdote”
Parla Padre d’Ors scrittore e consigliere di Papa Francesco
di Simonetta Fiori


“Il Pontificio Consiglio ha chiesto una relazione sul ruolo femminile. Ormai i tempi sono maturi”
“Rousseau e Einstein erano capaci di esperienze spirituali profonde anche senza Dio”

MADRID «PERCHÉ mi ha scelto papa Francesco? Un mistero. Forse avrà chiesto: qual è il prete più marginale di Madrid?». Pablo d’Ors scoppia in una risata mentre s’inerpica nella sua casa del quartiere Tetuán, una specie di torre su quattro piani che sarebbe piaciuta a Montaigne. È qui, tra il piano della biblioteca dove d’Ors compone i suoi romanzi e la cappella su in alto dove recita messa, che sta maturando un’altra rivoluzione del pontificato di Bergoglio. Finora se n’è parlato poco, anzi per niente. E per scoprirla bisogna venire a trovare questo outsider delle lettere e del sacerdozio che emana una vitalità allegra.
Davvero inclassificabile, padre d’Ors. «Scrittore mistico, erotico e comico», così lui si presenta rivelando la sua vocazione al paradosso. I suoi primi bellissimi racconti del Debutto si prendevano beffa delle letteratura mondiale, narrando le gesta di una signora slovacca che fa l’amore con i più grandi scrittori del Novecento. Pagine sorprendenti in cui si possono leggere riflessioni del genere: «Pessoa è lo scrittore che ha dormito di meno in tutta la letteratura mondiale». Cresciuto in una famiglia colta – il nonno era Eugenio d’Ors, un monumento della cultura spagnola – Pablo s’è sempre nutrito di parole, per poi approdare alla Biografia del silenzio , un manifesto della meditazione che è diventato un caso editoriale in Spagna (tradotto da Vita e Pensiero). Non più giovanissimo, a 27 anni, dopo una vita ricca di amori, letture, viaggi anche spericolati, ha scelto il sacerdozio: ora nell’ospedale Ramón y Cajal accompagna i malati a morire. Quest’anno è stato chiamato dal Pontificio Consiglio della Cultura presieduto dal cardinal Ravasi, dove a febbraio porterà il suo mattone per la costruzione di un nuovo immenso edificio.
Che incarico le è stato affidato?
«Sono uno dei trenta consiglieri nominati in tutto il mondo. Ci hanno chiesto di presentare una relazione sul ruolo della donna nella Chiesa. Ormai sono maturi i tempi per percorrere nuove strade».
Si parlerà dell’apertura del sacerdozio alle donne?
«Non posso dire apoditticamente di sì, ma penso che dietro la prossima riunione plenaria ci sia questa impostazione».
Lei è favorevole?
«Assolutamente sì, e non sono da solo. Che la donna non possa essere prete per il fatto che Gesù era un uomo e che avesse scelto solo uomini è un argomento molto debole. È una ragione culturale, non metafisica».
Cosa porterebbero le donne?
«La vita. E tanta ricchezza. Il cambiamento è necessario, anche perché si tratta di una discriminazione inaccettabile. Per preparare il mio lavoro ho parlato con moltissime donne di diversa estrazione sociale e culturale, cristiane e non cristiane: con una sola eccezione, tutte si sono mostrate favorevoli».
C’è ancora molta resistenza?
«Sì, non solo nella curia ma anche nella base. La novità fa sempre paura. Invece un criterio importante per misurare la vitalità spirituale di una persona è la sua disponibilità al cambiamento. Resistere alla vita è un peccato perché la vita è svolgimento continuo».
Questo vale anche per la Chiesa?
«Soprattutto per la Chiesa».
Lei che tipo di sacerdote è?
«Sono un prete felice. Ho sentito una voce interiore. E quando vivi la vita come risposta a una vocazione provi la felicità. Questo non significa che non ci siano stati momenti difficili ».
Il fatto di aver molto vissuto prima di prendere i voti… «… anche ora vivo intensamente».
Sì, ma il fatto di aver avuto molte storie d’amore la rende un sacerdote migliore?
«Conoscere l’amore umano aiuta a conoscere meglio l’amore divino. Oggi posso dire che mi ha aiutato, mentre nel momento in cui lo vivevo avevo l’impressione che mi facesse male. Bisogna avere il tempo per elaborare l’esperienza».
I suoi rapporti con le gerarchie vaticane non sono stati sempre sereni.
«Si riferisce ad Antonio Maria Rouco Varela, ex vescovo di Madrid? Avevamo due modi molto diversi di intendere la presenza cristiana nel mondo. Potrei sintetizzarlo in due parole: alternativa oppure dialogo. L’alternativa ti porta a una visione chiusa del cristianesimo, separato da un mondo visto come sentinella di tutti i vizi. Il dialogo significa riconoscere nel mondo anche la bellezza e il bene. Dunque non ti impongo la mia verità assoluta, ma ti invito a metterti in dialogo con me per trovare insieme la verità. Francesco è un vero pontefice perché crea ponti intorno a sé».
Oggi lei lavora nell’ospedale di Ramón y Cajal. Come si accompagna una persona a morire?
«Ascoltando veramente ciò che dice, senza giudicare intellettualmente o caricare emotivamente. Ascoltare e basta, dimenticando se stessi, che è la cosa più difficile ».
Lei ha detto che morire da cristiani non comporta meno angosce che morire da laici.
«Un momento. Se sei davvero un credente ti aiuta. Non ti aiuta quando sei cristiano di nome ma non di cuore».
Ma si può vivere una buona vita senza Dio?
«Certo che si può vivere senza un Dio. Non si vive bene senza contatto con la fonte della pienezza, si chiami Dio, essere o vita. Persone come Einstein o Rousseau non erano credenti, ma capaci di esperienze spirituali profondissime».
Lei perché scrive romanzi? Pensava a sé quando fa dire a Pessoa: “Non scrivo ciò che penso, ma scrivo per pensare”?
«Uno ritiene ingenuamente che la scrittura serva per comunicare, ma questo vorrebbe dire che io so già cosa devo dire. In realtà la scrittura è rivelazione, nel senso che rivela a te stesso quello che devi scrivere. Non è un fatto solo intellettuale, ma più profondo, direi viscerale».
Ma perché poi lei è approdato all’elogio del silenzio? Non c’è un aspetto paradossale, ossimorico, nel biografare il silenzio?
«Solo in apparenza. Parola e silenzio sono le due facce di una stessa medaglia. Le parole vere, quelle che hanno la possibilità di toccare l’altro, nascono dal silenzio, ossia dall’intimità con se stessi. E approdano al silenzio perché la cosa più bella, quando leggi un libro, è il bisogno di ricreare tu stesso quello che hai letto. In fondo la letteratura è un invito a tacere».
Il silenzio come l’unica etica possibile.
Lei lo fa dire a Thomas Bernhard.
«Sì, per me è stato fondamentale. È Bernhard a teorizzare che tutto è citazione. La letteratura nasce dalla letteratura. Anche i miei romanzi nascono ai margini dei libri altrui».
Lei si definisce scrittore erotico, mistico e comico. Ma cosa tiene unite cose così diverse?
«L’ironia è lo stile, misticismo ed erotismo sono i contenuti. Sia la mistica che l’eros cercano l’unità: ricompongono la separazione nell’unione dello spirito e dei corpi. Quanto alla leggerezza, è quella che genera l’allegria del lettore».
A proposito di leggerezza, ne Il debutto fa a pezzi Kundera e molti altri. Grandi scrittori, ma piccoli uomini.
«L’ironia ha anche una funzione liberatoria. Quasi una dichiarazione di principio: ecco i miei maestri, ma non voglio restare schiacciato sotto queste bestie della letteratura ».
Ma perché introdurre il tema corporale: l’organizzatrice slovacca che si lascia possedere da tutti i grandi intellettuali?
«Ho voluto mostrare un inganno. Noi ci illudiamo di possedere libri e persone. Ma, dal momento che non è possibile padroneggiare tutta la letteratura, la cosa più facile è accedere al corpo degli scrittori».
La sua critica ricorrente verso gli scrittori è di preferire la scrittura alla vita.
«Per molti la letteratura è un modo vicario di vivere la realtà. Credo invece che ciascuno dovrebbe fare un’opera d’arte non solo della scrittura, ma anche dalla propria vita. Thomas Mann l’ha capito benissimo. Proust e Kafka, al contrario, hanno sacrificato le loro esistenze alla letteratura».
Primum vivere. Ma i sacerdoti vivrebbero meglio con una donna al loro fianco?
«I tempi sono maturi anche per questa svolta, ma è solo una mia opinione personale. E nel Pontificio Consiglio, no, di questo non si parlerà».

IL LIBRO Pablo d’Ors presenterà il 14 novembre a Milano a Book City Biografia del silenzio (Vita e Pensiero, pagg.100 euro 12)
REPTV-LAEFFE Alle 13,45 su RNews (canale 50 del digitale terrestre e 139 di Sky) il servizio

La Stampa 5.11.14
Il progetto della Crusca per una banca dati dell’italiano post-unitario


Una grande banca dati dell’italiano post-unitario, così da avere una collezione di testi informatizzati. È il progetto di cui si discuterà all’8a edizione di «Piazza delle Lingue», l’appuntamento annuale di confronto tra esperti e ricercatori organizzato dall’Accademia della Crusca a Firenze. Il convegno, al via domani per concludersi sabato, tratterà il tema «L’italiano elettronico. Vocabolari, corpora, archivi testuali e sonori». «Non promettiamo un vocabolario dell’italiano post-unitario - spiega il presidente della Crusca Claudio Marazzini (foto) -, perché ci vogliono anni per realizzarlo, ma gettiamo le basi per questo lavoro futuro possibile». Durante la tre giorni si susseguiranno diversi tavoli di confronto: da una parte con l’antico e gli archivi, sia latini, sia italiani, dall’altra con l’italiano negli archivi della rete e la filologia elettronica. Il tema scelto quest’anno per la «Piazza», ha spiegato Marazzini, «sono i corpora al servizio della lessicografia. Il segnale offerto quest’anno dall’Accademia è quello di un probabile ritorno all’antica vocazione lessicografica, la più autentica dell’istituzione fiorentina nata nel 1583. Ma la lessicografia moderna è ben diversa da quella artigianale del passato: necessita, appunto, di corpora di riferimento, cioè di gigantesche basi di dati elettronici».