domenica 9 novembre 2014

il Fatto 9.11.14
Vaticano e pedofilia: belle parole, pochi fatti
di Marco Politi


LA COMMISSIONE VOLUTA DA PAPA FRANCESCO VA A RILENTO, NON SONO STATE ELABORATE LINEE GUIDA PER RACCOGLIERE DENUNCE E INDAGARE SUI MISFATTI

La mole di documenti inquietanti, pubblicati a Chicago sugli abusi commessi dal clero tra gli anni 1950 e 2010, è un campanello di allarme per il Vaticano. Al di là dell’impegno personale di papa Francesco – evidenziato dalla decisione di sottoporre a processo penale il pedofilo ex nunzio nella Repubblica dominicana Jozef Wesolowski – la vicenda ripropone la questione della grande disparità esistente da una nazione all’altra, più precisamente da una conferenza episcopale all’altra, nelle strutture per contrastare le violenze contro ragazzi e ragazze. La speciale commissione anti-abusi, formata dal Papa va a rilento. C’è stata qualche riunione, ma finora non sono state elaborate linee-guida, che organizzino a livello planetario le modalità per accogliere le denunce, indagare sui misfatti e risarcire le vittime.
LA CHIESA ha molto da recuperare. Perché gli Stati in quanto tali non hanno praticato sistematicamente una politica di insabbiamento quando un insegnante o un allenatore compivano atti di pedofilia. Non c’erano prefetti che trasferivano silenziosamente l’insegnante o l’allenatore da una scuola o una palestra all’altra. Non c’erano denunce andate misteriosamente perdute nei meandri del ministero della Giustizia o nella corte di Cassazione. Non c’erano criminali graziati in extremis come per esempio il fondatore dei Legionari di Cristo Marcial Maciel – obbligato solamente da Benedetto XVI a una vita ritirata e di preghiera – a cui fu risparmiato il processo ecclesiastico.
Nella Chiesa, invece, a partire dalla svolta indicata da papa Ratzinger con la sua Lettera ai cattolici d’Irlanda, si tratta di smantellare una prassi secolare di copertura degli abusi e di creare organismi precisi a cui le vittime possano rivolgersi per avere giustizia. Molto si è fatto in questi anni, troppo rimane ancora da fare. Ci sono paesi in cui ci sono organismi funzionanti. Prendiamo gli Stati Uniti, dove mons. Blase Joseph Cupich è diventato da poche settimane arcivescovo di Chicago succedendo proprio al cardinale George: all’interno della conferenza episcopale statunitense Cupich è presidente della Commissione per la protezione dei minori. Anche in altre nazioni, per esempio la Germania, esistono organismi del genere. In Polonia c’è un Centro per la tutela dei minori, creato dall’episcopato. L’Italia è tra i paesi dove la conferenza episcopale – quanto a strutture specifiche di aiuto alle vittime – continua a latitare. L’assemblea della Cei si riunisce domani ad Assisi, discuterà della formazione del clero e certamente anche della sensibilizzazione sul tema del rapporto con i minori. Ma di centri di ascolto per le vittime e di impegni per i risarcimenti la Cei continua tenacemente a non parlare.
Spetta proprio alla commissione vaticana anti-abusi elaborare le procedure più efficaci per affrontare il fenomeno, dando al Papa gli strumenti operativi per imporre una linea uniforme valida per la Chiesa cattolica in ogni nazione. Le poche riunioni, organizzate da marzo in poi (quando l’organismo fu costituito) e i rapporti via mail tra i membri del gruppo, non assicurano però speditezza ai lavori.
A settembre il pontefice ha nominato segretario della commissione l’americano Robert Oliver (già promotore di giustizia, cioè “pubblico ministero”, al Sant’Uffizio) per dare impulso all’iniziativa. Ma fino a oggi niente è stato prodotto. E gli scandali incombono.

il Fatto 9.11.14
Recalcati, lo psicologo a induzione, come i fornelli
di Nanni Delbecchi


Magari non sembra, ma la televisione italiana sempre affamata di ospiti, lavora alacremente all’evoluzione delle specie. Massimo Recalcati, per esempio, rappresenta la nuova generazione della pregiata specie dello psicologo da salotto; quelli che, invece di fare accomodare il paziente sul divano, preferiscono accomodarsi loro in poltrona. Molti di loro, come Alessandro Meluzzi, negli ultimi tempi sono definitivamente passati alla cronaca nera, nuova Mecca degli ascolti, e ormai i loro ragionamenti sulla colpevolezza del marito cornuto o della cugina invidiosa non sono più distinguibili da quelli che si sentono fare al bar. Solo una ristretta élite di questi psicologi continua a volare veramente alto; così Recalcati rappresenta un riuscito restyling del modello Paolo Crepet per quanto riguarda l’immagine (giacca di buon taglio e occhiali di celluloide al posto di cachemire color pastello), ma anche del modello Raffaele Morelli per quel che riguarda i concetti. Anche Recalcati tende a scoprire l’acqua calda, ma con più fatica, come se il boyler avesse il termostato difettoso; poi però la porta a ebollizione con aria più calma, senza scaldarsi troppo lui. Uno psicologo a induzione, come i fornelli. Domenica scorsa Recalcati ha presentato a Che tempo che fa il suo libro L’ora di lezione – Per un'erotica dell’insegnamento: titolo promettente, che pareva evocare grandi professoresse del passato come Edwige Fenech o Gloria Guida.
OSSERVANDO intensamente Fazio come Castellitto osserva Kasia Smutniak in In treatment, lo psicologo a induzione ha esordito con alcune grandi verità della vita. Prima verità: “Si insegna agli altri solo ciò che noi stessi amiamo”. Seconda verità: “Siamo passati dalla ‘Scuola Edipo’ di quando i genitori si alleavano con i professori contro i figli, alla ‘Scuola Narciso’ di oggi, in cui i genitori si alleano con i figli contro i professori. Terza verità: “La vita è fatta di incontri, tutto dipende dagli incontri che facciamo”. Quarta verità: “Gli incontri si dividono in due categorie: quelli buoni e quelli cattivi” (questa conviene segnarsela, è troppo complessa). Di fronte a un Fazio pensoso e un po’ preoccupato (non sapremmo se per le verità della vita o per lo share del programma), l’induttore si è poi messo a narrare due incontri decisivi. Uno buono e l'altro cattivo. L’incontro cattivo avvenne alle elementari, quando la maestra chiese ai bambini “Perché ci piace il fuoco? ”, e lei stessa dette la risposta: “Perché il fuoco si muove”. Una delusione cocente, che lo studente Recalcati riuscì a superare grazie un nuovo incontro nel liceo di Quarto Oggiaro, “un’insegnante di lettere giovane e carina che si dimostrò capace di trasformare i libri di testo in corpi erotici”. Evvai: vuoi vedere che era proprio Gloria Guida? E il compagno di banco di Re-calcati sarà stato Alvaro Vitali? Ma no, questa è archeologia edipica da buco della serratura; questa professoressa, invece, spalancò fino in fondo alla sua classe le porte della conoscenza. “Appartengo a una generazione che si è perduta nella droga, nel terrorismo, nelle filosofie orientali. Se mi sono salvato, devo dire grazie a quell’insegnante”. Fu lei a cambiargli la vita, e un po’ l’ha cambiata anche a noi. Se trent’anni fa Recalcati non è partito per l’India, ma sta in tv a spiegarci come va il mondo, ora anche noi sappiamo a chi dire grazie.

il Fatto 9.11.14
Sgridano Brittany per il suicidio
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, noto un grande imbarazzo in Vaticano sul suicidio della giovane americana Brittany. Ma mi indignano le parole del vescovo Carrasco, che sarebbe il presidente della Pontificia accademia per la vita: “Bisogna chiedersi se questa è la morte con dignità”. O non bisogna chiedersi se ha dignità chi dice una simile frase?
Alessandro

ANCHE con un Papa come Bergoglio, i cambiamenti sono e saranno lentissimi. E il problema non è di immaginare che tutto cambia perché un Papa è simpatico e coraggioso. Una parte pesante del corpo dottrinale cattolico si è formato in secoli diversi, nel cuore di culture diverse, e nel dannosissimo incrocio fra potere secolare e potere spirituale, che certo ha deformato molte posizioni e decisioni dislocate nell'ambito sbagliato. In una situazione come quella, ben nota, di Brittany Maynard, la frase di mons. Carrasco può essere considerata una reazione automatica, burocratica, una illusione di potere priva del tutto di ogni senso di umanità. È una frase che rivela un autoritarismo superficiale più da militare di vecchio tipo che da prete contemporaneo. Infatti è ben diverso ricordare che la chiesa cattolica non approva il suicidio, o dire con enfasi che il gesto (nella situazione che siamo stati indotti a conoscere) “non ha dignità”. Il non approvare dipende da una dottrina. Respingere la persona costretta a morire come priva di dignità è un gesto malevolo, una mancanza di rispetto che è grave in una persona che dovrebbe praticare come doveroso e come religioso il rispetto degli altri esseri umani, specialmente in situazioni di dolore estremo. Si sente gelo intorno alla frase penosa e sbagliata, un gelo che ci ricorda per forza il giorno e il modo in cui sono state chiuse le porte di una chiesa per non accogliere e benedire il corpo di Piergiorgio Welby, suicida in circostanze del tutto analoghe a quelle di Brittany. C'è la stessa persuasione di servire un Dio crudele e vendicativo, certo non somigliante al Padre a cui pensano di rivolgersi i credenti. Quanto ai non credenti, anche per essi c'è un messaggio, nel caso Welby come in quello Carrasco-Brittany. Il messaggio è “non aprite quella porta”. Là infatti – avverte Carrasco – non c'è amore, non c'è solidarietà, nessuno è fratello di nessuno. Solo giudici gelidi e maleducati.

La Stampa 9.11.14
Costruttori, imprenditori ed ex di Forza Italia alla corte di Matteo
La fotografia dei nuovi sostenitori: tutti in fila per un posto a tavola
di Mattia Feltri


Tutti avevamo un motivo. Anche il cameriere: «Me lo ha chiesto il maitre». Si direbbe un maitre minaccioso, vista l’insistenza del ragazzo, smartphone già pronto per il selfie. Ecco, selfie, un termine di cui è vietato fare a meno: la definizione dell’epica universale. Sono ormai le undici di sera, siamo riusciti a raggiungere, oltre le colonne, l’area nobile dell’immensa sala da pranzo - una novantina di tavoli da dieci ospiti l’uno, guadagno abbondantemente oltre il milione di euro per il finanziamento del partito - e il premier, sepolto da corpi, pare un pallone da rugby sotto la mischia. I camerieri hanno studiato la tattica, alzano le braccia e partono col ritornello, «Matteo Renzi... Matteo Renzi... Figo Renzi», composizione di un rapper che si fa chiamare Bello Figo. Ma non c’è verso, il muro non si sfonda: ogni tanto dall’affollamento entra qualcuno perché è uscito qualcun altro, iPhone e simili sul palmo, l’indice a scorrere sullo schermo per mostrare trionfanti lo scalpo. Bello figo. Bella serata, molto figa, molto fighi tutti quanti, all’inizio si cercava di individuare questo o quello da un dettaglio fisionomico perché eravamo tutti in uniforme, abiti in tinte comprese fra blu di Prussia e blu zaffiro, sfumature impercettibili a occhio umano. Scarpe nere, cravatte catacombali.
Tutti avevamo un tavolo e un motivo. James Pallotta, presidente della Roma, si era portato dietro mezza dirigenza ed era ancora sugli scalini - fuori dal Salone delle fontane all’Eur - e già aggirava il vecchio potere del vecchio circuito piddino che, dice, fa mille storie sullo stadio nuovo; strette di mano, mezzi abbracci, mezze frasi. Il suo tavolo era proprio sotto al palchetto su cui, dalle dieci alle undici, Renzi aveva parlato ai commensali che per un po’ avevano indugiato sulla parmigiana di melanzane e sui ravioli cacio e pepe e sul filettino con spinaci e mandorle, piluccavano, infilavano furtivamente il cibo in bocca, fino al cedimento da crapula. In fondo quello di Renzi era un the best of, un riassunto delle puntate precedenti. Ma quando ha finito è sceso e ha puntato Pallotta, gli ha detto che apprezza tanto gli imprenditori che vengono a investire dall’estero, e insomma Pallotta si è seduto e non sarebbe stato così contento nemmeno al terzo rigore contro la Juve.
Ecco, c’è lo stadio nuovo, c’è l’ordine feticista del maitre, in mezzo c’era l’intero mondo, c’era il tavolo di Google, c’era il tavolo della Clear Channel che fa bike sharing già a Parigi e Barcellona, c’era il tavolo della British American Tobacco, quello del gruppo Maccaferri, quelli degli storici dirigenti del Pd romano che si erano portati le loro piccole reti di imprenditori da introdurre nel castello fatato, ma non è che poi Renzi si sia messo a girare come lo sposo, e come ognuno si augurava. È un’altra musica ormai. E infatti c’erano anche i tavoli dei pezzi grossi, di Luca Parnasi, dei fratelli Toti, cioè i grandi costruttori romani, l’amministratore delegato della Lamborghini, Umberto Tossini, nomi da elencare quasi a caso, ma probabilmente tutti affratellati dal dilemma riassunto da uno di quel calibro: «Una volta chiamavamo Goffredo Bettini e lui era a tiro di telefono da Massimo D’Alema e da Walter Veltroni. Adesso penso che Bettini non abbia nemmeno i numeri». Non soltanto lui. Questi giovanotti bellissimi e cattivissimi che si sono presi il potere vivono dentro al palazzo, ed è impossibile incontrarli, perché è lì che si manifesta la vera differenza antropologica: fra il partito di relazione di ieri e il partito dei conquistadores che ci è capitato sulla testa oggi. Sembrava quasi che Renzi avesse detto: mi rompete le scatole da mesi, bene, allora adesso si fa una serata tutti assieme, ma voi pagate. E così intanto che Maria Elena Boschi (come la madonna del petrolio, fantastica definizione di un amico) accoglieva la fila dei pretendenti alla foto ricordo, Luca Lotti accoglieva quella dei consegnatori di biglietto da visita, praticamente un sos in bottiglia.
Ecco, mille ospiti, mille motivi. Era evidente il motivo dei lavoratori in mobilità del Pd, che si sono prestati al ruolo di receptionist e di guardarobieri perché «Renzi ci ha promesso che se la serata va bene si esce dalla mobilità». Era evidente il motivo di Gennaro Migliore, ex rifondarolo ormai preso per incantamento dalle serate anticastriste con Mario Vargas Llosa o, come venerdì, da quelle fra ricchi e arricchiti. Un mare, e ci si erano buttati vestiti Giuseppe Fioroni, ultimissima variante di leopoldista, e i giovani renziani alla Ernesto Carbone che si godevano il trionfo, e il tesoriere Francesco Bonifazi che conteggiava l’affluenza con gli occhi a forma di euro, e giovani professionisti come il segretario generale dei chirurghi italiani, Sascha Thomas, o come l’ex berlusconiano Giancarlo Innocenzi, a vedere se questo è davvero un treno in corsa. E finita con un viavai di macchinoni, mentre noi - in un cedimento renziano - siamo rincasati con una Smart della Car2Go, moderna mobilità sostenibile.

Repubblica 9.11.14
Debora e l’arciduca
di Alessandra Longo

A CHI critica le frequentazioni troppo “mercantili” del gruppo dirigente renziano, dagli ospiti della Leopolda agli attovagliati alle cene per il finanziamento, va segnalato l’incontro, certo non di low profile, tra Debora Serracchiani, vicepresidente del Pd e presidente del Friuli Venezia Giulia, e l’arciduca Giorgio d’Asburgo. Paul Georg Maria Joseph Dominikus von Habsburg, nipote di Carlo I, ultimo imperatore d’Austria-Ungheria, non è un finanziere con agganci alle Cayman, ma l’attuale ambasciatore straordinario dell’Ungheria presso l’Unione Europea e il presidente della Croce Rossa magiara. Il faccia a faccia Serracchiani-Asburgo si è consumato a Trieste e le cronache ci fanno sapere che l’Arciduca si è «emozionato» nel visitare il castello di Miramare. Gli Asburgo non si rottamano. Si è parlato di «temi di respiro europeo» in particolare di infrastrutture «in una rinnovata idea di mitteleuropa».. Cofferati contro la renziana

il Fatto 9.11.14
Vecchi e nuovi corsi
Il “codice Renzi”: un alfabeto reaganiano
di Furio Colombo


A prima vista Renzi ti sembra il tipico ragazzo un po’ troppo estroverso a cui piace provocare meraviglia. Poi, pensando bene alla sua età e alla sua precoce ma intensa carriera politica (quattro posizioni di vertice in cinque anni) hai di fronte due strade. O Renzi, come accade a molte persone di rapido successo, è brillante ma immaturo, e improvvisa per meravigliare senza pensarci troppo. Oppure segue un percorso già rigorosamente prestabilito. Come un buon giocatore di golf, di buca in buca, il nostro campione deve arrivare a una vittoria. Ancora non sappiamo per che cosa e con chi, visto che lui, nella sua indiscussa bravura, sembra sempre di più un messaggero che un angelo vendicatore.
Per rispondere a questa domanda, o almeno per chiarirci le idee, possiamo esibire due reperti. Uno è “il codice Renzi”, ovvero il modo in cui questo nuovo, giovane premier ama esprimersi con una sorta di festosa ridondanza, in cui il compiacimento va sempre a se stesso (se non altro come inventore della battuta), e una sgridata punitiva riguarda sempre altri, che non hanno capito.
IL SECONDO reperto lo dobbiamo a una intelligente intuizione de Il Giornale (26 ottobre) che, profittando di una ricorrenza, ha pubblicato il primo discorso politico di Ronald Reagan (27 ottobre 1964). Cito dal testo del quotidiano di Berlusconi (restando quindi nel territorio protetto dal Patto del Nazareno): “Libertà è l’idea che il governo sia soggetto al popolo sovrano. Ed è proprio il problema che si pone oggi: se noi crediamo nella nostra capacità di autogovernarci o se invece intendiamo abbandonarci a una élite intellettuale (...) I Padri fondatori sapevano che, al di fuori delle funzioni che legittimamente competono ad esso (Difesa e politica estera, ndr) lo Stato non riesce a fare nulla bene e con uguale parsimonia quanto il settore privato dell’economia al suo posto (...) Essi sperano di risolvere il problema della povertà tramite l’intervento dello Stato e programmi governativi. Ora se la risposta fosse davvero interventi governativi e Stato assistenziale, non sarebbe stato lecito aspettarci risultati sul declino dei bisognosi? In realtà ogni anno il fabbisogno aumenta, e aumenta il costo degli interventi (...). Questi uffici che proliferano, con le loro migliaia di regolamenti, ci sono già costati molte delle nostre garanzie costituzionali. Ora, non sono necessari l’esproprio e la confisca della proprietà privata per imporre a un popolo il socialismo. Un tale apparato è già in vigore. Lo Stato, infatti, è in grado di addossare un capo d’accusa su qualunque impresa scelga di perseguire. Ogni uomo d’affari ha la sua storia di molestie da raccontare”.
Nel suo commento il curatore della pagina, Andrea Camajora, opportunamente fa notare: “A cinquant’anni di distanza stupisce l’attualità dirompente dei principi individuati da Reagan, che rappresentano un vero e proprio programma di governo. Anche per l’Italia di oggi”. Infatti basta seguire il percorso oratorio che porta a Renzi, come le briciole lasciate nel bosco della famosa fiaba. “Trovo veramente surreale che la segreteria della Cgil voglia trattare la legge di Stabilità con il governo. I sindacati devono trattare con le imprese. Non devono trattare le leggi col governo, cui spetta di scriverle e trattare su di esse con il Parlamento. È ora di finirla di pensare di poter bloccare il lavoro dell’esecutivo”. Ma questa dichiarazione (nel programma del 27 ottobre di Lilli Gruber, bentornata a La7) si completa di altre affinità elettive con Reagan, quando Renzi parla d’Europa: “dei burocrati e dei funzionari a cui darò del filo da torcere”.
Prima ancora, in altre occasioni, aveva annunciato “lotta radicale alla burocrazia”.
Però come non ritrovare l’annuncio che il popolo sta sopra il governo quando Renzi proclama “il partito della nazione”, usa cioè la parola più amata dalla destra, perché, più ancora di popolo, può essere interpretata come un valore spirituale che travalica istituzioni e Costituzione e sta, in qualche modo, “sopra” tutto il resto, lamentele politiche incluse?
E COME non ritrovare il Reagan che è contro il governo, contro lo Stato, contro la burocrazia parassita, quando Renzi proclama che sta lavorando per “restituire i soldi ai cittadini”, espressione misteriosa perché quei soldi li sta prelevando da altri cittadini con lo stesso reddito poco brillante? Quanto alla separazione dei poteri, così apertamente svilita da Reagan prima ancora che da Berlusconi (“ogni uomo d’affari ha la sua storia di molestie da raccontare”) ci sono due momenti esemplari nella retorica renziana: quando il presidente del Consiglio esclama in pubblico “I giudici? Brrrr che paura”. E quando afferma solennemente, in due diverse occasioni: “Non permetteremo ai giudici di cambiare un organigramma di governo” (dopo un avviso di garanzia a un sottosegretario). E “Nessuno può cambiare i vertici di una impresa come gli pare”, dopo che due alti personaggi dell’Eni (Descalzi e Scaroni) erano risultati inquisiti.
Poi c’è l’annuncio, quasi festoso, che “il posto fisso non c’è più” che non è il vero problema di cui soffrono moltissimi cittadini. Il vero problema è che il lavoro non c’è più. E che la questione, un tempo, prima dell’irruzione del privato, riguardava i governi.
Ecco, abbiamo alcune notizie sul “codice Renzi” e i suoi precedenti. Resta da domandarci: perché? Voi dite, perché ha successo. Giusto. Anche Grillo, prima di Reggio Calabria.

Corriere 9.11.14
Partito della Nazione la sfida (e i rischi) del progetto del Pd
di Virginio Rognoni


Secondo le analisi che sono state fatte dopo la Leopolda e Piazza San Giovanni c’è anche la prospettiva di una possibile trasformazione del Partito democratico in un partito «totalizzante». La vocazione maggioritaria del Pd, in uno scenario fortemente segnato dalla debolezza dei partiti di opposizione, porterebbe a questo rischio. La vigoria del segretario-premier farebbe il resto: Renzi solo al comando, con lui è la gente; e il partito, di cui è segretario, è del tutto sfocato.
Quasi a prova di una deriva del genere si è richiamata la stessa espressione «partito della nazione», circolata con insistenza alla Leopolda. Così, per esempio, Cacciari: la nazione è «tutto», il partito è «parte»; se, dunque, c’è un partito della nazione, quel partito è il partito unico e la democrazia si spegne. A sua volta Luciano Gallino: «anche altri partiti, in passato, si sono qualificati nazionali e sappiamo come sono andate le cose». Tutto vero: ma è giusto prendere sul serio — qui e ora — l’espressione «partito della nazione» e paventarne gli esiti disastrosi per la democrazia?
Altre volte, in tempi passati, si è parlato di « country party » per definire la Democrazia cristiana e il suo ruolo centrale per gli equilibri politici del Paese; una sorta di «innocente» retorica a sostegno di una indiscutibile situazione di fatto. Ma anche oggi il «partito della nazione», di cui si è parlato alla Leopolda, mi pare semplicemente un argomento retorico, un capitolo della propaganda che ogni partito si concede. Piuttosto, il progetto di Renzi, condiviso da tutto il partito, è chiaro nella sua enunciazione: l’alternanza al governo di due formazioni contrapposte, con programmi e storie diverse che, appunto, ne provocano la contrapposizione. Il programma — brevemente si può dire così — è un deciso riformismo che senta fortemente le esigenze della giustizia, che modernizzi il Paese, gli tolga la ruggine in non pochi meccanismi istituzionali, elimini burocrazie e ritardi; tutto ciò attraverso l’azione di un partito — il Pd — che, nell’agire per questo programma, deve esso stesso mettersi in gioco. In ogni caso un partito collocato sulla sinistra, secondo la storia che ha alle spalle, compresa quella del cattolicesimo democratico e senza infingimenti come lo prova la sua collocazione, a livello europeo, fra le famiglie socialiste.
È con questo progetto e con questo partito che Renzi si è presentato alle elezioni europee, di fatto al giudizio della gente, e ha avuto grande successo. Di fronte a tale risultato la conclusione è elementare: il Pd ha bisogno di Renzi e Renzi ha bisogno del Pd. Ma questo rapporto di reciprocità, che conferisce forza al partito, richiede una costante manutenzione e l’impiego di ogni risorsa di cui la cultura politica dispone; soprattutto quando la dialettica fra maggioranza e minoranza si radicalizza e diventa dura contrapposizione. Spetta soprattutto al segretario questa opera di manutenzione capace di eliminare incomprensioni che, nel tempo, irrigidendosi, potrebbero diventare laceranti. Faccio solo un esempio: le dichiarazioni di molti esponenti della minoranza di escludere qualsiasi ipotesi di scissione e di rimanere, in ogni caso, nel partito, non possono essere considerate come espressione di uno stato di necessità o di opportunismo. In queste dichiarazioni c’è (e basterebbe il solo dubbio che ci sia) il sentimento di una appartenenza, avvertita come cosa preziosa; l’appartenenza al partito, alla sua storia e alle sue ragioni di oggi. Un patrimonio che non può essere liquidato e buttato via con parole sbrigative. Al contrario, trovando le parole «giuste» della politica — che pure ci sono — deve essere valorizzato. Se ne avvantaggerebbe il dibattito interno sugli stessi decisivi temi della politica economica e del lavoro; temi tutti che la dirigenza ha il dovere di portare al governo secondo gli esiti di un dibattito interno, a cui a pieno titolo ha partecipato anche la minoranza.
La sfida politica del Pd sta anche qui, delicatissima, sul fronte interno e va giocata con grande discernimento. Il suo progetto può non avere successo ma è veramente ambizioso nella sua enunciazione. Muoversi, infatti, con forza e chiarezza, verso il consolidamento di un polo di sinistra-riformista potrebbe provocare e favorire la nascita di una formazione antagonista. A questo modo si metterebbe in moto un processo di riordino integrale dell’assetto politico nell’interesse del Paese. Un progetto ambizioso, dunque, che finisce per avere in sé una carica «pedagogica» che, nei momenti difficili, non è affatto estranea alla politica. Se è così, che si parli del Pd come il «partito della nazione» non può certo creare sconcerto. Se la sfida non fosse superata, ci troveremmo tutti dentro un centrismo senza confini. È bene saperlo.

La Stampa 9.11.14
Mogherini: “Serve uno Stato palestinese, il mondo non tollererà una quarta guerra a Gaza”
L’Alto rappresentante Ue suggerisce a Fatah e Hamas di superare gli ostacoli che restano all’entrata in funzione di un esecutivo di unità nazionale capace di governare
di Maurizio Molinari

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Corriere 9.11.14
Rapporto Onu: facciamo davvero contare il mondo, a cominciare dai più poveri
di Donato Speroni

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La Stampa 9.11.14
Statali a Roma: “Renzi, cambia verso”
Cgil Cisl e Uil contro il blocco dei contratti. I sindacati: “Pronti allo sciopero e al referendum anti Fornero”
di Francesca Schianchi


«Sappia il governo che, se non ci saranno risposte, continueremo con lo sciopero delle categorie e chiameremo tutti i lavoratori». Boato da piazza del Popolo inondata dall’ultimo sole del pomeriggio: all’annuncio urlato dal palco dal segretario generale della Cgil Susanna Camusso si agitano le mille bandiere colorate, i palloncini con il viso di un Renzi-Pinocchio e l’ironico invito «Matteo stai sereno», le sagome in cartone del premier e della ministra dell’Istruzione Stefania Giannini in versione scolaretti e gli striscioni in rima «Renzi fa accordi con Verdini e manganellano Landini», si entusiasma una folla di oltre centomila persone, secondo le stime dei sindacati, tanti quanti da Rimini come da Potenza, da Bari come da Cagliari e Milano si sono mossi in corteo per le strade di Roma per arrivare qui, nel cuore della capitale, per questa manifestazione del pubblico impiego promossa da Cgil, Cisl e Uil.
A due settimane dall’altra affollata manifestazione indetta dalla Cgil a San Giovanni contro il Jobs Act, la Camusso torna in piazza a strigliare il governo: «Le risposte le vogliamo. Smettete di fare i dilettanti allo sbaraglio: non si può trattare la Pubblica amministrazione come se non fosse il centro, il perno dei servizi. Il lavoro è una cosa seria». T-shirt rossa griffata Cgil Bologna che riproduce un flacone di profumo «Arrogance», «Profumo di premier», e un vecchio gettone telefonico come spilla, a richiamare la famosa polemica con il premier Renzi su quelli fermi a un’altra epoca che metterebbero il gettone nell’iPhone, la leader Cgil apre anche al sostegno al referendum della Lega per abolire la legge Fornero sulle pensioni, nel caso in cui la Corte costituzionale lo ammetterà, «per stimolare una giusta riflessione nel governo sul fatto che quella legge va cambiata».
È alla testa del corteo dietro lo striscione «Servizi pubblici perché servono, perché di tutti. Pubblico 6 tu», accanto a lei la neoleader della Cisl Annamaria Furlan e il segretario generale aggiunto della Uil Carmelo Barbagallo, si riuniranno tutti e tre dopo la manifestazione per fare un bilancio e pianificare il futuro. È in corteo anche il leader della Fiom, Maurizio Landini, «doveroso esserci», sul lavoro il governo «discuta con le rappresentanze dei lavoratori, io mica mi faccio rappresentare dalla direzione del Pd»; sfila anche il deputato del Pd Stefano Fassina, tra i più fieri oppositori interni di Renzi, già presente all’appuntamento sindacale di due sabati fa: «Dovrebbe essere un dovere di ogni parlamentare essere qui, ad ascoltare i problemi di questi lavoratori. Non si riorganizza il lavoro senza coinvolgere i lavoratori».
«Non accettiamo, non accetteremo un altro blocco dei contratti del pubblico impiego, dopo sei anni», assicura la Furlan, «fino ad oggi il governo è stato sordo: speriamo che questa piazza gli sturi le orecchie perché noi andiamo avanti con tutti gli strumenti della lotta del sindacato confederale», garantisce, e a lei Barbagallo si associa nel dire che il governo «è il peggior datore di lavoro del Paese: se non si siede per rinnovare il contratto faremo lo sciopero generale dei lavoratori pubblici». Minaccia che scalda la platea, e d’altra parte prima dei segretari dal palco hanno parlato tanti lavoratori, a portare le loro storie, e tutti - dal vigile del fuoco all’insegnante al medico precario - concludono così, con la minaccia-invito di portare fino a quel punto la protesta, fino a incrociare le braccia tutti insieme. «Vogliamo dire al governo che siamo sereni e ce ne siamo fatti una ragione - ironizza la Camusso - : è il governo che deve cambiare verso».

Repubblica 9.11.14
Statali, 100 mila in piazza “Risposte dal governo o scioperiamo uniti” Camusso: il jobs act divide
Renzi: il Paese è capace di uscire dal tunnel La Cgil: sì al referendum della Lega contro la Fornero
di Luisa Grion


ROMA C’erano quelli del 118 che sfilavano dietro a cartelli «ventisei anni di servizio e 1.230 euro al mese», e gli infermieri degli ospedali pubblici da «1.350 euro, ma i ferri in sala operatoria li preparo io». C’erano le maestre che portavano a spalla una bara di cartone — «la scuola è morta» — e un centinaio di vincitori di concorso pubblico ancora senza posto che marciavano compatti. Reggevano lenzuola con sopra scritto «questo striscione è più lungo del mio contratto».
Quella che ieri ha riempito piazza del Popolo, a Roma, per protestare contro il governo Renzi era una variegata platea di statali. «Sono arrivati in centomila, ne aspettavamo la metà» dicono gli organizzatori che questa volta hanno voluto a tutti cosi smantellare il clichè del «fannullone» o dell’impiegato di fantozziana memoria, portando sul palco tutte le categorie del pubblico impiego. Dalla scuola alla ricerca, dai vigili del fuco alla sanità, al terzo settore. Tutti uniti nello slogan il «pubblico6tu».
Molti posti fissi e altrettanti precari: una piazza ad un passo dallo sciopero generale. Evocato, pur se con toni diversi, da tutti e tre i leader sindacali: la Camusso per la Cgil, la Furlan per la Cisl, Barbagallo per la Uil. Tre sigle questa volta unite per protestare contro il mancato rinnovo dei contratti (da sei anni le buste paga sono ferme e la legge di stabilità le ha bloccate anche per il 2015) il taglio alla spesa in servizi, l’assenza di concertazione sulle riforme del settore. La Camusso, per essere chiara, indossava una maglietta rossa con sopra scritto: «Arrogance, profumo di premier».
Mentre parlando all’inaugurazione della variante di valico sull’Appennino toscano Renzi invitava «a non cedere alla cultura del piagnisteo perché l’Italia può uscire dal tunnel», da Roma arrivava il messaggio: «la palla è al governo che deve dare le risposte» e «senza risposte sarà sciopero». Più morbida Anna Maria Furlan che pur avvertendo che «per fare le riforme non bastano due slide », spera che il successo della manifestazione «serva a sturare le orecchie al governo ». Più decisi Carmelo Barbagallo, segretario generale aggiunto della Uil («siamo stanchi di aspettare, sarà sciopero generale e lo faremo assieme ai privati») e Susanna Camusso. «Smettetela di fare i dilettanti allo sbaraglio» ha detto all’esecutivo la leader della Cgil «non si può trattare la pubblica amministrazione come se non fosse il perno dei servizi e delle risposte». «Renzi inviti la sua ministra a smetterla di dire che i lavoratori pubblici sono dei privilegiati» ha continuato. E riferendosi al Jobs act, il premier «la smetta di dividere i lavoratori e di dividerli verso il basso: il lavoro è la libertà delle persone e i diritti non si tolgono, si estendono».
Dal palco si è parlato ad una piazza piena di precari «che sono figli di nessuno» e di lavoratori del terzo settore che coprono le esternalizzazioni di servizio «pagando il prezzo degli appalti al massimo ribasso»: nuove versioni di un lavoro pubblico che i tagli alla spesa hanno cambiato. Si è preso distacco dalla politica («la prima riforma da fare è eliminarla dalle nomine della pubblica amministrazione» ha detto Camusso). In corteo questa volta c’era solo Stefano Fassina, Pd di minoranza e la stessa Cgil ha messo in chiaro che per raggiungere gli obietti- vi, il sindacato si può andare oltre agli steccati. «Se la Corte Costituzionale lo approverà saremo pronti a votare il referendum della Lega per l’abolizione della legge Fornero » ha detto la Camusso. Per sciogliere ogni dubbio il leader della Fiom, Maurizio Landini, anche lui in corteo con gli statali ha precisato: «Io non mi faccio rappresentare dalla direzione del Pd. Il governo deve discutere con chi rappresenta i lavoratori e deve togliere dal tavolo l’articolo 18».

il Fatto 9.11.14
Gli statali spremuti a Renzi: “Basta! La pazienza è finita”
Corteo a Roma
Camusso con la maglietta “Arrogance, profumo di premier”
di Salvatore Cannavò


Renzi abbiamo perso la pazienza”. Il grido del vigile del fuoco di Roma, che interviene dal palco mentre piazza del Popolo si riempie interamente, viene accolto da un boato. È una delle tante testimonianze in rappresentanza della manifestazione nazionale del pubblico impiego organizzata ieri a Roma da Cgil, Cisl e Uil. “Pubblico6tu”, lo slogan in un corteo che sfila per oltre due ore, un piazza gremita, centomila persone stimate dagli organizzatori (sono di meno, però) e, dunque, ennesima tappa di uno scontro ormai sempre più esacerbato tra i sindacati e il governo di Matteo Renzi. La polarizzazione è riscontrabile in tanti segnali inequivocabili. Innanzitutto, la riuscita della giornata. Quando alle 16 stanno per cominciare i comizi finali, il corteo non è ancora arrivato del tutto. Lungo il percorso è stato accompagnato da centinaia di palloncini raffiguranti un Renzi formato Pinocchio con la scritta “stai sereno” e, accanto, la sigla della compassata Uil. La presenza di impiegati pubblici è garantita da tutte e tre le sigle, ma si nota la forte presenza della Cisl i cui delegati e dirigenti non esitano a minacciare lo sciopero generale.
IL SEGNO PIÙ DISTINTIVO di questa sfida, però, non può che essere esibito dal segretario generale della Cgil, Susanna Ca-musso, che chiuderà la manifestazione insieme a Annamaria Furlan, Cisl, e Carmelo Barbagallo, Uil. Camusso, provocatoriamente, indossa una maglietta rossa con sopra la scritta di un noto profumo, “Arrogance” e lo slogan: “Profumo di premier”. Non può essere più chiaro di così che il dialogo non abita da queste parti.
Gli insulti sono tutti per il presidente del Consiglio. Una infermiera di Padova lo apostrofa con rabbia al grido di “Vergognati”. Si susseguono gli interventi del mondo della scuola, della ricerca, a denunciare uno sfacelo continuo, fatto di tagli permanenti e di promesse ripetute. Fino all'intervento di Riccardo Ciofi, vigile del fuoco romano che riassume bene lo stato d’animo della piazza: “Siamo quelli che intervengono quando c’è bisogno di sicurezza, ma siamo senza il rinnovo del contratto da sei anni. La nostra pazienza è finita”, urla tra gli applausi soprattutto quando rivolgendosi al premier, chiede: “Renzi, tu al nostro posto, con 1.200 euro al mese, lo faresti il nostro lavoro? ”. Domanda retorica, dalla risposta scontata. La parola ricorrente della giornata è “sciopero generale” nonostante la manifestazione non sia formata dalla sola Cgil. Lo minaccia chiaramente la Uil con Barbagallo – che sta per prendere il posto di Luigi Angeletti e interviene a nome della terza confederazione – lo minaccia anche il segretario della Cisl, Annamaria Furlan anche per effetto della pressione che in tal senso ha esercitato finora il segretario dei dipendenti pubblici, Mauro Faverin, cislino dinamico e forse non del tutto allineato con la nuova segreteria.
E torna a riproporlo nel suo intervento Susanna Camusso che osserva compiaciuta la piazza – dove tra i politici si scorge solo Stefano Fassina – ed esibisce per fotografi e telecamere la maglietta anti-renziana. “Il governo la smetta di scaricare le colpe sui lavoratori pubblici” afferma il segretario del Cgil per poi riproporre l’affondo: “Sappia il governo che se non ci saranno risposte, noi proseguiremo non solo con lo sciopero della categoria, ma chiameremo tutti i lavoratori”.
NEL CASO DI UNO SCIOPERO
generale del pubblico impiego, assai probabile dopo il corteo di ieri, la sua proclamazione non coinciderà con quello della sola Cgil. Cisl e Uil non potrebbero accettare di essere inglobati nell'iniziativa della sigla più rossa. L’approccio di Renzi nei confronti del sindacato sta provocando una nuova modalità nelle relazioni sindacali con una unità a geometrie variabili. Insieme nel pubblico impiego o tra i pensionati, divisi a livello confederale o in categorie come quella dei metalmeccanici. La mancanza di un tavolo centrale di concertazione rende poco rilevante l’unità complessiva che invece viene ormai ricercata a livello di singole vertenze o categorie.
Nel pubblico impiego, la questione dirimente è lo sblocco degli aumenti contrattuali o, come nel caso della scuola, il vero e proprio rinnovo dei contratti. La categoria è ferma al 2010, in alcuni settori anche a prima. Una realtà poco tollerabile per stipendi che, in ogni caso, non superano 1.300-1.400 euro. Le richieste della piazza sono quelle di tagliare “sprechi e consulenze” e di investire nei servizi. “Se gli ospedali sono di qualità” spiega un medico precario, “è perché ci sono persone che lavorano”. “I pazienti” spiega l'infermiera veneta, “non si curano da soli”. E invece, continuano i tagli e il disprezzo strisciante verso una categoria bistrattata. “Ho spiegato a mia figlia che lo studio è la prima cosa” spiega la ricercatrice universitaria. “Spero che un giorno non mi dica 'ma guardati, a che ti è servito? ’”. Un modo come un altro per chiedere dignità.

Corriere 9.11.14
Camusso: un passo in più verso il divorzio dal Pd
di Dario Di Vico

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La Stampa 9.11.14
Cofferati: “Spero di essere la cerniera che ricuce tra Pd e mondo del lavoro”
L’ex segretario Cgil ed ex sindaco: “La Liguria ha bisogno di cambiare”
intervista di Teodoro Chiarelli


Appena ha annunciato la sua candidatura alle primarie per le regionali in Liguria, puntuale è arrivata la “carineria” della sua principale concorrente, la renziana Raffaella Paita, quarantenne assessore regionale alle infrastrutture e alla “efficiente” protezione civile, delfina del governatore Claudio Burlando. «Sergio Cofferati? Mio padre ha 63 anni, due meno di lui». Lui, l’ex segretario generale della Cgil, oggi parlamentare europeo, non si scompone. «Non mi trascineranno mai a sputare sui tratti delle persone, né sulla loro età. Sono sempre stato contro la volgarità. E poi anche l’esperienza conta».
Cofferati che si candida nel momento di massima tensione fra il premier-segretario del Pd e la Cgil: il sindacato si fa politica?
«No, questa lettura è fuorviante. Ho passato decenni a difendere l’autonomia del sindacato dalla politica e viceversa. Non si devono mai confondere i due ambiti. Nel rispetto dei ruoli».
Il difficile rapporto fra governo e sindacato è però un fatto.
«È evidente che c’è una tensione che tende ad aumentare fra il governo, espressione del Pd, e il sindacato. Credo che Matteo Renzi dovrebbe rendersi disponibile a un confronto. Non può dire: le leggi le faccio io e basta. In alcune materie un confronto e un accordo col sindacato è utilissimo. Poi, certo, le cose si devono tradurre in leggi e il Parlamento è sovrano. Ma perché negare l’apporto e il ruolo del sindacato? Sul Jobs Act le tensioni potrebbero essere ridotte di molto se si ristabilisse un confronto. Anche perché il sindacato è oggettivamente titolato a discutere di lavoro. Se non discuti con lui, con chi lo fai?».
A proposito di Jobs Act, lei resta sempre critico?
«Non lo condivido nel merito e penso che sia sbagliato. L’occupazione tornerà a crescere solo con grandi investimenti pubblici accanto a quelli privati. Serve una tradizionale politica keynesiana. La flessibilità esasperata non crea posti di lavoro».
Parafrasando Nanni Moretti: fate qualcosa di sinistra?
«Non so se è di sinistra. Gli Stati Uniti del 1920 non mi sembra che fossero un Paese dove la sinistra avesse un grande peso».
La Fiom di Landini come catalizzatore del dissenso sindacale occupa spazi lasciati scoperti dalle titubanze della Cgil?
«No. Il sindacato confederale in questi anni ha svolto una funzione di interesse nazionale, assumendosi responsabilità grandi. Compito che è in grado di svolgere anche adesso. Landini è un ottimo sindacalista. Non deve essere vissuto come un soggetto politico».
Pensa che la sua candidatura possa contribuire a ricucire le lacerazioni fra Pd e mondo del lavoro?
«Me lo auguro e ne sarei molto felice. E spero di far tornare la nostra gente a votare».
Lei viene “bollato” come l’epigono di una sinistra radicale contro il nuovo che avanza.
«Invece sono sempre stato riformatore e moderato, un Amendoliano. C’è chi ci prova, magari per esorcizzare le questioni che pongo. Io non chiamo a raccolta gli anti renziani. Vedo piuttosto che sulla mia proposta c’è un interesse da tutte le aree del partito. Ci sono tanti giovani che mi chiedono di impegnarmi: e questa è una bella novità, che conforta. Poi sì, parlo pure con Sel».
Perché, allora, si candida alle primarie contro una renziana?
«Ho deciso di candidarmi per rispondere alle sollecitazioni, alcune commoventi, che mi arrivano. Lo faccio perché il momento è difficile, la Liguria vive una crisi drammatica. Serve il coraggio del cambiamento e con tutto il rispetto per chi si è impegnato in passato, è un errore pensare che chi ha avuto responsabilità in questi anni possa favorire ora il cambiamento».
Si riferisce anche al dissesto idrogeologico della Liguria?
«Non è una fatalità, è frutto dei cambiamenti climatici che sono stati sottovalutati e dei clamorosi ritardi della politica».
La sua candidatura ha una valenza politica nazionale?
«Il mio è un impegno sul territorio e come tale acquista perciò un valore nazionale, ma non viceversa. Dopodiché, sulla politica nazionale ho le mie idee e farò le battaglie che si devono fare nel partito, come ho sempre fatto, in piena lealtà. Insisto: qui ci sono persone in carne e ossa cui dobbiamo rispetto e alle quali vanno prospettate soluzioni per risolvere le loro sofferenze».

il Fatto 9.11.14
Liguria, laboratorio rosso
Il Cinese corre contro l’impero di Burlando
di Luca De Carolis


IL “PADRONE” DEL PARTITO DEMOCRATICO REGIONALE HA SCELTO L’ASSESSORE ALLA PROTEZIONE CIVILE PAITA. MA ADESSO DEVE VEDERSELA CON UN PEZZO DA NOVANTA COME COFFERATI, SOSTENUTO DA CIVATI

Prove tecniche di insurrezione rossa. La sinistra che si aggrappa al Cinese, contro il renzismo rampante che sfonda (e imbarca) a destra, come predica Matteo. Sfida di mondi nella Liguria dove il Pd è una Babele, i dati economici raccontano di un’emergenza e l’alluvione è una ferita che stilla danni e paura. Scende in campo Sergio Cofferati, e le primarie del centrosinistra ligure per la Regione, fissate per il 21 dicembre, diventano una partita nazionale. Nel sabato in cui scioglie la riserva l’eurodeputato ripete come un mantra: “Concentriamoci sulla Liguria”. Ma la posta simbolica è più alta. Perché da una parte ci sono l’ex segretario della Cgil con i bersaniani e tutte le sfumature del rosso, dai civatiani a Sel fino a Rifondazione e alla lista Doria, quella del sindaco di Genova. Dall’altra la “vocazione maggioritaria” della renziana Raffaella Paita: 40enne assessore regionale alle Infrastrutture con delega alla difesa del suolo, moglie del presidente del Porto di Genova Luigi Merlo (anche lui Dem). Designata e sostenuta per la successione proprio dal governatore Claudio Burlando, ex dalemiano, renziano acquisito. Paita piace anche a tanti del centrodestra: così dissestato dopo la caduta del “signore” di Imperia Claudio Scajola da non avere neppure l’ipotesi di un candidato. È lo scenario verso le primarie: per ora con altri due candidati, il dem Alberto Villa e Massimiliano Tovo (Udc, voluto da un gruppo civico). Quattro in corsa, verso le Regionali del 15 marzo. Ma la Liguria ha altro per la testa.
L’ALLUVIONE innanzitutto, con il suo carico di lutti e disastri (danni per almeno 200 milioni), prezzo del dissesto idrogeologico. Dalle 18 di oggi alla mezzanotte di domani sarà di nuovo allerta meteo 1: abbastanza per seminare ansie. Il resto lo fa la crisi economica, con 127mila disoccupati in più rispetto al 2008 (dati Cgil), le industrie e i negozi che chiudono. Solo a Genova si abbassa una serranda al giorno, urla la Confesercenti. E la Liguria si svuota dei suoi giovani. Dietro c’è il declino delle partecipazioni statali. Ma pure l’onda degli scandali: dalla maxi-truffa alla banca genovese Carige fino alla rimborsopoli in Regione, con mezzo Consiglio indagato. In mezzo al fuoco Genova: insidiata dalla provincia. Paita viene da La Spezia, una sua vittoria sarebbe uno smacco storico per la classe politica genovese. I vertici bersaniani non sono riusciti a trovare un nome di peso in città. Disperati, una decina di giorni fa l’hanno chiesto al cremonese Cofferati, da qualche anno a Genova con moglie e figlio. Poi si sono rivolti a “Rete a sinistra”, l’area di civatiani ed extra Pd. E alla fine si è trovata la quadra: anche se a sinistra c’è poco entusiasmo.
PERCHÉ Cofferati è appena stato eletto europarlamentare e da sindaco di Bologna venne contestato proprio dai “rossi”. Ma ha vinto l’esigenza di un nome forte. Così ieri Cofferati si presenta in conferenza stampa: “Ho deciso per spirito di servizio”. Punge la rivale Paita, il Cinese: “È un errore pensare che chi avuto già responsabilità possa favorire il cambiamento”. Rivendica: “Ormai vivo a Genova da anni”. E l’elezione in Europa? “Ho derogato al principio che
un impegno si porta a termine”. Nel pomeriggio riceve a casa sua i rappresentanti di Rete a sinistra. Luca Pastorino, deputato civatiano: “Gli abbiamo chiesto l’impegno a lavorare per un progetto politico diverso da quello del governo Renzi, e di non imbarcare gente da destra come fa la Paita”. Cofferati tiene il punto: “Il mio è un progetto esclusivamente regionale”. Ma la Rete ha voglia di qualcosa di più largo. “Una cosa diversa dal partito della Nazione” dice Pastorino. Paita intanto “accoglie” l’avversario: “Io sono in corsa per le primarie dal 4 marzo, ho rifiutato la candidatura alle Europee. Cofferati poteva fare lo stesso... ”. Lei però sta imbarcando pezzi di centrodestra, la sostiene anche lo scajolano Franco Orsi... “Sono amministratori che apprezzano il mio lavoro. Questa è la vocazione maggioritaria di Renzi, e io non mi snaturo”. Dicono che il premier sia arrabbiato con lei e Burlando per la gestione dell’alluvione: “Non mi risulta affatto. Io ho la delega al suolo da pochi mesi, e sulle responsabilità si sta facendo chiarezza”. A margine, la renziana piazza un contropiede, presentando come futuro vice Franco Marenco: cuperliano, e soprattutto “camallo”, lavoratore del porto di Genova.
Già, il porto. “Una delle poche cose che funzionano, l’abbiamo rimesso in piedi” rivendica il presidente Merlo. Snocciola numeri: “Diamo lavoro a 30mila persone, ogni anno portiamo allo stato 3 miliardi tra Iva e accise”. Più d’uno sussurra che Burlando voglia prendere il suo posto: “A me ha sempre detto di no”. Merlo scade tra poco, lo danno in corsa come anti Doria. Lui nega, anche se due giorni fa sul Secolo XIX ha attaccato frontalmente il sindaco. “A me è parsa una sparata elettorale” irrompe Tirreno Bianchi, 66 anni, storico “console” della compagnia dei lavoratori del carbone. Ultimo segretario della sezione portuale del Pci Gramsci Olcese, detesta il Pd di Renzi: “Vuole un partito unico, alle primarie non vado”. Ma i camalli saranno tutti per Cofferati? “Guardi, i camalli se ne fregano. Anche prima, mica votavano tutti per il Pci”.

Corriere 9.11.14
Le porte sempre girevoli di Cofferati
Il ritorno dell’ex sindacalista, in corsa per la carica di governatore in Liguria
di Aldo Grasso

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il Fatto 9.11.14
Re Giorgio saluta ma teme il Vietnam
Il Colle non smentisce le voci sulle dimissioni
di Wanda Marra


A SAN SILVESTRO L’ANNUNCIO DI RE GIORGIO: LA DATA DELLA FINE ENTRO FEBBRAIO
Un’altra carica dei 101 Il premier ha paura
IL CAPO DEL GOVERNO SI AFFANNA INVANO: “NAPOLITANO È E RESTA UN’ASSOLUTA GARANZIA PER QUESTO PAESE”. MA PARTE LA CACCIA ALL’IDENTIKIT “GRADITO”. UN DEBOLE O UN FORTE COME VELTRONI?

Giorgio Napolitano è e resta un’assoluta garanzia per questo Paese e un punto di riferimento molto importante”. Matteo Renzi sulle probabili imminenti dimissioni del capo dello Stato è nettissimo. In privato più di una volta gli ha chiesto di restare. Raccontano che abbia smesso solo recentemente, visto che il presidente è deciso a lasciare. Ma ancora spera che cambi idea. Contro le previsioni della vigilia, l’inquilino del Colle per lui è stato un alleato prezioso: l’ha assecondato sulle questioni principali, è intervenuto dove lui non arrivava, gli ha persino corretto provvedimenti scritti in maniera confusa. Certo, ogni tanto qualcosa il giovane Matteo ha dovuto cedere. Ma molto meno di quanto ci si sarebbe potuto aspettare. Il punto, però, non è il presente, quanto il futuro.
ELEGGERE il successore toccherà a questo Parlamento. Che è ingovernabile, come hanno dimostrato le venti fumate nere per l’elezione dei giudici della Consulta. Il prolungarsi del voto per il Quirinale ha varie controindicazioni: prima tra tutte, rischia di far chiudere a Renzi la finestra elettorale di primavera. Tra le caratteristiche, il neo presidente deve avere quella di essere pronto a sciogliere le Camere appena eletto. Mica poco.
Il rischio Vietnam è dietro l’angolo: nei tre giorni che portarono alla rielezione di Napolitano, furono bruciati due candidati di peso (Marini e Prodi) e il segretario Pd, Bersani, dovette dimettersi. Sui 101 traditori esiste una vasta letteratura, ma ancora nessuna certezza. Renzi sa bene che le fronde sono pronte a scatenarsi. L’elezione (regolata dall’articolo 83 della Costituzione) avviene dal Parlamento in seduta comune e per scrutinio segreto, a maggioranza di due terzi dell’assemblea. Dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta. All’elezione partecipano tre delegati per ogni Regione (la Valle d’Aosta ne ha uno solo).
GLI SCENARI sono variabili e tutti aperti. Intanto, si tratta di capire con quale maggioranza si procederà. Nonostante le scaramucce sulla legge elettorale, l’asse privilegiato resta il patto del Nazareno. Con incognita: quanto B. tiene Forza Italia? Renzi potrebbe anche tentare lo schema opposto, quello di votare con i 5 Stelle. Ipotesi remota. Dopo l’elezione della candidata alla Consulta del Pd con i voti del M5s, Di Maio ha aperto a un accordo sul Quirinale. Prontamente sconfessato dai suoi. Variabile centrale, la vecchia guardia dem: potrebbe approfittare del voto segreto per vendicarsi del segretario-premier e far fuori un po’ di candidati. Per ora, poi, non è chiaro neanche quale debba essere l’identikit del futuro presidente, nelle intenzioni del premier, che darà le carte. Un grande vecchio? Una figura malleabile? Un outsider? Raccontano che per una volta abbia la tentazione di scegliere un nome meno ad effetto, ma più di peso. Autorevole, da spendere in Europa per dire. Difficile pensare a una figura come Giuliano Amato (che potrebbe andare bene a B.) o Prodi (che potrebbero votare anche i grillini). Chi lo conosce bene dice che “Matteo è molto arrabbiato” con il Professore, perché ha accreditato la tesi che ad armare i 101 contro di lui fosse stato anche l’allora sindaco di Firenze. Poi, c’è l’ipotesi opposta, ovvero un presidente debole, pronto ad obbedire. In quest’ottica, è girato molto il nome di Roberta Pi-notti. Che però sembra più uno specchietto per le allodole. Restano gli outsider. Torna Anna Finocchiaro. Sulla legge elettorale e la riforma del Senato fino a qui è stata molto fedele. Come Violante, potrebbe andar bene alla minoranza Dem. E come Violante, per questo potrebbe essere impallinata da alcuni renziani. “Non è roba questa da decidere con lo schema della donna in testa”, pare che Renzi abbia detto a un’interlocutrice interessata in prima persona alla questione. Ci spera ancora Graziano Delrio. La coabitazione tra i due a Palazzo Chigi non è andata benissimo, ma il suo trasferimento al Quirinale potrebbe ancora servire, secondo la regola del “promuovere per rimuovere”. E ci sarebbe un presidente abbastanza affidabile, ma anche relativamente esperto. Sullo sfondo rimane Walter Veltroni, che sembrerebbe il coronamento di un percorso politico. Lui è più autorevole che potente. Ma potrebbe far ombra al giovane Matteo. Mai escludere il coniglio dal cilindro. Magari svelato il giorno prima.

Repubblica 9.11.14
Emnanuele Macaluso
“Non gli si possono chiedere altri sacrifici”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA «Non si possono chiedere a Napolitano ulteriori sacrifici, c’è anche un problema di salute e uno stress terribile soprattutto in questi mesi, tenuto conto che lui è uno che fa tutto da solo, scrive i suoi discorsi, finanche i telegrammi... ». Emanuele Macaluso, un lungo sodalizio con Napolitano sin dai tempi del Pci, giornalista, politico, intellettuale, parla del cambio di guardia al Quirinale.
Macaluso, se Napolitano va via a fine anno, viene meno chi ha garantito la tenuta di questa fase politica?
«Mi pare che sul fatto che intenda lasciare il Quirinale la questione sia chiusa. Ha detto sempre e con chiarezza che avrebbe chiuso la sua seconda presidenza non concludendo il settenato, avviando un processo politico nuovo. E un processo politico è stato avviato. Siamo davanti a una situazione sia politica che parlamentare del tutto diversa dal passato. Sono state impostate riforme e si va verso la conclusione».
Ma Napolitano avrebbe voluto legare questa scadenza al successo delle riforme istituzionali. Invece così non è?
«La situazione effettivamente è un’altra. Tra i desideri e la realtà nella politica c’è sempre uno iato. Il cammino è molto più accidentato. Però questo riguarda le forze politiche e il Parlamento. I partiti del passato non ci sono più, nessuna nostalgia. Però partiti diversi dal passato dovrebbero esserci. In Italia non abbiamo partiti né a destra né a sinistra ma aggregati politico-elettorali. Il Pd come era stato pensato da Scoppola, Reichlin, Veltroni, Prodi non è quello che ha in mente Renzi che vuole il partito della nazione, in cui c’è di tutto e che non ha alcun riferimento ideologico e neppure politico-culturale. Ha solo l’idea di riforme per far funzionare al meglio l’esistente».
Legge elettorale. Sarà approvata prima
che Napolitano vada via?
«Da alcune delle mosse di Renzi sembra che tutto possa esplodere. Non credo che vada in porto, anche se Berlusconi dice sì, non passa nei gruppi parlamentari. Ci sono riforme incompiute dal punto di vista istituzionale, non mi pare ci sia il clima per portarle a compimento».
Ha qualcuno in mente per la successione a Napolitano?
«Quelli che avrebbero la qualità e anche un prestigio europeo non hanno i voti».
Ne è valsa la pena per Napolitano di accettare un secondo mandato?
«Di fronte alla preoccupazione che le istituzioni non funzionassero, lui che è un uomo delle istituzioni per eccellenza, non poteva non accettare. Ha dato una frustata al Parlamento nel discorso d’insediamento, però se la dai a un cavallo questo si muove, se hai un asino si mette a scalciare...».

il Fatto 9.11.14
Pd: Porsche Democratica
di Antonio Padellaro


Dopo l’allegra sfilata di Porsche Cayenne, Suv, Jaguar e Bmw (con autista) dei milionari paganti per omaggiare Matteo Renzi ai fund raising di Milano e Roma, bisognerebbe chiedere scusa al povero Massimo D’Alema messo alla gogna per aver indossato scarpe di pregio, fabbricate su misura da un artigiano, dal costo di un milione e mezzo (di lire) menandone vanto (e per avere, si narra, anche tirato una pedata a un cagnetto che si aggirava male intenzionato nei pressi delle auguste tomaie). Ma sarebbe anche giusto ringraziare lo statista di Pontassieve che ha definitivamente sdoganato il pauperismo spesso fasullo dei compagni dirigenti costretti a friggere salamelle alle feste dell’Unità in cucine intrise di sudori, che ora possono serenamente piluccare canapè con gamberi e vol au vent con grana allo stesso tavolo con pregiatissimi Ad confindustriali. Come al solito, la sinistra europea ci aveva preceduto da quel dì, da quando Tony Blair affittava ogni estate, per sé e la sua famiglia, una residenza principesca in Toscana, mentre il cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder pranzava nei ristoranti più lussuosi di Berlino dove giungeva a bordo di limousine. Qui da noi, invece, sono trascorsi secoli prima che l’austerità berlingueriana evaporasse assieme al moralismo militante che a stento sopportava gli abiti tagliati bene e le cravatte a piombo sulle camicie veltroniane Brooks Brothers. Poi, Fassino esclamò: abbiamo una banca, voce dal sen fuggita, l’outing che fece uscire dall’armadio il desiderio diverso e troppo a lungo represso per banchieri e finanzieri, ma non quelli con le stellette, e fu la stagione dei politici pd catapultati nel frusciante mondo creditizio, Chiamparino docet. A Firenze, intanto, Renzi rottamava sezioni e case del popolo e si accostava grato all’aristocrazia vinicola dei Fresco-baldi e dei Folonari pregustando il giorno in cui ricchi e straricchi avrebbero pagato per cenare con lui. Il premier che piace alla gente che piace almeno è sincero, evita gli afrori delle piazze proletarie e quando visita le fabbriche gli operai vengono mandati a casa. Questi, è vero, poi lo inseguono lungo lo stivale tirandogli di tutto, ma lui è già lì che liscia il pelo alla Milano da bere, adorante davanti all’uomo della sinistra che ha fatto fuori sinistra e Cgil. Magari sogna di dire agli italiani: “Arricchitevi” come il ministro francese Guizot che tuttavia non si rivolgeva a un paese stremato e con la disoccupazione giovanile al 43%. Comunque, l’altra sera, davanti ai capitalisti del The Mall ha fatto la sua porsche figura.

il Fatto 9.11.14
Il dissidente Civati alla resa dei conti
“Se Grillo ci sta, come dire di no a Prodi?”
di Giampiero Calapà


Ormai è il dissidente per antonomasia nel Partito democratico, sempre sul punto di fuggire a sinistra del renzismo, Giuseppe Civati vede nelle dimissioni di Napolitano nuove elezioni alle porte e la resa dei conti con l’ex Rottamatore: “Renzi rappresenta la sinistra sì o no? In caso di elezioni, per una gran parte del partito di cui è segretario, sarà complicato volantinare il jobs act? Vuole davvero tenere unito il partito o è lui che va da un’altra parte? ”.
Elezioni per il Quirinale, è credibile – sull’onda di quanto accaduto nel voto per la Consulta – una nuova maggioranza Pd-Cinque stelle?
Per l’elezione del presidente della Repubblica in prima battuta bisogna rivolgersi a tutto il Parlamento. È chiaro e non lo dico per la prima volta, in questa come in altre questioni, mi verrebbe più naturale pensare a una convergenza con i cinquestelle piuttosto che con Berlusconi. Ma per me sarebbe così anche sulle riforme istituzionali, il Patto del Nazareno non dovrebbe esistere. Il timore è che quel Patto possa valere anche per il Quirinale e ho pochi dubbi sul significato che avrebbe.
Quale?
Cercherebbero un altro Napolitano.
Cosa intende?
Renzi, se lo conosco un po’, cercherà alla fine una soluzione con Berlusconi e Alfano. Questa settimana abbiamo sentito il Patto scricchiolare, ma questi scricchiolii non si sentono già più. Non si sentivano più dopo appena 24 ore.
Immaginiamo che si voti domani per il Quirinale, lei spenderebbe il nome di Prodi?
L’ultima cosa che vorrei fare è riportare quel nome, a cui dobbiamo molto, dentro un balletto politico simile a quello che lo fece impallinare dai 101. Però quel nome serve per ritornare sul luogo del delitto e capire cosa potrebbe accadere di nuovo. Non voglio dare tutte le colpe di questo mondo a Renzi, per capirci. Su Prodi ci fu anche l’insipienza di Beppe Grillo. Fu persa una grande occasione per un concorso di colpe.
E adesso ci sarebbe l’occasione per rimediare? Lo stesso Di Maio ha aperto alla possibilità di un’intesa...
Infatti, se il Movimento Cinque stelle dice sì a un’ipotesi simile allora se ne parla e diventa chiaro che la strada da intraprendere non può che essere quella. Se il fronte dei grillini diventa serio su questo punto vorrei vedere il Pd come si potrebbe tirare indietro, di nuovo, sul nome di Prodi.
A quel punto Forza Italia sarebbe tagliata fuori.
Ed è proprio il motivo per cui l’ultima volta Prodi fu impallinato, non si poteva fare uno sgambetto a Berlusconi. Ma quest’idea che il Patto del Nazareno abbia una golden share anche sul Quirinale non posso proprio accettarla. Ma la verità è un’altra.
Quale?
Che Renzi vuole un presidente che lo porti a votare. E se si andasse a votare in queste condizioni non ci sarebbero alternative...
Cosa intende?
Non riguarda soltanto Civati. Ma una larga fetta del Partito democratico. Non possiamo andare alle elezioni volantinando il jobs act e il Patto del Nazareno. Bisognerà fare un’altra cosa con la sinistra del Pd e la cosiddetta sinistra radicale, considerando anche una vasta area di centro in grande imbarazzo dalle mosse di Renzi. Io spero ancora che si possa salvare il Pd, ma non vedo una maturazione di Renzi verso il centrosinistra. Vedo tutt’altro. Un suo continuo spostamento su posizioni opposte alle nostre, ormai gli manca solo Salvini e poi ha preso tutti.
Quanto spazio può avere un nuovo partito di sinistra?
Sarebbe più ampio del solito e più di quanto pensa Renzi.
Crede di poter essere il leader di un eventuale nuovo partito a sinistra?
La leadership non è urgente, se non lo facessi io lo farebbe un altro. Ma se Renzi continua ad andare da un’altra parte è inevitabile. È solo questione di tempo.
Se non lei, Maurizio Landini?
Il segretario della Fiom è un interlocutore vero, non solo per le foto di circostanza, ma soprattutto per le crisi industriali e la legislazione sul lavoro.
Twitter @viabrancaleone

il Fatto 9.11.14
Italicum 2.0, Silvio si piega Beppe Grillo insulta tutti
di Marco Palombi


OGGI L’EX CAVALIERE DOVREBBE DARE IL VIA LIBERA AL PREMIO DI LISTA E ALLA SOGLIA UNICA DI SBARRAMENTO: IL VECCHIO CENTRODESTRA È DESTINATO A SPARIRE. M5S FUORI DAI GIOCHI

Martedì si ricomincia. L’Italicum torna a viaggiare in Parlamento, per la precisione in commissione Affari costituzionali del Senato. Solo che, viste le modifiche che ora propone Matteo Renzi, non è più l’Italicum, ma un’altra cosa e cioè una legge elettorale pensata per il bipartitismo. Prima di addentrarci nei dettagli, conviene tenere a mente cosa ne dice uno dei padri dell’Italicum (assieme a Denis Verdini), il politologo Roberto D’Alimonte: “Così conviene solo al Pd”. Non è un caso che la prima reazione di Silvio Berlusconi, nell’ultimo incontro avuto col premier, sia sfociata negli “scricchiolii” del Patto del Nazareno. È curioso, dunque, che dal mondo vicino al fu Cavaliere si sostenga che “Silvio” chiamerà “Matteo” oggi per comunicargli la resa (al prezzo, però, di scegliere insieme il prossimo capo dello Stato, quello col potere di grazia). Una mezza conferma arriva dalle parole di Giovanni Toti: “Il Nazareno non salta”. “Stiamo ancora trattando”, dicono invece al Pd.
L’ITALICUM COM’È. La coalizione o la lista che conquista il 37% dei voti ha il premio di maggioranza fino a 340 seggi. Se nessuno supera la soglia, si va al ballottaggio tra i primi due classificati (il premio di maggioranza vale 327 seggi). Le soglie di sbarramento sono al 12% per le coalizioni (4,5% per i partiti che la compongono) e all’8% per chi va da solo. L’Italicum entrerà in vigore solo dopo l’abolizione del Senato. Le circoscrizioni sono circa 120 e le liste bloccate e corte: da tre a sei nomi. Non è prevista l’alternanza uomo-donna. L’ITALICUM 2.0. Niente più coalizioni, ognuno si presenta da solo al primo turno e vince se supera il 40% dei voti: il premio ovviamente va alla lista. Sotto la soglia, ballottaggio tra i primi due. Lo sbarramento è uguale per tutti al 5%. L’elezione rimarrebbe bloccata per il solo capolista, gli altri andrebbero eletti con la preferenza (se questo sarà il sistema, non più di un terzo, se invece le circoscrizioni diminuiscono a 80 la percentuale salirebbe di un bel po’). La legge entra in vigore subito, ma ha l’inconveniente di valere solo per la Camera: se si andasse al voto prima di approvare le riforme costituzionali, dunque, si voterebbe con un sistema maggioritario alla Camera e proporzionale al Senato (il cosiddetto Consultellum). Il rischio di non avere maggioranza a palazzo Madama è particolarmente forte, come pure una bocciatura della Corte costituzionale.
GLI EFFETTI. Se a Forza Italia l’Italicum piaceva perché “incentivava” i piccoli partiti del suo campo a coalizzarsi, questa nuova formula gli toglie qualunque potere contrattuale: è la fine del centrodestra per come lo abbiamo conosciuto. Il Pd, invece, ha solo vantaggi dall’Italicum Ogm visto che Renzi non vuole alleati sulla scheda. Gli altri hanno solo il problema della soglia di sbarramento.
GRILLO FURIOSO. Il M5S ha la sua proposta: l’Italicum non lo vota. Sulla legge elettorale i grillini sono sostanzialmente fuori dai giochi. Lo certifica Beppe Grillo tornando ad attaccare in blocco Napolitano, Renzi e Berlusconi: “Com’è possibile che questo trio domini l’Italia? Chi c’è dietro? Chi muove i fili? La massoneria, la mafia, i poteri finanziari, la Bce? Tutti questi e altri ancora”. Quanto agli altri: Ncd, se la soglia resta al 5%, rischia di rimanere fuori dal Parlamento, alla Lega potrebbe invece andare bene, mentre per Sel qualunque soglia sarà troppo alta. Più che dal M5S, però, il premier deve guardarsi dalle minoranze interne di Pd e FI.

La Stampa 9.11.14
Berlusconi: “L’obiettivo di Renzi è andare al voto presto”
“Vuole la legge elettorale prima di provvedimenti molto più urgenti”
di Michele Brambilla

qui

La Stampa 9.11.14
Renzi vuole una figura istituzionale
con una maggioranza molto ampia
“Per scegliere il garante supremo sarà bene spegnere i telefonini”
di Fabio Martini


Finora la storia ha insegnato ai politici con mire sul Quirinale, che della questione meno si parla e meglio è. E invece Matteo Renzi, pur attenendosi a quell’imperativo categorico, da qualche tempo fa trapelare due concetti. Entrambe molto importanti. Il primo: «Quando arriverà il momento, i nostri parlamentari dovranno resistere alle campagne di comunicazione. Il voto per il capo dello Stato non è un concorso a premi. Per scegliere il garante supremo la prossima volta sarà bene si spengano i telefonini». E il secondo è altrettanto importante: «Il futuro Capo dello Stato dovrà avere un profilo istituzionale». Mentre ieri, alla Variante di valico, Renzi si è limitato ad un elogio anodino: «Napolitano è una garanzia per tutto il Paese».
Certo, è prematuro affermare con certezza che Giorgio Napolitano si dimetterà entro la fine dell’anno, in questo caso dando seguito a quanto disse il 22 luglio («Ho ritenuto necessario garantire la continuità ai vertici dello Stato nella fase del semestre italiano di presidenza europea»), ma è chiaro che il premier ha già cominciato a mettere a fuoco l’identikit del suo candidato ideale. Può sembrare paradossale che Renzi, il premier continuamente online, stigmatizzi l’irruzione di tweet e sms nel “conclave” per il Quirinale, ma il presidente del Consiglio non ha dimenticato la clamorosa bocciatura via etere di Franco Marini, candidato comune di Bersani e Berlusconi al Quirinale nella primavera 2013: in quelle ore una montagna di messaggini indusse diversi parlamentari del Pd a cambiare idea, a non votare più l’ex leader della Cisl.
Un fuoco preventivo, forse perchè Renzi teme che possa essere controverso e “attaccabile” il candidato del Pd condiviso con Berlusconi? Illazione che non viene neppure presa in considerazione a palazzo Chigi, anche se la seconda caratteristica («il nuovo Capo dello Stato abbia un profilo istituzionale») lascia pensare ad un candidato politicamente “leggero”. Naturalmente il profilo del prossimo Presidente della Repubblica sarà determinato dalla maggioranza che lo eleggerà. Sulla carta le forze che sostengono il governo Renzi possono contare su 599 “grandi elettori”, ben 95 sopra il tetto necessario (504), ma i tanti precedenti e l’infelice navigazione dei candidati comuni Pd-Fi alla Consulta dimostra che il voto segreto impedisce ogni previsione: «Dentro la cabina - dice il professor Arturo Parisi - i parlamentari si domanderanno: cosa diranno i nostri elettori? Cosa sarà di me? E quelli di Forza Italia: Berlusconi sta mollando?».
Con una possibile novità: dopo la confluenza dei Cinque Stelle sul candidato Pd alla Consulta, Grillo ripeterà l’operazione nei giorni del Quirinale? Renzi continua a preferire l’asse con Berlusconi, conosce l’imprevedibilità dei capi pentastellati, ma sa già che i “grillini” potrebbero metterlo in difficoltà se fossero disponibili a convergere su un candidato con un forte appeal sull’elettorato progressista. Come Romano Prodi. Nel Palazzo in queste ore si tende a ripetere che Grillo «tornerà a fare lo sfasciacarrozze», ma Rocco Palese, deputato di Forza Italia che quotidianamente ascolta ed è ascoltato dagli avversari e perciò considerato “analista” di tutto ciò che si muove nel Palazzo, dice: «Attenzione a ripetere che torneranno indietro. Quel che è accaduto l’altro giorno rischia di somigliare allo storico autogol della Dc che nel 1992 affondò Forlani, che da presidente avrebbe salvato il sistema. E invece la Lega antisistema si sdoganò e il sistema crollò». Ad ogni schema di gioco corrispondono candidati diversi. Quelli in pole position sull’asse Renzi-Berlusconi sono Roberta Pinotti, Piero Fassino, Sergio Mattarella con una new entry: Linda Lanzillotta. Quanto alla “caratura istituzionale”, il più accreditato è Sabino Cassese. Sono ammessi alla corsa anche gli uomini, perché Renzi annuncia: «La successione non è un problema di genere».

La Stampa 9.11.14
Muoiono i giornali di partito
Dopo Europa e l’Unità chiude anche la Padania
di Antonio Pitoni

E’ la rottamazione, bellezza! Che non risparmia neppure la stampa di partito: con «Europa» in liquidazione e «l’Unità» già chiusa, ora è il turno della «Padania». Ultima fermata, per il quotidiano della Lega Nord, il 1° dicembre, quando scatterà la cassa integrazione per i 14 giornalisti e i 5 tipografi. In principio fu il giornale «guerriero» delle origini: un po’ federalista e un po’ secessionista. Voce del «celodurismo» ortodosso dell’Umberto Bossi prima maniera, che lo tenne a battesimo l’8 gennaio 1997 con una prima pagina che era già tutto un programma. Titolo d’apertura: «Ministeri a delinquere». Spalla a firma del segretario della Lega e, di taglio, fotonotizia (un mendicante col cappello in mano) con didascalia: «Uno Stato da abbandonare prima di finire così». Altri tempi, tutto finito. A darne il triste annuncio, ieri, proprio la prima pagina della moritura «Padania», dopo l’incontro di venerdì scorso tra il segretario della Lega, Matteo Salvini, e il presidente dell’Editoriale Nord, Ludovico Gilberti. Epilogo obbligato: dopo la riduzione della foliazione a 12 pagine e il taglio dei costi, il colpo di grazia è arrivato con il taglio dei fondi all’editoria. «La Lega è al risparmio su tutto e quindi non ha rinnovato il proprio contributo all’Editoriale Nord - spiega Salvini -. Ma in questo caso si tratta anche dell’ennesimo bavaglio calato dal governo Renzi che riduce i contributi per l’editoria che esistevano da anni». Scontato l’addio alla carta, resta uno spiraglio per l’online. «Stiamo lavorando per rimanere quantomeno su internet», assicura Salvini.
Soluzione al momento tutta da trovare. «Indubbiamente ci sono stati anche errori gestionali interni nel passato ma questa botta del taglio al fondo per l’editoria ha decurtato dell’80% i nostri introiti e poiché la Lega non può più garantirci il contributo che ha sempre dato siamo in ginocchio», conferma la direttrice Aurora Lussana. Paradosso dei paradossi: i sondaggi volano, ma le casse piangono. Lo sanno bene, d’altra parte, i 71 dipendenti (tra la sede nazionale di via Bellerio e quelle locali) del partito di Matteo Salvini: per tutti sono già state avviate le procedure di mobilità.
è la rottamazione, bellezza! Che non risparmia neppure la stampa di partito: con «Europa» in liquidazione e «l’Unità» già chiusa, ora è il turno della «Padania». Ultima fermata, per il quotidiano della Lega Nord, il 1° dicembre, quando scatterà la cassa integrazione per i 14 giornalisti e i 5 tipografi. In principio fu il giornale «guerriero» delle origini: un po’ federalista e un po’ secessionista. Voce del «celodurismo» ortodosso dell’Umberto Bossi prima maniera, che lo tenne a battesimo l’8 gennaio 1997 con una prima pagina che era già tutto un programma. Titolo d’apertura: «Ministeri a delinquere». Spalla a firma del segretario della Lega e, di taglio, fotonotizia (un mendicante col cappello in mano) con didascalia: «Uno Stato da abbandonare prima di finire così». Altri tempi, tutto finito. A darne il triste annuncio, ieri, proprio la prima pagina della moritura «Padania», dopo l’incontro di venerdì scorso tra il segretario della Lega, Matteo Salvini, e il presidente dell’Editoriale Nord, Ludovico Gilberti. Epilogo obbligato: dopo la riduzione della foliazione a 12 pagine e il taglio dei costi, il colpo di grazia è arrivato con il taglio dei fondi all’editoria. «La Lega è al risparmio su tutto e quindi non ha rinnovato il proprio contributo all’Editoriale Nord - spiega Salvini -. Ma in questo caso si tratta anche dell’ennesimo bavaglio calato dal governo Renzi che riduce i contributi per l’editoria che esistevano da anni». Scontato l’addio alla carta, resta uno spiraglio per l’online. «Stiamo lavorando per rimanere quantomeno su internet», assicura Salvini.
Soluzione al momento tutta da trovare. «Indubbiamente ci sono stati anche errori gestionali interni nel passato ma questa botta del taglio al fondo per l’editoria ha decurtato dell’80% i nostri introiti e poiché la Lega non può più garantirci il contributo che ha sempre dato siamo in ginocchio», conferma la direttrice Aurora Lussana. Paradosso dei paradossi: i sondaggi volano, ma le casse piangono. Lo sanno bene, d’altra parte, i 71 dipendenti (tra la sede nazionale di via Bellerio e quelle locali) del partito di Matteo Salvini: per tutti sono già state avviate le procedure di mobilità.

La Stampa 9.11.14
Da dicembre La Padania non sarà più in edicola, stop alle pubblicazioni anche per l’«Europa»
Cassa integrazione per tutti i dipendenti dell’Editoriale Nord e per il quotidiano romano che era l’erede de Il Popolo

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il Fatto 9.11.14
Chi ha paura dello zero-virgola? Rizzo no
di Tommaso Rodano


NELL’ANNIVERSARIO DELLA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE IL “PARTITO COMUNISTA” (SI CHIAMA COSÌ) CHIAMA A ROMA CUBANI, VENEZUELANI E COREANI

Roma, via dei Frentani. L’Occidente trema: si celebra il ritorno del compagno Marco Rizzo. Rosso che più rosso non si può, lungo il sentiero di una gloriosa, ostentatissima marginalità. Rizzo fu del Pci, di Rifondazione, dei Comunisti Italiani, della Lista Anticapitalista, dei Comunisti Sinistra Popolare. Vent’’anni di Parlamento, un numero imprecisato di legislature. Oggi, più sobriamente, è segretario del Partito Comunista. La stella polare è il marxismo-leninismo. L’incarnazione storica è lo stalinismo.
La festa di partito si celebra in una vecchia sede del Pci. Ora è un centro congressi che ha assistito alle più recenti scissioni degli atomi della sinistra italiana. Per l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre (che per il calendario gregoriano iniziò il 7 e l’8 novembre 1917), e per il rilancio l’ultima creatura di Rizzo, la sala è sorprendentemente gremita.
CHI HA PAURA dello zerovirgola? Ci sono gli universitari del Fronte della Gioventù comunista e un pugno di redskins di San Lorenzo. Ci sono vecchi nostalgici e ospiti internazionali: i compagni dell’ambasciata della “Repubblica Bolivariana del Venezuela”, di quella cubana, persino della Corea del Nord. E poi gli amici dei partiti di Grecia, Russia e Spagna. Un compagno della “cellula Jurij Gagarin” cita Pierangelo Bertoli: “Un piede nel passato e lo sguardo dritto e aperto nel futuro. Viva il Comunismo, viva l’Unione Sovietica! ”. Altro che Berlinguer: “La spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre non s’è mai esaurita! ”. La Leopolda rossissima di via dei Frentani si gonfia d’orgoglio e nostalgia, vibrano parole d’altri tempi: “opportunismo borghese”, “socialsciovinismo”, “collaborazionismo”, “apostasia, revisionismo e disorientamento teorico”, “limitatezza parlamentaristica”. Suonano inni e canti popolari: “Stalingrado in ogni città! ”. Si vendono busti di Lenin in finto gesso: quello grande a 50 euro, quello piccolo a 25. “Hanno mercato? ”, domanda - eretico - il cronista. “Si vendono bene”.
E poi c’è Marco Rizzo, il caro leader. Anno 2014: “L’unica soluzione per risolvere la crisi del sistema capitalistico è il comunismo. Le fabbriche vanno affidate ai lavoratori”. Ma a un giovane che non trova lavoro a un operaio che lo sta perdendo, parla di Stalin? “Non c’è contraddizione, stiamo tornando agli inizi del ‘900, il lavoratori sono di nuovo schiavi”. Il compagno Rizzo non ha fiducia nella democrazia parlamentare, ma grazie a una lunga militanza a Montecitorio vive con una pensione da 4500 euro netti. Un esproprio proletario? “Sono stato l’unico - replica - a essersi licenziato per non avere la doppia pensione”. Addavenì Baffone.

Repubblica 9.11.14
È l’Italia il personaggio pirandelliano in cerca d’autore
di Eugenio Scalfari


I NOMI che dominano la scena italiana ed europea in questi giorni sono due: il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi. Qualche osservatore malizioso ha anche messo in rapporto queste due eminenti personalità ipotizzando un’eventuale successione dell’uno all’altro ma le cose non stanno affatto così, Draghi non ha alcuna intenzione di andare al Quirinale, i suoi compiti e i suoi obiettivi sono del tutto diversi come lui stesso afferma pregando i suoi amici di diffonderla. Cosa che, adempiendo al suo invito, faccio con piacere.
Napolitano dunque se ne va. Compirà novant’anni in giugno e molti speravano che restasse fino a quella data, invece non sarà così: le condizioni fisiche che sarebbero sopportabili per sostenere normali responsabilità non gli consentono invece di esercitare ancora per molti mesi le funzioni connesse alla carica estremamente impegnativa che ricopre da otto anni. Darà le dimissioni entro la fine dell’anno e probabilmente ne darà l’annuncio con il messaggio alla Nazione del 31 dicembre prossimo. Si apre quindi fin d’ora il tema della sua successione, nel quale non spetta certo a lui dare indicazioni di sorta.
Avrebbe voluto — e l’ha detto al nostro collega Stefano Folli — che alcune leggi di riforma istituzionale fossero state approvate durante il suo mandato e in particolare quella di riforma elettorale; ma il lavoro del Parlamento si è ingolfato per approvare una serie di annunci e proposte e perciò il desiderio di Napolitano resta inappagato.
QUESTA è la situazione con la quale la nostra vita pubblica dovrà fare i conti da domani in poi e che chiama in causa altri tre nomi da aggiungere a quelli di Napolitano e di Draghi e cioè Renzi, Grillo, Berlusconi.
”Sei personaggi in cerca di autore”, scrisse Pirandello per una delle sue più brillanti tragicommedie. Ma i nostri cinque non cercano autore, lo sono stati e alcuni di loro lo sono ancora. È l’Italia semmai che cerca il suo autore e ancora non l’ha trovato. Io la penso così e non sono affatto felice.
*** Giorgio Napolitano è stato, non c’è dubbio, uno dei nostri migliori presidenti della Repubblica: ha avuto un rispetto non formale ma profondo per gli altri poteri dello Stato e per le prerogative che la Costituzione attribuisce al Presidente; ha considerato i cittadini come i destinatari dei benefici che la democrazia gli riconosce. La sua fermezza è stata probabilmente la maggiore caratteristica della sua presidenza e gli ha anche consentito di far sentire ai governi in carica la “moral suasion” che il Presidente può e deve usare per aiutare il potere esecutivo a governare il Paese nel modo migliore.
Le circostanze l’hanno obbligato a nominare tre governi senza che avessero ricevuto la preventiva designazione elettorale: quelli di Monti, di Letta, di Renzi. Li ha nominati perché la crisi economica internazionale aveva colpito anche e soprattutto l’Italia ed era necessario tentare di superarla o almeno di contenerla senza renderla ancora più critica ricorrendo ad elezioni anticipate, per di più con una legge elettorale sconfessata dalla Corte Costituzionale.
A volerlo sintetizzare nella sua essenza, questo è stato il ruolo di Napolitano. Le sue dimissioni aprono da domani una fase delicatissima che sarà di non facile né rapida soluzione. La ragione è semplice da spiegare: Renzi e il suo partito vorranno ora un inquilino del Quirinale che riconosca la primazia del capo del governo. Cioè esattamente il contrario di quanto è accaduto nell’ultimo quinquennio.
È un cambiamento? Certamente lo è, ma non nel senso di un’apertura al futuro, bensì di un ritorno al passato. Per tutto il corso della Prima Repubblica furono la Democrazia cristiana e i suoi alleati a “tener per mano” l’inquilino del Quirinale. La Dc lo eleggeva e la Dc lo guidava. Ci furono le sole eccezioni di Gronchi e di Pertini e non a caso: Gronchi era stato eletto da una inconsueta coalizione di minoranze e Pertini aveva un carattere che non a caso ne ha fatto uno dei capi della Resistenza. Per tutti gli altri il motore stava nel governo e il Quirinale aveva un ruolo subordinato. Il progetto di Renzi è di ritornare alla vecchia Dc nel suo rapporto con il Quirinale. Ma una difficoltà c’è: il Pd non ha nel plenum del Parlamento la maggioranza assoluta richiesta per l’elezione del Presidente. Quindi ha bisogno di costruirla. Con Berlusconi e/o con Grillo.
Il gioco sarà questo e comincerà fin da domani. *** Nel frattempo l’economia italiana ed europea attraversano una fase di gravi tensioni ed è per questo che le carte del gioco sono nelle mani di Draghi.
Osservando con attenzione le sue mosse si capisce che il cardine della sua politica è quello di avvicinare quanto più è possibile l’azione della Bce ai privati. È il solo modo per agire sull’economia reale e quindi superare la crisi in atto.
Quando si parla di privati, specialmente in Italia, si parla di banche. Draghi sa bene che la Bce sulle banche deve operare ma mantiene fermo il principio del rapporto diretto tra Bce e privati, imprese che emettono obbligazioni garantite e ricevono prestiti su di esse.
Quanto alla politica monetaria vera e propria la Bce, con un voto all’unanimità a Francoforte, è autorizzata a portare il suo bilancio dai duemila miliardi attuali a circa tremila. L’obiettivo è di mettere a disposizione delle banche prestiti a quattro anni ad interesse praticamente zero. E in più l’acquisto di obbligazioni cartolarizzate e altre forme di sostegno. Il risultato, in parte già raggiunto in Europa, è la discesa del tasso di interesse e, di riflesso, del tasso di cambio euro-dollaro.
Per quanto riguarda l’Italia, Draghi ritiene che sono necessarie riforme rapide sul lavoro, sulla produttività e sulla concorrenza. Non so che cosa pensi delle battaglie che i sindacati fanno contro l’abolizione dell’articolo 18 ma non credo siano per lui di grande interesse. Ci deve essere, certamente, una protezione dei lavoratori contro vessazioni ingiustificate, ma non può essere limitata e comunque diversa tra un tipo di lavoratore e l’altro. Personalmente credo sia questo anche l’obiettivo della Cgil, ma Draghi di questi problemi non parla. Parla invece dell’Europa riconoscendo che il suo obiettivo sarebbe quello di necessarie cessioni di sovranità dei singoli Stati in favore dell’Unione. Lo preoccupa molto — a quanto so — il continuo aumentare dei partiti entrati nel Parlamento europeo e che detestano l’Europa, detestano la moneta comune e detestano soprattutto l’immigrazione. Se continua questa tendenza il Parlamento europeo correrà il rischio di essere in mano alle forze che rifiutano moneta comune e immigrazione.
È un tema estremamente preoccupante e Draghi ha perfettamente ragione a denunciarne la gravità.
***
Per quanto riguarda l’articolo18, del quale ho spesso parlato le scorse settimane, ho approfondito il tema della sua abolizione e sono arrivato alla conclusione che l’articolo 30 della Carta dell’Unione ha la sua interpretazione più netta e chiara nell’articolo 52 della Carta medesima.
Anzitutto il titolo di quell’articolo: «Portata e interpretazione dei diritti e dei principi» e poi il primo comma dell’articolo suddetto che così recita: «Eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciute dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti. Possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione e dall’esigenza di proteggere i diritti». Il che vuol dire che l’articolo 30 che prevede il ricorso di ogni lavoratore contro licenziamenti ingiustificati non può essere abolito perché andrebbe a ledere “l’interesse generale dell’Unione” già approvato insieme al Trattato di Lisbona.
La Cgil dovrebbe semmai estendere l’articolo 18 a tutti i lavoratori, quale che sia il loro specifico contratto di categoria.
Sarà comunque interessante vedere l’adesione dei lavoratori della Fiom allo sciopero generale ormai imminente.

Repubblica 9.11.14
Andrea Orlando
Il ministro della Giustizia si rivolge ai magistrati nel giorno dell’assemblea di protesta dell’Anm
“Giudici fermatevi scioperare per le ferie sarebbe un errore ora serve lo sforzo di tutti”
di Liana Milella


ROMA Sciopero delle toghe? «Sarebbe un errore ». Il governo Renzi è contro di loro? «Nessun fatto è andato in questa direzione». Cucchi? «Una ferita da risarcire». L’autoriciclaggio? «È già legge a metà». Cosa dirà domani al Csm? «Mi aspetto da loro proposte e collaborazione, oltre che i pareri previsti dalla legge». Alla vigilia dell’assemblea dell’Anm il Guardasigilli Andrea Orlando dice: «Non sprechiamo un’occasione storica».
Si sarebbe aspettata questa assemblea?
«Quando si mette in moto una riforma così ampia si inducono riflessioni e reazioni nei soggetti coinvolti. Mi auguro che la discussione non si fermi solo sui punti di frizione e che l’assemblea sappia guardare al complesso delle misure che si stanno prendendo sia sul piano normativo, sia su quello delle risorse che, per la prima volta dopo anni, vedono il ritorno a investimenti sulla giustizia».
Lo sciopero attrae molti. Il taglio delle ferie è un motivo.
Che effetto le fa uno sciopero contro un governo di sinistra?
«Fatta salva la valutazione dell’Anm e il loro dibattito in cui non mi permetto di entrare, faccio notare che lo sciopero è stato utilizzato quand’erano in pericolo l’autonomia e l’indipendenza, elemento che non mi pare affatto in discussione adesso».
Che messaggio dà ai giudici?
«Non sprechiamo un’occasione storica. La riforma chiede a tutti di cambiare, ma questo è il primo intervento che ha due requisiti, un’organicità e un supporto in termini finanziari e organizzativi. Basti dire che tra mobilità e concorsi saranno 2mila le persone che entreranno a far parte del comparto giustizia dopo 25 anni del blocco del turn over».
Per le toghe sono troppo pochi.
«Coprirebbero un quarto delle scoperture e potranno essere ulteriormente incrementati nei prossimi anni».
La stretta sulle ferie era proprio necessaria, parlando pure di giudici fannulloni?
«Questo aggettivo non l’abbiamo mai usato. I giudici italiani sono tra i più produttivi d’Europa. Uno sforzo è stato chiesto a tutte le categorie, anche a quelle più produttive. Una specificità c’è, tant’è vero che sarà il Csm ad applicare in concreto il cambiamento».
A ridosso dell’assemblea, si parla di un decreto sulla responsabilità civile, misura vessatoria per le toghe. Perché in- sistete per cambiare la Vassalli?
«Per due ragioni. La Corte europea ci ha sottoposto a una procedura d’infrazione valutando che il nostro sistema non tutela i cittadini colpiti da errori giudiziari e perché la Vassalli, pur con un impianto condivisibile, in questi anni non ha funzionato. A dircelo sono i numeri».
Via libera dal Senato a ricorsi sulle motivazioni di un arresto. Ne verranno a decine. È il guinzaglio alle toghe?
«Difenderemo la stesura del nostro ddl, in cui quella norma non c’è, e che fa discendere la responsabilità dello Stato, perché non stiamo parlando di quella diretta, dalla violazione della legge e dal travisamento dei fatti».
Può garantire ai giudici la libertà d’interpretare la legge?
«Sì, ma non si tratta di garantire la magistratura, ma i cittadini. Una magistratura cui fosse preclusa l’interpretazione della legge, una magistratura conformista, finirebbe per compromettere il sistema di garanzie del nostro ordinamento».
Nei giorni del caso Cucchi, quando la credibilità dei giudici si è abbassata per un processo senza colpevoli, la voglia di rivalsa su di loro è cresciuta?
«Ecco, bisogna evitare appunto questo, scrivere leggi influenzati da un singolo caso, che oggettivamente costituisce una ferita, rispetto alla quale però sono venuti segnali importanti dalla procura di Roma. Lo sforzo dev’essere quello di guardare al funzionamento del sistema nel suo insieme».
Durante il governo Berlusconi lei era responsabile Giustizia del Pd. Ora è ministro con Renzi, e c’è il patto del Nazareno. Non vede una politica che vuole bastonarli?
«L’accezione “politica” ricomprende posizioni molto diverse. Il governo non ha nessun obiettivo di rivalsa».
Non percepisce neppure un clima avverso?
«Che ci sia un cambiamento nel rapporto tra opinione pubblica e magistratura è un dato che credo sia la conseguenza di una difficoltà che, in fasi e modi diversi, tutte le istituzioni scontano. La magistratura mantiene tuttora un prestigio elevato che la riforma può contribuire a rafforzare».
Riforma? Dov’è finita? Il 29 agosto il governo ha licenziato falso in bilancio, autoriciclaggio, prescrizione lunga.
Che fine hanno fatto?
«Ci si accorge che legiferare per via ordinaria è complesso...».
Lo diceva Berlusconi...
«No, guardi, lo dico io, perché per far incardinare da ministro dell’Ambiente una legge sul consumo del suolo dovetti attendere diversi mesi. Ora sono alla Giustizia e la legge è ancora ferma lì nonostante sia necessaria. Tuttavia confermo che i testi approvati ad agosto saranno legge al più presto ».
Ci dà il timing?
«L’autoriciclaggio ha già superato un ramo del Parlamento, il falso in bilancio è nella legge sulla criminalità economica che sarà incardinata la prossima settimana, la prescrizione lo sarà all’inizio del prossimo mese ».

il Fatto 9.11.14
Cucchi, mille candele per far luce sulla verità
di Silvia D’Onghia


FIACCOLATA A ROMA, LA FAMIGLIA: “QUALCOSA STA CAMBIANDO”. SETTIMANA DECISIVA PER LE INDAGINI, BAGNASCO LE BENEDICE

Quando le mille candele e i tanti fumogeni illuminano piazza Indipendenza la commozione è forte. Per qualche, interminabile attimo il silenzio copre la lacrime, poi parte il grido liberatorio: “Stefano Cucchi uno di noi”. La famiglia chiama, Roma risponde, “perché adesso bisogna dare una spiegazione a tutte queste persone” dichiara Fabio Anselmo, il legale dei Cucchi. Sotto la sede del Consiglio superiore della magistratura, nel luogo diventato simbolo delle botte dei poliziotti ai metalmeccanici dell’Ast di Terni, si ritrovano centinaia di persone, chiamate a raccolta da Acad, l’Associazione contro gli abusi in divisa. Ci sono ragazzi, donne e tantissimi bambini; ognuno di loro ha una candela in mano e le mille candele portate qui neanche bastano. Ci sono Claudia Budroni, la sorella di Dino, Andrea Magherini, il fratello di Riccardo, e Grazia Serra, la nipote di Franco Mastrogiovanni, il maestro morto dopo essere rimasto legato mani e piedi per quattro giorni in un letto di contenzione nell’ospedale di Vallo della Lucania. Un cordone discreto di polizia e carabinieri blinda la piazza, ma gli animi restano pacifici. Il primo a salire sul palco è papà Giovanni, che ricorda la petizione del fattoquotidiano.it   e legge le adesioni di Dario Fo e Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia. Ieri le firme hanno raggiunto quota 74mila ed è arrivato a supporto della nostra campagna anche Ascanio Celestini: “La verità è più forte di qualsiasi cosa, più luminosa del giorno, più terribile di un uragano”, ha scritto nel suo blog ricordando la storia di Rodari “Giacomo di cristallo”. Mamma Rita non ama le telecamere ed è così minuta nel suo dolore da aver bisogno dell’appoggio del marito per avvicinarsi al microfono: “Non ci siamo mai sentiti soli. Non ci fermeremo fino a quando verità e giustizia non saranno state fatte”. L’applauso più forte della piazza è per Ilaria, divenuta in questi cinque anni il simbolo dell’ostinazione e della ricerca di giustizia. “Forse qualcosa sta cambiando” dicono da palco.
E FORSE è vero. Ieri alle richieste e agli appelli degli ultimi giorni si è aggiunta quella del cardinal Bagnasco: “Se chi ha responsabilità ha ritenuto di riaprire il caso, c’è solo da augurarsi che le cose siano portate avanti con ulteriori elementi, così da arrivare a una verità il più possibile completa e aderente ai fatti”. E chissà che la prossima non si riveli una settimana decisiva.

il Fatto 9.11.14
Giornalisti, Ordine contro Signorini Benissimo, ma l’agente Betulla?
di Silvia Truzzi


DOPO lo sketch del premier presentatore a fine agosto, questa settimana il gelato di governo è tornato agli onori delle cronache politiche: Chi – uno dei più noti settimanali di geopolitica e filosofia – ha pubblicato un servizio sul ministro Madia che in auto con il marito mangia un cono. Le foto, insieme al titolo “Ci sa fare col gelato”, ambivano a un doppio senso sessuale che poteva far sorridere al massimo un ragazzino in età prepuberale. La didascalia recitava: “Che la gag di Crozza-Renzi che dà lo zuccherino a una sua sosia sia stata d’ispirazione? In ogni caso, a Roma, il ministro, con il marito Mario Gianani, si concede una pausa di piacere”.
Nel complesso, una cosa di una volgarità inutile, immotivata, inguardabile. Soprattutto: incommentabile. Invece sono giorni che le polemiche invadono giornali e social network, con campagne di solidarietà al ministro a suon di selfie di persone che mangiano il gelato e scrivono “Ci so fare anch’io”. Dichiarazioni indignate da ogni dove: tanto che la Madia ha ringraziato tutti per aver manifestato solidarietà senza tener conto del colore politico. Di cosa ci stupiamo? Sembra che il settimanale diretto da Alfonso Signorini prima fosse MicroMega, e non – come è sempre stato – un giornale scandalistico, non da oggi spesso volgare. Però ci sono dei limiti, dunque le ragioni di tanta rabbia sono comprensibili: il servizio sulla Madia non era spiritoso, non era una notizia (nemmeno di gossip), era un maleducatissimo affronto. Poi: l’accostamento alla nuova first lady Francesca Pascale e alle sue performance con il famoso Calippo non ha nessun senso: quella era una trasmissione televisiva, la protagonista non stava mangiando un ghiacciolo per i fatti suoi sulla spiaggia. Si faceva volontariamente riprendere in pose allusive.
IL PUNTO però non è ancora questo. Il presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, Gabriele Dossena, ha spiegato che è stato aperto un procedimento disciplinare nei confronti di Alfonso Signorini. Motivo: il servizio è in palese violazione delle norme deontologiche sulla privacy e per fatti non conformi al decoro e alla dignità professionale. Ma è lo stesso ordine che ai primi di settembre ha riammesso (all’unanimità!) Renato Farina nell’albo dei giornalisti professionisti. Per chi non lo ricordasse l’ex vicedirettore di Libero aveva subito un procedimento disciplinare dopo che lui stesso aveva ammesso la collaborazione con il Sismi e il suo coinvolgimento nel sequestro dell’imam egiziano Abu Omar.
L’agente Betulla aveva pure patteggiato sei mesi di reclusione, poi convertiti in una pena pecuniaria; era stato sospeso dall’ordine per 12 mesi, il Procuratore generale di Milano aveva impugnato la decisione e ne aveva chiesto la radiazione. Che non c’è mai stata perché Farina a quel punto si era cancellato volontariamente dall’albo, dove è appena stato riaccolto a braccia aperte (e comunque ha sempre scritto, in qualità di opinionista, sui quotidiani). Ora: Alfonso Signorini non è difendibile. Però non facciamo finta che sia più vergognoso pubblicare servizi volgari che riabilitare l’agente Betulla.
@silviatruzzi1

Il Sole Domenica 9.11.14
La caduta del muro
Le ore prima della Storia
Il 9 novembre 1989 a Berlino fu un errore del portavoce del Partito socialista unificato Schabowski ad accelerare il crollo
di Paolo Peluffo


Quale fu la storica posta in gioco che venne decisa, tutta insieme, in un breve tragitto dentro un'auto di Stato che correva, tra le 17.35 e le 17.50 del 9 novembre 1989, dal Palast der Republik di Berlino Est in direzione del Pressezentrum di Mohrenstrasse? Quel pomeriggio del 9 novembre, Guenther Schabowski sfogliò superficialmente i due fogli che gli aveva appena consegnato il suo amico Egon Krenz, da due settimane segretario generale della Sed (Partito socialista unificato di Germania). E arrivò impreparato alla conferenza stampa internazionale. La discussione al Politburo della Ddr era ancora in corso. Ma la decisione era presa: dal giorno dopo, 10 novembre, i cittadini della Germania comunista avrebbero avuto il permesso di viaggiare all'estero anche in Occidente, avrebbero ricevuto un passaporto, con una semplice richiesta, senza procedura. In preparazione di ciò, Krenz aveva dato ordine di non sparare alla Volkspolizei, contro eventuali fuggiaschi, già il 3 novembre. Era un tassello fondamentale in una strategia del regime traballante di distensione verso l'opinione pubblica interna, che chiedeva riforme e a Lipsia e Dresda manifestando da settimane, ogni lunedì. Mezzo milione di tedeschi dell'Est avevano protestato, compostamente, il 4 novembre ad Alexanderplatz, reclamando una riforma del socialismo, non la sua cancellazione. Schabowski non era un portavoce professionale, come fu evidente quel giorno. Burocrate, capo del partito di Berlino, aveva cospirato dalla fine di settembre con Krenz per esautorare il falco, il duro, l'irremovibile Erich Honecker, già malato di cancro, eroe antinazista, scampato alle prigioni della Gestapo, costruttore del Muro nel 1961, inflessibile oppositore di Gorbaciov, che alla riunione del patto di Varsavia di Bucarest il 7 e 8 luglio aveva cercato di provocare un intervento armato contro le riforme filo-occidentali in Ungheria. La storia è nota. Il portavoce giunse alla conferenza. Parlò per mezzora di questioni secondarie. Poco prima di andarsene, tirò fuori le due paginette di Krenz. Le lesse. I giornalisti, allibiti, capirono che le frontiere si aprivano. Che venivano concessi i diritti di viaggio e di espatrio in modo illimitato. Il corrispondente del l'Ansa, Riccardo Ehrman, seduto sulla pedana davanti al tavolo da conferenza, fece la domanda fatidica: da quando sarà in vigore? E il portavoce perduto lesse e rilesse i fogli, senza trovare una risposta precisa, si confuse e rispose balbettando «sofort», «ab sofort», ovvero, «immediatamente». Alle 19.17 i telegiornali di tutto il mondo diedero la notizia, la Zdf e la Ard aprirono i Tg con la incredibile novità, captate anche in Germania Est, informarono tutti i tedeschi. Centinaia di migliaia si assieparono ai varchi. Che, lasciati senza ordini, aprirono le porte.
Quale fu dunque la posta in gioco? Che cosa cambiò quell'errore nel corso della storia? Il Muro sarebbe rimasto in piedi, se il disgraziato portavoce avesse risposto correttamente? No. La riunificazione, la Wiedervereinigung di cui nessuno fino a quel giorno aveva mai parlato, sarebbe saltata? No certamente. E allora? Fu il popolo ad abbattere il Muro e tutto quello che c'era dietro. Non fu più il tassello di un processo di riforme.
Commesso l'errore, nessuno a Berlino, tranne il ministro della Stasi, la polizia segreta, Erich Mielke, si accorse della portata di ciò che era accaduto.
Carlo Azeglio Ciampi, allora governatore di Bankitalia, era a Berlino Est quella sera, ospite della Banca di Stato, e venne portato in tutta tranquillità al teatro dell'Opera dal primo banchiere della Ddr che era appena giunto dalla riunione del Politburo. Horst Kaminsky minimizzò quanto stava accadendo fuori dal teatro: abbiamo problemi, ma abbiamo un percorso di riforme per risolverli...
Fino all'11 novembre anche a Mosca pensarono di andare avanti tranquillamente sulle riforme politiche. Eppure, il gioco era fatto. Venne meno la possibilità di negoziare con Helmuth Kohl, di attuare un graduale piano che verrà presentato, il 17 novembre, da un leader comunista riformista ben più preparato di Krenz, ovvero il sindaco di Dresda, Hans Modrow: confederazione tra Ddr e Repubblica federale di Germania, unificazione graduale in 3-4 anni; apertura alla Comunità economica europea; riforma della proprietà pubblica dell'economia sul modello italiano dell'Iri e apertura al mercato con una valuta che si rivalutava a tappe; creazione di una proprietà privata accanto ai Konzerne riformati (Honecker aveva abolito le imprese private solo nel giugno 1971!). La prospettiva sarebbe stata la stessa, ovvero l'unificazione. Cosa avrebbe dunque comportato la possibilità di negoziare? Non lo sapremo mai. Il 7 febbraio il segretario di Stato James Baker vola a Mosca e ottiene segretamente da Gorbaciov il via libera per una Germania unificata nella Nato, e cioè non neutrale, prospettiva ancora possibile solo pochi giorni prima. Il cancelliere Helmut Kohl, sempre il 7 febbraio, apre a sorpresa la strada dell'unificazione monetaria, con la concessione di stipendi e risparmi a un cambio tra 1 a 1 e 1 a 2. La Ddr si era sbriciolata. Nessun margine di trattativa rimase a Modrow e a Christa Luft. La riunificazione venne attuata con l'articolo 23 della Grundgesetz (Legge fondamentale, ovvero costituzione provvisoria) come era accaduto per la riconsegna della Saar da parte francese nel 1857, e non sulla base dell'articolo 146 che prefigurava una nuova Costituzione (Verfassung) per la Germania riunificata.
Vladimiro Giacché nel suo saggio Anschluss - L'annessione (Imprimatur, pagg. 302, € 18,00) ha ben spiegato, anche se con una certa Ostalgie, le conseguenze di una rivalutazione del cambio pari al 450% (altro che parità d'ingresso della lira nell'euro!): la desertificazione industriale dei territori dell'Est, con casi pazzeschi di dissipazione di capitale fisso (per esempio le miniere di potassio di Bishoffenrode; o la casa produttrice di frigoriferi Foron, o la Diesemotorwer di Rostock). Vennero accresciuti i redditi e difesi i risparmi; ma si distrussero i posti di lavoro, considerati «anti-economici» sulla base di una rigida visione del libero mercato impostata da due collaboratori di Kohl come Thilo Sarrazin e Host Teltshink, con la mano ferma di Wolfgang Schauble (sempre lui!).
È certo che la storia del Muro non nacque da una congiura straniera. Fu una conquista tedesca, semmai casuale. Le memorie di Krenz, di Modrow, anche della superspia Markus Wolf, i diversi libri di Kolh, convergono su questa tesi. Lo spiega bene Mary Sarotte in The Collapse. The accidentale Opening of Berlin Wall (Princeton University Press). La presenza americana di Bush padre fu lontana e prudente, giustamente elogiata nell'accurata ricostruzione di Michael Meyer (L'anno che cambiò il mondo, il Saggiatore, pagg. 286, € 10,90). E ci insegnano che in questo episodio dobbiamo cercare le spiegazioni sul comportamento della Germania di oggi, anche nei confronti dell'unione monetaria.

La Stampa 9.11.14
“Gorbaciov disse di non sparare. Perciò ci fu la rivoluzione senza neppure una vittima”
Il dissidente Meckel: adesso siamo la sintesi di Est e Ovest
intervista di To Ma.


Berlino «è la città più interessante d’Europa, dove est e ovest si fondono, dove i pregiudizi si incrociano e svaniscono, dove la riflessione storica è continua». Markus Meckel, teologo e leader di spicco dell’opposizione al regime della Ddr, oggi ricorderà la rivoluzione pacifica nella chiesa di Potsdamer Platz. In quest’intervista svela un dettaglio interessante di quei mesi straordinari che portarono alla caduta del Muro. Uno dei grandi interrogativi è quello che anche Meckel, che poi divenne anche il primo ministro degli Esteri della Ddr liberata, chiama «il miracolo», cioè il fatto che non ci fu alcuno spargimento di sangue. Qui l’ex deputato della Spd svela cosa gli disse l’ex cancelliere socialdemocratico Willy Brandt, una rivelazione che gli era stata fatta da Gorbaciov.
Meckel, lei osò fondare il primo vero partito d’opposizione della Ddr nel giorno dell’anniversario della Ddr, il 7 ottobre del 1989… perché un partito e non un movimento, come fecero tutti gli altri?
«L’idea ci venne a gennaio. Un partito è vincolante, ha una struttura trasparente, si viene votati, insomma garantisce un’identità vera, al contrario di un movimento. Oltretutto noi volevamo fondare un partito socialista, che si agganciasse al partito più antico della Germania, che ne facesse propria la promessa di difendere gli oppressi. E volevamo spezzare il “monopolio della verità” del partito comunista Sed. Ma a causa della diffidenza che i tedeschi avevano nei confronti dei partiti, rimanemmo in quattro fino ad agosto…».
Uno, tra l’altro, era un collaboratore della Stasi, come si seppe più tardi.
«Sì ma noi lo sospettavamo, rimanemmo sempre cauti».
Secondo lei perché fu una rivoluzione pacifica, perché si riuscì sempre ad evitare la violenza?
«In qualche occasione qualche naso sanguinante ci fu: quando i treni da Praga passarono per Dresda con i tedeschi che avevano ottenuto il via libera per la Germania Ovest. O quando ci furono le manifestazioni del 7 e 8 ottobre, in occasione dei 40 anni della Ddr».
Quando Gorbaciov disse a Honecker «chi arriva tardi viene punito dalla storia».
«Sì e la chiave è proprio Gorbaciov. Willy Brandt mi rivelò un dettaglio che non è ancora stato dimostrato ma che il segretario del Pcus gli aveva raccontato di persona. L’Unione Sovietica aveva negato alla Ddr la possibilità di sparare e usare la forza. Poteva farlo, allora. E una volta passata quella fatidica data di inizio ottobre, quando a Magdeburgo vidi con i miei occhi le forze dell’ordine armate fino ai denti lasciare le armi nelle fondine, pensai che era fatta».
Nell’intervista non autorizzata a Kohl che sta facendo tanto discutere, il padre della riunificazione dice che la rivoluzione pacifica ebbe un ruolo marginale, che la Ddr implose per bancarotta.
«La bancarotta c’era da un pezzo. È una tesi poco politica, fa parte del tentativo di Kohl da un quarto di secolo di alimentare il suo mito. Anche se hanno contribuito vari fattori, il comunismo è caduto per la rivoluzione».[to. mas.]

il Fatto 9.11.14
Germania, qualcuno rivuole il Muro
di Mattia Eccheli


SONDAGGIO, IL 16% LO RIMPIANGE. L’EX COLONNELLO DELLA STASI: “ALZAI LA BARRIERA, È STATO MEGLIO COSÌ”

Berlino Harald Jäger, ovvero Harald Cacciatore. Il tenente colonnello del Stasi, la temuta polizia segreta della ex DDR, è l’uomo consegnato alla storia come quello che ha aperto i valichi del muro di Berlino nella Bornholmer Strasse. Venticinque anni fa. Dai superiori nessun ordine preciso, se non quello di lasciar passare dall’altra parte i manifestanti più facinorosi, mettendo un timbro particolare sul passaporto che avrebbe poi impedito loro di tornare. “Ma perfino per la DDR quella sarebbe stata una cosa illegale”, confessa oggi. Jäger era uno di quelli “convinti”. Credeva in una Germania nell’orbita sovietica diversa, migliore e non corrotta. E ci credeva anche dopo il crollo del Muro. La storia gli ha dato torto anche se – mentre la Germania oggi celebra il 25esimo anniversario della caduta del Muro di Berlino – c'è un 16% di tedeschi a cui non dispiacerebbe tornare a una divisione tra est e ovest. Il risultato è emerso da un sondaggio condotto dall’Istituto Insa-Consulere per il quotidiano Thueringische Landeszeitung. È un fatto che la Germania Federale ha fagocitato quella Democratica, tanto che per i giovani tedeschi esiste una nazione soltanto. “Non vedo differenze, parliamo la stessa lingua”, confessa un 19enne di Monaco. E una ragazza ricorda un episodio accadutole dieci anni fa in Australia, mentre ammirava il tramonto ad Ayers Rock, il monolite più grande del pianeta: “Sei di Berlino? Da quale parte arrivi: quella giusta o quella sbagliata? ”, le chiese un giovane. Lei, senza scomporsi rispose: “Sono nata che il Muro c’era ancora, ma non ho ricordi. I miei genitori sono cresciuti all’est, immagino che tu la ritenga che quella sbagliata. Ma non loro: avevano un lavoro e l’assistenza sociale. Eppure solo adesso io posso andare in giro”. Jäger è uno di quelli che ha reso possibile il “miracolo” della riunificazione.
DOPO IL CROLLO era stato arruolato e poi licenziato dall’esercito. Con i risparmi – la conversione tra i due marchi fu molto vantaggiosa per l’Est – si era comprato un chiosco per la rivendita dei giornali a pochi metri da dove aveva evitato un possibile bagno di sangue se avesse impartito un ordine diverso da quello che diede: “Aprite la barriera”. Ricorda come c’era chi urlava “Non comprare i quotidiani da quel porco della Stasi”. La maggior parte, assicura, “mi ringraziava per quello che avevo fatto”. L’ex tenente colonnello, oggi è un pensionato 71enne. Dove sorgeva la baracca che era il punto di osservazione di Jäger, adesso sorge un supermercato Lidl. La Germania – che ha già istituito il 3 ottobre come festa nazionale come giorno della riunificazione – si prepara a una grande celebrazione. Una installazione luminosa lungo il tracciato del Muro come “simbolo della speranza per un mondo senza barriere”. Ottomila palloncini illuminati gonfiati con l’elio tracceranno un percorso di 15 chilometri attraverso la capitale toccando i luoghi più significativi fino alla Porta di Brandeburgo e piazza Potsdam. La festa sarà completata dal rilascio di 5000 palloncini bianchi.

il Fatto 9.11.14
Messico, il sindaco e i narcos
Tre affiliati confessano l’omicidio dei 43 studenti che protestavano
di Carlo Antonio Biscotto


Venduti e bruciati. È stata questa la fine di 43 studenti messicani. In un Paese che si avvia a detenere il record mondiale della violenza, la cittadina di Iguala - quasi 120.000 abitanti - nello Stato di Guerrero, occupa sempre più spesso le prime pagine dei giornali. È cominciato tutto la notte del 26 settembre quando sei persone furono uccise e 43 studenti della vicina università “sparirono” dopo uno scontro con la polizia locale durante un corteo contro i tagli all’università. Alla fine di ottobre in una fossa comune furono rinvenuti numerosi cadaveri. Il sindaco Luis Abarca, accusato in precedenza di aver fatto eliminare l’avversario politico Nicolas Mendoza Villa, era sparito assieme alla moglie, María de los Ángeles Pineda, definita la “First Lady Killer”. I due sono stati arrestati all’inizio della settimana a Città del Messico mentre è tuttora introvabile il capo della polizia di Iguala. Secondo la ricostruzione della Procura generale, i 43 studenti sarebbero stati sequestrati dagli agenti di Iguala su ordine del sindaco, e consegnati a una banda di narcos che li ha uccisi e bruciati in mezzo ai copertoni, facendo sparire i resti in un fiume.
A QUESTA CONCLUSIONE si è arrivati dopo che due membri della banda di narcos Chilpancingo hanno confessato il rapimento e l’uccisione dei giovani. Lo ha reso noto il Procuratore generale del Messico, Murillo Karam, il quale si è impegnato con l’opinione pubblica e i familiari delle vittime a fare tutto il possibile per arrivare all’identificazione certa dei cadaveri, nel frattempo rinvenuti in una fossa comune. L’arresto del sindaco, legato al cartello dei Guerreros Unidos, e di sua moglie, da molti considerata la vera ispiratrice delle brutalità del marito, è un punto a favore delle autorità, ma la situazione a Iguala rimane difficile.
Jorge fabbrica decorazioni per le feste. La sua azienda familiare gli ha sempre permesso una vita più che decorosa, ma in questi ultimi anni a Iguala c’è stato poco da festeggiare. Non bastasse, il 23 agosto Jorge ha ricevuto una telefonata con la quale veniva informato del sequestro della moglie e dei suoi tre figli. “Li hanno attirati con l’inganno. Mi sono rivolto all’Upoeg, l’organizzazione di autodifesa creata dagli abitanti dello stato di Guerrero, e stanno facendo il possibile per trovare i miei cari, ma sono passati più di due mesi e comincio a disperare di rivederli vivi. Dopo il sequestro sono andato anche a parlare con il sindaco Abarca. Gli ho chiesto se sapeva qualcosa. Ha negato ogni coinvolgimento. Francamente non ci credo”. D’altro canto i legami tra i narcos e il sindaco di Iguala erano in città il classico segreto di Pulcinella.
LA CITTADINA di Iguala, posta all’ingresso della famigerata regione di Terra Caliente, convive con il fantasma della tragedia dal giorno della scomparsa dei 43 giovani. Per le strade una calma apparente che non promette nulla di buono. “Prima la gente passeggiava fino a notte fonda; le famiglie si incontravano, i giovani si riunivano. Ora si respira il silenzio della morte”, dice un giovane tassista. “Da quando nella zona si è insediato il cartello Guerreros Unidos non abbiamo più pace”.
“La polizia locale sta dalla parte dei malviventi. La notte ti fermano, ti chiedono se hai bevuto e poi ti dicono che puoi scegliere tra pagare 3.000 pesos o andare in carcere - racconta una ventenne - la bandiera del Messico è sporca del sangue degli innocenti. Iguala ha una storia gloriosa e oggi se ne parla solo per i fatti di violenza, per la corruzione e per il narcotraffico”, aggiunge. “Iguala è una città laboriosa, colta, religiosa”, dice Don Francisco, la cui parrocchia al centro della città dista pochi metri dal municipio. “Ci sentiamo ingannati dalle autorità. Il clima è pesante e tra un mese avrà inizio la campagna elettorale per l’elezione della giunta comunale”. Le elezioni a Iguala e nello stato di Guerrero sono previste per il 7 giugno 2015, ma Don Francisco è preoccupato: “Temo che la campagna elettorale sarà segnata dalla violenza e dobbiamo prepararci al peggio”.
“La gente è spaventata”, spiega ancora Jorge. “In questo momento in città ci sono le truppe dell’esercito federale, ma nessuno sa cosa succederà quando se ne andranno. La scoperta delle fosse comuni non è stata una sorpresa per noi che viviamo qui. Spero solo che i cittadini si ribellino. Il governo è stato eletto dal popolo ed è al popolo che deve rispondere”. Iguala è una città senza legge, senza sindaco e senza giunta comunale: i familiari delle vittime hanno partecipato a una conferenza stampa nella sede dell’istituto magistrale di Ayoztinapa, dove studiavano i loro figli, rifiutando la versione ufficiale: “Fino a quando non ci saranno prove della loro uccisione i nostri figli sono vivi” ha detto Felipe de la Cruz, genitore di uno dei 43 studenti.

Repubblica 9.11.14
Lo scrittore messicano Juan Pablo Villalobos
“Stavolta la società civile non tacerà, il mondo ci aiuti”
intervista di Anna Lombardi


«HO ASCOLTATO le testimonianze degli assassini in tv: un film dell’orrore. E non solo per le atrocità che quei ragazzi hanno subito. Me anche per il modo in cui le raccontavano. Parole fredde, distaccate...». Lo scrittore messicano Juan Pablo Villalobos è sconvolto. Nel suo Il bambino che collezionava parole ha descritto il mondo violento dei narcos attraverso gli occhi di un ragazzino: «Eppure davanti a tanta violenza mi sento ancora impotente, frustrato ».
Come si può reagire?
«I partiti politici messicani hanno dimostrato la loro inadeguatezza, se non la loro collusione, di fronte a questa situazione. Ci vorrebbe l’intervento della comunità internazionale, dell’Unione Europea, degli Stati Uniti. E lo dico con dolore. Ma il Messico è molto suscettibile alla sua immagine all’estero...».
Come si è arrivati ad un atto così atroce?
«Purtroppo in Messico è una strage che non sorprende. Ogni giorno si trovano fosse comuni con centinaia di cadaveri. Desaparecidos di cui nessuno sente mai parlare: e che hanno avuto morti altrettanto atroci. La sorte dei 43 studenti non è un atto unico e terribile: ma il più atroce segno di uno Stato in decomposizione».
Cosa intende?
«Ci sono zone del Paese totalmente nelle mani dei narcotrafficanti: la criminalità è penetrata nei governi locali al punto da essere diventata un parastato. Ci sono luoghi dove la gente organizza milizie civili per difendersi da una polizia che è solo strumento dei clan. Ma la grande domanda è: cosa succede ai livelli più alti del governo? Fino a dove è penetrato il crimine organizzato?».
Questa vicenda cambierà le cose?
«Di sicuro è la prima volta che emergono così tanti dettagli. La gente scompariva, certo. Ma non si conoscevano dettagli così sconvolgenti. Ora questo caso è diventato noto e tutto è a disposizione dell’opinione pubblica, non solo messicana ma mondiale: questo obbligherà il governo ad agire».
Pensa che ci saranno dei mutamenti politici?
«Non lo so. I tre principali partiti politici, chi più chi meno, hanno tratto profitto da tanta violenza o comunque non sono stati capaci di domarla. Per me la notizia più terribile è che questo caso di Iguala è stato gestito con un governo di sinistra che era speranza di cambiamento... ».
Ma almeno la gente sta reagendo...
«Sì, la gente sta reagendo. Comincia a scendere in piazza e anche gli intellettuali, i personaggi in vista prendono posizione. Si sta cercando una nuova via. Un modo per convertire tanta impotenza e frustrazione in qualcosa di positivo, che trasformi il Paese. Sta accadendo. Anche perché altrimenti il Paese sarà ingovernabile. Allo sbando. Bisogna fare qualcosa. Subito».

Corriere 9.11.14
Pechino sfoggia la sua grandeur a Obama-Putin
di Guido Santevecchi


Una foresta di sigle e un allestimento da Olimpiadi. A prima vista si potrebbe riassumere così il vertice Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation) che porta domani per due giorni a Pechino i leader di 21 Paesi, da Obama a Putin al giapponese Abe. Ricevimento in grande stile, degno dei Giochi del 2008: costruito dal niente un quartiere tra le montagne, in riva a un lago, a un’ora d’auto dalla capitale: 12 ville presidenziali, un centro conferenze, un grand hotel Kempinski di 21 piani, a forma di uovo. E poi un campo da golf di 18 buche, anche se in Cina è in vigore (dovrebbe) una legge che vieta di costruire percorsi per il gioco borghese che consuma terra e acqua.
Primo obiettivo: presentare agli ospiti un cielo pulito, rarità a Pechino. E siccome il partito non sa ancora comandare il vento, per ridurre l’inquinamento sono stati chiusi 2.445 cantieri e 2.386 fabbriche alimentate a carbone nel raggio di 200 chilometri. L’agenda del vertice racchiude una sfida Usa-Cina, tra le sigle Tpp e Ftaap. Gli americani lavorano alla Trans Pacific Partnership, accordo sui commerci che include 12 Paesi ma non la Cina. I cinesi rispondono con la Free Trade Area Asia-Pacific, frenata da Washington. Nessuna delle due iniziative andrà in porto al vertice Apec. Pechino ha ottenuto solo un impegno ad avviare uno studio di fattibilità che dopo due anni produrrà raccomandazioni.
Il vertice è disegnato come grande palcoscenico per il presidente Xi Jinping e le nuove ambizioni geopolitiche della Cina.
Xi si può permettere di guardare dall’alto in basso Obama, reduce dal disastro elettorale. E per concedere un colloquio ad Abe ha incassato una dichiarazione in cui il Giappone ammette che c’è una pretesa territoriale cinese sulle isole Senkaku/Diaoyu. È pronto un documento che istituisce una rete anti-corruzione globalizzata, reclamata dalla Cina, impegnata in una caccia ai corrotti rifugiati all’estero con centinaia di miliardi sporchi. Quartier generale? A Pechino, naturalmente.

Corriere 9.11.14
L’ascesa del cristianesimo che preoccupa Pechino
di Guido Santevecchi


Il governo cinese è ufficialmente ateo. Ma dalle rotative di una casa editrice di Nanchino, riferisce il Financial Times , è appena uscita la 125 milionesima copia della Bibbia. Nella Cina fabbrica del mondo c’è anche la più grande fabbrica di Bibbie della terra. Si sa che molti editori occidentali ormai vengono a stampare i loro libri nella Repubblica popolare, per ridurre i costi. Però più di metà della produzione di Nanchino è diretta al mercato interno. Perché il cristianesimo, introdotto nell’Impero di Mezzo dai missionari gesuiti nel 1534, anche se controllato e oppresso, si sta diffondendo in una società neo-capitalista dove le diseguaglianze economiche si dilatano.
La Cina riconosce oggi quattro religioni: buddismo (la fede più diffusa), taoismo, islamismo e cristianesimo. L’ufficio statistiche di Pechino conta meno di 30 milioni di cristiani, tra i quali 5,3 milioni cattolici raccolti nell’Associazione patriottica. Ma secondo stime della Diocesi di Hong Kong i cattolici sono circa 12 milioni, se si comprendono quelli delle «chiese sotterranee», devoti alla Santa Sede di Roma. Contando i protestanti (che in Cina sono la maggioranza), i cristiani potrebbero essere 100 milioni, più dei membri del partito comunista, fermi a 86 milioni. Entro 15 anni, con la progressione costante che si sta registrando, i cristiani cinesi potrebbero diventare 165 milioni. La Cina sarebbe a quel punto il primo Paese cristiano nel mondo.
Il partito comunista, scosso oggi da una campagna anti-corruzione al suo interno che mostra alla gente come i dirigenti più che servire il popolo si siano serviti da soli, teme una sfida alla sua autorità morale. Per questo cerca di costringere cattolici e protestanti ad arruolarsi nelle associazioni patriottiche. E per questa paura, quest’anno, sono state demolite decine di chiese. La motivazione ufficiale? Violazione delle regole urbanistiche.

Il Sole 8.11.14
La Cina prepara la nuova Via della seta
di Rita Fatiguso

qui

La Stampa 9.11.14
Dario Argento: “La mia più grande paura? I lati oscuri dell’anima”
Il regista celebra i quarant’anni di “Profondo rosso” al Torino Film Festival
intervista di Fulvia Caprara

qui

La Stampa TuttoLibri 8.11,14
Per una noce moscata l’Olanda perse New York
Battaglie coloniali, viaggi avventurosi, avidità mercantili così il pepe & C hanno cambiato i gusti e condito ricchezze
di Rocco Moliterni


Se volete capire i gusti che andavano di moda in cucina nella Roma imperiale, più che mangiare in un’osteria di Trastevere, vi conviene sedervi al tavolo di un ristorante cinese a Pechino come a Shangai. Perché solo nei piatti cinesi ritroverete, ad esempio, quegli accostamenti di agro e piccante (tipici di una salsa come il liquamen) che sulle nostre tavole sono ormai scomparsi. E quei gusti avevano il loro segreto nelle spezie, di cui i romani, come riferisce Apicio nel suo celeberrimo De re coquinaria, facevano abbondante uso. A raccontarci l’epopea di questi esotici ingredienti, che hanno segnato la cucina occidentale dal tempo dei romani almeno fino alla vigilia della rivoluzione industriale, è il saggio di Francesco Antinucci Spezie. Una storia di scoperte, avidità e lusso.
Si tratta di un saggio, ma a leggerlo ti prende più di un romanzo d’avventure. Mostra come la grande storia, quella con la S maiuscola che parla di imperi, battaglie, conquiste e scoperte geografiche, sia in realtà strettamente connessa a quello che i poveri ma soprattutto i ricchi mettevano in tavola. Se infatti per i poveri la cucina è questione di sopravvivenza, per i ricchi e i potenti diventa anche e soprattutto una questione di status. Si rappresenta la propria condizione sociale attraverso i cibi che si è in grado di offrire ai propri ospiti. Oggi si mangia caviale non perché le uova di storione siano più buone o nutrienti di altri alimenti (nel Rinascimento si lasciavano ai contadini come scarto del pesce), ma perché la sua rarità e il suo costo ne fanno un cibo «prelibato». Nell’antichità e nel Medioevo una cosa simile accadeva con il pepe.
Già i romani, per approvvigionarsene, avevano scoperto le rotte che dall’Egitto portavano in India. E già ai tempi dei romani i profitti che si ricavavano commerciando spezie erano tali da ripagare ampiamente i rischi che si correvano per raggiungere quei luoghi lontani. Alle spezie si deve buona parte della fortuna della Serenissima: in un’epoca in cui le scorrerie dei saraceni rendevano difficile navigare nel Mediterraneo, i legami che Venezia manteneva con Costantinopoli le permettevano di rifornirsi di pepe, cardamomo & C. Non basta: alle spezie, e in particolare alla noce moscata, si deve il fatto che New York non si chiami Nuova Amsterdam, perché gli olandesi barattarono con gli inglesi le proprie conquiste in America pur di non averli tra i piedi, o meglio, tra le Molucche e le altre isole dell’Indonesia dove si produceva quella spezia. Peraltro, fu proprio il monopolio degli olandesi su certe rotte a far «innamorare» del tè (che non è propriamente una spezia, ma si guadagna il capitolo finale del libro con il caffè e il cioccolato) gli inglesi: la loro Compagnia delle indie si concentrò su questa pianta originaria della Cina e la fece diventare di moda nei locali più in voga di Londra. En passant: per un breve periodo il bel mondo londinese si era invece infatuato del caffè, solo che nei locali dove si consumava questa bevanda l’ingresso alle donne era interdetto, mentre nelle sale da tè il gentil sesso la faceva quasi da padrone.
Il coraggio e la perizia dei navigatori, che affrontavano gli oceani per andare a rifornirsi di spezie, non portò solo alla scoperta dell’America, ma fece anche sì che paesi piccoli come il Portogallo o l’Olanda riuscissero a conquistare imperi o terre ben più grandi dei loro stessi confini europei. Con due modelli diversi: lo statalismo portoghese, che con il tempo portò al tramonto dell’egemonia lusitana, e il modello privatistico degli olandesi, che permise loro di acquisire ricchezze immense per secoli.
Ma il libro di Antinucci è anche un libro di cucina, perché spiega e documenta secolo dopo secolo come si siano modificati i gusti e come le spezie abbiano giocato un ruolo centrale in queste modificazioni. Ci sono confronti di ricette e di piatti di cuochi o gastronomi famosi, dal già citato Apicio a Bartolomeo Scappi. Il cuoco rinascimentale di papa Pio V ebbe la «sfortuna» di vedere il pontefice della Controriforma puntare su una vita ascetica e connotata da pasti frugali. Il che, paradossalmente, si rivelò una fortuna per noi: avendo molto tempo a disposizione, Scappi ci ha lasciato un monumentale trattato che ci permette di capire cosa e come mangiassero le corti dell’epoca.
Antinucci sfata anche il luogo comune della discontinuità tra la cucina medievale e quella rinascimentale. La vera discontinuità, ossia la nascita della cucina moderna, si ha solo nel XVII secolo in Francia, con la riscoperta dei sapori «veri» degli alimenti. Il che significa il tramonto delle spezie, che quei sapori erano chiamate sovente a camuffare.

Corriere 9.11.14
Ali agitatori dell’arte
Avanguardie e socialismo umanitario
Alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma, fino al 15 febbraio 2015, la mostra Secessione e Avanguardia. L’arte in Italia prima della Grande Guerra 1905-1915
di Lauretta Colonnelli


Ci sono non solo capolavori dei grandi artisti del 900, ma anche un’infinità di storie, tra le 170 opere esposte nella mostra Secessione e Avanguardia , alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma.
C’è innanzitutto il Girasole di Gustav Klimt, in prestito dalla Österreichische Galerie Belvedere di Vienna. Il dipinto rappresenta un grande girasole sullo sfondo di un giardino fiorito. Ma si intravede nel fiore anche una figura umana: la corolla delinea il viso, il fogliame un abito. Fu interpretato come il ritratto ideale della signorina Flöge, che Klimt aveva fotografato ripetutamente, nell’estate del 1906, sullo sfondo di un giardino di girasoli. La posa ieratica della modella è la stessa del fiore antropomorfo.
Esposto nel 1910 alla Biennale di Venezia, diffuse il klimtismo in Italia. Ne fu travolto Felice Casorati, che riprese i motivi floreali dell’artista austriaco nella Preghiera , tempera su fustagno. E Vittorio Zecchin trasferì la sua sovrabbondanza decorativa nel Convegno mistico . Mario Cavaglieri si ispirò alle sue suggestioni orientali in Vasi cinesi e tappeto indiano e in Giulietta nell’atelier di Padova .
Klimt era stato uno dei fondatori della Secessione, il movimento dei giovani artisti che si vollero contrapporre alle Accademie. Si accese nel 1892 a Monaco, nel 1897 a Vienna, nel 1898 a Berlino. Proviene dalla prima mostra della Secessione a Monaco il Peccato di Franz von Stuck, con la torbida Eva avvolta in un gigantesco pitone nero. Opera che ebbe un tale successo da essere replicata ben undici volte dall’autore.
A Roma la prima mostra della Secessione si inaugurò nel 1913, quando nel resto d’Europa il movimento era quasi spento. E si intrecciò con le tendenze artistiche ispirate al socialismo umanitario che l’avevano preceduta e con le avanguardie che avevano appena cominciato a ribollire, soprattutto quella rappresentata dal Futurismo.
La mostra curata da Stefania Frezzotti racconta, attraverso le opere arrivate da tutta Europa e quelle provenienti dai depositi della Gnam, il clima di fervore innovativo che animò il decennio breve, compreso tra il 1905 e il 1915, a ridosso della Grande Guerra.
«L’idea della mostra nasce dal desiderio di rievocare un momento in cui l’arte fu veramente europea, cosmopolita, senza confini», racconta Maria Vittoria Marini Clarelli soprintendente della Galleria. «Si confrontavano le idee e i nuovi linguaggi. Nacquero nuove riviste, come «La Voce» di Prezzolini e «Lacerba» di Papini e Soffici.
Si crearono nuovi circuiti per allestire mostre al di fuori dei canali ufficiali che rifiutavano le avanguardie. Picasso, che aveva mandato un quadro alla Biennale di Venezia del 1905, se lo vide tornare indietro dopo tre giorni». Balla lesse lo scritto di Tolstoj Che cos’è l’arte , in cui si metteva in evidenza il ruolo morale e sociale che l’arte può rivestire, e realizzò il bellissimo ritratto in bianco e nero dello scrittore russo. Scoprì le teorie pedagogiche di Maria Montessori e copiò per le figliolette i banchi-giocattolo che l’educatrice aveva disegnato nel 1907 per l’asilo dei figli degli operai.
Pellizza da Volpedo dipinse il Quarto Stato , di cui sono esposti i disegni preparatori, mentre Cambellotti organizzava, con lo scrittore filantropo Giovanni Cena, scuole per i contadini della campagna romana. Medardo Rosso scolpì il suo Bambino malato dopo la degenza in un ospedale parigino. Boccioni dipinse l’ Idolo moderno , immagine simbolo della mostra, ritraendo i riflessi della luce elettrica sul volto allucinato di una cocotte.
Carrà sorprese un tram in corsa scagliato sulla folla in piazza Duomo a Milano. Si entra in mezzo alle fanciulle di Edoardo Gioia, dipinte per l’Esposizione internazionale del 1911 e restaurate per questa mostra. Si esce tra le «linee di velocità» di Balla, che acquistano volume e rendono con colori accesi il movimento a ondate delle masse interventiste e delle bandiere. Siamo nel 1915. La visione inebriante del futuro che aveva abbagliato l’inizio del secolo sta per frantumarsi in macerie.

Corriere 9.11.14
Schiaffi, stroncature e ironie E la poesia finì in prima linea
di Roberta Scorranese


Nell’infanzia di un Novecento ancora intorpidito dalle promesse della Belle Epoque, l’avanguardia deve farsi largo a suon di schiaffi. Nel 1911 Boccioni prende a ceffoni Ardengo Soffici in un caffè di Firenze, perché reo di aver criticato le opere dei Futuristi a Milano; l’anno prima lo stesso Boccioni aveva dipinto Rissa in galleria , raffigurazione compiaciuta di una zuffa tra donne, e due anni prima Marinetti aveva minacciato di morte quel chiaro di luna che solo nel 1819 Leopardi rimirava «pien d’angoscia».
Il terreno teorico era stato ben coltivato: per fare due esempi, Sorel aveva scritto Considerazioni sulla violenza e Freud indicava nel parricidio la nascita dei legami sociali adulti. Fatto sta che il Novecento si apre nel segno della violenza, dell’impeto, della rottura. Accanto ai primi esperimenti linguistici «incendiari» come quelli di Palazzeschi, ecco le stroncature sonore che riempiono le riviste letterarie come «La Voce» (fondata nel 1908 da due incendiari veri come Papini e Prezzolini); ecco Scoperte e massacri , il titolo che Ardengo Soffici volle dare alle sue stilettate scritte tra il 1908 e il 1915 contro gli artisti a suo dire «fuori dal tempo», mentre indicava la nuova strada in Cézanne e Picasso; la rubrica di critica letteraria che Giovanni Boine tiene sulla rivista «La riviera ligure» si chiama Plausi e botte . Quante botte animano questo scorcio del XX secolo. È nel segno del parricidio (come ha più volte osservato Walter Pedullà nei suoi bellissimi saggi sul Novecento) che si apre la modernità e Boccioni e Severini si vestono da «rifiutati» e incendiano la Secessione. È nel segno del parricidio che Einstein azzarda un capovolgimento totale della visione del mondo. Ma come tutte le adolescenze che si ribellano all’autorità genitoriale, anche i linguaggi primonovecenteschi crescono cercando un’identità.
In una varietà di stili, dal simbolico all’astratto al futurista. Alcuni non ce la fanno a correre veloci come le prime automobili che sfrecciano per le strade e ripiegano su un intimismo intriso di ironia. E allora la convivenza tra passato e presente si fa interessante e cuce nella letteratura (soprattutto nella poesia) italiana dell’epoca uno splendore innocente, stupefatto. Ancora oggi vivido.
L’avanguardia, alla fine, convive con la tradizione. Convive e si integra a volte con un’armonia così sottile e perfetta che rintracciarne i contorni è difficile: meglio leggere gli scritti, dunque. Meglio leggere le poesie di Guido Gozzano, così rivoluzionario nella sua ironia leggerissima, nascosta nelle «buone cose di pessimo gusto» dei Colloqui . Meglio leggere Aldo Palazzeschi e il suo Codice di Perelà (1908-1910) dove decreta: «Io sono leggero… un uomo leggero… tanto leggero». Perelà è il simbolo di un’impalpabilità corrosiva, risposta all’aggressività insita nelle avanguardie.
La poesia, dunque. La poesia come nuovo laboratorio di linguaggi, straordinaria fucina di innovazioni stilistiche Nel suo bel saggio nel catalogo della mostra di Roma, Andrea Cortellessa parte dalla tensione della violenza inesplosa nei versi di Clemente Rebora pubblicati nel 1913, in una inquietudine «insostenibile, costantemente rilanciata e mai risolta». Una forma espressionistica singolare che non trova sfogo e per questo è viva, guizzante.
E andrebbe riletto (con gli occhi di oggi) anche Dino Campana, sedotto dalle suggestioni oscure al pari di Cézanne e che nei Taccuini scrive: «Si sente suon di tamburi alle porte della città/ Al Pasckowki è un dolce noioso sereno sulla vecchia pietra/ col vento che mette in follia le bandiere». Gli orfismi di Campana hanno convissuto con il realismo magico di Massimo Bontempelli ma ben più interessante convivenza (sebbene anagraficamente diversi) è stata quella tra due grandi Luigi dell’epoca: il Pirandello dell’incomunicabilità esistenziale e il Capuana del verismo più efficace. Su tutti, Ungaretti che visse quasi un secolo (1888-1970) e che del secolo raccontò contraddizioni, bellezze, coraggio e codardie.
La Secessione italiana e le avanguardie si sono nutrite di questo cibo così variegato e fecondo. Eppure, nell’aria resta un verso di quel Palazzeschi così leggero, giunto a noi forse grazie a questa insondabilità: «E lasciatemi divertire!»

Corriere 9.11.14
Arte e cultura a Parigi all’ombra del Terzo Reich   
risponde Sergio Romano


Ho letto la sua risposta a un lettore che
esponeva i rischi per Parigi di essere
distrutta. Si potrebbe supporre che una città in una fase di guerra cruenta abbia corso effettivamente l’alea di soffrirne, ma bisogna tenere presente l’ammirazione di Hitler che
il 28 giugno 1940 l’aveva visitata con entusiasmo in compagnia dell’architetto
Albert Speer e dello scultore Arno Breker. Il Führer così espresse i suoi sentimenti: «Vedere Parigi era il sogno della mia vita. Non so esprimere tutta la mia felicità nel vedere esaudito oggi quel sogno».
Giampaolo Grulli

Caro Grulli,
Hitler non avrebbe esitato a colpire Parigi. Le sue istruzioni ai comandi militari, mentre le truppe alleate avanzavano verso la capitale francese, erano perentorie: distruggere i settanta ponti che collegano le due sponde della Senna e della Marna. Non appena le truppe tedesche uscirono dalla città, la capitale fu bombardata dagli aerei della Luftwaffe. Ma vi era effettivamente nell’opinione pubblica tedesca e nello stesso leader nazista un’ammirazione che rasentava spesso il senso d’inferiorità.
L’uomo che meglio incarnò questo atteggiamento fu Otto Abetz, ambasciatore tedesco a Parigi dal 1940 al 1944. Abetz frequentava gli ambienti culturali della città, corteggiava gli intellettuali, aiutava le case editrici a superare i veti della censura, interveniva per addolcire le politiche repressive della Gestapo e delle SS. Questa politica ebbe l’effetto di convincere una parte della intellighenzia francese che la città, nell’Europa tedesca del dopoguerra, sarebbe stata una specie di corpo separato e avrebbe continuato a illuminare il continente con lo splendore delle sue bellezze e la vivacità dei suoi circoli culturali. I teatri di Parigi continuarono a rappresentare opere di Henry de Montherlant, Jean Anouilh e persino Jean-Paul Sartre. Alcuni dei maggiori registi cinematografici, Henry Georges Clouzot e Marcel Carné, realizzarono film che circolarono nelle sale cinematografiche e vennero, in qualche caso, distribuite dalla Ufa, la grande azienda cinematografica tedesca. Picasso rimase a Parigi e ricevette nel suo studio la visita di qualche ammiratore tedesco. Grazie alla regia politica di Abetz, una delegazione di personaggi dello spettacolo visitò la Germania e alcuni intellettuali parteciparono al grande convegno sull’Europa del futuro organizzato a Weimar da Joseph Göbbels nell’ottobre 1942. Il quadro cominciò a cambiare tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943: un periodo che coincide con la sconfitta di Erwin Rommel in Africa e di Friedrich Paulus a Stalingrado.

Corriere La Lettura 9.11.14
Egizi, Assiro Babilonesi, Minoici e Micenei
Che brutto tempo: siamo come gli Ittiti
Un saggio dell’archeologo Eric H. Cline affronta il collasso delle civiltà che abitarono il Mediterraneo orientale tra il XIII e il XII secolo avanti Cristo
Variazioni climatiche, migrazioni, relazioni internazionali
La fine dell’Età del Bronzo suggerisce (caute) analogie
di Sandro Modeo


Rimettendo mano a un monumento-monstre iniziato secoli prima, il re ittita Tudhaliya IV completa, alla fine del XIII secolo a.C., il santuario di Yazilikaya, nei pressi della capitale Hattusha, a nord-est dell’attuale Ankara: un intrico di gallerie naturali foderate di bassorilievi col pantheon dei vicini hurriti, dagli dèi della Tempesta e del Sole alle dodici divinità ctonie in sequenza seriale. Sigillato dall’icona del sovrano, il santuario si tradurrà in pochi decenni in un dolente canto del cigno della stessa civiltà ittita, travolta — insieme a tutte le altre di area est-mediterranea e mediorientale — da un «collasso» collettivo che segnerà il requiem dell’Età del Bronzo.
Ora un libro notevole dell’archeologo Eric H. Cline della George Washington University ( 1177 a.C. Il collasso della civiltà , Bollati Boringhieri) ricostruisce per dettagli molecolari proprio quel crollo «di sistema», fatalmente evocativo di paralleli con le attuali «crisi» globali: studio e argomento per certi aspetti unici rispetto a classici — come La fine del mondo antico di Santo Mazzarino o Collasso di Jared Diamond — dedicati alle implosioni di singoli imperi e/o civiltà, da Roma ai Maya. La data del titolo si riferisce alla seconda ondata migratoria, trent’anni dopo la prima, dei cosiddetti Popoli del Mare, incursori di provenienza misteriosa (sicula o sarda, anatolica, egea, e molte altre) a lungo eletti a causa esclusiva se non a capro espiatorio del crollo. Ma quella data-spartiacque viene avvicinata da Cline risalendo a tutti i passaggi chiave dei secoli precedenti e ispirandosi esplicitamente, nel disegno narrativo, a uno spunto di Fernand Braudel, per cui la storia dell’Età del Bronzo andrebbe scritta «sotto forma di dramma».
Ne deriva un vero racconto polifonico con digressioni e flashback, montaggi alternati o paralleli, dove i percorsi fittamente intrecciati di tutti i popoli coinvolti — Egizi e Assiro-Babilonesi, Ittiti e Mitanni, Minoici e Micenei, Ciprioti e Cananei — svelano via via le diverse concause del crash , tra eventi traumatici (la fine di Ugarit, satellite siriano dell’impero ittita) e crisi latenti che precipitano (il «declino» preesistente al «collasso», come in molti altri casi). Il tutto attraverso prove archeologiche (ma anche filologiche, artistiche, storico-economiche) aggiornate agli ultimi anni di ricerca e utili per entrare nel nucleo di una disciplina caratterizzata da una durezza prosaica (le ore trascorse su un’impalcatura, sotto il sole rovente, per trascrivere un geroglifico) o dalla casualità di tante scoperte, opera ad esempio di contadini, pescatori di spugne o conducenti di bulldozer.
Nel ripercorrere i tre secoli antecedenti l’arrivo dei Popoli del Mare (dal XV al XIII a.C., ognuno visto come un «atto» del dramma), Cline evidenzia la complessa trama di incontri/scontri e contrapposizioni/assimilazioni in quel sistema-mondo. Il paesaggio di fondo è l’intrico delle «relazioni internazionali», ben riassunto, tra le altre, da un’eclatante prova documentaria: la «nave di Uluburun» del 1300 a.C., diretta da est (Egitto o Israele) a ovest (forse Rodi) e naufragata con tutte le merci caricate nei vari scali, dal rame cipriota allo stagno afghano (le due materie prime per il bronzo degli eserciti), passando per un ventaglio che comprende ebano della Nubia, vetro mesopotamico, anfore cananee, scarabei sacri egizi, spade, pugnali italo-greci. Questo carico è il concentrato simbolico di una rete di rapporti sotto cui preme, va da sé, una profonda ambivalenza: da una parte, gli embarghi (quelli ittiti verso Micenei o Assiri) o i tanti conflitti con le relative, decisive battaglie, come quella di Qadesh tra Egizi e Ittiti (1274 a.C.); dall’altra, la diplomazia a base di doni reciproci, trattati e matrimoni tra regni (come quelli successivi proprio alla battaglia di Qadesh) e i metissage artistici, documentati già nei sublimi affreschi minoici, cioè cretesi, nel palazzo di Tuthmose III a Perunefer (1477 a.C.), di cui si è recuperata, purtroppo, solo una minima parte.
Approdando al 1177 a.C. — anno della «vittoria di Pirro» di Ramses III contro i Popoli del Mare, evento registrato in altre pitture murali, quelle di Medinet Habu — Cline non si limita a ridimensionare l’incidenza dei presunti invasori, ricordandone, oltre all’incertezza etnica, quella identitaria (tra predoni e semplici migranti), ma relativizza tutti gli altri cofattori causali, ognuno dei quali, da solo, non è spiegazione esaustiva. Non lo sono i terremoti («seriali» o isolati), dato che sia Ugarit che Micene si erano ripresi dopo i sismi del 1250 a.C.; non lo sono le carestie, come quelle drammatiche affrontate dagli Ittiti nel XIII secolo, con richieste di grano agli Egizi; non lo è l’esplosione di rivolte intestine anche estreme, come quella della confederazione di Assuwa (di nuovo contro gli Ittiti); non lo è nemmeno l’indebolimento del commercio «a lunga distanza», dato che Ugarit mantiene intatta la sua rete fino a poco prima del collasso.
In quest’ottica, quindi, Cline non può che arrivare a una saggia conclusione multifattoriale (la «tempesta perfetta», che non necessita dell’evocazione un po’ gratuita della teoria della complessità) e a un’altrettanto cauta — e condivisibile — ipotesi sul fatto che i presunti invasori (Popoli del Mare o altri) fossero spesso nomadi o migranti tesi a occupare (e a rifondare) aree già in crisi se non abbandonate.
Il punto chiave, però, è un aspetto (il mutamento climatico) che Cline considera estesamente (con prove consistenti sugli indici di siccità del tempo), senza arrivare a valutarlo, come forse invece è, il fattore prevalente o di innesco/amplificazione del domino. Se ricorriamo alla Storia culturale del clima di Wolfgang Behringer, vediamo infatti come proprio il clima determini nell’Età del Bronzo collassi in altri periodi delle aree in questione e in altre aree del periodo considerato.
Un primo collasso, infatti, si ha già nel 2150 a.C., quando nel periodo boreale sia l’Egitto che la Mesopotamia affrontano un calo di precipitazioni e le conseguenti carestie; mentre un’altra crisi egizia (la «Little Dark Age») coincide con un nuovo deficit di inondazioni del Nilo intorno al 1768 a.C.. Quanto alla crisi di sistema del 1200 a.C., è estesa anche a regioni asiatiche come il Rajasthan (dove un’alterazione del monsone porta tra 1300 e 900 a.C. a una riduzione del 70% delle piogge) o la Cina del tramonto della dinastia Shang (finita nel 1122), dove il sole è coperto dalla «nebbia secca» e le acque del Fiume Giallo dal ghiaccio notturno. In tutte queste fasi, la siccità determina crisi agro-alimentari che scatenano o almeno amplificano tutti i fattori evocati da Cline: la delegittimazione politica del sovrano e del Palazzo, le conseguenti rivolte, gli abbandoni delle città-stato.
Quanto all’inevitabile attivarsi di paralleli/paragoni tra il dissolvimento del sistema-mondo del 1200 a.C. (o tra altri crolli imperiali, a partire da quello romano) e la crisi del nostro (a partire dal «declino» dell’Occidente), si tratta di una pulsione naturale da manovrare con cautela; di un tentativo, non sempre fondato, di proiettare schemi del passato («invarianze» istruttive) in possibilità previsionali. A colpo d’occhio, tra l’Età del Bronzo e oggi risaltano drastici salti demografici (100 milioni di abitanti contro 7 miliardi), economici (dall’economia di scambio alla finanza) e tecnologici (tra le tavolette accadiche e un iPad c’è una sovrapposizione solo geometrica). Dopo di che, non c’è dubbio che certe sollecitazioni andrebbero colte, per esempio proprio sul mutamento climatico. Quando le divinità dei loro pantheon «meteorologici» bloccavano le piogge (l’accadico Adad che «volge le spalle» al popolo), le comunità incolpavano la cattiva mediazione del sovrano (il Gran Re ittita verso il «dio delle Intemperie»); oggi, al contrario, siamo indulgenti e inerti con un establishment politico-economico che continua a sottovalutare l’impatto dell’attività antropica. Forse perché lo siamo, prima ancora, con noi stessi, convinti di poter esorcizzare l’allarme climatico con qualche film apocalittico o qualche residuo di utopia ecologista.

Repubblica 9.11.14
Ode a Gala che rese schiavo Paul Eluard
La poesia è dedicata alla ragazza russa che ha sposato nel 1917 e che lo domina Diventerà la musa del surrealismo, amata alla follia da Ernst e Dalì
Ogni verso è come il versetto di una litania: libero dalla sintassi dalla metrica e dai nessi logici
di Walter Siti


IL PRIMO verso è autocontraddittorio, le arance non sono blu; eppure il secondo verso ci assicura che le parole non mentono. Se Eluard avesse scritto «la terra è un’arancia blu» avrebbe fatto una normale metafora ma si sarebbe visto solo il blu, non l’arancione; la normalità è il nemico, l’assurdità è il traguardo. Se le parole sono considerate come regno autonomo e non al servizio del referente, allora con le parole non si possono fare errori; fin che resta nel giro delle parole, il poeta è un re. Il blu è il colore dell’infinito e l’arancia è un frutto solido, denso, buono da mangiare.
Il poeta può mangiare i corpi celesti e l’infinito — il poeta è un cantore ma le parole non danno più da cantare nel senso che non bastano (nel momento in cui si svincolano dalla referenza, si trasformano nell’analogo dell’ossessione erotica ma arrivati a quel punto il corpo conta molto più della tradizione poetica). Bisogna passare dalle parole ai fatti, l’infallibilità può estendersi dalla semantica all’esistenza solo se si cede il comando ai baci; tocca ai baci intendersi, e gli interpreti dei baci sono i pazzi e gli innamorati (anzi gli “amori” perché la forza generalizzante di eros è più importante dei singoli individui).
Ma non si capiscono davvero i primi cinque versi se non si sa chi è la “elle” del v.6. È Gala, al secolo Helena Dimitrievna, una ragazza russa che Eluard ha incontrato nel 1912 al sanatorio di Davos, dove entrambi si stavano curando la tubercolosi. La sposa nel 1917 e da quel momento ne è dominato: «i tuoi capelli d’arance nel vuoto del mondo» scrive in una poesia, e in un’altra parla di lei come di «una stella chiamata azzurro/ e la cui forma è terrestre ». Eccola, l’immagine contraddittoria eppure concretissima: la terra è blu come un’arancia perché Gala è così, gli occhi blu e i capelli d’arance, e una bocca capace di «attestare l’impossibile». Dedicandole la raccolta in cui è contenuto il nostro testo le scrive «tutto quello che ho detto era perché tu lo ascoltassi, la mia bocca non ha mai lasciato i tuoi occhi» — «senza di te non ho le mie lenti colorate, le mie lenti di smeraldo e di fuoco». L’amore lo ha reso insensato al punto che vede tutto con gli occhi di lei.
La “bouche d’alliance” ricorda l’”arche d’alliance”, l’Arca in cui gli Ebrei conservavano le tavole della Legge, pegno del patto tra terra e cielo; ma in francese la ”alliance” è anche la fede nuziale — la bocca di Gala è il sigillo mistico delle nozze tra quotidianità e paradiso. Lei è la donna che vale tutte le donne, in cui si inverano e si concentrano le cose splendenti squadernate nel mondo. Tutti i segreti, tutti i sorrisi, tutte le gioie solari; il suo corpo nudo non è tanto un oggetto quanto un percorso (“ les chemins de ta beauté”) che conduce chi l’ama a viaggiare tra le stelle. Per lei le vespe sono come fiori nel verde della freschezza e l’alba fa brillare le finestre come una collana di diamanti; delle ali coprono le foglie confondendosi con esse in unanimità di voli. Strana energia di questa donna dal volto smunto e nasuto, audace inventrice di giochi amorosi per uomini dalla sessualità incerta; amata da Eluard e Max Ernst, odiata da Breton, divenne ufficialmente la “musa del surrealismo” quando sedusse l’ancor vergine Salvador Dalì e ne divenne l’idolo, la madre, la custode inflessibile. Strano destino il suo, d’esser riuscita a far sragionare d’amore artisti che volevano sragionare per programma.
Poeta con un dono naturale di immediatezza e di grazia, Eluard trovò nel surrealismo soprattutto un veicolo di libertà: libertà dalla sintassi, dalla pesantezza dei nessi logici, dal rigore della metrica. Ogni verso è come il versetto di una litania, che irraggia innocenza e sogna d’essere il primo mai scritto, o una goccia che cade sul foglio bianco per comporre un disegno di luce. Il suo temperamento però non era gioioso («la felicità rimane un postulato ma il pessimismo un vizio»); la sua frenesia di positività era piuttosto eccitazione febbrile e lo sapeva: «tutto quello che io giro al bene, viene dal male e dalla sofferenza ». Nel nostro testo, così impregnato di speranza cosmica, c’è una spia d’ombra in quella “indulgence” del v.8; i “vestiti d’indulgenza” che aiutano a immaginarla nuda sono i costosi e bizzarri tessuti che lui regalava a Gala — e gioielli, e cose d’arte, dopo che un’eredità l’aveva reso ricco. Indulgenza che diventa masochismo quando favorisce le “partite a tre” che Gala impone, per esempio con Max Ernst — e continua a mantenerla quando lei sta già con Dalì, e si lamenta di non poter “assistere”, e si abbandona a orge immaginarie in cui la libertà è ridotta a libertinismo.
Libertà è il titolo della sua più nota poesia impegnata, di quando diventerà il poeta- vate della Resistenza: ma lui stesso confesserà che fino all’ultimo quella poesia l’aveva pensata per una donna. L’amore per Eluard è un anticipo della rivoluzione, e chiama la rivoluzione coi nomi del proprio amore. Lentamente e tristemente, nel corso degli anni ‘40, il ritmo misticoerotico diventerà esortativo e il sogno rivoluzionario di “cambiare la vita” si spegnerà come si erano spente le illusioni di un erotismo astorico e onnipotente.

Il Sole Domenica 9.11.14
Il fascismo visto da lontano
Il Ventennio osservato dagli stranieri: dal caos del primo dopoguerra allo sbarco in Sicilia
di Raffaele Liucci


Gli stranieri hanno sempre ragione? Ce lo siamo spesso domandati, durante la seconda Repubblica, quando il nostro paese ha attratto come un magnete la morbosa curiosità del resto del mondo. Ora un libro di Emilio Gentile (illustre collaboratore di questo supplemento) esplora l'altro ventennio, quello mussoliniano, colto attraverso l'occhio dei viaggiatori giunti da oltre confine. La sapienza di questo lavoro sta nel suo montaggio: l'autore è riuscito a incastonare centinaia di testimonianze in un racconto fluido e diacronico, che si legge tutto d'un fiato, dal caos del primo dopoguerra sino allo sbarco degli Alleati in Sicilia, nel luglio del '43. Gentile vi indossa i panni del narratore, astenendosi da ogni commento esornativo. Spetta ai lettori cogliere i frutti della sua ricerca.
Innanzitutto, quale valore euristico attribuire al "verbo" dei nostri ospiti? Sono giornalisti, scrittori, studiosi, diplomatici, uomini politici, che in verità non paiono discostarsi troppo dalla media dei nostri connazionali. C'è chi avverte precocemente le radici dello squadrismo o le peculiarità del l'esperimento littorio, e c'è chi ragiona per luoghi comuni. Senza dimenticare i frequenti abbagli, come quello preso dal giornalista (e sociologo) peruviano José Carlos Mariàtegui, che nell'aprile 1924 pronostica un rapido declino del nascente regime. Un vaticinio replicato da diversi suoi colleghi all'indomani del delitto Matteotti (10 giugno 1924), quando Mussolini sembrava un colosso dai piedi d'argilla. Insomma, è sempre faticoso azzeccare in tempo reale la giusta direttrice della Storia (ammesso che esista davvero), e un passaporto straniero non agevola di per sé il compito. Assai più lungimirante era stato l'«italiano inutile» Prezzolini, che dopo la Marcia su Roma aveva scritto a Piero Gobetti: «Sento che per venti, venticinque anni la politica è finita e che non c'è nulla da fare, altro che ritirarsi a guardare».
Veniamo così al secondo punto: lo sguardo non sempre distaccato dell'osservatore allotrio, egli stesso talvolta vittima dei propri pregiudizi. Così, nel 1931 il comunista tedesco Alfred Kurella riferisce d'essersi imbattuto in fantomatiche masse operaie ribollenti di odio verso la dittatura, mentre dieci anni prima lo storico francese Paul Hazard non riusciva a dissimulare la schietta simpatia per il fascismo delle origini. Tanto da discolpare lo squadrismo, adducendo come attenuante l'ancestrale "abitudine alla violenza" degli italiani, trogloditi per natura.
Il terzo nodo del libro di Gentile richiama appunto la nostra acclarata minorità. Tutti i "forestieri" sono concordi nel reputare l'Italia non assimilabile agli altri paesi-guida dell'Occidente. Per questo molti di loro si spingono ad accettare obtorto collo il fascio littorio, che avrebbero invece reputato una soluzione indegna per Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti. Ma cosa aspettarsi da un popolo levantino e anarcoide come il nostro? In fondo, di fronte all'inerzia dei liberali e al massimalismo dei socialisti, il manganello, il revolver e l'olio di ricino hanno restaurato l'ordine perduto. Tanto più che, scrive il reporter francese Henri Béraud nel 1929, «il fascismo non si trasmette ai vicini più della camorra o della mafia». Una previsione sballata!
Quarto punto: il passato che non passa. Diverse pagine riesumate da Gentile suonano oggi sinistramente attuali, spalancando uno scenario arcaico eppure famigliare. Il sudiciume delle grandi città del Sud. La verbosità dei discorsi politici. Una concezione elastica della legge. Il moloch burocratico. La propensione a seguire il pifferaio di turno, dalla parlantina frizzante. Nonostante diversi ospiti registrassero gli sforzi di Mussolini per fare dell'Italia «un paese fresco e primaverile», più disciplinato e moderno, il nostro carattere è rimasto quasi intonso, anche dopo l'avvento della Repubblica. Onde i costi esagerati sopportati dall'Italia per diventare, semplicemente, "un paese normale". Un obbiettivo peraltro mai raggiunto, come confermano alcune recenti riflessioni dello stesso Gentile, piuttosto pessimista sul futuro del nostro popolo, «né Stato né Nazione».
Quinto punto: la falce dell'oblio. In questo volume non brillano soltanto scrittori del calibro di Joseph Roth, Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir (in veste di turisti indispettiti dall'occhiuto controllo poliziesco), o del croato Ivo Andric (futuro premio Nobel jugoslavo, autore del romanzo Il ponte sulla Drina, nel 1920-22 diplomatico di carriera in Italia), ma anche molti altri personaggi ormai dimenticati. È una dura legge della Storia, valida soprattutto per i giornalisti, la cui effimera notorietà svapora allo scomparire della firma. Ma ora, grazie a Google e Wikipedia, possiamo dipanare il gomitolo delle loro vite. Per esempio, Edgar Ansel Mowrer, corrispondente del «Chicago Daily News», il quale aveva conosciuto Mussolini durante il "maggio radioso" del '15 e la sera successiva alla Marcia su Roma viaggiò con lui sul treno che da Milano lo portava nella capitale, dove lo attendeva il Re per conferirgli l'incarico di Presidente del Consiglio. Oppure George Seldes, il reporter americano già espulso dal duce e autore nel 1935 di una biografia molto critica su di lui (Sawdust Caesar), frutto di un viaggio in incognito nel nostro paese. O ancora, Cicely Hamilton, femminista inglese che, pur riconoscendo la modernità fascista, ne denuncia la concezione regressiva della famiglia: «La vita domestica, un marito e una casa: e figli, i futuri cittadini italiani, e tanto meglio se numerosi».
Per concludere, che cosa resta dei fotogrammi ingialliti pazientemente recuperati da Gentile? Oscillanti nel tempo, azzardati nei giudizi, influenzati dagli eventi ancora caldissimi, sono frammenti troppo eterogenei per essere ricomposti in un quadro unitario. Ma ciascuna di queste voci ingloba uno spicchio di verità. In più, tutte colgono la specificità italiana del fascismo e il suo spessore storico non transeunte. Biasimato, tollerato o incensato, il fascismo non viene mai "defascistizzato" e ridotto a innocua burletta, come invece accadrà nell'Italia repubblicana, per mano di una vulgata indulgente che avrà in Giovanni Ansaldo, Leo Longanesi e Indro Montanelli i suoi più brillanti ideologi. Ben diversa era stata l'impressione dei contemporanei del duce, come dimostra anche questo libro, firmato da uno studioso che nelle sue ricerche ha sempre messo a fuoco il profilo antidemocratico, antiliberale, nazionalista, razzista e totalitario dello Stato mussoliniano. Tutti attributi che all'epoca non possedevano necessariamente un significato negativo.

Emilio Gentile, In Italia ai tempi  di Mussolini. Viaggio in compagnia di osservatori stranieri, Mondadori, Milano, pagg. 352, € 20,00

Il Sole Domenica 9.11.14
Italo Calvino
Ottimismo a New York
di Domenico Scarpa


«Caro Fortini, dunque qui uno è sempre felice, si sveglia al mattino ed è felice, va a dormire ed è felice, e viene da domandarsi ma sarò diventato cretino che sono sempre così felice?». Era la vigilia del Natale 1959, Calvino scriveva da una camera d'affitto al Greenwich Village, era sbarcato a New York all'alba del 4 novembre: il primo suo viaggio negli Stati Uniti, sei mesi con una borsa della Ford Foundation, spese coperte e nessun obbligo di nessun tipo, solo semmai questo fastidio di recitare la felicità per provocare un collega e amico e avversario, e solo semmai un'altra cosa anche: «Il fatto accidenti che proprio non capiscono niente, non hanno il senso della storia, non hanno il senso dell'antitesi, non hanno il senso della filosofia, non hanno Hegel, è quello che cambia tutto, perciò sono così spappolati dentro, Hegel, qui a venire a spiegare Hegel, a mettere su un collegio hegeliano c'è da fare un sacco di quattrini, naturalmente io ragiono già con criterio americano, i quattrini sono la base di tutto e questo è ancora la cosa sana, fuori dei quattrini non c'è che la teologia».
Nelle lettere private Calvino recita anche più che negli scritti pubblici ma in compenso è meno diplomatico. Nei testi del suo viaggio americano «spappolati» c'è solo in questa lettera, ed è proprio parola sua: uno schiaffo a pieno palmo, un veleno pregustato prima di darlo a bere. In quell'autunno '59 si era dileguato dal l'Italia lasciandosi dietro una scia di puntini sospensivi, quelli che concludono Il cavaliere inesistente: «Quali impreviste età dell'oro prepari, tu malpadroneggiato, tu foriero di tesori pagati a caro prezzo, tu mio regno da conquistare, futuro...». Finiva finalmente un decennio dal quale desiderava fuggire con tutto se stesso: «un ridicolo decennio» come lo definiva un altro suo amico-avversario, Pier Paolo Pasolini, che agli anni 50 avrebbe voluto dedicare un ciclo di racconti con questo titolo: ridicolo perché moralista, perché ideologicamente angusto, perché soddisfatto di essere provinciale... Ma realmente era riuscito a fuggire da tutto questo il Calvino che registrava indispettito la propria presunta felicità di essere a New York, e che vagheggiava di fondare un college hegeliano in America sia pure per farci i soldi?
Calvino arrivò negli Usa come ex militante del partito comunista che aveva abbandonato dopo i fatti di Ungheria (continuando però a considerarsi uomo della sinistra), e come funzionario della casa editrice Einaudi, a beneficio della quale tessé una rete fittissima di contatti (si devono a lui le traduzioni einaudiane di Bellow, Malamud, Purdy, Salinger, e fu lui a spiegare ai colleghi italiani cos'erano i paperback). Nei primi mesi del suo semestre americano mandò alla casa editrice lunghe lettere-diario destinate ai colleghi ma anche – salvo i punti che toccassero segreti industriali – agli amici di passaggio. In albergo teneva sempre un foglio nel rullo della macchina: ogni qualvolta rientrava, e ne aveva voglia, batteva sui tasti una cosa vista, uno sketch narrativo, una sintesi politico-antropologica, uno sfottò per i colleghi, un parere editoriale. Al ritorno in Italia gli appunti si trasformarono, con maggiore impegno di scrittura, in una lunga serie di articoli usciti su svariate riviste, e quegli articoli furono a loro volta limati, tagliati, ricombinati in una struttura nuova per un libro che nella primavera 1961 avrebbe dovuto uscire per Einaudi col titolo Un ottimista in America. Calvino, che insomma aveva scritto e riscritto per ben tre volte la sua America, decise di non pubblicare il libro quando era ormai in seconde bozze. Oggi quel libro esce da Mondadori in una impeccabile edizione provvisoria che, essendo destinata al grande pubblico, non si sofferma su questi scritti di laboratorio già apparsi nel postumo Eremita a Parigi e nel Meridiano dei Saggi calviniani. Ma l'essenziale è che Calvino ebbe ragione a lasciare inedito l'Ottimista (lui diceva di essere ottimista nel senso che le cose potrebbero sempre andare peggio di come già vanno): ed ebbe ragione perché le sue «cartoline dall'America» ci parlano più dello sguardo italiano sull'America che dell'America in sé, e perché la sua attenzione così volontaria, i suoi paradossi di corto respiro, le sue scintille narrative non secondano gran fiamma di stile, e anzi si può dire che i testi americani più riusciti siano proprio le lettere per gli amici, più lasciate correre, più momentanee.
Gli scrittori non esistono per descrivere la realtà, e questo libro ne è una prova ulteriore. Calvino se ne accorse in tempo. In quei mesi dopo il Cavaliere entrava in una crisi che si sarebbe risolta solo con le Cosmicomiche. Calvino non esisteva se non a patto di deformare, di stravolgere il mondo con la sua passione lucida e luciferina. Doveva tornare a inventare nuovi mondi, altro che descrivere il Nuovo Mondo. Quella sua letterina di Natale sulla felicità e su Hegel si prese una risposta sublime: «Quando torni a mentirci? Ti abbraccia il tuo Franco Fortini».

Italo Calvino, Ottimista in America, Mondadori, Milano, pagg. 228, € 17,50

Il Sole Domenica 9.11.14
Cocktail di migrazioni felici
Uno studio sulla fine dell'Urss mostra come il trasferimento di molti matematici russi negli Usa provocò uno shock: la comunità si arricchì e al tempo stesso ne fu spiazzata
di Giorgio Barba Navaretti


Il crollo del blocco sovietico ebbe un imprevisto effetto negativo: il calo della produttività scientifica dei matematici americani. Dopo il 1992 un migliaio di matematici dell'ex Unione Sovietica emigrò e in gran parte negli Stati Uniti. Fino a quel momento avevano vissuto dietro rigide barriere con pochissimi contatti con la comunità scientifica internazionale. Qualunque scambio con colleghi americani o europei era letto e filtrato dalle autorità, e in alcuni periodi della guerra fredda era elevato il rischio di venire imprigionati. Dunque, la matematica sovietica si sviluppò in direzioni in gran parte diverse dalla ricerca occidentale. L'arrivo dei ricercatori sovietici, alcuni molto bravi, arricchì molto il panorama scientifico americano che si sviluppò in ambiti e direzioni nuove. Ma ebbe allo stesso tempo l'effetto di impoverire la comunità scientifica locale. Soprattutto coloro che si occupavano di temi vicini a quelli dei colleghi ex-sovietici, vennero a poco a poco messi ai margini dell'attività scientifica. Gradualmente si trasferirono in istituzioni di profilo più basso e anche la ricerca dei loro allievi non ebbe gran fortuna. In sostanza, ci fu un forte spiazzamento dei matematici autoctoni.
Questa è la conclusione di un'approfondita analisi di uno dei massimi esperti mondiali di migrazioni, George Borjas e del suo co-autore Kirk Doran, costruita su una base di dati colossale che contiene informazioni sulle pubblicazioni matematiche degli ultimi settant'anni. Risultato molto interessante perché apparentemente (e vedremo dopo perché apparentemente) in contraddizione con l'evidenza di molti altri lavori precedenti e successivi, dove si dimostra come l'influsso di immigrati nella comunità scientifica occidentale abbia avuto un impatto estremamente positivo sull'output della ricerca e sulla crescita in generale. Soprattutto è sorprendente proprio relativamente al l'emigrazione degli scienziati russi. Questo è in effetti (con gli europei durante il nazismo e la Seconda guerra mondiale) uno dei pochi casi di trasferimento in massa di una comunità scientifica di grande qualità. Quasi un esperimento naturale che genera uno shock esterno e osservabile e dunque studiato da più parti. Ad esempio l'emigrazione russa in Israele è stata fondamentale per accelerare la specializzazione economica di quel Paese verso le tecnologie avanzate. Probabilmente oggi Israele non sarebbe una delle patrie mondiali dell'high tech se non ci fosse stato negli anni Novanta l'arrivo in massa di scienziati e personale altamente qualificato dall'Unione Sovietica in rovina.
Ovviamente l'impatto positivo degli immigrati altamente qualificati non è stato osservato solo nel caso russo. Un saggio uscito da poco nei working paper del National Bureau of Economic Research (Nber), dell'economista italiano Giovanni Peri (trapiantato all'Università della California a Davis) e dei suoi co-autori, Kevin Shih e Chad Sparber, dimostra come il salario e la produttività dei lavoratori qualificati e non nelle città americane sia stato, tra il 1990 e il 2010 fortemente influenzato dall'influsso di immigrati con un'elevata qualifica scientifica e tecnologica. L'influsso di questi immigrati ha permesso lo sviluppo di attività ad alta tecnologia che hanno garantito la prosperità di alcune città e non di altre. Risultato questo, in linea con i lavori più noti di un altro cervello italiano in America, Enrico Moretti (si veda il Domenicale del 29 settembre 2013) che dimostra chiaramente come la specializzazione in attività high tech abbia determinato il destino e la prosperità delle città americane.
E ancora, un altro saggio del Nber di un altro grande esperto di migrazioni, Richard Freeman, dimostra come la collaborazione tra scienziati di origini etniche diverse produca risultati molto migliori di quella tra studiosi della stessa etnia. Freeman studia oltre 2,5 milioni di paper pubblicati da autori residenti negli Stati Uniti. Nonostante le collaborazioni tra individui della stessa etnia siano più frequenti di quanto predirebbe la loro numerosità, i risultati (in termini di qualità e di impatto) delle loro pubblicazioni è inferiore. Insomma la diversità etnica migliora in modo molto significativo l'esito della ricerca.
Dunque come riconciliare questi risultati, ormai consolidati in letteratura e che continuano a essere confermati dalle pubblicazioni più recenti, con lo spiazzamento dei matematici americani indotto dai russi di Borjas?
Molto semplice. La diversità etnica favorisce la produzione scientifica attraverso due canali: la crescente eterogeneità delle idee e degli approcci e la concorrenza. I matematici americani spiazzati dai russi probabilmente non erano comunque di qualità molto elevata prima del crollo del blocco sovietico. La concorrenza dei nuovi arrivati li ha fatti uscire dal mercato. Esattamente lo stesso effetto di quando un'industria nazionale protetta si apre al commercio estero. L'aumento di produttività avviene anche attraverso la sostituzione di produttori domestici inefficienti con quelli esteri più efficienti. Gli immigrati russi hanno sì marginalizzato i loro colleghi americani, ma hanno migliorato la ricerca matematica negli Stati Uniti nel suo complesso.
E siccome la ricerca beneficia della prossimità fisica, scienziati altamente qualificati, provenienti da ogni parte del mondo, si concentrano in poche istituzioni e in poche città, che grazie a loro prosperano.
Il cerchio, insomma si chiude con una lezione anche per noi: poche istituzioni di alta qualità ma aperte a ricercatori di ogni parte del mondo.
barba @unimi.it

Il Sole Domenica 9.11.14
Paolo Conte
L'importanza di essere «Snob»
Il musicista di Asti festeggia i 40 anni di carriera con un nuovo cd, a quattro anni dal precedente. Un album riuscito, fieramente e ostinatamente controcorrente. Come lui
di Stefano Salis


«Un'amarena dal gusto rusticàn / bevi, sirena, che offre il capitàn». Questi versi irrompono nel bel mezzo di una delle canzoni del nuovo album di Paolo Conte: la canzone si intitola Maracas, il disco Snob. Rileggiamoli con calma. Sì, possiamo anche sorridere: è proprio la "tipica" espressione che si può trovare in una canzone di Paolo Conte, forse è esattamente quello che da Paolo Conte ci si attende e bastano appunto anche due soli versi per ritrovare, tutto, il suo universo: profumo d'esotismo, ricercatezza delle parole, un altrove immaginato da provincialotti, le figure dei protagonisti in un rapido bozzetto esistenziale, il sapore di qualcosa che magari è passato ma non è tuttavia immobile, anzi, l'intuizione di una storia possibile che sta per iniziare; ma c'è, anche, la tenacia del recupero di quel passato, il sapere che è grazie a questi artifici che «la classe, lo stile, il sorriso, l'onor» – elenco che viene poco dopo nella canzone – emergono, sono riconoscibili e danno traccia visibile a chi è pronto a decodificare la mappa musicale approntata per l'ascoltatore. Paolo Conte è un giocoliere della parola scritta e detta (ancora poco avanti, stessa canzone, versi con eccezionali rime in -age riferite a una città di Cuba, «mezza barocca e tutto un collage / un poco Alhambra e tanto garage, / maracas... clesidras... del ritmo mirage...»), che della crittografia ha fatto un'arte, un tessitore di armonie e tappeti sonori che pochi sanno intrecciare, un musicista dal profilo unico, dotato di un'ironia schiva e di una sapienza poetica inconfondibili. Inconfondibile: infatti – e questo è quello che cerco di dire fin dall'inizio – Paolo Conte, insomma qui e là... «paoloconteggia». E, però, lui, può ben permetterselo.
Ho seguito Conte in decine di esibizioni dal vivo, dalle afose piazze aperte della Sardegna alle sontuose arene veronesi, dalle barocche bomboniere da concerto, che so, cremonesi, ai lussi un po' délabré e molto art-deco di Parigi; ho sentito per migliaia di ore le sue canzoni, sono stato immerso così tanto tempo nelle "atmosfere" contiane e le ho così tanto amate e le amo tuttora, da poter godere, credo, nella giusta misura anche della geniale imitazione e parodia che ne fa Stefano Bollani (nell'irresistibile Copacabana; recuperatela su youtube) e da non abbattermi troppo nelle evidenti cadute di ispirazione di dischi – in particolare Elegia e Psiche – non all'altezza, a mio parere, della sua riconosciuta qualità. Ed è vero: ascoltare Paolo Conte, oggi, può essere, in qualche modo, persino scontato, se non faticoso. Per quel fenomeno che Borges descrive alla perfezione nel racconto su Pierre Menard, «autore del Chisciotte»: Conte è talmente unico – e consapevole del proprio stile – che può addirittura sembrare auto-parodistico, come nei versi che ho citato all'inizio. Ma c'è un motivo: Conte si è impadronito a tal punto di un intero repertorio emozionale (dico dal punto di vista della musica) e semantico (dal punto di vista linguistico) da sottrarlo praticamente a qualunque altro collega e, persino, spingendo all'eccesso il ragionamento, anche a sé stesso. Faccio un esempio: se in una canzone italiana sento, o metto, una parola come, che so, «tamarindo», «esitazione», «azzardo» o un sintagma come «in un sorpreso stupore» o «dimenticavo di dire che la mazurka...» o, appunto, «un'amarena dal gusto rusticàn» sono irrimediabilmente in una canzone di Paolo Conte. Penso alla pena di un collega che deve ridursi a rime scolastiche per non naufragare sul «tentativo di imitazione» ( (e il nostro (ne vanta di innumerevoli, come la sua rivista preferita) ma anche alla difficoltà che Conte (si è (crea to ( da s é ( medesimo (: non ripetersi, ma non cambiare ; ( essere s é ( stesso ma non sempre nello stesso modo.
Inconfondibile e inimitabile, dunque, (Conte, rischia davvero di dover strappare un sorriso di tregua (per sé e l'ascoltatore) (a ogni accordo di una nuova canzone. Non solo: i suoi ammiratori, poi, ci mettono del loro, (fa nno ( confronti (l'ho fatto anch'io, qualche riga fa) (. Il Paolo Conte di oggi non è – ( non può essere –, tolti i mugolii sottovoce, le labbra che fanno il verso all'aeroplano e l'uso sapiente del kazoo, tutte specialità della casa, (quello dei gelati al limon e delle cravatte sbagliate sotto le stelle del jazz (. Eppure è Conte ; ( e in questo Snob è pure un Conte doc: (siamo di front e ( a uno smagliante 77enne, tornato ai livelli di ispirazione, di qualità, sonora e poetica (va (ripetuta, nel suo caso, l'endiadi) che forse era un po' in calo (, almeno in disco, dai tempi, appunto, di Aguaplano, uno dei vertici altissimi (della sua carriera (nei concerti è diverso: eccellente musicista, ha rinverdito i fasti di sue canzoni, resuscitandole a nuova vita , ( diverse volte , (in questi anni (). C'è del gigioneggiamento in Snob (, di sicuro, o forse è solo gran "mestiere", altissimo (artigianato musicale, esperienza da vendere, ( che consente sbagli da professionisti e certezze da giganti della musica, non solo italiana, visto l'imperterrito successo che gli viene tributato nei teatri di mezza Europa.
Ma questo Snob è un disco che infila una collana di canzoni-perla che non sfigura davanti alle più celebri (detto di passata: uno come Conte ha al suo attivo una quantità di capolavori imbarazzante che a molti inibirebbe la prosecuzione; e chissà quanti avrebbero tirato su una carriera intera solo per avere scritto, per dire, Via con me; lui ci ha aggiunto Impermeabili, Mocambi, Milonghe, Diavoli Rossi e rêverie varie...). Giocando, anzi, con lo stile degli anni d'oro: un brano come Tutti a casa, di struggente bellezza, potrebbe essere benissimo degli anni 70; Ballerina echeggia davvero accordi del suo successo più noto, cibum-cibum-bum. Ma c'è ancora qualcosa di più, che forse è la cosa più importante: Snob "costringe" a un esercizio di ascolto. Bisogna sentire e ri-sentire questo disco, prima di coglierne tutti i baluginii che manda. I toni di un pianoforte più scuro e meditato di altre volte, le allegrie perplesse di alcuni brani, i tocchi elettrici e vellutati che sottolineano ritmi da scoprire pian piano. Conte sembra voler ribadire che – fatta la tara degli inevitabili esotismi, cliché, afriche in giardino, malinconie argentine e caffè bevuti all'impronta – è solo l'ascolto slow ad avere valore. È un disco contro il tritacarne della istantaneità contemporanea, che non si abitua alla vacua luminescenza di un tweet, che non si rassegna alla superficialità (che pure è un valore, quando sia debitamente considerato) di chi richiede prodotti cotti e mangiati, ivi comprese le recensioni sbrigative all'insegna del «sì, già visto, già sentito, archiviato, passiamo ad altro». No. Bisogna, qui, dare tempo al tempo e tempo alla musica: essere snob non significa solo rifiutare le mode, significa essere in grado di dettarle; significa essere capaci di giocare su tempi lunghi e orizzonti ampi, significa non allinearsi con quel che passa il convento culturale, significa lasciar passare la mediocrità, significa puntare al bello e all'effetto che fa. Questo disco, alla fine, è una continuazione di ciò che Paolo Conte ha insegnato in 40 anni di onorata carriera: inutile rincorrere l'effimero per stare ben piantati sui propri piedi, percorrere, magari in splendida solitudine, la strada che ci si è prefissi, tracciandola passo dopo passo, costruendo mondi e geografie immaginarie che sono sì esclusive eppure capaci di arrivare a tutti, rifiutarsi di credere nelle epoche o nelle date, non considerare nulla troppo esoterico per non trarne ispirazione e restituirlo sotto forma di sogno realizzato. E Conte è esattamente questo: non si può essere diversi da quel che si è, a costo di sfiorare la maniera. Ma c'è maniera solo se c'è stata (e tanta!) sostanza. L'arcobaleno di colori che ha disegnato Conte, oggi, è arricchito di una sfumatura e noi siamo fortunati ad aver potuto contemplare il suo quadro, nei toni accesi e nelle pennellate grigie. Aggiungiamo perciò volentieri un'amarena rusticana alla nostra acqua al tamarindo o all'aranciata che beviamo, da anni, alla salute del Maestro di Asti mentre, controluce, tutto il tempo se ne va. Dopo tutto, il jazz, la musica, la sua musica, Monsieur Paolo Conte, è sempre stato «un sogno fortissimo».

Il Sole Domenica 9.11.14
Ciò che sta prima del suono
di Arnaldo Benini


Il silenzio si sente. Mentre tutti gli altri organi di senso trasmettono alla coscienza la presenza di un evento fisico (un odore, la temperatura, un sapore, un colore, ecc.) l'udito trasmette non solo i suoni, cioè le vibrazioni dell'aria, ma anche la loro assenza. Il silenzio non è un'assenza, come l'inattesa mancanza di profumo di un fiore, ma una presenza carica spesso di significati e di emozioni. Presenza di che cosa, se nulla stimola il complesso e sensibilissimo meccanismo uditivo? Già diversi anni fa si è visto che l'attività elettrica della corteccia cerebrale uditiva dei lobi temporali cambia, ma non cessa, se la stimolazione proveniente dalle orecchie s'interrompe. Il silenzio è sentito, e non visto, annusato o toccato, perché esso è dovuto a un campo elettrico delle aree della sensibilità acustica, stimolate, sembra, dagli strati superficiali della corteccia della parte dorsale della fessura di Silvio, dalla corteccia parietale e di quella temporale. La stimolazione è costante, per cui, non avendo né timbro né voce, il silenzio, a differenza del suono, non cambia mai. Ancora non chiaro è il movente della stimolazione. La corteccia cerebrale dei lobi parietali e temporali è collegata ampiamente ai centri della memoria e dell'affettività, e quindi della paura, della gioia, della dolcezza, della tranquillità, del desiderio, della speranza, dello sconforto, del rimorso, della rassegnazione, della malinconia, dell'impazienza, degli stati d'animo, cioè, che possono emergere nel silenzio. Il silenzio, diceva Leopardi, «è il linguaggio di tutte le forti passioni, dell'amore, dell'ira, della maraviglia, del timore» e Robert Musil trovava che nel silenzio «del mare d'estate e dell'alta montagna in autunno v'è una musica più alta d'ogni altra musica terrena». Il silenzio si tinge degli stati d'animo e delle sfumature della vita. La fenomenologia del silenzio è parte stabile e strutturata dei meccanismi della conoscenza, cioè del rapporto col mondo e con la nostra interiorità. Di molti aspetti della percezione del silenzio, e non solo del suo ruolo fondamentale nella musica («il silenzio in musica è stato un mistero che mi ha sempre attratto»), il violoncellista di statura internazionale Mario Brunello fa una descrizione di grande acutezza e sensibilità. «La sensazione provata alla fine di ogni esecuzione» scrive «è non rimane altro che il silenzio». In alcuni eventi musicali ciò determina l'emozione della musica in una misura e con una qualità altrimenti inimmaginabili. Nel libro ci sono osservazioni acute, sorprendenti e vere. Ad esempio, che in alta montagna il silenzio è verticale, mentre nel deserto è orizzontale. Ciò richiama la differenza fra la profonda e serena percezione del silenzio in chiese paleocristiane, romaniche e gotiche da quella in cattedrali barocche, dove, a volte, il silenzio non si riesce a sentire. Non è sempre facile seguire la guida di Brunello nelle sue esperienze del silenzio, perché la trafila delle emozioni è diversa da persona a persona. La sua elaborata analisi delle emozioni del silenzio è una conferma dei meccanismi cerebrali che l'evoluzione ha selezionato per la loro capacità di contribuire alla coscienza del senso della vita.
ajb@bluewin.ch
Mario Brunello, Silenzio, il Mulino, Bologna, pagg.118, €11,00

Il Sole Domenica 9.11.14
Giulio Tononi
Viaggio fino all'anima
Discussioni tra artisti e scienziati, analisi e sogni: il libro dello neuropsichiatra Tononi, «Phi», è una miniera di spunti
di Antonio Pascale


Ho compiuto un meraviglioso viaggio onirico, e a tratti, sì, lisergico. Ho visto (toccato) negli anfratti celebrali, le ombre, la luce e i colori, e incredibile, ho costruito un'idea di buio, come, attraverso quali strutture (forse) si definisce. Ho camminato sulle strade lastricate di neuroni malati, invecchiati, inutili e che si consumano, muoiono, inesorabilmente e mi sono sentito demente, afflitto, disorientato. A un certo punto il mio cranio è stato diviso in due e sono diventato Ant e Onio e ho scoperto che Ant vedeva e interpretava le cose in modo diverso da Onio – com'è sottile la linea che delimita la nostra identità, le fedi, le convinzioni, le ragioni e le giustificazioni. E non è finita, sono risorto più volte e ho osservato (toccato) strane immagini coloratissime, e splendidi quadri e statue, macchine complesse. Ho assistito a discussioni civili e argute tra filosofi, biologi, fisici, artisti, pittori,scultori, inquisitori e cardinali e a pagina 236 è apparso Kafka con il suo dolore perfetto. Ho capito che l'autore voleva farmi scoprire stati diversi di coscienza, per provare a scomporla, poi montarla, descriverla, definirla e soprattutto misurarla. Ho viaggiato nel cervello, con lo scopo di scandagliare, bene e a fondo, la coscienza. A conti fatti, per suggestione e intensità, per accumulo di immagini e qualia – e vuoi per la capacità dell'autore di dominare molti aspetti della cultura e integrare vari linguaggi – il viaggio mi ha ricordato l'istallazione The Refusal of Time, di William Kentridge.
Eppure sono solo pagine di carta, si tratta di un libro, PHI, un viaggio dal cervello all'anima (Codice Edizioni), di Giulio Tononi, neuroscienziato e psichiatra, uno strano libro con una solida quanto eccentrica base narrativa, e durante la lettura, più volte, mi sono chiesto: chissà se l'editore vorrà portarlo allo Strega (certo è un investimento considerevole e tuttavia sarebbe una seria operazione culturale), e chissà se un regista visionario, un produttore sensibile abbia voglia di realizzare un film, un documentario, che importa il genere. Perché il tentativo di PHI è rispondere, usando vari strumenti culturali (che uniti e integrati scavalcano, e per fortuna, il genere), alle nostre amate ma bistrattate domande: la ricerca degli universali di specie.
Non chi siamo, ma come ci siamo evoluti e come siamo arrivati fin qui, come pensiamo quello che pensiamo, gli errori, i bias e le visioni e le paure, la morte, soprattutto quella, insomma: «Ora il suo era un cervello anziano, grigio come grig
i erano i suoi capelli. Che fine avrebbe fatto il suo mondo quando il suo cervello fosse stato sepolto? E quando nel cranio la luce si fosse spenta, le tenebre si sarebbero portate via anche i suoi amici, la casa, il paese? I ricordi perduti per sempre? Svanite ogni persona e ogni cosa? Tutto svanito? Se tutto nasce ed è sepolto in una qualche parte del cervello, allora quando il cervello muore, l'intero universo si dissolve?». L'uomo che cerca risposte è Galileo Galilei, ritratto all'inizio del libro, in una sorta di esperienza di premorte (forse) o un sogno confuso. Fatto sta che in questo modo conosciamo il nostro protagonista, Galileo Galilei, appunto, il viaggiatore (e nostro accompagnatore) che come in una divina commedia rivisitata, in compagnia di Francis Crick, di Alan Turing e Charles Darwin, cercherà di scalare il nostro cervello, dall'inferno oscuro e febbricitante dei singoli neuroni, fino al paradiso, alla ricerca della luce. Galileo in queste prime pagine si mostra debole e preoccupato, avvilito: sa che la coscienza scaturisce dalla materia del cervello, sì, ma come? Non lo sa, e nemmeno noi: in fondo, la nostra ignoranza è il motivo del cammino. Tutto il libro è il racconto di un viaggio fluttuante, hai costantemente l'impressione di essere altro da te. Vero, si tratta di un testo con una solida matrice scientifica, e questo dovrebbe tenerti ancorato ai fatti. Tuttavia non è paper pronto per la pubblicazione in una rivista specializzata, è chiaro l'intento divulgativo.
Dunque Tononi sceglie un escamotage: usare uno stile alto, lirico, un po' fuori dal tempo (ma si tratta di un viaggio nella coscienza, dunque con un proprio particolare tempo) che contribuisce a disorientarti e più lo sei, più facilmente ti fai condurre, stabilisci un patto con il tuo compagno di viaggio e così finisci, subito e facilmente, dentro un mondo imprevedibile (non sai mai cosa ti aspetta nel capitolo successivo, e quanto sono belli i libri così, dove non ci sono pistole che per forza dovranno sparare), nel quale è facile incontrare Leibniz e Copernico e Kafka, pittori ciechi, e una miriade di personaggi comuni, e tutti cercano di aggiungere un dettaglio, un punto di vista, una spiegazione sul funzionamento della coscienza – in realtà Tononi con questo escamotage passa in rassegna l'intero stato dell'arte sulla fenomenologia della coscienza, quello umanistico e quello scientifico. Non solo, nel testo sono inserite immagini di quadri, sculture,pagine bianche e nere e celesti, foto di meravigliosi cieli stellati e altro (non voglio nemmeno pensare a quanto sarà costata la stampa) e dunque da una parte segui Galileo nel suo procedere, di incontro in incontro, dal cervelletto alla corteccia prefrontale, dall'altra ti incanti – e la mente vaga davanti ai colori, ai ritratti, alle sculture, a quanto di meglio il nostro ingegno ha prodotto – per eccesso di bellezza, rischi il viaggio lisergico. Rivedi tutto sotto una nuova luce: che poi è anche un diverso ed efficace modo per far critica letteraria o artistica.
E per questo il viaggio è onirico, la percezione si allarga, e sfiori PHI: «ciò che sappiamo è ciò che sogniamo, ciò che sogniamo è ciò che possiamo sapere, il mondo può essere immaginato all'interno, non visto nudo dall'esterno, eppure senza il bagliore della coscienza non ci sarebbe vista: ciò che dobbiamo fare è cercare la luce, la luce che unifica».

Giulio Tononi, PHI. Un viaggio dal cervello all'anima, Codice Edizioni, Torino, pagg. 366, € 35,00