venerdì 7 novembre 2014

Il Sole 7.11.14
«Il patto del Nazareno scricchiola»
Renzi avverte Berlusconi: ma io non scappo, vado avanti - «No al voto anticipato»
di Barbara Fiammeri


ROMA Il giorno dopo il faccia a faccia con Silvio Berlusconi, Matteo Renzi è ancora più chiaro: «Il patto del Nazareno scricchiola? Altro che scricchiola!». I retroscena non servono, il premier vuole la scena aperta. La battuta non è stata sollecitata, la mette dentro con tempismo perfetto mentre parla di imposte comunali. Ai timori del Cavaliere sulla tentazione di andare al voto non appena ottenuto il via libera all'Italicum replica: «Alle ultime elezioni il Pd ha preso il 41%. Alcuni hanno detto vai alle elezioni, porta in Parlamento i tuoi amici e poi fai le riforme. Noi abbiamo fatto una scelta diversa, ci giochiamo il tutto per tutto perché l'Italia si rimetta in moto». Per il premier è arrivato il momento di stringere e il gioco che predilige è uno solo: l'attacco. Da Fi attende una risposta entro il fine settimana altrimenti «guarderemo altrove». Come ha già fatto per sbloccare ieri lo stallo sulla Consulta: votando assieme ai grillini il candidato del Pd. «Lo dica se vuole rompere» replica Forza Italia con Giovanni Toti.
Ma Renzi continua a sperare «nel consenso delle opposizioni», come ripete durante la cena di autofinanziamento del Pd, al termine di una giornata lunghissima, in cui non ha mancato di rispondere anche a chi da Bruxelles lo ha duramente criticato. «Non ho mai detto che la commissione Ue sia un covo di burocrati, ma ora che l'hanno detto loro la cosa mi fa pensare: se vogliono uscire dal recinto dorato della burocrazia dicano che tutti gli investimenti che servono per creare tecnologia, ricerca e innovazione vengano tolti dalle catene del patto di stabilità».
Poco importa se dalla Commissione arrivi una replica piccata. «L'Italia ha il dovere di essere se stessa in Europa. In Europa non trattiamo, ma ci stiamo perché l'Europa è casa nostra». La politica del rigore non è contro l'Italia ma contro l'intera Europa: «I dati Ocse che dicono che l'Eurozona è il problema dell'economia mondiale, sono molto tristi da un lato e incoraggianti dall'altro perché dimostrano che se l'Eurozona cambia, può tornare a crescere anche l'economia mondiale. Perciò in Italia stiamo facendo una battaglia perché l'Europa cambi». Una battaglia che deciderà il destino dell'intero continente: «Non si può pensare che il futuro sia trattato come spesa corrente».
In cima alla lista degli investimenti per il premier c'è la banda larga: «Bisogna che impariamo a semplificare, a centralizzare le spese e ad avere una regia unica che dia tempi certi: questa è l'agenda digitale». E bisogna farli in fretta. Parole che pronuncia durante la visita alla nuova sede dell'Alcatel-Lucent di Vimercate, la Silicon Valley italiana, dove era stato accolto da alcune decine di manifestanti con corredo di lancio di uova («con quelle uova ci faccio le crepes»). Le critiche di Juncker non lo hanno affatto intimorito, anzi. Il premier sfida la Commissione a dimostrare che il tempo del cambiamento è «ora» e che non è pensabile ripetere gli errori del passato. Un esempio? La Ast di Terni oggi – ricorda Renzi – non sarebbe in queste condizioni se anni fa Bruxelles non ne avesse bloccato la vendita.
Ce n'è ovviamente anche per i sindacati. «Ho grande rispetto per il sindacato che fa il sindacato, perché gode della mia stima e ammirazione, ma – insiste – quando pensa sia possibile sostituirsi alla politica, fare politica, prendere il posto per decidere, deve sapere che c'è un governo che non tratta con il sindacato sulle leggi perché si fanno in Parlamento». Sul Jobs act quindi avanti tutta perché avremo «un contratto di lavoro più semplice, a tempo indeterminato, la riduzione delle tasse e la certezza che eliminando l'articolo 18 a te imprenditore non metto un altro in casa a dirti cosa fare», ha detto ribadendo che in questo modo nessuno avrà più «alibi».
Renzi si presenta davanti a platee diverse ma i concetti sono sempre gli stessi. Il premier difende davanti ai sindaci la legge di stabilità e la tassa unica comunale: «L'autonomia organizzativa che vi propongo è organizzativa. Vi diamo cioè degli obiettivi e poi voi fate come vi pare e poi ne risponderete davanti ai cittadini». E ancora: nessun taglio alla sanità, ma introduzione subito dei costi standard e lavorare per evitare che i tagli alle Regioni abbiano ripercussioni sui servizi erogati dai Comuni. «Sulla sanità voglio dire con chiarezza che vogliamo i costi standard e che non vogliamo ridurre i servizi ma le Asl» e quindi «non sarà consentito, e su questo voglio essere chiaro, che i tagli di costi decisi per le Regioni possano ridurre i servizi dei Comuni».

Corriere 7.11.14
Alleanze variabili alla prova.  È la fine di un muro?
di Massimo Franco


Dietro il voto del Parlamento sui giudici costituzionali si intravede, in filigrana, quello per l’elezione del presidente della Repubblica. L’ipotesi che Giorgio Napolitano possa ritenere conclusa la sua missione di qui a gennaio sta assumendo i contorni di una previsione, seppure da verificare. E pone con forza e preoccupazione il tema di quanto potrà accadere di fronte al vuoto che lascerebbe. Il «sì» di ieri al giudice costituzionale designato dal Pd, Silvana Sciarra, e a quello del Movimento 5 Stelle, Alessio Zaccaria, per il Csm, è un primo elemento di riflessione; e di tensione nella maggioranza. Il «no» a quello di Forza Italia è il secondo, anche perché rimanda a contrasti tutti interni al centrodestra.
La somma dei due episodi riconsegna un patto del Nazareno asimmetrico. Forse è azzardato sostenere che il coinvolgimento del movimento di Beppe Grillo nelle votazioni per la Consulta sia la prima pietra di un «secondo forno» che il premier può utilizzare per raggiungere i suoi obiettivi. Per quanto vada accolto come un segnale positivo, non cancella l’imprevedibilità di una formazione che segue le dinamiche imperscrutabili della Rete e del suo leader. Certamente, si tratta di un risultato che rafforza Renzi nella trattativa con un Silvio Berlusconi più subalterno di lui alla logica dell’accordo sulle riforme istituzionali. Il «forno» di Forza Italia appare inutilizzabile innanzi tutto per il suo proprietario.
L’ esito disastroso della votazione per Stefania Bariatti alla Consulta conferma infatti che l’ex premier non è più in grado di garantire l’appoggio di tutti i suoi parlamentari. La falcidia dei candidati del centrodestra riflette e dilata la crisi della leadership berlusconiana. Al contrario, il Pd attraversa le barriere della maggioranza di governo e di quella istituzionale con una disinvoltura e una facilità da perno del sistema. Può rivendicare di avere fatto uscire il Movimento 5 Stelle dall’isolamento. E prefigura anche per il Quirinale un gioco a tutto campo che potrebbe superare lo schema di un capo dello Stato concordato tra Renzi e Berlusconi: quello che, almeno finora, appariva il più accreditato.
Quanto è accaduto ieri rimescola gli equilibri parlamentari; o comunque minaccia di sparigliarli se il centrodestra rifiutasse le mediazioni offerte o pretese da Palazzo Chigi. Una sinistra in ascesa e in via di mutazione può scegliere. Può perfino cercare di eleggere il presidente della Repubblica dopo un eventuale voto anticipato e un pieno dei consensi: sebbene sia difficile che la manovra riesca finché c’è Napolitano. Berlusconi, invece, vede i margini di manovra assottigliarsi di giorno in giorno. Si rende conto che in questo Parlamento ha ancora percentuali rispettabili e peso politico. Ma dopo le elezioni può ritrovarsi condannato alla marginalità.
Per questo è disposto ad accedere alle richieste di Renzi, e intanto cerca di limarle, arginando la pressione incalzante del premier. Teme che le urne lo puniscano e lo umilino al punto da consegnarlo mani e piedi alla strategia di Palazzo Chigi. La riforma elettorale è una delle poche polizze di assicurazione per la sua sopravvivenza politica. Si capirà presto se i fatti delle ultime ore siano tatticismi per ricontrattare il patto tra Pd e Fi su basi renziane o se marchino l’inizio di una fase nuova.
Usare più forni in contemporanea richiede grande abilità, e Renzi ne ha. Ma a volte implica il rischio di ritrovarsi con un pugno di cenere.

Repubblica 7.11.14
La convergenza tra Renzi e Grillo che spaventa Berlusconi
Non è ancora un addio definitivo al rapporto tra premier e Cavaliere ma un segnale politico contro la paralisi
di Stefano Folli


NELLA partita che si sta giocando intorno alla legge elettorale - e in prospettiva intorno alla scelta del prossimo presidente della Repubblica - la giornata di ieri ha portato una novità da non sottovalutare. Un sasso è stato tirato nello stagno con l’elezione di un giudice della Consulta in condominio fra Pd e Cinque Stelle.
Non è un asse fra Renzi e Grillo, non è ancora un addio definitivo alla relazione privilegiata fra il presidente del Consiglio e Berlusconi. In altri termini non è un “secondo forno”, ossia un cambio di alleanze parlamentari. Tuttavia è un segnale politico in una fase fin troppo statica. Renzi aveva bisogno di uscire dall’inerzia in cui annaspa il cosiddetto “patto del Nazareno”. Grillo a sua volta doveva dimostrare a se stesso e ai suoi che qualche volta il M5S riesce a far pesare la sua forza parlamentare, che non è esigua. Quindi si è creata una convergenza di interessi. Dopo oltre venti votazioni nulle a Camere congiunte, Silvana Sciarra, candidata del Pd, è stata eletta anche con i voti dei “grillini”. Viceversa la candidata del centrodestra, Stefania Bariatti, non ha ottenuto i voti del M5S (e forse nemmeno tutti quelli della sua parte) ed è rimasta molto al di sotto del quorum. In sostanza un’asimmetria che ha penalizzato il partito di Berlusconi, enfatizzando invece la confluenza Pd-Grillo sull’altro nome.
La storia non finisce qui. Si tornerà a votare in Parlamento, ma è difficile prevedere se l’intesa sulla candidata ieri perdente sarà rispettata. Quel che è certo, la crepa che da tempo s’intravedeva nel “patto del Nazareno” tende ad allargarsi. Berlusconi in questa fase è debole, troppo debole per siglare dall’oggi al domani un accordo su una legge elettorale che avvantaggia in primo luogo il Pd renziano e in secondo luogo altri gruppi che oggi sopravanzano Forza Italia o cominciano a insidiarla da vicino: i Cinque Stelle nel primo caso e la Lega di Salvini nel secondo.
La politica di Berlusconi di fatto non va oltre l’immobilismo, al punto che il “patto” ha cessato da tempo - almeno dalle elezioni di maggio - di essere un’intesa fra eguali ed è diventato qualcosa di diverso. In fondo, se passa la legge maggioritaria che piace al premier, a Berlusconi non resta che accettare la realtà, ossia un ruolo subordinato nei confronti di Renzi: ben sapendo che una significativa quota dell’elettorato di centrodestra, in caso di ballottaggio, sosterrà il presidente del Consiglio contro Grillo, mentre un’altra quota potrebbe orientarsi fin dal primo turno in favore del neo-movimento “lepenista” ed euroscettico di Salvini. Ora Renzi gioca con l’abituale spavalderia la convergenza Pd-Cinque Stelle sul giudice costituzionale. Ed è ovvio: ha tutto l’interesse a spaventare Berlusconi, ricordandogli che qualsiasi altro scenario sarà per lui meno favorevole dell’attuale. Gli sta chiedendo, in altri termini, di mettersi nelle sue mani senza traccheggiare. Perché alla peggio il Pd può persino recuperare il vecchio Italicum, ritoccandolo un po’, e trovare in Parlamento le forze disposte a votarlo. Anche fra i leghisti e i Cinque Stelle. Se ne deduce che, comunque vadano le cose, il “patto del Nazareno” come gli italiani lo hanno immaginato in questi mesi (un’intesa di ferro fra due potenze politiche per il governo della legislatura) sta cambiando fisionomia.
Resta, certo, il problema di eleggere il capo dello Stato quando Napolitano lascerà. Anche qui la mossa di Renzi sui Cinque Stelle costituisce un rischio calcolato con un risvolto politico. Il premier non vorrà permettere che Grillo appoggi a sorpresa un candidato in grado spaccare il Pd e di impedire a lui di manovrare a tutto campo. Gestendo fin d’ora il rapporto con i “grillini” e addirittura rimettendoli in gioco, come ieri sulla Consulta, può sperare di non essere scavalcato nei giorni caldi.

Il Sole 7.11.14
Ma per Renzi resta difficile strappare il patto sulla riforma
Il nuovo Senato senza Cavaliere non sarebbe mai passato
di Barbara Fiammeri


Il dato della giornata di ieri si potrebbe riassumere così: chi non si accorda con con il Partito democratico di Matteo Renzi si consegna all'irrilevanza politica. Vale per il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo e ancor di più per il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi.
Per la prima volta i grillini sono scesi a patti votando Silvana Sciarra, la candidata del Partito democratico a giudice costituzionale, in cambio del via libera dei democratici al loro candidato per il Consiglio superiore della magistratura, Alessio Zaccaria. Un confronto che potrebbe non fermarsi qui. Almeno così Renzi vuole far credere, come conferma anche la battuta sul patto del Nazareno che scricchiola («altro se scricchiola!»).
A Berlusconi, il grande sconfitto della giornata, il messaggio era stato già recapitato brevi manu dal premier nel faccia a faccia di mercoledì a Palazzo Chigi sulla riforma elettorale: «Posso fare a meno dei vostri voti». E ieri alle parole sono seguiti i fatti. Lo stallo sulla Consulta provocato da Forza Italia, alle prese con i veti incrociati interni su questo o quel candidato come ha confermato anche la bocciatura di Stefania Bariatti, è stato superato grazie all'inedita intesa Pd-M5s.
Potrebbe ripetersi anche sulla legge elettorale? Improbabile. Il Patto del Nazareno è sempre la prima scelta per il presidente del Consiglio che non vuole rinunciare all'«intesa sulle regole» con quello che riconosce come il leader dello schieramento avversario. Anche perché in ballo non c'è solo la legge elettorale ma anche la riforma costituzionale del Senato che senza l'appoggio del Cavaliere non sarebbe mai passata e che dovrà tornare al Senato.
A Palazzo Madama Renzi può contare su una maggioranza traballante che a fatica raggiunge quella assoluta di 161 e che negli ultimi tempi, rispetto ai 169 ottenuti quando chiese la prima fiducia per il suo governo, si è andata sempre più assottigliando. L'ultimo esempio è il decreto legge sblocca Italia passato, grazie ad assenze numerose tra le fila dell'opposizione, con soli 157 sì. E quindici giorni prima sulla riforma della giustizia civile la fiducia al governo si era fermata a quota 161. Stesso numero raggiunto in occasione del voto sulla nota di variazione al Def: anzi, in quel caso, per arrivare a 161 fu decisivo il contributo di un ex grillino. Ecco perché quell'intenzione di «guardare altrove», che Renzi ha paventato è più un tentativo di mettere in difficoltà Berlusconi, piuttosto che una reale volontà di rompere per sottoscrivere nuove alleanze. Anche perché chi sarebbero i potenziali alleati?
Gli indizi puntano soprattutto sulla pattuglia dei quindici fuoriusciti dal gruppo di Grillo, che però non hanno neppure costituito un loro gruppo, a conferma dell'assenza di una strategia comune. E poi non va mai dimenticato che la legge elettorale viene vista come l'anticamera delle elezioni. Per chi difficilmente potrà tornare in Parlamento in caso di nuove elezioni, l'obiettivo principale è quindi resistere. Vale per i fuoriusciti grillini, per la minoranza del Pd che teme di vedersi depennata dalle liste elettorali, per il Nuovo centrodestra, partito di maggioranza, che i sondaggi danno attualmente attorno al 3 per cento. Di un accordo con Grillo neanche a parlarne. Non basta il voto di ieri a sancire l'inizio di un'alleanza e poi neppure Grillo vuole andare a elezioni.
Resta la Lega, l'unica forse che, sempre stando a quanto riportano i sondaggi che la collocano all'8 per cento, avrebbe da guadagnare in caso di elezioni anticipate. Ma il leader del Carroccio Matteo Salvini sull'antirenzismo (e l'antieuropeismo) ha caratterizzato la sua strategia politica e quindi è improbabile che si accorderebbe con il Partito democratico. Ecco perché alla fine anche a Renzi conviene mantenere in vita il Nazareno.
È su questo che conta Berlusconi, che però a sua volta ha nel Patto con Renzi l'unica opzione possibile. Se non ci fosse stata l'intesa del Nazareno, di Berlusconi non si parlerebbe più da tempo, se non per le sue vicende giudiziarie.

Corriere 7.11.14
Le minoranze pd: prima la legge di Stabilità poi l’esame del Jobs act
di M. Gu.


ROMA «È necessario approvare la legge di Stabilità prima di iniziare il voto alla Camera sul Jobs Act». Il documento che la minoranza del Pd ha inviato a Renzi non è una banale richiesta di invertire il calendario dei lavori parlamentari.
Il tono è garbato, ma il contenuto è piuttosto bellicoso. Basta leggere i nomi in calce per capire il senso politico della lettera-appello: Boccia, Civati, Cuperlo, D’Attorre, Fassina, Miotto. L’ordine è rigorosamente alfabetico e l’ultima firma è quella di Rosy Bindi, un nome che rivela il tentativo di saldare, in una sorta di coordinamento, i deputati più agguerriti nei confronti della politica economica del leader. Solo approvando la manovra prima della delega sarà possibile, è la tesi degli oppositori di Renzi, «aumentare le risorse destinate al lavoro e consentire maggiore impulso all’attuazione della delega, che è a saldo zero». Il limite delle norme del ministro Poletti è che i soldi sono pochi, scrivono i firmatari dell’appello. E poiché le risorse stanziate dalla legge di Stabilità sono pari a due miliardi, «non sarà possibile raggiungere gli obiettivi che lo stesso presidente Renzi si propone di centrare». Insomma, o il governo aumenta gli stanziamenti di un miliardo e mezzo o «le riforme senza soldi rischiano di rimanere solo buone intenzioni».
La lettera della minoranza rischia di innescare nuove tensioni, ma Boccia sdrammatizza: «Non capisco dove sia il problema... Non si fanno riforme senza soldi». E intanto Sergio Cofferati si scalda per le primarie del 21 dicembre, per la presidenza della Liguria. La sinistra si è messa in moto per preparare la discesa in campo dell’eurodeputato pd e la prima mossa è l’appello di una trentina di personalità della cultura e del mondo professionale. Hanno firmato anche i parlamentari Donatella Albano e Mara Carocci, l’ex sindaco di La Spezia Giorgio Pagano, alcuni civatiani e Giordano Bruschi, partigiano e antifascista, uno dei simboli della sinistra genovese.

Corriere 7.11.14
Il presidente finlandese:
«Aspettiamo dal 2007 che Roma faccia le riforme»
di Paolo Valentino


ROMA «Abbiamo bisogno di più crescita ma anche di più austerità. Se guardiamo indietro al 2007, poco prima della crisi finanziaria, quando l’eurozona era in crescita sin dall’inizio del millennio, ma la maggior parte dei Paesi cresceva facendo debiti, era una situazione dopata, creata dalle speculazioni finanziarie, non dall’economia reale. Da allora, una volta entrati nel cono d’ombra della crisi, abbiamo sempre immaginato di tornare a quei livelli. Ma non era una situazione normale e quel ritmo di crescita non è raggiungibile in modo automatico: voglio dire che oggi non è semplicemente possibile dare stimoli all’economia, senza prima fare gli aggiustamenti strutturali necessari».
Il presidente della Finlandia, Sauli Vainamo Niinistö, era ieri a Roma, per una visita di lavoro, durante la quale ha incontrato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e quello del Senato, Pietro Grasso. Esponente dei popolari di Coalizione nazionale, dal 1996 al 2003 è stato anche ministro delle Finanze.
Proprio pensando a quella esperienza, Niinistö dice di dover ammettere «un errore» fatto all’epoca: «Nel 2002 fui molto critico verso il governo tedesco di Gerhard Schröder, che aveva violato il patto di Stabilità. Lo fece. Ma servì per importanti riforme di struttura di cui la Germania ha beneficiato molto».
E perché, signor Presidente, non viene oggi permesso all’Italia di fare altrettanto, a patto di varare le riforme necessarie?
«Dal 2007 aspettiamo che l’Italia faccia le riforme».
Ma è solo da pochi anni che abbiamo governi decisi a riformare il Paese. Non bisognerebbe dare più tempo per aggiustarsi con i criteri di Maastricht ai Paesi che riformano il mercato del lavoro, le pensioni e quant’altro?
«Sono un po’ scettico, ma non solo con l’Italia. Lo sono anche con il mio Paese, la Finlandia. Anche noi siamo in rosso e nel mirino della Commissione europea. In sette anni non abbiamo messo in pratica le correzioni necessarie. E ho la sensazione che l’Italia abbia lo stesso problema, cioè quello di implementare le misure di riforma. Non possiamo far nuovo deficit, senza che le strutture siano forti abbastanza da produrre crescita. Il consolidamento bisogna farlo ora, subito. Ripeto, non solo l’Italia, che io non vedo come caso a parte o speciale: è un problema di mentalità diffusa in molti Paesi dell’eurozona».
Assistiamo oggi in Europa a un grande conflitto distributivo tra Nord e Sud, ricchi e poveri. Non pensa che ciò che manca oggi sia proprio un po’ più di solidarietà?
«Io credo invece che abbiamo già mostrato molta solidarietà e responsabilità comune. Se non ci fosse stato il patto di Stabilità, forse l’euro non sarebbe neppure nato. A tal proposito voglio ricordare il ruolo positivo esercitato dalla Banca centrale europea. Draghi ha saputo calmare i mercati con grande bravura e accortezza. Dal punto di vista della responsabilità comune e dell’integrazione siamo oggi più avanti degli Stati Uniti. Se poi lei intende una vera e propria politica economica e finanziaria comune, io non sono favorevole a questo sviluppo».
Eppure era considerato un corollario, sia pure da realizzare più avanti, della creazione dell’euro.
«Fu lasciato aperto, non fu definito. Ma potrei anche parlare di altre cose lasciate aperte, come lo sviluppo di politica comune di difesa e sicurezza. Ho l’impressione che abbiamo dato per scontate molte cose, come se il successo dei primi anni dell’euro potesse giustificare tutto».
Ma non è il mondo globalizzato a imporci la necessità di una maggiore integrazione economica e politica, per contare nei nuovi equilibri strategici?
«Abbiamo tutta la cooperazione di cui abbiamo bisogno. Per me è più una questione di individui e società che di istituzioni».

Il Sole 7.11.14
Giustizia civile
Sì definitivo della Camera alla conversione del Dl che punta a togliere dalle aule dei tribunali 50mila controversie all'anno
Con negoziazioni e arbitrati si potenziano le soluzioni che consentono di evitare il processo
di Giovanni Negri


MILANO Con il voto finale di ieri pomeriggio alla Camera prende corpo il primo passo di quella riforma della giustizia civile che dovrà portare al dimezzamento dell'arretrato e alla durata di un anno del giudizio di primo grado. Una strategia che, come seconda gamba, si regge, dopo queste prime misure urgenti, su un più ampio progetto di riscrittura del Codice di procedura civile sul quale, in attesa dell'approvazione della legge delega, è già al lavoro la commissione Berruti.
Intanto, con la conversione del decreto legge, prende un orizzonte certo il doppio binario per lo scioglimento del matrimonio senza l'intervento del giudice.
Alla possibilità, già operativa da qualche settimana, di disporre separazioni, divorzi, cambiamenti delle condizioni economiche di entrambi attraverso la (anche questa inedita) procedura di negoziazione assistita dagli avvocati si aggiunge, in vigore trascorso un mese dalla pubblicazione sulla «Gazzetta» della legge di conversione, l'opportunità di raggiungere il medesimo risultato con una procedura che non prevede neppure più l'assistenza legale e che si svolgerà davanti al sindaco. Con l'esclusione, in quest'ultimo caso, di tutte quelle unioni con figli minori, con handicap o non autosufficienti sul piano economico.
Se, nel caso dello scioglimento del matrimonio attraverso negoziazione, non è previsto l'intervento del giudice è tuttavia stabilito che l'accordo raggiunto sia comunque trasmesso al Pm per un controllo che sarà più incisivo quando riguarderà i minori. Per loro, infatti, la verifica del pubblico ministero è concentrata sulla corrispondenza dell'accordo al loro interesse, mentre, in assenza di minori o maggiorenni con handicap, il controllo è di semplice regolarità.
Al di fuori del diritto di famiglia, materia di impatto diffuso, in realtà il decreto punta a togliere dalle aule dei tribunali almeno 50mila controversie scommettendo su soluzioni stragiudiziali in parte già ammesse dall'ordinamento in parte nuove.
Tra le prime, gli arbitrati: nelle cause civili pendenti in primo e secondo grado le parti possono congiuntamente richiedere il procedimento arbitrale davanti a un collegio oppure a un arbitro (per le cause fino a 100mila euro di valore) scelto tra gli avvocati.
Tra le seconde, quelle dal profilo più innovativo, la convenzione di negoziazione assistita con la quale le parti si accordano per cooperare a risolvere la controversia con l'assistenza dei legali. Un tentativo di negoziazione è comunque obbligatorio, prima di andare in giudizio, per le controversie sul risarcimento danni da circolazione di veicoli e natanti e per le richieste di di pagamento fino a 50mila euro.
Per sanzionare sul piano economico l'abuso del processo viene assai limitata la discrezionalità del giudice in materia di compensazione delle spese, mentre in aderenza con la disciplina comunitaria sui ritardi nei pagamenti per le operazioni commerciali è previsto un incremento del tasso di interesse moratorio dal momento della proposizione della domanda giudiziale. Le cause meno complesse, per la cui decisione è sufficiente un'istruttoria semplice passeranno d'ufficio, con precedente contraddittorio anche attraverso trattazione scritta, dal rito ordinario di cognizione al rito sommario, con l'obiettivo di accelarere i tempi per una pronuncia comunque impugnabile.
Scatterà poi la ricerca telematica dei beni da pignorare: su istanza del creditore, la dispone il presidente del tribunale, autorizzando l'ufficiale giudiziario ad accedere in via telematica alle banche dati della Pa, anagrafe tributaria, archivio dei rapporti finanziari, Pra. Su un binario parallelo i tagli a chiusura dei tribunali e vacanze dei magistrati.
La contrazione dei termini di sospensione feriale dei procedimenti: il periodo feriale nei tribunali è compreso dal 1° al 31 agosto (anziché 1° agosto-15 settembre). Mentre il tanto discusso taglio delle ferie dei magistrati vede, dal 2015, la durata scendere a 30 giorni.

Repubblica 7.11.14
La mossa di Orlando per azzerare le modifiche
Scontro sulla responsabilità civile il governo prepara un decreto i magistrati minacciano lo sciopero
Caos per l’emendamento approvato al Senato che prevede il ricorso contro i giudici anche per la custodia cautelare
di Liana Milella


ROMA Sarà decreto sulla responsabilità civile dei giudici. Proprio così. La legge Vassalli dell’88 non sarà cambiata con un semplice disegno di legge, quello pur approvato il 29 agosto dal governo Renzi, ma addirittura con una misura d’urgenza identica al ddl. Lo ha deciso il Guardasigilli Andrea Orlando dopo essere rimasto fino alle 2 e 30 di notte in commissione Giustizia al Senato per difendere le sue idee sulla responsabilità. Un confronto a tratti drammatico, in cui si è sfiorata la crisi di governo con Ncd, per via di modifiche che passavano con l’accordo tra Pd, M5S e Forza Italia.
Una modifica in particolare pare destinata ad arroventare il clima con le toghe, pronte domenica, nell’assemblea di piazza Cavour a Roma, a proclamare uno sciopero contro il governo, anche perché non hanno mai digerito l’intervento sulla responsabilità. L’ulteriore modifica peggiorativa stabilisce che può dare origine a ricorsi per responsabilità civile anche «l’emissione di un provvedimento cautelare personale o reale (un sequestro, ndr. ) fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza specifica e adeguata motivazione». Una previsione capestro, del tutto eliminata col decreto, che rischia di scatenare un ricorso per ogni ordinanza di custodia. Il presidente dell’Anm Rodolfo Maria Sabelli, quando gliene parlano, commenta: «Mi sembra uno strumento messo in mano agli imputati per far fuori i giudici scomodi ». E ancora: «Trovo anomalo che a questo punto sia il giudice civile a valutare la congruità delle motivazioni di un arresto».
Orlando, in commissione, ha mediato fin dove ha potuto, per limitare eventuali danni. Poi, dopo un ulteriore colloquio con la commissaria europea per la Giustizia Vera Jourova, cui ha garantito che l’Italia adeguerà la legge italiana sulla responsabilità alle richieste dell’Europa entro fine dicembre, la decisione di ripresentare il suo testo come decreto. L’unica via non solo per garantire la futura legge da ulteriori stravolgimenti parlamentari, ma per accelerare i tempi. La decisione di Orlando non dovrebbe trovare ostacoli al Quirinale perché le ragioni dell’urgenza sono nella pressione della Ue che, altrimenti, potrebbe multare l’Italia per 37mila euro al giorno, come ha documentato il vice ministro della Giustizia Enrico Costa. È facile prevedere fin d’ora che il governo, a quel punto, potrebbe anche mettere la fiducia tra Camera e Senato. Va detto subito che proprio Costa potrebbe non essere affatto d’accordo con un decreto che ripristina integralmente il testo del governo e di Orlando, e cassa completamente le modifiche approvate in commissione, in particolare quella sulla motivazione degli arresti. Costa parla invece di un testo «che ha un suo equilibrio e una sua dignità, dopo un dibattito intenso, franco, denso di contenuti ». In una parola, Costa condivide la modifica sugli arresti e con il suo partito potrebbe non essere d’accordo a sopprimerla.
Andiamo per ordine, perché la materia è complessa e l’intreccio politico pure. In commissione al Senato, relatore il Psi Enrico Buemi, c’è un testo dello stesso Buemi, aggiornato dal governo con il suo ddl. Molti emendamenti, alcuni sensibili come quello sugli arresti, proposto dal forzista Giacomo Caliendo, subemendato dal grillino Maurizio Buccarella, che però alla fine si astiene, mentre Orlando si rimette alla commissione e il Pd vota a favore. Ncd è pronto alla rissa, perché con una maggioranza che il capogruppo Maurizio Sacconi definisce «impropria e anomala» non passa la proposta di Carlo Giovanardi e dello stesso Buemi di obbligare i giudici ad attenersi alle sentenze della sezioni unite della Cassazione. Sarebbe un modo per togliere libertà d’interpretazione alle toghe, sulla quale Orlando dà piene garanzie: «L’elemento che caratterizza il ddl del governo è tenere fuori dalla responsabilità l’interpretazione».
Ncd ribalta il tavolo. Sacconi presenta le dimissioni da capogruppo. Ci vuole un colloquio con Renzi e Orlando per farle rientrare. Ma la responsabilità civile traballa. Orlando decide di mettere il paletto del decreto. “Radio Arenula” dice che il testo sarà esattamente quello del ddl originario del governo. Senza il passaggio sulle motivazioni degli arresti. Ma sarà dura farlo ingoiare a Ncd.

Repubblica 7.11.14
Piergiorgio Morosini, Csm
“Cattiva riforma, modifiche peggiori così vogliono intimorire i giudici”
intervista di L. Mi.


ROMA Un decreto? «Davvero? Non ci credo». È proprio così: «Forse è per evitare che il testo subisca altri assalti». Pm e giudici col bavaglio? «Con il rischio di perdere la serenità». Piergiorgio Morosini, presidente della commissione Riforme del Csm, commenta così le novità sulla responsabilità civile.
Modifiche che era meglio evitare?
«Mi sembra siano aggiunte molto pericolose. Che incidono sul principio fondamentale per cui non può dar luogo a responsabilità del magistrato l’attività di interpretazione di norme, né la valutazione dei fatti e delle prove».
Stare attenti a motivare un arresto viola il principio?
«Quando si ipotizza una responsabilità civile del magistrato per un arresto o un sequestro “fuori dai casi consentiti dalla legge”, con una formula ambigua si vuole condizionare la serena interpretazione delle norme da parte nostra. Peraltro si smentisce il principio contenuto nello stesso articolo che esclude la responsabilità per l’attività interpretativa. Un principio adottato in tutte le democrazie occidentali avanzate e consacrato in un documento dell’Onu che risale al 1985».
Quando si ipotizzano ricorsi in caso di misure cautelari “senza adeguata motivazione” la toga è meno libera?
«La clausola o è inutile, perché il magistrato già risponde per negligenza inescusabile, o si vuole abbassare l’asticella della responsabilità per intimorire ogni giudice chiamato a decidere su una richiesta di sequestro o di arresto, magari nei confronti di soggetti forti economicamente o istituzionalmente ».
Con garbo sta dicendo che è una formula per intimidire pm e gip?
«Sarebbe senza dubbio uno mezzo per depotenziare gli strumenti cautelari che in questi anni sono stati decisivi nella lotta alla mafia e alla corruzione. Così ogni arresto e ogni sequestro rischia di trasformarsi in un processo parallelo al magistrato che li ha
disposti».
Il Csm ha già criticato la riforma.
Queste modifiche la peggiorano?
«Vanno ben oltre il testo del ddl del Guardasigilli. Che sulla clausola di salvaguardia relativa all’interpretazione delle norme si era dimostrata in sintonia con i principi fondamentali condivisi anche in altri Paesi».
Che impressione le fa la responsabilità civile addirittura per decreto?
«La formula mi colpisce, perché questa è una materia tradizionalmente non da decretazione di urgenza».
L’Europa preme perché l’Italia adegui la legge. Il testo lo fa?
«Va ben oltre le richieste che riguardano solo ed esclusivamente la responsabilità dello Stato e non dei magistrati, nei confronti del cittadino danneggiato da un atto giudiziario».
Pensa che i suoi colleghi, dopo questo decreto, avranno più timori a lavorare?
«La sensazione è proprio questa. D’altronde, è indicativo che nella relazione di accompagnamento al ddl ministeriale vi siano impropri riferimenti all’esigenza di sanzionare in qualche modo i magistrati. Non sono le condizioni migliori per garantire giustizia ai cittadini». (l. mi.)

Il Sole 7.11.14
Un intervento che rischia di mancare gli obiettivi
di Giuseppe  Finocchiaro


La conversione in legge del Dl sulla giustizia dà occasione per molte riflessioni. Volendosi limitare a quelle essenziali non si può non dubitare della legittimità costituzionale dell'(ab)uso della decretazione d'urgenza, specie in materia processuale: i principi costituzionali del giusto processo impediscono che le nuove regole siano applicabili ai processi già pendenti, sicché il ricorso a questo strumento legislativo, che presuppone l'esistenza di casi straordinari di necessità e d'urgenza, appare alla radice incompatibile con la materia processuale.
Deve essere criticata la scelta di riformare per l'ennesima volta il sistema della giustizia civile: il rincorrersi continuo di riforme disorienta non solo i cittadini, ma anche gli operatori del diritto. Salve pochissime eccezioni, tutte le riforme che negli ultimi anni si sono tumultuosamente e disordinatamente abbattute sul diritto processuale civile hanno finito con l'accrescere la confusione anziché la certezza del diritto. In proposito, non si deve mai dimenticare che qualsiasi nuova disciplina processuale, inevitabilmente, porta con sé dubbi e incertezze interpretative, che aumentano il contenzioso. Questo "effetto collaterale" risulta aggravato quando le nuove disposizioni, da un lato, non brillano per chiarezza espositiva e, dall'altro, incoidono in modo notevole sul sistema esistente. Entrambe le circostanze (purtroppo) ricorrono anche con riguardo al decreto legge 132 e alla legge di conversione.
A titolo di esempio, si considerino, rispettivamente: l'articolo 3, comma 1, che è assai equivoco in ordine ai rapporti tra negoziazione assistita e procedimento di mediazione ai fini dell'assolvimento della condizione di procedibilità della domanda giudiziale; gli articoli 6 e 12, con la possibilità che le parti concludano accordi in tema di separazione, divorzio e modificazione delle condizioni di separazione e divorzio, così ponendo il fondamentale interrogativo se le situazioni giuridiche coinvolte siano così divenute, almeno parzialmente, disponibili dai loro titolari.
La presentazione compiuta dal Governo del Dl 132 è la dimostrazione del rilievo che precede: nessuno che abbia una minima conoscenza della giustizia civile può credere che le nuove disposizioni (salvo solo le nuove regole in tema di separazione e divorzio) saranno in grado di produrre gli effetti mirabolanti annunciati.
In proposito, infatti, né è difficile vaticinare che l'articolo 1 (che consente la cosiddetta translatio dal giudizio all'arbitrato) troverà applicazione in un numero così limitato e ridotto di casi da essere insignificante, né si compie alcuna scoperta affermando che sono ben pochi gli avvocati che prima di adire le vie giudiziarie non provino una composizione stragiudiziale, analoga a quella della negoziazione assistita.

il Fatto 7.11.14
La cena dei renzini: in seicento felici di pagare per il partito
Su Twitter dal Nazareno:
“Recuperati 18 milioni. Così nessun dipendente Pd in cassa integrazione”
Il premier dai gufi passa al “calabrone che punge”
di Davide Vecchi


Milano. Centinaia di giovani hanno formato una coda per un giorno (e una notte) davanti al Teatro alla Scala per riuscire a conquistare uno dei biglietti per la primina del 4 dicembre dedicata agli under 30. Con sacchi a pelo e coperte, termos e pazienza, per riuscire ad assistere al Fidelio diretto da Daniel Barenboim, regia di Deborah Warner. A poca distanza da loro, nella ricostruita zona di Porta Nuova, c’era un’altra coda, ma formata da vetture con autisti impegnati a depositare davanti al grattacielo Mall imprenditori e finanzieri. Un intero quartiere transennato e presidiato da cento tra agenti di Polizia e servizi d’ordine del Pd. Si entra solo su invito. Sfilano cappotti di cachemire, pellicce e portafogli importanti intervallati da qualche parlamentare e un paio di ministri: il riservato bergamasco Maurizio Martina e la zarina aretina Maria Elena Boschi. Protetti da cordoni delle forze dell’ordine i 600 invitati sono riusciti a conquistare il loro posto a tavola per cenare con Matteo Renzi. Mille euro minimo a coperto. A metà serata il Pd twitta “abbiamo recuperato 18 mln di risorse, grazie a questo nessun dipendente del Pd avrà cassa integrazione”, ma forse l’euforia del nuovo corso pidino, passato dalle feste dell’Unità ai grattacieli in vendita a 10 mila euro a metro quadro, ha generato un errore. Per il premier le cene di fundraiser non sono una novità: dal 2007 a oggi ne ha organizzate almeno una trentina per finanziare la sua ascesa politica. Raccogliendo 3 milioni.
I SOLDI finivano alle sue fondazioni. Questa volta invece andranno nelle casse del Partito democratico. Lo garantisce il suo avvocato, nonché presidente e tesoriere della Fondazione Open, Alberto Bianchi. Contattato telefonicamente dal Fatto, Bianchi ci tiene a sottolineare che lui, questa volta, è totalmente estraneo all’evento: “È una cena di finanziamento del Pd, non di Open; gestita dal Pd, non da Open; in cui Open non c’entra per niente”. Ma gli invitati sono gli stessi, i fedelissimi renziani della prima ora a cui se ne sono aggiunti di altri. Così a Oscar Farinetti, che questa volta organizza il catering con Piaceri d’Italia (servizio in esterno di Eataly), si aggiunge Carlo Sangalli, presidentediConfcommercio, cheha prenotato (e pagato) un intero tavolo da dodici persone. Tra le new entry anche Pietro Colucci di Kinexia (società impegnata nello sviluppo di energie alternative), Alessandro Perron Cabus, ad della Sestrieres (impianti sciistici) e Rosario Rasizza di Openjob. Tantissimi piccoli e medi imprenditori.
Impossibile sapere chi ha condiviso il desco con il premier: la cena era più blindata dei workshop Ambrosetti di Cernobbio. Ma Renzi oltre a tenere a distanza giornalisti e telecamere ieri ha dovuto schivare pure gli operai che lo attendevano all’esterno della nuova sede Alcatel a Vimercate. L’azienda ha annunciato oltre duecento esuberi. Così, per evitare il contatto con gli operai schierati di fronte all’azienda, Renzi si è dovuto intrufolare nel capannone passando dall’ingresso posteriore. Per non farsi notare ha mandato ai cancelli principali due delle quattro auto blu del suo corteo, che sono state bersagliate da lancio di uova. Una volta al sicuro, tra gli imprenditori, ha accettato di parlare con una delegazione di operai che lo ha raggiunto, scortata. “Ha dimostrato di essere a conoscenza della situazione”, ha poi spiegato Gianluigi Redaelli della Rsu. “Il nostro messaggio è che abbiamo poco tempo”. Ma poi ha ironizzato: “Mi tirano le uova? E io faccio le crepes”. Non ha parlato degli esuberi né dei licenziamenti. Ma ha lamentato la poca collaborazione di parte del Paese. “Non torno sulla solita storia del gufo, ma sulla storia del calabrone che non dovrebbe volare eppure vola e ogni tanto punge anche”, ha detto. Poi da Vimercate è corso all’Anci e qui non ha potuto evitare le critiche dei sindaci. “Non possiamo sostenere i tagli lineari”, ha ribadito anche il presidente Piero Fassino, renziano. “Vi aspetto a Palazzo Chigi, è anche casa vostra”, la risposta del premier. Alle 20:30, finalmente, ha raggiunto il grattacielo TheMall accolto dal padrone di casa: ManfrediCatella, ad di Hines e proprietario del progetto Porta Nuova. La serata ha fruttato circa 650 mila euro, ma l’entità esatta di quanto finirà nelle casse del Pd si potrà conoscere solo tra qualche giorno: dopo aver pagato il catering, l’affitto.

Corriere 7.11.14
Matteo in ritardo alla cena vip
Nel parcheggio suv e Jaguar
«Mille euro? Scarica l’azienda»
di Maurizio Giannattasio


MILANO Sotto il Diamantone, grattacielo simbolo della Milano rinata, gli ospiti arrivano alla spicciolata. Usano il più bieco dei trucchi per sviare le domande dei cronisti. Orecchio attaccato al cellulare, voce stentorea e passo spedito. Eppure mille euro per partecipare alla cena con il premier Matteo Renzi e finanziare il Pd varrebbero bene una risposta alla più semplice delle domande: chi è? di che si occupa? perché è qui? L’ex arbitro Gianluca Paparesta, uno tra i 800 ospiti paganti del The Mall, avrebbe quanto meno fischiato un fallo di ostruzionismo. Sarà il riserbo tradizionale del mondo imprenditoriale lombardo, sarà che nessuno vuole scoprire le sue carte. Come ai tempi di Silvio Berlusconi re.
Matteo Renzi arriva alle 21 e 26, con oltre un’ora e mezzo di ritardo e subito pronuncia parole magiche per l’uditorio: «Faremo lavorare meno i commercialisti», «Il Fisco non è più nemico dei cittadini». Dentro tavoli da 12, con tovaglie bianche e una zucca a fare da centrotavola. Fuori sfilano Porsche Cayenne, suv e un paio di Jaguar. Gli «happy few» che possono accedere direttamente dal garage. Gli altri arrivano dalla strada.
Sfilano i ministri Maurizio Martina e Maria Elena Boschi, poi Alessandra Moretti, Stefano Boeri, Patrizia Toia, Emanuele Fiano, Piero Fassino,il capo di gabinetto di Pisapia, Maurizio Baruffi. Qualcuno si eccita a vedere Fabio Minoli, già Forza Italia della prima ora. È la pistola fumante. Quella che proverebbe la grande passione dei berlusconiani per il leader pd. L’entusiasmo crolla quando si scopre che Minoli, da tempo, è il nuovo capo della comunicazione di Confindustria. Arriva Guido Roberto Vitale, ex presidente Rcs. «È giusto che la politica la paghino i cittadini e non lo Stato». C’è il presidente di Telecom, Giuseppe Recchi, l’ad di Borsa italiana, Raffaele Jerusalmi, Daniele Schwarz, ad di Multimedica, Michele De Carolis, ad di Swg, figlio di Massimo, leader della maggioranza silenziosa. L’attrice Stefania Rocca.
Colpisce la diversità delle risposte. I politici — tutti paganti — difendono la scelta della cena milionaria: «Noi ci rivolgiamo a tutti — dice Toia —. Non saremo mai un partito berlusconiano». «L’importante è che queste iniziative vengano fatte in modo trasparente — dice la Moretti — gli ospiti sono qui per finanziare il Pd, un’idea, un progetto di cui Renzi è espressione. Perché hanno fiducia in una politica che cerca di cambiare il Paese».
Gli imprenditori oscillano su un paio di temi. Il più gettonato: «Siamo qui per ascoltare». «Mi aspetto un contributo per la vittoria dell’Italia». I più scanzonati: «Ho pagato i mille euro, ma scarica l’azienda». «Paga direttamente l’azienda». «La Milano da bere finanzia il Pd». Fino all’appello accorato di un impresario di pompe funebri di Modena: «Sono qui perché Matteo Renzi è l’unica speranza. Siamo in una crisi profonda, anche nel nostro settore, dove si risparmia persino sulle bare».
Il premier è in forma smagliante. Liscia il pelo alla platea su tasse e Fisco. Ma tocca tutti i temi nelle sue corde. L’incipit è uno scatto d’orgoglio: «Ho detto no al voto anticipato, mi gioco tutto». Ricorda che per le riforme è necessario cercare il consenso delle opposizioni. Ma fino a un certo punto: «Perché se qualcuno vuole bloccarle noi andiamo avanti da soli». Coinvolge il pubblico: «Secondo voi i dipendenti pubblici in Italia sono troppi?». Sììì risponde la platea alzando la mano. «Secondo l’Europa sono pochi ma vanno impiegati meglio, in questo senso va la riforma della Pubblica amministrazione». Arriva al lavoro: menu interessante per la platea di imprenditori e giovani start up: «Questa riforma del lavoro è quella più di sinistra possibile». E infine: «Abbiamo recuperato 18 milioni di risorse, grazie a questo nessun dipendente del Pd andrà in cassa integrazione». Sono le 23. Tutti sono arrivati al secondo. Renzi non ha ancora toccato cibo.

Corriere 7.13.14
Valigette piene di soldi e affitti gonfiati
La rete del deputato pd
Accuse a Di Stefano, coordinava un tavolo alla Leopolda
di Fiorenza Sarzanini


ROMA Quelle valigette piene di «documenti e valuta» occultate nel bagagliaio dell’auto che viaggiava dalla Francia all’Italia sembrano essere il simbolo dell’inchiesta che sta imbarazzando il Partito democratico. Perché l’accusa di corruzione contestata dai magistrati romani al deputato Marco Di Stefano potrebbe essere soltanto il primo passo di un’indagine che coinvolge ben altri nomi della politica romana.
Parlamentari della sinistra e della destra accomunati dall’amicizia e soprattutto dagli affari conclusi da Antonio e Daniele Pulcini, imprenditori immobiliari dai mille interessi finiti agli arresti domiciliari per aver pagato il direttore del Demanio del Lazio per «pilotare» un’assegnazione. Costruttori capaci di tessere una rete che partiva da Di Stefano quando era assessore al Demanio della Giunta regionale guidata da Piero Marrazzo, passava per Antonio Lucarelli capo della segreteria del sindaco Gianni Alemanno, arrivava a Fabio De Lillo, ora alla Regione Lazio per il Nuovo centrodestra, ma anche al senatore udc Mario Baccini, ai parlamentari eletti con il Pdl Basilio Giordano e Antonino Foti. Nel gennaio 2013, Pulcini racconta al telefono a un amico di essere «appena uscito dal Campidoglio, ho concordato un posto nella lista civica». Poi fa il conto delle migliaia di voti che può spostare.
Gli affari e le minacce
La tangente da un milione e 880 mila euro (oltre a 300 mila euro per il suo collaboratore) che Di Stefano avrebbe preso per far affittare alla «Lazio Service» (società controllata dalla Regione) due palazzi dei Pulcini al prezzo stellare di 3 milioni e 725 mila euro ciascuno, appare già sufficiente per comprendere quale fosse il modus operandi degli imprenditori. Anche perché quel contratto consentì poi la vendita degli immobili all’Enpam con una plusvalenza che superava il 50% dell’effettivo valore.
Le carte processuali messe a disposizione della difesa mostrano con quale disinvoltura Di Stefano svolgesse il proprio incarico, modificando atti pubblici e rendendo così indispensabile — pur consapevole che invece non c’era alcuna necessità — la locazione degli stabili. Ma rendono chiari anche i suoi movimenti all’interno del partito per ottenere il posto in Parlamento.
Intercettazioni e verifiche compiute dagli specialisti del Nucleo valutario della Guardia di finanza danno conto di quanto accadde dopo le primarie del Pd per la Camera dei deputati quando Di Stefano, primo dei non eletti, al telefono minacciava «la guerra nucleare, comincia da Zingaretti e li tiro tutti dentro», li accusava di essere «maiali, non è che puoi l’ultimo giorno, l’ultima notte buttar dentro la gente, dopo che dici che stai dentro» e candidamente affermava: «Ho fatto le primarie con gli imbrogli». È approdato alla Camera quando il sindaco di Roma Ignazio Marino ha nominato assessore Marta Leonori, che ha così liberato il posto e forse tacitato le minacce. Alla Leopolda era coordinatore del tavolo sui pagamenti elettronici.
Fondi esteri e mazzette
Chiedeva soldi Di Stefano, ma forse non era l’unico. L’indagine coordinata dal procuratore aggiunto Nello Rossi mira a verificare il ruolo di un faccendiere che avrebbe trasferito soldi in Lussemburgo, probabilmente provviste da destinare al pagamento di tangenti. Ma anche a chi fosse destinato il denaro fatto rientrare dall’estero nel febbraio 2013 da Daniele Pulcini. L’imprenditore ne parla al telefono con un’amica, fornisce dettagli su un viaggio in Francia che insospettisce i pm. Scrive il giudice nel provvedimento che autorizza le intercettazioni: «Pulcini, inizialmente intenzionato a recarsi a Nizza a mezzo aereo, ha poi optato per la soluzione stradale incaricando due soggetti. Appaiono emblematici i termini della tentata prenotazione aerea verosimilmente finalizzati a evitare, nella fase di rientro, possibili controlli aeroportuali, talvolta innescati sui bagagli. Non ultimo il fatto di voler evitare la collocazione in stiva di qualcosa di valore, comunque non trasportabile a mano. Potrebbe così spiegarsi la volontà di ricorrere al mezzo stradale nella fase di passaggio di confine tra Francia e Italia, verosimilmente attraversato con materiale e documenti di sicura importanza per Pulcini, probabilmente valuta».
Case, permessi e regali
In occasione delle elezioni la famiglia Pulcini metteva a disposizione dei politici amici i locali da usare come uffici. Secondo i controlli degli investigatori «uno degli utilizzatori potrebbe essere Fabio De Lillo». Agli atti è allegata la trascrizione di una conversazione con uno dei dirigenti del gruppo imprenditoriale.
De Lillo: «Mi diceva il geometra che erano pronti quel...».
Catitti: «Sì, ho tutto. Ho i due contrattini fatti uno per il primo mese e uno per il secondo in modo tale che non li andiamo a registrare e la letterina per l’Acea».
De Lillo: «Perfetto, sto mandando un collaboratore da voi alla reception, ritira lui il plico, me lo porta indietro, io lo firmo e da qui a lunedì vi rimando indietro i comodati d’uso».
Catitti: «Allora lo lascio in busta chiusa, a che nome?».
De Lillo: «De Lillo, sta arrivando, sarà lì in 10 minuti».
Nel provvedimento del giudice vengono annotati anche «svariati contatti di Daniele Pulcini con l’onorevole Mario Baccini dai quali emerge un rapporto piuttosto confidenziale. Le conversazioni oltre ad appuntamenti e incontri riguardano la richiesta a Baccini di interventi finalizzati a caldeggiare certe pratiche burocratiche riguardanti la posizione di una donna, evidentemente amica di Antonio Pulcini, nonché adempimenti aeroportuali nel territorio del Marocco ove lo stesso Pulcini progettava di recarsi in compagnia femminile».

Repubblica 7.11.14
“Non siamo aguzzini Cucchi è stato pestato prima di arrivare in cella”
Parla un agente di polizia penitenziaria assolto in primo grado e in appello: è stato un calvario, siamo vittime anche noi
di Maria Elena Vincenzi


Era malmesso, fu portato in tribunale e in aula dai carabinieri
Non tocca a me dirlo, ma ora si deve indagare su altri orari e situazioni

ROMA «Si deve indagare su altri orari e altre situazioni. Ma non tocca a me suggerirle». La Corte d’Assise d’Appello, una settimana fa, ha stabilito che l’agente della polizia penitenziaria Antonio Domenici non è colpevole per la morte di Stefano Cucchi. Lo stesso avevano fatto i giudici di primo grado. Ora dopo cinque anni, come aveva già fatto un suo collega nei giorni scorsi, ha deciso di parlare.
Partiamo dalla sentenza. Come l’ha vissuta?
«Per me è stata una conferma. Il mio avvocato, Massimo Mauro, aveva chiesto addirittura l’assoluzione perché il fatto non sussiste. I giudici hanno confermato l’insufficienza di prove. Per me è la fine di un incubo».
Come sono stati questi 5 anni?
«Un calvario. Nessuno può capire cosa vuole dire sapere di non avere fatto nulla ed essere etichettato come un aguzzino, un nazista ».
Che cosa ricorda di Stefano Cucchi?
«Era eufemisticamente malmesso. Io l’ho visto poco. Quella mattina ho fatto solo ciò che mi competeva: aprire e chiudere le camere di sicurezza di piazzale Clodio. Lui è stato portato da noi e in aula dai carabinieri».
Che cosa vuole dire «eufemisticamente malmesso»?
«Si vedeva che stava male».
Aveva lividi, lesioni?
«Non lo so. L’ho visto poco».
Si lamentava mentre era in cella?
«Non lo so. C’era confusione: c’era molta gente, proprio per questo se fosse successo qualcosa, qualcuno lo avrebbe notato».
Eppure c’è un testimone che dice di averlo sentito urlare. E di aver visto dallo spioncino le divise della penitenziaria.
«È stato ritenuto inattendibile ».
Ma che motivo avrebbe avuto di mentire?
«So solo che sono successe delle cose che mi hanno stupito. Samura Yaya era stato arrestato per droga eppure ha avuto il permesso di soggiorno».
Perché lei non ha mai parlato?
«Perché sono indignato. Quello che la famiglia Cucchi sta cercando è la loro verità, non quella delle carte. Si deve indagare su altri orari e altre situazioni. Che non spetta a me suggerire. Noi abbiamo avuto grossi problemi, cambiato luogo di lavoro. Le nostre famiglie hanno sopportato telefonate e citofonate nel cuore della notte. E ancora oggi si mette in dubbio quello che 22 giudici, di cui 4 togati, hanno sancito dopo 5 anni di processo».
Ma lei è un uomo delle istituzioni. Non crede che parlare con i pm e i giudici fosse doveroso?
«Le ripeto: noi siamo arrabbiati. Le vittime siano anche noi. Messi sul banco degli imputati senza motivo. Così hanno fatto anche i pm: si sono fossilizzati sulla loro verità che era quella e quella doveva essere. Sarebbe stato inutile parlare anche con loro».
E la sua verità quale è?
«Che Stefano Cucchi è morto per colpe non addebitabili a me».
Lei è un agente della polizia penitenziaria. È normale che un ragazzo muoia mentre è in custodia dello Stato?
«No. Ma bisogna vedere anche in quali condizioni era».
Ora c’è la Cassazione. Un altro giudizio. Ha paura?
«Non abbiamo fatto nulla. Non possiamo avere paura».
In questi anni ne ha avuta?
«Abbiamo avuto paura della gogna mediatica. Non del giudizio. Per fortuna i giudici non si sono fatti condizionare».

Repubblica 7.11.14
Genova
Violenze alla Diaz processo da rifare per l’ex questore
La Cassazione lo salva


ROMA La Cassazione salva Francesco Colucci, questore di Genova ai tempi del G8 (luglio 2011). È da rifare il processo d’appello per la falsa testimonianza resa per le violenze alla scuola Diaz nei confronti dell’ex questore: la sesta sezione penale della Cassazione ha annullato con rinvio per nuovo giudizio davanti alla Corte d’appello di Genova la condanna a 2 anni e 8 mesi inflittagli il 16 dicembre 2013. La prescrizione, però, è alle porte e maturerà l’11 novembre prossimo (fra quattro giorni). Il Procuratore generale della Cassazione si era espresso sul nuovo rinvio sottolineando le violazioni del contraddittorio durante l’appello, ma anche l’assurdità di un processo separato «per i mandanti e i killer» di questo procedimento. Quindi ha detto, «siamo consapevoli della prescrizione alle porte, ma di fronte a prescrizioni più rilevanti quella di Colucci non è più scandalosa di altre». La Cassazione il 22 novembre 2011 aveva assolto dalle accuse l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro e Spartaco Mortola.

Il Sole 7.11.14
Opera di Roma, si tratta sui tagli
Si delinea in previsione del cda del 23 un accordo sulla riduzione dei costi del contratto integrativo
Verso un rientro dei 180 licenziamenti: i sindacati offrono più produttività
di C. Cas.


Svolta nella vertenza del Teatro dell'Opera di Roma. L'incontro di ieri tra il sovrintendente Carlo Fuortes, e i sindacati ha segnato la fine della fase del muro contro muro tra le parti che, con le rispettive rivendicazioni ora si preparano a trovare gli equilibri per un'intesa non facile. L'Opera di Roma ha dato la propria «disponibilità, a fronte di una proposta che risolva interamente i gravissimi problemi economici e organizzativi del teatro, a sottoscrivere un accordo che possa evitare il licenziamento collettivo di orchestra e coro. Così come ribadito dal cda della fondazione nell'ultima seduta dello scorso 22 ottobre». I sindacati dopo le tensioni delle scorse settimane hanno manifestato evidenti segnali di apertura, mai prospettati fino a oggi, anche se, come spiega il Teatro in una nota «ancora non é stata presentata una proposta organica unitaria da parte di tutte le sigle».
Dopo cinque incontri sindacali svoltisi senza la sua partecipazione, ieri Fuortes si è presentato al tavolo per la prima volta da quando ha annunciato la decisione di licenziare orchestra e coro, in tutto 180 artisti. Secondo quanto riferiscono fonti sindacali l'incontro ha avuto un esito positivo e nel cda del 23 novembre Fuortes potrebbe proporre il ritiro degli esuberi a patto però di raggiungere un accordo per tagliare i costi del contratto integrativo.
A un mese dalla mossa traumatica della Fondazione la giornata di ieri ha segnato una svolta in una vertenza la cui platea è diventata mondiale. Con prese di posizione anche internazionali contro Fuortes, appoggiato dal ministro della Cultura Dario Franceschini e dal sindaco di Roma Ignazio Marino, presidente del Cda. I sindacati che nelle scorse settimane si sono divisi sul piano industriale di Fuortes – Cgil e Fials si sono schierate da una parte, Cisl e Uil dall'altra – sembrano aver ritrovato l'unità. Per entrare nel merito dei negoziati le sette sigle hanno avanzato, in maniera unitaria, due condizioni imprescindibili: il ritiro dei licenziamenti e la rinuncia a esternalizzare orchestra e coro, un'operazione, quest'ultima che avrebbe consentito di risparmiare 3,4 milioni di euro. In cambio mettono sul piatto la loro disponibilità a parlare di costi e di maggiore produttività, ossia più spettacoli.
Nel negoziato verrà quindi messo in discussione il contratto integrativo. Solo se i sindacati accetteranno tagli significativi, Fuortes potrebbe proporre al prossimo Cda di ritirare i licenziamenti che sono stati votati con un solo astenuto il 2 ottobre scorso. «Siamo contrari alla politica dei due tempi, per cui prima si taglia e poi si vede - dice Alberto Manzini di Slc Cgil -. Siamo d'accordo a rivedere l'integrativo e contestualmente a trattare sul nuovo modello del Teatro. L'obiettivo è produrre di più e assumere i precari». Dopo gli scioperi estivi per la Boheme, con relativo danno economico e d'immagine e, a fine settembre, il durissimo colpo arrivato con l'addio di Riccardo Muti che ha rinunciato a dirigere l'Aida e Le nozze di Figaro per l'Opera di Roma potrebbe davvero aprirsi una fase nuova. Il prossimo incontro in cui le trattative potranno entrare nel vivo è previsto per lunedì. Proprio il giorno in cui a Roma ci sarà la manifestazione dei lavoratori dei 14 enti lirici italiani.

Corriere 7.11.14
Contrordine a Roma: l’Opera verso il ritiro di tutti i licenziamenti
I sindacati rinunciano a scioperi e indennità
di Valerio Cappelli


ROMA Non è ancora ufficiale, ma all’Opera di Roma ci sarà il lieto fine: sta per andare in scena il dietrofront sui 180 licenziamenti di orchestra e coro. «Siamo pronti a recepire, su mandato del Cda, eventuali modifiche alle misure decise precedentemente», dice il sovrintendente Carlo Fuortes, al termine dell’incontro di tre ore con i sindacati del teatro, quelli morbidi e quelli radicali.
I dipendenti si sono impegnati a «un’ipotesi di accordo» che in realtà ha subito ieri un’improvvisa accelerazione. Sono disposti a congelare il premio di produzione e a rinunciare a varie indennità, da quella per l’attività sinfonica, a quella di Caracalla, secondo la quale si sono sempre pagati tutti i dipendenti, anche coloro che non avevano lavorato (in futuro si corrisponderà una somma soltanto a chi sarà presente alle produzioni). L’obiettivo è quello di reperire i 3 milioni e 400 mila euro causati dalle azioni di protesta, dal blocco delle attività del teatro, dall’addio dei pochi sponsor, per raggiungere il pareggio di bilancio.
In altre parole, i dipendenti si tagliano lo stipendio, chiedendo un nuovo modello produttivo in grado di recuperare quello che ora perderanno in busta paga. Dunque, si lavora di più, mettendo un freno all’alternanza e al ricorso agli «aggiunti» in orchestra. È esattamente quello che aveva proposto il sovrintendente. Si elaborerà un nuovo piano di risanamento (indispensabile per avere i 25 milioni del fondo speciale per i teatri indebitati), rafforzato dalle concessioni dei sindacati, salvaguardando i due principi cardine: revisione della pianta organica e sostituzione del contratto integrativo.
Di più: i sindacati si impegneranno, per un periodo che dovrebbe comprendere tutto il 2016, a una moratoria degli scioperi: è la pax sindacale, che in passato il teatro otteneva a caro prezzo. Sarebbe stato possibile, tutto questo, senza la drammatica ma inevitabile (visto il buco di 30 milioni e la chiusura a ogni accordo) decisione del licenziamento collettivo? Manca ancora una proposta organica, fa notare Fuortes. Ma sembra aver vinto la linea dura, che era stata osteggiata da altri sovrintendenti (con l’eccezione di Francesco Bianchi a Firenze) e da alcuni musicisti, che però non hanno mai messo piede nel teatro romano, sperimentando sulla loro pelle la difficoltà di lavorare tra uno sciopero e l’altro.
I sindacati elaboreranno la loro proposta, alternativa ai licenziamenti, l’11 e il 12, e la formalizzeranno entro il 21, giorno in cui termina la prima fase della procedura di fine lavoro. La data importante è il 23 novembre, quando Fuortes porterà al Cda il pacchetto del sindacato: a quel punto lo «stop» ai licenziamenti sarà scontato. E si ricomincerà a far parlare la musica.
Quattro giorni dopo, il 27, con la Rusalka di Dvorak si inaugura la stagione: è una fiaba crudele, mentre il teatro sta per conseguire all’ultimo tratto l’insperato lieto fine.

Repubblica 7.11.14
L’Opera cerca accordi
“Se i sindacati mi aiutano ritirerò i licenziamenti”
Il sovrintendente del teatro, Carlo Fuortes: “Siamo sulla buona strada. Entro il Cda del 23 novembre si potrebbe fare il nuovo accordo e concludere positivamente la vicenda”
intervista di Anna Bandettini


ROMA LA notizia dei 182 licenziamenti, l’intero coro e orchestra del Teatro dell’Opera, aveva fatto il giro del mondo e non solo per i modi in cui era avvenuta, ma per il significato culturale di quel gesto, per la cancellazione di qualcosa che pareva intoccabile come il “posto di lavoro”. Ora dopo un mese di trattative, lacrime e rabbia dei lavoratori, si intravede un accordo che scongiurerà quei licenziamenti. «Sì, sono state fatte delle aperture mai prospettate finora. Siamo su una strada positiva». Lo dice con parole prudentissime e massima cautela Carlo Fuortes, dal dicembre 2013 sovrintendente dell’Opera, il “licenziatore” che il 2 ottobre scorso aveva deciso senza batter ciglio di “esternalizzare” orchestra e coro per risparmiare.
Allora ritirerà o no i 182 licenziamenti?
«Sì, se tutte le sigle sindacali arriveranno a fare una proposta. A quel punto mi impegno a portare il 23 novembre in cda l‘annullamento della procedura di licenziamento».
Secondo i lavoratori lei non avrebbe nemmeno potuto avviarla perché l’Opera aveva accettato il piano di rientro della legge Bray che non contempla licenziamenti.
«Quando quella decisione è stata presa la procedura della legge Bray era completata. E i licenziamenti erano la risposta all’obbligo della legge del pareggio di bilancio».
Cosa è cambiato?
«I sindacati ora sono al tavolo della trattativa. Il disavanzo del teatro nel 2015 è di circa 4 milioni. Con l’esternalizzazione il risparmio era dell’ordine di 3-4 milioni di euro. Se la loro proposta alternativa ha uguale risparmio è fatta».
Intanto hanno già detto che faranno una moratoria sugli scioperi. Si parla di preavviso di due settimane per l’astensione dal lavoro, di obbligo che sia sottoscritto dalla maggioranza delle sigle sindacali... Una rivoluzione nelle relazioni aziendali.
«Lo considero un punto qualificante, ma va formalizzato».
Altro punto: rimettere mano ai contratti?
«Il contratto nazionale non sarà toccato. Andranno discusse invece le indennità di quello aziendale».
Le tanto discusse indennità. Gli orchestrali dicono che sono poca roba.
«Ma pesano. Il costo del personale dipendente incide rispetto al valore della produzione per il 76%. Alla Scala siamo sul 57%, alla Fenice al 56%. Vanno ridiscusse le indennità di Caracalla che spetta a tutto il teatro, amministrativi compresi che ovviamente a Caracalla non suonano; l’indennità sinfonica per cui se orchestra e coro si esibiscono in un repertorio che non è operistico hanno il cento per cento di paga in più. Fino al premio di risultato»
Cos’è?
«Un premio che nel 2008 il sovrintendente di allora slegò dall’equilibrio di bilancio, tanto che lo scorso marzo la fondazione con 11 milioni di perdite ha dovuto dare un milione e 900 mila euro ai lavoratori. E poi c’è la questione produttività. Indispensabile, per aumentare l’autofinanzamento. Oggi l’Opera di Roma si autofinanzia per il 17%. La Scala per il 56%. Ma i teatri virtuosi superano ampiamente il 30%».
La produttività però non dipende dai lavoratori. È una decisione gestionale.
«E infatti nel 2015 abbiamo previsto 25 recite in più con aumento rispetto all’anno precedente di quasi il 30 per cento passando da 89 recite a 114 al Costanzi. Il 40% in più rispetto al 2013».
Fin qui sembra che il risanamento lo paghino solo i lavoratori.
«Il costo del lavoro negli ultimi anni ha acquistato un peso eccessivo. In un teatro sano deve essere tra il 50 e 60% del valore produttivo, per aumentare risorse per le produzioni. Una gestione sana è l’unica strada per consentire un futuro ai lavoratori stessi».
Cos’è il suo “job act”?
«È un parallelo del tutto estraneo, fatto per la contemporaneità del momento forse. Potrei risponderle che la moratoria sugli scioperi l’hanno fatta i sindacati, ma invece le dico che nel settore culturale c’è stata molta ipocrisia nelle scelte negli anni passati. Prendere decisioni gestionali indispensabili in questo settore è sempre stato complicato».
Lei parla di conti, poco di qualità. Qual è il suo obiettivo rispetto al Teatro dell’Opera?
«Arrivare il 27 all’apertura di stagione e al debutto di Rusalka con un esito positivo: il ritiro dei licenziamenti. L’obiettivo finale è fare dell’Opera un teatro normale come qualsiasi grande teatro di città europea: concentrato sulle produzioni, non su come rientrare dal rosso di bilancio. Un teatro dove un cittadino venga la sera per assistere a spettacoli di altissimo livello culturale. E mi auguro un teatro dove si possa sperare nel ritorno del maestro Muti».

La Stampa 7.11.14
Opera Roma, possibile ritiro dei licenziamenti “Solo se si troverà un accordo sul contratto”
Aperture da parte del sindacato per evitare l’esternalizzazione di orchestra e coro

qui

La Stampa 7.11.14
L’Opera si riprende gli orchestrali cacciati
L’apertura dopo il licenziamento dei 182 artisti: “Ma basta far finta che il buco nei conti non esista”
di Flavia Amabile


Il licenziamento dei 182 artisti di orchestra e coro del Teatro dell’Opera di Roma potrebbe essere presto ritirato. Era stato chiaro dal giorno dopo l’annuncio della esternalizzazione che in realtà la partita era ancora aperta e che c’erano i margini per trattare.
Ieri il sovrintendente del Teatro Carlo Fuortes ha partecipato per la prima volta in un mese all’incontro con i sindacati, e già questa è una notizia. Alla fine della riunione, il Teatro ha annunciato la propria disponibilità ufficiale a sottoscrivere un accordo per evitare il licenziamento. Una disponibilità che - sottolinea il Teatro - è stata «nuovamente confermata» e, comunque, solo se ci sarà da parte dei sindacati «una proposta che risolva interamente i gravissimi problemi economici ed organizzativi». «Fuortes è stato costretto a presentarsi all’incontro - risponde Lorella Pieralli della Fials-Cisal - perché dopo cinque incontri senza di lui un’altra assenza sarebbe stata poco capita». La discussione è stata molto serrata ma i sindacati - sette sigle ora unite dopo essere state a lungo divise in passato - hanno chiesto come condizione per aprire una trattativa il ritiro dei licenziamenti e la rinuncia ad esternalizzare orchestra e coro. In cambio hanno accettato di parlare di costi in modo da compensare il buco nei conti di 3,4 milioni e anche di assicurare in futuro maggiore produttività da parte degli artisti. La nuova forma contrattuale in vista potrebbe essere il contratto aziendale o di secondo livello. La trattativa proseguirà lunedì 10, lo stesso giorno di una manifestazione indetta dai 14 enti lirici italiani.
Fuortes attribuisce il buco di quasi tre milioni e mezzo di euro ai sindacati. Ma i sindacati ieri respingono l’accusa: «E’ colpa della gestione dell’Opera di Roma che non sa portare la gente in teatro. In ogni caso i sindacati intendono verificare questo buco», denuncia Lorella Pieralli.
Altra accusa da parte di Fuortes e dei vertici del Teatro è la fuga degli sponsor a causa degli scioperi che hanno cancellato, o comunque menomato, la «Boheme» a Caracalla lo scorso luglio provocando un danno enorme economico e di immagine all’amministrazione. «Nessuno sa quali siano questi sponsor - risponde la sindacalista - Del resto anche Musica per Roma di cui lui è amministratore delegato ha perso sponsor senza che ci siano stati scioperi. Come mai? La cosa certa è che il sovrintendente nel 2014 ha prodotto un buco di bilancio che i lavoratori non intendono pagare di tasca propria».
I sindacati si impegnano ora a mantenere un livello di produttività molto alto ma per farlo - sottolinea Lorella Pieralli - «bisogna aprire il palcoscenico del Nazionale che attualmente è sotto la polvere, incrementare l’attività di Caracalla e del Costanzi attraverso la scelta di allestimenti leggeri e rotabili mentre adesso abbiamo spettacoli che una volta montati paralizzano il teatro per mesi interi. La novità di oggi è che si rientra nella legge Bray che non prevede licenziamenti ma un controllo dei costi poliziesco che il sindacato attuerà».

il Fatto 7.11.14
Spiragli per l’Opera Roma
di Caterina Minnucci


Se si trovano le soluzioni economiche, ovviamente è possibile ritirare i licenziamenti”, lo ha dichiarato Carlo Fuortes, sovrintendente del Teatro dell'Opera di Roma, subito dopo la conclusione dell’incontro con i sindacati e il Cda. I vertici riuniti in Campidoglio ieri hanno reso noto che con la legge Bray sulle fondazioni liriche sono stati messi a disposizione dell'Opera 25 milioni per il risanamento. Sono 182 i lavoratori di orchestra e coro del Teatro dell'Opera di Roma sottoposti alla procedura di licenziamento collettivo dal Cda della fondazione il 2 ottobre scorso a causa del disastroso deficit di bilancio. Li abbiamo ascoltati lo scorso 25 ottobre sul palco della Cgil in piazza San Giovanni eseguire, con le lacrime agli occhi dalla commozione, Nessun Dorma dalla Turandot di Giacomo Puccini, salutati sulle note del verso “all’alba vincerò” dall’applauso delle migliaia di manifestanti presenti. Adesso per loro si apre uno spiraglio. Le sigle sindacali si dicono soddisfatte dei risultati ottenuti, seppure non siano ancora giunte ad una proposta unitaria per il ritiro dei licenziamenti da portare al Cda del 23 novembre.

Corriere 7.11.14
Le 8 multe non pagate da Marino per l’ingresso nel centro storico
Nuovo caso sulla Panda del sindaco. Sanzioni bloccate da ricorsi fantasma


ROMA Ignazio Marino è un sindaco «ciclista», che ama girare con la sua adorata bici. Anche perché, vivendo in centro, se lo può permettere: da casa sua dietro al Pantheon all’ufficio di palazzo Senatorio sono pochi metri, tutti pianeggianti.
Marino, però, possiede anche una macchina, una Panda rossa, che finora gli ha creato parecchi grattacapi. Prima la storia del parcheggio davanti a palazzo Madama, nei posti riservati ai senatori, ottenuto facendo leva su alcuni atti vandalici e su alcune minacce che lui e i suoi familiari avrebbero subito. A distanza di un anno e mezzo dalla sua elezione a sindaco, però, l’auto era ancora lì ed è stata spostata solo dopo la raccolta di firme di trenta senatori di tutti i partiti (escluso il Pd).
Ora salta fuori il «giallo» delle multe non pagate, per essere entrato nella Ztl (la zona a traffico limitato che «chiude» il centro) con un pass scaduto. Vicenda che è oggetto di un’interrogazione parlamentare firmata da Andrea Augello, senatore Ncd. Risulta, infatti, che il sindaco, con la sua Panda, abbia preso otto multe ai varchi elettronici della Ztl perché, per due mesi, il suo permesso non era valido. Il periodo temporale va dal 23 giugno al 21 agosto 2014, quello che passa tra la scadenza del vecchio contrassegno e l’inizio di validità del nuovo. Infrazioni, codice alla mano, da 80 euro ciascuna, per un totale di 640 euro complessivi, più notifiche e interessi. Le contravvenzioni, dai tabulati del Dipartimento «Risorse economiche» dove sono registrate tutte le infrazioni commesse da Ignazio Roberto Maria Marino, nato a Genova il 10 marzo ‘55, risultano non pagate.
La «legenda» è chiara: due multe (3 maggio ‘13 e il 24 gennaio ‘14) sono pagate, otto — del 26 e 28 giugno, il 3, 4, 11, 21 e due il 25 luglio — no. Queste otto sono accompagnate da relativo numero di atto e sigla di accertamento. Ma, su queste, è inserito il codice che si usa se un cittadino fa ricorso al prefetto o al Giudice di pace. Ma qui scatta il primo «giallo». Un sindaco, secondo il Tuel (Testo unico enti locali), non può avere una «lite pendente» col Comune che guida, pena la sua decadenza.
Cosa è successo? Augello, nell’interrogazione, ipotizza: «Evidentemente le contravvenzioni sono state bloccate d’ufficio dall’amministrazione comunale, sanando i due mesi di mancato rinnovo del permesso come se si trattasse di un errore del Comune e non di una ritardata richiesta del titolo del beneficiario». Ad un qualsiasi romano, in un caso del genere, non restano che due strade: pagare o fare ricorso. Marino, che con la sua giunta ha quintuplicato il prezzo dei pass per il centro (costavano 550 euro, sono schizzati a oltre 2 mila), non fa né una cosa né l’altra. Ma si fa fare una lettera da un dirigente del Dipartimento, secondo la quale la macchina del sindaco era — dal 25 giugno 2014 — in una sorta di «lista bianca», che scatterebbe «in automatico, per qualsiasi cittadino», subito dopo il mancato rinnovo. Le multe, secondo il Campidoglio, non sarebbero «mai state notificate» e la dicitura del ricorso «è solo l’attivazione del meccanismo di autotutela da parte dell’amministrazione».
Ricostruzione complessa, che «sbatte» con la realtà: nella «lista bianca» si entra solo alla richiesta del nuovo pass, a quel punto la targa viene «riconosciuta» dal varco elettronico e nei tabulati la multa non figura proprio. Se Marino è in «lista» dal 25 giugno, le sanzioni al varco non dovrebbero esserci. Ancora: se ci fosse l’autotutela, le multe sarebbero cancellate. A meno che non siano stati i vigili urbani a toglierle. Terzo: se le multe non sono mai state notificate, come può scattare la tutela?
Domande alle quali se ne aggiunge un’altra. Risulta che, prima di diventare sindaco, Marino abbia fatto una trentina di ricorsi per altre contravvenzioni. E, quando è diventato sindaco, ha firmato la dichiarazioni di «non avere liti pendenti» con il Comune.
Quei ricorsi erano tutti risolti?

il Fatto 7.11.14
Tutti per uno
Web fantozziano: è un bel Farinetti
di Daniela Ranieri

Negli anni 70 i deserti d’America si riempirono di comunità di fulminati, sul modello di quella del Reverendo Jones, dedite al proselitismo e alla coltivazione della terra. Oggi sette e religioni scismatiche abitano il suolo immateriale della Rete: siccome i matti stanno dappertutto ma spesso soffrono l’isolamento della società ingrata, Internet offre loro rifugio e visibilità: ecco allora su Facebook i gruppi dei fissati delle Harley-Davidson, di quelli che aspettano gli alieni, dei fan di Pupo, dei geniali Pastafariani, che girano con uno scolapasta in testa e si oppongono all’insegnamento del creazionismo nelle scuole.
Sotto questa specie rientrerebbe il gruppo “Io sto con Oscar Farinetti”, variante tarata sul guru dell’enogastronomia di quegli innumerevoli “Io sto con”, di volta in volta l’Orsa Daniza, Magdi Cristiano Allam, i due marò, Putin, Silvio, Matteo Renzi (e chi non), l’Ebola, e persino Gianfranco Fini.
E, in effetti, se non si dà solidarietà a un milionario in euro, non si vede a chi darla. A oggi 882 persone stanno con Farinetti (ancora lontani i 6 mila “Mi piace” della pagina Forza Dudù), e il gruppo, nato il 24 ottobre, sarebbe riassorbibile nel rumore di Internet; se non che, e la pulce nell’orecchio ce l’ha messa proprio Farinetti dicendo a Piazza Pulita “andate a leggere i commenti sul nostro Facebook”, è suo malgrado un selfie attualissimo dei nuovi rapporti di produzione. La presentazione recita: “La grande famiglia EATALY perché Eataly ci fa crescere da un futuro sereno alle nostre famiglie siamo felici di stare in Eataly... NOI SIAMO EATALY”.
“Noi” sono dipendenti, camerieri, cuochi, magazzinieri dei negozi Eataly d’Italia, a tal punto identificati col marchio da muovere uniti nella missione di neutralizzare i “gufi” che hanno scioperato (“solo due”, sostiene Oscar) per turni massacranti, salari da fame e contratti precari, non graditi sebbene siano fatti secondo la moda del momento.
Sotto foto di pause-pranzo spiritosissime, compleanni festeggiati al lavoro, scherzi spassosi con carote e peperoni (“Scusate se noi a Eataly, quando lavoriamo ci divertiamo... scusate tanto davvero”, scrive un subordinato), è tutto un traboccare di “Forza Oscar” e “daje Presidente” e amore per il brand.
Che qualche potere lo deve pure avere, se dipendenti e consumatori lottano insieme per la reputazione del Capo contro i nemici: “i giornali”, la trasmissione La Gabbia e, chissà perché, Stefano Fassina. “Non lavoro per eataly, ma se in Italia avessimo 10 oscar farinetti questo paese sarebbe un modello da seguire nel mondo”, dice Giacomo; e Valentina: “Io sto con i professionisti, sto con chi ha tanto da insegnare, con chi cambia il mondo e non si lamenta inutilmente. Io sto con Oscar Farinetti”.
TRA LE RIGHE spira una chiara sindrome da accerchiamento: “RAGAZZI CALMA CON I TONI NON ESAGERIAMO SE CI ATTACCANO CERCHIAMO DI STARE SERENI”, scrive l’amministratore del gruppo, stacanovista in un ristorante Eataly; sindrome che raggiunge il diapason il 30 ottobre, quando un ex dipendente aggredisce un cuoco nel negozio Eataly di Roma: “È vergognoso quello che è accaduto oggi”, “L'importante che stiano bene e che venga fatta giustizia! ”. L’amore per Oscar, che è rimasto illeso dalla colluttazione perché assente, tocca un’apoteosi da apparizione della Madonna a Medjugorje: “Questa è un altra testimonianza che i giornali non scrivono la verità! ”.
Oscar, che sta con Renzi, va alla Leopolda perché “non è un luogo di lamentele” e ha “un progetto straordinario: alziamo il culo dalla sedia e andiamo a narrare il nostro primato nel mondo”, è adorato come il Megadirettore galattico di Fantozzi: “Incontrare il tuo Capo e sentirgli dire che è orgoglioso dei suoi ragazzi non ha prezzo! ”. È molto umano, e un bel presidente.
Se il dominio si trasmette attraverso i dominati, come da libello di monsieur de La Boétie sulla servitù volontaria, Ilaria dichiara: “Io da Eatalyana penso che non ci sia cosa piu bella che svegliarsi la mattina con la voglia di andare a lavorare xke svolge qualcosa che gli piace fare”. Forse pure di più di quegli operai della Fiat di Melfi che ballarono sulle note di Happy, lei ama il suo lavoro, il suo stipendio, il suo padrone, ma guai a chiamarlo così, ha detto Renzi in qualità di Lorenzo il Magnifico di questo Pico della Mirandola della trafilatura al bronzo. Ma è una certa Tiziana a dire la cosa definitiva, e meglio non avrebbero saputo Bauman, Chomsky e iek messi insieme: “a pensarci bene... qual è il vantaggio oggi di un lavoratore ad essere ‘assunto’... per le garanzie? per la certezza?? per la pensione??? chi crede ancora a queste chimere a mio avviso vive in un altra era” Già. E qui a te, pure se non ti frega niente di Farinetti in sé, ti viene voglia da scrivere sulla bacheca del gruppo, come Fantozzi in cielo, “il Megapresidente è uno stronzo! ”.

Il Sole 7.11.14
Gli errori tedeschi
Che cosa vuole fare la Germania?
di Vincenzo Visco


«Per due volte, nel XX secolo, la Germania con mezzi militari ha distrutto se stessa e l'ordine europeo. Poi ha convinto l'Occidente di averne tratto le giuste lezioni: solo abbracciando l'integrazione europea, abbiamo conquistato il consenso alla nostra riunificazione».
«Sarebbe una tragica ironia se la Germania unita, con mezzi pacifici e le migliori intenzioni, causasse la distruzione dell'ordine europeo una terza volta. Eppure il rischio è questo». Questa citazione è tratta da un'intervista al Corriere della Sera di Joschka Fisher, leader dei Verdi, ex ministro degli Esteri della Germania Federale, del 26 maggio 2012, oltre due anni fa, quando era già chiaro come la politica seguita dal governo tedesco e imposta agli altri Paesi dell'Ue, mentre risultava vantaggiosa per la Germania, danneggiava i Paesi più deboli e poteva portare alla disintegrazione dell'euro.
Il fatto che le scelte fondamentali a partire dal 2010 siano state in conflitto con la logica di funzionamento di un'area economica a moneta unica è acquisito. Si tratta di una serie impressionante di errori nella gestione della crisi. Si va dalla decisione imposta dalla signora Merkel secondo cui eventuali crisi bancarie nella zona euro dovessero essere affrontate non dall'Ue bensì singolarmente da ogni singolo Paese, all'accordo di Deauville tra Merkel e un forse inconsapevole Sarkozy, in base al quale si stabilì il principio del cosiddetto Private Sector Involvement, secondo cui ogni assistenza a Paesi con problemi di liquidità (anche se non insolventi) avrebbe dovuto comportare un costo per gli investitori privati. La conseguenza inevitabile di queste decisioni fu la disarticolazione della zona dell'euro, con la divaricazione dei tassi di interesse e il trasferimento degli effetti della crisi finanziaria globale nelle finanze pubbliche dei singoli Paesi. Al tempo stesso, però, l'afflusso dei capitali verso i Paesi europei percepiti come "forti", Germania in testa, riduceva i tassi di interesse in quei Paesi e creava condizioni di finanziamento per i debiti pubblici e i prestiti privati straordinarie e convenienti. A scapito dei Paesi che subivano gli effetti del flight to quality e l'aumento dei tassi di interesse. Inoltre mentre in questi Paesi si produceva una crisi di liquidità e una restrizione creditizia, nulla di tutto questo avveniva nei Paesi core dell'Unione che potevano continuare a crescere accumulando surplus commerciali impressionanti.
Non diversamente andò la vicenda della crisi Greca: invece di intervenire tempestivamente a circoscrivere il fenomeno nel 2010 quando un salvataggio avrebbe comportato un onere trascurabile per l'Unione, si preferì attendere (nonostante l'avviso contrario del Fmi) fino a quando le banche tedesche e francesi non riuscirono a liberarsi del debito greco da esse detenuto. Ancora una volta interessi nazionali e ristretti avevano la meglio rispetto ad una gestione corretta ed equilibrata di una crisi che coinvolgeva sia pure in modo diverso tutti i Paesi.
Una volta creata la crisi dell'euro che con una gestione responsabile e consapevole si sarebbe facilmente evitata, sempre il Governo tedesco, vedendone i risultati, peraltro del tutto scontati, di aumento dei debiti e dei disavanzi pubblici, imponeva a tutto il continente politiche di austerità indiscriminate ed economicamente insensate in quanto si scambiavano le cause della crisi con i suoi effetti, e una crisi da deflazione del debito con una crisi delle finanze pubbliche. Al tempo stesso si imponevano alla Bce politiche restrittive nonostante la grave crisi di liquidità della zona euro, l'opposto di quanto fatto negli Usa nel Regno Unito e in Giappone e di quanto era necessario, e si frenava, rinviava e limitava l'attuazione dell'Unione bancaria sia per proteggere le banche territoriali e le casse di risparmio tedesche sia per eliminare, nei confronti di un'opinione pubblica sempre più radicalizzata, anche il mero sospetto di un possibile, ancorché solo potenziale, trasferimento di risorse dalla Germania verso gli altri Paesi dell'Unione.
Gli effetti economici, politici e sociali di questo modo di procedere sono ormai evidenti, e pericolosissimi; la previsione pessimista di Fischer sembra sempre più realistica e prossima a realizzarsi.
I problema quindi è il seguente: cosa vuole fare la Germania dell'Europa? È ancora convinta che il progetto che implica cooperazione, solidarietà e pari dignità tra i Paesi meriti di andare avanti? E a quali condizioni? Sono sufficienti le riforme già realizzate o in cantiere nei diversi Paesi? Le prese di posizione di numerosi e importanti esponenti dell'estabilishment tedesco sembrano piuttosto orientate verso una politica di disimpegno dall'euro e dal progetto europeo e influenzate da un neonazionalismo e un'idea di autosufficienza preoccupanti. Al tempo stesso in molti paesi europei monta l'insofferenza nei confronti di un'Europa a guida tedesca e montano i sospetti nei confronti di un vicino ingombrante e sempre più percepito come aggressivo e pericoloso. Non si può non essere preoccupati di tutto questo, e sarebbe opportuno un chiarimento politico serio nel merito. Quando poi si sentono le affermazioni di Barroso e di Schäuble secondo cui la cura starebbe funzionando viene da sorridere, in quanto in realtà il paziente ha rischiato e rischia di morire. Ma nessuno ha ritenuto di dover replicare.
L'Italia, approfittando anche della presidenza di turno della Unione, avrebbe potuto provare a porre la questione politica ed economica nella sua interezza, in modo organico e documentato. Ha invece preferito cercare qualche margine di flessibilità immediatamente contrastato e ridimensionato dalla Commissione. Il problema è che senza una svolta vera che può derivare solo da un dibattito esplicito, l'Europa non potrà sopravvivere, non solo per motivi economici , ma soprattutto perché a livello politico rischia di farsi sempre più strada presso le opinioni pubbliche di numerosi Paesi, l'illusione di scorciatoie regressive.

Repubblica 7.11.14
Ma Jian
“Caro Barack, a Pechino parla di diritti umani La libertà conta più degli affari con i cinesi”
Lo sfogo dello scrittore alla vigilia del viaggio del capo della Casa Bianca:
“L’Occidente ha le mani legate di fronte allo strapotere economico del dragone
Ma dovrebbe alzare la voce per far liberare Liu Xiaobo”
di Enrico Franceschini


LONDRA «Barack Obama dovrebbe approfittare della visita a Pechino per denunciare le violazioni dei diritti umani in Cina. L’Occidente dovrebbe chiedere a gran voce il rilascio di Liu Xiaobo e degli altri dissidenti». L’auspicio di Ma Jian, lo scrittore cinese da anni in esilio a Londra, è solo un pio desiderio e lui per primo lo sa: «Purtroppo né Obama né l’Occidente faranno qualcosa del genere, perché la potenza economica di Pechino è un ricatto che induce tutti i suoi interlocutori al silenzio ». Ma l’autore di Tira fuori la lingua, Spaghetti cinesi e Pechino in coma, i romanzi (tutti usciti in Italia con Feltrinelli, che a marzo pubblicherà il suo nuovo libro, La via oscura) che lo hanno fatto mettere al bando in patria e costretto a emigrare per non finire anche lui in prigione, mantiene un cauto ottimismo a lungo termine: «Anche la Cina conoscerà la democrazia, solo con un po’ di ritardo», dice ironicamente in questa intervista, concessa a Repubblica alla vigilia del viaggio a Pechino (che inizia domenica) del presidente americano, in cui potrebbe essere discussa la sorte di Liu Xiaobo, lo scrittore condannato a 11 anni di carcere nel 2009 per “sovversione” e insignito l’anno seguente del premio Nobel per la pace per il suo impegno a tutela dei diritti umani in Cina.
Liu Xiaobo è tenuto prigioniero dalla Cina come un sepolto vivo: nessun contatto con l’esterno, neanche con il suo avvocato, non ha nemmeno il permesso di scrivere. Le pare che questo muro di silenzio abbia contribuito a farlo dimenticare dall’Occidente?
«Il muro del silenzio non è provocato dalle misure contro Liu Xiaobo, o almeno non solo da quello, bensì in primo luogo dalla strapotere economico della Cina. L’Occidente ha le mani legate nei confronti di questo colosso dell’economia globale. Pur di fare affari con Pechino, la comunità internazionale rinuncia ai propri principi etici».
Tra pochi giorni Obama sarà in Cina. Pensa che parlerà pubblicamente di Liu o che almeno farà pressioni privatamente sul presidente Xi Jinping per ottenerne il rilascio?
«Non credo che lo farà. Obama vive nell’epoca dell’economia integrata e globalizzata. Sa bene che termini come diritti umani, democrazia, valori universali, equivalgono a brutte parole in Cina e dunque, in nome dei propri interessi economici, eviterà di parlare di diritti umani».
Ma cosa pensa che dovrebbe fare l’Occidente davanti la nuova superpotenza della terra?
«Dovrebbe accettare la sfida, senza nascondersi, denunciando Pechino e chiedendo il rilascio dei dissidenti come Liu. Invece, investendo in Cina, ha contribuito al boom dell’economia cinese. Se il Partito comunista cinese, uscito male dalla strage di piazza Tiananmen nel 1989, ha recuperato fiducia, è in buona parte merito dell’Occidente. Dunque non mi aspetto molto dai paesi occidentali ».
Crede che libertà economiche possano spingere gradualmente la Cina verso le libertà politiche?
«È da escludere che accada sotto il governo del presidente Xi Jingping, che si ispira piuttosto al modello autocratico di Putin in Russia e di Singapore ».
Liu Xiaobo disse una volta che la cosa migliore per la democratizzazione della Cina sarebbero stati “300 anni di colonialismo occidentale”. In quale altro modo l’Occidente può esportare i propri ideali democratici in Cina? Forse con una “colonizzazione” culturale, attraverso cinema, musica, letteratura?
«Chiunque sogna una vita libera. Ci arriveranno anche i cinesi, ma con un po’ di ritardo. Chi è stato per tanto tempo sotto un regime totalitario non può capire immediatamente cosa sia la democrazia. L’attuale sistema monopartitico è diverso dalla dittatura maoista ed è ciò che meglio corrisponde alle esigenze dei cinesi di oggi: ripudiare libertà e democrazia in cambio del benessere. La maggior parte dei cinesi non ha interesse per le libertà politiche, è interessata solo ai soldi. Penso quindi che, più di una colonizzazione culturale, l’Occidente dovrebbe fare percepire ai cinesi la propria fede nelle libertà individuali. Ma ha timore a farlo, per non urtare la suscettibilità di Pechino».
Cosa provò quando Liu Xiabo ricevette il Nobel per la pace? Si aspettava quello che sarebbe poi successo? Immaginava che anche la moglie del dissidente venisse di fatto arrestata e tenuta come prigioniera in ospedale?
«Ho conosciuto Liu nel 1989. Fui molto felice per il Nobel, avevo timori per le conseguenze ma non mi aspettavo un trattamento così severo nei suoi confronti. Dopo la sua condanna, né sua moglie Liu Xia né io siamo più riusciti a raggiungerlo telefonicamente Liu Xia, segregata in casa propria, soffre ancora di più di lui. So che fuma e beve pesantemente, potrebbe crollare prima di lui. Sebbene le prigioni della Cina non siano come quella in cui era rinchiuso Mandela in Sud Africa. I dissidenti che sono stati rilasciati sono usciti profondamente segnati. È raro che poi dicano ancora quello che pensano. Xiaobo sarà più fortunato? Non lo so. Se e quando uscirà di prigione, potrebbe essersi spento anche lui».
E lei? Ha timori per se stesso? Le manca la Cina? Vorrebbe tornarci?
«Il mio sogno sarebbe di annientare almeno l’inquisizione contro la letteratura, magari non ce la farò ma farò del mio meglio per contrastarla e onorare il mio mestiere di scrittore. I miei familiari rimasti in Cina non capiscono, del resto sono sottomessi al partito e tenuti come in ostaggio. Sì, mi manca il mio Paese, mi piacerebbe tornare nella mia Qingdao di quando ero piccolo. Ma forse ci arriverò soltanto dentro un’urna cineraria». (ha collaborato Silvia Pozzi)

Repubblica 7.11.14
Diario di un democratico nell’America delusa da Obama
di Aexander Stille


FORSE avrei dovuto capire che i democratici andavano verso un disastro elettorale quando un mio amico, un elettore di sinistra, mi ha chiesto due o tre mesi fa: «Obama ti ha deluso?. Ricordo l’euforia, le grandi speranze per l’elezione del 2008, le promesse sui grandi temi — rovesciare la crescente disuguaglianza nel Paese, creare una società post-razziale, sviluppare l’energia verde, garantire un’assicurazione sanitaria per tutti, riformare la legge sull’immigrazione. Quello che abbiamo ottenuto sembra così poco...».
«Dipende da come la vedi», gli ho risposto. «Se consideri dov’era il paese alla fine dell’amministrazione Bush, Obama non ha governato male: siamo usciti da una terribile recessione, non ci siamo invischiati in un’altra inutile guerra e adesso più di dieci milioni di persone hanno un’assicurazione sanitaria che prima non avevano. Ma è chiaro che, se usi come metro di valutazione le speranze che erano state riposte in Obama, chiaramente il giudizio è deludente».
Sembrerebbe, a giudicare dalla sconfitta subita da tanti candidati democratici, che il sentimento di delusione abbia prevalso sullo spirito pragmatico del meno peggio. Le possibilità di vittoria per molti senatori ed esponenti democratici sono diminuite proporzionalmente con il gradimento del presidente, calato recentemente sotto il 40 per cento, circa 30 punti in meno di quel 69 per cento che aveva al momento del giuramento nel gennaio del 2009.
All’opinione pubblica piacciono ancora meno i repubblicani al Congresso — hanno un consenso inferiore al 20 per cento — dal momento che hanno dedicato tutti i loro sforzi a rendere il paese ingovernabile. Ma il loro calcolo cinico ha funzionato: in una elezione nazionale quando l’elettorato è scontento è il presidente insieme con il suo partito a pagarne il prezzo. Secondo gli exit poll , circa il 60 per cento degli elettori andati alle urne martedì pensano che il paese sta andando «nella direzione sbagliata». E questo è un campanello d’allarme per il partito che è al governo.
«Ha perso molta della sua base elettorale perché ha promesso tutto e ha fatto troppo poco», ha commentato Charles Lipson, professore di scienze politiche all’Università di Chicago, intervistato dal quotidiano conservatore The Washington Times. «Ci sono molte ragioni per essere delusi», ha sottolineato.
Il rischio serio per i democratici — nel 2016 e non solo ora — è che la nuova maggioranza progressista risultata vincente con Obama nel 2008 e nel 2012 rischia di sgretolarsi. I democratici sono stati sconfitti in posti come il Colorado e la North Carolina — e hanno quasi perso in Virginia, nonostante un candidato estremamente popolare — tutti Stati tradizionalmente repubblicani che, nelle due ultime elezioni presidenziali, erano passati sul fronte opposto.
I cambiamenti demografici negli Stati Uniti sembravano promettere un futuro dorato per i democratici. La crescente popolazione ispanica, che ormai ha superato quella dei neri come principale minoranza in America, si era orientato sempre di più verso il partito dell’Asinello, in opposizione alle politiche dei repubblicani, troppo ostili sui temi dell’immigrazione. E la nuova generazione di giovani — quelli cresciuti nel mondo della rete — era decisamente obamiana. Ma con queste elezioni di midterm il vento sembra essere decisamente cambiato.
Secondo un sondaggio dell’Istituto di politica della Harvard University, gli elettori tra 18 e 29 anni hanno preferito i repubblicani ai democratici 51 al 47 per cento: un ribaltamento totale rispetto al 2010, quando i democratici godevano di un vantaggio di dieci punti. «È tutto falsato, Obama non ha fatto quello che aveva promesso ma i repubblicani non sono meglio» era il commento di uno studente dell’università statale di New York a un giornale dell’ateneo, confermando di non aver alcuna intenzione di andare a votare.
La delusione degli ispanici è ancora più inquietante. La percentuale di chi si identifica con il partito democratico è scesa dal 70 al 63 per cento, nonostante il fatto che il partito repubblicano si sia dichiarato contrario in modo netto alla riforma dell’immigrazione. Dieci anni fa, molti leader repubblicani — tra i quali il presidente Bush — si sono dimostrati moderatamente aperti all’idea di concedere la cittadinanza ai circa 11 milioni di immigrati entrati illegalmente negli Stati Uniti dove, però, ormai vivono e lavorano da molti anni. Ma negli ultimi sei anni, hanno sempre più socchiuso quella porta, fino a chiuderla del tutto.
Per adesso, comunque, a rimetterci è Obama. In campagna elettorale, durante un incontro pubblico, il presidente è stato contestato da una donna che gli ha rimproverato di non aver condotto in porto l’annunciata riforma dell’immigrazione. Dimostrando un certo grado di frustrazione, Obama ha risposto: «Questa signora dovrebbe contestare i repubblicani perché sono loro a bloccare la riforma che stiamo promuovendo al Congresso».
Se permane questo senso di disillusione, i problemi per i democratici potrebbero diventare seri. I repubblicani appaiono davvero molto motivati a riprendersi il potere mentre gli elettori democratici sembrano decisamente sfiduciati. «Non c’era quasi nessuno quando sono andata a votare», mi dice un’amica, «e quando sono uscita dalle urne ho incontrato una conoscente. “Sei andata a votare?”, le ho chiesto. “No”, mi ha risposto, “sono venuta in un centro estetico a farmi una pedicure”».
La partecipazione al voto di martedì è stata solo del 36 per cento, la più bassa da oltre 70 anni. I repubblicani hanno trovato una formula vincente: non far funzionare il governo in modo da generare il cinismo e l’insoddisfazione che simultaneamente fa aumentare l’astensionismo e promuove una visione neoliberista del mondo. Grazie a certe recenti decisioni della Corte Suprema (a maggioranza repubblicana) sono caduti quasi tutti i limiti al finanziamento privato alla politica. La voce dei ricchi è sempre più forte. E questo fa apparire inutile il voto del cittadino qualunque.ì

il Fatto 7.11.14
Pedofilia

Londra trema, ecco il “Dossier Dickens”
di Caterina Soffici


IL RAPPORTO CONTIENE 16 NOMI FRA PARLAMENTARI, FUNZIONARI DI POLIZIA, PRESIDI DI SCUOLE ED ESPONENTI DEL CLERO INVISCHIATI IN FESTINI A LUCI ROSSE

Londra La lista dei nomi di pedofili che fa tremare la politica britannica potrebbe venire alla luce nei prossimi giorni. Si tratta del cosiddetto “Dickens Dossier”, che si dice sia conservato in un archivio classificato nella Biblioteca Bodleiana, all’Università di Oxford e che conterrebbe i nomi di 16 parlamentari, funzionari di polizia, presidi di scuole ed esponenti del clero. Secondo quanto riporta il quotidiano britannico The Independent, i file segreti potrebbero essere ora resi pubblici, nell’ambito dell’inchiesta governativa sullo scandalo dei pedofili.
UNA BOMBA pronta a scoppiare sotto Westminster. Nel caso dell’altro grande scandalo, quello del conduttore televisivo e dj Jimmy Savile che ha abusato indisturbato per anni di centinaia di bambini, sono saltate teste di direttori alla Bbc, ma la politica è stata solo sfiorata da piccoli schizzi di fango. Questo potrebbe essere un vero terremoto, di cui nessuno è in grado di valutare l’entità. Si tratta di un dossier a cui si dà la caccia da trent’anni. Una sorta di araba fenice (“che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”), misteriosamente scomparso nel 1984. La lista dei sospetti pedofili a Westminster, tra cui ci sarebbero anche nomi di ex ministri, sarebbe stata consegnata all’allora ministro dell’Interno Lord Brittan da un parlamentare conservatore, Geoffrey Dickens. Dickens è morto nel 1995 e il dossier è scomparso.
Lord Brittan dice di averlo dato ai suoi funzionari del ministero. Di fatto non si è più trovato. Ma la ex baronessa del Partito laburista Barbara Castle ne aveva una copia e l’aveva data al direttore del Bury Messanger, il giornale locale delle sua circoscrizione elettorale, perché ne scrivesse. E qui il mistero si infittisce, perché il giornalista ha raccontato che i servizi segreti sono piombati nel suo ufficio e hanno sequestrato il dossier, minacciando di arrestarlo se non l’avesse consegnato.
ORA QUESTA COPIA o un’altra, risbuca alla Biblioteca Bodleiana, dove è conservato l’archivio di Barbara Castle, coperta da segreto di stato. La Bodleiana, “The Bod”, come la chiamano gli studenti di Oxford è un luogo mitico, una delle biblioteche pubbliche più antiche del mondo, seicento anni di storia, dove viene conservata una copia di ogni opera pubblicata nel Regno Unito.
Nella vicenda c’è materiale per un thriller storico alla Umberto Eco con pennellate di spy story alla Dan Brown. Ma l’intrigo non finisce qui. La settimana scorsa si è dimessa senza un chiaro motivo Fiona Woolf, la responsabile della commissione d’inchiesta voluta da Cameron per indagare sul dossier scomparso (è il secondo capo che salta in un anno).
Della lista ha parlato anche Peter McKelvie, ex dirigente di un’associazione per i diritti dell’infanzia, che ha indagato per 20 anni sulle relazioni pedofile di politici di spicco.
Grazie alle sue rivelazioni Scotland Yard aveva scoperto che in un pensionato di Londra, la Elm Guest House, parlamentari, politici e funzionari organizzavano festini a sfondo sessuale con la partecipazione di bambini. Una casa degli orrori sulla quale non si è ancora fatto chiarezza fino in fondo e che secondo la stampa britannica è strettamente collegata con il “Dickens Dossier”.

Repubblica 7.11.14
“Così ho scoperto la mia vita desaparecida”
Parla Ignacio Montoya, alias Guido Carlotto, il nipote della presidente delle Nonne di Plaza de Mayo
“Da quando ho saputo che i miei genitori furono uccisi dai generali convivo con le mie due identità”
di Marco Ansaldo


ROMA «Scoprire di avere un’altra identità è stata un’emozione, però non uno shock. Forse perché i genitori che mi avevano adottato mi hanno reso un uomo sereno, forse perché la mia identità era già precisa. Ma sono sempre io. Solo due cose sono cambiate: ora ho una famiglia grande, all’italiana, vista l’origine della mia madre biologica, mentre quella argentina era più ristretta; e il successo che riscuoto come pianista è incomparabilmente più forte. Dove vado a suonare adesso, con la mia orchestra, c’è sempre la stessa musica, ma molta più gente».
Lo chiamano senor Ignacio. Ma se gli dicono Guido, si gira lo stesso. Ignacio-Guido Montoya Carlotto, nipote di Estela, la leader delle Abuelas di Plaza de Mayo, le nonne che combattono per i desaparecidos dell’Argentina, è a Roma dove ha incontrato il Papa. Tre mesi fa, Ignacio non conosceva il suo vero passato. Poi i dubbi. La campagna delle Abuelas per svelare le ignominie della dittatura militare. La ricerca. E infine, decisiva, inoppugnabile, la prova del Dna. Ignacio Montoya ha scoperto di essere Guido Carlotto. Nipote di Estela Carlotto, nientemeno che la presidente delle Donne di Plaza de Mayo. Ma ha scoperto, soprattutto, di essere figlio di Laura e che anche suo padre era stato ammazzato dai generali.
C’era una presenza impalpabile ieri, all’ambasciata argentina a Roma, al ricevimento in onore di Estela e Ignacio-Guido: quella di Laura, la donna che 36 anni fa partorì suo figlio in un centro clandestino di detenzione a La Plata. Militante della gioventù peronista, quando fu sequestrata scoprì di essere incinta di 3 mesi. Riuscì a far sapere alla madre di essere viva, dicendo che se suo figlio fosse nato maschio lo avrebbe chiamato Guido, come il padre, il marito italiano di Estela. Sei mesi dopo, agosto 1978, i militari convocarono la Carlotto, allora maestra elementare, per consegnarle il cadavere della figlia Laura — «quasi un privilegio », dice adesso — uccisa con una raffica di mitra alle spalle.
Oggi Ignacio-Guido ha i riccioli neri che cominciano a imbiancare. Ma la sua favola felice non turba il suo volto da ragazzo che con pudore racconta una storia da brividi: «I miei genitori adottivi mi hanno cresciuto con amore — risponde a Repubblica — e in assoluta buona fede mi hanno reso la persona che sono oggi. Quando la mia coscienza sociale è emersa, ho sentito la storia dei desaparecidos come mia. Mi hanno così confermato che ero stato adottato, cosa che ignoravo. E nel giro di due mesi ho saputo chi erano i miei veri genitori, e completato la mia identità».
Estela, prorompente: «Oggi sono esattamente tre mesi che conosco mio nipote. Per me lui è perfetto». Ignacio-Guido, timido, non si pronuncia. È sposato, ha la sua carriera di musicista, un duo di tango, un trio itinerante, l’amore per Astor Piazzolla e Keith Jarrett. Una fede anche calcistica (il River Plate, contrapposto al San Lorenzo di Bergoglio): «Sì, con il Papa ho parlato di calcio. E tutti noi (“eravamo in 18 persone, il clan dei Carlotto”, dice Estela) eravamo molto contenti. È un Pontefice dal carattere forte, una persona tenace, capace di dare una svolta alla storia della Chiesa ». Estela, 84 anni, accarezza Ignacio-Guido. Se lo coccola con lo sguardo. I due confabulano. «Tutte noi Abuelas stiamo cercando i nostri nipoti — spiega — . Il ritrovamento di Ignacio ha scatenato in Argentina e in tutto il mondo reazioni inaspettate. Noi sappiamo che lui è Ignacio, ma è anche il nostro Guido!».
La vicenda dei Carlotto apre in realtà uno squarcio sulla vicenda dei desaparecidos. Che rischia di toccare l’Italia più in profondità di quanto si pensi. Spiega il ministro Carlos Chernak, diplomatico argentino: «Nell’elenco dei carnefici c’erano anche italiani. Licio Gelli lavorava qui in ambasciata con passaporto diplomatico. Alcuni che la giustizia argentina sta ancora cercando per estradarli possono trovarsi qui. E così alcuni dei bambini spariti, oggi uomini di 30-38 anni, portati allora in Italia. Se qualcuno, come Ignacio, avesse dubbi sulla sua identità, ci contatti». L’Argentina ha cominciato ad aprire gli archivi della giunta. La Chiesa sta già consegnando materiali sui bambini rubati. Il Papa è favorevole. Ai Carlotto, Bergoglio ha detto: «Se puede!». Si può.

La Stampa 7.11.14
Lo Schindler del Cile: “Così salvai i compagni dal regime di Pinochet”
Jorge, ora 74 anni, ha protetto centinaia di perseguitati: “Li facevo lavorare nelle mie farmacie come finti dottori”
di Filippo Fiorini

qui

Repubblica 7.11.14
Senza più Dio e senza Stato la felicità breve dell’illuminismo
Il ’700 visto da Todorov: l’era in cui l’“uomo solo” e mai così libero ha espresso tutta la sua creatività
di Tzvetan Todorov


IN Francia il periodo più importante dell’interazione tra illuminismo e pittura si colloca fra due date: 1715 (anno in cui morì Luigi XIV) e 1789. Negli altri paesi europei la separazione è meno netta, ma la suddivisione è simile. Sarà il lasso di tempo che percorreremo in questo testo, salvo poche incursioni nel periodo precedente o in quello successivo. Questo breve XVIII secolo sarà caratterizzato in Francia dalla reggenza e dal lungo regno di Luigi XV, un periodo in contrasto con il secolo precedente. Il fulcro della vita pubblica si sposta dalla corte alla città, da un’organizzazione sociale fondata sui principi della religione a uno spazio civile.
Nell’Ottocento uno storico della pittura afferma, in maniera forse eccessiva, che si trattava allora di una fase in cui «all’estrema devozione si sarebbe sostituita la licenza».
Il contrasto con il periodo postrivoluzionario è comunque altrettanto forte. A tale riguardo possiamo paragonare questo breve XVII secolo con un altro periodo di transizione, un momento della storia romana che Flaubert descrive così: «Quando le divinità non c’erano più e Cristo non c’era ancora, da Cicerone a Marco Aurelio c’è stato un momento unico in cui l’uomo è stato solo». Per parlare di quest’altro “momento” più recente si potrebbe parafrasare Flaubert e affermare: quando il Dio cristiano non c’era più e le divinità moderne — la nazione, il popolo, lo stato — non c’erano ancora, da Watteau a Goya si è assistito a un momento eccezionale in cui l’uomo è stato completo, in cui gli uomini sono riusciti a instaurare un fragile equilibrio tra le loro diverse aspirazioni.
Si tratta di uno spirito, uno Zeitgeist, e non di una filosofia. L’illuminismo non forma un sistema di pensiero rigoroso e omogeneo, ma una sintesi, ed è in quanto “spirito” che prende parte allo scambio con i pittori del tempo. Tale spirito è contraddistinto da alcune caratteristiche che possiamo analizzare e ciò permette di opporlo a un altro spirito, quello dell’Ancien Régime, ormai distinto, mentre prima rappresentava un sostrato comune a tutti.
In primo luogo abbiamo a che fare con un mondo disincantato, regolato secondo le leggi della natura e con istituzioni sociali che sono opera dei soli esseri umani. Dio era il garante della tradizione e dell’ordine immutabile; in seguito alla sua scomparsa, gli individui possono iniziare a plasmare il proprio destino. Si prepara così il passaggio da una società consuetudinaria a una deliberativa. La religione non scompare, tutt’altro, ma il suo ruolo nella società cambia. Da un lato, gli individui la considerano un fatto personale; dall’altro, si diffonde sempre più la consapevolezza della pluralità delle credenze religiose, si è curiosi di conoscere quelle dei popoli lontani, fanno breccia le idee di tolleranza e si rinuncia al desiderio di convertire tutti al proprio credo.
Da fondamento dell’ordine sociale la religione diventa, insieme a tanti altri, oggetto di curiosità. Quelle che in precedenza erano considerate manifestazioni del soprannaturale ora sono interpretate come metafora dell’eccesso, stravaganza pittoresca o convenzione letteraria. Non si bruciano più le streghe, ma si cerca di disilluderle o di guarirle. Alla ricerca della salvezza, imposta dall’alto, si sostituisce la ricerca della felicità, orna. mai un obiettivo legittimo. Il piacere e il godimento non sono più considerati maledetti. L’amore, a questo punto, occupa un posto centrale e la distinzione tra corpo e spirito è superata. Le passioni sono legittimate in quanto espressione delle leggi naturali. Per usare le parole di Louis Dumont, l’homo hierarchicus sta per essere minacciato dall’homo equalis, le stratificazioni sociali sono messe in discussione, le idee di uguaglianza universale cominciano a diffondersi. Tutto ciò induce a prendere in considerazione i più umili e a preoccuparsi per la prima volta degli emarginati — senza che ciò sia in contrasto con la morale cristia- È possibile sfidare le autorità e criticare le dottrine.
È anche l’epoca in cui in Europa si sviluppa rapidamente la conoscenza delle società lontane, pur rimanendo etnocentrica; inizia a diffondersi l’idea di una pluralità delle culture, delle leggi, dei valori. Nello stesso tempo il passato non è più ridotto a una mera serie di esempi che illustrano leggi eterne. La discussione tra antichi e moderni è definitivamente risolta a favore di questi ultimi: ogni epoca possiede i propri valori, che non sempre è possibile considerare superiori o inferiori. Ogni società è di per sé plurale, in quanto composta da gruppi i cui interessi non coincidono necessariamente in tutto.
La presa di coscienza della diversità sociale e la molteplicità stessa delle direzioni verso le quali si rivolge il pensiero favoriscono la pluralità interna delle dottrine di quest’epoca. Ai giorni nostri si distinguono talvolta nell’illuminismo due correnti: una moderata, che partecipa ancora dei compromessi con le idee dell’Ancien Régime, e una radicale, più vicina al materialismo e all’ugualitarismo che ne susseguono, ai quali noi stessi oggi ci richiamiamo. È lecito chiedersi, tuttavia, se non occorra invertire qui il giudizio di valore. L’illuminismo radicale è monista, per- ché esalta uno solo dei propri ingredienti ed esclude i restanti. Quello moderato, invece, non è certo l’acqua tiepida del compromesso, il miscuglio eclettico di elementi eterogenei o il mantenimento del tradizionale dualismo fra corpo e spirito. Converrebbe interpretare il termine moderazione con il significato che gli attribuiva Montesquieu, come articolazione tra i diversi principi a cui ci si richiama, ciascuno dei quali costituisce un freno per gli altri, e non dimenticare i dibattiti talvolta accesi che animano il pensiero dell’illuminismo.
Pensiamo a quelli che promuovono il regno della ragione e quelli che lo mettono in discussione, a coloro che credono al progresso e a chi rinuncia a individuare un senso negli eventi della storia. Questa pluralità sfocia non nell’incoerenza, ma nella complementarità; è preferibile, allora, non eliminare le contraddizioni talvolta insanabili della condizione umana. Dal canto loro, artisti, pittori e scrittori offrono allo spirito dell’illuminismo un contributo indispensabile, che lo rende ancora più ricco di sfumature e più complesso. Traduzione di Emanuele Lana © 2-014, Garzanti Libri S. r. l.
Milano © Éditions du Seuil, Paris 2-014
IL DIPINTO Jacques-Louis David “Il giuramento degli Orazi” (1784)
IL LIBRO Il testo è tratto da La pittura dei Lumi di Tzvetan Todorov (Garzanti, pagg. 216, euro 42). L’autore sarà a Bookcity, a Milano, il 16 novembre alle 11

Repubblica 7.11.14
Tra la mente e l’anima c’è la bioetica
Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà nel nuovo libro tornano a parlare dell’invadenza delle neuroscienze
di Giulio Azzolini


LA frase che dà il titolo all’ultimo saggio di Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà, Perché abbiamo bisogno dell’anima potrebbe sembrare una domanda, ma è soprattutto una risposta. E anche paradossale, se consideriamo che la scienza contemporanea tende a risolvere nelle sue basi biologiche il problema della mente — perché è di ‘mente’ che si occupa il libro e non tanto di ‘anima’, come succedeva invece nel mondo antico.
Non va dimenticato, avvisano gli autori, che il vasto credito di cui oggi gode il programma riduzionista, che intende per l’appunto “ridurre” le funzioni mentali a quelle neurali, segue al rovesciamento di un dualismo plurisecolare. Una posizione tipicamente cartesiana che ha imperato ben oltre il Seicento, quando la comunità ebraica di Amsterdam giunse perfino a maledire il ventitreenne Spinoza per averlo contestato. Tra Otto e Novecento, complice la psicologia, la situazione si è capovolta e ai giorni nostri ogni esperto, o quasi, accetta l’idea che il cervello coincide con la mente o, quantomeno, che il primo produce la seconda. Un vero e proprio ribaltamento di paradigma che negli ultimi trent’anni è stato guidato da biologia e neuroscienze, le cui decisive ricerche in campo cognitivo vengono illustrate con un linguaggio accessibile e senza alcuna fascinazione scientista.
Il paradosso è che la gente non smette di ragionare in modo dualista ed essenzialista, spiegando cioè con caratteri immodificabili la persistenza di certi comportamenti propri e altrui. Nel tentativo di rendere ragione di questa circostanza emerge la prospettiva più originale e ambiziosa del libro: il dualismo non sarebbe né un inganno della psicologia ingenua né il risultato di un’inerzia culturale, bensì «il frutto dell’evoluzione umana». In altre parole, se continuiamo a servirci del dualismo, è perché ne abbiamo bisogno, perché a dispetto dell’infondatezza scientifica è ben salda l’efficacia pratica.
Con qualche e importante eccezione. Negli attuali dilemmi bioetici, infatti, dalla procreazione assistita all’eutanasia all’aborto, la contrapposizione tra biologico e mentale non solo non aiuta, ma rischia al contrario di inquinare il dibattito. Eppure i lamenti potrebbero rimanere sterili finché non si comprenda che il dualismo è «una strategia naturale, spontanea fin da piccoli». E se davvero Darwin soccorrerà Descartes, non sperate di liberarvi della mente.
IL SAGGIO Perché abbiamo bisogno dell’anima, di Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà (il Mulino, pagg 120, euro 12)

Repubblica 7.11.14
Renzo Piano: “Porto il Rinascimento nel cuore di Harvard”
L’architetto presenta il museo realizzato per la regina delle università americane
Un tesoro che apre oggi
di Federico Rampini


NEW YORK «È COME imbattersi in una piazza rinascimentale di Montepulciano, nel cuore di Harvard. Una prospettiva singolare. È la prova di quanto sia ammirata qui in America la visione italiana della città, della civitas. Non voglio solleticare il nostro ego nazionale, però va pur ricordato che i nostri talenti non sono affatto disprezzabili». Renzo Piano inaugura oggi la sua nuova creatura. Un oggetto sorprendente: un grande museo d’arte antica, moderna e contemporanea, nel cuore dell’università più famosa d’America e del mondo. Harvard ha accumulato in quasi quattro secoli di storia innumerevoli donazioni di opere d’arte di grande valore, una stratificazione di lasciti da parte di generazioni di grandi mecenati americani che vi hanno studiato. Finora questo tesoro era sparpagliato in tre sedi diverse e seminascosto, da oggi ha un degno contenitore. È la “scatola” di legno ideata da Piano, leggerissima e fatta in uno speciale legno chiaro dell’Alaska. Che si fonde con due edifici preesistenti, li illumina con immense vetrate aperte sul cielo, e affianca un palazzo di Le Corbusier. È singolare che la regina delle università di élite, famosa soprattutto perché nella sua Business School forma la classe dirigente americana e globale, abbia deciso di investire tanto nell’arte e nell’umanesimo. In questa intervista in anteprima a Repubblica, Piano ci spiega la genesi del progetto.
Chi lo avrebbe mai detto, Harvard ha una specie di tesoro del Louvre, e non lo sapeva nessuno...
«La storia di questa università coincide con quella del capitalismo americano. Non a caso, tra i mecenati che hanno contribuito alla costruzione del museo ci sono cognomi che tutti conoscono come Rockefeller e Pulitzer. La ricchezza di quepei. ste collezioni è entusiasmante. C’è arte antica, dall’India all’Egitto, dal buddismo cinese a quello giapponese. L’Italia è ben rappresentata, da Fra Angelico a Bernini. E poi la pittura olandese del Seicento con gli impressionisti francesi, l’arte astratta degli anni Venti, la Bauhaus. Finora di tutto questo si poteva vedere una minima parte. Sono 250.000 opere d’arte».
E il “contenitore” del nuovo museo, in parte viene da Montepulciano. Ci racconti questa strana storia...
«Comincia alla fine dell’Ottocento con un architetto americano che s’innamora di un palazzo rinascimentale di Montepulciano. E si mette in testa di rifarne la facciata qui, identica. Poteva essere un’operazione kitsch, come se ne fecero tante nell’America di allora, piena di complessi d’inferiorità culturale, impegnata a scopiazzare stili euro- Invece la riproduzione della facciata di Montepulciano è stata rigorosa, anche nei materiali usati: travertino della cava di Tivoli. La facciata è stata replicata quattro volte, fino a formare il quadrilatero di una piazza all’italiana. Proprio quello che mi serviva. L’ho pulita, alleggerita, rialzata, bagnata di luce naturale. Ora, se ti corichi a terra al centro del museo vedi... Montepulciano, e là sopra il cielo!».
L’idea della città all’italiana risponde a una richiesta dei committenti. L’università vuol fare la pace con Cambridge- Boston?
«Harvard è stata a volte accusata di arroganza. Non è facile il rapporto con i vicini di casa, quando si è l’università numero uno, polo d’attrazione della élite. Con Cambridge- Boston i rapporti sono stati di amore-odio. Per fare questo museo hanno scelto me perché sentivano bisogno di un europeo, portatore di cultura umanistica, per pacificarsi con la città».
E qual è il suo ramoscello d’ulivo?
«Un museo che più aperto non si può. Il pianterreno è uno spazio aperto, non si paga biglietto, lo si può attraversare anche solo per spostarsi da una parte all’altra del campus e della città. Questo piano è dedicato alla comunità cittadina, si fa invadere e abbracciare dagli abitanti. Secondo e terzo piano sono per l’esposizione delle collezioni. Il quarto è dedicato allo studio: lì si insegna ad amare l’arte, e a insegnare l’arte. Il quinto è il laboratorio di restauro, ben visibile per il pubblico che può ammirare le tecniche di recupero delle opere antiche».
Tra le sue opere più importanti, in questo momento due hanno per committenti le università: Harvard e Columbia.
«L’istruzione universitaria resta uno dei punti di forza dell’America. Loro sono interessati a inventare un nuovo tipo di campus urbano, non separato dal tessuto sociale. Investire nella bellezza è un modo per dialogare con la società civile».
Lei cominciò, per così dire, con il Centre Pompidou di Parigi. C’è una continuità?
«Quando costruisci un museo, devi far respirare la mente. L’emozione della visita a tante opere d’arte affatica testa e gambe. Ci vogliono spazi di riposo, di raccoglimento. Il museo non dev’essere magniloquente, non deve intimidire. In questo caso mi sono fatto aiutare dal legno di cedro giallo dell’Alaska, un materiale naturale che respira, la pelle dell’edificio. Questa parte la chiamano barn, che evoca il granaio, il fienile, il deposito di una fattoria del New England».

Repubblica 7.11.14
La Shoah, il senso di colpa. “Applausi a scena vuota”, il nuovo romanzo di David Grossman, racconta di un attore in una città di provincia israeliana
La versione di Dova’le comico bambino
di Wlodeck Goldkorn


OGNI cosa tocchi David Grossman, anche la più tragica, disperante, o irrimediabilmente volgare, diventa poesia. C’è sempre nel suo modo di raccontare lo stupore di un bambino. Così ogni parola che lo scrittore israeliano mette in pagina si trasforma in una sorta di metalinguaggio, perché non solo comunica lo stato d’animo dell’autore, ma libera l’immaginazione del lettore, gli suggerisce di poter vivere altre vite fantasiose in mondi altrimenti inaccessibili .
Ma, attenzione, alla fine tutta questa bellezza, tutto questo carnevale di colori, umori, profumi, costringe ciascuno di noi a fare i conti con la propria biografia e le proprie colpe, con l’idea che l’altro è (spesso) l’inferno. E anche a renderci consapevoli che la vera sfida di ciascun umano è convivere con la certezza della morte. Del resto, in questa oscillazione tra fantasia e realtà, anzi in questa trasfigurazione della realtà in fantasia, sta il cuore di ogni letteratura degna di questo nome.
Mondadori manda ora in libreria il nuovo romanzo di Grossman Applausi a scena vuota , tradotto da Alessandra Shomroni. Qui Grossman va oltre, non solo stupisce, ma rovescia la prospettiva con cui guarda a racconta il mondo. Il protagonista è Dova’le, diminutivo di Dov che in ebraico significa orso, ed è un comico. Ma è un comico sgraziato, scorbutico, talvolta pericoloso per gli altri, come può essere appunto un orso. Da bambino usava camminare sulle mani, con la testa in giù; il suo è davvero un universo sottosopra. E lo è anche per come esercita il mestiere. Deve far ridere Dova’le, ma come? Lo troviamo fin dall’inizio a far spettacolo in una sala a Netanya. Netanya è una cittadina a nord di Tel Aviv. È un luogo di provincia: piccola borghesia volgare alla ricerca di divertimento a buon prezzo, magari con barzellette razziste sugli arabi, sessiste sulle donne e sui gay e con battute su come quelli della sinistra siano altezzosi e noiosi. Il politicamente scorretto come valvola di sfogo per esprimere le peggiori pulsioni, un sentire comune cinico e fascista. Da questo punto di vista, il libro è anche un romanzo politico, che descrive una certa deriva del linguaggio dominante nello Stato degli ebrei.
Ma ecco, che con un vero colpo di teatro Grossman cambia la scena. Per una serie di circostanze, prima di tutto a causa della presenza in sala di un giudice, l’io narrante del romanzo, amico d’infanzia del comico, ma anche perché tra il pubblico c’è una donna che l’ha conosciuto come un “bravo bambino” compassionevole e sentimentale, Dova’le muta registro. Si libera dalla maschera dell’uomo capace di vendere la mamma per una battuta e comincia a raccontare la sua vera storia. La gente protesta, molti lasciano la sala, ma rimane un nucleo duro di spettatori. Suggerisce Grossman: c’è sempre qualcuno disposto ad ascoltare, e grazie a questa voglia di sentire l’altro possiamo, nonostante tutto, avere una speranza nel futuro e anche la certezza di capire chi siamo davvero. Lasciamo scoprire la trama del libro al lettore. L’importante è sapere che Grossman, giunto all’età di 60 anni, ha voluto riassumere e riportare all’essenza tutta la sua produzione letteraria e i temi toccati in altri libri.
In ordine. C’è il tema della Shoah, sviluppato in Vedi alla voce amore (1986). I genitori di Grossman a quei tempi vivevano nella Palestina governata dai britannici, non hanno quindi toccato con mano la catastrofe europea. Nonostante questo, o forse per questo, nessun altro autore della sua generazione ha avuto una simile capacità di elaborare e raccontare l’inenarrabile, di far capire e sentire come quel trauma faccia parte del vissuto di ciascun ebreo. Ecco, la madre di Dova’le è una superstite di un Lager e ne è uscita fuori, praticamente muta e incapace di orientarsi nella realtà. Una metafora con cui Grossman vuol dire: certe cose sono oltre i limiti dell’immaginazione. C’è poi la questione della debolezza fisica del bambino e delle paure infantili, presente nel Libro della grammatica interiore (1991), dove l’adolescente Aharon scopre che sono le parole e la sintassi, la lingua insomma, a dargli l’identità, ed è la grammatica (interiore) a fornire la base etica dell’esistenza. C’è un’eco del libro per ragazzi Ci sono i bambini a zigzag ( 1994), dove l’adolescenza è narrata da un adulto. E ancora, la moglie defunta del giudice (lui si sente colpevole e ne rimane innamorato e incapace di vivere) in Applausi a scena vuota , si chiama Tamara, come la ragazza eroinomane, salvata invece dall’eroe di Qualcuno con cui correre .
Applausi a scena vuota parla infatti, e molto, del senso di colpa, della nostra scarsa adeguatezza a fronteggiare certe situazioni; il giudice giudica se stesso da ragazzo e si pente. Il pentimento in ebraico si dice “teshuva”. Vuol dire ritorno, ma pure risposta. Secondo la tradizione è un sentimento che precede la creazione stessa dell’universo ed è in grado di cambiare non solo il nostro presente, ma pure il passato. Grossman tra le righe del libro, lo dice. Perché Applausi a scena vuota è una meditazione su come, in fin dei conti, la vita prevalga sulla morte. Dova’le, da bambino è stato sottoposto a una prova estrema: doveva decretare (nella sua mente) una condanna a morte. Raccontando questa esperienza al pubblico, riesce a tornare il “bravo bambino”, un essere che vuole mantenere la capacità di stupirsi e di stupire il mondo. O se vogliamo, torna in mente Wasserman, un personaggio di Vedi alla voce amore . Scrittore, prigioniero di un lager, non è capace di morire, nonostante i tedeschi cerchino di ammazzarlo. Perché una buona narrazione, secondo lo scrittore, è in grado di ricreare la vita. Grossman ha perso un figlio in una guerra cui si era opposto, ma nelle interviste e in privato ripete sempre: «Scrivo perché mi rifiuto di essere una vittima».

IL LIBRO E L’AUTORE: Applausi a scena vuota (Mondadori, pagg. 180, euro 18,50). Grossman sarà il 13 novembre a Milano, a Bookcity (ore 20, Teatro Dal Verme)