giovedì 6 novembre 2014

il Fatto 6.11.14
Renzi tresca con B. & Verdini e copre le balle di Alfano
Difeso dai Democrat Alfano se la cava con poca fiducia
La mozione a Montecitorio dopo gli scointri a Roma conta solo 367 no
Naccarato (Pd) fa lo scudo umano
di Fabrizio d’Esposito


Il bersaniano Nico Stumpo passeggia per il Transatlantico, con le mani dietro alla schiena. “Onorevole Stumpo, lei ha applaudito Naccarato, che effetto le ha fatto? ”. Sono le cinque e mezza della sera. Risposta: “Nessuno, Naccarato è un turco”. Cioè, uno dei nostri. Non propriamente un deputato della minoranza dem, ma un diversamente renziano come gli altri giovani turchi più noti, tipo la doppia “O” di Orlando e Orfini.
NEL VENTENNIO breve di B. la sinistra è morta almeno mille volte, ma l’ennesima tumulazione avvenuta ieri a Montecitorio è uno spettacolo crudele, macabro, finanche ingiusto. Alle 16 e 7 minuti comincia la discussione della mozione di sfiducia ad Angelino Alfano per gli operai di Terni manganellati a Roma la settimana scorsa. Alle 16 e 35 si alza, tra i banchi del Pd, un omino con gli occhiali. È Alessandro Naccarato, che esordisce subito contro la mozione di Sel e Movimento 5 Stelle perché basata su un “falso”. I banchi del Pd sono vuoti. Ci sono più esponenti renziani di fronte, ad affiancare Alfano. Le ministre Boschi e Pinotti, poi Orlando. Naccarato provoca tristezza e rabbia. Difende i manganelli scelbiani con la stessa linea di Alfano: nessun ordine è stato impartito, né dal governo né da altri. Poi s’inerpica su crinali scivolosi. Evoca il terrorismo, gli anarchici, il pericolo di infiltrazioni antagoniste, a proposito del corteo pacifico degli operai della Thyssen. A quel punto, dall’estrema sinistra parlamentare, i deputati di Sel inveiscono contro di lui. Lo interrompono. Nicola Fratoianni si agita, sbraita, si mette le mani nei capelli. Arturo Scotto grida: “Ma che stai dicendo? ”. Naccarato sembra un gemello del ministro dell’Interno, ex maggiordomo del Condannato. La distanza da Sel è abissale. Dov’è la sinistra nel Pd? Proprio mentre Sel protesta contro l’omino con gli occhiali, entra in aula Pippo Civati, della minoranza del Pd. Sale nell’emiciclo e raggiunge un seggio in alto. Lì c’è Antonio Boccuzzi, che ascolta solitario le bestialità di Naccarato. Boccuzzi è l’unico sopravvissuto del rogo della Thyssen di Torino. Veltroni lo volle in Parlamento, nel 2008. Bersani lo ha confermato nel 2013. Civati e Boccuzzi parlottano. Si chiedono come fare a non votare la fiducia ad Alfano. Esporsi oppure assentarsi, semplicemente. Naccarato continua a parlare, tra le proteste di Sel e la soddisfazione di Alfano. L’ennesima tumulazione della sinistra, appunto. Contro gli operai caricati e manganellati. La discussione della mozione di sfiducia ad Alfano è uno stanco rito pomeridiano a tappe. Discussione dalle 16 alle 17 e 30. Sospensione. Dichiarazioni di voto alle 19. Altra sospensione. Prima chiama, per la fiducia, alle ventuno. La seconda termina alle 22 e 21. Presenti e votanti 492, contrari 367, favorevoli 125. Il risultato è scontato. Perché a chiarire come andranno le cose ci pensa subito, alle 16 e 29, il forzista Elio Vito, che blatera di “opposizione responsabile” e annuncia che Forza Italia voterà contro la mozione. La Santanchè però dissente e quando Vito finisce, lo raggiunge e ha un lungo, movimentato colloquio con lui. Dalla tribuna stampa, si nota la Santanchè che gesticola e indica per almeno tre volte, con il viso arrabbiato e schifato, i banchi del governo, dove Alfano troneggia seduto al posto del premier. Il primo a parlare, ad aprire la discussione è Giorgio Airaudo di Sel. Lui e Ciccio Ferrara, altro deputato, erano al corteo caricato dalla polizia. Airaudo accusa Alfano di aver mentito, dopo le rivelazioni video di Gazebo di Rai3 sugli operai che vanno in una direzione opposta a quella della Stazione Termini. Alfano non lo guarda mai. Smanetta sullo smartphone, si mette a parlare con la Boschi, sorride, riguarda lo smartphone, infine apre una cartellina e tenta di avere un improbabile atteggiamento pensoso. In aula ci sono solo novanta deputati, più o meno lo stesso numero che ascoltò l’informativa del ministro sul finire della scorsa settimana. Disinteresse, distrazione, noia. Tra i capannelli del Transatlantico tiene banco solo la ricostruzione del vertice tra Renzi e Berlusconi. E Boccuzzi, in aula, è sempre lì, solitario. Ogni tanto esce e va a fumare, poi rientra. Airaudo conclude il suo intervento con un invito al ministro dell’Interno: “Dica la verità, lo deve alla democrazia di questo Paese. Poi tolga il disturbo”. Praticamente uguali, nella sostanza, le parole finali del grillino Giuseppe D’Ambrosio: “Le chiedo cittadino Alfano dignità, si dimetta”. Ma il ministro continua a giocare con lo smartphone. Idem la presidente di turno, la dem Marina Sereni, mancata ministra degli Esteri. Anche lei compulsa o telefona.
ALLE 16 E 49, Bragantini della Lega dimostra quanto sia frammentato e inconciliabile il centrodestra berlusconiano vecchio stampo. Se Forza Italia si schiera con Alfano, il partito del nuovo corso di Salvini imbocca la strada del voto a favore della mozione: “Lei è il peggiore ministro dell’Interno degli ultimi anni”. Ci provi il Condannato a mettere insieme Salvini e Alfano. Resta Fratelli d’Italia della Meloni, che pure invoca le dimissioni di Alfano. L’imbarazzo schizza alle stelle proprio con il ministro. Dice che la ricostruzione di Gazebo non smentisce la sua informativa e che non c’è alcuna dietrologia: nessun ordine è arrivato da altri uffici. Tutto deciso in piazza. Il Pd lo copre, fino in fondo. Un calice amarissimo.

il Fatto 6.11.14
L’ex operaio Antonio Boccuzzi
“Piazza gestita male, io il mio voto non glielo do”
di Paola Zanca


Se tornassimo indietro di qualche anno, “di sicuro sarei stato lì, in piazza, in prima fila. E probabilmente, una manganellata me la sarei presa anch’io”. Antonio Boccuzzi, ex operaio e sindacalista alla ThyssenKrupp, sopravvissuto al rogo di Torino, adesso è seduto nel cortile di Montecitorio. Dal 2008 è deputato del Pd e ha appena sentito il ministro dell’Interno Angelino Alfano spiegare che, tutto sommato, le botte volate contro i lavoratori di Terni, contro gli ex colleghi di Boccuzzi, sono state un incidente di percorso, necessario e comprensibile. Per questo, al momento del voto, il parlamentare ex operaio se ne è andato dall’aula.
Non se l’è sentita di seguire l’indicazione del suo gruppo?
Avevo detto che avrei ascoltato le parole del ministro e poi avrei deciso. Speravo di vedere un atteggiamento diverso, che portasse qualche elemento di novità.
Invece?
Invece niente. Cita altri video oltre a quello di Rai3, ma insiste nel dire che la gestione della piazza è stata fatta bene. Ecco, io non sarò un esperto di ordine pubblico, come ha detto in aula. Ma qualche corteo l’ho fatto. E almeno un “cuscinetto” tra forze dell’ordine e manifestanti ci doveva essere.
Secondo il ministro, i poliziotti erano troppo pochi.
Se hanno sottovalutato la manifestazione è un problema loro. Io non sono d’accordo: quella piazza non è stata gestita bene e per questo Alfano non ha la mia fiducia.
Però la sfiducia non la vota.
La mozione firmata da Sel e Cinque Stelle è scritta male, è invotabile, alla fine attacca pure le forze dell’ordine...
Il suo collega Pd Alessandro Naccarato in compenso ha parlato di anarchici, di terroristi, di eversione. Dice che la mozione “strumentalizza la crisi economica e sfrutta la disperazione e la rabbia dei lavoratori”.
Beh, in parte è vero, c’è chi strumentalizza: l’avete sentita la Lega? Si è messa a discutere di immigrati, di Mare Nostrum... Certo, forse Naccarato ci ha messo un po’ troppa enfasi...
Non le ha fatto male sentire quella difesa a tutto campo?
Quello che mi dà fastidio davvero è che non si parla più della Thyssen, non si discute più delle soluzioni da trovare, è sceso il silenzio sui licenziamenti: si parla solo degli scontri. Renzi durante l’ultimo incontro con il gruppo ha ribadito il suo impegno, mi auguro si torni a dibattere di questo.
Chiudiamo il capitolo Alfano?
Sicuramente delle responsabilità le ha. Ma apprezzo il segnale che ha dato: condividere il percorso con i sindacati, come ha fatto la sera stessa dopo gli scontri. Di questi tempi, diciamo la verità, non è una cosa da poco.

Repubblica 6.11.14
“Zoro”, l’ideatore di Gazebo
“Ho fatto parlare il filmato ma non crede a ciò che vede”
di T. Ci.

ROMA Il barman si avvicina a Diego Bianchi. «Fai tu, basta che non mi stendi. Devo restare lucido...». “Zoro” sorride. Il creatore di Gazebo ha appena finito di ascoltare Angelino Alfano a Montecitorio. Tira le somme. Con una premessa: «Nessuna polemica politica con il ministro. Parlano le immagini. Se poi non crede neanche a quello che vede, amen...».
La nuova ricostruzione di Alfano è convincente?
«Io ho semplicemente documentato un’intera giornata. Con un video diverso dagli altri. Un lavoro giornalistico, nient’altro. C’è la manifestazione. L’ordine di caricare. Mi sembra che le cose non siano andate come era stato indicato nella prima ricostruzione del ministro. Qualcosa di sbagliato c’è stato, no?».
Il ministro sostiene che esistono diversi video con angoli visuali e anche politici differenti. Ha gradito?
«Ecco, non mi metto a fare questo tipo di polemica. Ognuno ha la sua credibilità. Mi limito a dire che la mia angolatura, diciamo, era quella di una telecamera che si è trovata in mezzo: da una parte c’era l’ordine di carica, dall’altra i sindacalisti...».
Alfano sostiene che le immagini non lo smentiscono.
«Per carità, ognuno ha diritto di giudicare quelle immagini. Questa era tra le manifestazioni più civili che possano capitare. Dal punto di vista dell’ordine pubblico tra le più facili da gestire. Tutti a volto scoperto, riconoscibili. Operai, arrivati in pullman. Fa un po’ impressione che spaventi i funzionari di pubblica sicurezza ».
Tornerete sugli scontri nella puntata di domenica?
«Cerchiamo sempre di trattare temi seri in modo leggero. Così faremo. E sarebbe ipocrita ignorare i fatti quando in Parlamento si parla del nostro video».
La chiacchierata si conclude. L’aperitivo anche. «Lo sa che mi chiamano gli operai di Terni? Senza lavoro, un vero dramma». (t. ci)

il Fatto 6.11.14
Manovra nel mirino della Ue. È scontro sui tagli ai Comuni
Renzi, oggi all’assemblea Anci, vuole fare contenti i sindaci. Padoan resiste
di Marco Palombi


Ennesima fiducia per Matteo Renzi: la numero 27 in otto mesi di governo, una ogni nove giorni. Uno stile di governo decisamente sbarazzino, per così dire, e leggermente disinteressato alla partecipazione del Parlamento al processo legislativo. Ieri, ad esempio, il Senato è stato ufficiosamente abolito visto che ha dovuto approvare il decreto “Sblocca Italia” in tutta fretta, con la fiducia e senza poter modificare il testo arrivatogli dalla Camera la scorsa settimana: i senatori di opposizione si sono sfogati rallentando i lavori e facendo un po’ di casino durante il dibattito e le votazioni. Quelli dei 5 Stelle, poi, si sono fatti prendere la mano durante la fiducia arrivando a impedire ai colleghi di votare passando come al solito sotto la presidenza: i responsabili sono stati deferiti e rischiano sanzioni. Il risultato non è cambiato: lo Sblocca Italia – uno dei peggiori decreti degli ultimi anni, che regala le concessioni ai signori delle autostrade, rende “strategiche” trivellazioni e inceneritori, liberalizza la cementificazione del territorio – è passato com’era, errori compresi. La norma che toglie dal conteggio del Patto di Stabilità le bonifiche, ad esempio, è scoperta: il governo farà un decreto ad hoc per correggere il decreto.
AL DI LÀ dei pessimi contenuti del testo, insomma, non proprio un iter di buon auspicio per la Legge di Stabilità che muove i suoi primi passi alla Camera e su cui è ancora aperta la “questione Europa”: la Commissione non boccerà la manovra, ma potrebbe chiedere modifiche sostanziose (e i litigi a mezzo stampa tra Matteo Renzi e Jean-Claude Juncker non aiutano ). Oggi, all’Eurogruppo, probabilmente i colleghi chiederanno a Pier Carlo Padoan e al francese Michel Sapin qualche spiegazione in più: non solo i tradizionali falchi dei paesi del Nord, infatti, ma anche chi è stato sotto il tallone della Troika come Grecia e Portogallo non ama l’idea che a Roma e Parigi vengano concesse deroghe.
Il ministro dell’Economia, ovviamente, difenderà l’impostazione della manovra che - dice lui - “coniuga rigore e crescita”, ma da ieri ha un problema in più, interno. Ieri a palazzo Chigi, dicono fonti governative, Padoan avrebbe avuto un animato colloquio con Graziano Delrio a margine del vertice governativo sui decreti attuativi della delega fiscale. Il tema sarebbe come regolarsi in tema di enti locali. Su comuni, province e città metropolitane, infatti, pesano tagli per 2,2 miliardi l’anno, cui si aggiungono altri 500 milioni di precedenti leggi e gli effetti delle manovre di Monti e Letta. Province e città metropolitane hanno già detto che così tutto è a rischio: non solo i servizi, ma pure gli stipendi dei dipendenti. Matteo Renzi, però, incontrando il presidente dell’Anci Piero Fassino nei giorni scorsi, si sarebbe impegnato a fare qualcosa. D’altronde il premier aveva preventivato tagli sui comuni per 500-700 milioni, ma il Tesoro gli ha imposto di portare la cifra a 1,2 miliardi: l’occasione per l’annuncio dovrebbe essere oggi, quando Renzi interverrà proprio all’Assemblea dell’Anci a Milano.
IL COLPO a effetto, concordato col renziano Fassino, dovrebbe essere il seguente: una local tax unica che sostituisca tutti i balzelli comunali oggi esistenti (compresa la tassa sulla casa tripartita). Di primo acchito non sembrerebbe capace di risolvere il problema dei tagli e invece sì: i sindaci dovrebbero, infatti, ottenere maggiore flessibilità sulle aliquote. Tradotto: potranno aumentare, o ridurre ovviamente, le tasse locali. Renzi vorrebbe infilare la nuova tassa già nella Legge di Stabilità, ma al Tesoro non sono convinti di fare in tempo e soprattutto vorrebbero calcolare bene gli effetti della cosa.
Palazzo Chigi, infine, si sarebbe impegnata con regioni (4 miliardi di tagli) e enti locali anche a rimodulare in qualche modo la sforbiciata sui loro trasferimenti: Padoan, però, tenta di fare muro perché la manovra è già sotto il microscopio di Bruxelles per certe coperture ballerine tipo “lotta all’evasione”. È di questo, dicono al Mef, che discuteva ieri con Delrio.

La Stampa 6.11.14
Tasse, si rischia l’effetto-slavina sull’Iva: può costare 20 miliardi in 3 anni
L’allarme di Confcommercio: con l’aumento dell’imposta, giù consumi e entrate
di Paolo Baroni

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Corriere 6.11.14
Riparte la battaglia sul Jobs act La minoranza pd si conta per il voto
Damiano: va corretto, non basta un ordine del giorno. L’incognita dei bersaniani
di Alessandro Trocino


ROMA Sarebbero tra i venti e i trenta i deputati del Pd pronti a non votare il Jobs act alla Camera. Stima tutta da confermare e che dipende dal tipo di compromesso che si raggiungerà nelle prossime ore. Sempre che ci sia e che invece non si scelga la strada di lasciare tutto com’è, per non tornare in terza lettura al Senato.
La relazione di Matteo Renzi ai gruppi del Pd ha lasciato le cose come stavano. Nel senso che, a parte l’indicazione temporale — la dead line per l’approvazione al primo gennaio — non ha chiarito se ci sono i margini per un compromesso. La minoranza non ha gradito il fatto che non sia stato lasciato spazio a repliche.
Il capogruppo Roberto Speranza ha chiuso la seduta, ringraziando tutti. Rosy Bindi non ha apprezzato: «La solita liturgia. Renzi ci ha fatto un monologo di un’ora per spiegarci come le sue grandi riforme siano di sinistra». Non piacciono alla Bindi né la legge elettorale — «Si va verso un bipartitismo che in assenza del centrodestra diventa un monopartitismo pericoloso, tutto basato sul leader» — né la riforma costituzionale. C’è il rischio di una «subalternità del Parlamento» e «mi preparo a presentare molti emendamenti». Pollice verso anche sul Jobs act. Sarebbe votabile se recepisse le indicazioni della direzione pd, che ha votato per l’inserimento del reintegro obbligatorio in caso di licenziamento disciplinare? «No, non basterebbe. Sull’articolo 18 non possiamo andare oltre la Fornero». Considerando «imbarazzante la presenza costante» di Berlusconi a Palazzo Chigi e «sbagliata» la legge di Stabilità che parla «solo di riduzione delle tasse», il quadro è completo.
Le molte minoranze del Partito democratico sono in subbuglio. Tra i big a non votare il Jobs act dovrebbero essere, oltre a Bindi, Stefano Fassina, Pippo Civati e Gianni Cuperlo. La vera incognita sono Pier Luigi Bersani e i suoi. Un esponente della minoranza racconta: «A Pier Luigi basterebbe che ci fossero più fondi per gli ammortizzatori sociali, ma sbaglierebbe a dare il via libera alla fiducia sul Jobs act».
Civati è tra i più duri: «La riforma del lavoro non va, assolutamente. Non è votabile neanche se vengono recepite le indicazioni della direzione». Civati vorrebbe più coordinamento con gli altri esponenti dell’opposizione, ma rischia di rimanere in minoranza nella minoranza se si aprissero spazi di mediazione.
Cesare Damiano ci spera: «Ma allo stato non c’è nessun accordo. Recepire un ordine del giorno non sarebbe sufficiente. I temi da affrontare sono noti: il reintegro per il licenziamento disciplinare, il controllo a distanza, il cambio di mansioni in caso di crisi aziendali, la cassa integrazione in caso di cessione attività».
Se Damiano punta a una mediazione, l’elenco di Fassina è più severo: «Il reintegro per i licenziamenti disciplinari sarebbe poco rilevante. Servono più risorse per gli ammortizzatori sociali, nella legge di Stabilità. Bisogna eliminare le troppe tipologie di contratti precari, affrontare il problema dei voucher, dei controlli a distanza, dei demansionamenti».

Repubblica 6.11.14
Juncker, nuovo attacco a Renzi “Non tremo davanti ai premier, rispetto per la Commissione”
Alla Ue replica Gozi: servono decisioni politiche, non aritmetiche Calano le vendite al dettaglio dell’Eurozona, tonfo per la Germania
di Elena Polidori


ROMA Renzi-Juncker, il duello continua. Ed ecco il neopresidente della Commissione Ue scandire di nuovo: «Io non sono un tipo che si spaventa davanti ai primi ministri». Giura: «Non ho problemi particolari con Renzi che apprezzo molto» e «neppure con Cameron». Ma «ho la ferma intenzione di reagire sempre a tutte le critiche ingiustificate che saranno rivolte alla Commissione, da chiunque vengano». Sicuro oggi gli sta a cuore riaffermare che a Bruxelles, nei palazzoni vetro e cemento che ospitano l’istituzione europea, non ci sono «né burocrati né alti funzionari», che poi è il nocciolo di tutta la polemica, ma «uomini politici». E comunque, «cerchiamo di non sabotare la Commissione prima che inizi a lavorare». Al dunque Juncker reclama soprattutto rispetto.
Scintille. Frecciatine. Rinverdite oltrettutto ad appena 24 ore di distanza e nella prima conferenza stampa ufficiale da presidente. La differenza è che stavolta Renzi non ha risposto. La replica è stata affidata al sottosegretario alla Presidenza per gli affari Eeropei, Sandro Gozi. «A Juncker chiediamo che la Commissione Ue eserciti un ruolo politico, che è stato perso negli ultimi decenni». E più avanti: la Ue non ha bisogno di «astrusi parametri finanziari, ma di scelte forti di politica economica». Per essere ancora più chiari: «Le decisioni vanno prese non in base ad una logica aritmetica, ma agli impegni politici e agli obiettivi comuni. E’ così che vogliamo che vengano valutate le leggi di stabilità».
Per la verità sul punto-chiave della polemica ci sono altre due prese di posizione. Quella di Romani Prodi, che della Commissione è stato presidente e che trova «ingiusto» accusare l’organismo di essere «un covo di burocrati». E quelle di Massimo D’Alema, che a Renzi pare tutt’altro che vicino al momento, secondo cui la Commissione è «un organo politico formato da uomini politici. Ci sono anche i burocrati, ma se è per questo ci sono anche a Roma».
Polemiche a parte, Juncker deve fare i conti con una situazione economica della Ue non proprio florida: ieri s’è saputo che le vendite al dettaglio di settembre hanno subito un brusco calo dell’1,3% all’interno di Eurolandia e un tonfo in Germania (—3,2%). E, non ultimo, deve trovare i fondi per finanziare un piano di investimenti da 300 miliardi già annunciato. Il neo presidente accelera: «Sarà pronto a dicembre». E a chi gli chiede dove prenderà i soldi risponde: «Le linee di credito sono tante. Se fornisco precisazioni mi chiedono quale preferisco e io voglio sottrarmi a questo gioco».
Dal suo primo incontro con la stampa esce un messaggio chiaro: il nuovo esecutivo, il suo, non solo ribatterà a tutte le critiche (pare che sia stata la Germania a sollevare questo punto) ma avrà un taglio politico ben diverso da quello dei dieci anni di Barroso. Lo dimostrano alcune decisioni operative, come quella di guidare la riunione con il presidente della Bce Draghi, quello dell’Eurogruppo Dijsselbloem e il presidente del Consiglio Tusk per la revisione della governance dell’Eurozona. In passato conduceva il dibattito Van Rompuy. Juncker: «La Commissione deve ritrovare il ruolo di leadership e la sua centralità».

Corriere 6.11.14
La ribellione di Juncker, il «burocrate» che Renzi sottovaluta
di Antonio Polito

Quando Matteo Renzi inveì contro i «burocrati di Bruxelles» aveva l’attenuante della tensione nervosa. Le voci di dentro dicono che l’ultimo Consiglio europeo è stato molto difficile per il premier italiano. Un certo isolamento politico, aggravato dalla (prevedibile) defezione di Hollande che si è fatto i fatti suoi, aveva indebolito la battaglia anti-austerità di Roma; fino al punto di dover accettare una correzione della legge di Stabilità, come richiesto nella lettera della Commissione.
Così la prima campagna d’Europa per la «flessibilità» si è per ora conclusa con uno sconticino dello 0,2% all’Italia (la Francia se l’è cavata meglio) e un giudizio ancora sospeso per i nostri conti.
Sarebbe dunque opportuno che ora Renzi riconsideri la utilità di quella polemica anche alla luce della rispostaccia ricevuta da Juncker. Il fatto stesso che il presidente della Commissione europea abbia avuto l’ardire di bacchettare in pubblico il premier di un grande Paese la dice infatti lunga su quanto siano cambiate le cose a Bruxelles.
Juncker non accetta la definizione di «burocrate» per molte ragioni, la prima delle quali è che la sua legittimazione democratica è ormai pari, se non addirittura superiore, a quella di Renzi. Si sa che il nostro premier non è mai stato eletto; ma se lui può vantare l’investitura indiretta delle europee allora anche Juncker può farlo, e per la prima volta nella storia della Commissione, essendo stato il candidato del Partito popolare, vincitore del voto su scala continentale. Proprio attaccando Renzi, con la non irrilevante complicità di Manfred Weber, capogruppo europeo dei Popolari e intimo della signora Merkel, Juncker ha dimostrato che intende far valere fino in fondo questa sua «novità» rispetto agli sbiaditi predecessori: il giochetto di dare la colpa a Bruxelles, da sempre e da tutti praticato, non sarà più tanto facile d’ora in poi.
Inoltre la nuova Commissione non è composta da funzionari, ma da politici di primo piano nei loro Paesi: Katainen è un ex primo ministro, Moscovici un ex ministro dell’Economia, e spetterà proprio a loro vigilare sui nostri conti: difficilmente soffriranno di complessi di inferiorità.
Infine Renzi, snobbando il peso politico della Commissione, rischia di svalutare anche il ruolo che vi dovrebbe svolgere la vicepresidente Mogherini, per la quale si è invece tanto battuto: se è vero che da quella poltrona si può influire sulle materie economiche, per noi vitali, è il giunto il momento di dimostrarlo. Rischia altrimenti di diventare un po’ schizofrenico un governo in cui proprio ieri il sottosegretario Gozi, egli stesso un ex burocrate di Bruxelles, vantava di aver portato 20 italiani nei gabinetti di Bruxelles contro i 14 della precedente Commissione: non è che i burocrati nostri sono buoni e quelli degli altri no.
Trattare la Commissione europea come in patria si tratta la Cgil, cioè a sberle, può essere pericoloso. La tattica di alzare la voce con l’avversario di turno per dimostrare di aver vinto porta consensi nei sondaggi, ma mentre la Camusso non può aprire una procedura d’infrazione contro l’Italia, Juncker questo potere legale ce l’ha, glielo danno i Trattati, e non dipende per la sua popolarità dai sondaggi italiani, magari più dai sondaggi degli anti-italiani.
L’impressione è che l’Europa stia prendendo le misure a Renzi. Nessuno gli è contro perché tutti sanno che il dopo potrebbe essere peggio; ma nessuno è disposto a credergli sulla parola. L’Italia è l’unico Paese dell’Ocse in recessione e in deflazione, le sue prospettive continuano a essere fosche anche nel 2015; e a Bruxelles si è capito che la delega sul mercato del lavoro è ancora un oggetto misterioso, tranne che per gli effetti che sta provocando sulla pace sociale.
C’è dunque molto lavoro da fare, prima di prendersela con gli altri. Sarebbe del resto un insuccesso italiano se di questo semestre di presidenza della Ue, ormai quasi agli sgoccioli, non restasse altro che una scazzottata e qualche colpo basso. Non converrebbe di certo all’Italia, vaso di coccio in Europa per il suo immane, e crescente, debito pubblico. Il primo ministro dell’Italia non deve mai andare a Bruxelles con il «cappello in mano»; ma neanche può prendere cappello ogni volta che è in difficoltà.

Repubblica 6.11.14
Tre regole per stare in Europa
L’impressione è che lo stile aggressivo adottato da Renzi ci condanni alla stessa marginalità della condotta passiva tenuta dai governi precedenti
di Tito Boeri


MATTEO Renzi si vanta spesso di avere cambiato l’atteggiamento dell’Italia in Europa. L’Italia è forse il paese fondatore maggiormente assente dall’arena comunitaria negli ultimi 15 anni, avendo giocato un ruolo marginale nella costruzione delle istituzioni europee. Quindi di un cambio di passo ci sarebbe bisogno. E quale migliore occasione del semestre italiano per metterlo in atto?
NON passa giorno senza che ci sia, in effetti, qualche scontro istituzionale fra il governo italiano e la Commissione Europea. Ma l’impressione è che lo stile aggressivo, “confrontational”, adottato da Renzi, ci condanni alla stessa marginalità dell’atteggiamento passivo adottato dai governi precedenti. Potrà forse la rissosità servire a raccogliere consensi in Italia, trovando un comodo capro espiatorio, ma non ci permette di meglio tutelare i nostri interessi e soprattutto quelli che sono convergenti con gli interessi dell’Unione Europea nel suo insieme. Le organizzazioni complesse, e ancora più quelle intergovernative, procedono per aggiustamenti marginali e si chiudono a riccio quando aggredite. Chi, come noi, è in una posizione contrattuale debole può costruire coalizioni vincenti solo rendendosi credibile come rappresentante di interessi più vasti di quelli del proprio paese. Purtroppo i resoconti degli incontri comunitari sono di tutt’altro tenore. E soprattutto tre esempi recenti sono sotto gli occhi di tutti.
Il primo è quello del cammino della legge di stabilità. La Commissione Europea ci ha imposto di dimezzare il contenuto espansivo della nostra legge di bilancio, facendoci ridurre l’aumento del disavanzo nel 2015 da 11,3 a meno di 6 miliardi. Ora, a una sola settimana dal via libera concesso dal vice-presidente Katainen alla legge di stabilità così “dimezzata”, sono arrivate le previsioni della Commissione che prefigurano la richiesta a breve di un’altra correzione di circa 3 miliardi in quanto l’indebitamento strutturale migliorerebbe solo dello 0,1 per cento rispetto al 2014, in luogo dello 0,3 previsto. Legittima la frustrazione di chi deve affrontare il confronto parlamentare su di una manovra che deve costantemente ripartire da capo, come nel gioco dell’oca, con tempistiche che per di più non hanno alcun rispetto per il dibattito parlamentare. Ancora più grave il fatto che la Commissione ci chieda di fatto di annullare il contenuto espansivo della manovra di fronte a un peggioramento della congiuntura. Ma presumibilmente nella situazione dell’Italia si potevano trovare molti altri paesi. Se avessimo fatto presente questi problemi di calendario a tempo debito, avremmo potuto evitare queste incongruenze. Potevamo anche incidere sul contenuto delle raccomandazioni, che oggi comportano un avvitamento in negativo, con manovre sempre più restrittive e revisioni al ribasso delle stime di crescita. Bastava mettere in discussione il modo con cui vengono stimati parametri cruciali nelle raccomandazioni della Commissione e come vengono interpretate queste stime. Il problema, in soldoni, è che la Commissione attribuisce una parte eccessiva della caduta del reddito in Italia a fattori strutturali, anziché legati alla congiuntura negativa. Questo significa che non abbiamo grandi giustificazioni per politiche espansive anticicliche. Come spiegano Cottarelli e altri su lavoce.info, bastano variazioni di pochi decimali di queste stime, ad esempio allineando quelle della Commissione alle stime dell’Ocse e del Fondo monetario, per legittimare il via libera a manovre molto più espansive di quella che saremo costretti a mettere in atto seguendo i dettami della Commissione. I dati utilizzati a Bruxelles a supporto di queste stime sono poi discutibili: ad esempio, attribuiscono alle ore di cassa integrazione una riduzione permanente, anziché temporanea, delle ore lavorate, contribuendo a ridurre di un terzo il prodotto potenziale, il livello del Pil in condizioni normali. Perché allora il nostro paese non ha contestato fin dall’inizio questi metodi, perché non ha chiesto che le ipotesi e i dati su cui si reggono gli scenari della Commissione venissero resi maggiormente trasparenti, creando un organismo tecnico in grado di valutare i margini di errore cui sono soggette le stime dei modelli e di segnalarne i limiti alle autorità comunitarie? Nessun paese ha interesse a entrare in una specie di lotteria, in cui per via di un decimale di troppo o di meno si rischia di dover riscrivere una legge di bilancio. Non è questione di cambiare i trattati. Né c’è bisogno di rimettere in discussione le regole. Basta ridiscutere il modo con cui vengono messe in atto, per il bene di tutti.
Il secondo esempio è quello degli stress test sul sistema bancario, che si sono conclusi a fine ottobre. Messaggio devastante per la credibilità del nostro sistema bancario e per la stessa Banca d’Italia in quanto siamo il paese in cui il patrimonio iscritto a bilancio dagli istituti di credito sarebbe il più lontano dalla realtà. Anche in questo caso c’è stata una levata di scudi perché gli stress test sarebbero stati troppo penalizzanti nei confronti delle banche italiane e troppo generosi nei confronti di quelle tedesche per via del fatto che hanno valutato in modo eccessivamente benigno i derivati in pancia a Commerzbank e Deutsche Bank. Giuseppe Guzzetti, che ha coalizzato le fondazioni bancarie contro gli aumenti di capitale a Siena e Genova, impedendo che Monte dei Paschi e Carige si rafforzassero patrimonialmente in vista degli stress test, ha avuto parole di fuoco contro la revisione degli attivi bancari da parte della Bce. Ora, ammesso e non concesso che i test fossero artatamente sbilanciati a favore della Germania, dove erano le nostre autorità di vigilanza, i tecnici del nostro ministero dell’economia, quando queste regole sono state discusse e adottate?
L’impressione è che il nostro governo, che si lamenta spesso per la burocrazia di Bruxelles, dovrebbe innanzitutto preoccuparsi di dotare il nostro paese di una burocrazia adeguata. Altri episodi recenti, non comunitari, certificano questa assoluta necessità. Pensiamo al caso dei test di medicina, di cui alle cronache di questi giorni, destinato a lasciarci uno strascico di ricorsi per molti anni a venire (viaggiando su Internet si trovano siti di avvocati che si offrono di preparare ricorsi con tariffe leggermente superiori alle quote di iscrizione ai corsi di laurea). Sorprende che nessuno abbia posto il seguente interrogativo: perché il ministero dell’Università e della Ricerca deve concedere un potere di monopolio assoluto a un ente privato, come Cineca, che non sembra contemplare procedure di controllo ex ante dei test somministrati agli aspiranti medici? E perché non è in grado di gestire al suo interno anche le banche dati che raccolgono le informazioni sulle carriere dei docenti universitari?
Il cambio di passo dell’Italia a livello comunitario dovrebbe infine comportare una maggiore presenza del nostro paese sui temi più importanti di cui si dibatte anche al di fuori del Club Med, il circolo dei paesi del Sud. Di qui il terzo esempio. Si sta consumando in questi giorni uno scontro molto acceso fra Angela Merkel e David Cameron che vorrebbe imporre tetti alla mobilità dei lavoratori comunitari all’interno dell’Unione. Quello della libera circolazione è un principio basilare, fondamentale da presidiare soprattutto all’interno di una unione monetaria. Il nostro paese potrebbe essere alleato di Juncker e della Germania in questa battaglia a difesa della mobilità del lavoro, difendendo un bene molto importante per i paesi che hanno la disoccupazione più alta. Non mi sembra, tuttavia, di avere udito pronunciamenti del governo italiano a riguardo. Mi auguro di essermi sbagliato.

il Fatto 6.11.14
Legge elettorale: Renzi incontra B. ma sono in un pantano
Il premier torna a sedersi con Berlusconi, Letta e Verdini
Sul tavolo c’è l’Italicum: tutto ancora in alto mare
La minaccia: “Se non decidete, andiamo avanti da soli”
di Wanda Marra


Interlocutorio”. Per non dire “andato male”. L’incontro di ieri tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi sulla legge elettorale non solo non è risolutivo, ma non lascia presagire nulla di buono sul futuro della riforma. Due ore e mezzo di vertice a pranzo a Palazzo Chigi e un nulla di fatto. “Noi andiamo avanti comunque”. Il messaggio che il premier consegna ai suoi la dice lunga sullo stallo della trattativa. Soprattutto dopo un silenzio da parte dei Dem andato avanti per tutto il pomeriggio, mentre fonti di Forza Italia accreditavano il fallimento del vertice. Una minaccia credibile? Di certo necessaria, visto che il capo del Governo vuole portare a casa la riforma entro gennaio. Per questo, l’incontro è stato più teso degli altri: Matteo sta mettendo pressione all’altro, per costringerlo a prendere una posizione definitiva. E lui resiste. Da qui alla rottura, però, ce ne vuole: anche perché né l’uno né l’altro se lo possono permettere.
RENZI è accompagnato dal vicesegretario del Pd, Lorenzo Guerini e dal Sottosegretario a Palazzo Chigi, Luca Lotti. L’ex Cavaliere si presenta con Gianni Letta e Denis Verdini. Formazione classica di entrambe le squadre. Anche se i renziani, fino all’ultimo momento, avevano sperato che Berlusconi lasciasse fuori Verdini, ora rinviato a giudizio. Non esattamente il massimo per un premier riceverlo a Palazzo Chigi. Anche se la linea ufficiale è quella data dallo stesso premier martedì sera a Ballarò: “È giusto fare le riforme con Berlusconi. Il fatto che Berlusconi sia stato condannato e Verdini rinviato a giudizio attiene alla loro vicenda personale, ma finché ci sono italiani che li votano sono interlocutori per le riforme”. Se non una difesa a spada tratta, di certo una rinnovata legittimazione.
Motivazioni politiche e modifiche tecniche si incrociano, con Renzi stretto da minoranza Pd e Berlusconi sulle preferenze e soglie di ingresso che mettono in crisi la maggioranza.
Prima di vedere B. e i suoi, Renzi aveva incontrato i vertici dem.
Dal vertice mattutino, esce una piattaforma poco negoziabile: premio di maggioranza al partito che ottiene il 40%, ma se nessuno supera questa soglia, ballottaggio tra i due partiti più votati; 70% dei deputati eletti con preferenza in collegi plurinominali, 30% eletti in liste bloccate su base regionale con metodo interamente proporzionale. Non più i capilista bloccati, di cui si era parlato fino all’altroieri. “Un’ ipotesi da concordare con gli alleati” ammette la Boschi. Le preferenze sono invise a Berlusconi ma gradite a M5s, cose che permette a Renzi di giocare su due tavoli.
Proprio su questa questione, l’accordo si è arenato. Speranza ha chiarito ieri mattina a Renzi che sulle liste bloccate (e senza preferenze) il Pd l’Aula non la regge. E il premier si è presentato a Berlusconi tenendo fermo questo punto. Il leader di FI ha insistito per avere almeno il 50% di candidati bloccati.
Sul premio alla lista e non al partito il leader di FI è invece pronto a cedere, convinto che Renzi al 40% non ci arriverà più, e dunque si andrà al ballottaggio. E questo cedimento sarebbe barattato con la soglia di ingresso portata al 5%: cosa che ucciderebbe i partitini e li costringerebbe alla coalizione. Non a caso, Alfano non è d’accordo. E ha ottenuto per lunedì un vertice di maggioranza.
L’ex Cavaliere - che oggi riunisce i gruppi - ha preso tempo. Con Renzi dovrebbero rivedersi all’inizio della settimana prossima, anche se il premier vuole già oggi una risposta di massima. E se il patto si dovesse arenare? “La legge elettorale si può approvare anche a maggioranza”, chiariscono i vertici Dem. Insomma, un aut aut. Però, così va in crisi il patto del Nazareno. Vero perno su cui si sta reggendo il governo. Renzi e B. se lo possono permettere? Difficile crederci. Ed è per questo che al Nazareno ostentano ottimismo: l’unico che potrebbe avere interesse a votare è Renzi, pure con il Consultellum. Anche se non sarebbe un’ipotesi esaltante: per questo sta cercando di rassicurare B. che riforma elettorale non significa voto anticipato. Lui si fida poco, i suoi si fidano meno. Si punta sul fatto che Napolitano non scioglierà le Camere e che se si riesce a prendere tempo sulla riforma, si chiude la finestra elettorale di primavera. Peraltro Fi è abbastanza divisa da non avere ancora un nome sulla Consulta.
SULLO SFONDO, la questione giustizia: ieri non se n’è parlato: troppa gente e troppo poco tempo. Però, Berlusconi avrebbe provato a chiedere modifiche sulla Severino. Trovando, per ora, un muro. Anche se lo stesso premier le sue perplessità su questa legge le ha espresse. “La Severino non si tocca nella sua impostazione, ma non mi torna che si possa essere sospesi dopo una condanna in primo grado", ha detto a Ballarò. Chiarendo che questo “non riguarda Berlusconi”. Nessuna modifica per ora a favore del leader azzurro. Per ora.

Repubblica 6.11.14
Se il Patto del Nazareno si trasforma in una palude
Berlusconi non sa che pesci prendere e Renzi può minacciare di cambiare alleato. Ma l’M5S resta un’incognita
di Stefano Folli


SEIL famoso “patto del Nazareno” esiste davvero, questo è il momento della verità. L’accordo o la rottura sulla legge elettorale investe una questione politica di fondo che riguarda il futuro di Renzi, la prospettiva della legislatura e anche il destino di un centrodestra berlusconiano oggi privo di baricentro.
Ovvio che l’alternativa non è solo fra intesa e spaccatura. C’è una terza ipotesi, la peggiore ma forse la più probabile: che si resti a metà strada, soprattutto perché Berlusconi non è in grado di decidere in fretta, come vorrebbe il premier, sul pacchetto che gli è stato presentato ieri. Vale a dire premio alla lista e non alla coalizione vincitrice, circa 200 parlamentari nominati dai vertici dei partiti, ballottaggio sotto il 40 per cento, soglia minima di accesso fra il 4 e il 5 per cento (da stabilire), plausibile reintroduzione delle preferenze. Se il patto fosse quell’architettura stabile e solida che molti credono, Forza Italia avrebbe già detto “sì” ovvero avrebbe trattato un compromesso a viso aperto. Viceversa il colloquio di ieri non ha sciolto alcun nodo e forse ne ha creati altri. La riforma non ha fatto passi avanti. E il rischio della palude parlamentare appare tutt’altro che scongiurato.
Renzi preme, cerca di mettere l’interlocutore con le spalle al muro. Ma Berlusconi, nella sostanza, non sa che pesci prendere. Da un lato è tentato di onorare il patto e di accettare il pacchetto renziano. Dall’altro non è sicuro di tenere insieme quel che resta di Forza Italia e dimostra una volta di più di essere privo oggi di un’idea strategica, non sapendo bene cosa fare del centrodestra, stretto fra l’arrembaggio di un Salvini e il treno ormai perduto del partito moderato. A questo punto il richiamo al Nazareno serve a evocare una cornice, un contenitore che tuttavia va riempito di scelte concrete. Proprio quelle che mancano, come dimostra la paralisi sulla legge elettorale.
La verità è che anche Renzi è arrivato all’incontro di ieri in condizioni meno brillanti di qualche mese fa. Le difficoltà economiche e con l’Europa, nonché le incertezze a medio termine hanno consigliato di riprendere in mano il testo della riforma che giaceva da mesi in qualche cassetto. Corretto con il premio da assegnare al singolo partito vincitore, quel testo è stato rimesso sul tavolo con tutta l’urgenza del caso. Ed è fin troppo chiaro che, una volta approvata la legge, il presidente del Consiglio avrà in mano un’arma letale da usare come deterrente nelle situazioni di crisi. Non è detto che lo sbocco inevitabile sarebbero le elezioni a breve, ma è sicuro che il premier sarebbe più forte di oggi, avendo una pistola carica infilata nella cintura.
L’operazione ha una logica imposta dalle circostanze, ma Renzi avrebbe bisogno di un partner altrettanto determinato a giocare le sue carte. Invece ha di fronte Berlusconi, un leader stanco e distratto che è solo lontano parente dell’uomo che ha occupato la scena politica per anni. Di qui dubbi e ambiguità destinati a rovesciarsi in Parlamento e magari a saldarsi con altri scontenti, a cominciare dal Pd. Ecco perché le vecchie intese attendono di essere messe alla prova e misurate. S’intende che Renzi è in grado di esercitare una pressione di non poco conto sul suo semialleato. Ma solo se minaccia di cambiare spartito e di aprire un dialogo con un diverso interlocutore, ossia i Cinque Stelle. Il problema è che non si sa quanto sia praticabile questa strada.
Grillo può avere interesse ad attirare il premier in campo aperto, ma solo per colpirlo meglio. E il precedente di Bersani non incoraggia il tentativo. Nonostante tutto, Renzi è ancora spinto a cercare un’intesa con Berlusconi. Ma il patto si presenta alquanto sfilacciato, proprio quando dovrebbe costituire — secondo i contraenti — il motore della legislatura.

Il Sole 6.11.14
Il nodo di elettorati sempre più simili
di Lina Palmerini


La trattativa sulla legge elettorale tra Renzi e Berlusconi è solo il primo tempo. Il secondo sarà una competizione elettorale giocata su una platea di voti – categorie sociali ed economiche – che si va sempre più sovrapponendo. Un dato nuovo che condiziona tempi e regole della trattativa.
Sono elettorati ormai simili quelli del Pd e del centro-destra, raccontano le ultime stime di Itanes. È dagli imprenditori e – soprattutto – da artigiani e commercianti che arriva l'exploit per il Pd renziano. Un salto oltre quel confine di anti-comunismo e anti-berlusconismo che ha portato in una terra nuova blocchi sociali sulla base di un'aspettativa tutta da verificare. Ma che ha regalato al Pd un bottino di voti dalla piccola e piccolissima impresa: dal 10% al 60% circa. Un passaggio di confine netto, attraversato in un solo anno – dalle elezioni 2013 alle europee 2014 – anche da imprenditori e liberi professionisti aumentati di circa il 25%: da 20% a poco meno del 50 per cento. Stime messe a fuoco da uno studio di Marco Maraffi di Itanes – anticipate dal Sole del 7 ottobre scorso – che definisce con i numeri i nuovi contorni socio-economici di un elettorato prima vicino al centro-destra.
Percentuali che proiettano sulla scena dei prossimi mesi una competizione nuova tra i due avversari che si giocherà non più da fronti e territori separati ma su uno stesso campo di battaglia. Ed è anche questo un fattore decisivo nella trattativa elettorale tra Renzi e Berlusconi: prima di un accordo finale che apre all'opzione del voto anticipato servirà almeno abbozzare la nuova versione di Forza Italia o di quello che sarà il centro-destra.
La contro-prova di questa inedita competizione in territorio moderato si ritrova anche nelle elaborazioni dell'Istituto Cattaneo che analizzò il voto delle europee di maggio sotto il profilo delle aree geografiche. E anche questi numeri confermano l'incrocio degli elettorati: il Nord-Ovest ha portato a Renzi +35,6%, il Nord-Est +30,5%. Dalla sponda opposta, il centro-destra di Forza Italia (con Ncd) perde il 21% a Nord-Ovest e il 28% a Nord Est. In sostanza le zone a più forte vocazione imprenditoriale finora fedeli al centro-destra hanno ritirato i consensi e potrebbero diventare potenziali elettori Pd.
Oggi il premier sarà ancora in una fabbrica del Nord, all'inaugurazione del campus di Alcatel-Lucent a Vimercate dove sono attese nuove contestazioni dei sindacati. E, la sera, a Milano, sarà a cena con i finanziatori-imprenditori. Appuntamenti che non sono più scorribande in terra straniera ma hanno cadenze regolari nell'agenda di Renzi. Un'area nuova viene presidiata ma con un margine di rischio importante: la conquista di questi voti non è affatto definitiva però segna comunque un non-ritorno.
Dopo la scelta sull'articolo 18 e lo strappo con la Cgil, dopo l'annuncio di riduzione di tasse per le imprese, la linea è segnata e il premier non può più tornare indietro al messaggio tradizionale del Pd che ora appartiene alla minoranza. Può solo andare avanti cercando di consolidare promesse e consensi. Promesse che assomigliano a quella berlusconiana del "meno tasse per tutti" o della riforma del lavoro. Su questo terreno ritroverà – o dovrebbe ritrovare – un centro-destra ricostruito. Che al momento non ha un messaggio convincente per i ceti produttivi e per il Nord se non il tifo per il fallimento delle ricette del Governo e, quindi, di una crisi economica duratura. Ma è un gioco di rimessa, non quello di un vero competitore. E allora meglio provare a ritardare un accordo che apre le porte a elezioni anticipate.

La Stampa 6.11.14
Berlusconi
Un no motivato dall’apertura dei grillini ai Democratici
di Marcello Sorgi


Più che al complicato dosaggio di premi alla lista e non alla coalizione, soglie di sbarramento, preferenze, capilista bloccati, e insomma tutto ciò di cui hanno discusso per più di due ore a Palazzo Chigi Renzi con la delegazione di Forza Italia composta da Berlusconi, Letta e da un Denis Verdini pienamente riabilitato, malgrado i guai giudiziari piovutigli addosso per l’inchiesta sulla P3, le sorti della legge elettorale, e del «patto del Nazareno» che ne è alla base, sono legate all’inizio di disgelo tra Pd e Movimento 5 stelle di cui ieri si sono cominciati a vedere i primi effetti.
In altre parole: Berlusconi, deludendo Matteo, come lo chiama confidenzialmente, ieri ha detto un no tondo tondo all’ipotesi di modificare e approvare rapidamente il nuovo Italicum, perché teme che, una volta incassato il sistema elettorale, Renzi corra diritto a elezioni anticipate, in condizioni a lui molto favorevoli. Il premier ovviamente nega che questo sia il suo piano, ma in politica spesso, anche a torto, quel che sembra è, e sono in tanti ad essere convinti che il vero obiettivo di Matteo siano le urne.
Si tratterebbe di un percorso in salita, con l’ostacolo enorme della contrarietà del Capo dello Stato e l’incognita delle eventuali dimissioni di Napolitano, con la conseguenza di dover procedere alla scelta di un altro Presidente della Repubblica in un Parlamento che ha già dimostrato la propria incapacità di cimentarsi con scadenze così importanti, come sta accadendo da mesi con la mancata elezione di due giudici costituzionali.
Qui però si innesta la novità che potrebbe portare a un imprevedibile capovolgimento della situazione: cioè il sì che i grillini a sorpresa ieri hanno detto alla candidata del Pd alla Consulta, dopo una consultazione trasparente tra i capigruppo. Va da sé che se Forza Italia fosse in grado di confluire su una sola candidatura, dopo averne bruciate quattro, M5S direbbe di sì o di no anche a Berlusconi. E se l’ex Cavaliere riuscisse a portare i suoi su un tecnico o una tecnica «di alto profilo», come si dice in questi casi, Grillo sarebbe disposto a chiudere anche con il centrodestra.
Un sì dopo l’altro, dopo tanti no, viene da chiedersi se i 5 stelle sarebbero disposti a discutere anche di legge elettorale ed eventualmente, più avanti, di Presidente della Repubblica. Chissà. Mentre aprivano sulla Consulta, i grillini la buttavano in caciara sul decreto sblocca-Italia e celebravano un funerale carnevalesco dell’Italia davanti al Parlamento. E comunque ce n’è abbastanza per convincere Berlusconi a passare, dal no a Renzi, al ni e forse anche al sì.

Il Sole 6.11.14
Il M5S apre al Pd


Il Movimento 5 stelle ieri ha detto sì al nome di Silvana Sciarra, candidata del Pd alla Consulta, ma l'ultima parola arriverà oggi dal web: i grillini voteranno fino alle 12, giusto in tempo per la nuova seduta del Parlamento per l'elezione dei due giudici costituzionali e del membro laico del Csm prevista alle 13. Sul voto – nonostante il via libera alla candidata del Pd, con la contestuale elezione al Palazzo dei Marescialli di Alessio Zaccaria indicato dai pentastellati – regna però ancora l'incertezza. A tenere bloccata la situazione è l'impasse all'interno di Forza Italia. La candidatura di Marzia Ferraioli continuerebbe infatti a trovare appoggi, ma anche ostacoli oltre al veto dei 5 Stelle per la sua candidatura alle scorse elezioni europee. Il confronto continuerà fino a questa mattina per evitare che si arrivi alla ventunesima fumata nera.

Repubblica 6.11.14
Boccia(PD)
“Con Verdini a quel tavolo la trasparenza è compromessa”
intervista di Goffredo de Marchis


ROMA Onorevole Boccia, c’era anche Verdini, rinviato a giudizio per la P3, al pranzo Renzi-Berlusconi sulla legge elettorale. Era meglio lasciarlo fuori?
«Io sono favorevole agli accordi politici. A quelli fatti alla luce del sole, tra leader. Oggi i leader della politica italiana sono quattro: Renzi, Berlusconi, Alfano e Grillo ».
Verdini no.
«Quando sugli accordi mettono le mani persone che non rappresentano gli elettori ma interessi diversi, che puntano solo al risultato sostenendo tutto e il contrario di tutto, il metodo è meno trasparente e meno accettabile».
Il via libera del premier alle preferenze è una buona notizia?
«A una condizione: che gli eletti con le preferenze siano abbondantemente sopra l’80 per cento e i capolista bloccati una quota sparuta. E per il Pd è fondamentale stabilire un criterio per la parità di genere ».
L’accelerazione sull’Italicum secondo lei significa voto anticipato. Conferma?
«Non sono ipocrita e confermo. Si sente dire in certi ambienti che Renzi ha bisogno di una pistola carica per andare alle urne. Ma non è giusto trasformare la legislatura in un far west delle classi dirigenti. Per smentire questa tentazione, basta la trasparenza. Si sgombri il campo dall’ipotesi che l’Italicum possa diventare valido anche per eleggere il Senato. Così sarà chiaro che prima si fanno legge elettorale e riforma costituzionale e poi si pensa al voto».
Se si rompe con Berlusconi è possibile riaprire il dialogo con i 5 stelle?
«Sarebbe un ritorno ai colloqui Bersani-Grillo del febbraio 2013, una specie di gioco dell’oca».
Con lo sbarramento al 5% tramonta definitivamente l’alleanza Pd-Sel?
«Il premio di maggioranza garantisce la governabilità e il “diritto di tribuna” va assicurato. Io comunque continuo a preferire un’alleanza con i partiti di centrosinistra e non con quelli di centrodestra. Oggi non sembra più così scontato».

La Stampa 6.11.14
D’Alimonte: “Le modifiche convengono solo al Pd. Ncd rischia di sparire”
Il politologo: con le nuove soglie governabilità certa. E si creerebbe una forte spinta verso il bipartitismo
intervista di Carlo Bertini


«Sarebbe un’ottima cosa se il partito vincente avesse il 55% dei seggi, perché ciò consentirebbe di governare con una trentina di voti di scarto, una soglia di sicurezza fondamentale per la stabilità».
Roberto D’Alimonte, politologo della Luiss, mette l’accento sul punto per lui fondamentale - la governabilità -, ma fa notare anche un altro elemento decisivo. E cioè che «a Berlusconi in realtà non conviene il premio alla lista».
Perché professore?
«Perché gli creerebbe solo un mucchio di problemi e il rischio di finire terzo in una contesa elettorale».
E dunque?
«E dunque gli converrebbe il premio di coalizione per poter aggregare le altre forze, grazie anche al meccanismo degli sconti sulle soglie per avere seggi. Chi si aggrega ce l’ha dimezzata, Verdini l’ha pensata bene».
Fa bene Berlusconi a prendere tempo, visti i rischi che correrebbe nel dare una pistola carica a Renzi?
«No, anche con l’Italicum approvato la pistola non sarebbe carica, perché funzionerebbe solo per la Camera. E quindi fin che non sarà approvata la riforma costituzionale che abolisce il Senato elettivo, sarebbe solo una pistola mezza carica».
Lo schema di legge che si va delineando, premio alla lista del 40% e soglia unica al 5 per tutti, a chi conviene oltre a Renzi?
«Solo a lui: in questo momento abbiamo un sistema con un partito intorno al 40% e il secondo con più o meno la metà dei voti in base ai sondaggi, cioè i 5 Stelle. E poi Forza Italia valutata al 15-16%. E quindi ne beneficerebbe di sicuro solo il Pd. Anche con la soglia al 40%, Renzi non andrebbe al ballottaggio sulla base dei voti presi alle Europee».
Una legge con uno schema bipartitico dunque può essere un abito fuori misura per un sistema tripolare come il nostro?
«In verità no e spiego perché. La spinta bipartitica ci sarebbe comunque quando, dopo ripetute elezioni, i cittadini concentreranno i loro voti sui due partiti più competitivi. E poi il ballottaggio rende ancora più evidente il potere che si dà agli elettori di scegliere chi governerà il Paese».
Se il patto del Nazareno riveduto e corretto si chiudesse con un accordo sul premio alla lista, Alfano cosa potrebbe fare?
«O ottiene una soglia del 3%, che molto difficilmente gli verrà data, oppure potrebbe negoziare col Pd o con Forza Italia dei posti nel listone unico, ma in ogni caso scomparirebbe quello che oggi si chiama Ncd. Alfano in realtà vuole il premio alla lista perché non vuole essere costretto a tornare in coalizione con Berlusconi. Ma se non ottiene la soglia bassa per lui il rischio è di scomparire».
Berlusconi e Renzi hanno poi il problema delle preferenze, chieste a gran voce in entrambi i loro partiti. Come superarlo?
«L’orientamento è di inventarsi una formula simile alla legge Toscana con una quota degli eletti con le preferenze e un’altra in un listino bloccato. Si parla di 70-30. Credo che i critici delle liste bloccate potrebbero esser moderatamente soddisfatti. Sarebbe un buon compromesso».

Il Sole 6.11.14
Il bipartitismo sfida pericolosa per l’ex premier
Il premio alla lista resta solo un'ipotesi
Roberto D'Alimonte


Non ci sono ancora certezze sulle modifiche dell'Italicum, anche se alcuni tasselli si vanno sistemando. Questo è il senso dell'ennesimo incontro di ieri tra Renzi e Berlusconi. Il testo approvato alla Camera a marzo verrà cambiato. Non è una grossa novità.
Si era capito da un pezzo che c'erano aspetti critici che dovevano essere rivisti. Le soglie, per esempio. Una soglia dell'8% per avere seggi è oggettivamente troppo elevata per i partiti che vogliono presentarsi da soli. In Europa non esiste una soglia di sbarramento legale così alta. Questa soglia verrà abbassata. Ma il punto non è tanto questo. Nel testo approvato alla Camera le soglie sono due. Una per le liste singole e una per quelle che scelgono di coalizzarsi. Quest'ultima è fissata al 4,5 per cento. Dall'8% al 4,5% fa una bella differenza in termini di possibilità di ottenere seggi. Lo sconto è il meccanismo con cui si incentivano i partiti più piccoli a allearsi con quelli più grandi. Per Forza Italia è sempre stato un elemento cruciale dell'Italicum perché dovrebbe consentire a Berlusconi di giocare di nuovo un ruolo di federatore dei vari pezzi del centrodestra. Con lo sconto il Cavaliere può sperare di rimettere insieme un polo o una casa, come ai bei tempi.
Ma lo sconto ha senso se il premio di maggioranza previsto dall'Italicum può andare anche alle coalizioni di partiti e non solo alle liste singole. E invece qui sta la vera novità. Renzi vuole un Italicum senza coalizioni. Per questo il premio dovrebbe andare solo alle liste. Quindi, sparite le coalizioni, non c'è più bisogno della doppia soglia. Una soglia unica basta. Quale? Non si sa. Forse il 5 per cento. Soglia tedesca. Quella che in Germania è costata la rappresentanza ai Liberali e al nuovo partito anti-euro. Troppo alta per i piccoli partiti. Magari non per la Lega che oggi sembra avere il vento in poppa, ma certamente per il Ncd, Fdi e Sel.
La combinazione di soglia al 5% e premio alla lista rappresenta un incentivo molto forte verso il bipartitismo. Si capisce l'interesse di Renzi a procedere in questa direzione. È il capo di un partito che viene dato al 40% delle intenzioni di voto. Per vincere il premio direttamente, o per conquistare il passaggio al secondo turno, non ha bisogno di alleati. Ma perché Berlusconi dovrebbe accettare un meccanismo del genere che lo priva della possibilità di essere più competitivo? È una domanda che abbiamo già sollevato su queste pagine. E non ha una risposta razionale. È vero che il Cavaliere ha maturato da molto tempo una profonda avversione ai partitini, ma in questo momento il suo partito è al 15% delle intenzioni di voto. Può sperare di risalire la china, ma non al punto di poter sfidare credibilmente il Pd di Renzi senza alleati. Forse qualcuno dentro Forza Italia glielo sta facendo notare.
Questo spiegherebbe l'assenza di informazioni certe sull'esito dell'incontro di ieri. La decisione sul premio alla lista potrebbe essere ancora in alto mare.
Su altre questioni invece l'accordo sembra che sia stato raggiunto. Tra queste l'innalzamento della soglia del 37% per il ballottaggio. Nel testo attuale se un partito o una coalizione arriva a questa percentuale ottiene il premio di maggioranza tout court e il ballottaggio salta. È giusto alzare questa soglia al 40 per cento. Ed è ancora più giusto che chi vince al ballottaggio ottenga non il 52% dei seggi, come è previsto ora, ma almeno il 54 per cento. Pare che anche su questa modifica si sia trovato un accordo. Il 52% dei seggi vuol dire 321 deputati. Sono 5 più della maggioranza. Un margine troppo risicato per assicurare governabilità. Il 54% fa 340 seggi. Non sono una garanzia assoluta di stabilità, data la cultura politica dei nostri parlamentari, ma è decisamente meglio di 321.
Resta il nodo delle liste bloccate. Ma anche su questo punto si avverte un mutamento di opinione sia dentro Forza Italia, che fino ad oggi le ha sempre difese, sia tra le fila di Renzi che le ha finora accettate pur di fare l'accordo con Berlusconi. La soluzione dei soli capilista bloccati, di cui si è parlato in passato, non va bene. Pare che i protagonisti se ne siano accorti.
L'ipotesi allo studio è un modello misto. Una certa percentuale dei candidati sarebbero eletti con le preferenze e una altra con lista bloccata. Bisognerà vedere la soluzione tecnica scelta prima di poter esprimere una opinione su come funzionerà il sistema. Staremo a vedere. Per adesso speriamo che il timore di possibili elezioni anticipate subito dopo l'approvazione dell'Italicum non serva da alibi per rinviare tutto alle calende greche.

Corriere 6.11.14
Un compromesso tra governo e FI forse non è così lontano
di Massimo Franco


Matteo Renzi voleva un’accelerazione. L’ha ottenuta, sebbene manchi ancora un «sì» da Forza Italia. Il pranzo di ieri a Palazzo Chigi con Silvio Berlusconi rappresenta un’ipoteca sulla riforma del sistema elettorale: entro la settimana prossima sarà chiaro se l’accordo è a portata di mano o no. In quel caso, a dicembre potrebbe essere votata al Senato. E si sbloccherebbe uno dei punti più controversi della legislatura. Si tratta di un successo in incubazione: al punto da far dire che l’incontro non è andato bene. In realtà, il risultato è interlocutorio ma non negativo. E l’apertura bilancia le frizioni tutt’altro che smaltite tra Palazzo Chigi e la nuova Commissione europea di Jean-Claude Juncker.
Ci sono dettagli non piccoli da definire, anche perché il capo di FI vorrebbe poter nominare di fatto almeno un centinaio di deputati, con liste bloccate. La soluzione che starebbe prendendo corpo è un premio in seggi al partito in grado di superare il 40 per cento dei voti; e il 5 per cento come soglia minima per entrare in Parlamento. Tornerebbero le preferenze, ma ogni partito potrebbe formare un «listino» di circa un terzo dei candidati, designati dal segretario. «È un’ipotesi da valutare insieme con gli alleati» ha confermato il ministro Maria Elena Boschi. Ma deve avere il placet berlusconiano, perché l’interlocutore del governo rimane FI. La prospettiva di un compromesso si è affacciata dopo due ore di colloquio, presenti anche Gianni Letta e Denis Verdini accanto a Berlusconi.
È seguita a una riunione di prima mattina tra Renzi e i vertici parlamentari e politici del partito. Il problema non è tanto il premio a una lista ma la difficoltà di spiegare al Paese l’eventuale ritorno a un Parlamento di «nominati» e non di «eletti». Da questo punto di vista, compensare l’introduzione del voto di preferenza con una lista plasmata dai leader dovrebbe permettere di superare l’ ostacolo posto dall’ex premier; e altri, come il rispetto della sentenza della Corte costituzionale che poco meno di un anno fa bocciò il cosiddetto Porcellum. Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha ribadito anche nel luglio scorso che bisogna arrivare ad una riforma tale da non sbilanciare l’equilibrio tra istituzioni; e concordata quanto più possibile tra maggioranza e opposizioni. Il dialogo di ieri, che ribadisce la tenuta del patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi, va in questo senso. E, se confermato, potrebbe produrre effetti a catena. Tra gli altri, la possibilità per Napolitano di lasciare il Quirinale dopo la fine del semestre di presidenza italiana dell’Europa. La sua aspirazione è di ritenere conclusa la sua missione quando l’Italia avrà incardinato almeno alcune delle riforme istituzionali sulle quali il capo dello Stato insiste da anni.
D’altronde, la sua elezione dell’anno scorso a un secondo settennato è stata la conseguenza di circostanze eccezionali; e l’ha accettata con un obiettivo dichiarato. Ma le sue decisioni dipenderanno, appunto, da una serie di fattori. La minoranza del Pd e il Ncd alleato di Renzi temono un voto anticipato che li ridimensionerebbe. E sospettano che una riforma approvata in tempi brevi finisca per accelerarlo. Renzi, però, lo nega. Ammette che gli «converrebbe portare a casa il consenso fortissimo delle europee per individuare un gruppo dirigente più vicino e più fedele». Ma aggiunge che non ha senso «cambiare verso a 300 deputati, ma cambiare il Paese». Eppure, il premier sa anche che le tensioni con l’Europa e l’economia stagnante presto potrebbero rendere tutto più difficile.

Il Sole 6.11.14
Giustizia, la riforma non decolla
Cinque dei sei provvedimenti della «rivoluzione» del governo non sono neanche arrivati in Parlamento. «Scomparsa» la prescrizione
Del pacchetto varato ad agosto solo l'arretrato civile diventa legge
di Donatella Stasio


ROMA In principio furono le «12 linee guida», tante quante le fette della torta che da fine giugno campeggia sul sito del ministero della Giustizia sotto il titolo «Riforma». Poi divenne un pacchetto di 7 provvedimenti - un decreto legge e 6 ddl - per «rivoluzionare» il sistema. Riforme già belle e fatte, a sentire il governo in questi mesi: «Abbiamo approvato il falso in bilancio!», «Abbiamo riformato la giustizia civile!», «Abbiamo introdotto l'autoriciclaggio!» e via dicendo. Oggi, di quel pacchetto, soltanto il decreto sull'arretrato civile diventa legge (con fiducia), mentre gli altri 6 ddl restano al palo. Di più: ben 5 sono ancora invisibili. Altro che operativi. Fatta eccezione per la responsabilità civile dei magistrati e per la norma sull'autoriciclaggio - estrapolata dal ddl sulla criminalità economica e diventata un emendamento al ddl sul rientro dei capitali dall'estero - i testi non sono neppure arrivati in Parlamento. E in alcuni casi, come la delega sul processo penale contenente l'attesa riforma della prescrizione, vengono dati addirittura per dispersi.
Eppure sono trascorsi oltre due mesi da quando, il 29 agosto, il Consiglio dei ministri ha varato il pacchetto, peraltro con due mesi di ritardo rispetto al cronoprogramma di Matteo Renzi, secondo cui il mese della riforma della giustizia avrebbe dovuto essere giugno. A quell'appuntamento, infatti, il governo arrivò a mani vuote ma con le slide sugli ormai famosi 12 punti, spiegando però che voleva «aprire» la riforma alla consultazione popolare, tant'è che le «linee guida» furono pubblicate online sui siti di palazzo Chigi e di via Arenula. Ma tant'è. Il 29 agosto finalmente il varo: un decreto legge per dimezzare in un anno l'arretrato civile, e 6 ddl, appunto, di cui 4 di delega al governo (processo civile e penale; estradizioni, magistratura onoraria) e due ordinari (responsabilità civile dei giudici e criminalità economica. In più di un caso l'approvazione avvenne «salvo intese» e questo spiega, in parte, il ritardo e la continua riscrittura dei testi. Ad oggi ne mancano all'appello 5 su 6. Un ritardo inspiegabile, che ha finito per frenare il lavoro delle Camere sugli stessi temi. Così è avvenuto per la prescrizione: la commissione Giustizia di Montecitorio aveva cominciato a lavorare alla riforma ben prima dell'estate ma è stata bloccata (e poi rallentata), prima dagli annunci del governo e, poi, dalla notizia dell'approvazione di un testo governativo che, però, oggi sembra desaparecido. Idem per la riforma dell'anticorruzione il cui esame era cominciato al Senato ma è stato bloccato.
Qual è, dunque, lo stato dell'arte? Il ddl sulla responsabilità civile è da poco giunto al Senato ed è stato trasformato in emendamento al testo già in esame avanzato. L'Italia è sotto procedura di infrazione europea, per cui ora il tempo stringe ma, visto lo scontro con l'opposizione (e nella maggioranza), non si esclude il ricorso a un decreto legge.
Il ddl sulla «criminalità economica», più volte scritto e riscritto, è arrivato al Quirinale solo lunedì sera e contiene - oltre a falso in bilancio e misure di prevenzione contro la criminalità mafiosa - anche la norma sull'autoriciclaggio, ma nel testo precedente a quello che nel frattempo governo e maggioranza hanno presentato come emendamento al ddl sul rientro dei capitali dall'estero. Nel provvedimento, invece, non c'è la modifica (data per invece approvata al Cdm di agosto) della concussione, con l'inserimento dell'incaricato di pubblico servizio tra gli autori del reato.
È già passato al vaglio del Colle il ddl delega su rogatorie e estradizioni (riforma del libro XI Cpp), che però è parcheggiato a Palazzo Chigi per un problema di copertura finanziaria, mentre nulla si sa - benché se ne sia scritto moltissimo - sull'ambizioso ddl delega per la riforma complessiva del processo civile né di quello - sempre una delega - sulla riforma della magistratura onoraria. Ma se in questi casi sono circolate varie bozze, nulla si è visto sulla delega sul processo penale, che dovrebbe contenere la pluriannunciata riforma della prescrizione, passaggio essenziale per rendere più efficace la lotta giudiziaria al malaffare, e su cui siamo stati messi in mora da anni sia dall'Ocse che dall'Europa.
A conti fatti, rispetto alle scadenze fissate, la riforma del governo è in ritardo di quattro mesi (se basteranno). E finora ha prodotto solo il risultato di rallentare i lavori parlamentari sulle stesse materie oggetto della riforma.

il Fatto 6.11.14
Tocca a Nardella
I mille metri di Firenze e gli amici di Matteo
di Davide Vecchi


A Peretola, alle porte di Firenze, c’è un pezzo di terra di appena mille metri che sta creando seri problemi a Matteo Renzi perché a contenderselo sono tre sostenitori e amici che per il premier è fondamentale tenere dalla propria parte: il fidato Marco Carrai, fundraiser delle fondazioni, poi i fratelli Della Valle, con quel Diego che a inizio ottobre apparve sugli schermi televisivi a criticare l'operato dell’ex sindaco di Firenze e dicendosi pronto a sfidarlo politicamente, infine, Egiziano Maestrelli, l’amico che lo ha ospitato nel suo albergo a Forte dei Marmi. I mille metri ora fanno parte dell’area del Mercafir, il mercato di Firenze. Il 27 ottobre Palazzo Vecchio nel corso della conferenza dei servizi ha sciolto il nodo del nuovo stadio cui tengono molto i Della Valle e ha previsto che deve sorgere proprio lì, dove c’è Mercafir. Ma l’area confina con l'aeroporto gestito dalla Adf, presieduta da Carrai, che deve costruire la seconda pista, fra l’altro già finanziata dal governo Renzi con 50 milioni di euro. L’Enac però sta valutando se approvare il tutto ma tre giorni fa ha svolto dei rilievi: pista e stadio sarebbero troppo vicini. È stato poi dato il via libera preliminare alla realizzazione di una pista lunga 2400 metri e non i duemila inizialmente previsti. Così facendo lo stadio sarebbe a 60 metri dalla pista. Il sindaco Dario Nardella non ne parla. E non risponde neanche ai comitati di quartiere sorti per protestare, come il comitato per la salute della Piana.
L’ASSESSORE alle Politiche del territorio e patrimonio Elisabetta Meucci ha così ribattuto: “Al momento della presentazione dello studio di fattibilità del nuovo stadio l’unico documento approvato era la variante al Pit della Regione, che prevede una pista di 2000 metri ma senza indicarne il posizionamento”. Ora è stato deciso: parallelo all’autostrada e al confine con quello che oggi è Mercafir. I tecnici del Comune stanno valutando, se ce ne fosse bisogno, come intervenire sull’altro versante per ridurre eventualmente l’area attorno allo stadio coinvolta dal progetto del nuovo centro sportivo: qui è infatti previsto un imponente parcheggio e la costruzione di alberghi e altre strutture, sempre targate Della Valle. Il rischio è dunque dover scontentare uno tra il presidente della Fiorentina e l'amico Carrai. E la pista dovrebbe avere la priorità, considerato anche lo stanziamento già deliberato dall’esecutivo Renzi. Ma anche il nuovo stadio è decisamente sentito. E atteso da ormai quasi dieci anni. E fu proprio l’allora sindaco a indicarne la collocazione impegnando il Comune a trasferire parte del mercato. Oltre a Carrai e Della Valle un altro problema è rappresentato da Maestrelli. Il grossista proprietario della Fruttival, infatti, nel 2007 ha ottenuto il diritto di superficie per 40 anni e ha così fatto un forte investimento costruendo in questa area capannoni e altre strutture. È disposto ad andarsene se, ovviamente, qualcuno gli risarcisce i soldi persi. Della Valle ha già fatto sapere che non è disposto a mettere un euro, quindi ora tocca al Comune valutare come intervenire. “Tenendo tutti all’oscuro di quanto sta accadendo”, denuncia il consigliere di Sel Tommaso Grassi. “Abbiamo chiesto in ogni modo di poter avere accesso ai progetti, di essere quanto meno informati: del resto noi siamo in consiglio comunale, sarebbe a dir poco scontato non dico aprire un dibattito o un confronto, per carità, ma almeno aprire due cassetti e mostrarci su quale idea stanno lavorando”. Ma la scelta è dura. Carrai e Maestrelli sono amici. Della Valle, un possibile avversario politico.

Corriere 6.11.14
Ecco chi finanzierà il partito, La sinistra: a chi ci affidate
Il Pd punta su 2 cene da mille euro a persona per finanziare il partito
Raccolti già un milione di euro. Tanti i nomi celebri che si sono già prenotati. Tra gli sponsor Nestlè e Cantine Ferrari
di Monica Guerzoni

qui

Corriere 6.11.14
Nell’eredità dei nipoti della Dc è sparito il dono della mediazione
di Corrado Stajano


Povero Luigi Pintor, sarà deluso anche nell’aldilà. Il 28 giugno 1983 quel gran giornalista, scrittore senza modelli, scrisse sul manifesto di cui era stato uno dei fondatori, un famoso articolo: «Non moriremo democristiani». Commentava così i risultati delle elezioni politiche di quell’anno: la Dc aveva perso il 6 per cento di voti, quasi due milioni e mezzo di elettori, il Pci confermava i risultati delle elezioni del 1979 e si trovava a ridosso del partito di De Mita. «Abbiamo vinto le elezioni, noi che da sempre abbiamo indicato nella Dc l’avversario da battere» scrisse allora Pintor nel suo articolo di fondo.
Trentun anni dopo quelle fallite certezze o speranze di Pintor, la Dc sembra di nuovo in auge, dopo le lacerazioni, le scissioni, i traumi venuti dopo il 1992 — Mani pulite — dopo il ventennio berlusconiano e gli ultimi due anni politicamente informi.
Se si dà, infatti, una scorsa al curriculum del gruppo dirigente del Pd, ora il partito di maggioranza di Renzi (qualcuno lo chiama già il Pdr) nato dalla fusione del Pds e della cattolica Margherita, l’operazione di verifica è più rapida se si fa la conta, più che dei margheritini, di quanti sono gli eredi del vecchio Pci, la sinistra. Bastano quattro dita di una mano: Roberta Pinotti, Federica Mogherini, Andrea Orlando, Maurizio Martina, non certo dei rossi sovversivi. Gli altri, gli eredi degli eredi del- lo Scudo crociato sono tutti bianchi, in gran quantità.
Renzi è molto attento, fin da quando era sindaco di Firenze, alla fedeltà personale, un valore supremo per lui. Non è un liberale di sinistra (come Mario Pannunzio, come Ernesto Rossi?), non conosce, sembra, i principi nodali dell’illuminismo riformatore, non è un socialdemocratico, in un Paese, tra l’altro unico in Europa, dove non esiste neppure quel partito. È nato e cresciuto dentro la dottrina cristiana di uno scout, e questo potrebbe essere anche un fatto positivo se avesse maggior rispetto per gli altri. Si è laureato con una tesi su Giorgio La Pira al quale dice di ispirarsi. Ma chi conobbe quel sant’uomo fatica assai a trovar qualche somiglianza ricordando l’umiltà, la generosità, l’amore per i deboli di quell’antico sindaco di Firenze. Si schierava con naturalezza dalla parte degli operai della Fonderia delle Cure e della Pignone, requisiva le ville per gli sfrattati, viveva da povero in convento. Non prometteva mai inanemente. Era un messaggero di pace e di giustizia sociale, ambasciatore indifeso e senza credenziali di qua e di là dai Muri negli anni più crudi della guerra fredda, vilipeso, dileggiato.
Trentun anni dopo anche chi non fu consonante con lo Scudo crociato e ricorda con orrore certi momenti della vita nazionale, il 1960 di Tambroni, il 1964 del tentato colpo di Stato del generale De Lorenzo avallato dal sommo Colle, il 1969, la strage di piazza Fontana e le stragi e i complotti venuti dopo, con governanti democristiani complici o muti, deve riconoscere che la Dc fu anche un grande partito. Non seminava soltanto chiacchiere dilettantesche, seppe dar vita con competenza al Piano casa e al Piano del lavoro (Fanfani), alla riforma agraria (Segni, Medici), alla Cassa del Mezzogiorno che nel suo primo periodo di vita operò e diede speranza al Sud oggi dimenticato, con i suoi poteri criminali e la sua disoccupazione alle stelle.
Ci furono nella Dc uomini di alto livello politico e culturale, da Pasquale Saraceno a Ezio Vanoni, a Tina Anselmi, Adone Zoli, Benigno Zaccagnini, Maria Eletta Martini, da Beniamino Andreatta, a Virginio Rognoni, a Filippo Pandolfi a Mino Martinazzoli ad altri. Seppe, anche in momenti difficili, tenere: adoperò la mediazione che ora sembra il diavolo ed è invece la misura della politica. Persino Moro cercò di usarla da prigioniero delle Br.
Oggi? Sembra che a contare sia la durezza, l’arroganza (spesso figlia della paura), il rifiuto del dialogo, il prendere o lasciare, l’ironia e gli insulti contro gli intellettuali, segno, sempre, di un paese malato e anche di una caduta culturale.
I sindacati sono nemici, sembra una perdita di tempo ascoltarli, mediare accordi, simbolo invece di ogni convivenza civile: è davvero preferibile beffeggiarli, anche se rappresentano i milioni di persone che scendono in piazza?
Il presidente del Consiglio denuncia complotti, disegni misteriosi ma, forse, il più misterioso è il famoso Patto del Nazareno con Berlusconi, indecente in una democrazia. Non è meglio dir le cose come stanno per cercar di superare, in quella condivisione tante volte auspicata dal presidente Napolitano, una crisi che seguita a dilaniare soprattutto chi meno ha ?

Repubblica 6.11.14
La Cgil calabrese “avverte” il premier, è scontro


ROMA  È polemica tra il Partito democratico e la Cgil Calabria. Ieri il sindacato ha annunciato la propria mobilitazione contro l’Assemblea nazionale dei dem in agenda per il 13 dicembre a Reggio con un comunicato ritenuto «minatorio» dal partito del premier Matteo Renzi. «Ci prepariamo ad accogliere — ha scritto nella nota la Cgil calabrese — l’Assemblea nazionale del Pd, e cioè di chi sta cancellando i diritti dei lavoratori. Sarà per loro una “giornata indimenticabile” che prepareremo con attenzione e cura». Segue «l’appello alle forze dell’ordine affinché non si ripetano episodi gravi come quelli successi a Roma contro i lavoratori di Terni».
Dura la risposta del Partito democratico, che in un comunicato firmato da Lorenzo Guerini e Matteo Orfini — rispettivamente vicesegretario e presidente dem — hanno stigmatizzato l’annuncio del sindacato: «Troviamo incomprensibili, se non preoccupanti, le parole espresse dalla Cgil calabrese che annuncia una “giornata indimenticabile” ed evocare un “appello alle forze dell’ordine” in occasione di un’Assemblea di una forza politica non è esattamente il modo opportuno di esprimere le proprie opinioni. Fermo restando il diritto di tutti di manifestare il proprio dissenso — prosegue il comunicato — chiediamo alla segretaria Camusso di valutare l’opportunità di prendere le distanze da toni che, oltre che eccessivi, possono apparire minacciosi o inviare messaggi pericolosi all’opinione pubblica». E ancora, i due dirigenti del Pd aggiungono: «Non si capisce la volontà di entrare in questioni che riguardano la campagna elettorale del Partito democratico a sostegno del suo candidato alla presidenza della Regione. Alla disinformata segreteria regionale della Cgil calabrese ricordiamo che, come già annunciato dalla segreteria regionale, Matteo Renzi chiuderà la campagna elettorale in Calabria il 21 novembre». Ieri sera il segretario Susanna Camusso non aveva preso posizione sulla polemica.

il Fatto 6.11.14
La nuova guerra tra poveri
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, leggendo e ascoltando i brandelli di notizie che non sono politiche e non sono di Renzi, noto un nuovo tipo di cronaca nera: la voglia di far male, pugni in faccia, olio bollente, spedizioni punitive di ignoti verso ignoti, vittime e aggressori quasi sempre giovani. È scoppiata la guerra tra poveri?
Luciano

L'INTUIZIONE ha un suo fondamento. Infatti la guerra tra poveri è cominciata fin dalla particolare strategia con cui Renzi e il suo governo promettono e poi cercano, e in parte trovano, i soldi, forzando altri poveri (comunque cittadini di livello sociale molto vicino alla cauta sopravvivenza) a versare ciò che serve per mantenere le promesse a chi sta peggio. In questo modo si è radicato uno stato d’animo, già diffuso in epoca berlusconiana, secondo cui il tuo vero rivale non è la persona che possiede troppo e ha (o trova) agevolazioni fiscali di tutti i tipi, ma uno come te che però, per una ragione o per l'altra (persino la vecchiaia non è una scusa) incassa qualche euro in più alla fine del mese. La vera “legge di Stabilità” che ancora non conosciamo, e che ci porterà qualche notizia attendibile fra poco, sembra tutta fondata su un giro reciproco di contributi. Prendono a te per dare a lui e così via. Per esempio Regioni e Comuni devono versare somme ingenti allo Stato (invece del contrario, che è tipico di ogni federalismo), e accade che persone che lavorano (o hanno lavorato a lungo) siano forzati a contribuire in mille nuovi modi, con l'espediente di vecchie e nuove tassazioni, in modo da sostenere altri in condizioni simili, ma scelti per diventare simbolo del nuovo modo di governare. Basterà accendere i riflettori su chi riceve, e spegnerli sui nuovi contribuenti, per creare l'impressione di una politica nuova e di una nuova equità. Il metodo si trasferisce rapidamente nella vita di tutti, fino al punto da indurre il giovane che non ha lavoro a considerare rivale e usurpatore chiunque, coetaneo o no, abbia invece un lavoro. E, tra coloro che hanno un lavoro o ricevono un sostegno (pensione) divampa l'antagonismo verso chi appare trattato meglio, persino se la differenza è modesta e dovuta. Bisogna scendere di molti gradini mentali e morali per raggiungere  – con questo argomento – le gang degli assalti gratuiti verso persone in cui si vuole provocare terrore, e su cui la gang cerca dominio, più che un vantaggio. Si tratta di rabbia. Una rabbia oscura e ottusa che però trova un modello nella politica che mette le promesse del governo a carico di cittadini già affaticati (“ciascuno deve fare la sua parte” e “dobbiamo restituire i soldi agli italiani”). E nella persuasione che chiunque altro sta meglio di me e anzi mi sta portando via ciò che mi spetta, uno stato d'animo reso facile dal pubblico disprezzo verso i sindacati. Far male fisicamente vuol dire, per alcuni, passare all'incasso. È un pensiero folle. Ma non il solo.

il Fatto 6.11.14
Cucchi, i Pm pronti a risentire l’agente che “accusa” l’Arma
di Silvia D’Onghia e Valeria Pacelli


LA GUARDIA CARCERARIA AL “FATTO”: ERA LIVIDO MA SUI CARABINIERI NON SI INDAGÒ GRASSO INCONTRA I FAMILIARI, CHE HANNO DENUNCIATO IL MEDICO DELL’ACCUSA

Potrebbe essere risentito in Procura a Roma Nicola Minichini uno degli agenti penitenziari assolti nel processo a Stefano Cucchi, il geometra 31enne arrestato nell’ottobre del 2009 a Roma e morto, una settimana dopo, all’ospedale Pertini. La sua testimonianza infatti potrebbe essere richiesta dai magistrati Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy, anche per approfondire le dichiarazioni rese dall’agente in un’intervista pubblicata ieri dal Fatto Quotidiano.
Sono passati cinque anni e due assoluzioni da quel 16 ottobre del 2009 quando nei sotterranei di piazzale Clodio c’era anche lui. “Alle 13.30 – come ha raccontato al Fatto – è arrivato Cucchi. Lo hanno accompagnato da noi i carabinieri dopo l’udienza di convalida”. Minichini a quel punto chiamò il medico Ferri il quale notò “un livido sullo zigomo. Gli chiese come mai e lui rispose che era caduto per le scale”. Quei segni sugli occhi l’agente penitenziario Minichini ha pensato che potessero “essere anche il risultato dell’eccessiva magrezza”. Ma la magrezza di solito non comporta “un quadro lesivo della colonna vertebrale, delle fratture a livello lombo-sacrale” come aveva rivelato la perizia del consulente di parte civile Vittorio Fineschi.
“IO NON HO VISTO il pestaggio – assicura Minichini – se c’è stato io non c’ero. Quello che so per certo è che da noi non è successo niente”. Vuole soprattutto essere lasciato in pace “per non passare il resto della vita additato come un mostro” aveva affermato ieri. Ma durante l’intervista c’è una frase che tuona più delle altre: “Sarebbe ora di allargare gli orizzonti. Non so perchè finora la Procura non ha avuto lo stesso accanimento nei suoi confronti dei carabinieri e avuto in consegna prima di noi”. Insomma bisogna indagare sull’Arma. È una testimonianza che la Procura non vuole ignorare. Il caso Cucchi quindi potrebbe riservare nuovi colpi di scena. E che ci sarà una nuova fase di inchiesta si era già capito ieri. La sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, ha depositato una denuncia in Procura contro Paolo Arbarello, già direttore dell’Istituto di medicina legale dell’università La Sapienza che eseguì la perizia sul corpo di Stefano. “Il professor Arbarello ha sottoposto ai pm prima e alla Corte poi delle non verità scientifiche su temi di comune e banale conoscenza e verificabilità, pur di minimizzare le lesioni di Stefano ed escludere qualsiasi legame di esse con la sua sofferenza e con la morte”, vieneriportato nell esposto.
“Con ciò – continua la denuncia – inducendo a ritenere che si stesse proprio realizzando quanto egli stesso aveva fatto intendere in televisione fin dal 9 novembre 2009: ossia che, da parte sua, si sarebbe cercato di dimostrare la colpa dei (soli) medici per la morte di Stefano, escludendo qualsiasi nesso di causa con le lesioni”. Secondo i familiari, a conferma delle loro parole, ci sarebbero una serie di contatti telefonici “quando i consulenti di parte degli agenti penitenziari ricevevano in qualche modo delle rassicurazioni sul fatto che sarebbe stata riconosciuta una morte naturale di Stefano indipendentemente dalle lesioni subite”.
ACCUSE PESANTI che il medico Paolo Arbarello ieri ha ieri definito “diffamatorie e calunniose” oltre che “offensive più che per me, per tutti i colleghi che hanno lavorato con me”. Poi ha spiegato. “Noi abbiamo dimostrato che c’erano una serie di lesioni vertebrali che il povero ragazzo aveva avuto precedentemente agli eventi. Abbiamo anche detto che se fossero state fatte diverse terapie da quelle che sono state poste in atto probabilmente le cose sarebbero andate diversamente”. Come ogni denuncia depositata, adesso verrà aperto un fascicolo assegnato ad un pm.
Intanto ieri Ilaria Cucchi, insieme ai genitori, ha incontrato a Palazzo Madama il presidente del Senato Pietro Grasso, che già nei giorni scorsi aveva lanciato un monito “Chi sa parli”. Incontro giudicato positivo dalla famiglia: “È stato un momento importantissimo – ha commentato Ilaria Cucchi – è stato un momento di svolta e finalmente arrivano segnali dall’alto. Speriamo che a tutto ciò che è stato fatto in questi cinque anni si possa porre rimedio. Sono segnali positivi e che ci danno forza ma noi non ci fermeremo fino alla fine”.

Repubblica 6.11.14
Martin Amis
“Traditi i sogni degli americani. Ora la sinistra dovrà riflettere”
La delusione dello scrittore “È andata al di là delle peggiori aspettative, ma è sbagliato demonizzare l’avversario
Adesso è urgente l’analisi dei tanti errori commessi
Il presidente vive sulla propria pelle il declino degli Usa, e lui non ha saputo reagire”
intervista di Antonio Monda


NEW YORK MARTIN Amis appartiene alla numerosa schiera dei delusi da Barack Obama, e oggi afferma che si è trattata di una sconfitta prevedibile e meritata. Anzi per usare un suo termine, di una terribile disfatta. «È andata al di là delle peggiori aspettative — racconta nella sua casa di Brooklyn — ed è un risultato sul quale il mondo liberal dovrebbe riflettere, cosa che mi sembra non stia avvenendo». Lo scrittore britannico, da sempre un attento e appassionato osservatore della vita e della politica americana, è molto spesso negli Stati Uniti.
Cosa intende?
«Che la prima reazione è stata quella di demonizzare l’avversario, parlare del risorgere delle forze reazionarie o di prendersela con l’elettorato, colpevole di non aver compreso quanto di buono è stato fatto in questi anni, come se si trattasse di un problema di comunicazione. L’analisi che invece mi aspetto è quella sui tanti errori commessi, specie in Medio Oriente, e sull’incertezza manifestata in tante occasioni che è finita per diventare debolezza. Anche gli osservatori stranieri non sono da meno: risorge l’anti-americanismo più greve e superficiale, che condanna come irrecuperabili le stesse persone che pochi anni fa hanno votato in maniera opposta o parla di un’America che si barrica dietro le proprie convinzioni. Insomma, la necessità di comprendere è sostituita dalla volontà di accusare e trovare un capro espiatorio».
Qual è la sua lettura su questa disfatta?
«Con l’eccezione della riforma sanitaria, azzoppata nella realizzazione e certamente migliorabile, Obama ha fatto molto meno di quanto ci si aspettava.
E in politica estera ha consegnato al mondo l’idea di una leadership debole o addirittura assente: ed è una cosa semplicemente inaccettabile per un cittadino americano.
Questa delusione è da mettere in parallelo con le aspettative enormi che lui stesso aveva creato, grazie anche alla sua magnifica oratoria. Il titolo di un suo libro era l’”Audacia della speranza”: abbiamo visto poca audacia e le speranze sono state disattese».
Anche i giornali liberal come il “New York Times” in questi ultimi tempi sono stati feroci: in alcuni editoriali si è parlato perfino di incompetenza.
«Non arriverei a questo, ma l’impressione costante è che Obama sia più un teorico che un leader. Non dimentichiamo che ha un background accademico: questo non è necessariamente un bene per chi deve comandare. Alla fine del primo mandato circolava la voce che fosse depresso, e non potesse prendere medicinali. Dava l’impressione che avesse compreso che il potere, in apparenza enorme, fosse in realtà molto limitato e soggetto ad una sequenza infinita di compromessi. E, soprattutto, di non avere il talento di gestirlo per ottenere il meglio. In questi ultimi tempi si e avuta l’impressione che avesse la consapevolezza che la navigazione della corazzata che guidava potesse essere spostata solo di qualche grado. E che reagisse a questa consapevolezza con sconforto e perfino con noia».
L’accusa ricorrente è quella di non essere un “comandante in capo”.
«Se si eccettua l’uccisione di Osama Bin Laden, l’impressione è proprio questa, aggravata dalla crisi mediorientale degli ultimi anni. La risposta alla minaccia rappresentata dallo Stato Islamico è debole e oscillante».
Dove ha fallito il presidente?
Il tentativo di sanare la ferita del razzismo ha sortito risultati molto modesti, così come quello delle incarcerazioni di massa di gente di colore. Anche sull’immigrazione i risultati sono scarsi. C’è tuttavia un dato generale, che prescinde la sua presidenza: Obama sta vivendo sulla sua pelle il declino dell’America: un fenomeno ancora nella fase iniziale, e che riguarderà soprattutto le prossime generazioni, ma tuttavia sembra senza via di ritorno. Il mio paese, l’Inghilterra, ha vissuto questo trauma con dignità, salvo momenti in cui ha creduto di essere ancora una grande potenza come nella crisi di Suez nel 1956: in America sarà tutto più traumatico, considerata la promessa di un paese che esprime energia e potenza».
Si può parlare anche di declino del progressismo americano?
«Io parlerei del declino della sinistra planetaria: le prove offerte dai leader progressisti sono deludenti ovunque, e viviamo in società sempre più plutocratiche. È il denaro che comanda, come mai in precedenza, «Oltre alla debolezza in politica estera, il ten- e le sinistre hanno accettato di stare al gioco, con esiti modestissimi, e, soprattutto, perdendo la propria anima. I leader tentano di differenziarsi con riforme su questioni etiche, ma questo non può essere un discrimine tra la destra e la sinistra».
Cosa salva di questi primi sei anni della presidenza Obama?
«L’Obamacare, ossia la riforma sanitaria, nonostante i compromessi che ha dovuto accettare e le troppe complicazioni burocratiche. Milioni di persone oggi godono di una copertura un tempo inimmaginabile, e la riforma ha avuto anche il merito di far penetrare nella coscienza del popolo americana un principio lontanissimo dalla sua mentalità: il fatto che il paese ti chieda di spendere una parte dei propri guadagni per la salute altrui».

Repubblica 6.11.14
Il crepuscolo di Barack l’uomo delle promesse che non poteva mantenere
Sei anni fa rimasero tutti abbagliati dalla sua diversità
Prima il Nobel e il discorso al Cairo, poi la disillusione
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON IL CREPUSCOLO dell’uomo che prometteva troppo era già scritto nello splendore di una promessa che nessuno avrebbe potuto mantenere: quella di cambiare in meglio l’America, e magari il mondo, in qualche anno. Il declino di Barack “Yes We Can” Obama verso l’umiliazione del suo partito certificata dalla perdita della maggioranza anche in Senato è il prodotto del suo successo, è figlio dell’enormità delle aspettative che i suoi elettori, e il resto del mondo con essi, gli avevano caricato sulle spalle, prima ancora di conoscerlo.
Dopo averlo immaginato troppo grande sei anni or sono, gli avversari sono riusciti a farlo apparire troppo piccolo, nelle opposte caricature della retorica politica. Insieme abbagliati, o terrorizzati, dalla sua diversità. La felice anomalia di un uomo di colore arrivato a spezzare 226 anni di monopolio degli euroamericani non scalfito davvero neppure dal cattolico Kennedy, aveva annunciato in lui, nella moglie, in quelle bambine insieme normalissime e tanto fuori dalla norma entrate nella grande casa degli ex padroni di schiavi come Washington e Jefferson, un traguardo finalmente tagliato. Ed era invece soltanto l’inizio di una scalata.
Poiché le delusioni sono sempre proporzionali alle illusioni, specialmente per la “sinistra” e i “progressisti” facili all’ubriacarsi delle proprie parole, la parabola discendente di colui che aveva promesso di “Change”, cambiare, ed è invece stato cambiato dalla realtà, era inevitabile. Testimoniò questa irrazionale aspettativa quello stravagante Nobel per la Pace, assegnato prima ancora che il suo trasloco dalla campagna elettorale alla Casa Bianca fosse completo e che lui stesso accettò con esitazione. Accese altre speranze il discorso del Cairo al mondo arabo e all’universo islamico, spalmato come balsamo sulle ustioni lasciate dal tragico predecessore Bush jr, soltanto per scoprire quanto profonda fosse l’infezione di odio che era cresciuta sotto le cicatrici dopo la “esportazione della democrazia” in Iraq. E quanto ambigua sia un’America perennemente in oscillazione fra interventismo e isolazionismo che ripudia gli interventi militari dopo le lezioni, ma non accetta volentieri che il proprio leader dichiari, come fece lui nell’impresa libica, di voler “guidare da dietro”.
Un presidente più grande del proprio tempo fu così ridimensionato dalla realtà. Giorno dopo giorno, Obama è sembrato rimpicciolirsi fino a lasciare un nocciolo apparentemente spento, ma ancora radioattivo al punto da spingere i candidati del suo partito a distanziarsi da lui. Non lo ha puntellato neppure la resurrezione di un’economia che lui aveva trovato agonizzante nell’estate del 2008, devastata dagli otto anni di complice laissezfaire bushista di fronte alla più colossale tempesta speculativa, e all’inevitabile naufragio, che l’America avesse visto dal 1929. Sulla sua pelle, sempre troppo scura per i milioni di elettori sconvolti da quell’“usupartore”, critiche e insulti durante la campagna elettorale erano scivolati via senza mai bagnarlo, ma allo stesso modo su di lui sono scorsi via senza vantaggi i successi di una ripresa attribuiti alla Banca centrale. Secondo la logica del tifo sportivo: se la squadra vince, il merito è dei giocatori. Se perde, la colpa è dell’allenatore.
Prudenze e cautele nel dispiegare dissennatamente la potenza militare americana — «Cerchiamo di non fare niente di stupido», ordinava — sono state viste, nell’inversione ottica delle illusioni divenute delusioni, come segnali d’impreparazione, dilettantismo, spesso accidia, come se a lui, soddisfatto per l’epocale vittoria del 2008 ripetuta nel 2012, il giocattolo noioso del compromesso politico, motore di ogni governo, non interessasse più.
A Washington si infittivano le voci di una First Lady disgustata dalla melma della “politica politicante”, di una donna ansiosa di lasciare quella enorme villona bianca che si stava stringendo su di lei e sulla sua famiglia, come una camicia di forza. «Torniamo nella nostra vera casa, Barack», si diceva lei sussurrasse all’orecchio del marito nel pillow talk, il dialogo sul cuscino del letto matrimoniale privilegio delle First Lady, torniamo a Chicago, lontano dalla boccia dei pesci rossi nei quali vivono le prime famiglie sbranate dal rancore quotidiano degli avversari. Una leadership senza leader era l’immagine proiettata. Tanto più disastrosa, quanto più ormai ogni partito, nel XXI secolo, dipende per i propri successi dalla figura guida.
L’Obama demolito e schiaffeggiato era naturalmente una macchietta elettorale, come lo era l’uomo gigantesco apparso nel parco di Chicago nel discorso della vittoria del novembre 2008, “greater than life”, più grande della vita. Obama era, ed è, un uomo normale proiettato in un ruolo forse troppo grande per lui. Ma molto meno catastrofico di come ora appaia dopo la rivincita — o la vendetta — di un elettorato che lo ha voluto frustare per la sua sfacciataggine e per i suoi tentativi, falliti, di rimettere in azione il motore dell’American Dream per la classe media.
In questo furioso e fruttuoso lavoro di ridimensionamento dell’immagine che ha fruttato al partito opposto la maggioranza al Congresso sta però il paradosso del suo declino. Da martedì a mezzanotte, quando la (tradizionale) batosta del partito al governo per mano del partito “fuori” alla fin dei due mandati si è definita, Obama è tornato a essere quello che lo aveva ingigantito sei anni or sono: l’outsider. Il ragazzo, molto ingrigito secondo il feroce invecchiamento del potere che logora, che non ha più niente da vincere e quindi non ha niente da perdere.
Ora tocca ai suoi nemici dimostrare quello che sanno fare. Obama potrà permettersi di puntare al sogno di ogni presidente a fine carriera, l’eredità storica. Potrà lanciare quella riforma dell’immigrazione, con inevitabile amnistia, capace non soltanto di compiere un atto di giustizia e di umanità, ma d’incassare quel voto dei “Latinos” che sempre più stringono le chiavi della Casa Bianca fra le dita. Per i repubblicani, acconsentire vorrà dire alienarsi proprio quegli elettori bianchi, anziani, spaventati, che hanno punito l’uomo nero e non vogliono certo arrendersi all’uomo “bruno”. Opporsi, significherà alienarsi il blocco elettorale oggi più rilevante e in crescita.
Il volo dell’anatra zoppa, del mini-Obama rimpicciolito dopo il Super Barack, potrebbe rivelarsi più nobile, più alto di quello starnazzare che abbiamo visto, di fronte al terrorismo dell’Is, al neo-imperialismo russo del colonnello Putin, a un virus, l’Ebola, che gli è stato inconsciamente, e mai esplicitamente addebitato, per associazione etnica, visto che si è diffuso proprio nel continente del padre. A volte, e senza creare nuove illusioni, è nel momento del tramonto che la luce si fa più vivida.

La Stampa 6.11.14
“Podemos”, il segreto spagnolo degli anti-casta
Il movimento nato sull’onda lunga degli Indignados diventa il primo partito spagnolo e conquista sempre più consensi in un elettorato stanco di corruzione e privilegi. Il suo leader, Pablo Iglesias, è il nuovo punto di riferimento di un’intera generazione
di Gian Antonio Orighi

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La Stampa 6.11.14
Chiude un terzo delle parrocchie di New York
Pochi fedeli e costi troppo alti
Ad annunciare la storica novità nella seconda arcidiocesi degli Stati Uniti dopo quella di Los Angeles, è stato lo stesso cardinale Timothy Dolan

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Corriere 6.11.14
Amnesty accusa «Crimini avvenuti a Gaza»
di Davide Frattini


Quarantanove pagine per documentare gli attacchi israeliani in cinquanta giorni di conflitto. I testimoni e le analisi degli esperti, le osservazioni di due volontari palestinesi casa per casa, distruzione per distruzione. Amnesty International ha cercato di ricostruire quello che è successo durante otto bombardamenti sulla Striscia di Gaza (104 morti, 59 tra loro sotto ai 18 anni), accusa l’esercito di crimini di guerra: «Ha dimostrato una dura indifferenza verso i civili».
Hamas e le altre fazioni armate palestinesi sono menzionate nell’introduzione, vengono ricordati i lanci di razzi indiscriminati contro la popolazione nelle città dall’altra parte del confine. Per il governo israeliano la sproporzione sta qua, non nell’uso della forza da parte dei suoi generali: sta nella scelta dell’organizzazione per i diritti umani di concentrarsi sulle operazioni militari dello Stato ebraico, senza «citare i tunnel costruiti da Hamas per infiltrarsi in Israele e compiere attentati, senza usare la parola terrorismo. Ignorando la natura del nemico fronteggiato, il rapporto non contribuisce ad alimentare una discussione importante per risolvere il conflitto».
Né Israele né l’Autorità palestinese guidata da Abu Mazen sono pronti a rispondere all’appello di Amnesty che invita entrambi ad aderire alla Corte penale internazionale dell’Aia per permettere un’inchiesta, temono le condanne. I palestinesi avevano annunciato di essere disposti a firmare lo Statuto di Roma, il ministro Esteri era stato inviato in Olanda, non è successo nulla. Il governo di unità nazionale tra Abu Mazen e Hamas non riesce ad andare d’accordo neppure sulla gestione della ricostruzione a Gaza (oltre 4 miliardi di euro promessi dai Paesi donatori) e sembra difficile possa prendere una decisione comune su un’iniziativa che rischia di portare a processo i leader fondamentalisti e gli altri capi delle fazioni a Gaza .

il Fatto 6.11.14
Iran, dove essere gay è una malattia: operabile
Intervento obbligatorio: gli omosessuali devono cambiare sesso
di Roberta Zunini


Ci sono torture che durano una vita intera senza peraltro la necessità della presenza del carnefice. Una di queste si pratica in Iran, nei confronti degli omosessuali. Per eradicare l'omosessualità, ancora ufficialmente ritenuta un reato punibile con il patibolo, il fondatore della teocrazia islamica, la Guida Suprema Khomeini, la definì una malattia. Curabile però. Come? Con l'operazione a cui ci si sottopone per cambiare sesso. Per renderla obbligatoria lanciò una fatwa, facendo trapelare che lo aveva commosso la storia di un ragazzo che si sentiva imprigionato nel suo corpo e avrebbe voluto diventare una ragazza. Un problema che gli psichiatri imputano all'identità, non alla sessualità.
MA IN IRAN la sessuofobia dilagante tra i clerici ha cancellato la distinzione. Una decisione apprezzata dalle tante famiglie tradizionaliste che spesso uccidono i propri figli “diversi” per l'onore. Molti giovani vengono indotti a farsi operare dagli psicologi delle strutture pubbliche quando sono ancora adolescenti e non hanno idea di cosa significhi essere transgender né omosessuali o lesbiche. Per convincerli viene detto loro che gli verranno concessi i documenti e anche un prestito finanziario. Ma, una volta operati, vengono comunque emarginati e tanti entrano in depressione e si suicidano perché comprendono che il loro problema non era il genere a cui appartenevano, non il loro corpo e neanche la loro mente, bensì una società retriva che non accetta la libertà sessuale.
Maria, un ex ragazzo gay che è stato operato 15 anni fa quando era adolescente, ha chiesto asilo politico al Canada, dove un'associazione fondata da un iraniano fuggito per lo stesso motivo, aiuta queste persone a rifarsi una vita. In un'intervista alla Bbc ha spiegato di essere stata convinta dai medici a diventare donna e che, non appena operata, si è sentita peggio e a disagio, dovendosi peraltro travestire da donna.
“QUANDO ERO un ragazzo e sentivo attrazione per altri ragazzi non ho mai desiderato di vestirmi da donna per conquistarli, ma venendo da un villaggio di campagna non sapevo esistesse l'omosessualità. Arrivata a Teheran dove la mia famiglia si era trasferita, il preside della mia scuola intuendo che ero gay per il mio modo di muovermi e parlare, mi disse che avevo una malattia curabile e mi mandò in ospedale. Ora sono una persona infelice e ho paura di non farcela psicologicamente a resistere in queste condizioni. Non sono un transessuale e nemmeno una donna. Ma non posso più essere uomo”.
Khabaronline, una agenzia di stampa filo-governativa ha diffuso dati che sono stati smentiti da numerosi medici che fanno queste operazioni. Secondi i dati ufficiali si è passati da 170 nel 2006 a 370 del 2010. Un chirurgo però ha detto al canale pubblico britannico che nell'ultimo anno ne ha praticato più di 200 e di non essere stato l'unico nell'ospedale per cui lavora.
Si tratta dell'ennesima violazione dei diritti umani, una delle peggiori perché colpisce soggetti già fragili e sotto la minaccia costante di finire appesi a una corda.

La Stampa 6.11.14
Cina, disastro ambientale: sono 670mila i morti nel 2012 per l’utilizzo del carbone
Inquietante statistica dei ricercatori di Pechino: le micro particelle inquinanti hanno portato a decessi prematuri causati da infarti, cancro ai polmoni, malattie cardiovascolari e ostruzione polmonare cronica
di Ilaria Maria Sala

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La Stampa 6.11.14
Messico
Rivolta per i 43 ragazzi scomparsi
di Filippo Fiorini


Non si rassegnano i coetanei dei 43 studenti messicani scomparsi nel nulla da un mese e mezzo. Sebbene i testimoni della notte in cui i ragazzi si scontrarono con una banda armata dicano loro di lasciar perdere, nonostante due dei 59 arrestati con l’accusa di concorso in omicidio abbiano confessato di aver sparato ai giovani alle spalle e averli poi gettati in un dirupo, non si mettono il cuore in pace: vogliono riaverli vivi come quando li videro per l’ultima volta, durante quella manifestazione finita in tragedia. Per questo da ieri in Messico è iniziato uno sciopero trasversale a tutte le scuole. Una sollevazione studentesca di tre giorni che chiede alle autorità maggior impegno nelle ricerche degli scomparsi.
A riaccendere la speranza in una storia dal finale ancora aperto (ma difficilmente felice dato che nelle prime ore di quei fatti del 26 settembre scorso i morti sono stati almeno sei), è arrivato l’arresto due giorni fa del sindaco di Iguala, la località di montagna in cui si è svolta quella che ormai le cronache chiamano «La Strage di Ayotzinapa», in riferimento alla scuola da cui provenivano i manifestanti. «È una svolta decisiva nell’inchiesta», ha detto il presidente Enrique Peña Nieto, riguardo alla detenzione di colui che, insieme alla moglie (arrestata anche lei), è sospettato di aver scatenato contro gli studenti una banda di poliziotti e di sicari armati, per evitare che contestassero un loro comizio.
José Luis Abarca e Maria De Los Angeles Pineda sono conosciuti come la «Coppia Imperiale»: lui è emerso nella politica ai danni di avversari quasi tutti uccisi in circostanze sospette. Lei è la sorella di due narcotrafficanti ormai morti e legati al clan dei «Guerreros Unidos», una banda che si crede abbia conquistato l’esclusiva per portare la droga messicana a Chicago. Se c’è qualcuno che conosce il luogo in cui si trovano gli studenti scomparsi, questi sono loro.
Intanto, cresce l’indignazione internazionale e l’immagine del Paese risulta completamente compromessa. Lo ha riconosciuto ieri il ministro delle Finanze, il quale ammette che quando si dice «Messico», ora non si pensa più alle palme, i sombreros e la Tequila, ma alle atrocità di un posto in cui 43 giovani possono svanire nel nulla e per settimane non si riesce a dare alcuna risposta plausibile alle loro famiglie.

La Stampa 6.11.14
De Mauro: i nostri dialetti, modello per l’inglese globale
Il linguista propone nel nuovo libro l’esempio del dopoguerra italiano: una lingua franca che dialoga con una moltitudine dei vernacoli
di Mirella Serri


No, non accapigliamoci ma ragioniamo. «In Europa, specialmente in Italia e Spagna, hanno trovato spazio diatribe diplomatiche e istituzionali sulle lingue da usare in uffici e commissioni dell’Unione: cinque (francese, inglese, italiano, spagnolo, tedesco)? Tre soltanto, lasciando fuori lo spagnolo e l’italiano? O magari solo una?». Lancia così la sua provocazione ai burocrati di Bruxelles e di Strasburgo, Tullio De Mauro nel suo ultimissimo libro, In Europa son già 103. Troppe lingue per una democrazia?, (Laterza, pp. 90, €10). Le lingue in gioco sono tante, la questione riguarda tutti noi, il nostro futuro e il professore non ha alcun dubbio: «Se vogliamo un’Europa in cui i cittadini, per riprendere l’idea di Aristotele, parlino una lingua per discutere e decidere insieme “che cosa è giusto e cosa non è”, oggi, questa lingua è senza dubbio l’inglese».
Ma, attenzione, ecco la sorpresa: rimbocchiamoci le maniche perché noi italiani, sì, proprio noi, abbiamo un modello da esportare. «Per una volta, gli italiani possono proporre un esempio positivo… negli ultimi cinquant’anni abbiamo imparato l’italiano senza cancellare i nostri diversi dialetti. Lo stesso come europei dovremo fare con l’inglese, portare nel suo uso tutta la ricca varietà di culture, di significati e di immagini delle diverse lingue, senza abbandonarle, e portare nelle nostre lingue il gusto della concisione e della limpidezza dell’inglese».
Abbiamo messo in moto un miracolo linguistico tutto italiano e lo studioso lo dimostra con dovizia di informazioni anche nella sua recente Storia linguistica dell’Italia repubblicana. Dal 1946 ai nostri giorni (pp. 304, euro 12, pubblicata a 51 anni dalla sua fondamentale Storia linguistica dell’Italia Unita). E’ stato il decennio dopo la fine della seconda guerra mondiale la fucina del linguaggio moderno: «Nel 1951, al primo censimento dell’Italia repubblicana, risultò che il 59,2 per cento degli ultra quattordicenni era privo di licenza elementare». Da allora, osserva lo studioso, si è proceduto al galoppo e i connazionali, pur continuando a frequentare i dialetti, «hanno coltivato un nuovo rapporto con la loro lingua». Un traguardo che altre nazioni hanno impiegato alcuni secoli a tagliare. La scolarità passa in tempi rapidi da tre a 12 anni e l’uso dell’italiano si diffonde al 95 per cento della popolazione che pur conserva al 60 per cento l’abitudine saltuaria a uno dei dialetti. E non basta. «La televisione - afferma De Mauro - ha reso patrimonio collettivo anche una varietà lessicale sconosciuta alla popolazione italiana».
Tutto bene, dunque? Nell’immediato dopoguerra si vendeva un quotidiano ogni dieci abitanti, tra 4.300.000 e 4.600.000 copie complessive: il prof di scuola, per esempio, la mattina mentre si dirigeva verso l’edicola incontrava intenti alla lettura di un quotidiano sia il custode dello stabile che il negoziante della porta accanto. Procedendo di pari passo con la diffusione della scolarità, i giornali avrebbero dovuto crescere tre o quattro volte. Dagli Anni Settanta invece sono dimagriti e «nel 2012 le copie vendute di un quotidiano in un giorno sono state in media 3.843.679 (di cui 577 mila di giornali sportivi): su una popolazione di 52.676.000 adulti è stata venduta una copia ogni 13,5 abitanti». Oggi fra tutti coloro che sono in grado di colloquiare in italiano meno di un terzo mostra di poter accedere pienamente alla comprensione di un testo scritto. Esiste un abisso tra gli italiani più attivi culturalmente e quelli che lo sono assai meno o quasi per niente, circa il 53 per cento.
E’ aumentato il divario tra chi si cimenta con la lettura e con la scrittura e chi non sa farlo, tra chi ha accesso alla rete e chi ne è escluso e ha difficoltà a padroneggiare concetti e ragionamenti di ordine statistico, matematico e scientifico. Il bilancio mostra parecchi vuoti ma esiste la medicina: la formazione e l’apprendimento permanente, il lifelong learning. È un modo per ridare afflato a quel lontano miracolo italiano che ha molto da insegnare all’Europa di oggi.

La Stampa 6.11.14
Ricercatori dell’Università di Bologna:
«Il Diario postumo di Montale è un falso»


Il Diario postumo di Eugenio Montale (1896-1981) è un falso, e quindi non va più attribuito al poeta premio Nobel 1975. È l’ipotesi messa in campo da un gruppo di ricercatori dell’Università di Bologna, composto da filologi, matematici, informatici e linguisti computazionali specializzati nella caccia ai falsari. I risultati delle indagini del team dell’Alma Mater inducono a contestare radicalmente l’autenticità del Diario postumo, una raccolta di liriche (custodite a Lugano) che il poeta avrebbe donato alla sua ultima musa, Annalisa Cima, fra il 1969 e il 1979. I risultati delle prime ricerche sono illustrate dal filologo Federico Condello nel volume I filologi e gli angeli. È di Eugenio Montale il Diario postumo?, in uscita da Bonomia University Press, che contiene tutte le analisi filologiche volte a mostrare che le poesie postume non possono essere attribuite al grande poeta. Seguiranno i risultati delle analisi matematiche, linguistiche, informatiche, che confermano questo risultato.

Repubblica 6.11.14
L’8 settembre 1943 nel racconto inedito di Giorgio Bassani
“Io ho fatto la guerra invece di imboscarmi come tanti di voi”, disse con rabbia l’amico poeta
La minaccia dell’invasione tedesca pesava sulla città come il più atroce degli incubi
Io e Montale a passeggio nella Firenze dell’armistizio
di Giorgio Bassani


NEL tardo pomeriggio dell’8 settembre 1943, appoggiati a una spalletta del Ponte Vecchio di Firenze, stavamo a guardare — l’amico L. ed io — il tramonto sull’Arno. «De l’eternel azur la sereine ironie», mormorava L. Senonché l’azzurro, d’una trasparenza e d’uno splendore eccezionali, cedeva, dalla parte dove il sole era scomparso, a campi digradanti, quasi simmetrici, d’altro colore; ed erano zone larghe di verde, palchi orizzontali d’un verde senza macchia, tanto puro da far pensare a una nota musicale. Il tutto era fuso in una materia liquida e preziosa, non più aria o non solo aria: e ne spirava la stessa ineffabile dolcezza verde e azzurra che si specchia, a volte, nell’iride mansueta di certe fanciulle.
L., che tra parentesi è poeta vero anche se la sua poesia trovi spesso un limite nell’eloquenza, disse, appunto questo: che una fanciulla, la fanciulla ideale, volgeva in quel momento dal cielo il suo sguardo su di noi... Ma c’era poi dell’altro. Da una zona più bassa dell’atmosfera, quasi a contatto con l’acqua del fiume, si innalzavano dei delicati pennacchi di roseo vapore sfumati verso la cima di grigio e di viola. Il vento che era caduto completamente ne aveva in precedenza arruffato e scompigliato le chiome che apparivano ora ferme, come stampate, in disegni pieni d’un estro arcano e grandioso. A questo proposito l’amico L. parlò ancora del vento e della sua fantasia, e di non so quali rampanti draghi giapponesi «ricamati con fili purpurei sulla seta della sera». Perché mai l’età nostra ha reso insopportabile qualsiasi forma di declamazione?
Poco più tardi, percorrendo gli stretti vicoli che conducono dal Ponte Vecchio a Piazza Vittorio Emanuele, ci avvenne di incontrare una grossa macchina militare tedesca che procedeva lentamente in senso contrario al nostro. La macchina era bassa e lunga, grigia se ben ricordo, con qualcosa nel contenuto insito del motore di balzante di cauto insieme. Tutti gli otto posti della vettura erano occupati da ufficiali in tenuta di guerra. Le facce rasate e dure sporgevano tra i brevi lampi delle visiere e dei monocoli sopra la rastrelliera dei fucili mitragliatori sistemati con le canne in alto dietro il sedile anteriore. Ci tirammo da parte, addossandoci al muro. L’automobile passò oltre, svoltando al primo angolo. La rivedemmo comparire di lì a un momento a un incrocio di strade, lenta e silenziosa come sempre, coi suoi rigidi ospiti incastrati nei sedili come manichini. E man mano che avanzavamo per l’intrico delle stradette ne sentivamo attorno — noi — di là da un muro, oltre un quartiere — il continuo andirivieni, avvolgente e indecifrabile come i passi del frate bigio faustiano. Ci era presente — anche quando alla luce incerta del crepuscolo non ne scorgevamo più il lungo cofano e i metalli luccicanti — nel fruscio del motore e delle ruote gommate, nel secco grido della tromba che coglieva alle spalle, facendoli sussultare i passanti frettolosi.
La radio aveva già diffuso la notizia dell’armistizio quando arrivammo in Piazza Vittorio Emanuele. Di lontano avevamo già sentito le grida di gioia, ci aveva già sorpassato molta gente che correva verso le radio più vicine, ora stipavano l’interno dei caffè — “Giubbe rosse”, “Pascowski”, ecc. — in ascolto attorno agli apparecchi. Seduto a un tavolino all’aperto tra le seggiole di vimini scompigliate, tutto assorto nell’infilare con precauzione una sigaretta al bocchino d’ambra, il poeta M. (Eugenio Montale, ndr) ci accolse con l’abituale gesto amichevole aDunque l’armistizio? ». «Già: ecco una bella occasione per fondare una nuova rivista letteraria». Sedemmo in silenzio.
Tornavano frattanto gli altri, la solita corte di amici — letterati, pittori e artisti in genere — che l’annuncio aveva disperso qua e là per la piazza a caccia di notizie. Dopo la prima eccitazione suscitata in loro dall’avvenimento sensazionale, eccitazione che li aveva fatti tutti più o meno partecipi del delirio generale, se ne tornavano adesso alla spicciola sgregarsi come vergognosi, al tavolino da cui il poeta M. che abitualmente vi pontifica non s’era lasciato distrarre un momento solo. Del resto, tra il refluire nella piazza della folla impazzita di gioia, la conversazione non poteva ormai che languire. In ognuno di noi, compreso forse lo stesso M. cresceva un senso di tristezza. Ricordo che ci separammo quasi subito, trovando nel coprifuoco imminente un facile pretesto per sottrarsi a un silenzio diventato poco meno che penoso.
Accadde comunque che l’indomani, verso sera, ci ritrovassimo pressoché gli stessi intorno a un tavolino del medesimo caffè. Per tutto il giorno aveva fatto un caldo afoso, opprimente. C’era il poeta M., e c’era il romanziere G. Durante la giornata avevamo assistito al primo ditissimo. dell’esercito. La minaccia dell’invasione tedesca pesava sulla città come un incubo altrove. G. non nascondeva la sua preoccupazione. Poco prima, in una strada del centro, gli era capitato di veder malmenare due soldati tedeschi isolati da parte di un gruppo di cittadini inferociti. Ogni resistenza della popolazione armatasi nient’altro che di fucili da caccia, sassi e coltelli da cucina, gli pareva una inutile pazzia. «Andremmo incontro, diceva, e senza nessun costrutto, a delle nuove Pasque Veronesi». Il poeta M. ascoltava sorridendo, ribattendo con argomenti volutamente paradossali. A un certo punto G., persa la pazienza, proruppe: «Ma questa non è che letteratura, e tu lo sai». Vedemmo allora M. diventar pallido come un morto. Levandosi a mezzo dalla seggiola rispose con imprevedibile vivacità e, conviene ammetterlo, con una buona dose di incoerenza, che lui aveva fatto la guerra, al fronte, e non già, come tanti imboscati di sua conoscenza, nelle retrovie a distillare pezzi di colore per il Corriere della Sera o per la Nazione; che era pronto a rifarla; che quello, secondo lui, era il momento di riprendere il fucile; e che considerava vigliacchi quelli che non la pensassero così.
Allibito, G. si preparava a ribattere con pari violenza, e la scena assolutamente inconsueta minacciava di scivolare nel ridicolo, quand’ecco, come a un richiamo, ci volgemmo tutti a guardare verso la piazza. Vi entrava giusto in quel punto, varando l’arco commemorativo che la separa da Via degli Strozzi, una comune carrozza da nolo, scoperta, e procedeva il cavallo — una rozza magra e macilenta — a un passo svogliato e lenta, Distesa sui cuscini rattoppati della carrozza, tra un cumulo di valige di cuoio cosparse di vistose etichette internazionali, una donna. Il vestito estivo, svolazzante, ne lasciava intravedere le forme piene, un poco appassite. Il viso triangolare, largo e bianco di cipria, volgeva verso il nostro tavolo. E man mano che la carrozza percorreva in giro tutta la piazza, assopendo come per incanto il brusìo della folla, la donna, piegando il collo, accennava a noi col capo, sorridendo. Il sorriso le scopriva i denti forti e regolari, un po’ radi, nella grande bocca dipinta. E intanto dagli occhi obliqui, mostruosamente verdi e celesti, occhi di fanciulla e di vergine, ma distanti l’uno dall’altro e in qualche modo bovini, lasciava filtrare un lungo sguardo insieme triste e ironico. Indovinammo il suo profumo di lontano, ricco e volgare, da prostituta.
Dopo aver vagato così, a lungo, apparentemente senza una mèta, ma in realtà come avvolgendo un punto preciso, noto a lei sola, la carrozza si allontanò senza fretta, scomparve giù verso Porta San Piero. Prima però che dileguasse completamente, un braccio tondo e bianco con in cima una piccola mano paffuta si agitò con malinconia di sopra al mantice polveroso; e mentre un cupo fragore di ferraglia rotolante sui lontani selciati della periferia faceva già tremare tutti attorno i vetri delle finestre, vedemmo balenare nel buio, come fuochi fatui, i grossi anelli delle dita. © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano © 2-014, The Estate of Giorgio Bassani

IL LIBRO Racconti, diari, cronache (1935-1956) di Giorgio Bassani. A cura di Piero Pieri. Feltrinelli, pagg. 480, euro 29. Il racconto inedito che qui pubblichiamo integralmente è tratto dal volume

La Stampa 6.11.14
Maurizio Pollini
“Con Beethoven suono come un ragazzo”
In un disco la fine dell’impresa iniziata negli Anni 70: l’integrale delle 32 sonate per pianoforte
intervista di Egle Santolini


Visto che è schivo almeno quant’è autorevole, mai si sarebbe pensato che Maurizio Pollini celebrasse con un certo fasto un proprio disco. Ma l’occasione è speciale. Con l’incisione delle opere 31 e 49, arriva infatti a compimento la sua registrazione integrale delle 32 sonate per pianoforte di Beethoven, ora rimesse in vendita in un cofanetto di otto dischi. Un’impresa iniziata negli Anni Settanta, «a cominciare proprio dalle ultime, le più impervie, che adesso mi piacerebbe incidere di nuovo», e conclusasi con due sonatine spesso eseguite dai principianti. Accade così che, davanti a un risotto giallo («per piacere senza cipolla»), il pianista che ha insegnato il rigore a un paio di generazioni di interpreti ci metta a parte di un suo bilancio. Tra un giudizio sui 25 anni dalla caduta del Muro («peccato per il fallimento di Gorbaciov: l’attuale dittatura in Russia non mi piace affatto») e un’osservazione sui pianisti cinesi («l’importante è che ci si confronti: Occidente e Oriente devono parlarsi»), va da sé che si cominci con Beethoven.
Quarant’anni scanditi da queste sonate. Il tempo per un musicista passa come per tutti gli altri?
«Sì. Ma anche no. Nel senso che deve sempre suonare come un ragazzo: se non ci riesce, tanto vale che rinunci».
Anche dal punto di vista delle difficoltà tecniche?
«Diciamo che con l’andare degli anni capisci meglio quel che devi chiedere alle mani».
Che cosa prova quando riascolta la 111 o la 106 del Pollini trentenne?
«Le guardo dall’esterno, come se le eseguisse un’altra persona. Di sicuro in quest’operazione ha contato una voglia di compiutezza, il desiderio che l’incisione assumesse un senso definitivo. Il lavoro in studio, così complesso e concentrato, si attaglia particolarmente a questa idea di responsabilità: nel totale degli otto dischi, infatti, le sonate eseguite in concerto sono soltanto due, l’opera 26 e la 53, registrate al Musikverein di Vienna. Ma il rapporto con il pubblico, insomma il senso di suonare per qualcuno, resta irrinunciabile. E le esecuzioni dal vivo particolarmente naturali».
Quali pianisti ascolta con più interesse in questo repertorio?
«Wilhelm Backhaus che è ineguagliato dal punto di vista tecnico. E soprattutto Artur Schnabel per il coraggio della lettura. I suoi tempi sono lenti, lentissimi: non teneva al rispetto della tradizione, ma alla volontà di Beethoven».
Il ministro Dario Franceschini ha dichiarato che 14 fondazioni liriche sono troppe. È d’accordo?
«No. Le fondazioni vanno mantenute e va loro assegnata una funzione più viva e attuale nei confronti della società. Però devono assicurare più recite: certe situazioni sono del tutto fuori dal tempo».
E come commenta le recenti vicende dell’Opera di Roma?
«Trovo deprecabile che Riccardo Muti abbia lasciato l’Italia e che il teatro non riesca a trovare una via onorevle di riscatto».
A lei che ha sempre insistito sull’impegno civile, vien voglia di chiedere che cosa pensi dell’Italia e del momento che stiamo attraversando.
«Da che parte vuole che cominci? Mi faccia un’altra domanda».
Vogliamo prendere come una risposta implicita il fatto che in Italia lei, nonostante tutto, continui a vivere?
«Senz’altro. Ma è anche vero che, più che italiano, io mi sento profondamente europeo».
Come e quanto le manca Claudio Abbado?
«Sempre e moltissimo. Ricordo l’ultima estate a Lucerna, ricordo quanto già stesse male e come gli organizzatori del Festival non l’avessero capito. Poi l’ultima operazione: era debole ma perfettamente lucido. Abbiamo sperato fino all’ultimo di tenere insieme due concerti, a Vienna e a Bologna. Non ci siamo riusciti».
Il suo prossimo impegno?
«Il 14 novembre in Spagna, a La Coruña, con il quinto Concerto di Beethoven e mio figlio sul podio».
Chi comanderà?
«Lo vedremo, per noi è la prima volta. Ma finora, quando parliamo di musica, io e Daniele andiamo perfettamente d’accordo».

La Stampa 6.11.14
Lang Lang
“La musica è sorpresa, suonate con il cuore”
di Vittorio Sabadin


Il pianista Lang Lang, 32 anni, al Conservatorio di Torino ha riempito l’Auditorium di ragazzi che lo adorano perché lo sentono vicino. Tre di loro hanno suonato davanti a lui e Lang Lang li ha ascoltati e corretti

Lang Lang arriva al Conservatorio di Torino come una rock star, ma puntuale. Abito nero, maglia nera, guanti di pelle neri a proteggere le lunghe mani. Firma autografi, va su e giù per la piazza obbedendo ai cameramen che lo riprendono. Quando si ferma è circondato da signore che lo baciano e gli dicono che è il più bravo. Dentro, nell’Auditorium, lo aspettano centinaia di ragazzi, tre di loro piuttosto nervosi: dovranno esibirsi davanti al grande pianista, che poi dirà che cosa ne pensa.
Sul palco ci sono due Steinway. Lang mette tutti a proprio agio e invita a cominciare: «Divertiamoci». Così tocca subito a Chiara Biagioli, vent’anni, sedici dei quali passati al pianoforte. Attacca la Terza Sonata op. 28 di Prokofiev con vigore, come per togliersi il pensiero. Lang ascolta, batte il tempo con il piede, segue ogni tanto sullo spartito, guarda come scorrono le mani sulla tastiera. «Fantastico, molto bene», dice alla fine, ma si capisce subito che ha altro da aggiungere. Le mani all’inizio non erano giuste, troppo verticali. E poi chi esegue questa sonata deve percepire l’armonia nascosta in quel groviglio di note e farsi trasportare. Prende lo spartito con la sinistra e fa sentire con la destra come si può trovare qualcosa di romantico anche nell’opera 28. «Bisogna sentire l’armonia – dice – suonare con il cuore, non in modo meccanico».
Giovanni Carraria Martinotti, 18 anni, diplomato a pieni voti, ha preparato Chopin. Attacca l’Andante spianato op. 22. Lang ascolta in piedi, batte il tempo con un dito. «Bravo, magnifico», ma anche qui c’è qualcosa da ritoccare: le prime note non vanno bene. «Quando cominciamo a suonare - spiega - partiamo dal silenzio. E con Chopin la musica deve uscire dal silenzio». Fa sentire come si dovrebbe fare, ed è bellissimo ascoltare quel suono che giunge come dal nulla.
Tocca a Davide Cava, un giovane talento che ha già pubblicato un singolo. La Parafrasi sul Rigoletto di Litz è applauditissima, ma arriva il minaccioso «Bravo, bravo davvero» di Lang. I fortissimi sono troppo esili, c’è qualcosa che non va nelle dita della destra, bisogna rinforzare i muscoli. E poi i fortissimi si fanno piegando in basso le spalle. «Il fortissimo - spiega spingendo in giù le spalle del pianista - è una valanga, non un mordi e fuggi». Poi ci sono alcune modulazioni da correggere: Lang intona con voce di baritono «Bella figlia dell’amore», per fare capire come la musica arrivi ogni volta da una parte diversa, come una sorpresa. «Dovete sentire questo - dice al pubblico -. Dovete lasciarvi portare, ed eseguire ogni pezzo con il vostro carattere e la vostra personalità».
C’è qualche domanda, gli studenti gli danno del tu. Lo amano perché sembra uno di loro, perché si siede al piano e suona, senza i fronzoli da rito sacro di tanti esecutori, perché fa sembrare tutto più facile e più umano, e non nasconde mai nulla di quello che prova. Molti pensano che non sia un buon pianista. Ma se riempie le sale di ragazzi entusiasti, è il più bravo di tutti.

La Stampa 6.11.14
Mani superbe, ostentate bizzarrie
in un video la lezione di Daniel Baremboim a Lang Lang


Esiste un video, di alcuni anni fa, che ritrae Daniel Baremboim mentre insegna al pianista Lang Lang come interpretare la Sonata Appasionata di Beethoven. Il ragazzo mostra di comprendere la direttiva: la musica deve avere una traiettoria precisa, ogni frase va messa in relazione con le altre per far sentire i punti di snodo, e così via. Sul momento Lang Lang cambia modo di suonare. Poi, però , fuori dal controllo di tanto maestro, continua a fare di testa sua. Questa l’impressione suscitata dal concerto tenuto per la Rai. Le mani sono superbe, la tecnica digitale di prim’ordine, il virtuosismo, talvolta, estremo. Il risultato, però, è opposto alla logica predicata da Baremboim. L’esecuzione dei quattro Scherzi di Chopin non faceva che suscitare nell’ascoltatore delle domande. Perché fa quel rallentando? Perché lì smorza il suono? E quel rubato che c’entra? E le lentezze wagneriane contrapposte a una velocità da Ridolini? Difficile trovare una coerenza in questi percorsi a zig-zag, che si giustificano solo come ostentazione di bizzarrie fine a se stesse: il testo ne esce a pezzi, mentre l’immagine della sregolatezza serve, forse, all’esposizione mediatica del personaggio, che Lang Lang sa curare, come un accorto regista.

Corriere 6.11.14
Quando la medicina divenne socialismo
Nel libro di Giorgio Cosmacini i dottori che hanno cambiato Milano
di Arturo Colombo

Autorevole studioso della storia della medicina e della sanità in Italia, adesso Giorgio Cosmacini ci offre un altro significativo contributo con il suo libro La forza dell’idea (l’Ornitorinco, pp. 158, € 12,00), che porta il sottotitolo chiarificatore: Medici socialisti e compagni di strada a Milano 1890-1980 , proponendosi di spiegare come e perché già sul finire dell’800, e soprattutto durante i primi del ‘900, la medicina sociale nella nostra città sia andata trasformandosi nel «socialismo medico».
Un simile cambiamento, infatti, è legato al forte impegno di alcuni esponenti di una classe medica che ha saputo assumere anche importanti cariche politiche nell’amministrazione del Comune ambrosiano, come dimostrano otto figure di valorosi medici, di cui Cosmacini traccia altrettanti nitidi profili. Si comincia con un «medico naturalista» legato a Turati e all’ambiente della «Critica sociale», Edoardo Bonardi (1860-1919), che non è stato solo un importante primario nell’Ospedale Maggiore ma «per bene cinque volte consecutive» è stato eletto nel Consiglio comunale di Milano e nel ’13 è entrato anche in Parlamento.
Altrettanto importanti sono le figure di Giuseppe Forlanini (1863-1938), definito da Cosmacini come «un medico tra ospedale e università», sempre pronto a lottare contro la tubercolosi, altrimenti detta la «peste bianca», o quella di Paolo Pini (1875-1945), uno di quei «medici della povera gente», capaci di incarnare «la figura dell’educatore popolare e dell’apostolo umanitario», o quella di Angelo Filippetti (1866-1936), che dopo aver creato, insieme ad altri medici socialisti, la Lega popolare milanese contro l’alcolismo, entra a Palazzo Marino e nel 20 diventa sindaco di Milano. E, in tempi molto più vicini a noi, il «quasi medico» Francesco Scotti (1910-1973).