sabato 8 novembre 2014

il Fatto 8.11.14
Oggi statali in piazza a Roma, previsti in 50 mila

Saranno oltre 500 gli uomini delle forze dell’ordine impiegati oggi per il corteo dei lavoratori del pubblico impiego a Roma. Circa 50 mila i manifestanti attesi per la manifestazione che partirà da piazza della Repubblica intorno alle 13 e si concluderà a piazza del Popolo, sfilando lungo via Barberini , via Sistina e Trinità dei Monti. Predisposte misure di vigilanza lungo il percorso del corteo. Al momento non sarebbero state disposte "misure particolari" nè ci sarebbero timori per scontri o presenze di frange violente al corteo di oggi che arriva a 10 giorni dai disordini avvenuti in piazza Indipendenza durante la manifestazione degli operai dell’Ast di Terni. “Una risposta così massiccia erano anni che non la vedevamo", dice il segretario generale della Fp Cgil, Rossana Dettori: "Bisogna avere il coraggio di dire che il bonus degli 80 euro non sono il rinnovo contrattuale del pubblico impiego che noi rivendichiamo", dopo che è bloccato dal 2010. Per la Cgil, dal ministro della Pa, Mariana Madia, sono arrivati "troppi slogan e pochi fatti". A cominciare dalla "staffetta generazionale, che produrrà al massimo 500 nuove assunzioni e non 15 mila come promesso".

La Stampa 8.11.14
Gli statali verso lo sciopero generale

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il Fatto 8.11.14
Alta tensione
Bagnoli, cariche e scontri tra No-Renzi e polizia al corteo anti Sblocca Italia
di Vin. Iur.


Napoli, la manifestazione sostenuta anche dal sindaco De Magistris sfila pacifica fino alla Città della Scienza e poi degenera: una ventina di feriti

Pestaggi, sampietrini contro gli agenti in tenuta antisommossa, cassonetti ribaltati, segnali stradali divelti, cariche, lacrimogeni. Il caos. Il corteo di Bagnoli contro il decreto Sblocca Italia, provvedimento che in alcuni articoli commissaria l’ex area industriale Italsider, è degenerato in una violenza quantificata dai 18 agenti feriti insieme a due carabinieri e a qualche giornalista, compreso un operatore Rai leggermente ferito dall’esplosione di un petardo.
GLI SCONTRI sono partiti quando un gruppo di manifestanti ha provato a forzare il cordone di sicurezza delle forze dell’ordine di fronte all’ingresso di quella parte di Città della Scienza non toccata dall’incendio del marzo 2013. “Volevamosvolgerci l’assemblea dei promotori di questa iniziativa” ha spiegato uno dei manifestanti, in conflitto con il presidente del Consiglio Matteo Renzi che non ha mantenuto la promessa di venire a Bagnoli e delusi per la mancata bonifica dell’area ancora sotto sequestro giudiziario per l’alto tasso di inquinamento riscontrato dalle perizie dei consulenti della Procura. Al corteo hanno partecipato il presidente della Vigilanza Rai, Roberto Fico, e alcuni assessori comunali tra cui il vice sindaco Tommaso Sodano. Lo stesso De Magistris aveva sostenuto le ragioni della protesta. Sodano e Fico si sono comunque allontanati all’inizio degli scontri, mentre una scolaresca in visita a Città della Scienza è rimasta “intrappolata” per qualche ora. “Ricorreremo alla Corte costituzionale, alla giustizia amministrativa e a quella ordinaria contro lo Sblocca Italia”, ha annunciato lo stesso sindaco Luigi de Magistris, attaccando ancora il governo: “È una legge pericolosa che espropria la città dai suoi poteri e apre la strada alle mani sulla città. Va contrastata e lo faremo con ogni mezzo”. Secondo il sindaco di Napoli De Magistris, la norma su Bagnoli vuole consegnare l’area occidentale proprio “a quei soggetti privati che l’hanno inquinata e contro cui ho emesso un’ordinanza che ordina di risarcire la città e Bagnoli”.

il Fatto 8.11.14
Camusso: “Il premier divide i lavoratori”


Ancora un duro botta e risposta, a distanza, tra il premier Matteo Renzi e il leader della Cgil, Susanna Camusso. “Guai a pensare che si possa fare del mondo del lavoro il terreno dello scontro”, dice il presidente del Consiglio dall’inaugurazione del nuovo stabilimento di Piaggio Aerospace a Villanova d’Albenga (Sv). “È stato Renzi a innescare lo scontro sul lavoro”, dividendo anche i lavoratori (tra “pubblici e privati, tra stabilizzati e non stabilizzati”, tra i “vecchi” e i “nuovi”) e togliendo i diritti invece di estenderli, e quindi tocca a lui “risolverlo”, ribatte il numero uno del sindacato di Corso d’Italia. Che poi rincara: “Noi ci mettiamo la faccia, stiamo con i lavoratori e prendiamo le manganellate” . Gli risponde il pd Orfini: “Il Jobs act estende diretti e doveri. Camusso riconosca questo e il dialogo sarà più facile”. A margine dell’assemblea dell’Anci a Milano, Susanna Camusso è anche tornata sulla somiglianza tra Renzi e la Thatcher: “A livello fisico Renzi non mi ha mai ricordato la Thatcher, per quanto riguarda le politiche ribadisco le mie opinioni”.

Repubblica 8.11.14
Una politica costituzionale
Quando ci si rivolge agli imprenditori dicendo di averli liberati dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori si dice molto di più
Come funziona un sistema senza una vera opposizione? Nel modo in cui sta funzionando quello italiano
di Stefano Rodotà


L’ACCELERAZIONE impressa alla sua azione e, soprattutto, alle sue parole dal presidente del Consiglio- segretario del Pd richiede qualche riflessione sul modo in cui si va configurando il sistema politico italiano e sulla cultura che sostiene i suoi mutamenti. La più evidente riforma è quella incarnata dallo stesso Renzi, per il modo in cui definisce il suo rapporto con i cittadini, che assume tratti simili a quelli descritti in un libro dedicato al capo e alla folla da Gustave Le Bon. Renzi declina questo rapporto diretto nel linguaggio attinto dal mondo digitale e parla di “disintermediazione”, ma la sostanza è quella. Si consegna all’irrilevanza tutto ciò che non è immediatamente riconducibile al consenso personale e alla sua proiezione sociale, com’è accaduto quando al milione di persone presenti a piazza San Giovanni si è contrapposto lo sguardo ostentatamente rivolto solo agli altri milioni di italiani (lo aveva già fatto Craxi contrapponendo le sue modeste percentuali parlamentari al consenso di cui diceva di godere nel Paese). Non è certo un caso se nelle analisi di commentatori tutt’altro che ostili alla linea del presidente del Consiglio siano cominciati ad apparire riferimenti ad atteggiamenti definiti plebiscitari. E non dimentichiamo che nella “democrazia plebiscitaria”, ampiamente studiata, si ritrovano anche quei tratti autoritari visibili nel modo liquidatorio con il quale Renzi si rivolge a critici ed avversari.
È vero che stiamo vivendo un tempo in cui le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno prodotto effetti significativi sull’organizzazione politica e sociale (ne scrivo da una ventina d’anni). Ma la disintermediazione non significa che l’unica via politica sia quella della cancellazione di ogni entità che si manifesta tra i luoghi del potere e la generalità dei cittadini. Se soggetti collettivi continuano a manifestarsi nella società, possiamo eliminarli con una parola? E bisogna riflettere sul fatto che, indeboliti o scomparsi alcuni degli storici mediatori sociali, altri ne sono comparsi al loro posto, a cominciare dagli onnipotenti motori di ricerca e dalle reti sociali.
Questa logica si insinua in modo sempre più pervasivo in ogni luogo, e in modo particolarmente aggressivo nella materia del lavoro. Quando ci si rivolge agli imprenditori dicendo di averli liberati dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, si dice molto di più, com’è stato evidente nelle parole pronunciate alla Leopolda. Dal rapporto tra imprenditore e lavoratori non deve soltanto scomparire l’ingombro del sindacato, ma l’indebita presenza del giudice. Qui la disintermediazione investe un elemento fondativo della civiltà giuridica e restituisce una inquietante attualità ad una vecchia espressione — «la democrazia si ferma ai cancelli dell’impresa ». Si fa divenire l’ingiustificato licenziamento un atto legittimo, che non può trovare compensazione nella promessa pubblica di intervenire a sostegno dei licenziati. Vale pena di ricordare la storia del mugnaio di Sans-Souci, che alla prepotenza dell’imperatore Federico contrapponeva l’esistenza di giudici a Berlino. Dobbiamo rinunciare alla garanzia dei diritti, travolta da una logica economica che riconosce come regola solo quella che essa stessa pone?
Questo non sembra un buon viatico per la costruzione di un “partito della nazione”. E tuttavia, poiché questo sta accadendo, diventa più urgente tornare alla configurazione complessiva che così assume il sistema politico. Se il Pd dimagrisce, liberandosi dalle clientele, è cosa buona. Altro è il suo trasformarsi in una struttura che si dirama nei più diversi centri del potere, in presenza mediatica nella quale possa riconoscersi il maggior numero possibile di persone più che in vero soggetto collettivo (un altro caso di disintermediazione?). Ma la vera forza del Pd, riassunto nella persona del suo leader, sta nell’insistita affermazione secondo la quale ad esso e al suo governo «non v’è alternativa».
Qui è la sostanza del problema: le dimissioni della politica che è, in primo luogo, costruzione continua di alternative. Questa non è colpa di Renzi, che persegue i suoi obiettivi e cerca di sfruttare al massimo la condizione presente. È la registrazione dello sfascio di una destra mai costituita come tale, fondata com’era sulla figura di Berlusconi; di un Movimento 5Stelle che ha appena mostrato capacità di cogliere occasioni parlamentari, e però deve mostrare di saperla trasformare in incidenza costante sulle dinamiche politiche; dell’impossibilità di pensare il Pd di Renzi come partito “di lotta e di governo”.
Come funziona un sistema politico senza vera opposizione? Nel modo in cui sta funzionando quello italiano. Poiché si possono sterilizzare con astuzie varie le opposizioni interne e esterne, ma non cancellare il conflitto, l’opposizione si fa tutta sociale. Ecco la ragione del nuovo protagonismo del sindacato, soggetto sociale per definizione, che trae nuova forza dal dato materiale della disoccupazione e delle diseguaglianze crescenti e da quello politico dall’attacco esplicito ai diritti del lavoro. Ecco il motivo dell’insofferenza aggressiva di Renzi che costruisce nemici per azzerare confronto e dialogo.
Arriviamo così al punto essenziale. A destra l’opposizione è sopraffatta da una sostanziale convergenza con l’azione di governo. E il resto, quello che possiamo ancora chiamare sinistra? Qui dev’essere sciolto il nodo di una politica di sinistra capace di essere in sintonia con una società certamente cambiata, ma la cui novità non può consistere, come si cerca di fare, nel respingere sullo sfondo dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, perché sono ancora questi i principi che meglio colgono le difficoltà e i conflitti di oggi.
Le diverse sinistre, interne e esterne ai partiti, hanno finora inseguito formule e costruito aggregazioni casuali. Non sono state capaci di presentarsi con una identità definita, che può essere costruita solo attraverso una cultura politica rinnovata. Che non è impresa impossibile, se si riflette sul molto lavoro fatto in sedi diverse e da soggetti diversi: una nuova visione complessiva dei diritti fondamentali, dove quella del lavoro è inscindibile dal rispetto pieno di una persona riconosciuta nella sua libertà, nell’accesso alla cultura, nella garanzia della salute; le critiche dell’austerità di molti economisti, che coglie la necessità di una politica dominata dall’economia; la ristrutturazione degli ammortizzatori sociali nella prospettiva di un reddito garantito; le elaborazioni su beni comuni e servizi pubblici, che rischiano d’essere travolti dalla logica del fai da te, ben rappresentata dagli 80 euro alle neomamme al posto di asili; le proposte sui nuovi rapporti tra democrazia rappresentativa e partecipativa; la solidarietà tra persone e generazioni; l’attenzione concretamente rivolta a povertà e illegalità. Perché a sinistra non è stata finora fatta una riflessione complessiva su ciò che essa ha sparsamente prodotto?
E vi è l’Europa. Renzi dice che questa è la vera partita. Ma la sua presidenza dell’Unione non è stata segnata da una vera iniziativa sul tema della riforma delle istituzioni. Oggi si riscopre l’Europa attraverso la Carta dei diritti fondamentali, invano invocata in questi anni (anche su questo giornale). Si ricorda il suo articolo 30 sui licenziamenti ingiustificati, ma si deve andare oltre, agli articoli 31 e 34, che parlano di condizioni di lavoro giuste e eque, di garanzia dell’esistenza dignitosa, con una eloquente sintonia con l’articolo 36 della nostra Costituzione, che vuole garantita «l’esistenza libera e dignitosa», tutte norme che rendono ineludibile il tema del reddito garantito. In questi anni l’Europa ha cancellato la Carta, che pure ha lo stesso valore giuridico dei trattati, ed ha costruito una “controcostituzione” economica che annulla tutto il resto. L’Italia ha seguito questo cattivo esempio, abbandonando progressivamente la parte della Costituzione dedicata a principi e diritti. Ricostruire una rinnovata politica costituzionale non è solo il compito di una opposizione di sinistra, ma il fondamento essenziale d’un governo democratico.

il Fatto 8.11.14
Il convegno della Laiga a Napoli
Aborto, un pool legale per i non obiettori


INTERRUZIONI DI GRAVIDANZA sempre più difficili. Lo denunciano i medici della Laiga, la Libera associazione italiana dei ginecologi per l’applicazione della legge 194. Secondo quanto dichiarato ieri dalla presidente Silvana Agatone, in apertura del convegno della Laiga a Napoli, la legge per la tutela sociale della maternità e l’interruzione volontaria della gravidanza, approvata nel 1978, non è applicata per la prevalenza, fino al 90 per cento, dei medici obiettori. Per le interruzioni di gravidanza entro i primi tre mesi dal concepimento, solo il 64% degli ospedali è in grado di garantirne l’applicazione, a fronte del 100% previsto dalla legge stessa. Per questo motivo a supporto e a sostegno delle donne che ne faranno richiesta e a cui non verrà riconosciuto questo diritto fondamentale, sarà istituita una rete di avvocati che seguiranno gli iter di eventuali denunce contro ginecologi e personale non obiettore. Sarà anche formata una rete di tutte le associazioni coinvolte nella tutela della salute riproduttiva della donna che contribuirà anche all’attività di formazione dei medici nelle scuole di specializzazione. “Attualmente i medici non obiettori applicano con preoccupazione la legge 194”, ha spiegato Silvana Agatone. Alla base del problema ci sarebbero carenza di personale e di mezzi messi a disposizione dalle strutture ospedaliere. Inoltre i medici non obiettori sono costretti a operare “tra mille difficoltà anche burocratiche e organizzative”. A farne le spese come sempre sono sempre le pazienti: molte donne sono infatti costrette a recarsi altrove, spostandosi di regione in regione per abortire. Inoltre, quando a fare richiesta dell'applicazione della 194 sono donne in stato di gravidanza da oltre novanta giorni, in presenza di gravi patologie del feto o rischi per la madre, i numeri peggiorano, e gli ospedali disposti ad applicare le procedure sono ancora meno numerosi, il che costringe molte donne a spostarsi anche all’estero per sottoporsi all’intervento. Critiche anche per il ministero della Salute, secondo il quale gli aborti praticati dai medici non obiettori sarebbero pochi a settimana: per Agatone la media è molto più alta.

Repubblica 8.11.14
Aborto, i medici non obiettori: "Accesso è sempre più difficile"
La denuncia Laiga: "Molte donne costrette ad emigrare in un'altra regione o addirittura fuori dal paese per ottenere quello che la legge 194 in teoria garantisce"
Nasce  la rete avvocati a sostegno delle pazienti e dei professionisti
di Valeria Pini

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il Fatto 8.11.14
Heidegger l’antisemita in Francia
di Marco Dolcetta


A lungo dominante, il pensiero del filosofo tedesco Martin Heidegger, morto nel 1976, non smette di sconcertare i suoi ammiratori ogni volta che si aprono i suoi archivi e si pubblicano i suoi inediti. La mole delle produzioni filosofiche di Heidegger è monumentale, il pubblicato in Germania, e nel resto del mondo comunque non è che una parte di quanto lui abbia scritto negli anni.
I COSIDDETTI “Quaderni neri”, per il colore della copertina ma anche, a detta di molti per i contenuti, nei quali lui ha consegnato negli anni i suoi pensieri rivelano che l’autore dell’Essere e il tempo oltreché un’adesione al nazismo già riconosciuta aveva integrato delle note antisemite nelle sue riflessioni più profonde. Prima in Germania e ora anche in Francia dove i “Quaderni neri” sono stati tradotti e stanno per essere pubblicati, riparte la campagna per le ostilità riguardo lui e i suoi pensieri. È quasi più sorprendente l’eco prodotto dalle reazioni alla scoperta di questi suoi prodotti di archivio, polemiche fra filosofi storici e letterati di tutto il mondo. È il nuovo “affare Heidegger”. Nella pubblicazione dei 34 Quaderni, il grande pensatore di riferimento di tutta una generazione di filosofi ci ha consegnato le sue riflessioni nei decenni dal 1930 al 1970. Leggendo troviamo una quindicina di passaggi chiave antisemiti: gli ebrei vivrebbero – secondo Heidegger – in base al “principio della razza”. Mossi da “uno spirito di calcolo”, riuniti al seno di una “pericolosa alleanza internazionale”, sarebbero il popolo errante e de “l’assenza di suolo”.
Il filosofo riprende dei luoghi comuni di retorica antisemita molto sommari ispirati da una lettera basica dei Protocolli dei Savi di Sion, uno oscuro documento a suo tempo controverso e prodotto di menti complottistiche nel 1901, tema che ha affascinato Umberto Eco nel suo Cimitero di Praga, un libello secondo cui il complotto giudeo-massonico minaccerebbe la conquista del mondo. Ma Martin Heidegger integra anche il suo antisemitismo a una metafisica e a una filosofia della poetica “l’ebraismo mondiale come il nazionalsocialismo rappresenta agli occhi del filosofo una delle potenze che se si sottomettono alla Machenschaft, cioè la tecnica, “lotta per dominare il mondo”, questo è quanto Peter Trawny, lo studioso che si è occupato dei “Quaderni neri” sostiene.
Per il filosofo Alain Badiou, al di là del caso Heidegger “che in effetti ha la piccolezza di un antisemitismo di bassa lega, a lui importa assolutamente di fare ammettere a tutti che qualcuno può essere o essere stato anche anticomunista, stalinista, filosemita, antisemita, monarchico, democratico, militarista, nazionalista, resistente, nazista o mussoliniano, internazionalista, colonialista, egualitario, aristocratico, elitista ed eccetera eccetera, ed essere anche il filosofo della maggiore importanza del mondo”; in una parola, la riassume così il professore emerito dell’Ecole Normale Superieure: “Abbasso i piccoli maestri della purificazione della filosofia: uno nella vita può avere avuto ragione o essersi sbagliato nelle scelte politiche, questo non inficia la sua grandezza di filosofo e la filosofia stessa è indifferente agli orientamenti politici”. Ma non tutti sono di questa opinione.
SULLE ORME di Farias, lo studioso cileno che da Berlino est tanti anni fa sollevò per primo i problemi, fino a Emannuel Faye, che di recente è ritornato sull’argomento, sono in tanti che pensano che il pensiero di Heidegger è intaccato dal male sollevato nell’errare del suo affiliamento politico, senza parlare mai poi di quelli che arrivano ad avventurarsi nel dire che la filosofia del “Saggio di Friburgo” è solo un accurato rivestimento teorico del nazionalsocialismo.
“Un’opera può mantenere il nome di filosofia quando considera come principio una forma di razzismo ontologico? Questa è la domanda che pone Emannuel Faye nel suo ultimo libro Heidegger, il suolo, la comunità, la razza.

Corriere 8.11.14
Riconoscere la Palestina? Il caso al Parlamento italiano
Tre mozioni per spingere il governo ad agire

Seguendo l’esempio di Londra

ROMA Trova una spinta anche in Italia la dinamica politica innescata in Europa dalla recente decisione del governo svedese di riconoscere lo Stato della Palestina e dal voto con cui, il 13 ottobre scorso, la House of Commons ha sollecitato l’esecutivo di Sua Maestà britannica a fare la stessa cosa.
Tre mozioni parlamentari, due alla Camera e una al Senato, impegnerebbero, se approvate, il governo Renzi a un passo ancora controverso, ma che sembra tentare alcune cancellerie europee, decise a sbloccare in qualche modo lo stallo del processo di pace in Medio Oriente.
Presentata dalla deputata socialista Pia Locatelli e cofirmata da 19 deputati del gruppo misto e del Pd, la mozione della maggioranza chiede al governo italiano di «riconoscere in maniera completa e definitiva lo Stato di Palestina» e lo invita, «anche in considerazione del semestre di Presidenza dell’Unione Europea» a porre la questione «all’ordine del giorno in tutti i Paesi membri».
La seconda mozione presentata alla Camera è firmata da Gianluca Rizzo e altri 13 parlamentari del Movimento 5 Stelle. Convergente nella richiesta finale del riconoscimento, il documento dei grillini si distingue per un tono molto duro e critico nei confronti di Israele. La terza mozione è quella depositata a Palazzo Madama dal senatore Peppe De Cristofaro con 6 colleghi di Sel e a Maria Mussini del Movimento X. Nel testo, il riconoscimento dello Stato di Palestina viene definito «elemento chiave per assicurare una soluzione negoziata “due popoli in due Stati” a un conflitto che si trascina da troppo tempo».
Nessuna delle tre mozioni è stata ancora calendarizzata nell’agenda delle due Camere. Ma i firmatari sono decisi a battersi perché vengano messe in discussione prima della fine dell’anno. Al Senato, la conferenza dei capigruppo della prossima settimana potrebbe risultare decisiva. Più complicato l’iter a Montecitorio, dove il calendario è già pieno fino a quasi tutto dicembre.
Per il deputato del Pd Gennaro Migliore, «il riconoscimento dello Stato di Palestina è una necessità storica perché servirebbe a far avanzare le ragioni della pace. Non a caso in Europa anche forze conservatrici lo hanno sostenuto». Migliore ricorda che il nuovo passo sarebbe del tutto in linea con la posizione dell’Italia, che nel 2012 all’Assemblea dell’Onu votò a favore della risoluzione 67/19 che diede alla Palestina lo status di osservatore. Il parlamentare del Pd vede la mozione come parte di un’azione a livello europeo, dove toccherebbe a Federica Mogherini, che ieri ha inaugurato il suo mandato di Lady Pesc proprio con in Israele e Palestina, cercare di accelerare il processo di riconoscimento. La stessa Mogherini, pochi giorni fa in Senato, ha ribadito la «centralità del Medio Oriente». Sono finora nove (Svezia, Repubblica Ceca, Bulgaria, Cipro, Slovacchia, Ungheria, Polonia, Malta e Romania) i Paesi della Ue che hanno riconosciuto lo Stato della Palestina.
Il governo italiano però rimane prudente. «Il riconoscimento non è all’ordine del giorno dei lavori parlamentari — spiega il sottosegretario agli Esteri, Benedetto Dalla Vedova —, quando lo sarà avremo una nostra posizione. Ma porlo in questo modo rischia di essere intempestivo. È certo un tema ma che va inserito nel quadro della prospettiva comune, cioè dell’Italia e della Ue, dei “due popoli, due Stati”. Il risultato principale cui puntare è la ripresa del negoziato di pace e all’interno di questo c’è sicuramente anche il riconoscimento dello Stato palestinese».

Il Sole 8.11.14
Mogherini in missione a Gerusalemme e Gaza


Il capo della diplomazia europea, Federica Mogherini, ha confermato la visita nella Striscia di Gaza in programma oggi dopo che il premier palestinese Rami Hamdallah ha annullato la visita a seguito delle esplosioni avvenute questa mattina nell'enclave palestinese contro obiettivi del partito del presidente Abu Mazen, Fatah.
Mogherini avrebbe dovuto incontrare Hamdallah a Gaza. Un portavoce Ue ha dichiarato che Mogherini «ha ancora in progetto» di andare a Gaza mentre incontrerà il premier palestinese nella tarda giornata a Ramallah, in Cisgiordania. La visita in Medio Oriente di Mogherini, che oggi era in Israele, ha suscitato ottimismo nelle parole del ministro palestinese degli Esteri Riad al-Malki. «Mogherini è un'amica dei palestinesi e della regione», ha detto riferendosi al suo appoggio alla creazione di uno Stato palestinese. C'è dunque fiducia sul «ruolo chiave che avrà l'Unione Europea».
In Israele, Mogherini ha incontrato il premier Benjamin Netanyanu, che ha rivendicato la natura di capitale, e non di colonia, di Gerusalemme di cui, ha detto, gli accordi di pace dovranno tener conto. In una conferenza stampa la responsabile della Politica estera Ue ha spiegato che è «urgente andare avanti» in direzione di un «processo politico» di pace, individuando nello sviluppo di insediamenti nel territorio palestinese un «ostacolo».

il Fatto 8.11.14
Renzi e il caso Di Stefano
Impresentabili a tavola
di Wanda Marra


Psicodramma dem: il deputato del Pd (ma aveva cominciato dal centrodestra ai tempi di Storace), accusato di mazzette e tra i coordinatori dei dibattiti della Leopolda, costretto all’ultimo momento a rinunciare alla cena di finanziamento del partito. Un’altra “cattiva compagnia” del premier
“Sono un imprenditore. Mi chiamo Giordani. E penso che Renzi è un ragazzo che va sostenuto”. Abito scuro e cravattone in bell’evidenza, l’ospite fa una vera e propria conferenza stampa, prima di entrare nel Salone delle Tre Fontane a Roma. Location già nota alle cronache per le mega-cene che Berlusconi organizzava per promuovere i suoi candidati. Mentre la folla si assiepa per entrare, le luci sulla facciata rimandano il rosso bianco e verde della bandiera italiana. E del Pd. Qualche suv, molti taxi, il generone romano che già fu di Rutelli e di Veltroni fa la fila. “Io queste iniziative le ho sempre fatte”, dice, entrando, un habitué, come Chicco Testa. Non manca il veltronianissimo e ricchissimo Raffaele Ranucci. Un’altra antica conoscenza. Ma soprattutto, c’è l’ospite d’onore: il presidente della Roma, James Pallotta. “Ci sarà un nuovo stadio per la Capitale? ”, si chiedono i commensali. Un po’ più in disparte l’ex calciatore, Odoacre Chierico. “Mi hanno invitato, non ho pagato”. Per cenare con il segretario premier, l’iniziativa organizzata da Francesco Bonifazi e Alessia Rotta, prevedeva un finanziamento di 1.000 euro ciascuno. Molti politici non li hanno versati (pure se non sono arrivati forniti di ospiti) e molti sono invitati. Caos renziano.
Fino a mezz’ora prima dell’inizio, d’altronde, i tavoli non erano neanche composti e lo psicodramma Di Stefano, con i 5 imprenditori suoi ospiti (da evitare o da accogliere, con tanto di portafoglio al seguito?) aleggiava sulla cena. Alla fine, il protagonista, è stato convinto a non farsi vedere e anzi si è autosospeso dal Pd. Il tavolo a suo nome è saltato.
TERRITORIO delicato, quello romano, difficilmente controllabile, tra “palazzinari” e “macellai” per citare le perplessità Dem. Difficile selezionare gli ospiti in modo da evitare scivoloni. Inutile per questo lo schieramento di polizia all’entrata degno di una cena di Stato. Dentro, peperoncino in bell’evidenza, grazie alla presenza del calabrese Franco Monaco, e menù a base di parmigiana di melanzane e cacio e pepe. Tanta Roma e tanto “casino”. Ospiti buoni per tutte le stagioni come i fratelli Toti, Parnasi e Mezzaroma. Più tantissimi esponenti del sottobosco cittadino, dai notai agli avvocati, passando per farmacisti, medici, industriali e imprenditori di vari livelli. Arriva ad omaggiare il potere che avanza un ristoratore di grido come Giuseppe Roscioli. Il regista Fausto Brizzi non tradisce l’amico premier. Ci sono il produttore Fulvio Lucisano e il re del sigaro toscano, Maccaferri. E il potere romano: ecco Bettini e Gasbarra. Poi, il sindaco, Marino (qualcuno deve averlo avvertito che non c’era bomba d’acqua in arrivo) e il presidente del Lazio, Zingaretti, al tavolo con Lorenza Bonaccorsi, vicino a quello del premier. Scelta precisa.
Tra i neo finanziatori anche il direttore generale della Lamborghini, Umberto Possini. Sta al tavolo di Michele Anzaldi, che ha portato una quindicina di ospiti, tra cui l’ambasciatrice del Kazakistan. Vanno forte i rutelliani. Tanti produttori di vino: l’azienda laziale Casal del Giglio, la famiglia Santarelli e i Ber-tani (del Santa Margherita). Si beve acqua Norda. Ernesto Carbone ha portato più di dieci suoi amici avvocati, tra cui Paolo Cerù e il tributarista Raffaele De Stefano. C’è anche Raffaele De Luca Tamajo, legale della Fiat di Marchionne. Nutrita la pattuglia politica dei calabresi: Ernesto Magorno, Enzo Bruno, Mario Oliverio, Stefania Covello, Enza Bruno Bossio, Nicodemo Oliverio e Massimo Canale. Che pure hanno organizzato un pulmino di ospiti: il presidente di Confindustria Catanzaro, Daniele Rossi, il presidente di Confagricoltura Calabria, Alberto Statti. E gli imprenditori Palmiro Raffo e Antonella Dodaro. In mezzo all’“Italia che produce” (definizione standard) più o meno ansiosa di farsi vedere insieme a Renzi, anche politici: la Madia e Beppe Fioroni, Lotti, Boschi e il Sottosegretario Rughetti. C’è Orfini, che un tempo andava alle Feste dell’Unità: “Preferisco le salsicce, ma vanno bene anche queste iniziative”. Arriva pure il neo Pd, Gennaro Migliore, che una volta stava in Rifondazione. “Chi ho portato? Me stesso. Ho passato una vita a fare sottoscrizioni per il partito cui appartenevo”. Alla fine, è soldout con almeno 600 persone. E Renzi, che siccome non ce la fa a stringere le mani di tutti (e poi, meglio evitare i selfie con gli sconosciuti) allieta il parterre a moh di colonna sonora, con un discorso che dura tutta la serata.

il Fatto 8.11.14
A colpi di preferenze
La scalata di un poliziotto in carriera
di Carlo Tecce


Non poteva che presiedere un tavolo dedicato ai “pagamenti digitali” durante il pensatoio renziano, la Leopolda numero 5, il deputato dem Marco Di Stefano, accusato di aver intascato una mazzetta da 1,8 milioni di euro, scorporata di 300.000 euro per un collaboratore che risulta irrintracciabile. È pratico con le ordinazioni dei posti, il politico romano, che ha indossato più casacche per breve tempo e ricoperto più poltrone per tanto tempo. Accolto senza troppi indugi dai renziani, assieme a un bagaglio di preferenze sempre disponibili. E così per la cena di finanziamento di Matteo Renzi, servita ieri sera a Roma, Di Stefano ha contattato gli organizzatori: “Marco più cinque”, che poi sarebbero imprenditori con quota di 1.000 euro cadauno. Viene respinto dopo un dramma al Nazareno: niente tavolo, stavolta. Ai dem non fa difetto l’inchiesta per corruzione, i rapporti con i costruttori Pulcini che, nei propri palazzi, per oltre 7 milioni ospitarono in affitto una società regionale laziale, la “Lazio Service”, mentre il referente Marco era assessore al Demanio durante la giunta di Piero Marrazzo. E finì nel dimenticatoio pure l’esposto alla Corte dei Conti del centrodestra subentrato a Marrazzo, chissà dove riposa quel documento che bollava come eccessivo il canone versato con denaro pubblico ai signori Pulcini. Con la stessa sicumera, la stessa pretesa che non tollera diniego, Di Stefano ha risposto a una solerte Maria Elena Boschi che chiedeva ai parlamentari dem un’adesione per la Leopolda. E ancora: “Prego, Marco più qualcuno”, di contorno, a ragionare di riforme, progetti, modernità. Per poi ammettere su Twitter: “Non conosco Renzi”. Ne ha consumati di sampietrini quest’ex poliziotto che voleva inaugurare la carriera politica al Municipio XVIII di Roma, dove era dislocato, ma fu bloccato perché considerato inadeguato dai vertici di Alleanza Nazionale.
ALL’EPOCA, Di Stefano pendeva a destra. Poi ha smesso di pendere non di oscillare; è diventato democristiano. Senza l’originale Dc e l’adorato Vittorio Sbardella, non gli restò che Mario Baccini (oggi compaiono assieme nell’inchiesta di Roma, ma Baccini non è indagato). Il primo maestro, però, fu Nicola Stampete, esponente di An, zona Casalotti-Boccea, che suona familiare anche per la parodia di Corrado Guzzanti sul raccordo anulare che circonda la Capitale. Nicola Stampete, conosciuto col soprannome di “er pipistrello” per via di un paio di orecchie appuntite, era un serbatoio di voti. Il figlio Antonio, amico di Di Stefano, è presidente di commissione (Urbanistica) al Comune di Roma. Ma ritorniamo a metà degli anni Novanta, quando Di Stefano esordisce in politica, consigliere comunale per il Centro Cristiano Democratico e poi segretario provinciale romano per l’Udc, galassia Pier Ferdinando Casini e senz’altro Baccini, esuli Dc. Quando pare scontata la vittoria in Regione di Piero Marrazzo, lo scaltro Di Stefano, convinto dal sindaco Walter Veltroni come raccontano le cronache di quei mesi del 2005, fa un salto a sinistra, però in una lista civica. E da lì sale a velocità più sostenuta: assessore con tre deleghe, Risorse Umane, Patrimonio e Demanio. Campo libero per gestire con disinvoltura un potere enorme e anche per aiutare la futura “convivente” - questa è la dicitura degli inquirenti – Claudia Ariano, direttore della logistica proprio di “Lazio Service”. Le denunce contro Di Stefano provengono anche da Gilda Renzi, l’ex moglie. Ai tratti da telenovela, però, si aggiungono coincidenze molto più fosche. Dopo una rimpasto, a febbraio 2009, Di Stefano fu estromesso dalla squadra di Marrazzo. La “vendetta” fu a caldo, rapida, per mezzo di una conferenza stampa. Disse: “Ho ricevuto pizzini da importanti esponenti della Giunta. Quei pizzini erano relativi ai concorsi interni per lo scorrimento delle posizioni dei dipendenti. Li ho rispediti al mittente”. A settembre 2009, un paio di mesi prima di rassegnare le dimissioni perlo scandalo che lo coinvolse, Marrazzo reintegra Di Stefano, che è promosso assessore all’Istruzione. In questo periodo, abbandonata l’Udeur di Clemente Mastella, scialuppa utile per attraversare il governo di Romano Prodi, Di Stefano aderisce al Partito democratico, lo fa in quota ex popolari, soprattutto di Giuseppe Fioroni. Ma non ridimensiona gli interessi per “Lazio Service”: si batte per far sostituire il presidente Massimiliano Marcucci, nonostante il contratto in scadenza nel 2016.
TRA IL 2012 E IL 2013, da consigliere regionale, unico di minoranza a capo di una commissione, Di Stefano prepara il gran salto in Parlamento e organizza manifestazioni a Santa Marinella, d’estate, perché i romani vanno a fare il bagno a Santa Marinella. Il 10 giugno 2012, in un istituto religioso, accorre pure Enrico Letta, vicesegretario dem. C’era la governatrice Polverini e il presidente della Provincia di Rieti, Fabio Melilli, oggi segretario regionale del Pd, industriali e cacicchi laziali. Osservò Di Stefano: “Vogliamo promuovere finalmente il dialogo e lo scambio di idee tra la politica e il mondo delle imprese”. Le parlamentarie di dicembre 2012 non sono un successo, soltanto 2.573 preferenze, la metà di Marianna Madia. Viene inserito al sesto posto nella circoscrizione Lazio 1, non eletto a Montecitorio, ma viene ripescato perché Marino chiama in Campidoglio la quinta in classifica, Marta Leonori. Il Nazareno lo recupera. L’ex poliziotto non è mai stato lettiano, appena ha potuto s’è trasformato in renziano. Già un anno fa, mentre il governo di Letta scricchiolava, era tra i referenti del sindaco di Firenze in Commissione Finanze. E ai renziani va bene così.

il Fatto 8.11.14
Affari e reti offshore all’ombra del “Leopoldo”
di Marco Lillo e Valeria Pacelli


NELL’INCHIESTA ROMANA È STATO INTERCETTATO ANCHE L’EDITORE DI LIBERO ANGELUCCI PER VIA DI UNA CONTROLLATA LUSSEMBURGHESE GIÀ NOTA ALLE CRONACHE

Per capire cosa sia diventato il Pd nell’era di Matteo Renzi bisogna partire da un ex convento ristrutturato nel cuore di Trastevere, in via della Cisterna 22. Qui si intrecciano i destini dell’onorevole Marco Di Stefano, renziano dell’ultima ora ma subito promosso coordinatore alla Leopolda; di Arnaldo Rossi, presidente del quotidiano Libero (di Tonino Angelucci, senatore di Forza Italia) e infine quelli del costruttore Daniele Pulcini.
SECONDO L’IPOTESI accusatoria dei pm romani l’ex assessore regionale al demanio Marco Di Stefano sarebbe stato corrotto da Daniele Pulcini con una mazzetta di 1,8 milioni di euro perché la controllata della Regione, Lazio Service prendesse in affitto una nuova sede di proprietà del gruppo Pulcini. La manovra era destinata a far aumentare, grazie al canone annuo stratosferico di complessivi 7 milioni e 327 mila euro, il valore dei due palazzi in via del Serafico. I Pulcini riuscirono - grazie all’affitto pagato dai contribuenti - a vendere i palazzi all’Ente di Previdenza e Assistenza dei Medici, Enpam con una plusvalenza enorme di 53 milioni di euro.
Aveva le sue ragioni l’allora assessore Di Stefano quando interveniva nell’assemblea di Lazio Service, in rappresentanza dell’azionista unico il 5 agosto 2008, per sostenere la necessità impellente della nuova sede. Per i pm Maria Cristina Palaia e Corrado Fasanelli, i Pulcini gli avrebbero versato tangenti per 1,8 milioni di euro oltre a 300 mila euro destinati al suo ex braccio destro Alfredo Guagnelli, scomparso nel nulla nel 2009.
È indagata anche Claudia Ariano, direttore logistica di Lazio Service che nel dicembre del 2009 aveva dato l’input al Cda per cercare una nuova sede in locazione. Nel dicembre del 2012 i magistrati spiegavano che “era possibile accertare come tra il Di Stefano Marco e Ariano Claudia era in corso una relazione sentimentale”. Altro personaggio chiave della vicenda è Luigi Antonio Caccamo: il funzionario responsabile del settore immobiliare dell’Enpam indagato per corruzione perché espresse parere favorevole all’acquisto dei due immobili di via del Serafico nonostante “una plusvalenza ingiustificata rispetto al prezzo di acquisto risalente a pochi mesi prima pari rispettivamente al 100 e al 62 per cento”.
E cosa c’entra l’ex convento di Trastevere, in via Cisterna, comprato dai frati? Caccamo secondo un’informativa della Guardia di Finanza del 2012 allora ci abitava grazie a un contratto di comodato gratuito occupando uno splendido appartamento di 6 vani. L’immobile però era stato ceduto nel 2005 dal gruppo Pulcini alla misteriosa società lussemburghese Omnia International S. A., amministrata dal presidente del Cda della società Editoriale Libero, e consulente factotum del gruppo Tosinvest della famiglia Angelucci.
La Guardia di Finanza ha verificato che le due società che controllano Omnia International SA, la Aqualegion Ltd sede a Londra e la Walbond Investmnents Ltd nelle isole Vergini Britanniche “sono comparse anni addietro sulle cronache nazionali come imprese rientranti nella cosiddetta ‘rete offshore’ della nota famiglia Angelucci”. Dagli atti depositati nell’inchiesta sull’Enpam si scopre un filone segreto di indagine sui manager del gruppo Angelucci, per vicende diverse.
Arnaldo Rossi, insieme a Luisella Moreschi e Frederique Vigneron (della Tosinvest S. A., Ndr) sono indagati per associazione a delinquere, riciclaggio e fittizia intestazione di beni con Claude Nicolas Victor Shong perché “la Moreschi offriva a un numero indeterminato di soggetti, per il tramite di Arnaldo Rossi, tra i quali Antonio Angelucci, già iscritto per i reati di truffa ai danni dello Stato, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e altro; Caccamo Luigi, già iscritto per truffa aggravata e corruzione, Marco Pacelli (nipote del Papa Pio XII, Ndr), già condannato per truffa aggravata e iscritto per bancarotta fraudolenta, e altri in corso di identificazione che intendevano trasferire all’estero denaro e altre utilità provenienti dal delitto (...) tramite la costituzione di società anonime e fiduciarie in Lussemburgo rappresentate dai medesimi associati in capo alle quali avveniva il trasferimento di detti beni ovvero di quote sociali e che accedevano a rapporti bancari presso istituti lussemburghesi gestiti fiduciariamente”. In questo filone di indagine è stato intercettato (non indagato) anche il figlio di Tonino Angelucci, il manager Giampaolo Angelucci. Le parti delle informative che riguardano questo filone però sono coperte da omissis.
ANCHE IL DEPUTATO Di Stefano ha goduto in passato, secondo la Guardia di Finanza, dell’uso gratuito di un appartamento in via della Cisterna, per il quale tra l’altro nel 2012 c’era stata anche un’indagine del pm Maria Cordova sulla ristrutturazione che sta andando verso la prescrizione.
Luigi Giuliano, difensore con Tito Milella, di Antonio e Daniele Pucini precisa: “La maggioranza del materiale probatorio riguarda il procedimento relativo all’Enpam. Noi stiamo preparando il ricorso al Tribunale del riesame per i nostri assistiti”.

Corriere 8.11.14
Il patron della Roma alla cena per i fondi pd
Ieri il bis dopo Milano. A tavola l’americano Pallotta, Totti rinuncia per il compleanno del figlio
Il segretario scherza: Orfini mi ha ricordato che oggi è la ricorrenza della rivoluzione russa
di Alessandro Trocino


ROMA Tutto esaurito per la seconda cena di autofinanziamento del Pd al Salone delle Fontane dell’Eur. Il gran cerimoniere, Matteo Renzi, arriva tardi, alle 22 e arringa la folla dei commensali da una pedana rossa. L’esordio è scherzoso: «Entrando, Matteo Orfini mi ha ricordato che oggi, 7 novembre, è il giorno della rivoluzione russa». Poi parla al migliaio di imprenditori e politici convenuti. Riepiloga i punti principali della sua azione di governo. Parla dell’Europa, «ferma ai box». Spiega che per essere credibili bisogna cambiare prima le regole: «La riforma costituzionale è prioritaria». Poi bisognerà passare all’economia: «Ci sono indicatori economici che ci dicono che le cose non vanno. Non ci possiamo rassegnare al segno meno, per noi la decrescita non è mai felice».
Solo alla fine, dopo un filmato con Cetto Laqualunque e un’autocritica ironica («siamo caproni a comunicare»), i convenuti, che hanno pagato tutti (salvo imbucati) mille euro a testa, possono avvicinarsi ai piatti: canapè con gamberi e zucchine a scapece, vol au vent con grana, bufala e pachino, sformatini di parmigiana, raviolo di cacio e pepe, filettino di manzo con spinaci alle mandorle e carotine saltate. Per evitare che qualche furbo dell’ultima ora se ne potesse andare senza aver versato il dovuto, gli organizzatori hanno fatto attivare un Pos, per i versamenti in loco. Tra i partecipanti c’era tutto il gotha della Roma Calcio: il presidente James J. Pallotta, il nuovo ad Italo Zanzi, il direttore generale Mauro Baldissoni. Ma anche il costruttore Luca Parnasi, che ha firmato con la società un accordo per il nuovo stadio di Tor di Valle. Il più atteso, Francesco Totti, alla fine ha preferito festeggiare il compleanno del figlio e ha rinunciato in extremis. Nella platea ci sono molti ministri, Maria Elena Boschi e Marianna Madia in testa. Non mancano il sindaco Ignazio Marino e il presidente del Lazio Nicola Zingaretti. E ancora, l’imprenditore Chicco Testa, i costruttori fratelli Toti, Marco Mezzaroma, il regista Fausto Brizzi con la moglie, le attrici Claudia Zanella e Claudia Gerini. C’è anche il presidente dell’Accademia italiana del Peperoncino, Enzo Monaco, che distribuisce il prezioso alimento, di cui ha portato quattro casse. Qualche momento di ilarità per le scorribande della Iena Enrico Lucci. Renziani quasi al completo, mentre si segnala l’assenza quasi totale della minoranza del partito, nonostante l’invito a trovare almeno 5 imprenditori che versassero 1.000 euro fosse rivolto a tutti. Ma ci sono anche Matteo Orfini e c’è Gennaro Migliore, da poco entrato nel partito dopo aver lasciato Sinistra Ecologia e Libertà. Ugo Sposetti ha fatto sapere di avere un appuntamento irrinunciabile: «Vado dal dentista». Altri sono meno ironici, come Gianni Cuperlo: «Tra una cena con un certo numero di commensali con un coperto da mille euro e una cena con un numero molto maggiore di invitati a venti euro preferisco la seconda». C’è chi non apprezza, come il renziano Ernesto Carbone: «Capisco che la minoranza voglia fare battaglie politiche, ma mi pare brutto che non si impegni per raccogliere fondi che servono per evitare che i nostri dipendenti vadano in cassa integrazione».

Corriere 8.11.14
È della minoranza ma porta 60 invitati: «Lì ho capito il 40% di Matteo»
di Renato Benedetto


Stefano Esposito, a ciascun parlamentare pd si chiedeva di portare 5 imprenditori, paganti mille euro, alla cena con Renzi. Lei giovedì ne ha portati 60. Record.
«Mi sono anche fermato. C’è stato un riscontro oltre le aspettative. Ho scritto mail, ho spiegato: c’è l’opportunità di cenare con Renzi. E sono arrivate tante risposte».
Per i suoi colleghi è stato meno facile?
«Non è una gara».
Ma lei non appartiene alla minoranza dem?
«Sì. Ma occupo comunque la stanza di una casa comune, che vogliamo tornare a gestire, un giorno: allora è meglio mantenerla in piedi, sennò quando la riconquisti hai troppe ristrutturazioni da fare. Hanno tolto il finanziamento pubblico ai partiti, la cena è un modo di sostenere il Pd, di garantire chi ci lavora».
Lei era contro l’abolizione del finanziamento pubblico.
«Lo sono tuttora. La politica va finanziata dal pubblico, seppure in modo diverso da prima. Ma è passata un’altra norma».
La minoranza critica questa forma di raccolta fondi.
«Quando c’erano i rimborsi pubblici, non c’erano le donazioni? Dobbiamo finirla di essere ipocriti. C’è chi preferisce tenere i rapporti con l’impresa nell’opacità».
Chi prima finanzia poi chiede qualcosa?
«Non han dato dei soldi a me. Io non devo niente a loro, né loro a me. Nell’ambito della legalità, possono avanzare richieste. Io rispondo con quello che ritengo utile per il Paese, non per loro».
Una cena glamour, ambiente diverso dalle Feste dell’Unità.
«Sarò sincero, mi ha fatto un po’ effetto. Ho visto un mondo che con noi non ha mai avuto granché a che fare. Tra quelli che ho invitato io, molti non hanno votato Pd. Quel mondo era lì per Renzi. Ma lì ho capito di più come si è arrivati al 40%. Ho capito che Renzi ha cambiato i connotati della politica a sinistra. Anche coloro che lo avversano ne devono prendere atto».
È andato in casa della maggioranza pd a spiare?
«Diciamo che ho studiato le mosse della maggioranza. Io non ho sostenuto Renzi, ma non mi piace la logica dei “bei tempi andati”. Sono andati».

La Stampa 8.11.14
Pd, seconda cena di finanziamento a Roma
Tra gli ospiti c’è anche il presidente Pallotta
Il n.1 del club giallorosso all’evento organizzato dal premier per sostenere il partito: 1000 euro a coperto

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La Stampa 8.11.14
Alla cena di Renzi risotto scotto e sbadigli
A Milano professionisti e imprenditori. Hanno pagato 1000 euro per sostenere il Pd
di Francesco Rigatelli

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Cene eleganti
di Massimo Gramellini


I pasti dei ricchi a scopo benefico custodiscono strani misteri. In America per mangiare un piatto di lasagne con Bruce Springsteen bisogna versare 300mila dollari: 240mila euro. In Italia per mangiare un risotto con Matteo Renzi ne bastano mille. O la lasagna a stelle strisce vale duecentoquaranta volte più del risotto, ancorché in salsa Pd e dunque un po’ sciapo, oppure Renzi al mercato delle rockstar è quotato duecentoquaranta volte meno di Springsteen: impossibile. L’unica spiegazione sensata è che il menu delle cene italiche sia meno caro perché più povero di grassi, essendo il Paese notoriamente alla frutta. 
Ho scorso la lista degli invitati alla cena milanese di Renzi, ma mi sono fermato a Paparesta, l’arbitro che Moggi chiuse a chiave in uno sgabuzzino. Paparesta che finanzia Renzi è il classico cortocircuito comico della realtà, per quanto non privo di una certa coerenza: entrambi chiudono gli occhi davanti al rigore quando gli fa comodo. I dinosauri rossi del Pd sono sconvolti dallo sciame di Porsche e pellicce che è accorso a omaggiare il risotto di un leader teoricamente di sinistra. Cuperlo della corrente Brontosauri ha lasciato intendere che preferirebbe finanziare il partito dei lavoratori con cene operaie da 20 euro, ma è anche vero che per raggiungere la stessa cifra raccolta l’altra sera da Renzi bisognerebbe organizzarle in uno stadio: soprattutto riuscire a riempirlo. Capisco che il colpo d’occhio dei ricchi che fanno la festa al presunto partito dei poveri getti nello sconforto qualche nostalgico. Ma gliela facevano anche prima. Solo di nascosto. 

il Fatto 8.11.14
Bilanci Dem
Bonifazi: “Tagliati affitti e consulenze”
“Recuperati 18 milioni” celebra il tesoriere
Ma costano la chiusura di Unità ed Europa
di Wa. Ma.


Abbiamo recuperato 18 milioni di euro. Grazie a questi nessun dipendente andrà in cassa integrazione”. Si lanciava così nell’annuncio giovedì sera Matteo Renzi, durante la cena di fundraising di Milano. Una rivelazione destinata ad attirare immediatamente l’attenzione: tra il 2012 e il 2013, infatti, 18 milioni erano esattamente le perdite del Pd. Una cifra talmente da capogiro da far dubitare di un possibile futuro per il partito. E invece no. Non solo Renzi, ma anche il tesoriere Francesco Bonifazi, che fino a qualche settimana fa lanciava allarmi sgomenti, e puntava il dito sulla gestione della “ditta”, forte anche di una serie di dossier sul suo tavolo, con spese astronomiche e non giustificate, a questo punto annuncia con una soddisfazione degna del suo segretario: “Abbiamo ridotto la spesa del 43 per cento medio. Il che equivale a risparmi per 21 milioni di euro”. Insomma, Bonifazi come Mandrake. Dettaglia: “Abbiamo ridotto le consulenze, gli affitti, le spese per i servizi e le forniture”. Come dice lui, era tutto nella relazione alla direzione nazionale dello scorso 12 giugno.
QUANDO Bonifazi raccontava di aver previsto tagli ai costi per i servizi e per le forniture. E soprattutto per le consulenze (nel 2013 ammontavano a 1.149.000 euro), e per gli affitti di via Tomacelli e di via del Tritone, che nel frattempo sono stati disdetti. A più riprese, i nuovi vertici dem hanno puntato il dito contro le spese “endemiche” della scorsa struttura: la segreteria, i forum e le rispettive iniziative nel 2013 costavano 1.022.000 euro. E allora, ecco attuata la minaccia: i membri della segreteria renziana sono a stipendio zero. La nuova gestione non rimborsa nulla, tanto meno gli affitti, come accadeva un tempo. Meno soldi per la campagna elettorale. Tra i risparmi, c’è ne sono pure alcuni non edificanti, come quello derivato dalla chiusura de l’Unità e dalla prossima chiusura di Europa (il cdr ha annunciato la liquidazione e la messa in cassa integrazione per il 15 novembre): sono stati tolti i contributi in acquisto copie per i giornali di partito. Certo, tutto questo più che certificato, va preso come un atto di fede, o poco ci manca. Per fare tutti i conti, cifre alla mano, bisogna aspettare il bilancio 2014. L’annuncite tocca pure i conti del Pd.

La Stampa 8.11.14
Legge di Stabilità, pioggia di emendamenti: quasi 4 mila, la maggioranza arriva dal Pd
Dal Tfr ai fondi pensione, le proposte di correzione sui temi più caldi. Fassina: «Alzare le aliquote sulla successione dei grandi patrimoni»

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il Fatto 8.11.14
Boschi: “Sulla legge elettorale stiamo chiudendo”
di Sara Nicoli


IL GIORNO DOPO, gli “scricchiolii” nella maggioranza arrivano da angoli diversi. L’avvertimento lanciato da Renzi a Berlusconi con la nomina di Sciarra alla Corte costituzionale e Zaccaria al Csm grazie all’appoggio dei 5Stelle, ha smosso le acque interne a Forza Italia convincendo l’ex Cavaliere a fare la voce un po’ più forte con i suoi. Ottenendo qualche risultato, ma meno di quanto si aspettasse. Il redde rationem interno agli azzurri è ormai rimandato ai primi giorni della prossima settimana, quando Berlusconi incontrerà i gruppi. Ma qualcosa, comunque, si è mosso. E verso una ricucitura del patto del Nazareno. Su che punti, lo si vedrà, ma intanto, questo ha consentito a Maria Elena Boschi, ieri mattina, di annunciare serena: “Siamo a un passo dall’accordo sulla legge elettorale”. Ai renziani, ieri, premeva far trapelare che l’asse con i grillini sulla Suprema Corte è stato solo un problema di “convenienze reciproche”.    Nulla di più solido. Anche in prospettiva. Anche se poi – questo comunque l’avvertimento passato in filigrana dal Pd – dentro Forza Italia continuate a litigare, poi noi ci arrangiamo in modo diverso. Un “modo diverso” che Maurizio Sacconi, capogruppo Ncd in commissione Giustizia a Palazzo Madama, ha toccato con mano, rispondendo in modo durissimo all’eventualità di essere messo all’angolo, lui con gli alfaniani: “Se la maggioranza si divide su temi sensibili, è evidente che viene meno. Nel momento in cui deve affrontare riforme importanti, deve rivelarsi coesa. Altrimenti cade la maggioranza”. Il problema, comunque, gira tutto intorno a un punto: se, alla fine, Forza Italia dovesse tirarsi indietro? “Dovremo andare avanti con gli altri partiti – ha annunciato la Boschi – le riforme dobbiamo farle e le facciamo con chi ci sta”. Riforme a maggioranza variabile, insomma, ricercando sempre il massimo consenso possibile? Renzi, come noto, si sta organizzando. Per non dover essere costretto a guardare ai 5Stelle. Al Senato è in corso di costruzione un nuovo gruppo di fuoriusciti grillini e delusi del centrodestra, che potrebbe tenere in piedi la maggioranza in caso di scossoni interni. La legge elettorale arriva martedì in Senato. I renziani hanno un pugno di voti in più, allo stato pochi per star tranquilli.

Corriere 8.11.14
Lo scontro sulla riforma
Le nascoste imperfezioni dell’Italicum
di Michele Ainis

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il Fatto 8.11.14
Le bugie su ammortizzatori e crescita
La manovra non stanzia i nuovi soldi promessi dal Jobs act e taglia gli investimenti pubblici
di Marco Palombi


Ci sono un paio di temi, nella manovra di bilancio del governo Renzi, che finora sono rimasti sotto traccia: il tema dei nuovi ammortizzatori sociali promessi dal Jobs act (ma i soldi sono nella legge di Stabilità) e il ruolo degli investimenti pubblici. Ebbene per quanto riguarda entrambi ci sono sorprese sgradevoli. Partiamo dalla legge delega sul lavoro. Spiega il premier dalle immancabili colonne del libro di Bruno Vespa (quest’anno si chiama Italiani voltagabbana) che “siamo i primi ad aver messo i soldi, veri e tanti, sul tavolo degli ammortizzatori sociali”, mica come quelli dei governi Prodi (Bersani, ndr) che “dicevano che le riforme vanno fatte ‘a saldi invariati’, cioè senza tirare fuori un euro”.
PECCATO che quei soldi nelle tabelle non ci siano a fronte delle spettacolari promesse del Jobs act: basta con la cassa integrazione in deroga, che tutela solo alcuni, e estensione del sussidio di disoccupazione pure ai precari. E poi formazione continua, orientamento per trovare un nuovo lavoro. Il Bengodi. Solo che nel ddl Stabilità che sta in Parlamento al capitolo “nuovi ammortizzatori sociali” c’è scritto 2 miliardi, 500 milioni dei quali servono però per contributi figurativi e altre cosette.
Insomma un miliardo e mezzo che potrebbero diventare circa 2,2 con una posta inserita nello Sblocca Italia. Tradotto: esattamente la stessa cifra che i vari governi degli ultimi anni hanno stanziato per pagare la Cassa integrazione e la mobilità in deroga. La classica riforma a costo zero criticata da Renzi. Non solo: quella cifra non basta a garantire tutte le promesse scritte nella legge delega sul lavoro. Lo sottolinea persino il parere di maggioranza alla manovra della commissione Lavoro della Camera e, più apertamente, il suo presidente Cesare Damiano: “Renzi ha promesso 1,6 miliardi come risorse aggiuntive per tutelare anche i lavoratori precari. Mi pare che nell’attuale situazione le risorse previste non siano totalmente aggiuntive visto che la previsione è di 1,72 miliardi solo per la cassa in deroga”.
GUSTOSO anche leggere le tabelle sulla “manovra che rilancia la crescita” elaborate da Banca d’Italia. Vi si scopre una cosetta curiosa sottolineata sul suo blog dall’economista Gustavo Piga. A far scendere il deficit dei 4 decimali (6 miliardi) che servono a Pier Carlo Padoan per accontentare la Commissione europea (dal 3 al 2,6% del Pil) sono due voci: per una metà concorre la minor spesa per interessi sul debito pubblico, per l’altra la riduzione della spesa in conto capitale, cioè quella per investimenti pubblici, quella col miglior moltiplicatore fiscale. Spiegazione: un euro di spesa per investimenti produce più crescita di quella corrente (ad esempio gli stipendi) e assai di più di quella destinata a tagliare le tasse. Ebbene, le tabelle di Bankitalia ci dicono che la spesa corrente resta più o meno ferma, mentre quella per investimenti cala ancora (esattamente come faceva ai bei tempi di Berlusconi, Monti e Letta).
Difficile, comunque, che i fondamentali di questa legge cambino, nonostante il solito diluvio di emendamenti presentati in commissione Bilancio della Camera. Da una prima ricognizione risultano essere circa 3.700, oltre mille firmati da deputati del Pd, quasi metà da gruppi di maggioranza: non proprio una buona notizia per il governo, ma è ancora presto per preoccuparsi. Ora il presidente della commissione, Francesco Boccia, dovrà valutare l’ammissibilità di tutti quegli emendamenti e eliminare i doppioni: se il parametro sarà lo stesso che ha usato cassando dalla manovra una quarantina di commi dello stesso governo ne rimarranno assai meno della metà.

Repubblica 8.11.14
Deficit, dubbi della Ue sulle promesse italiane
Nelle previsioni d’autunno la Commissione europea ritiene che nel 2015 il nostro Paese non riuscirà a ridurre il disavanzo strutturale di 4,5 miliardi, come si è impegnato a fare Padoan nella lettera a Katainen, ma che si limiterà ad abbassarlo soltanto di 1,5 miliardi
di Roberto Petrini


ROMA «Tutto normale, contatti di routine», dice Pier Carlo Padoan in occasione dell’Eurogruppo. Mentre Renzi continua ad incrociare le spade con Juncker. Ma in realtà la questione che è emersa negli ultimi giorni sui conti pubblici italiani rischia di trasformarsi in una ennesima grana e acuire la tensioni tra Roma e Bruxelles.
Le ultime valutazioni di autunno della Commissione, pubblicate martedì scorso, se guardate con attenzione, fanno emergere che il rafforzamento dell’ultima ora di 4,5 miliardi varato da Padoan il 27 ottobre in risposta ai rilievi dell’allora commissario agli Affari monetari Katainen, non è servito a molto. Il mega-assegno, pari allo 0,3 per cento del Pil, firmato dal nostro ministro dell’Economia, è stato considerato praticamente «a vuoto».
Come si ricorderà infatti il contrasto tra Roma e Bruxelles verteva sull’intervento sul deficit strutturale: l’Italia si era presentata con una correzione dello 0,1 per cento (1,5 miliardi) ma la Commissione voleva almeno lo 0,5 (circa 7,5 miliardi). Alla fine Renzi e Padoan dovettero cedere a Bruxelles chiudendo con un intervento dello 0,3 del Pil, i famosi 4,5 miliardi fatti con stretta all’evasione, fondi europei e rinuncia alla riduzione delle tasse. L’emendamento alla “Stabilità” è stato formalizzato ieri.
La «correzione», secondo le previsioni italiane, avrebbe dovuto ridurre il deficit-Pil strutturale, quello che conta ai fini del raggiungimento del pareggio di bilancio dopo la firma del Fiscal Compact: dallo 0,9 per cento contestato da Bruxelles si sarebbe scesi allo 0,6 per cento come cifrato dalla «Relazione di variazione alla nota di aggiornamento al Def» del 28 ottobre. L’intervento avrebbe avuto effetto anche sulla variabile tradizionale di Maastricht: dal 2,9 previsto in settembre al 2,6 post-rafforzamento stimato dal governo.
Invece, con un certo stupore emerso tra i palazzi del governo, le previsioni della Commissione hanno ritenuto che l’intervento da 4,5 miliardi abbia avuto effetto sulla riduzione del deficit-Maastricht anche se la discesa viene cifrata al 2,7 (non al 2,6 come sperava il governo). Ma non ha avuto effetto sul deficit strutturale che dallo 0,9 proposto a settembre dall’Italia scenderà per Bruxelles solo dello 0,1 per cento del Pil attestandosi nel 2015 allo 0,8 (e non allo 0,6 come contava Roma).
Questa valutazione si abbatte sulla variabile cruciale che dobbiamo portare a zero nel 2017, dopo aver chiesto il rinvio di due anni del pareggio di bilancio, e anche il giudizio sulla legge di Stabilità potrebbe risentirne: segnali di strada in salita per Italia e Francia sono giunti ieri dal presidente dell’Eurogruppo Dijsselbloem che ha annunciato lo slittamento del verdetto a fine mese.
Perché lo sforzo sul «3 per cento di Maastricht» non transita sul deficit «al netto della congiuntura del Fiscal compact»? Il tema è stato posto dal Tesoro italiano da settimane: è stato sollevato dal Cer, oggetto di osservazioni dell’Upb e di un articolo della voce.info a firma Cottarelli (Fmi) e Giammusso (Tesoro). Il problema è di modelli economici: la Commissione pensa che l’Italia non abbia le potenzialità per crescere più di tanto e dunque, visto che il deficit viene depurato dalla mancata crescita rispetto a quella possibile, lo «sconto» si riduce. L’Italia invece la vede in modo diametralmente opposto.

Il Sole 8.11.14
La via stretta di Renzi tra crescita e debito
di Guido Gentili


Non varcare la soglia del 3% di deficit in rapporto al Pil, ma sottolineando che quel limite è anacronistico e andrebbe rivisto. Convincere l'Europa (a partire inevitabilmente dai «tecnocrati») che il rinvio al 2017 del pareggio di bilancio «strutturale» (cioè corretto per il ciclo) è fisiologico, guadagnandosi - nell'ambito delle regole date, ma contestando i metodi di calcolo del prodotto «potenziale»- la maggiore flessibilità possibile. Evitare l'apertura di una procedura d'infrazione e scommettere che la tregua fin qui accordata dai mercati tenga e che i piani espansivi di Mario Draghi alla BCE non vengano stoppati.
Tutto si può dire, meno che la sfida del Governo Renzi, un mix di temerarietà innovativa e di sottile prudenza negoziale impersonate, rispettivamente, dal premier stesso e dal ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan, non sia difficile e impegnativa. Una sorta di «terza via» tra strappi e continuità per forza di cose sotto continuo esame, come si conviene del resto per un grande Paese, terza economia e seconda potenza manifatturiera alla spalle della Germania nell'Eurozona, ma anche terzo Paese - questa volta nel mondo dietro Stati Uniti e Giappone- per volume di debito pubblico accumulato.
L'Italia ha un disperato bisogno di crescere. Non lo fa praticamente da vent'anni e porta sulla sua devastata economia reale, dopo la crisi scoppiata nel 2008, i segni di una stagione di guerra. Senza crescita non può ridurre nemmeno il suo debito, che infatti ha continuato a lievitare nonostante gli straordinari risultati (ma anche a prezzo di una caduta verticale della spesa per gli investimenti) ottenuti negli anni sul fronte del disavanzo primario, al netto cioè degli interessi pagati (95 miliardi nel solo 2013) dallo Stato per finanziare il debito.
D'altra parte, se non corregge la traiettoria del debito, l'Italia non rischia solo a Bruxelles (che al momento plaude all'Irlanda e alla Grecia e bolla come «creativa» e inaccettabile anche l'ipotesi avanzata da Renzi di scorporare dal Patto di stabilità le spese per l'innovazione) ma sui mercati.
Sulla sostenibilità del debito non c'è un numero-soglia esatto (140% in rapporto al Pil? 150%?) ma una valutazione di credibilità del sistema-paese che si misura, appunto, sui mercati. E l'Italia resta sotto questo profilo vulnerabile e molto sensibile all'evoluzione, incerta, dei tassi d'interesse.
Quando l'Ocse prevede che la crescita sarà dello 0,2% nel 2015 e segnala il nostro Paese – con un debito al 133,8% secondo la Commissione europea in ascesa anche l'anno prossimo, in recessione e insieme, di fatto, in deflazione – alla penultima posizione nella classifica del G20, accende un faro su una prospettiva non tranquillizzante.
La stessa lettura si ricava dall'ultimo sondaggio-Eurobarometro della Ue tra i 18 paesi della moneta unica: l'Italia, per la prima volta nella sua storia, con il 47% degli italiani che ritengono l'euro una "cosa cattiva" è oggi il paese più euroscettico. A ben vedere, anche questo un risultato della persistente mancata crescita che peggiora il rapporto debito/Pil e, riattivandosi pressoché in automatico la richiesta europea di un più vigoroso consolidamento fiscale, stronca ogni possibilità di ripresa e la fiducia in un futuro prossimo migliore. Facendo ripartire la spirale infernale: non è possibile per il governo alzare l'orizzonte della politica economica espansiva ma quanto fatto e messo in cantiere può non bastare, la ripresa continuerebbe a latitare e il debito a salire.
Naturalmente sarebbe facile addossare ogni responsabilità all'Europa e all'euro, tralasciando il particolare che l'Italia non cresce da vent'anni e che il terzo debito pubblico del mondo non l'ha creato la moneta unica ma ce lo siamo costruiti (e accumulato) in casa nel corso di decenni.
La "terza via" in Europa del Governo Renzi, tra strappi e continuità, è molto stretta e vedremo quali risultati porterà, fermo restando che quest'Europa incompiuta e prigioniera di regole auto-soffocanti necessiterebbe di una revisione radicale. Invece, è più larga in Italia l'unica strada percorribile, quella dell'attuazione delle riforme: qui, dietro e davanti la Legge di stabilità su cui a fine mese si pronuncerà Bruxelles, ci sono per il governo grandi spazi da riempire, a cominciare dal Jobs Act, dal cantiere fiscale, dalla riduzione della spesa e dalla creazione di un ambiente favorevole all'attività d'impresa e all'attrazione di investimenti esteri.
Il tempo è poco, sui mercati la sostenibilità dell'Italia e del suo debito si gioca su questi terreni e misurando i fatti.

Il Sole 8.11.14
Tra riforma elettorale e patti in bilico sui mercati tornano i timori di voto
di Isabella Bufecchi

«Quanto dura questo governo? Le elezioni, sono dietro l'angolo?». Se c'è una domanda ricorrente sull'Italia che arrovella traders, strategists e fund managers esteri (e non solo), un interrogativo che mi viene posto ripetutamente, in qualsiasi circostanza, con ossessività, ebbene è proprio questo.
L'incertezza sulla tenuta dei governi italiani è in cima alle preoccupazioni internazionali. La stabilità politica di un Paese come l'Italia, che entra ed esce dalle recessioni con il suo enorme debito pubblico in spalla e con una crescita potenziale asfittica, è imprescindibile dalla sua affidabilità, dallo standing creditizio, dal rating sovrano. Come è possibile fare i compiti a casa, se la casa (che è anche il governo) non c'è?
Per chi investe in Italia, sotto tutte le forme e strumenti, che si tratti di bond, di equity, di infrastrutture, di M&A, la durata dell'esecutivo è un fattore chiave ma è una variabile incontrollata, una "x" che non quadra mai. «Sono bravo a prevedere il Pil di un Paese, mi destreggio tra tutti gli indicatori macroeconomici, ma non posso pronosticare la caduta di un governo o l'esito di un appuntamento elettorale: il rischio politico è imponderabile e per questo pesa molto nelle mie scelte di investimento», mi confessò il gestore di un grosso fondo americano dopo la caduta del Governo Monti. Decise poi di alleggerire le sue posizioni in BTP.
Inevitabilmente oggi i mercati sono tornati a chiedersi: «Ma quanto dura il Governo Renzi?». Lo fanno perché le headlines sul "Patto del Nazareno che scricchiola" hanno riacceso i riflettori sulla riforma della legge elettorale. Nelle scorse settimane l'accelerazione sulla riforma del lavoro di Renzi era stata musica per le orecchie dei mercati, anche se il diavolo sta nei dettagli. Poi è stata la volta della Legge di Stabilità a tenere banco, con i soliti battibecchi tra Roma e Bruxelles, ma un impianto nel complesso che ha convinto. La riforma della legge elettorale era sparita dai monitor dei traders, ma si è riproposta in queste ore con Renzi che apre a Grillo, con Berlusconi che frena. Ai mercati, in verità, dei dettagli della riforma elettorale importa poco o nulla: l'importante è che la riforma scongiuri il rischio dell'hung parliament, garantisca la vittoria solida di un partito, una maggioranza forte in parlamento che possa governare quasi indisturbata per una legislatura. È il presupposto indispensabile per mantenere alto il ritmo delle riforme strutturali.
Non è facile per quei traders tornare ad occuparsi in questi giorni della riforma della legge elettorale e quindi della tenuta del Patto del Nazareno. Con l'attuale legge elettorale l'Italia non può tornare alle urne, tranquillizzano i commentatori politici, ma i mercati non sono tranquilli, non la bevono fino in fondo, non credono che senza riforma le elezioni non saranno indette. Sono abituati ai colpi di scena: e sono terrorizzati dal pericolo che la marcia delle riforme si interrompa all'improvviso per la chiamata alle urne, un evento che congela qualsiasi iniziativa governativa e parlamentare di rilievo per mesi.
Mi è sempre rimasta impressa la tabellina di un rapporto sull'Italia di Morgan Stanley di qualche tempo fa: conteneva la lista di tutti i governi che si sono succeduti dagli inizi degli anni 70, da Giulio Andreotti a Mario Monti, in tutto 34. Con Letta e Renzi siamo a 36. Mentre l'Italia si diverte a ritirare in ballo la storia "dei due forni", quella battuta di Andreotti che comprava il pane ora dai socialisti ora dai comunisti per non rendere nessuno indispensabile e necessario (come farebbe ora Renzi con Grillo e Berlusconi) i mercati hanno un'unica preoccupazione: che nel forno finisca questa fragile stabilità politica italiana e con essa i primi barlumi delle riforme.

il Fatto 8.11.14
Criminalità
Autoriciclaggio. Bankitalia contro Renzi
Visco chiede norme più severe di quelle in discussione al Senato


Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, considera un primo passo la norma sull’autoriciclaggio che il Senato sta esaminando, ma non sufficiente a colpire chi prova a riciclare i proventi dei propri crimini. A un convegno della Fondazione Cirgis, a Milano, Visco parla di “Contrasto all’economia criminale” come “precondizione alla crescita economica”. E il passaggio politicamente più rilevante è questo: “In molte occasioni la Banca d’Italia ha segnalato l’urgenza di introdurre nell’ordinamento il reato di autoriciclaggio. La definizione di una adeguata fattispecie penale consentirebbe di punire efficacemente gli autori dei reati di evasione fiscale, truffa e corruzione i cui comportamenti in vario modo ostacolano l’individuazione della provenienza delittuosa del denaro”. Con una definizione adeguata di autoriciclaggio si eviterebbe il rischio prescrizione, perché la pena prevista (di solito bassa) per questi reati verrebbe aumentata da quella prevista per l’autoriciclaggio.
Il disegno di legge che il Parlamento sta discutendo, ora in Senato per la seconda lettura dopo l’approvazione della Camera, non convince Visco: “Prevede pene detentive per chi - avendo commesso un delitto - impiega i proventi con la finalità di ostacolare l’identificazione del reato presupposto. Esclude quindi la punibilità in caso di mero impiego di tali proventi”. In pratica si può punire l’evasore perché cerca di occultare l’evasione fiscale ma non se usa i soldi sottratti al fisco per comprare un’auto o per un investimento finanziario.
Nel suo intervento, Visco ricorda quale zavorra rappresenti la criminalità organizzata per l’Italia. Un freno allo sviluppo la cui portata è anche difficile da calcolare perché, per definizione, le attività criminali sono fuori dalle statistiche ufficiali. Secondo stime un po’ a spanne, come ricorda lo stesso Visco, la criminalità organizzata è costata 16 punti di Pil (circa 240 miliardi) di mancata crescita alla Puglia e alla Basilicata dagli anni Settanta a oggi. Un’altra stima sempre ardita sostiene che il posticipo dell’obbligo scolastico introdotto dalla riforma Berlinguer nel 1999 ha aumentato la scolarizzazione del 7 per cento e ridotto la delinquenza minorile del 20. Come dire: il crimine non si combatte soltanto con pene più dure e ridurlo è nell’interesse di tutti.

Corriere 8.11.14
Il fisco che complica invece di semplificare
Abolizione dello scontrino: l’ennesimo annuncio
di Sergio Rizzo

qui

il Fatto 8.11.14
Pensioni in calo, colpa di Pil e riforme
Con il passaggio al sistema contributivo la rivalutazione è legata alla crescita, che ora è negativa
di Sal. Can.


La pensione del futuro sarà sempre più bassa. Ancora di più di quanto era prevedibile fino a ieri. Negli ultimi anni, infatti, è accaduto quello che, quando fu istituito il sistema contributivo, nessuno aveva previsto: la variazione negativa del Prodotto interno lordo per effetto della recessione prolungata. Secondo le nuove norme, varate nel 1995 e rilanciate dalla riforma Fornero, questo si rifletterà sul calcolo delle pensioni future in modo disastroso. Le perdite per i pensionati di domani possono essere di diverse migliaia di euro a seconda del tipo di pensione, di anni di contribuzione e di età del pensionato stesso.
L’effetto negativo è il frutto del metodo contributivo, quello che nel 1995, con la riforma Dini, ha preso il posto del sistema retributivo. Fino a quella data, infatti, le pensioni erano parametrate sulla media degli ultimi dieci stipendi (fino al 1992 erano gli ultimi cinque) in seguito alla riforma del 1969 che agganciava la pensione “al salario”.
CON LA RIFORMA Dini si stabilisce, invece, che l’assegno previdenziale dipenderà dal numero dei contributi versati e da un coefficiente di rivalutazione legato al Pil. I contributi annui rivalutati formano il montante contributivo individuale. E il montante contributivo individuale viene rivalutato al 31 dicembre di ogni anno sulla base della variazione media quinquennale del prodotto interno lordo nominale. Non sulla base dell’andamento dei prezzi ma sulla crescita dell’economia reale.
Dal 2009, però, il Pil ha registrato una perdita secca: - 5,5% in quell’anno e poi, dopo i rialzi del 2010 e 2011, -2,4% nel 2012 e -1,9% nel 2013. Segno negativo anche quest’anno, con una previsione di -0,3%. Così, per la prima volta, quest’anno il tasso di capitalizzazione è risultato negativo: - 0,1927%. E negativo sarà anche negli anni a venire.
L’impatto sarà immediato sugli assegni previdenziali anche perché, a partire dal 1° gennaio 2012, le anzianità contributive verranno calcolate per tutti i lavoratori con il sistema di calcolo contributivo e, per coloro che avevano maturato un diritto retributivo, avranno una pensione in pro rata calcolata con entrambi i sistemi di calcolo.
DI FRONTE A QUESTA situazione Cgil, Cisl e Uil hanno assunto una posizione unitaria: “Riproponiamo con forza - scrivono Vera Lamonica, Maurizio Petriccioli e Domenico Proietti - quanto da noi già sostenuto nella piattaforma unitaria su fisco e previdenza: va attuata una correzione nel funzionamento del sistema contributivo, prevedendo un tasso di capitalizzazione minimo che impedisca la svalutazione del montante quando il Pil è negativo”. Cgil, Cisl e Uil chiedono a governo e parlamento “un emendamento alla legge di Stabilità, che si unisca all’altro, egualmente indispensabile, di eliminazione del previsto aumento dall’11,5% al 20% sui rendimenti annuali dei Fondi Pensione”.
L’emendamento, però, andrà valutato e approvato dal governo che, finora, non si è pronunciato. L’Inps, attualmente gestita dal commissario Tiziano Treu, non ha attivato nessuna procedura limitandosi a ribadire che l’istituto si limita ad applicare il calcolo così come comunicato dal ministero del Lavoro. Che a sua volta prende, automaticamente, le rilevazioni Istat. Effetto di quella riforma, voluta dal governo Dini, e preparata dal ministro del Lavoro di allora. Guarda caso, lo stesso Tiziano Treu.

Corriere 8.11.14
Le pensioni e la beffa dei contributi che si svalutano
di Enrico Marro


A causa della prolungata recessione, l’annuale tasso di rivalutazione del montante contributivo per la prima volta è negativo. Per capire con un esempio: su ogni 100 mila euro di contributi versati se ne perdono 192. Il tasso elaborato quest’anno, infatti, porta il segno meno: -0,1927%. Il numeretto si calcola, ogni anno, sulla base dell’andamento del prodotto interno nominale del quinquennio precedente. Tale tasso si applica quindi al montante contributivo che serve a calcolare la pensione. Tuttavia, nonostante la recessione, sarebbe bene che il capitale versato fosse garantito, almeno in termini nominali.
Se la pensione pubblica non garantisce nemmeno i contributi versati, allora si spezza il senso stesso della previdenza obbligatoria. Se quello che verso può essere addirittura svalutato, come se avessi investito in un qualsiasi fondo privato, perché devo essere ancora costretto a versare i miei contributi all’Inps?
Il problema è sorto in questi giorni con la comunicazione dell’Istat all’Inps dell’annuale tasso di rivalutazione del montante contributivo, tasso che per la prima volta è negativo, a causa della prolungata recessione. Per capire con un esempio, basti dire che su ogni 100mila euro di contributi versati se ne perdono 192. Il tasso elaborato quest’anno porta infatti per la prima volta il segno meno: -0,1927%. Il numeretto si calcola, ogni anno, in base alla legge Dini del 1995, sulla base dell’andamento del prodotto interno nominale del quinquennio precedente. Tale tasso si applica quindi al montante contributivo che serve a calcolare la pensione quando uno smette di lavorare. Al momento della riforma Dini nessuno poteva immaginare che l’economia avrebbe attraversato un ciclo recessivo lungo. Ma si può rimediare. L’Inps sta per chiedere ai ministeri del Lavoro e dell’Economia come deve comportarsi. Sarebbe bene che la risposta fosse tempestiva e netta: il montante non può essere svalutato, il capitale versato deve essere garantito, almeno in termini nominali.
Fatto questo sarà anche necessario che la Ragioneria dello Stato elabori stime dei tassi di sostituzione delle pensioni sulla base di tassi di crescita del Pil più bassi di quelli ipotizzati finora (1,5% in media d’anno) e che l’Inps dia al più presto a tutti la possibilità di simulare online la futura pensione.

il Fatto 8.11.14
C’eravamo tanto amati
Il nuovo divorzio all’italiana: lungo e tutt’altro che facile
di Emiliano Liuzzi


LO SCIOGLIMENTO AVVERRÀ SEMPRE TRE ANNI DOPO LA SEPARAZIONE. LE PROCEDURE SI SVOLGERANNO IN COMUNE, ANCHE SENZA AVVOCATI, SE NON CI SONO FIGLI NÉ CONTENZIOSI

Il divorzio breve è diventato facile, almeno così dicono dalle stanze del governo. “Un ossimoro”, secondo l'avvocato Annamaria Bernardini De Pace, la matrimonialista più autorevole d'Italia. “Può essere breve, e questa nuova legge allunga i tempi invece di accorciarli”, spiega al Fatto Quotidiano, “ma facile non può mai essere. Parla una persona che da anni combatte perché la fine del matrimonio diventi lampo, divorzio lampo. La legge che entrerà in vigore quando verrà pubblicata sulla Gazzetta ufficiale, almeno un mese, mi sembra una di quelle cose all’italiana, un minestrone. Tempi sicuramente invariati, a occhio più lunghi; parcelle da pagare agli avvocati più salate; incertezza sulla competenza. Ma soprattutto la solita discriminazione tra i figli nati nel matrimonio e quelli che invece sono fuori”.
Facile in realtà è un’espressione dei giornali. Ma, anche con l’aiuto dei giuristi, siamo sul terreno delle ipotesi: la legge non può fare ancora il miracolo di prevedere cosa accadrà con i ricorsi delle parti, la costituzionalità, le eccezioni più o meno ammissibili. A intuito si può dedurre che sarà semplice (ma in tempi lunghi) separarsi e poi sciogliere il vincolo se non ci sono figli o grandi beni da spartire. Il resto lo scopriremo per strada.
Le soluzioni promosse dal decreto legge
Le nuove regole sono state inserite nel decreto sulla giustizia civile (lo stesso che prevede la negoziazione arbitrale e il periodo di ferie nei tribunali dal 1° al 31 agosto e non più fino al 15 settembre) trasformato in legge due giorni fa. L’elemento nuovo, e che non piace per niente ai vescovi e all’ala ultracattolica del Parlamento, è quello di poter evitare il passaggio davanti al tribunale dove fino a oggi le coppie che volevano separarsi e, trascorsi i tre anni, divorziare, sono obbligate ad andare. In qualità di pubblico ufficiale lo potrà fare il sindaco. Non cambieranno i tempi del divorzio, che arriverà sempre tre anni dopo la separazione, ma si eviterà il tribunale facilitando la consulenza di avvocati di parte per avviare la procedura di separazione e accompagnarla fino al divorzio. Sempre che nel nucleo familiare non ci siano figli minori, portatori di handicap ed economicamente non autosufficienti: in questi casi le regole sono diventate addirittura più complesse. Nel senso che è possibile avvalersi di un avvocato e presentarsi in prima istanza nel Comune dove il matrimonio è stato celebrato e trascritto, ma l’ufficio deve trasmettere gli atti al Procuratore della Repubblica (novità assoluta) che potrà ricorrere al tribunale.
Un metodo “facile” nella definizione, ma che deve ancora essere metabolizzato e sperimentato dagli stessi avvocati. Sicuramente era e resta congelato in Senato il cosiddetto decreto Moretti, che prevedeva separazioni lampo, da sei mesi a un anno. Ma vediamo cosa cambierà nella sostanza.
Coppia senza prole che vuole separarsi
In questo caso la procedura è semplice. In teoria, in assenza di contenzioso economico e patrimoniale, può essere evitato anche il passaggio dall’avvocato se non esistono questioni aperte. I coniugi si presentano in Comune e vengono riconvocati 30 giorni dopo per la conferma delle loro intenzioni. A quel punto c’è la separazione, ma per il divorzio, dunque lo scioglimento del matrimonio, dovranno presentarsi dopo tre anni come oggi.
La procedura si complica per chi ha figli minori
In questo caso la pratica può essere sempre sbrigata in Comune, davanti al sindaco o a una persona che lui delega, ma l’accordo deve essere trasmesso alla Procura della Repubblica dove, un pubblico ministero, dovrà valutare la situazione nell’interesse dei minori e si dovrà esprimere anche tre anni dopo quando sarà possibile chiedere lo scioglimento definitivo del matrimonio.
Figli maggiorenni disabili o senza reddito
In questi casi i passaggi diventano tre. La coppia si presenta in Comune – sempre che non ci siano controversie – e formalizza la richiesta di separazione. Gli atti vengono trasmessi alla Procura della Repubblica che, a sua volta, se tutto rientra nella norma, si rivolge al presidente del Tribunale civile che si esprime in ultima istanza sulla separazione e, dopo il triennio, sul divorzio. L’accordo raggiunto a seguito di negoziazione assistita da avvocati è equiparato ai provvedimenti giudiziali che definiscono i procedimenti di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio.
Se c’è conflitto la procedura resta giudiziale
Nelle cause in cui esiste un conflitto insanabile, che numericamente sono la maggior parte, la procedura sarà quella attuata fino a oggi: la separazione e il divorzio si discutono esclusivamente in tribunale davanti al giudice.
E le parcelle degli avvocati?
Aumentano...
Non ci sono dubbi. Oggi uno studio legale con un nome non chiede meno di 6.000 euro per avviare una causa di separazione che all’apparenza si risolve con un accordo. Con la nuova legge – e lo dicono gli avvocati – come minimo la parcella verrà raddoppiata.
Lasciamo le conclusioni all’avvocato De Pace, in attesa, anche lei, di capire cosa accadrà nella vita reale dei tribunali: “Complicazioni ci aspettano. Anche perché non esiste una specializzazione e tutti si improvvisano avvocati matrimonialisti, una tema assai difficile. Il futuro prevede che chi ha competenza possa scontrarsi con colleghi che nel quotidiano si occupano di altro. Per chi ha delle competenze i tempi di lavoro si allungano e di conseguenza anche le parcelle non potranno più essere le stesse applicate in passato, visto che ci impongono anche spese che, in caso di errore e non è detto che sia nostro, dovremo pagare. Gli avvocati chiederanno quella copertura, non possono lavorare e rischiare di rimetterci. Un minestrone. All'italiana, come sempre”.

Repubblica 8.11.14
Perché Napolitano lascerà il Quirinale alla fine dell’anno
di Stefano Folli


CON gli amici che vanno a trovarlo o gli parlano al telefono Giorgio Napolitano lascia trasparire in questi giorni un duplice sentimento. Da un lato è soddisfatto per l’energia e la determinazione messe in mostra dal presidente del Consiglio, Renzi. Gli sembra che il dinamismo e la volontà di affrontare i problemi siano i fattori politici di cui il Paese ha bisogno in questa fase drammatica. La legislatura ha bisogno di un motore e Renzi dimostra di possedere il temperamento adatto a incarnare lo spirito dei tempi.
Dall’altro lato il presidente della Repubblica non fa mistero della sua intenzione di concludere in tempi brevi il suo secondo mandato. La data nella sua mente è già ben definita: la fine dell’anno, allo spirare del semestre italiano di presidenza dell’Unione europea. Le ragioni sono legate alla fatica del compito, sempre più estenuante per un uomo che nel prossimo mese di giugno festeggerà i novant’anni.
NAPOLITANO è stanco e ritiene di aver diritto di esserlo. Rispetta gli impegni con puntualità, quelli interni e quelli internazionali, ma sta diradando l’agenda, se si tratta di allontanarsi dal Quirinale. Fra qualche giorno, il 17, sarà all’Università Bocconi per assistere al ricordo di Giovanni Spadolini a vent’anni dalla morte. Poi un paio di appuntamenti europei, di cui uno a Torino, utili a ricordare che il destino italiano si compie in Europa e non altrove. Infine il messaggio di Capodanno agli italiani, l’ultimo dei nove pronunciati a partire dal 31 dicembre 2006.
È un percorso di cui si mormora da tempo nei palazzi della politica romana e adesso c’è anche la certezza che la decisione del presidente è presa. Nel 2015 Napolitano seguirà le vicende italiane dallo studio di Palazzo Giustiniani che è già pronto ad accoglierlo quale presidente emerito. Tuttavia lo stato d’animo del presidente non è quello con cui, fino a qualche mese fa, egli guardava alla conclusione del suo incarico. Aveva sperato a lungo di legare questa scadenza al successo delle riforme istituzionali e della legge elettorale. Soprattutto quest’ultima, che non richiede, come è noto, una revisione della Costituzione, gli è sempre parsa la più adatta a chiudere un’epoca e ad aprirne un’altra: proprio perché, nella condizione del Paese, si tratta di una legge di sistema, destinata a garantire l’assetto generale delle istituzioni.
Dunque una legge sfrondata dagli elementi di incostituzionalità che avevano provocato il naufragio della precedente norma a opera della Consulta. E al tempo stesso un modello in grado di rassicurare l’opinione pubblica circa il fatto che il confronto politico si sviluppa entro argini ben definiti e se possibile tra forze che tendono a riconoscersi l’un l’altra come pienamente legittimate, in grado cioè di scambiarsi i ruoli di governo e opposizione in un quadro di stabilità. In fondo era solo su questa base che Napolitano aveva accettato il secondo mandato. E chi ricorda il discorso d’insediamento davanti alle Camere riunite, il 22 aprile 2013, rammenta anche il tono aspro, quasi sferzante con cui il capo dello Stato appena rieletto aveva richiamato i parlamentari alle loro responsabilità. Era in gioco allora come oggi la corretta funzionalità delle istituzioni e una prospettiva politica capace di rendere salde le radici europee della dialettica interna.
Nel mosaico immaginato da Napolitano c’era molto di più: il riassetto del sistema bicamerale, la riforma della pubblica amministrazione, della giustizia e altro. Ma la nuova legge elettorale appariva quasi un pegno urgente da offrire agli italiani per convincerli che la stagione dell’eterna transizione era davvero alle spalle.
Come chiunque può notare, oggi lo scenario non è quello sperato e Napolitano non nasconde la sua delusione. È chiaro che alla fine dell’anno non avremo la riforma del voto, ma è altrettanto certo che il presidente della Repubblica non aspetterà i tempi dei partiti. Non intende farsi condizionare dai ritardi e della solita pratica del rinvio. Su tale passaggio si mostra molto deciso con i suoi interlocutori. Quindi viene meno il nesso tra riforme e dimissioni. E non ci sarà l’inaugurazione di Expo 2015, come vorrebbe il premier Renzi. L’uscita dal Quirinale sarà il compimento di una missione personale, il cui bilancio sarà dato dalla gran mole di atti compiuti in oltre otto anni e mezzo. Ma se le forze politiche non sono state in grado di dare forma conclusa a un nuovo capitolo della storia repubblicana, il presidente le lascia alle loro responsabilità. Non le asseconderà al solo scopo di coprire lacune e debolezze di un sistema rinnovato solo in piccola parte.
Ora prevalgono le ragioni di salute, per cui ogni giorno trascorso nel palazzo costa un sacrificio di cui non tutti sono consapevoli. Napolitano è sicuro di aver superato in modo brillante la prova più dura sul piano psicologico, la testimonianza davanti ai magistrati e agli avvocati del processo di Palermo. Ma l’intera vicenda, come è noto, lo ha ferito. Ripete spesso due punti che gli stanno a cuore. Primo, non intende trovarsi a gestire una nuova crisi politica e di governo, non se la sente più di reggere gli sforzi fisici e mentali già sopportati nel recente passato. A maggior ragione — ed è il secondo aspetto sottolineato — egli non porterebbe mai il paese a nuove elezioni anticipate. Non ci sarà più uno scioglimento delle Camere da lui firmato. Toccherà eventualmente al successore decidere in merito. E il presidente ritiene che in democrazia il Parlamento deve essere pronto e capace in ogni momento di eleggere un’altra figura al vertice istituzionale.
Questo è il sentiero prefigurato al Quirinale. I partiti hanno quindi poco tempo per affrontare il problema ed evitare che la scelta del successore di Napolitano, di qui a poche settimane, si trasformi in un altro episodio di logoramento istituzionale. Tuttavia il copione non è stato ancora scritto. Non esiste un’ipotesi reale di accordo su un nuovo nome. Ci sono in campo tre soggetti maggiori, il Pd, Forza Italia e i Cinque Stelle. Più altri soggetti minori suscettibili di giocare una loro partita, come i leghisti. Se e come i fili saranno annodati, attraverso quali intese trasparenti o sotterranee, per ora non è dato sapere. Ma tutti sanno che il tempo stringe.

il Fatto 8.11.14
La cella, le manette e i jeans
Cucchi, i CC si contraddicono
di Silvia D’Onghia


RICORDI CONTRASTANTI TRA I CARABINIERI CHE PORTARONO STEFANO IN TRIBUNALE DOPO L’ESPOSTO DELLA FAMIGLIA, APERTA L’INDAGINE SUL MEDICO DELLA PROCURA

Abbiamo consegnato i due albanesi a una guardia penitenziaria e insieme, lui e noi tre, ci siamo recati a portarli ognuno nella sua cella. Contemporaneamente i due colleghi delle pattuglie di zona hanno accompagnato il Cucchi, con un’altra o la stessa guardia penitenziaria, presso un’altra cella. Io ho visto entrare Cucchi in questa cella che era situata più o meno a metà del corridoio”. Questo dichiara ai pm il 7 novembre 2009, circa 15 giorni dopo la morte di Stefano Cucchi, il carabiniere Francesco Tedesco, in servizio all’epoca presso la stazione di Roma Appia. È uno dei militari che lo hanno arrestato la notte tra il 15 e il 16 ottobre, mentre il ragazzo spacciava hashish e cocaina nel Parco degli Acquedotti. Insieme con lui, quella notte e poi nei sotterranei di piazzale Clodio la mattina dopo, c’è anche il collega Gabriele Aristodemo. Eppure la versione di quest’ultimo della “consegna” dell’arrestato è molto differente. Sentito anch’egli come persona informata sui fatti, ai pm dichiara: “Intorno alle 9.40 io e il carabiniere Tedesco abbiamo consegnato alla polizia penitenziaria i due arrestati albanesi e immediatamente dopo i due colleghi della pattuglia Casilina hanno fatto lo stesso con Cucchi. Più precisamente davamo i nominativi degli arrestati allo sportello dove era presente un appartenente alla penitenziaria. Nell’ufficio c’era anche un altro appartenente alla P. P. mentre altre due guardie provvedevano materialmente a prendere gli arrestati e a portarli nelle rispettive celle. Non so se ognuno dei tre arrestati sia andato in una cella singola perchè dal punto dove mi trovavo non si riescono a vedere le celle”. Chi ha accompagnato Stefano Cucchi in cella, i carabinieri o la penitenziaria? E perché uno dei due militari vede la cella e l’altro no?
NON È L’UNICA contraddizione che emerge dai verbali di assunzione di informazioni, su cui adesso la famiglia Cucchi si augura che il procuratore Pignatone possa far luce. Tedesco preleva Cucchi per portarlo dalla cella dei sotterranei all’aula 17 “senza le manette”; Aristodemo sostiene invece di averlo preso, insieme a Tedesco, “con le manette”. C’è poi un elemento sul quale non solo hanno ricordi differenti, ma sono stati entrambi smentiti dai reperti. Tedesco parla dei pantaloni che indossava Stefano come di jeans “molto trasandati, piuttosto sporchi e forse avevano qualche taglio”. Aristodemo conferma il “taglio all’altezza della coscia destra”, ma non ricorda “di aver visto né particolari macchie né particolari rotture”. La foto dei jeans di Stefano, che questo giornale ha già pubblicato, evidenzia come sul tavolo dell’obitorio le uniche macchie presenti fossero quelle di sangue e che non era presente alcun taglio, a eccezione dei buchi eseguiti dai periti per le analisi.
Entrambi i carabinieri sostengono che il ragazzo camminava normalmente, ma l’agente penitenziario Nicola Minichini che lo prende in consegna subito dopo l’udienza di convalida ha detto invece al Fatto di averlo visto camminare con fatica. C’è poi un particolare, nel racconto di Tedesco, che stride con la registrazione di quel giorno e con la testimonianza del padre Giovanni: il militare afferma che Cucchi “ha parlato tranquillamente al giudice” e ha “salutato tranquillamente il padre”. Nell’audio dell’udienza si sente chiaramente il ragazzo affermare: “Mi scusi, signor giudice, ma non riesco a parlare bene”. E sappiamo quanto teso fu l’abbraccio tra Giovanni e Stefano: “Papà, ma lo vuoi capire che m’hanno incastrato? ”. Incongruenze, però, che evidentemente la Procura di Roma non ha ritenuto determinanti ai fini delle indagini.
Ieri il procuratore capo, Giuseppe Pignatone, ha aperto un fascicolo “atti relativi”, cioè senza indagati e senza ipotesi di reato, dopo la denuncia presentata dalla famiglia Cucchi contro il perito Paolo Arbarello, consulente dei pm accusato di aver redatto una falsa perizia sulla morte di Stefano. Il professore sta valutando in queste ore se querelare Ilaria Cucchi. E la stessa sorella del ragazzo ha nuovamente incontrato Pignatone, che terrà per sè il fascicolo: “Non è stato tempo perso”, ha detto stavolta Ilaria.
INTANTO la storia di Cucchi continua a mobilitare le coscienze. Questo pomeriggio, alle 18, è prevista a Roma una grande fiaccolata “Mille candele per Stefano”, promossa dai familiari e da Acad (Associazione contro gli abusi in divisa). Decine le adesioni tra comitati, associazioni, municipi, centri sociali e singoli cittadini.

La Stampa 8.11.14
Cucchi, la Procura apre un’indagine sul perito
La decisione dopo l’esposto della famiglia di Stefano contro il professor Arbarello
L’accusa: «Con la sua consulenza orientò l’inchiesta»

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Corriere 8.11.14
Limiti agli scioperi, spettacoli salvi
La ritirata dei duri dell’opera
Cambio di rotta dei sindacati dietro le svolte nei teatri lirici di Roma e Palermo
di Dario Di Vico


Opera di Roma e Teatro Massimo di Palermo, i sindacati degli orchestrali hanno cambiato spartito: tagli di stipendio e limiti agli scioperi per salvare spettacoli e posti di lavoro

Nel pieno di quello che viene considerato l’ennesimo autunno caldo italiano spuntano, in due situazioni (territorialmente) lontane tra loro, accordi che prevedono una moratoria degli scioperi o comunque un «raffreddamento della conflittualità». La sorpresa diventa doppia quando si scopre che a siglare queste intese sono le rappresentanze sindacali degli orchestrali e dei lavoratori dell’Opera di Roma e del Teatro Massimo di Palermo che, per vie diverse, sono arrivate alle medesime conclusioni. Ovvero che senza accettare un drastico piano di tagli agli stipendi e senza concordare limitazioni pur temporanee alla possibilità di far saltare gli spettacoli non si va da nessuna parte.
Ma come è stato possibile che la lirica italiana sia diventata nel giro di poco tempo un laboratorio di relazioni sindacali pragmatiche? Così ragionevoli da capovolgere il senso della felliniana «Prova d’orchestra» che invece denunciava il sindacalismo anarcoide di origine sessantottina?
La prima riposta è immediata: i sindacati hanno dovuto fare di necessità virtù. In entrambi i casi, a Palermo come a Roma, avrebbero rischiato grosso, in Sicilia c’è da coprire un buco di tre milioni e nella Capitale si era già materializzata l’ipotesi di un clamoroso licenziamento collettivo e della liquidazione del teatro. Senza rimettere in discussione produttività e flessibilità — termini che sanno di fabbrica e che questa volta verranno usati per misurare concerti e balletti — i due enti non avrebbero avuto futuro.
Racconta Francesco Giambrone, sovrintendente del Teatro Massimo di Palermo dal luglio di quest’anno: «Non è solo una resa, è anche cambiato il clima culturale. Se non fosse stato così non saremmo riusciti a negoziare un accordo con i sindacati velocemente e in silenzio. I teatri devono mettersi in condizione di produrre di più e lo devono fare contenendo i costi. Una volta sarebbe stato impossibile, ora tutti conveniamo che è la sola strada che abbiamo davanti». L’intesa sottoscritta in Sicilia tra le parti (Slc-Cgil, Fistel-Cisl, Uilcom, Fials-Cisal e Fondazione Teatro Massimo) prevede per il 2014 un taglio straordinario dei costi del personale pari a 1,3 milioni (nelle buste paga più ricche vorrà dire anche 5 mila euro annui in meno mentre sulle quelle più modeste il calo sarà di 1.200 euro annui), mentre dal 2015 entrerà in vigore un accordo triennale che farà calare di 840 mila il monte stipendi oltre a riorganizzare tutta una serie di funzioni aziendali. A garanzia di questo percorso di risanamento i sindacati si sono altresì impegnati a una moratoria per una serie di spettacoli «a bollino rosso» che non posso assolutamente saltare come le tournée all’estero e gli eventi sponsorizzati. In totale le serate che a fine 2014 saranno tra le 70 e le 80 dovranno diventare dal 2016 almeno cento.
A Roma la svolta culturale dei sindacati è stata ancora più repentina e la scelta di ridurre la conflittualità decisamente radicale. Davanti i rappresentanti dei lavoratori avevano il rischio concreto di 180 licenziamenti e persino della liquidazione del teatro, ma avevano anche vissuto una drammatica spaccatura dei sindacati con la Cgil in posizione oltranzista e gli altri più possibilisti. Cosa è cambiato? Secondo Massimo Di Franco, responsabile della Cisl, «non potevamo lasciare la scena a cooperative anonime che avrebbero varato una produzione raccogliticcia, dovevamo salvare la qualità». Per Alberto Manzini della Cgil: «Siamo tornati a discutere perché abbiamo visto un atteggiamento diverso da parte del sovraintendente Fuortes. Accantonati i licenziamenti non c’è nessuna remora a sfidare l’azienda sulla produttività, anzi». Nel concreto il risanamento prevede il congelamento del premio di produzione e la rinuncia a varie indennità, di cui diverse anacronistiche .
Ma la vera novità è nell’impegno a produrre di più: finora gli orchestrali dell’Opera di Roma erano impegnati solo 125 giorni l’anno mentre Venezia — solo per fare un esempio — lavora il doppio. In virtù dell’intesa «salva teatro» le recite liriche (salvo Caracalla) nel 2015 da 51 diventeranno 71. Quanto agli scioperi Cisl e Cgil hanno ancora qualche divergenza lessicale, i primi sono per una moratoria mentre i secondi optano per «relazioni industriali che raffreddino la conflittualità». Ma lo spartito è comunque cambiato .

il Fatto 8.11.14
Roma da ridere
Le multe, la Panda e le bombe d’acqua. È Marino Comics
di Andrea Scanzi


Probabilmente si aspettava una trama diversa, lui come chi lo ha eletto sindaco di Roma. Neanche un anno e mezzo fa, Ignazio Marino era percepito come una delle espressioni meno furbastre del Partito democratico. Dunque una delle figure migliori. Ora è cambiato tutto e non in meglio. La vita da sindaco di Marino, 59 anni da Genova, ha un che di costantemente tragicomico. La bomba d’acqua, paventata e mai arrivata, è solo l’ultimo inciampo di una lunga serie. Oltretutto, mentre esortava i romani a non uscire di casa, tra scuole e stazioni metro chiuse, lui se ne stava a Milano. Un’assenza più o meno giustificata, perché era un impegno istituzionale, ma anche questo ha alimentato la sensazione del sindaco alieno: del corpo estraneo. Non è un caso che Max Paiella, quando lo imita su RadioDue, lo tratteggi come un politico disperatamente bisognoso di dimostrare agli elettori la propria “romanità”: peccato che poi, alla prova dei fatti, non sappia nemmeno dire daje (ma un mestissimo “dage”). Secondo sondaggi ormai neanche più clandestini, Marino ha oggi la fiducia di due soli romani su dieci: una Waterloo vera, su cui provano a far leva politici con un senso del ridicolo poco pronunciato.
PER ESEMPIO ALEMANNO, quello che se la prendeva con i pini (“Colpa degli alberi di Roma, non sono abituati alla neve”). Decenza minima gli imporrebbe il silenzio, ma lui twitta a mitraglia: “Roma sotto la #pioggia e @ignaziomarino fugge a Milano con una falsa scusa. Bel modo di #mettercilafaccia. #ora-basta”; “Roma in emergenza maltempo e #IgnazioMarino a Milano all'assemblea #anci2014 a fare nulla? ”. Spesso Marino non è difeso neanche dal suo partito: non essendo granché renziano, vanta ben pochi santi al Nazareno. Agli errori legati alla gestione maltempo si sono unite le vicende fantozziane della mitica (vabbè) Panda rossa, parcheggiata “in deroga” 14 mesi nei posti riservati ai senatori. Il sindaco, che abita a due passi e verosimilmente preferiva quel posto gratuito agli esosissimi garage a pagamento, aveva addotto motivazioni d’emergenza (minacce e atti vandalici seguiti alla sua elezione). Alla fine, tardivamente e dopo i servizi de Le Iene, l’ha spostata. Poi però sono arrivate le otto multe per essere entrato nella zona a traffico limitato con pass scaduto. Dal 23 giugno al 21 agosto 2014, sempre con la Panda rossa. Ottanta euro a infrazione: due pagate, sei no. Secondo il senatore Ncd Augello, che ha vergato una interrogazione parlamentare ad hoc, le multe sono state “bloccate d’ufficio dall’amministrazione comunale, sanando i due mesi di mancato rinnovo del permesso come se si trattasse di un errore del Comune”. Se la bomba d’acqua non è arrivata, di sicuro sopra Marino non smette mai di piovere. Politicamente e ancor più mediaticamente. Lo crivellano di continuo: per avere pressoché regalato il Circo Massimo ai Rolling Stones; per avere officiato matrimoni gay ben sapendo che in quei casi la sua firma sarebbe valsa quanto un autografo; per i litigi rabbiosi con Bruno Vespa sui rifiuti; per le ordinanze ambientaliste, per l’aumento delle rette per gli asilo nido.
A INIZIO MANDATO, Marino amava farsi ritrarre mentre pedalava allegro per la città, il casco in testa e la povera scorta ad arrancare dietro. Forse credeva che, per governare Roma, bastasse qualche selfie bucolico. La realtà si è rivelata appena diversa, e oggi Marino sembra una brava persona finita in un gioco – quasi mai divertente – troppo più grande di lui.

La Stampa 8.11.14
La bici, il vigile e il Sessantotto
Il percorso a ostacoli di Marino
Il sindaco di Roma tra gaffes e promesse difficili da mantenere
di Mattia Feltri


Ignazio Marino fa bene a preoccuparsi - sempre che si preoccupi - perché per i romani il peggior sindaco è l’ultimo, da che mondo è mondo, ma nel suo caso l’opinione pare straordinariamente diffusa. Un sondaggio di una decina di giorni fa della Swg - e per di più commissionato dal Partito democratico - ha svelato che alla domanda «che cosa funziona bene a Roma? », il 54 per cento ha risposto «nulla». Soltanto il venti per cento degli intervistati conserva fiducia nel lavoro di Marino, il resto per nulla. Il fatto che il sondaggio fosse a beneficio interno, ma sia poi finito sui giornali, dimostra quello che è già noto: il sindaco non è una star nemmeno dentro il suo partito. E tuttavia è piuttosto difficile valutare il lavoro del reggente del Campidoglio, poiché Roma è una città ormai quasi impossibile da governare, e a maggior ragione adesso che i debiti sono tanti e i denari pochi. Lui cerca scampo (ma non è l’unico) in una incessante campagna extra-amministrativa, che ha toccato le vette con la celebrazione dei matrimoni gay. E però è proprio nelle attività collaterali, chiamiamole così, che Marino combina i guai più evidenti. Noi vi proponiamo una hit parade delle dieci più tragiche performance del sindaco in un anno e mezzo scarso di comando.
Celebre come sindaco ciclista, Ignazio Marino ha evidenti problemi quando abbandona le due per le quattro ruote. Spettacolare, e appena risolto, il caso della Panda rossa che il sindaco ha parcheggiato per oltre un anno negli spazi del Senato, sebbene senatore non sia più. Se l’è cavata con un po’ di pubblicità negativa ma non può lamentarsi: a chiunque altro avrebbero buttato via l’auto con le chiavi. Sistemata la faccenda, subito è saltata fuori quella delle otto multe mai pagate perché - con la suddetta e disgraziatissima Panda - il nostro borgomastro transitava nelle aree a traffico limitato con un permesso scaduto. In tutto questo passa in secondo piano la vicenda del camper con cui girò i municipi di Roma per la campagna Lo dico al sindaco. Uno entrò e glielo disse: «È un camper euro 1, qui non ci può stare».
A proposito di bici, arriviamoci subito. La foto sua più celebre è quella in cui si alza sui pedali, col caschetto a norma, e dietro le due guardie cicliste che arrancano sotto lo scatto dell’apripista. Però, certo, Marino usa bici elettriche, con la pedalata assistita. Una volta è caduto in piazza del Collegio romano mentre andava dal ministro Massimo Bray ma non demorde: persino alle guardie svizzere tocca montare in sella quando arriva in visita in Vaticano, e agli ospiti tocca scortarlo. Ora promette di dotare di velocipede ogni assessore. Siamo ai livelli della coppa Cobram di Fantozzi.
Oreste Liporace, con questo bel nome da star gay americana, fu nominato comandante dei vigili urbani e si era già fatto le foto col sindaco, e aveva scherzato sul poco tempo che gli restava per andare dal sarto per farsi la divisa, e poi saltò fuori che non aveva i requisiti. Faccende tecniche su cui non entriamo. Liporace dopo un po’ si è ritirato. Più trascurabile la storia di Andrea Bianchi, capo staff del vicesindaco: lui si è dovuto dimettere perché da controlli è risultato senza laurea. Ma qui siamo già nella routine.
A gennaio, a Roma, arrivò un temporalone, o un’alluvione, chiamatela come ritenete meglio, e il sindaco si guadagnò il nomignolo di Sottomarino. In realtà la Capitale è predisposta a essere inondata indipendentemente da chi la governi, ma il nostro subì il colpo e al successivo allarme - quello dell’altro giorno - ha risposto con cautele spettacolose, compresa l’adozione di una moto d’acqua arrivata dai sommozzatori di Santa Marinella. Per fortuna la moto d’acqua non è servita. Ma il bello è che Marino non c’era: era a Milano. Ora lo chiamano Schettino.
Per un sindaco le relazioni internazionali non dovrebbero essere così importanti, e invece Marino ci tiene moltissimo. Diffonde comunicati stampa che ragguagliano sulle sue telefonate col sindaco di New York, Bill De Blasio, sulle sue gite a Parigi in sostegno della candidata sindaco Anne Hidalgo («la presenza del sindaco di Roma non è casuale, in quanto Roma è l’unica città con la quale Parigi è gemellata dal 30 gennaio 1956», è stata la brillante spiegazione). Purtroppo nel frattempo c’è stata la lite col sindaco di Londra, che aveva avvertito i suoi connazionali in gita a Roma di tenere gli occhi aperti, un consiglio che cogliamo l’occasione per estendere agli italiani. Il top è stato l’incontro con Barack Obama che, in visita in Italia, non trovò dieci minuti per il nostro sindaco: allora lui si presentò a Fiumicino per salutare il presidente in partenza. Colto di sprovvista, Obama se l’è cavata come facciamo noi coi parenti molesti: «Ora sono di fretta, ma ti chiama presto».
La via toponomastica al consenso è la carta segreta di ogni buon sindaco. In un anno e mezzo scarso, lui ha proposto una via Vittime di Hiroshima, una via Salvador Allende, una via Nelson Mandela e una via Enrico Berlinguer - e lì subito è arrivata l’automatica risposta da destra: «Allora anche una via Giorgio Almirante! ».
Marino sembra un mite orsacchiotto, ma quando s’arrabbia non lo si tiene. Un giorno - quello della decadenza da senatore - Silvio Berlusconi issò un palco in via della Conciliazione senza avere il permesso, con la disinvoltura che gli è classica. Marino riuscì a scavalcarlo in bizzarria minacciando: «Domani, smontato il palco, verificherò danneggiamenti alla sede stradale e alla segnaletica e darò notizia di reato alla procura della Repubblica».
Fra le mirabolanti promesse del sindaco (ma magari questa la mantiene, aspettiamo) c’è quella di rendere navigabile il Tevere entro il 2015. È venuto in mente Carlo Verdone, nel film in cui si candidava al Campidoglio: «Ma a noi questo Tevere ce serve o nun ce serve? Perché se nun ce serve, e io penso che nun ce serve... ». La promessa migliore è però del 17 luglio: «Entro fine mese Roma sarà pulita». Anzi, «davvero pulita». Persino Renzi è più prudente.
È innegabile che Marino abbia idee liberal. E anche che abbia un approccio classico ai problemi (Massimo D’Alema disse di aver lanciato una molotov, ma non esplose; Gianfranco Fine disse di aver fumato una canna, ma non aspirò...): intervistato alla radio, ha detto di essere «fortemente attratto da qualunque sostanza stupefacente», ma si è sempre trattenuto per una sana viltà.
Questa è una hit parade particolare, perché non è una classifica. Ma il colpo di genio (di Marino) ce lo siamo tenuto per le ultime righe. A un comizio gli avevano dato un megafono guasto e, mentre cercavano di aggiustarlo, lui lo volle indietro perché sapeva come farlo funzionare: «Ho fatto il Sessantotto! ». Però, precoce. Marino nel ’68 aveva tredici anni.

il Fatto 8.11.14
Pedofilia Usa, i file: “Alcol, abusi e festini”
L’arcivescovado rende pubblici i dossier
Online le 15 mila pagine che documentano 60 anni di violenze nella diocesi che ha già dovuto pagare 130 milioni di dollari alle vittime dei preti
di Angela Vitaliano


CHIESA CHOC A CHICAGO: PUBBLICHE 15 MILA PAGINE DI ATTI SU 60 ANNI DI ABUSI DELLA DIOCESI STATUNITENSE CHE HA GIÀ DOVUTO PAGARE 130 MILIONI ALLE VITTIME DEI PRETI PEDOFILI

New York Il reverendo Thomas Kelly avrebbe abusato di B. G. costringendolo a essere oggetto di sesso orale in ripetute occasioni, in un periodo di età fra gli 11 e i 16 anni. La vittima denuncia anche di aver trascorso spesso la notte nella canonica, afferma che padre Kelly lo portava regolarmente al cinema o a cena e gli faceva anche consumare alcol”. Sono letture difficili, non solo per la quantità, oltre 15 mila pagine, quelle dei documenti resi pubblici dall’arcidiocesi di Chicago relative alle denunce per atti di pedofilia a carico di 36 preti che, perlomeno in un’occasione, si sono resi responsabili di abusi sessuali nei confronti di minori.
I fascicoli pubblicati “volontariamente”, come viene chiarito nel sito dell’arcidiocesi di Chicago, vanno ad aggiungersi a quelli già pubblicati a gennaio e relativi agli altri 30 religiosi identificati nel novembre del 2014. Non sono stati ancora pubblicati i carteggi relativi ai reverendi Daniel J. McCormack e Edward J. Maloney, sui quali ci sono attualmente dei processi in corso per chiarire con precisione le rispettive responsabilità.
La pubblicazione dei documenti è stata decisa dal cardinale Francis George, che si è trovato a gestire, in maniera non sempre cristallina, uno degli scandali più ampi sulla pedofilia che ha rappresentato un vero e proprio terremoto per la chiesa cattolica negli Usa.
“Non cancellare il passato, ma ridare fiducia”
George, ormai prossimo alla pensione, dopo essere stato in carica dal 1997, ha dichiarato in un comunicato stampa “non possiamo cambiare il passato ma speriamo di ricostruire la fiducia attraverso un dialogo onesto e aperto”. La pubblicazione degli atti fa parte di un accordo raggiunto con il procuratore generale di Chicago Jeff Anderson che includeva anche il pagamento di 130 milioni di dollari per risarcimenti alle famiglie dei 352 bambini vittime di molestie sessuali dal 1950 fino allo scorso anno. “Per oltre 10 anni sono stato un parrocchiano attivo alla Saints Faith, Hope and Charity di Winnetka – scrive a nome degli altri genitori un uomo, in una nota inviata all’arcidiocesi per denunciare l’enorme difficoltà creata dalla presenza di padre Thomas Swade, uno dei preti accusati di atti di pedofilia, nei luoghi frequentati dai bambini – e se il reverendo Swade vuole ancora venire nella nostra parrocchia, dopo aver realizzato l’impatto che la sua sola presenza produce sui nostri bambini, allora io metto in dubbio il suo valore di cristiano. E prego affinché voi non consentiate che tutto ciò continui oltre perché certamente non vorrei trovarmi a mettere in dubbio anche la vostra fede”.
Trasferimenti di religiosi per mettere a tacere
I documenti, infatti, mostrano anche con estrema chiarezza come i preti accusati di molestie e atti di pedofilia, venissero regolarmente trasferiti da una parrocchia all’altra al solo scopo di “mettere a tacere” le voci sul loro conto. Molti di loro, infatti, sono riusciti persino ad arrivare alla pensione e sono morti senza aver mai dovuto rispondere di atti che dai documenti appaiono assolutamente intollerabili e immorali. “Padre Russell Romano è stato accusato di fare gesti inappropriati e avances nei confronti della vittima E. J.”, si legge, ad esempio in uno dei file. Approfondimenti su questa segnalazione, rivelarono poi che padre Romano aveva condotto la vittima in un “drive–in” per guardare un film pornografico, gli aveva fornito dell’alcol durante questa e molte altre occasioni; la vittima si era svegliata poi nuda al fianco di Romano che era egualmente nudo. Un altro incidente simile si verificò quando la vittima aveva compiuto 18 anni o era più grande”. I dettagli relativi agli atti di pedofilia perpetrati da padre Russell a danno delle sue vittime, includono anche la condivisione di riviste pornografiche, la pratica di sesso orale e di masturbazione.
Reati su bambini e ragazzine minorenni
Ci sono, naturalmente, anche ragazze a denunciare atti di molestia come quelli a carico di William John O’Brien, che secondo il racconto della vittima “la incontrò, la salutò e la baciò sulle labbra. Le chiese anche che tipo di mutandine indossasse. Quando la vittima aveva 17 anni, padre O’Brien la condusse sul suo letto nella sua stanza in parrocchia la fece distende e si sdraiò su di lei iniziando poi a masturbarsi fino a eiaculare su tutto il suo corpo”.
I documenti fanno comprendere in maniera dolorosa il profondo senso di rabbia che ancora accompagna le vittime di quei racconti atroci e che non sono, oggi, per niente “impressionate” dal gesto dell’Arcidiocesi. “L’arcidiocesi si comporta come se stesse facendo chissà quale grande cosa, ma la mia domanda è perché hanno impiegato tanto tempo? La loro segretezza ha permesso il perpetuarsi del crimine con la conseguenza che molti altri bambini sono stati violentati”, lo dice Peggy Hough di Evanston che subì abusi dal reverendo Eugene Burns sin da quando aveva solo 8 anni.
Dal file relativo a Burns si evince che il prete fu trasferito ripetutamente fino a ritirarsi, per poi morire nel 2005. “Cinque mesi fa ho per errore aperto una lettera non indirizzata a me, ma ad una delle ragazze del dormitorio. La lettera era firmata “con amore Rick”, ma era chiaramente scritta dal reverendo Richard Theisen”, questo quanto si legge in una lettera inviata al vescovo O’Donnel, da una persona che aveva “scoperto” la relazione fra il prete e una ragazza della scuola. O’Donnel risponde che lo scambio di missive era stato “provvidenza divina” e che lui aveva parlato con il “giovane prete” convincendolo a porre fine immediatamente al suo comportamento.
Confessione di omosessualità “molto attiva”
“Secondo la vittima I. G., padre David Braun abusò di lui sessualmente quando aveva 13 anni. Il 2 novembre 1963, un agente di polizia chiamò in centrale per avvisare che padre David Braun era stato fermato per atti osceni nei confronti di un ragazzo. Il prete ha confermato senza fornire spiegazioni. Braun ha raccontato di aver dato un passaggio al ragazzo, di avergli offerto un bicchierino di whisky e una birra ma di non averlo toccato” Padre Braun, secondo i documenti, confessò poi, in seguito a un altro “incidente”, di essere omosessuale ed “estremamente attivo” con giovani ragazzi che “raccoglieva” per strada con la scusa di un passaggio.

La Stampa 8.11.14
Sindone, il Papa porta migliaia di prenotazioni a Torino
Dopo l’annuncio pioggia di clic sul sito ufficiale
di Maria Teresa Martinengo

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Corriere 8.11.14
Il nuovo corso di Bergoglio e i suoi nemici
il libro pubblicato da Laterza che Marco Politi
di Aldo Cazzullo


Ha un titolo quasi profetico – Francesco tra i lupi – il libro pubblicato da Laterza che Marco Politi ha dedicato a questo inizio del papato di Bergoglio. Perché vi si prefigurano non solo le opposizioni che il Papa riformatore deve affrontare all’interno della Chiesa, emerse plasticamente durante il Sinodo della famiglia che si concluderà tra un anno; ma perché indaga il clima culturale e politico in cui Francesco si muove, dentro e fuori le mura vaticane. Un clima non sempre preparato alla novità che l’elezione di Bergoglio porta con sé, e percorso talora da umori «nostalgici» quando non palesemente ostili.
Politi, vaticanista di lunga esperienza, ricostruisce il Conclave con passaggi talora inediti. Nella Sistina si saldano l’esigenza di discontinuità, la diffidenza verso gli italiani – per giunta divisi tra loro –, il protagonismo degli americani che vorrebbero per la prima volta scegliere un Papa non europeo. Alla fine anche una parte dei curiali converge su Bergoglio. Però non tutti i suoi elettori sono pronti davvero a supportare la stagione di radicale rinnovamento. C’è di più. In Vaticano «si è formato un sistema di potere malsano che va smantellato», come confida all’autore un diplomatico di lungo corso. C’è un’insofferenza culturale e personale verso il Papa argentino, che disdegna gli antichi simboli della carica, che spinge la sua rottura con il passato sino al rifiuto di abitare l’Appartamento, che in Vaticano non è solo un luogo fisico ma anche l’espressione per indicare la cerchia ristretta del Pontefice. E c’è «una rete di rapporti personali e di interessi tra persone spregiudicate di qua e di là del Tevere», come scrive Politi: «Lupi rapaci», che vedono il papato di Bergoglio come una minaccia ai loro interessi.
La proposta di riforma, compresa la partecipazione dei divorziati e risposati alla vita della Chiesa e l’apertura agli omosessuali, è stata criticata in modo aperto da cardinali importanti: ma questo, sostiene Politi, è messo nel conto da Francesco, che «ha bisogno di un’opposizione aperta», così come «ha bisogno di uno schieramento riformatore, che faccia sentire la sua voce». Fa parte della sua strategia che i cambiamenti non siano decisi in solitudine. Lo preoccupa di più la «resistenza passiva» di chi ostacola senza esporsi, «l’opposizione silenziosa» di chi teorizza: «Lasciamolo parlare», tanto i Papi passano e la Curia resta.
Il loro calcolo potrebbe non essere infondato. Nessuno può dire quanto durerà il papato di Bergoglio. Il Pontefice è sano, le maldicenze circolate già durante il Conclave sulla sua salute sono false. È un uomo pieno di energia. Ma non è un uomo giovane. Il suo ex portavoce, padre Marcò, prevede che non abbia un arco temporale molto lungo davanti a sé. Le dimissioni di Ratzinger hanno di fatto introdotto nella Chiesa la figura del Papa emerito. Per ora ovviamente Bergoglio non ci pensa. Ma, avverte Politi, il tempo a sua disposizione è poco. Fin da ora si può dire però che in certe cose la Chiesa non potrà tornare indietro. «Il successore – conclude l’autore – tornerà probabilmente a vivere nell’appartamento papale, ma non potrà più presentarsi con i paludamenti del passato. Soprattutto, non riuscirà più a esercitare un potere autoritario senza limiti. L’assolutismo imperiale dei pontefici è stato incrinato irreversibilmente. Papa Francesco si è presentato al mondo come discepolo di Gesù; dopo di lui è difficile che un Papa possa salire sul trono pretendendo di essere il plenipotenziario di Cristo». Inoltre, è stato calcolato che tra 5-6 anni Francesco avrà rinnovato più di metà del Conclave e lascerà un collegio elettorale ulteriormente mondializzato, in cui il peso dell’Europa e dell’Italia sarà destinato a diminuire. I lupi hanno appena iniziato a far sentire il loro ululato. I rischi di un fallimento delle riforme non sono vanificati. Ma fin da ora si può prevedere che la traccia lasciata da Francesco nella storia della Chiesa sarà profonda.

il Fatto 8.11.14
Il quotidiano dei vescovi attacca la riforma del divorzio


IN PRIMA PAGINA il titolo è inequivocabile: la famiglia diventa più precaria. È questo l’effetto della riforma della giustizia civile secondo Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana. Secondo il giornale dei vescovi, inoltre, grazie al provvedimento presentato dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, il divorzio sarà “più facile”.
NELL’ARTICOLO, a firma di Giovanni Grasso, la critica è rivolta con l’ironia del titolo che ribalta il ruolo dei primi cittadini. Invece della dichiarazione di unione in matrimonio, si legge, “da oggi il sindaco dirà: vi dichiaro divorziati”.
Dito puntato contro il Guardasigilli Orlando, reo non solo di dichiararsi “soddisfatto” ma anche di annunciare che questo “è solo il primo passo”.


Repubblica 8.11.14
Quando il Papa disse “Riabilitiamo Dante è il sommo poeta cattolico”
In un’enciclica del 1921, Benedetto XV rivendicava la fede della “Commedia”, nonostante le dure critiche alla Chiesa. Anticipando alcune aperture di Bergoglio
Oggi alle 11 alla Casa di Dante (Roma)viene presentata la Comedia di Dante con figure dipinte della Casa di Dante (editrice Salerno) Presente Gianfranco Ravasi
Domani alle 11 Lectio Dantis e conferenza di Massimo Cacciari
di Lucio Villari


IL 30 aprile 1921, in un dopoguerra di inquietudini, fu resa nota agli italiani una enciclica dal contenuto inatteso. Era dedicata a un poeta ed era firmata da Benedetto XV, un pontefice di grande intelligenza politica (aveva denunciato «l’inutile strage» della Prima guerra mondiale). Il poeta era Dante, che, dopo secoli di dissenso, la Chiesa intendeva riabilitare. L’enciclica In praeclara summorum è un inedito omaggio alla religiosità cattolica di Dante, ma con allusioni precise alla forza intellettuale della critica dantesca ai poteri della Chiesa, la volontà di potenza dei papi, del clero corrotto.
Era una riappropriazione, forse sperata da tempo in qualche segmento del cattolicesimo, ma rinviata dopo la piena rivendicazione dell’opera teorica e della poesia di Dante, vettori di libertà e verità per la “nazione” italiana, da parte della cultura liberale e democratica e di tutte le strutture ideali del Risorgimento. La nuova libertà d’Italia era modellata anche sul rifiuto di Dante dei tanti poteri fraudolenti della Chiesa, temporale e non. Benedetto XV non sapeva che otto anni dopo, nel 1929, il suo successore avrebbe firmato cinicamente con lo Stato fascista un patto illiberale. Ma da uomo di cultura Benedetto XV — che per qualche aspetto pare precorrere le aperture di papa Francesco — aveva intuito che un eventuale superamento di quel dissidio non poteva non passare attraverso un dialogo con Dante.
Il papa parla di un uomo che crede in Dio e in una Chiesa degna del suo ruolo universale, ma che apre un varco alla critica storica della Chiesa. Dante lascia nel canto XI del Paradiso il più grande elogio della povertà e della “mirabil vita” di san Francesco e nel XXVII la più veemente invettiva di san Pietro contro le degenerazioni della Chiesa e della figura stessa del papa.
L’enciclica non poteva ignorare tutto questo, ma il testo rivela una certa sofferenza di composizione. “Oltre” l’ideologia c’è, secondo il pontefice, nel solo valore estetico della poesia di Dante il varco aperto verso la dottrina cattolica: «Mentre non è scarso il numero dei grandi poeti cattolici che uniscono l’utile al dilettevole, in Dante è singolare il fatto che, affascinando il lettore con la varietà delle immagini, con la vivezza dei colori, con la grandiosità delle espressioni e dei pensieri, lo trascina all’amore della cristiana sapienza. […]. Perciò egli, quantunque separato da noi da un intervallo di secoli, conserva ancora la freschezza di un poeta dell’età nostra, e certamente è assai più moderno di certi vati recenti».
In questo tentativo vi erano delle intenzioni precise. Le parole dell’enciclica riguardavano proprio il clima filosofico e politico italiano di quegli anni, contrassegnati non solo dal superstite Modernismo ma dalla sempre più incisiva presenza del pensiero di Benedetto Croce e della progressiva laicizzazione della pubblica istruzione. Il confronto culturale tra la cultura cattolica e quella liberale e laica stava dunque per divenire una sfida ai più alti livelli. Dante poteva perciò essere una prima trincea della dottrina cristiana posta sul terreno fino a quel momento occupato da un Dante laico e risorgimentale. Bisognava fare della Divina Commedia una testimonianza di fede. Di qui l’affondo operativo: «Poiché sebbene in qualche luogo il “poema sacro” non sia tenuto lontano dalle scuole pubbliche e sia anzi annoverato fra i libri che devono essere più studiati, esso però non suole recare ai giovani quel vitale nutrimento che è destinato a produrre, in quanto essi, per l’indirizzo difettoso degli studi, non sono disposti verso la verità della fede come sarebbe necessario».
Pochi mesi prima della pubblicazione dell’enciclica, nel settembre 1920, Croce dava alle stampe La poesia di Dante. Questo saggio sarà per anni al centro di ampie discussioni critiche, ma quel che contava in quel momento per la Chiesa è che Croce era ministro della Pubblica istruzione e che il metodo crociano apriva prospettive pedagogiche molto diverse da quelle sperate da Benedetto XV. Le istruzioni alla lettura di Dante del ministro Croce erano nette.
L’enciclica avrebbe dovuto essere una prima, immediata risposta a queste istruzioni? C’è da pensarlo. Soprattutto leggendo questo passaggio: «La sua Commedia, che meritatamente ebbe il titolo di divina, pur nelle varie finzioni simboliche e nei ricordi della vita dei mortali sulla terra, ad altro fine non mira se non a glorificare la giustizia e la provvidenza di Dio». Al contrario di quanto si possa immaginare, questo discorso così problematico intorno a Dante è ancora aperto, nella ricerca storica ed estetica e in quella teologica. L’umano e il divino dantesco si fronteggiano sempre e attendono risposte rinnovate.


Repubblica 8.11.14
Muro di Berlino: 25 anni dal crollo
La città divisa in 14 filmati dell'Istituto Luce

qui
http://video.repubblica.it/luce/ricorrenze/muro-di-berlino-la-germania-est-chiude-la-frontiera-i-cinegiornali-luce/182120/180946?ref=HRER3-1

Repubblica 8.11.14
Sulle rovine del Muro di Berlino aleggia lo spettro di un mondo senza alternative
di Zygmunt Bauman

qui
http://www.repubblica.it/esteri/2014/11/08/news/muro_berlino_bauman-100043536/?ref=HRER3-1

Il Sole 8.11.14
Il Muro, la libertà e i tradimenti della storia
di Carlo Bastasin


Della rivoluzione francese Jacob Burckhardt disse: «Oggi sappiamo che quella tempesta che afferrò l'umanità dal 1789, è la stessa che sospinge anche noi». Che cosa è successo della rivoluzione del 1989, invece? Quale vento ci spinge e in quale direzione ha portato gli europei che oggi anziché abbattere muri sono tentati di ricostruirli?
È un'attraente scorciatoia concludere con Trotzky che ogni rivoluzione è destinata a essere tradita. Ma cosa esattamente è stato tradito?
Gli storici amano gli eventi i cui attori hanno un nome, come se tutto dovesse portare a erigere statue o ad abbattere monumenti. Ma i fenomeni del 1989 non erano di questa natura. Un giorno in una piazza di Praga affollata da 300mila persone qualcuno ebbe l'idea di estrarre dalla tasca il suo portachiavi, cominciò ad agitarlo sopra la testa e in pochi minuti 300mila portachiavi risuonavano come un'onda sonora prosaica ma inarrestabile. Ho avuto la fortuna di trovarmi tra le masse che affollavano la Nikolai Kirche a Lipsia, la Chiesa di Getsemani a Berlino e di accompagnare una moltitudine ebbra e incredula dall'Alexanderplatz fino alla Bornholmerstrasse la notte del 9 novembre di 25 anni fa e c'erano tra loro più riferimenti spirituali che leader politici. Al teatro Laterna Magika a Praga Vaclav Havel chiese di «smettere di vivere nella menzogna» e il pubblico rispose d'istinto «Vaclav al Castello». Un mese prima della caduta del Muro dalla Nikolai Kirche cominciò ad alzarsi il coro «Wir-sind-das-Volk» (noi siamo il popolo) mentre attorno alla Chiesa del pastore Christian Führer (un nome da personaggio teatrale) si erano raccolti 8mila tra poliziotti, militari e ufficiali della Stasi in attesa dell'ordine di reprimere la rivolta. Un ordine che non sarebbe mai arrivato, non per scelta - da Berlino non sapevano che cosa fare - ma perché ormai inutile: la speciale natura del 1989 fu la sua forza immateriale e irreprimibile, data dal carattere spontaneo, pacifico e in una parola «umano» del cambiamento a cui il potere non sapeva come rispondere. Il 9 novembre a Mosca il Politburo non discusse della situazione di Berlino, ma di una relazione di Nikolai Ryzhkov sull'Ucraina. Angela Merkel, dopo aver sentito la notizia per radio, decise invece di andare a farsi una sauna.
Chiedevo spesso a Bärbel Bohley, una delle più profonde ed emozionanti leader del dissenso berlinese perché non si fosse riusciti a tener vivo lo spirito della rivoluzione e la sua risposta fu «eravamo abituati a guardare fino al Muro e non oltre, non sapevamo, forse non volevamo, farlo». Il senso di umanità si perse già pochi anni dopo. Nel 1991 il riconoscimento unilaterale da parte tedesca della nazione Croata accelerò la guerra in Bosnia, fino al genocidio di Srebrenica nel luglio 1995. Quel giorno, gli occhi degli europei si chiusero, così come rimangono chiusi oggi per le stragi degli immigrati nel Mediterraneo. Bärbel lasciò Berlino per assistere i bambini orfani nell'ex Jugoslavia.
Alcuni anni fa a Washington, Francis Fukuyama rispose alla mia insistenza nell'identificare le radici dell'Unione europea nell'utopia della riconciliazione tra Francia e Germania con una sentenza lapidaria: non sarete uniti finché non spargerete il vostro sangue combattendo insieme anziché l'uno contro l'altro. La guerra come mito fondativo, anziché la pace. Ma perché farlo, se molti concordavano con lui che la caduta del Muro significasse la «fine della storia»? I dissidenti ritiratisi dalla vita pubblica dopo l'89, forse avevano capito, prima di tutti, che la «fine» era sinonimo di «confine». La maledizione dei vincitori che senza più nemici finiscono per perdere se stessi, cosicché la fine della Storia si traduce nel bisogno di nuove divisioni e infine nella vittoria del Muro.
Anche in Germania, la solidarietà rimase solo nel nome dell'odiata tassa che trasferiva redditi dell'Ovest per l'assistenza dell'Est. La solidarietà era diventata letteralmente un'«addizionale» e non più sostanza e significato del cambiamento. Fa parte forse dell'economicismo delle società liberali avere perduto il linguaggio - e il senso - del 1989. Grande parte di questa trasformazione del linguaggio si era realizzata nelle ore stesse in cui il Muro stava cadendo: il rausch consumistico degli orientali li portava attraverso la Budapesterstrasse fino ai centri del desiderio, per ironia chiamati Europa-Center o Magazzino dell'Occidente e infine alle inavvicinabili vetrine del Ku'damm. Per poi tornare indietro carichi di banane e videoregistratori.
La lezione della disfatta di un paese sotto il peso dell'economia è ben chiara a chi l'ha vissuta e più di tutti è chiara ad Angela Merkel. Si può dire che dia forma e convinzione alla speciale politica economica che la cancelliera venuta dall'Est ha imposto agli altri paesi europei. Il debito di un paese con l'estero ebbe infatti un ruolo determinante nella resa del regime di Berlino Est. Quando Egon Krenz subentrò a Erich Honecker come segretario generale del partito, chiese una stima onesta del debito estero della Ddr, un problema di cui il predecessore aveva negato l'esistenza. Dieci giorni prima della caduta del Muro, arrivò la risposta: «La Ddr dipende dal credito capitalista nella misura più grande che sia immaginabile». La fine della sovranità era scritta e a nulla sarebbe servita una repressione violenta. La memoria dei debiti della Germania Est, l'aggrapparsi al mito della D-Mark e la scioccante scoperta della sua arretratezza economica e tecnologica sono rimasti ben impressi nei politici e nei cittadini orientali. Secondo resoconti mai smentiti, in una riunione del Consiglio europeo nel dicembre 2013, Merkel ammonì i colleghi: «Siamo perduti se qualcuno pensa di potersi comportare come sotto il comunismo, io so che cosa significa quando un paese perde competitività fino a cedere la propria sovranità». «Sono diventata adulta in un paese che ha avuto la fortuna che la Germania Ovest l'abbia tratta d'impiccio, ma nessuno farà la stessa cosa per l'Europa». Il Muro aveva vinto.

La Stampa 8.11.14
Francia, il declino di un presidente normale
Hollande in tv per rispondere in diretta alle domande dei francesi
Solo il 13 per cento crede ancora in lui
di Cesare Martinetti

qui
http://www.lastampa.it/2014/11/07/cultura/opinioni/editoriali/francia-il-declino-di-un-presidente-normale-3e9ID3DYVf2IUWf95z95xI/pagina.html

Corriere 8.11.14
Coltelli e veleni: congiura laburista contro Miliband
di Fabio Cavalera


Il copione che i laburisti britannici stanno recitando sembra più o meno lo stesso di quello risultato fallimentare 5 anni fa. La trama si riassume facilmente: sempre più divisi verso una meta (Downing Street) che, a pochi mesi dalle elezioni di maggio, rischia di diventare di nuovo irraggiungibile. Nel 2010 alle consultazioni per Westminster, il centrosinistra scontava il tramonto dell’era Blair-Brown, affossata dal matrimonio d’interesse con la finanza rapace e decadente. Oggi il centrosinistra fa i conti con la debole leadership di un Ed Miliband, persona perbene che fatica però a tenere assieme le anime inquiete del laburismo, ondeggianti fra i rimpianti per la sinistra di lotta e i rimpianti per la «terza via» riformista e centrista.
Questa fragilità disorienta l’elettorato e apre la strada a lotte interne con scenari di «colpi di stato», sussurrati, immaginati e pianificati da dirigenti del partito ai danni di Ed Miliband. Sintomatico è l’articolo nella rivista New Statesman fiancheggiatrice del laburismo, che lo accusa di essere «un socialista vecchio stile», di «non comprendere il ceto medio», di avere della politica una concezione elitistica da intellettuale chiuso nei circoli a «discutere di buona società». È una guerriglia che certifica la paura di perdere. Da tre anni i sondaggi ripetono che i laburisti sono in testa nella corsa a Downing Street. Ma il margine si è molto ridotto nelle ultime settimane, complice la salita di Nigel Farage che sfonda fra i conservatori ma anche nelle aree progressiste del Nord. L’insicurezza politica di Miliband è un problema. Ma sta diventando il capro espiatorio di un disagio che riguarda tutto il laburismo, incapace di assumere posizioni chiare su Europa, immigrazione, austerità e crescita. È la stessa sindrome di cinque anni.
I laburisti hanno la «virtù» dell’autolesionismo che li può portare alla sconfitta. Fra Miliband e Cameron vincerà chi perderà di meno. Entrambi sono contestati. Forse Miliband di più. E nel vuoto per ora vincono gli slogan dello Ukip.

Corriere 8.11.14
Patto Molotov-Ribbentrop,  il revisionismo di Putin
di Luigi Ippolito


Fu il patto fra i due totalitarismi del Ventesimo secolo per spartirsi le spoglie dell’Europa orientale. L’accordo fra la Germania nazista e la Russia sovietica, siglato dai ministri degli Esteri Ribbentrop e Molotov, diede il via alla Seconda guerra mondiale. Certo, ci sono storici che sostengono che Stalin agì in una logica difensiva, per guadagnare tempo di fronte all’inevitabile aggressione tedesca. Ma comunque l’Urss fra il 1939 e il 1940 si impadronì dei Baltici e di parte della Polonia.
A distanza di 75 anni, il leader russo Vladimir Putin difende quella scelta. Parlando a una platea di giovani storici, ha affermato che «quei metodi erano parte della politica estera di quel tempo. L’Unione Sovietica aveva firmato un patto di non aggressione con la Germania. Cosa c’è di male in questo?».
Il problema è che il protocollo segreto del patto Ribbentrop-Molotov ridisegnava i confini dell’Europa orientale lungo le linee di influenza russa e tedesca. Putin sembra essere a suo agio con quell’esito in quel dato contesto storico. Ma che dire del contesto attuale? I discorsi e le azioni della leadership russa degli ultimi tempi puntano alla revisione dell’architettura di sicurezza europea uscita dal crollo dell’impero sovietico. Putin ha accusato gli Stati Uniti di violare gli interessi russi, lasciando intendere che Mosca reclama la propria sfera di influenza in Europa.
La difesa del patto nazi-sovietico non farà che alimentare i timori per l’atteggiamento revisionista del Cremlino. Una volta queste erano discussioni riservate agli storici: dopo l’invasione dell’Ucraina e il rombo dei bombardieri ai confini della Nato, riguardano la cronaca politica.

Repubblica 8.11.14
Pechino cerca il trionfo contro Barack battaglia sul Pacifico al vertice dell’Apec
di Giampaolo Visetti


PECHINO L’ANATRA zoppa di Washington spicca il primo volo post Midterm verso Pechino: il luogo perfetto per completare la cottura, commentano i media cinesi. Nella capitale del Dragone sono maestri nel laccare a fuoco lento e attendono a braccia aperte un Barack Obama indebolito per staccare gli Usa nella corsa per il dominio dell’area Asia-Pacifico. Xi Jinping riceverà Obama nel palazzo davanti alla Città Proibita, ma i rapporti di forza tra i leader delle due super-potenze sono ben diversi da quelli dell’ultimo incontro in California, estate di un anno fa. La Cina sta per consumare il sorpasso economico sugli Stati Uniti e mentre Obama è un presidente sconfitto e in scadenza, Xi Jinping si presenta come il leader cinese più potente dai tempi di Mao, con ancora quasi un decennio al comando. Pechino sente che è la grande occasione per ridisegnare la mappa del secolo e in poche ore toni e obbiettivi del vertice Apec sono cambiati. I 21 Grandi del “mondo con il segno più”, in vista del G20 di Brisbane, avrebbero dovuto coordinare le agende su crescita, cooperazione, hi-tech e lotta alla corruzione. Dopo il voto Usa, Pechino ha invece deciso di sfruttare il 25° summit economico per accelerare il varo di una maxi zona di libero scambio, trainata da Cina e Russia, in alternativa all’americana Partnership trans-pacifica (Tpp), guidata da Usa e Giappone.
Pur di stimolare tra gli ospiti una distensione almeno apparente, Xi Jinping non ha badato a spese e ha riesumato l’olimpica “diplomazia dello smog”. I capi di Stato e di governo alloggiano in ville di lusso sul lago Yanki, sede del summit un’ora a nord della capitale.
Per ricostruire due giorni di idillio da antico villaggio rurale, con annessi campo da golf e pagoda, sono stati spesi 1,6 miliardi di euro. La scommessa cinese, dopo settimane di inquinamento record, è però il cielo azzurro. Ai leader stranieri Pechino, umiliata dalla maratona con mascherine collettive e stop anticipato causa biossido di carbonio, vuole garantire aria respirabile. Cinque regioni attorno alla capitale sono così in ferie forzate per una settimana. Chiuse scuole, fabbriche, centrali a carbone, uffici. Auto a targhe alterne e riscaldamenti spenti. Contro le polveri sottili il governo non teme di sfidare nemmeno il ridicolo: vietato fare barbecue all’aperto e cremare i defunti, se prima non sono stati spogliati degli indumenti. Scienziati occidentali hanno denunciato il pericolo di «un uso politico del sole a comando », capace di «distrarre l’attenzione dall’emergenza ambientale in Cina». I pechinesi sono invece furibondi per «lo sfruttamento classista della lotta all’inquinamento, che rispetta i potenti e condanna tutti gli altri». I leader saranno nella capitale da domani a martedì e Pechino ha già anticipato che, al di là dell’ossigeno in omaggio, l’obbiettivo del vertice è definire l’area Asia-Pacifico come «il nuovo epicentro della crescita globale », forte di una liberalizzazione totale del commercio. È una spallata al protezionismo occidentale, subita da Washington e tesa a ridimensionare l’influenza euroatlantica in Oriente. In uno snodo tanto decisivo, la fragilità di Obama è evidente ai cinesi. Il Quotidiano del popolo , organo del partito comunista, si è spinto a definirlo «un leader banale che ha compiuto un lavoro insulso e incapace di affrontare questioni complicate». Usando la leva dell’Apec, 57% del Pil mondiale e 46% del commercio internazionale per una crescita 2014 del 3,9%, Pechino punta così a sfruttare lo stallo Usa e le divisioni Ue per assumere la rappresentanza, oltre che dei Brics, di tutte le economie in espansione e dei sempre più ricchi mercati asiatici.
Il problema è che nemmeno il Pacifico è un mare calmo e che i leader Apec si presentano da separati in casa. Il russo Putin, causa Ucraina, eviterà di incrociare Obama: oggi solo un incontro tra Kerry e Lavrov, che ha fatto sapere che la Russia diserterà il vertice sulla sicurezza nucleare del 2016 negli Usa. Xi Jinping si limiterà ad accogliere l’inquilino della Casa Bianca «con educazione e diffidenza», mentre solo in extremis ha concesso una stretta di mano al giapponese Shinzo Abe, rinviata per due anni causa dispute territoriali, storiche ed economiche.
Il disgelo Cina-Giappone, i due giganti industriali dell’Asia, è il pragmatico colpo di scena tenuto in serbo da Xi Jinping, che mira ad anticipare le liberalizzazioni con Tokyo e Seul per sfilare agli Usa i due alleati storici. Per questo Pechino ha invitato i 21 dell’Apec a «non permettere che problemi e differenze bilaterali danneggino integrazione e crescita regionale». L’azzoppamento di Obama però in Asia pesa, rafforza il nuovo asse energetico Pechino-Mosca contro il vecchio patto post-bellico Washington-Tokyo e insinua incertezze inedite tra i Paesi dell’unica zona economica in crescita. È una partita che la Cina sente ora di poter giocare da favorita: per calmare il Pacifico ci vorrà tempo, ma anche questo sarà sempre più un mare cinese.

La Stampa 8.11.14
Messico, risolto il mistero dei 43 studenti Tre sospetti confessano: “Rapiti e bruciati”
Svolta nell’inchiesta sui giovani scomparsi lo scorso 26 settembre a Iguala. I narcos arrestati: «Ce li hanno consegnati alcuni poliziotti corrotti». L’ira delle famiglie

qui
http://www.lastampa.it/2014/11/07/esteri/messico-risolto-il-mistero-dei-studenti-tre-sospetti-confessano-rapiti-e-bruciati-qcaWKP6NPyLWjEGBtXK1UK/pagina.html

Repubblica 8.11.14
Il finto liberalismo dei regimi autoritari
Nelle società mafiose in Russia come in Cina la proprietà l’edificazione e i terreni rappresentano una moneta diffusa nello scambio di poteri
di Ian Buruma


L’EPOCA in cui viviamo viene spesso riflessa con particolare chiarezza dallo specchio dell’arte. Molto si è scritto sulla Russia e la Cina post-comuniste, ma due recenti film: Il tocco del peccato di Jia Zhangke (Cina, 2013) e Leviathan, di Andrey Zvyagintsev (Russia, 2014), fotografano il panorama sociale e politico di questi Paesi meglio di qualsiasi scritto che mi sia capitato di leggere.
Il film di Jia è suddiviso in episodi ispirati per lo più a recenti fatti di cronaca. Leviathan ha come protagonista un brav’uomo che vede la propria esistenza devastata dal sindaco della città, spalleggiato dalla Chiesa ortodossa russa e da una magistratura corrotta.
Le due opere sono inoltre accomunate dal ruolo che in esse giocano la casa e il mercato immobiliare. In questa nuova Cina, dove il Partito comunista cinese (Ccp) continua a governare ma le idee di Karl Marx sono morte e sepolte quanto lo sono in Russia, tutto è in vendita: persino i simboli del passato maoista.
Non è una coincidenza che case e immobili rivestono un ruolo importante in entrambi i film. Nelle società mafiose la proprietà, l’edificazione e i terreni rappresentano una mone- ta diffusa nello scambio di poteri.
Il fatto che, a differenza del Ccp, il partito di Putin (Russia Unita) non rivendichi alcuna ideologia marxista è irrilevante: i due governi operano infatti secondo modalità analoghe.
Il partito di Putin è stato eletto in Russia così come il Partito per la giustizia e lo sviluppo del presidente Recep Tayyip Erdoðan è stato eletto in Turchia, quello del primo ministro Viktor Orbán — il Fidesz — in Ungheria e il regime militare del presidente Abdel Fattah el-Sisi è stato eletto in Egitto. Il Ccp non fu mai eletto, ma anche questo particolare è per lo più irrilevante. Tutti questi governi sono accomunati dalla fusione tra impresa capitalistica e autoritarismo politico.
Tale modello politico oggi è considerato, forse a ragione, un serio rivale delle democrazie liberali di stile americano. Tuttavia durante la Guerra fredda il capitalismo autoritario che di solito accompagnava i regimi militari era anti-comunista e si schierava decisamente dalla parte dell’America. Il dittatore sudcoreano Park Chung-hee, padre dell’attuale presidente Park Geun-hye, fu per molti aspetti un pioniere del tipo di società che oggi vediamo in Cina e in Russia. E altrettanto si potrebbe dire del generale cileno Augusto Pinochet.
Poiché nei client state dell’America la fine delle dittature ha coinciso più o meno con la fine della Guerra Fredda, quando sono state sostituite da democrazie liberali, molti si sono lasciati cullare dalla rassicurante convinzione che democrazia liberale e capitalismo avrebbero finito per confluire spontaneamente (inevitabilmente, persino) ovunque. La libertà politica fa bene agli affari, e viceversa.
Questo grande mito del ventesimo secolo è stato ormai infranto. All’inizio dell’anno Orbán ha affermato che la democrazia liberale non rappresenta più un modello attuabile, e ha citato Cina e Russia come Paesi di maggior successo — non per motivi ideologici, bensì perché egli ritiene che nel mondo di oggi siano più competitivi.
Esistono naturalmente motivi per dubitarne. L’economia russa dipende troppo dal petrolio e da altre risorse naturali, e in una crisi economica la legittimità del sistema monopartitico cinese potrebbe venire rapidamente meno. Inoltre, la consuetudine con cui i regimi illiberali piegano la legge ai propri fini non ispirerà la fiducia degli investitori — per lo meno non nel lungo periodo.
Eppure le società che Leviathan e Il tocco del peccato descrivono così aspramente continuano per ora ad apparire un modello valido per molti di coloro che si dicono delusi dalla stagnazione economica europea e la disfunzionalità politica americana. Gli uomini d’affari, gli artisti e gli architetti occidentali, così come altri che hanno bisogno di grandi quantità di denaro per realizzare progetti costosi, amano lavorare per i regimi autoritari che “realizzano fatti concreti”. E i pensatori illiberali, tanto dell’estrema destra che dell’estrema sinistra, ammirano i dittatori in grado di tener testa all’America.
I governanti della Cina sono forse meno sicuri rispetto a Putin. O forse Putin è semplicemente più astuto. È improbabile che i suoi seguaci in Russia vadano a vedere, e ancor meno siano influenzati, da un’opera così indipendente, mentre questo spaccato di libera espressione russa potrebbe convincere gli stranieri che nella democrazia autoritaria di Putin sopravvive un po’ di liberalismo. Almeno sino a quando anche questa illusione non sarà infranta. ( Traduzione di Marzia Porta)

Corriere 8.11.14
Se (negli Usa) liberale si dice conservatore
di Piero Ostellino


Le elezioni americane dette «di medio termine» sono una sconfitta per i democratici e per Obama. Non si sa come il presidente potrà governare avendo contro tutto il Congresso. Il loro significato non è, però, solo un fatto numerico; è, anche un fatto culturale e politico. Dice che, in America, una politica democratica troppo enfatizzata, e, in Europa, una troppo di sinistra, finiscono col produrre lo stesso esito: il successo di chi è, o si professa, conservatore. Il Partito repubblicano, nel mondo anglosassone, è l’erede del conservatorismo di Edmund Burke, l’autore delle «Riflessioni sulla Rivoluzione francese» che avevano preceduto i sentimenti antiegualitari ottocenteschi di Constant, di de Tocqueville e, perché no, del nostro Cavour. La tradizione liberale in America e, ancorché minoritaria, anche in Europa, è rappresentata da un conservatorismo non ideologico, non reazionario, empirico e realista. Ricordo che un amico americano, volendo dire che sono liberale, disse alla moglie: «Ostellino è un vero conservatore». Un altro europeo se ne sarebbe avuto a male. Non io, che mi considero liberale proprio nella tradizione non solo di Burke, ma altresì di Constant, di Tocqueville e, perché no, di Cavour. Si tratta di un liberalismo contrario all’egualitarismo che, dopo l’esperienza del Terrore giacobino, si era annunciato premessa di disordini e di danni. Per la cultura politica europea l’attributo conservatore è poco meno di un’offesa, associato come è alla destra, dal progressismo ideologico e verbale del comunismo. Gli americani non temono di dirsi conservatori quando vogliono dire di essere liberali. Se ne ricordano puntualmente quando alla presidenza arriva un personaggio dalla fisionomia (democratica) fortemente demagogica, come è stato Obama. La cui elezione era stata salutata con entusiasmo in Europa, ma così assimilata, almeno agli occhi dei suoi concittadini, più a un leader europeo che a un presidente statunitense. Gli Stati Uniti sono nati, nel 1776, da una rivolta fiscale contro il dominio coloniale inglese — che imponeva troppe tasse — ma non, come ha scritto Anna Arendt, contro la cultura e il sistema politico inglesi cui si erano ispirate le tredici colonie e la stessa proclamazione di indipendenza.
   Non mi pare, perciò, il caso di esultare per il successo repubblicano, bensì, piuttosto, credo la si dovrebbe interpretare, da noi, come una lezione politica.

Corriere 8.11.14
Il falso scoop su Sharon si rivela un complotto vero
Nella finzione il premier è messo fuori gioco da fanatici ultrasionisti
di Ranieri Polese


COLONIA Seduto al Wippn’bk Kafé sullo Ubierring, un viale alberato nella parte sud di Colonia («uno dei pochi quartieri risparmiati dalle bombe, che invece rasero al suolo il centro lasciando in piedi miracolosamente solo la Cattedrale»), Frank Schätzing racconta come gli venne l’idea di questo Breaking News , pubblicato in Germania a marzo e subito in testa alle classifiche (il libro esce in questi giorni in Italia, da Nord).
«Era il 2011, facevo il breakfast con degli amici proprio in questo caffè. Si parlava della crisi infinita del Medio Oriente. Qualcuno domandò chi poteva risolverla. L’unico in grado di chiudere il conflitto, risposi, avrebbe potuto essere Ariel Sharon. Se l’emorragia cerebrale del gennaio 2006 non l’avesse fermato, avrebbe vinto le elezioni a cui si presentava con il progetto del ritiro degli insediamenti di coloni israeliani in Cisgiordania. L’aveva già fatto nella Striscia di Gaza, attirandosi l’odio della destra conservatrice. Se non fosse caduto in un coma irreversibile, la storia del Medio Oriente oggi sarebbe diversa. Da qui, passai a immaginarmi un complotto: un gruppo di fanatici ultrasionisti, con l’aiuto di farmaci letali, riescono a mettere fuori gioco Sharon. Un’ipotesi plausibile, ma senza prove: io comunque non volevo scrivere un saggio storico. Volevo fare un thriller».
Cinquantasette anni, bestseller mondiale nel 2004 con l’eco-thriller Der Schwarm ( Lo sciame , in Italia Il quinto giorno : oltre cinque milioni di copie, tradotto in 27 lingue), Frank Schätzing scrive da vent’anni. Prima aveva creato e diretto un’agenzia di pubblicità, Intevi («ne sono uscito nel 2003»). Ma già il primo romanzo, un thriller medievale, Il diavolo nella cattedrale , riscuote un discreto successo. Segue nel 2000 Silenzio assoluto , dal Medioevo si passa a una riunione del G8 ai tempi nostri, con un ex terrorista dell’Ira che prepara un attentato («mi piace saltare da un’epoca all’altra, da un luogo all’altro»). Poi, dopo Il quinto giorno , un altro intrigo internazionale: Limit , la sfida mortale in un futuro vicino per la conquista di nuove risorse energetiche. E ora eccoci al Medio Oriente. Per documentarsi Schätzing ha passato alcune settimane in Israele, ha visitato la Cisgiordania («la città vecchia di Nablus è meravigliosa, una meta ideale per turisti: ma non c’è nessuno») e attraversato in un senso e nell’altro il muro di divisione, la «barriera» fra Cisgiordania e Israele.
Che effetto ha fatto a lei tedesco vedere un altro muro?
«Ho avuto una sensazione spiacevole, un’impressione sinistra. Ero stato più volte a Berlino prima dell’89. Ma lì, per vedere il Muro, si doveva andare proprio vicino. Il muro di Israele è lunghissimo, lo si vede da tutte le parti».
Come ha usato nel romanzo l’idea del complotto?
«Immaginando un giornalista tedesco, Thomas Hagen, che va a caccia di scoop. Deve rifarsi nome e credibilità dopo una missione disastrosa in Afghanistan. Indaga, in Israele, sulle attività occulte dei servizi segreti: un altro fallimento. Allora s’inventa la notizia esplosiva: Sharon, in coma dal gennaio 2006, è stato vittima di un’azione combinata per farlo fuori. Scoprirà, poi, che quella storia è vera, ma scoprirà anche di essere braccato dal gruppo di terroristi nemici di Sharon che lo vogliono eliminare».
Ma nel romanzo c’è anche una parte storica, la vita di Sharon.
«È una storia molto romanzata, con molti personaggi di fiction, come i gemelli Ben e Yehuda Khan, cresciuti insieme a Sharon — che allora si chiamava Arik Scheinerman — nella cooperativa agricola di Kfar Malal. Con la fondazione dello Stato di Israele e la guerra del 1948, le loro vite si dividono: Sharon si arruola nell’esercito, Ben diventa un rabbino ultraortodosso, Yehuda è un agronomo che sperimenta nuovi sistemi di irrigazione. Mi affascina il personaggio controverso di Sharon, che dopo la Guerra dei Sei giorni favorisce gli insediamenti di coloni israeliani nei territori occupati. Poi, invece, da primo ministro, imporrà lo sgombero dei coloni da Gaza. È il vincitore della Guerra del Kippur, 1973, ma è anche il ministro della Difesa durante la Guerra del Libano, 1982, quando milizie cristiane massacrarono i palestinesi nei campi di Sabra e Shatila senza che l’esercito israeliano intervenisse. È ancora lui che decide di fare la fatale passeggiata sulla Spianata delle moschee nel settembre 2000».
Chi è stato davvero Sharon?
«Profondamente laico grazie all’educazione della famiglia arrivata in Palestina dalla Russia negli Anni 20, Sharon non aveva simpatie per gli ultrareligiosi. E non osservava molti dei divieti alimentari. Il suo scopo, sempre, è stato quello di difendere l’esistenza di Israele. Da politico pragmatico, alla fine, comprende che per risolvere il conflitto con i palestinesi e il mondo arabo occorre una politica di appeasement. E decide lo sgombero degli insediamenti. Poi, l’emorragia cerebrale chiuderà la sua carriera».
In Israele, Breaking News è stato acquistato?
«So dal mio agente che è stato proposto a vari editori, ma nessuno l’ha comprato».
Dal romanzo dovrebbe essere tratto un film?
«Nico Hoffman di Ufa Fiction ha acquistato i diritti. È un produttore di successo, negli anni ha realizzato importanti serie tv, come Medicus dal romanzo di Noah Gordon e Unsere Väter, unsere Mütter , ragazzi e ragazze tedeschi durante la guerra. Ha prodotto il film sui movimenti neonazisti a Rostock, dopo l’unificazione, Wir sind jung, wir sind stark , passato al Festival di Roma ».
E “Der Schwarm”? Anni fa, sembrava che Hollywood lo volesse a ogni costo.
«L’avventura hollywoodiana fu disastrosa. Molti erano entusiasti del romanzo, come l’attrice Uma Thurman. Purtroppo, il libro quando uscì fu un flop terribile. Era stato acquistato da Harper Collins per la consociata Regan Books. Ma l’editor Judith Regan volle realizzare un libro (e un programma tv) con una lunga intervista-confessione a O.J. Simpson. Rupert Murdoch, padrone del complesso editoriale, si arrabbiò; la Regan fu licenziata. Il mio libro uscì senza promozioni, senza nessuno che se ne occupasse. E Hollywood lasciò perdere. Ma alla fine qualcosa si è mosso, fortunatamente. Un nuovo team di produttori europei ha ripreso i diritti. Si conosce già il nome del regista, Tom Tykwer ( Lola rennt , Il profumo , Cloud Atlas ). Uscita prevista, fine 2015».

Corriere 8.11.14
Il movimento sionista e la nascita di Israele
risponde Sergio Romano


Nel maggio del 1916 gli inglesi e i francesi, con gli accordi Sykes-Picot, oltre a delineare il destino dell’impero ottomano, favorirono la nascita della prima repubblica armena. Come per qualsiasi minoranza etnica soggetta a persecuzioni, una repubblica indipendente rappresentava per gli armeni la conclusione di un lungo periodo di sofferenze ed esodi forzosi. L’intendimento di procedere nella stessa direzione anche nei confronti del popolo ebraico era stato ben esplicitato con la Dichiarazione Balfour del 1917, presupposto dei passaggi che avrebbero condotto alla proclamazione dello Stato di Israele nel 1948. Per quali ragioni le Potenze vincitrici non hanno proposto la formazione di uno Stato ebraico al termine del conflitto mondiale, in un contesto caratterizzato da condizioni più favorevoli e più gestibili per l’accettazione del mondo arabo?
Ferdinando Fedi

Caro Fedi,
Non tutti gli ebrei, durante la Grande guerra, desideravano l’immediata creazione di uno Stato ebraico. I principali esponenti della corrente maggioritaria del Movimento sionista (fra cui Chaim Weizmann, l’uomo che riuscì a ottenere dal governo britannico la Dichiarazione di Balfour) pensavano che il primo obiettivo da raggiungere fosse la creazione in Palestina di una società ebraica composta da collettivi d’ispirazione socialista. Prima dello Stato bisognava formare i cittadini, trasformare in agricoltori gli artigiani, i commercianti di abiti e tessuti, i locandieri e i banchieri di villaggio che avevano popolato gli Shtetl dell’Europa centro-orientale. Una delle ragioni per cui Weizmann chiedeva agli inglesi la promessa di un focolaio ebraico era inoltre il tentativo d’indirizzare verso la Palestina, anziché verso le grandi città dell’Europa occidentale, le grandi masse di profughi ebrei provenienti dall’Est. Weizmann sapeva che l’apparizione degli Ost-Juden (ebrei orientali) a Vienna e a Berlino, dopo i pogrom zaristi tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, aveva contribuito alla diffusione del pregiudizio antisemita.
Il fautore di un immediato Stato ebraico era un altro esponente del movimento sionista, Ze’ev Jabotinskij, un intellettuale armato, geniale, poliglotta (parlava bene l’italiano), pronto all’inevitabile scontro con le popolazioni arabe, creatore di una milizia che qualcuno definì d’ispirazione fascista. Ma Jabotinskij non piaceva né agli inglesi né alla componente laburista del Sionismo.
Esiste poi un’altra ragione, caro Fedi, per cui l’immediata creazione di uno Stato ebraico, dopo la fine della Grande guerra, era impossibile. La Gran Bretagna aveva promesso un focolare agli ebrei, ma aveva anche promesso allo sceriffo hascemita della Mecca che le nazioni arabe, se fossero insorte contro l’Impero Ottomano, avrebbero avuto l’indipendenza. Nacquero così, dopo la fine del conflitto, il Regno di Transgiordania, il Regno dell’Iraq, la Repubblica libanese e la Repubblica siriana. La Palestina apparteneva storicamente alla Grande Siria, ma la Gran Bretagna, per non fare una scomoda scelta tra ebrei e arabi, ottenne che venisse affidata alla sua amministrazione: una decisione che procurò al Regno Unito molti grattacapi sino alla proclamazione dello Stato ebraico nel 1948.

Repubblica 8.11.14
“Povero Cipputi stanco di indignarsi in tempi così confusi”
“Non chiederò il copyright degli ombrelli di Hong Kong. I miei sono più pericolosi”
Mentre un volume raccoglie le vignette degli ultimi anni, Altan racconta i cambiamenti del suo mestiere
E svela che fine ha fatto il personaggio dell’operaio più emblematico
di Simonetta Fiori


AQUILEIA (UDINE) LA proposta di intervista era stata avanzata con cautela, come si conviene con Altan. Un rapido scambio di mail. «Verrei a trovarla, sempre che, causa persecuzione, non si rivolga ad Amnesty International». Laconica la replica: «Ho trovato occupato il numero di Amnesty». Ed eccoci a casa del disegnatore più geniale e meno facondo nella storia della satira. Le sue vignette sono state raccolte in Colpi di coda ( Gallucci), straordinario racconto per parabole della crisi italiana.
Un disegno con poche battute, e tutto è rivelato nella sua verità essenziale. Luoghi comuni e pigrizie identitarie, ipocrisie del linguaggio pubblico. Sembra non esserci scampo. Si ride perché confortati dalla rivelazione. Ma il boccone da inghiottire è ogni giorno più amaro. Il piccolo miracolo avviene in una grande casa carica di storia e lontana dal mondo. Estesi prati di un verde lucente, macchie colorate di lantana e una magione dalle mura spesse in cui arrivano attutiti i rumori della contemporaneità. Anche la parlata musicale di Mara, la moglie brasiliana che gli ispira le magnifiche donne sapienti, asseconda quest’atmosfera di quiete. Altan esce poco. Il suo studio è ordinato, perfino la natura che entra dall’ampia finestra sembra disegnata bene, senza sbavature. Un occhialuto Cipputi di gommapiuma ci guarda con la sua consueta saggezza. «L’ha costruito Pietro Perotti, operaio della Fiat che dopo la marcia dei quarantamila scrisse all’azienda: cara Fiat, io ti licenzio». Siamo entrati nel mondo di Altan.
Cipputi rischiava di finire in soffitta. E invece è più vivo che mai. Che cosa le ha raccontato di piazza san Giovanni?
«Sì, è sceso in piazza. Poi è entrato insieme al nipote in una fiaschetteria provvista di wi-fi. E sul tablet del ragazzo s’è messo a vedere quello che succedeva alla Leopolda. Anche lui è diviso, come lo siamo tutti in questo momento».
Cipputi combattuto?
«I valori di san Giovanni, le radici della sinistra, la sua tradizione storica: tutto questo è importante e irrinunciabile. Però non si può non andare a vedere cosa succede dall’altra parte. Ed è necessario tenere insieme queste due cose».
“Le sinistre sono due e io uno solo”. È una vignetta di pochi giorni fa.
«Appunto. La linea di scontro non porta da nessuna parte e fa solo danni. Ho poi l’impressione che per mancanza di progetto le due sinistre finiscano per attaccarsi a dettagli che non hanno importanza. Si vive molto alla giornata: si rappezza di qua e di là, ma non esiste un’idea di dove si voglia arrivare».
Renzi è ancora “sinistra”?
«Il suo pragmatismo disinvolto mi sembra disancorato dal bagaglio storico della sinistra. E questo è sbagliato. La vivacità e la forza del nuovo movimento dovrebbero collegarsi a quell’altra tradizione. E poi c’è una questione di stile. Prendiamo la parola rispetto: si danno legnate terribili, sempre nel “rispetto” dell’avversario. Anche l’arroganza mi sembra abbia superato il limite».
Però Cipputi getta un occhio alla Leopolda.
«Sì, sparigliare le carte può essere utile. È anche giusta l’idea di abbattere incrostazioni di interessi e di abitudini sbagliate. Anche se al momento c’è molto fermento e pochi risultati».
Colpi di coda è il titolo dell’ultima raccolta. Perché?
«Mi sembra che molte cose siano arrivate al capolinea. La fine di Berlusconi coincide anche con l’esaurimento di un certo tipo di politica della sinistra. E poi è finita la sicurezza economica: la crisi non è più un passaggio ma una realtà con cui dobbiamo abituarci a convivere».
È finito un certo tipo di politica della sinistra, lei dice. Ma per la sinistra è una condanna definitiva?
«No, non credo: i suoi valori non sono cancellabili. Se per un momento sembrano offuscati, prima o poi torneranno fuori. Anche perché riguardano la condizione di vita delle persone. E oggi molte persone stanno malissimo».
Cipputi vive e lotta insieme a noi. Ma non lo disegna più.
«È vero, manca da un po’».
Perché?
«Mi sembrerebbe di sfruttare la sua immagine con un intento pubblicitario che non mi piace».
Vuole evitare che venga usato strumentalmente?.
«Sì, forse è quello».
Lei ha inventato questo eroe del lavoro, pur non avendo rapporti diretti con il mondo della fabbrica.
«Sono sempre stato un osservatore laterale. Ho una simpatia quasi irrazionale per quel tipo di mondo, perché è il mondo di chi fa le cose. È il piacere di una cosa fatta bene, raccontato da Levi in La chiave a stella ».
Era più facile fare satira con Berlusconi?
«Sì, era più facile ma anche troppo facile. Faceva tutto lui e dovevi solo ribattere. Adesso è più complicato. Bisogna fare qualche scelta in più. O avere qualche dubbio in più».
La sua satira appare oggi meno politica e più antropologica.
«Può essere. A fatica riesco a guardare i talk show, mentre prima li divoravo. Mi sembrava un gioco importante seguire. Ora mi annoia terribilmente. È ripetitivo e non dà spunti».
Ma cambiano le sue fonti di ispirazione?
«Direi che mi basta il brusio di fondo. Indistinto».
Qual è la tonalità che prevale?
«Il disorientamento. Una sfiducia generale. Anche questa è un’altra parola molto abusata: l’economia va male perché la gente non ha più fiducia. Però sentimenti come fiducia e speranza non si possono suscitare girando una chiavetta. Sono cose che devono venire dal profondo ».
Non è un caso che oggi per interpretare la realtà si ricorra agli psicoanalisti ancor più che ad antropologi e sociologi.
«Sono i più bravi a cogliere questo stato d’animo».
Lei in che rapporto è con la psicoanalisi?
«Nessun rapporto. Per ora mi sembra di cavarmela da solo».
La sua attitudine al silenzio da dove viene?
«Non sono sicuro di quello che dico, tutto qui».
Ma le sue vignette fulminano.
«Spesso l’idea di una battuta mi viene partendo dall’incontrario. Ha presente quel mio disegno: “Mi vengono in mente opinioni che non condivido”? È il meccanismo da cui scaturisce il testo finale».
La malinconia aiuta?
«Sicuramente non sono un tipo euforico».
Forse è una qualità che aiuta l’autore di satira. Rende immuni dall’enfasi e consente di arrivare all’essenza.
«È il mio modo di essere, che va oltre il lavoro».
È cambiato negli anni?
«Forse all’inizio disegnavo vignette più cattive. Ho cominciato alla metà degli anni Settanta, il clima era più violento in generale. Ed ero molto più attento ai dettagli delle cose. Non mi ero mai occupato di politica e mi veniva naturale indignarmi. Ora mi sono stancato anche di indignarmi».
Dopo quarant’anni si capisce.
«Col tempo cominci a credere che tocca anche a te pensare qualcosa di positivo, anche se poi non ne sono capace. Però ti senti meno autorizzato a criticare qualsiasi cosa, perché tu non hai una risposta diversa».
Ha intenzione di chiedere il copyright per la rivoluzione degli ombrelli?
«Quelli di Hong Kong sono aperti. I miei no».
Vuole dire più protettivi?
«Più difensivi e meno pericolosi di quelli che disegno io».
Oggi chi manovra l’ombrello chiuso?
«Sono sempre in agguato, ma non si capisce chi li tenga in mano. Uno giro l’angolo e zacchete. Colpiscono ovunque. E se li passano velocemente l’uno con l’altro».

IL LIBRO Colpi di coda di Altan è uscito da Gallucci (pagg. 232 euro 13)

Repubblica 8.11.14
L’arte a chilometro zero
di Tomaso Montanari


MENTRE leggete questo articolo, sfrecciano sulla vostra testa aerei carichi di Caravaggio e Botticelli. Mai la definizione di «patrimonio artistico mobile» è stata presa alla lettera come oggi: ogni anno (e solo in Italia) vengono movimentati circa 15mila pezzi archeologici e circa 10mila opere d’arte.
MA dove va tutto questo ben di Dio? Alle mostre, naturalmente: nell’ultimo anno per il quale esistono dati attendibili (2009) in Italia se ne sono inaugurate 225 di arte antica, alle quali bisogna aggiungerne 365 di arte dell’Ottocento e del primo Novecento, 73 di archeologia e 96 di architettura. E poi ci sono le mostre all’estero: in questi giorni una pubblicità dice che il Duomo di Milano si trova nel negozio Eataly di New York (l’annuncio parla di tre «boccioni»: non c’entra Umberto Boccioni, ma alcuni doccioni gotici, da tempo smontati).
Sono molti i motivi per i quali dovremmo avere seri dubbi su questa sarabanda: uno è che gli effetti di questo moto perpetuo sulla conservazione delle opere saranno misurabili quando forse sarà troppo tardi. Un altro è che si tratta di un’industria che genera profitto privato a spese di un patrimonio pubblico. Ma forse il più serio è che siamo di fronte alla più grande operazione di rimozione del contesto mai messa in atto. Tanto che nel senso comune è ormai ovvio che esistano due turismi di massa: quello delle persone e quello delle opere d’arte. E oltre ai problemi che ciò pone sul fronte della conoscenza, ce n’è uno anche più serio sul fronte della democrazia: anche nel patrimonio culturale siamo sempre più clienti, sempre meno cittadini.
Come si può provare ad invertire la rotta? Sarebbe urgente che il Ministero per i Beni Culturali si desse regole più serie, e che il vaglio della qualità delle mostre fosse più rigoroso. Ma la pressione degli interessi economici e la debolezza culturale del Mibact inducono a credere che questo non avverrà. E, d’altra parte, la vera battaglia contro un simile modello commerciale si deve combattere sul piano culturale, non su quello dei divieti. E non in nome di tabu cattedratici, ma mostrando l’attualità e la forza di un modello alternativo. Un modello come quello della filosofia Sloow Food, per esempio. Carlo Petrini ha raccontato più volte l’aspirazione «contestuale» di Sloow Food: non «la gastronomia nelle asettiche cucine di lusso delle città», ma la frequentazione dei contadini, degli osti e dei vignaioli «a casa loro». Bisognava attuare l’idea di Luigi Veronelli, che parlava di «camminare le osterie », «camminare le cantine»: e da lì «camminare la terra», «camminare le campagne». Insomma: «Bisognava rompere la gabbia», e riconquistare il nesso essenziale con la salubrità di aria, terra, acqua, con la memoria e la storia, con la salvaguardia del paesaggio. Non sono parole e valori ignoti alla tradizione della storia dell’arte: anzi, le appartengono da sempre. Ma oggi dobbiamo avere l’umiltà di reimpararli da chi ha saputo, più degli storici dell’arte, parlare al nostro tempo. Perché c’è urgente bisogno di «rompere la gabbia» degli eventi, e di ricominciare a «camminare il patrimonio». Come farlo, in concreto? Per esempio, adottando il paradigma del “chilometro zero”. Nessuno di noi è stato educato a guardarsi intorno, a considerare il rapporto con l’arte del passato un fatto quotidiano. Per farlo bisogna costruire e condividere un modello sostenibile di rapporto con il contesto che abitiamo: con lo spazio pubblico monumentale, che è il vero capolavoro della storia dell’arte italiana. Invece di andare a vedere una mostra che si intitola «Tuthankamon Caravaggio Van Gogh» (è il successo annunciato per il 2015), potremmo camminare per quindici minuti nella nostra città (per esempio andando al lavoro), accorgendoci finalmente di ciò che ci circonda: un palazzo, una cappella, anche solo un portale o un’epigrafe memoriale, un albero secolare, semplici frammenti del passato inglobati dal tessuto moderno. E sculture e quadri, naturalmente: perché in Italia i quadri (anche quelli di Caravaggio) stanno ancora nelle chiese (quando non sono in mostra, beninteso). Potremmo iniziare a «camminare» il fitto tessuto artistico delle nostre città: ricominciare a leggere una bellezza le cui chiavi ci sono scivolate di mano. Questo consumo culturale consapevole, spontaneo e non organizzato potrebbe indurci a scegliere di non entrare, diciamo per un anno, in nessun evento per cui occorra pagare un biglietto. Una simile astensione dall’industria culturale — ormai insostenibile — ci farebbe immediatamente vedere l’enorme patrimonio cui possiamo accedere gratuitamente: il «patrimonio storico e artistico della nazione italiana» (art. 9 Cost.), che manteniamo con le nostre tasse. E non sarebbe certo un risultato irraggiungibile, se solo le amministrazioni locali, le soprintendenze, le società di servizi e gli editori si convincessero che un monumento può avere il successo di una mostra. Allora si potrebbe mettere al servizio del patrimonio artistico monumentale e permanente una parte anche minima dell’onnipotente marketing che oggi vende con tanto successo l’effimero e l’inesistente. Naturalmente questa presa di coscienza dovrebbe cominciare a scuola: dove si studia, invece, sempre meno storia dell’arte. Se i ragazzi fossero messi in grado di prendere coscienza del luogo che dà forma alla loro vita, se avessero il desiderio e gli strumenti per farlo, per così dire, in automatico, e quotidianamente, sarebbe un successo strepitoso: anche se non sapessero nulla di Tuthankamon, Caravaggio o Van Gogh.
Ribaltiamo il modello mainstream: prendiamo tutto il tempo che avremmo speso in manifestazioni “culturali” a pagamento e dedichiamolo a visitare luoghi culturali gratuiti, e possibilmente a chilometro zero, cioè presenti sui nostri itinerari quotidiani. Una simile scelta equivale ad aprire gli occhi: ad accendere la luce nella casa in cui abitiamo al buio perché mai abbiamo avuto il desiderio di vederla. Ed equivale anche ad essere cittadini, e non clienti; visitatori e non consumatori; educatori di noi stessi e non contenitori da riempire. Oggi nel rapporto col patrimonio artistico: domani, chissà, perfino nella vita politica.

il Fatto 8.11.14
Rebibbia, il teatro non deve morire
di Caterina Minnucci


IL LABORATORIO TEATRALE DELLE DETENUTE DI MASSIMA SICUREZZA DEL CARCERE ROMANO È A RISCHIO CHIUSURA. LA REGIONE LAZIO COPRE IL 50%, L’ASSOCIAZIONE ANANKE DEVE TROVARE LA SUA QUOTA: SERVONO ALMENO 25 MILA EURO. CI PROVA CON IL CROWDFUNDING

E a chi sarebbe mai potuto interessare il racconto del viaggio di una ciurma con il mal di mare? Chi ci avrebbe ascoltato? Chi sarebbe venuto a vederci ormeggiare finalmente in un qualche porto sconosciuto? E invece vennero. Erano lì, tanti, diversi, liberi, ad aspettare noi. Incuriositi, pronti a sentire la nostra voce, neutri... ”.
È il diario di Teresa, detenuta-attrice al suo debutto. Il sipario si apre e il palcoscenico è quello di un teatro particolare: il carcere di Rebibbia, il penitenziario femminile più grande d’Italia, 400 detenute fra cui 21 in regime di massima sicurezza. Sezione in cui, dall’anno scorso si sperimentano laboratori teatrali. Un percorso prezioso per il recupero psicologico, culturale, sociale che rischia di interrompersi per mancanza di fondi. Il bando indetto dalla Regione Lazio copre solo il 50% dei costi, 25 mila euro. Per riceverli l’Associazione Per Ananke, che cura il progetto, deve trovarne altri 25 mila e ha dato vita all'iniziativa Le Donne del Muro Alto, lanciando un crowdfunding: ci sono tre mesi di tempo.
Donne, madri che si sono macchiate di reati gravi, prevalentemente di mafia, cercano giorno dopo giorno un percorso di recupero. E il teatro costituisce un passo importante. Un modo per rileggere il passato e cercare di costruire il futuro sopportando il presente nella negazione della libertà: “Dove c'è la sofferenza l'umanità è amplificata. L’arte assume un valore educativo profondo” spiega Fiorella Mannoia, che dedica parte del suo tempo proprio a favore del recupero dei detenuti cantando nelle varie carceri italiane.
Cosa di cui è fortemente convinta la direttrice di Rebibbia, Ida del Grosso, che ricorda: “L’articolo 27 della Costituzione (“le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, ndr) dà la misura del nostro compito che non può prescindere da queste attività rieducative”.
“MI SENTII comoda, non più lontana, padrona delle mie parole e della mia storia, e così vicina alle mie compagne di maremoto. E così ascoltata... ”, come dimostrano le parole scritte e recitate da Maria Grazia, napoletana, che superano l’isolamento e vanno oltre le sbarre tratte da Didone, la regina che fonda Cartagine e si innamora di Enea, portato in scena l’anno scorso. È il primo spettacolo realizzato all’interno di una sezione di massima sicurezza aperto al pubblico.
Maria Grazia, condannata per reati di camorra, ha scelto di recitare in napoletano, la lingua della sua terra quasi a voler arrivare al cuore dei suoi affetti più cari, primo fra tutti il figlio. “Il teatro in carcere diventa una terapia” spiega la curatrice del progetto Francesca Tricarico, aiuto regista del film Cesare deve morire dei fratelli Taviani, vincitore di cinque David di Donatello e dell’Orso d’oro al Festival di Berlino, e girato proprio a Rebibbia. Indimenticabile la scena finale del film quando il capocomico Cosimo Rega dice: “Da quando ho conosciuto l’arte questa cella è diventata una prigione”.
“Quello che il teatro riesce a fare in più, rispetto all'insegnamento di un mestiere, è agire sulla visione sociale di queste persone svolgendo una funzione di analisi personale e sociale che può essere anche terapeutica.
INOLTRE insegna la condivisione e aiuta a spezzare il ripetersi nella cella di quei rapporti gerarchici, di forza, difesi con la violenza dell'ambiente da cui provengono. Il lavoro più duro all'inizio – continua Francesca Tricarico – è scardinare queste relazioni e stabilire che nelle ore di teatro sono tutte uguali e devono cooperare per svolgere un lavoro collettivo”. E scoprire che dietro a donne che si sono macchiate di reati ci sono delle persone che sono state “educate” a vivere in un altro modo che credono sia il solo possibile.
Ecco che il Teatro, come il canto, offre un livello culturale capace di arrivare al cuore: “Ora però il sipario si è chiuso e attendo speranzosa che prima o poi riusciremo a riaprirlo”.
A lei, la detenuta Maria Grazia, ogni volta che la vedeva arrivare, prima di iniziare le prove, diceva: “Vai a portare il nostro spettacolo nelle scuole, per raccontare che nella vita si può fare altro”. Alludendo senza dirlo alla scuola frequentata da suo figlio spinta dal desiderio profondo di poterlo strappare a un destino forse segnato.

Corriere 8.11.14
La resa degli italiani all’Amba Alagi
Ritrovato il documento del Viceré
di Nicola Munaro


Sono le sette di sera del 17 maggio 1941. Da circa un mese l’esercito italiano, guidato da Amedeo di Savoia, Viceré d’Etiopia, è asserragliato con 7 mila uomini sull’Amba Alagi, una montagna dell’Etiopia settentrionale nella regione del Tigré. Sulle loro tracce c’è l’esercito inglese che in poco più di due settimane riesce ad assediarli, senza acqua né viveri per diversi giorni. Fino alle 19 del 17 maggio 1941, quando Amedeo detta un fonogramma al Governatore dell’Africa Italiana annunciando la resa all’esercito britannico. La storia ricorda che gli italiani avranno poi l’onore delle armi.
Tutto questo lo racconta il documento che il sostituto procuratore Federica Baccaglini ha sequestrato a un padovano di 80 anni, figlio di un Capo di Stato Maggiore dell’esercito e, da sempre, in possesso della trascrizione originale di quel fonogramma.
Un documento, che si pensava perduto per sempre, di «rilevante interesse storico e culturale», come l’hanno definito i carabinieri del comando del Nucleo di Tutela Patrimonio Culturale di Venezia.

Corriere 8.11.14
Torna Zavoli con «La notte della Repubblica»

Torna in tv La notte della Repubblica : l’indimenticabile inchiesta di Sergio Zavoli sugli anni di piombo verrà riproposta dal 12 novembre da Rai Storia alle 22.35. Spiega Zavoli: «Per 18 sere ritroverete il racconto della prova più drammatica che la società civile e le istituzioni italiane abbiano affrontato in epoca repubblicana. Il racconto abbraccia gli anni tra il’69 e l’89 e la scelta di riproporre il programma è dedicata ai giovani e a quanti non hanno vissuto una vicenda conclusa con il tremendo sacrificio di Aldo Moro».

Corriere 8.11.14
Il tesoro del nostro Paese: se Sky Arte fa Servizio pubblico
di Aldo Grasso


Sky Arte ha compiuto due anni, ma 24 mesi sono stati sufficienti al canale per imporre la propria identità, per vincere la scommessa dell’investimento culturale, per ribadire, se ce ne fosse ancora bisogno, che cultura non è un contenuto ma un carattere delle cose che ci preserva dal dover distinguere l’alto dal basso o cose del genere.
Sky Arte, diretto da Roberto Pisoni, è riuscito a fare un’operazione importante. Non basta proporre l’arte nelle sue declinazioni: pittura, scultura, architettura, musica, letteratura, teatro, fotografia, design e tutte le forme di espressione artistica. Questo è solo il punto di partenza; il canale è stato favorito (rispetto, per esempio, a Rai5) dal poter contare su grandi produzioni internazionali, a cominciare dal gemello inglese di Sky Arts. Avere dei modelli internazionali con cui confrontarsi è importante perché permette anche alle produzioni italiane di trovare linguaggi per dare dignità televisiva a una materia che rischia sempre di accontentarsi di essere «contenuto» nobile.
Pochi giorni fa Sky Arte ha trasmesso in prima visione il documentario Domus Aurea – Il sogno di Nerone (prodotto con Ballandi/Arts): abbiamo così potuto vedere gli ambienti più spettacolari della reggia simbolo dell’epoca del primo Impero romano. E anche questa è una scommessa importante, forse uno dei caposaldi — è paradossale dirlo — del Servizio pubblico: valorizzare il patrimonio artistico nazionale. Non ho numeri sottomano per dare un quadro esatto, ma per quel che ho visto, Sky Arte ha dato molto spazio a quell’immenso e prezioso tesoro che malamente custodiamo nel nostro Paese.
Dal punto di vista puramente televisivo c’è un altro punto da sottolineare. Sky Arte è diventato un brand, mentre altre reti che pur trattano argomenti culturali non ci sono ancora riusciti. Brand significa riconoscibilità e condivisione: una firma che funziona da garanzia e promessa.

Corriere 8.11.14
Il «Corriere» conferma la leadership carta-web
«Sole 24 Ore» al secondo posto
di S. Bo.


Il «Corriere della Sera» si conferma in settembre il quotidiano più diffuso in Italia, con una media di oltre 389 mila copie giornaliere, somma di quelle cartacee e digitali. Lo indicano gli ultimi dati Ads, pubblicati ieri sulla base delle statistiche degli editori.
Dati che presentano una novità in testa alla classifica. Il «Sole 24 Ore», grazie a un ulteriore aumento delle copie digitali (canale di vendita dove il quotidiano economico è in testa) diventa secondo per diffusione complessiva media con 369 mila copie, mentre la «Repubblica» è al terzo posto con 367 mila copie medie giornaliere.
Risulta evidente dunque come sia sempre più significativa per verificare la diffusione dei quotidiani la «lettura» digitale. Restando alle prime testate, il «Corriere» in settembre registra sulla carta una diffusione media di 304 mila copie (il dato in pratica non registra ancora il cambio di formato, partito il 24 settembre), segue la «Repubblica» con 301 mila mentre il «Sole 24 Ore» è a quota 175 mila. Sul canale digitale, il «Corriere» è a quota 85 mila con una crescita del 10% rispetto al mese precedente; «Repubblica» è stabile a 65 mila copie; il quotidiano economico passa da 190 a 194 mila. Il confronto con 12 mesi prima sempre sul digitale mostra il boom registrato dal «Sole 24 Ore»: il totale delle vendite medie giornaliere sul digitale in un anno raddoppia.
Per quanto riguarda le altre testate più diffuse, la «Gazzetta dello Sport» è a 236 mila copie di media e sale nell’edizione del lunedì a 275 mila (quelle digitali sono rispettivamente 16 e 17 mila), la «Stampa» è a 218 mila copie, di cui oltre 25 mila digitali, il «Messaggero» è a quota 144 mila, di cui 7 mila circa sono digitali. Seguono il «Corriere dello Sport» con 120 mila copie diffuse, che diventano 140 mila di lunedì, «Qn-Il Resto del Carlino» con 115 mila copie, «Avvenire» con 111 mila (di cui 6.300 digitali) e «il Giornale» con 102 mila. Da registrare infine il relativo primato de il «Fatto quotidiano»: delle 53 mila copie medie giornaliere diffuse, 11.307 sono «digitali».

Il Sole 8.11.14
I dati Ads su diffusione e vendite a settembre
Il Corriere della Sera resta saldamente in testa nella diffusione, ma nel mese cambia la classifica generale
Sole, primato digitale e sorpasso su Repubblica
Il quotidiano del Gruppo 24 Ore primo sui tablet (194.124 copie) e secondo nel totale carta-web
di Andrea Biondi


Il mese di settembre non porta buone notizie per il mondo dei quotidiani italiani, con il calo complessivo delle copie nell'intero panorama nazionale. Ma i dati Ads diffusi ieri mettono agli atti un cambio nelle posizioni di vertice fra i giornali italiani. Il Sole 24 Ore infatti va di qualche migliaio di copie (per l'esattezza 2.807 copie medie giornaliere) sopra la Repubblica posizionandosi sul secondo gradino del podio fra i giornali italiani quanto a diffusione complessiva carta più digitale. In valori assoluti si parla di 369.875 copie contro le 367.068 del quotidiano del Gruppo L'Espresso. Entrambi si trovano alle spalle del Corriere della Sera che si conferma il primo quotidiano nazionale per diffusione complessiva, a quota 389.614.
Questo è il podio all'interno di un panorama che per le realtà editoriali si mostra però tutt'affatto che in salute. La casistica già di per sé parla chiaro con l'uscita di scena dalle edicole, l'1 agosto scorso, de L'Unità, le cui sorti ora sono affidate all'offerta congiunta di Guido Veneziani (Gve) e del Pd. I numeri sono però altrettanto chiari e indicativi della situazione tutt'altro che espansiva: i 4,18 milioni di copie diffuse giornalmente a settembre (sempre nel complesso carta-digitale) sono l'8% in meno rispetto ai 4,5 milioni di un anno prima. E questo nonostante un aumento del 42% delle copie «2.0» salite da quota 364.469 a 518.015. Spingendosi poi un po' oltre i dati di rilevazione delle copie, anche da Nielsen sono arrivate indicazioni nient'affatto rassicuranti sulla raccolta pubblicitaria. Nei primi nove mesi dell'anno i quotidiani hanno raccolto 576 milioni di euro: -10,3% rispetto a gennaio-settembre 2013.
Nell'analisi dei trend dei primi dieci quotidiani italiani, emerge come solo Il Sole 24 Ore e Avvenire hanno messo a segno una crescita rispetto a settembre dello scorso anno: +27,9% per il quotidiano del Gruppo 24 Ore e +6,6% per Avvenire. Una performance positiva come per le vendite: +24,9% per Il Sole 24 Ore e +2,3% per il quotidiano della Cei, forti da sempre del maggior parco abbonati in Italia. Nel caso del Sole 24 Ore però, proprio il dato degli abbonamenti cartacei unito a quello delle copie digitali dà la misura del cambiamento strategico in atto. Il Sole 24 Ore infatti si conferma anche a settembre 2014 il primo in Italia sul versante delle copie «2.0» salite a quota 194.124. Rispetto ad agosto la crescita è stata del 2,2%, ma a confronto con il mese di settembre del 2013 il dato è quasi raddoppiato (+99%). Il +4,4% delle copie digitali singole – oltre al lancio di How to Spend it – hanno sicuramente avuto un impatto nella crescita totale della diffusione (+2,02% rispetto ad agosto). Occorre ricordare che il regolamento Ads parla di edizione digitale come di una «replica esatta e non riformattata dell'edizione cartacea in tutte le sue pagine». Lo stesso regolamento ha stabilito che per essere certificate le copie digitali (che possono essere singole, in bundle carta-digitale o multiple, cioè vendute a grandi clienti come aziende, banche o studi professionali) possono essere vendute con un prezzo non inferiore al 30% di quello medio di copertina se singole o multiple, oppure del 50% se in abbinata carta-digitale.
A ogni modo, l'impennata delle copie digitali del Sole 24 Ore è frutto di una precisa scelta strategica editoriale e aziendale in virtù della quale si è spinto sul multimediale. Una scelta che ha portato a spingere sulle copie digitali, accompagnandole con tutta una filiera di quotidiani digitali verticali specializzati (fisco, diritto, lavoro, casa e territorio, scuola,università e ricerca, finanza24plus, consulente finanziario24, assicurazioni 24) oltre all'ultimo lancio di Italy 24. E frutto della stessa scelta digitale è anche la strategia di convertire il più possibile gli abbonamenti domiciliati edicola in abbonamenti digitali, anche per ragioni di redditività visti i maggiori margini assicurati dalle copie «2.0». Questo ha determinato un travaso del 27% del totale degli abbonamenti domiciliati edicola che incide solo nominalmente sul venduto edicola cartacea. In realtà, l'andamento reale dell'edicola è positivo: i ricavi diffusionali da edicola cartacea a prezzo pieno e invariato hanno registrato un incremento annuo del 7,6% alla data di settembre, in controtendenza rispetto al mercato.
Per quanto riguarda gli altri quotidiani, sia il Corriere della Sera sia la Repubblica chiudono il mese di settembre con un calo della diffusione carta più digitale sia su base annua (-11,1% e -7,4%) sia nel confronto con agosto (-5,21% e -6,78%). Sulle sole copie digitali il trend è invece positivo: +2,3% e +21,6% su base annua e +10,4% e +0,5% mettendo a confronto il dato di settembre con quello di agosto. La Gazzetta dello Sport si conferma al quarto posto fra i giornali italiani ma in calo sia nel confronto con agosto (-17,9%) sia su base annua (-10,8%), seguita da La Stampa (-2,03% rispetto ad agosto e -4,1% su base annua), Il Messaggero (-14,92% rispetto ad agosto e -4,8% su base annua), Corriere dello Sport (-26,29% e -16,3%), Qn Il Resto del Carlino (-7,7% rispetto ad agosto e -5,7% su base annua), Avvenire (+16,54% rispetto ad agosto e +6,6% su base annua) e il Giornale (-2,53% rispetto ad agosto e -13,2% su base annua).

Repubblica 8.11.14
nche a settembre Repubblica al primo posto per le vendite in edicola

ROMA Al primo posto per la vendita in edicola: anche a settembre «la Repubblica» conferma la sua leadership nel canale di diffusione più tradizionale. Secondo l’indagine di settore Ads (Accertamento diffusione stampa) nel periodo preso in considerazione il quotidiano diretto da Ezio Mauro ha venduto 259.523 copie, contro le 255.385 del suo principale concorrente, il «Corriere della Sera».
Il primato sul Corriere si conferma nella vendita delle copie digitali, la formula che rende possibile la lettura del giornale attraverso tablet, computer e smarphone. In quella fascia di mercato «Repubblica» è in testa con 60.344 copie vendute contro le 59.490 del «Corriere della Sera». Ma il massimo di vendite, per il quotidiano del Gruppo Espresso, si raggiunge attraverso l’abbinamento con il settimanale «il Venerdì»: in edicola l’accoppiata vende 342.284 mila copie, e considerata la diffusione totale (cartacea più digitale) raggiunge il tetto delle 413. 651 copie. Restando ai quotidiani del Gruppo Espresso, fra quelli a diffusione locale spiccano il «Tirreno » di Livorno, che vende in edicola 52.464 copie, «La Nuova Sardegna» (42.440) e il «Messaggero Veneto», quotidiano di Udine che tramite edicola distribuisce 41.686 copie. Nel settore dei settimanali, quello del Gruppo, «L’Espresso », considerando il totale della diffusione - abbonamenti inclusi - nello scorso mese di settembre ha realizzato una vendita media di 208.137 mila copie.
Se invece si fa riferimento alla classifica dei quotidiani nazionali al terzo posto per vendite in edicola, dopo Repubblica e il giornale diretto da Ferruccio De Bortoli, mantiene la sua posizione «La Stampa» di Torino: 157.855 copie. Cambiando genere, nel settore della stampa sportiva, la leadership va alla «Gazzetta dello Sport», con una media di 195.795 che nella edizione del lunedì sono aumentate settembre a 231.457. Al secondo posto il «Corriere dello Sport», che nella sua versione del lunedì vende in edicola 135.917.