lunedì 10 novembre 2014

Repubblica 10.11.14
Da Aristotele a Orwell tutta la nostra parte bestiale
Se per la concezione cristiana siamo agnelli, secondo Hobbes diventiamo lupi e solo una belva più feroce riesce a proteggerci
Perché, tra filosofia e letteratura, non possiamo ancora fare a meno di paragonarci agli animali
di Roberto Esposito

SE C’È una questione della quale non siamo mai venuti a capo è quella dell’animale. Eppure è quella che forse più di ogni altra dovrebbe riguardarci, dal momento che noi stessi siamo animali. Per giunta politici, come ha per primo spiegato Aristotele. Ciò su cui abbiamo invece centrato l’attenzione è la nostra superiorità di specie. Chiederci se l’animale parla, pensa o soffre, lo pone nella nostra prospettiva, fissandolo alla sua mancanza rispetto a quanto noi invece abbiamo. Mentre noi siamo nella storia, che possiamo mutare, egli resta inchiodato ad un ambiente naturale che non può eccedere. Perciò l’animale vive, ma non esiste; crepa, ma non muore, come ritiene Heidegger affermando che è “povero di mondo”, rispetto a noi che, soli tra le specie viventi, ne siamo costruttori.
Questi interrogativi, già posti in un memorabile libro di Derrida, L’animale che dunque sono, curato da Gianfranco Dalmasso per Jaca Book, tornano adesso in tre saggi recenti. Il primo è di Felice Cimatti, Filosofia dell’animalità ( Laterza), dove tale genitivo è situato sul margine che allo stesso tempo ci assimila e ci distingue dalla nostra alterità. La cecità sull’animale è una cecità su noi stessi. Mentre lo imprigiona nel nostro sguardo, ci impedisce di cogliere ciò che davvero siamo, la nostra medesima forma di vita. La distanza metafisica che poniamo tra noi e lui è la stessa che incidiamo in noi stessi, separandoci dalla nostra parte corporea. L’esito di questa “macchina antropogenica” è l’abisso scavato nei confronti del mondo animale. Ma anche la rinuncia alla corporeità, relegata in una condizione inferiore e sottomessa alla nostra parte propriamente personale. Tale esclusione non ha solo un rilievo filosofico ed etico. Essa ha sempre esercitato un potente effetto biopolitico, o zoopolitico, come lo definisce Bruno Accarino in Zoologia politica. Favole, mostri, macchine ( Mimesis). L’infinita differenza di rango tra uomo ed animale è sempre servita a discriminare alcune tipologie umane, assimilate ad animali, per schiacciarle in una condizione subalterna. Di procedure di bestializzazione dell’uomo ne abbiamo conosciute tante. Schiavi, barbari, selvaggi, sono tutte stazioni di un unico percorso che ha costruito il potere di alcuni uomini su altri, ridotti a og- getto di asservimento, deportazione, sterminio. Le stesse metafore animali, di cui è piena la nostra tradizione culturale, sono state usate, e rovesciate, in relazione agli scopi di volta in volta prefissi. Così la favola di La Fontaine del lupo e dell’agnello è stata di continuo riscritta spostando la linea di separazione tra i due protagonisti. Se per la concezione cristiana gli uomini possono diventare tutti agnelli, sottomessi alla cura del pastore di anime, per Hobbes, sono tutti lupi, tanto che, per proteggerli, è necessario convocare un altro, più minaccioso, animale, il mitico Leviatano.
Se la tradizione umanistica istituisce un limite insuperabile tra storia umana e natura animale, già con Cartesio le bestie vengono considerate macchine viventi, destinate al servizio dell’uomo. Ma tale prospettiva escludente sul mondo animale non ha mai potuto del tutto cancellare un altro sguardo, più profondo, capace di cogliere nella differenza un elemento comune. Ciò consente non solo un’animalizzazione dell’uomo, ma anche un’umanizzazione dell’animale. Basti pensare al Centauro di Machiavelli, ai cavalli di Leonardo o, in ambito letterario, all’assimilazione fatale che unisce il destino di Achab a quello della balena in Moby Dick.
L’immagine dell’animale, insomma, volta a definire la nostra identità per contrasto, non ha mai cessato di insidiarla. Tanto più quando non corrisponde a una singola bestia, ma a un insieme indistinto come una mandria, un branco, uno sciame. Allora l’animale, più che rassicurarci con la sua diversità, c’inquieta ed ossessiona. Si pensi al film Gli uccelli di Hitchcock, quando il loro improvviso e malefico turbinio invade lo schermo, lacerando la visione. Esso, prima ancora che impaurirci, crea un disturbo nel nostro apparato percettivo, mettendolo a contatto con qualcosa d’incomprensibile. È un’esperienza non lontana dall’inquietudine che l’avvento della società di massa ha prodotto in un mondo politico ancora governato da logiche elitarie. E del resto non corre un rischio del genere perfino la democrazia, quando prevale un’indifferenziata spinta populista? Era quanto sosteneva Nietzsche paragonando, da un punto di vista aristocratico, la democrazia a un gregge che richiede di essere guidato da capi superiori. Anche se La fattoria degli animali di Orwell rappresenta, più giustamente, una metafora del mondo totalitario.
Ma se non possiamo disfarci della nostra parte animale, se perfino la nostra organizzazione politica ne risulta coinvolta, tanto vale assumerne, oltre i rischi, anche le potenziali risorse. È quanto appunto ci suggerisce nel suo libro, Epifania animale. L’oltreuomo come rivelazione (Mimesis), Roberto Marchesini. Egli auspica un doppio movimento. Di immedesimazione, in ragione della radice comune che ci lega all’animale. E di distanziamento, quale riconoscimento della sua specifica identità. L’animale non è l’abisso ancestrale da cui proveniamo e da cui dobbiamo violentemente strapparci, ma ciò che anche, da sempre, siamo. Non la sagoma minacciosa che ci guarda dal fondo del passato, ma il profilo imprevedibile che si delinea nel nostro futuro. Oggi, nel regime biopolitico che tutti viviamo, l’antica formula aristotelica va ripensata in senso postmetafisico. Essere animali politici significa che ciò che è in gioco nella politica è la stessa vita biologica: la nascita, la morte, la salute, il lavoro, la migrazione saranno sempre più al centro di ogni relazione e di ogni conflitto politico.

Corriere 10.11.14
«Se fossi Renzi», la serie web del Terzo Segreto di Satira
Da oggi su Corriere.it le ricette per uscire dalla crisi: siamo tutti premier
di Chiara Maffioletti

MILANO Sì, è vero, l’Italia è piena di problemi. E forse è proprio per l’abbondanza di scelta che quasi ognuno di noi è convinto di avere pronta la soluzione. La frase che dà il via libera al risultato di tanti ragionamenti è: «Se fossi Renzi...».
E «Se fossi Renzi» è anche il titolo della nuova serie (nella foto a destra) che Il Terzo Segreto di Satira ha realizzato in esclusiva per Corriere.it online da oggi, ogni lunedì e giovedì: 12 puntate, 12 soluzioni. A raccontarle, persone che ci sembra di aver già incontrato altre mille volte per quanto familiari suonano le loro teorie. Potrebbero essere il nostro collega, il tizio che si incrocia sempre al bar, nostro cugino, l’amico di sempre. Ogni volta, gli attori (bravissimi) del gruppo satirico nato a Milano interpretano uno di loro. In una puntata c’è il ragazzo che vive ancora con i genitori, «disoccupato da tempo, non certo per colpa mia», che se fosse Renzi saprebbe benissimo come riformare il mercato del lavoro, partendo dalle pensioni. Lo spiega guardando dr in camera: «Mettiamo che tutti noi dobbiamo lavorare quarant’anni: se fossi Renzi lascerei decidere al lavoratore quali quarant’anni lavorare».
E subito dopo parte l’intervista al «centauro fancazzista» che ha scelto di lavorare dai 50 ai 90: «Perché a 50 anni la vita te la sei fatta e, soprattutto, a 50 anni hai sicuramente famiglia per cui è molto meglio passare più tempo fuori che in casa». La soluzione, proprio come spesso accade, è a prova di obiezione. In questo caso, il problema potrebbe essere se uno muore prima di aver lavorato i 40 anni previsti. Come coprire il buco? Facile: «Basta aggiungere un codicillo: se non hai lavorato gli anni che devi, quello che manca ricadrà sui tuoi figli». E nel filmato appare un bimbo di 10 anni, carpentiere specializzato, che spiega: «Beh mio padre ha voluto fare il brillante, ha deciso di iniziare a lavorare a 50 anni ma è morto a 70 così io devo colmare i 20 anni che ha lasciato. Per portarmi avanti ho deciso di partire adesso».
Pochi minuti che divertono mostrando lo sport preferito da tutti quegli italiani che si improvvisano statisti e che sanno come risolvere il problema pensioni. Sanno far funzionare il Jobs act e anche procedere con la riduzione del numero delle Regioni. Come? Tagliando il Molise.

La Stampa 10.11.14
“Anche gli animali vanno in Paradiso”
Un parroco del torinese porta sull’altare cani, gatti e pesciolini
di Massimo Massenzio
qui

Repubblica 10.11.14
Il vescovo sfida il diktat del Vaticano “Sì a Medjugorje”
Invitata a Palestrina la più celebre veggente mariana Mille Fedeli nonostante il divieto del capo dell’ex Sant’Uffizio
di Marco Ansaldo

CITTÀ DEL VATICANO «Ecco, la Madonna di Medjugorje mi ha parlato. Dice che ha tutti noi nel cuore, che vuole la pace nel mondo, che dobbiamo pregare. Alcune cose, però, non le posso dire, perché sono fra me e lei. Ma comunque farà altre apparizioni».
C’è chi applaude, chi sviene, chi si indigna. Sono le 17,50 di domenica sul piazzale davanti alla chiesa del Gesù Redentore, a Palestrina, nemmeno un’ora di strada da Roma. E la veggente di Medjugorje, Vicka Ivankovic, considerata come la “prima” (perché ci sono altri 5 intermediari), si è appena rialzata dal colloquio in ginocchio che sostiene di avere avuto, per 10 minuti, davanti a più di 1.000 persone, malati in carrozzina compresi, con la statua della Madonna. L’invito è stato fatto dal vescovo di Palestrina, monsignor Domenico Sigalini. Eppure c’è un divieto esplicito del Vaticano. Uno stop a questo tipo di incontri che, su ispirazione di Papa Francesco, proviene nientemeno che dall’ex Sant’Uffizio, cioè la Congregazione per la Dottrina della Fede.
Nessuno partecipi a «riunioni, conferenze o pubbliche celebrazioni » in cui venga data per certa e acclarata la credibilità delle apparizioni della Madonna a Medjugorje, si legge in una disposizione firmata dal Prefetto del dicastero, il cardinale tedesco Gerhard Ludwig Müller, attraverso una lettera già spedita nel 2013 dal nunzio degli Stati Uniti, monsignor Carlo Maria Viganò, ai vescovi americani, dove i tour delle apparizioni sono divenuti per la Santa Sede fonte di imbarazzo. Soprattutto da quando il Vaticano ha istituito sul caso Medjugorje una commissione internazionale di indagine presieduta da un cardinale del calibro di Camillo Ruini. Lettera ripetu- da Müller il 22 ottobre scorso ai vescovi di alcune diocesi laziali.
Così c’è chi, nell’attesa dello sbarco di Vicka, si è strettamente attenuto alle norme vaticane, come il vescovo di Anagni, monsignor Lorenzo Loppa, che a Fiuggi non ha permesso l’incontro della veggente con i fedeli delle apparizioni mariane. E chi come Sigalini manifesta orientamenti diversi non solo dal Vaticano, ma anche dalla maggioranza dei fedeli della diocesi Suburbicaria di Palestrina. «Io a quell’incontro ci vado — aveva preannunciato alla rivista “Medjugorje” — perché la mia gente prega così, indipendentemente dalla soprannaturalità riconosciuta al fenomeno di Medjugorje». Un caso capace di generare, in due luoghi confinanti, due comportamenti opposti di fronte al medesimo fatto religioso.
Con incroci singolari. Alle apparizioni di Medjugorje è ad esempio attento l’arcivescovo di Vienna, cardinale Christoph Schönborn, che vorrebbe ospitare a gennaio, nella cattedrale di Santo Stefano, un raduno con un altro dei veggenti, Ivan Dragicevic. E su un caso così spinoso e controverso si trovano contrapposti, ma in senso contrario rispetto agli schieramenti visti al recente Sinodo dei vescovi nella battaglia fra riformisti e conservatori, Müller da una parte, e Schönborn dall’altra.
Quello di ieri è uno dei numerosi incontri di preghiera che periodicamente si tengono in Italia ai quali partecipano migliaia di devoti delle apparizioni mariane. La Chiesa, pur manifestando dubbi sempre più evidenti, non si è ancora pronunciata in modo esplicito. Dopo 3 anni di lavoro, voluti da Benedetto XVI, la Commissione di studio presieduta dal cardinale Ruini ha consegnato le sue conclusioni alla Dottrina della fede, che tuttavia non le ha ancora diffuse.
Al raduno di Palestrina, nella piazza della Chiesa, c’erano più di 1.000 posti a sedere, per un ticket di 10 euro a testa, necessario secondo gli organizzatori a pagare le spese, con l’eventuale resto devoluto a Medjugorje. Durante l’incontro Vicka Ivankovic parlava in croato e veniva tradotta, lanciando baci e sostenendo di avere visitato l’inferno e il paradiso. «Come cattolici — commentavano alcune delle persone in piazza — siamo un po’ indignati per l’appoggio che la diocesi dà a questo tipo di fenomeni».

Corriere 10.11.14
Mogherini ad Amman «Uno Stato per i palestinesi»
È arrivata ieri ad Amman Federica Mogherini, Alto rappresentante dell’Ue per gli Affari esteri e la sicurezza, e, dopo il loro incontro, ha lasciato un pensiero sul libro dei visitatori davanti allo sguardo divertito del ministro degli Esteri giordano Nasser Judeh. Il capo della diplomazia europea ha rilanciato con forza l’azione Ue per il riavvio a breve del processo di pace in Medio Oriente nel quadro della soluzione a 2 nazioni e di Gerusalemme capitale di due Stati, con l’obiettivo «della nascita di uno Stato palestinese». Mogherini lo ha ripetuto alla leadership israeliana e palestinese visitando Israele, Gaza e la Cisgiordania. E, nell’urgenza di concretizzare questo disegno, è arrivata ad Amman dov’è previsto l’incontro con re Abdallah: sul tavolo le tensioni in atto nella zona, a cominciare da Gerusalemme. Mogherini ha più volte sottolineato il principio di fondo di questa sua prima missione, a una settimana dalla nomina come ministro Ue: «Dobbiamo continuare verso questa soluzione, altrimenti si rischia il ritorno della violenza». (Reuters)

La Stampa 10.11.14
Legge elettorale verso il rinvio
Renzi ritira l’aut aut a Berlusconi. E l’Italicum slitta alla primavera 2015
Per Renzi il leader di Forza Italia resta l’alleato «giusto» per fare le riforme
di Fabio Martini

A dispetto delle ultime turbolenze Matteo Renzi non ha cambiato idea: Silvio Berlusconi resta l’alleato “giusto” per fare le riforme istituzionali e per questo motivo, pur ripetendo ai suoi che «non si può perdere tempo, siamo all’ultimo sprint, entro Natale dobbiamo portare la riforma elettorale in aula», proprio dagli sherpa di Forza Italia trapela una possibile novità: nelle prossime ore il presidente del Consiglio potrebbe prendere atto che serve ancora un po’ di tempo per confezionare la riforma elettorale. Un messaggio che servirebbe a tranquillizzare alleati e avversari.
In altre parole Renzi, dicendolo stasera al vertice di maggioranza o accettando un’agenda parlamentare meno serrata, prenderebbe atto che la legge elettorale può prendere la luce nelle prime settimane della primavera 2015. Se così fosse, maturerebbe una grossa novità, destinata a stemperare tante tensioni. Ma intanto, per tenere alta la temperatura, Renzi ieri sera ha fatto trapelare: «Io voglio lavorare insieme, ma se Forza Italia si tirasse fuori, in Parlamento i numeri ci sono».
Da quando, 9 mesi fa, si è “preso” Palazzo Chigi, convincendo il Pd e il Capo dello Stato, Matteo Renzi sa di essere arrivato al primo tornante decisivo: riuscire a portare a casa la chiave che può schiudergli il futuro: la riforma elettorale. Se per davvero, nei primi mesi del 2015, il governo dovesse riuscire ad approvarla, a quel punto Renzi sarebbe politicamente molto più forte, perché dotato della più forte delle armi deterrenti: la minaccia, in qualsiasi momento, per poter sciogliere le Camere.
Certo, l’Italicum, nella sua veste attuale e futura, vale soltanto per la Camera e dunque per il Senato si voterebbe con una legge proporzionale, che renderebbe monca una eventuale vittoria elettorale di Renzi, o anche di uno schieramento alternativo. Nei giorni scorsi si era sentito parlare di una (eventualissima) leggina ad hoc, da approvare prima delle elezioni e valida soltanto per il Senato, ma si tratta di un escamotage “acrobatico” e prematuro rispetto ad un quadro che resta complesso.
Come confermato dai concetti espressi da Silvio Berlusconi alla “Stampa”: è Renzi ad aver cambiato le carte in tavola, passando dal premio alla coalizione a quello alla lista e comunque il Cavaliere non crede alle promesse del premier di non volere elezioni anticipate. Una messa a punto che non deve aver lasciato insensibile Renzi. Questa sera alle 21 il premier se la vedrà, nel vertice di maggioranza, con il suo principale alleato, il Nuovo Centro Destra di Alfano, che si gioca la sua sopravvivenza futura sulla soglia di accesso al Parlamento per le forze politiche che decidessero di non entrare in uno dei “listoni” dei partiti principali. Questa sera l’Ncd di Alfano e l’Udc di Cesa e Casini (alla vigilia di una fusione tra i due partiti) si batteranno per tenere la soglia la più bassa possibile rispetto all’8 per cento dell’Italicum originario, quelle delle coalizioni.
Ma in queste ore tiene banco la questione delle possibili dimissioni a fine anno del Capo dello Stato. Una prospettiva che ha ovviamente incoraggiato i mass media ad imbastire improbabili toto-Presidente. Graziano Delrio, durante “L’intervista” a Maria Latella su Skytg24, ha spiegato che il patto del Nazareno riguarda le riforme e non il Colle, concetto ribadito da Maria Elena Boschi. Quale sia l’accordo segreto sul Quirinale, lo sanno soltanto Renzi e Berlusconi, intanto il presidente del Consiglio tiene a ribadire «la massima riconoscenza per Napolitano» del quale si apprezza la nota di ieri, che ha «stoppato illazioni e scenari».
Sul Jobs Act l’obiettivo di Renzi è quello di chiudere entro l’anno e anche l’atteggiamento verso la Cgil resta immutato: «Opposizione a prescindere». Anche se a Palazzo Chigi non è sfuggito che negli ultimi giorni il fronte sindacale, con Cisl e Uil in piazza, non è più presidiato soltanto da Susanna Camusso.

Corriere 10.11.14
Renzi esclude il voto anticipato
«Alla fine il Cavaliere dirà di sì»
di Marco Galluzzo

ROMA «Vedrete che alla fine Berlusconi dirà di sì». Matteo Renzi non appare spiazzato da uno scenario che già conosceva, l’uscita di scena di Napolitano a fine anno. Resta convinto che sia questione di ore, o di giorni, ma alla fine si riuscirà ad incardinare la legge elettorale al Senato in modo da avere un voto prima della fine dell’anno.
Se in Forza Italia leggono le cose in modo diverso, convinti che il premier non ha più la minaccia delle elezioni anticipate visto che il Parlamento dovrà occuparsi da gennaio dell’elezione del nuovo capo dello Stato, a Palazzo Chigi tengono ferma la linea degli ultimi giorni: martedì prossimo si comincia in prima commissione a Palazzo Madama, il capo del governo dice agli alleati che alla fine il Cavaliere sarà della partita, e che riuscirà persino a trovare una sintesi fra il Nuovo centrodestra di Alfano e le richieste di Forza Italia. «Noi andiamo avanti con le riforme, con urgenza e determinazione sapendo che l’orizzonte del governo è quello dei mille giorni, del 2018», ha fatto sapere ieri pomeriggio il premier, sottolineando il ruolo di presidio e garanzia di Napolitano e smentendo di puntare ad elezioni anticipate, o di voler strappare un’accelerazione al Cavaliere per questo motivo. Lasciando poi al sottosegretario Delrio la definizione più completa della sua posizione: «Il Matteo Renzi che conosco io vuole governare il Paese e aiutarlo ad uscire da problemi gravissimi, non vuole andare a votare, finché il Parlamento ci darà la fiducia e avremo i numeri per farlo staremo fortemente attaccati non alle nostre poltrone ma ai bisogni del Paese».
Contatti diretti con Berlusconi non ce ne sono stati, almeno sino ad ieri all’ora di cena. Renzi voleva una telefonata che arrivasse prima di oggi. È probabile che l’ex premier abbia deciso di non muovere un dito anche per ragioni di orgoglio: se poi il patto del Nazareno sia ancora in piedi, da registrare con nuovi incontri o sia prossimo allo scioglimento, saranno i prossimi giorni a dirlo, quando inizierà la discussione sulla nuova legge elettorale in Senato. Intanto stasera si terrà il vertice di maggioranza con il partito di Alfano.
La nota di ieri del Colle è stata accolta positivamente: il premier conosceva la decisione della prima carica dello Stato, è soddisfatto che sia stata fatta chiarezza e che si siano in qualche modo fermate, attraverso le precisazioni di Napolitano, illazioni e suggestioni. Che al momento, si affrettano a rimarcare nel governo, non entrano e non incrociano il percorso delle riforme. E se Berlusconi sostiene il contrario, intravede un Renzi indebolito, a Palazzo Chigi non legano le cose.
Del resto il capo del governo è convinto che non ci siano alternative ad un calendario che preveda un nuovo voto sulla legge elettorale entro la fine dell’anno, si mostra sicuro di riuscire ad andare avanti, se sarà il caso, «anche senza Forza Italia». Resta l’obiettivo di un Jobs act rivendicato come «di sinistra», che sia vigente «dal primo gennaio», mentre l’apposizione della fiducia parlamentare arriverà «solo se necessario». E non allarma nemmeno lo scontro che non scema con la Cgil, «opposizione a prescindere», la chiama il premier.
Una confidenza complessiva che ha riflessi anche sull’agenda internazionale: prima di partecipare al G20 di Brisbane, in Australia, nel fine settimana, Renzi farà una tappa a Bucarest, per dare una mano al collega socialista Victor Ponta e rafforzare il fronte europeo anti austerity. Per la stessa ragione ha accettato l’invito di partecipare al congresso del Ps portoghese, su invito del nuovo leader, António Costa.

La Stampa 10.11.14
Silvio e la sinistra, l’accordo impossibile
Torna il valzer del grande patto
Ma in vent’anni, solo grandi flop
Dalla visita di D’Alema a Cologno Monzese agli ammiccamenti tra Silvio e Veltroni. A caccia di un’impossibile alleanza
di Mattia Feltri

Si direbbe che risuccede e, se risuccede, avremo una nuova fertile stagione di retroscena incaricati di scoprire chi ha fatto saltare tutto: Silvio Berlusconi o Matteo Renzi?
Perché a distanza di diciassette anni e qualche mese ancora non si è stabilito se a far saltare tutto - nella Bicamerale del 1997 - fosse stato il medesimo Berlusconi (indiziatissimo) oppure l’interlocutore del momento, Massimo D’Alema. La Seconda repubblica era cominciata da tre anni soltanto ma già non se ne poteva più del tafferuglio quotidiano, e già si avvertiva, soprattutto, la necessità di ammodernare le istituzioni, passate a nuova vita esclusivamente per la riforma della legge elettorale: il bipolarismo era sbocciato con l’introduzione del sistema maggioritario. Le comari si erano tese la mano per il supremo interesse della pacificazione e della modernizzazione, e il capo del centrodestra era molto fiero dell’acrobazia linguistica con cui aveva gratificato il (semi) capo del centrosinistra: «Il migliore dei peggiori». Si corteggiavano da qualche tempo: D’Alema era andato a Cologno Monzese a dichiarare Mediaset bene dell’umanità, e a restituire la visita concessa dall’altro al congresso del Pds (1995). Quella volta il grande tombeur aveva parlato di futuro e amicizia e interessi comuni, e aveva strappato D’Alema dalla sedia, in piedi ad applaudire. Secondo la prognosi berlusconiana, per il comunismo non c’era più niente da fare: intanto D’Alema non era doppio - «se dice sì è sì, se dice no è no» - e poi «parla come un vero socialdemocratico».
Quando, in introduzione all’incontro del Nazareno, Berlusconi si è congratulato col nuovo segretario del Pd («Renzi è una cosa diversa, non ha le stesse idee del partito, ancora formato da uomini del Pci che non hanno mai abbandonato l’ideologia comunista. Con lui anche in Italia si potrebbe avere un partito socialdemocratico»), questo giornale ebbe l’indelicatezza di ricordare - in caso di memorie deboli - che se Berlusconi intuisce un socialdemocratico nell’improvviso diradarsi del bolscevismo, bè è il preludio del disastro. Nel 2007 (governo Prodi) era stato scortato dentro al PalaMandela di Firenze dai portuali di Livorno, grande gesto di rispetto dalla dirigenza avversaria, e aveva sentito Piero Fassino teorizzare che le riforme si fanno tutti assieme o non si fanno. Una stella cometa: Berlusconi aveva scoperto un Fassino dotato di una «volontà coraggiosa», la volontà di coltivare «l’idea socialdemocratica». Poi non se n’è fatto nulla, forse non c’è stato il tempo ma, giusto l’anno dopo, l’occasione si è ripresentata con Walter Veltroni alla guida del nascente Partito democratico. Meglio di così non poteva andare, disse Berlusconi, perché il segretario era «un socialdemocratico». Certo, circondato da vopos nostrani, ma con un socialdemocratico di quella stoffa «mai c’è stata come oggi la possibilità di varare in dodici mesi la riforma elettorale e quella istituzionale». E invece niente, tempo qualche mese e al rieletto presidente del Consiglio toccava constatare che «il Pd non è ancora riuscito a diventare un partito socialdemocratico».
Nel frattempo abbiamo sentito da Arcore rallegramenti anche per la presa del potere del «socialdemocratico» Pierluigi Bersani, con il quale Berlusconi avrebbe prolungato le larghe intese sperimentate in sostegno all’esecutivo di Mario Monti (un anno e mezzo e zero riforme). Che è successo se lo ricordano tutti, le larghe intese è toccato rimetterle in piedi a Enrico Letta, il Nipote. Siccome è democristiano, non teneva al titolo di socialdemocratico, e nel suo governo di comunista non c’era nemmeno un sospiro, e semmai c’erano ministri forzitaliani designati da Berlusconi in nome di una legislatura finalmente costituente, finalmente di pacificazione, finalmente di modernizzazione eccetera eccetera.
Se c’è però un pregio da riconoscere al leader permanente del centrodestra è di conservare un buon intuito, e infatti sostituì Letta con Renzi ben prima che lo facesse il Pd. «Se Renzi vince le primarie si verifica questo miracolo: il Pd diventa finalmente un partito socialdemocratico». Ed è un Pd con cui «avremmo certamente la possibilità di collaborare». Eh, sarà colpa del destino.

Corriere 10.11.14
Orfini: «Se FI si sfila, pronti a schemi diversi»
Il presidente dem: le riforme sono la precondizione perché la legislatura vada avanti
di Daria Gorodisky

ROMA Matteo Orfini, presidente del Pd, analizza il capitolo riforme e quello Quirinale con la medesima chiave di lettura: accelerare. «Riforme e nuova legge elettorale sono le precondizioni affinché questa legislatura vada avanti, è l’impegno che abbiamo preso sin dall’inizio. Abbiamo sempre tentato di dialogare con tutti, ma inizialmente abbiamo trovato soltanto la disponibilità di Forza Italia. Se questa adesso viene a mancare, andremo avanti con chi ci starà».
Avete numeri sufficienti e certi in Parlamento?
«C’è una maggioranza di governo autosufficiente anche senza Forza Italia. Ma vogliamo lavorare anche con le opposizioni, perché le regole del gioco devono essere condivise. Se Forza Italia si sfila, ci possono essere schemi diversi».
Per esempio con il M5S, come è già successo con il voto per la Consulta. Il partito berlusconiano vede nell’impulso per un nuovo sistema di voto la vostra volontà di arrivare presto alle urne, e con una norma a voi favorevole.
«Noi siamo impegnati a portare a termine questa legislatura. E comunque, non credo che converrebbe neppure a Forza Italia sfilarsi, perché anche il suo elettorato vuole una nuova legge elettorale».
Riforme, e azione di governo in generale, stanno facendo arrabbiare moltissime categorie. Per stare agli ultimi due giorni: sabato Cgil, Cisl e Uil erano in piazza insieme per il pubblico impiego e soffiava vento di sciopero; ieri l’Associazione nazionale magistrati ha di nuovo criticato le «riforme di scarsa o pessima qualità e l’assenza di progetto organico».
«Le resistenze al cambiamento fanno parte della storia di questo Paese, perché modificano rendite di posizione e equilibri di potere. E ai sindacati dico che, con la legge di Stabilità e la legge delega sul lavoro, stiamo ottemperando proprio ad alcune loro richieste. Insomma, stiamo dando: un miliardo per stabilizzare i precari della scuola, per esempio».
Però togliete e tagliate anche. Il contratto della Pubblica amministrazione è fermo da sei anni.
«Sì. Ma c’è la crisi, la coperta è corta, si fanno delle scelte».
Intanto scontento e proteste crescono.
«Comprendo lo scontro sull’articolo 18: io non lo avrei toccato. Ma per il resto, vedo una torsione politica delle manifestazioni».
Torsione politica contro il governo, appunto. Tutti chiedono di essere ricevuti urgentemente a Palazzo Chigi, ma Matteo Renzi non sembra gradire questi colloqui. E la «pace sociale» rischia di traballare.
«Gli incontri con le parti sociali sono sempre utili. Però una cosa è il confronto, un’altra è la concertazione, che non esiste più».
Che cosa pensa di possibili prossime dimissioni di Giorgio Napolitano?
«Spero che rimanga il più a lungo possibile. Nei momenti più difficile è stato, e rimane, il vero garante di questo Paese».
Il Quirinale non ha negato la notizia. Perciò, ora qualcuno teme che questa sorta di pre dimissioni comporti rischi di vuoto di potere…
«Il presidente della Repubblica è pienamente in carica, non c’è sospensione, non esistono pre dimissioni».
…altri ritengono, invece, che si tratti di una situazione strumentale per fare pressione per le riforme: magari con l’idea che per Berlusconi sia più vantaggioso partecipare al processo riformatore mentre resta in carico l’attuale capo dello Stato.
«Il sacrificio che abbiamo chiesto a Napolitano, quando ha accettato la rielezione, era basato su un vincolo per le riforme. Quindi certamente adesso abbiamo ancora di più il dovere di accelerare. Forza Italia smetta di agitarsi e si concentri sugli impegni presi a questo riguardo».
Eppure si fanno già i nomi di possibili candidati al Colle, si alzano bandiere rosa…
«Sarà molto complicato individuare figure all’altezza di Napolitano. Ne parleremo solo a tempo debito. Ora questo dibattito è stucchevole».

La Stampa 10.11.14
Il braccio destro di Casaleggio: “Col Pd accordo possibile sul Colle”
Messora: il processo decisionale resti però alla Rete
di Francesco Maesano

Per mesi è stato l’occhio e la mano di Gianroberto Casaleggio, prima al Senato e dopo all’Europarlamento. Poi a Bruxelles il cammino da capo della comunicazione nel M5S di Claudio Messora s’è interrotto: divergenze con gli eletti, troppo profonde perché i fondatori del Movimento riuscissero a sanarle. Messora è intervenuto sabato in un post sul suo blog nel quale salutava «l’ingresso dei Cinque Stelle ai tavoli contrattuali».
Per alcuni la porta s’è già richiusa.
«No, l’apertura al dialogo non è più in discussione. Si tratta di un’evoluzione politica importante, che consente di uscire dall’angolo. Le uniche regole sono la trasparenza e il processo decisionale, che deve restare in mano alla rete».
Il Grillo di qualche mese fa avrebbe gridato all’inciucio.
«Il punto è non cedere a forme di mediazione dove si negoziano valori che non sono nella disponibilità di nessuno. È quella l’essenza dell’inciucio, il vero tradimento dei cittadini, non la trattativa in sé».
Quindi ora il M5S riconosce che i suoi parlamentari hanno ricevuto una delega dagli elettori.
«È evidente: non è che una trattativa la possano condurre 60 mila persone in rete. Il M5S è una creatura in evoluzione che si adegua sulla scorta dell’esperienza. Adesso poi ci sono alcune figure di maggior rilievo ed esperienza che sono in grado di mediare. Ed è normale che sia così, altrimenti avremmo mandato in Parlamento 160 robotini».
Mediare anche sul Quirinale?
«Mi aspetto che si facciano scegliere alla rete i candidati, come nel 2013, e che poi si renda trasparente ed esplicito il processo di mediazione con i partiti».
Con che tempi? Non è un dettaglio secondario.
«Prima usciranno i nomi e meglio sarà. Poi si dovrebbero sfruttare gli esiti di questo processo di mediazione per chiedere qualcosa in cambio sulla legge elettorale».
Uno scambio.
«Sì, ma attraverso un processo esplicito, altrimenti diventa il patto del Nazareno. Uno scambio per arrivare alla legge migliore per i cittadini».
E qual è?
«Casaleggio ha sempre pensato che ci si dovesse avvicinare al proporzionale puro, quello più coerente con la democrazia diretta».
Per poi andare al voto?
«Bisogna essere pronti. A Renzi conviene far eleggere il successore di Napolitano, costruirsi un’opposizione di facciata e andare a votare fingendosi dalla parte dei cittadini e non di Juncker».
Chi è il competitor più temibile che vede all’orizzonte? Renzi, Salvini o magari Landini?
«Credo che sia la disillusione».

Repubblica 10.11.14
Quei due tavoli per il Quirinale
di Piero Ignazi

UN PRESIDENTE condiviso: questo l’auspicio che tutti si fanno quando si incomincia a parlare di Quirinale. Però, sarà difficile che qualcuno possa raccogliere un consenso così ampio come quello di cui ha goduto l’anno scorso Giorgio Napolitano. La sua rielezione avvenne infatti in condizioni eccezionali.
CONDIZIONI dovute al collasso politico del Pd dopo il naufragio della candidatura di Romano Prodi. Cosa è cambiato nel frattempo? I numeri sono quasi gli stessi di allora: la composizione politica dei grandi elettori, fatta salva la scissione del Ncd, lo spappolamento di Scelta Civica e le espulsioni del M5s, grosso modo riflette quella uscita dalle urne nel 2013. Semmai si à rafforzato numericamente il Pd che ha conquistato quattro regioni (che nominano tre grandi elettori ciascuna) e ha attratto alcuni fuoriusciti dalle formazioni minori. Molto diverso è invece il “quadro politico”, vale a dire i rapporti di forza politici tra le formazioni in campo. Il Pd non è nemmeno paragonabile a quel partito frastornato e afasico del post-elezioni: il dinamismo del nuovo segretario, riportato nell’attività di governo, e il successo “scioccante” alle elezioni europee, fanno del Pd il perno di ogni decisione in merito. Mentre allora Bersani si fece irretire da un Berlusconi ringalluzzito dal quasi successo della sua coalizione in una inutile ed umiliante trattativa e non riuscì ad imbastire un rapporto con un M5s in pieno delirio di onnipotenza per il suo trionfo elettorale, oggi Renzi ha tutte le carte in mano (al netto delle divisioni interne) per gestire la successione a Napolitano .
Forza Italia è all’angolo. Non è tanto la condanna di Berlusconi, che continua a fare tranquillamente attività politica come se niente fosse (tanto in Parlamento non ci andava mai), ad averla resa praticamente irrilevante: Forza Italia ha perso capacità di iniziativa politica perché indebolita dalla scissione di Alfano al punto da diventare ininfluente per la sopravvivenza del governo, e divisa al proprio interno tra chi vede negli accordi con Renzi una trappola mortale e chi, come il Cavaliere, li considera vitali per sopravvivere politicamente (e forse anche economicamente). Soprattutto, Berlusconi non controlla più il proprio partito, come hanno dimostrato le votazioni per il Csm e la Consulta. L’incrinarsi della sua leadership in Forza Italia la rende un soggetto inaffidabile per accordi leonini sull’elezione del prossimo presidente della Repubblica. In queste condizioni il segretario del Pd non può essere sicuro di quanto gli potrebbe garantire e promettere il Cavaliere. E proprio per rimediare in qualche modo a questa sua debolezza Fi smetterà di fare le bizze sulla riforma elettorale.
Se Renzi può gestire agevolmente la pratica Berlusconi, il rapporto con il M5s necessita invece di maggior attenzione. Qui il problema non riguarda certo la carenza di leadership di Grillo o la fedeltà dei parlamentari cinquestelle. Una volta partito l’ordine da Genova, l’ubbidienza è considerata ancora una virtù tra i grillini. Ma cosa ha in mente Grillo? Non si è capito bene se abbia condiviso o mal digerito l’accordo siglato con il Pd per le nomine dei membri della Corte Costituzionale e del Csm. A seguire le sue ultime uscite Grillo sembra ancorato ad una contrapposizione frontale nei confronti del sistema e in primis con il premier. Per lui ogni contatto con le forze politiche tradizionali, a incominciare dal Pd, corrompe e perverte il movimento dalla sua purezza originaria. Lo stop intimato a Di Maio l’estate scorsa quando aveva avviato un confronto con il partito democratico sulla riforma elettorale rifletteva questa impostazione. Ora però i parlamentari si sono riproposti come un gruppo responsabile, disposto a siglare accordi purché alla luce del sole . Una condizione veramente minima, che sottende piuttosto il desiderio di contare; o, altrimenti detto, il desiderio di mettere in pratica il mandato elettorale sbandierato tante volte, e cioè quello di far sentire e pesare la voce dei cittadini in Parlamento. Forse i grillini si muoveranno ancora come un sol uomo seguendo le indicazioni di Grillo, ma è certo che questa volta vogliono esserci, entrare in gioco. A questo punto le elezioni per il Quirinale possono diventare un momento di ridefinizione del sistema partitico, con un Pd al centro, master and commander delle relazioni con gli altri gruppi, attratti o coinvolti dalla sua forza magnetica. A Forza Italia e M5s, in particolare, non rimane che adeguarsi o restare isolati ad abbaiare alla luna; due scelte perdenti, a meno che non mettano sul tavolo una wild card, una proposta in grado di spiazzare il partito democratico.

Repubblica 10.11.14
La Ue avverte l’Italia: pronti alla procedura
La Commissione Juncker minaccia una nuova correzione da 3,3 miliardi sul 2015 e un early warning sul debito Palazzo Chigi spinge sul Jobs act: entro dicembre, anche con la fiducia. Ma in Parlamento i tempi sono stretti
di Roberto Petrini

ROMA Palazzo Chigi tira dritto sul Jobs act e stila un calendario serrato: chiudere entro dicembre, varare i decreti attuativi sui quali sono già al lavoro i tecnici e avere regole certe a partire dal 1° gennaio del 2015. La posizione del governo va ad impattare sul percorso parlamentare della legge di Stabilità che questa settimana comincia l’esame in Commissione Bilancio con l’obiettivo di consegnare il testo all’aula entro il 24 novembre, data che potrebbe slittare di un paio di giorni come spesso avviene.
Il rischio è quello di un «incrocio»: per assecondare il timing del governo potrebbe essere necessario dunque anticipare l’esame del Jobs act rispetto alla legge di Stabilità: la valutazione che viene fatta in Commissione Bilancio è che il ritardo potrebbe spostare la data di consegna della “Finanziaria” al Senato verso il 10 dicembre.
Comprimendo l’esame di Palazzo Madama. A decidere sarà martedì la conferenza dei capigruppo in accordo con ministro dei rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi. Naturalmente la questione non è solo procedurale: dopo la fiducia al Senato (il 9 ottobre) al Jobs act, la minoranza Pd ha detto esplicitamente che vuole modifiche, soprattutto sul tema nodale dell’articolo 18, oggetto delle agitazioni sindacali di questi giorni, e che non intende votare una nuova fiducia al Senato (fiducia che peraltro Palazzo Chigi vuole utilizzate a Montecitorio solo se necessaria).
La partita della legge di Stabilità non ha ancora un esito scontato. In prima linea il Tfr in busta paga, al quale Palazzo Chigi non vuole rinunciare, ma che il Tesoro ha già annunciato di essere pronto a cambiare. L’intervento che sembra più gettonato è quello di ridurre le tasse a chi chiede l’anticipo instaurando una neutralità fiscale con chi riscuote a fine rapporto. L’altra ipotesi di cambiamento, peraltro chiesta da tutti i gruppi parlamentari, riguarda la riduzione delle tasse sul rendimento dei fondi pensione.

Repubblica 10.11.14
Il retroscena
Difficile negoziato per ottenere il 24 novembre l’ok e con una serie di osservazioni
di Alberto D’Argenio

ROMA Sarà di nuovo scontro tra governo e Commissione europea. E questa volta gli esiti del confronto potranno cambiare gli equilibri politici in Italia e tra Bruxelles e le capitali della zona euro. Perché su Roma pende la minaccia di una nuova manovra correttiva e della pubblicazione di un early warning sui conti pubblici, primo passo di una procedura per deficit eccessivo in base alla regola del debito. Un durissimo uno due che la Commissione sta preparando per il 24 novembre. Ma si negozia, e l’esito del dialogo interno alla squadra di Juncker e tra Bruxelles e Roma non è scontato. La partita è aperta.
Lo scorso 29 ottobre la Commissione uscente, guidata da Barroso, aveva evitato di respingere la Legge di Stabilità italiana perché non aveva ravvisato palesi violazioni delle regole Ue. Ma per scampare la bocciatura Renzi aveva negoziato una correzione di 3,3 miliardi del deficit strutturale — un successo visto che sulla carta avrebbe dovuto fare più del doppio — con la quale credeva di essersi messo al riparo da sorprese future. Ma non è così.
Ora la palla è passata al nuovo esecutivo comunitario, quello di Juncker. Che il 24 novembre si esprimerà sulle manovre di tutti i paesi dell’eurozona. E in queste ore per l’Italia si parla di imporre una ulteriore correzione, altri 3,3 miliardi, in modo da portare nel 2015 l’abbattimento del deficit strutturale (calcolato al netto del ciclo economico) dallo 0,3% allo 0,5%. Richiesta che sarebbe motivata da un nuovo calcolo fatto dai tecnici di Bruxelles alla luce delle previsioni economiche Ue della scorsa settimana. In sostanza, la correzione messa fin qui in cantiere del deficit strutturale (diverso quello nominale, con l’Italia proprio sul filo del fatidico 3% di Maastricht) non impatterebbe sufficientemente sul debito, che continuerebbe a salire violando il Fiscal Compact.
Uno schiaffo per l’Italia, al quale si potrebbe aggiungere un altro, durissimo, colpo: la pubblicazione contestuale di un rapporto scritto in base all’articolo 126.3 del Trattato di Lisbona. Tradotto, un early warning sui conti, il primo step di una procedura per deficit eccessivo per la regola del debito che non sarebbe ancora operativa, ma che potrebbe partire in ogni istante con pesanti richieste di correzioni dei conti che per l’Italia potrebbero non essere sostenibili dal punto di vista economico e politico. Non solo, la Commissione accompagnerebbe il cartellino giallo con un programma sui tempi di approvazione delle riforme e sulla tenuta del debito, che di fatto metterebbe le briglie al governo Renzi.
Questo scenario, confermato a Repubblica da fonti concordanti, preoccupa il governo. Ma anche in Commissione non tutti sono d’accordo con un approccio così rigorista dettato dalla sfiducia che diversi dirigenti europei hanno sulla capacità italiana di completare le riforme. A favore della linea dura, raccontano a Bruxelles, ci sarebbero i due vicepresidenti con competenze economiche, il finlandese Katainen e il lettone Dombrovskis, entrambi ex premier. Al momento resta sfumata la posizione del commissario agli Affari economici Moscovici, sulla carta amico della flessibilità, mentre le speranze sono riposte in Juncker, che sembra avere la volontà di non andare allo scontro con l’Italia ma che deve trovare una difficile quadra politica all’interno della Commissione e con le capitali, Berlino in testa.
In caso prevalesse la scelta di non picchiare, il 24 novembre l’Italia riceverà solo una serie di osservazioni sulla manovra, ma Bruxelles continuerà a tenere il fiato sul collo di Roma con un pressing più soft, magari con una serie di lettere informali per pungolare il governo ad andare avanti sulle riforme. Ma poi a marzo e aprile ci sarebbe comunque la resa dei conti, che Renzi e Padoan potrebbero però affrontare magari con diverse riforme approvare e dunque con più argomenti per difendersi. Resterebbe co- munque possibile, a gennaio, l’apertura di una procedura per squilibri macroeconoimci, meno pesante di quella sul debito, ma comunque in grado di garantire a Bruxelles un controllo sull’operato del governo e sulle riforme.
Dall’esito del confronto delle prossime due settimane si capiranno gli equilibri interni alla Commissione, con Juncker che si è sempre detto a favore di un nuovo corso politico sull’economia, ma che poi ha piazzato sopra alla “colomba” Moscovici due vicepresidenti come Katainen e Dombrovskis. Sarà anche un nuovo test europeo per Renzi, che non a caso nei prossimi giorni cercherà di rafforzare l’asse anti-austerity interno al Partito socialista europeo con una tappa a Bucarest per sostenere il collega Victor Ponta al ballottaggio e andando al congresso del Ps portoghese.

La Stampa 10.11.14
Troppe interrogazioni restano senza risposta
di Carlo Bertini

Che ogni governo in carica non sia mai troppo solerte nel rispondere alle interrogazioni parlamentari è cosa risaputa, ma con i governi di Letta e Renzi la percentuale delle domande inevase è cresciuta anche rispetto ai governi Berlusconi e Monti. Che poi le interrogazioni a cui viene concessa risposta siano per la maggior parte del Pd è una tendenza degna di nota. Perché se lo strumento dell’interrogazione è la tipica leva in mano alle opposizioni per operare il controllo del parlamento sull’esecutivo previsto dalla Costituzione, i numeri da inizio legislatura stilati dal sito Openpolis raccontano una realtà diversa. L’ultimo governo guidato da Silvio Berlusconi aveva risposto al 39,33% delle interrogazioni parlamentari, il Governo Monti era sceso al 29,33%, mentre gli esecutivi di Letta e Renzi hanno fatto calare di molto la percentuale. Delle oltre 9.200 interrogazioni depositate in oltre un anno e mezzo di legislatura, circa 1.300, poco più del 14%, hanno ottenuto un riscontro, ma oltre l’80% sono rimaste inevase. E finora il gruppo parlamentare che ha un tasso di successo maggiore è il partito di maggioranza, cioè il Pd, con 400 risposte (19,80%) alle oltre duemila interrogazioni presentate. A guidare la classifica di gruppo con maggior numero di interrogazioni depositate è il Movimento 5 Stelle, oltre 2.700: quelle con risposta non raggiungono però neanche quota 300.
Il ping pong
«Basta con questo noioso ping pong nell’approvazione delle leggi», dice il premier per spiegare agli imprenditori l’esigenza di trasformare il Senato in Camera delle autonomie. E per dare un’idea del ping pong parlano da sole le statistiche che si possono trovare sullo stesso sito del Senato. I disegni di legge approvati da una delle due Camere e ancora in corso di esame nell’altro ramo del Parlamento sono 47: 31 a Palazzo Madama e 16 a Montecitorio. E citandone due a caso, uno sulle misure cautelari, approvato e trasmesso alla Camera in aprile, cioè sette mesi fa e ora in corso di esame in commissione; o quello sull’abolizione dei manufatti abusivi, trasmesso nel gennaio 2014 e non ancora «incardinato», si capisce meglio con quale passo riesca a procedere l’attività legislativa con il bicameralismo perfetto. Specie in assenza di quella riforma dei regolamenti che velocizzerebbe l’iter delle leggi, ma che ancora trova molti oppositori in Parlamento.

Corriere 10.11.14
Un nuovo partito a sinistra del Pd?
Per due italiani su tre sarebbe «inutile»
di Nando Pagnoncelli

Il percorso del Jobs act, per contenuti e modalità, ha creato frizioni all’interno del Partito democratico, accentuando le differenze e lo scontro tra l’area renziana e le minoranze. L’ipotesi di una scissione in seno al principale partito del Paese, più volte agitata dai media, è sembrata prendere consistenza. E, per quanto smentita da molti dei supposti protagonisti, si è ipotizzata la nascita di una forza a sinistra del Pd, alla cui testa molti pensano potrebbe proficuamente esserci Maurizio Landini. E lo stesso Matteo Renzi ha in qualche modo legittimato questa possibilità quando ha dichiarato superato anche uno dei classici fantasmi del vecchio Pci, «nessun nemico a sinistra». Sembra quindi non impossibile un percorso del genere, con la costituzione di una forza composta da fuorusciti del Pd in polemica con Renzi, Sel e le altre componenti della sinistra radicale, sostenuta dalla simpatia di parte della Cgil e della Fiom. La polemica sempre più aspra del presidente del Consiglio (d’altronde ricambiato) con quest’area potrebbe favorire il consolidarsi di un’area di opinione benevola verso l’ipotetica nuova forza di sinistra.
Su questi temi abbiamo testato le opinioni degli italiani. La maggioranza assoluta ritiene che una formazione di questo genere sarebbe inutile, poiché tenderebbe a riproporre le solite visioni ideologiche, percepite come oramai superate. Ma più di un quarto (il 27%) pensa invece che sarebbe utile avere chi rappresenta più validamente il mondo del lavoro oggi sotto attacco. Non bisogna confondere questa opinione con un ipotetico orientamento di voto: l’utilità di questa forza è sottolineata in maggior misura dagli elettori di Forza Italia e del Nuovo centrodestra che probabilmente non voterebbero mai a sinistra ma auspicano un Pd lontano dalle radici originarie, in particolare da quelle rappresentate dal principale dei soci fondatori (Ds-Pds-Pci).
Sul successo elettorale di questa formazione le opinioni si diversificano: la maggioranza relativa (40%) scommetterebbe su un flop, in particolare tra gli elettori di Forza Italia, circa un quarto ritiene che comunque non sfonderebbe, ottenendo grosso modo risultati simili a quelli recenti della sinistra. Tuttavia un quinto degli elettori punterebbe invece su una buona riuscita alle elezioni, contando su un bacino di consenso proveniente da molti elettori stufi delle politiche del Pd e di Renzi.
La corrente di simpatia intorno a questa forza non sarebbe tutto sommato indifferente: il 10% la guarderebbe con molta attenzione, il 22% con qualche simpatia. Un bacino di interesse quindi complessivamente intorno ad un terzo degli elettori. Anche in questo caso non bisogna confondere l’interesse e la simpatia con il comportamento di voto: in questo 30% circa c’è una quota di elettori, centristi o di Forza Italia, elettori che, come detto, sicuramente non convergerebbero su questa forza. La simpatia espressa dagli elettori Pd è assolutamente in linea con la media: 10% molta simpatia, 25% qualche simpatia. Dimensioni d’altronde che sembrano assomigliare molto ai risultati delle primarie che incoronarono Renzi, quando i due competitor (Cuperlo e Civati) ottennero insieme il 32% dei consensi. Non sembra quindi che l’attuale, aspro dibattito sull’articolo 18 e sul Jobs act abbia modificato significativamente i rapporti di forza interni. Infine va sottolineato che il consenso potenziale per quest’area politica verrebbe in misura maggiore da chi è più direttamente colpito dalla crisi come i disoccupati, dagli anziani, dove era maggiore il consenso per l’area non renziana, dalle casalinghe che hanno quotidianamente a che fare con la difficile quadratura del bilancio familiare. Assolutamente lontani, e da tempo non è più un paradosso, gli operai, tra cui la simpatia per questa forza tocca i minimi assoluti.
Difficile individuare un leader forte e indiscusso per questa ipotetica formazione. Anche Maurizio Landini, di cui si è lungamente parlato come della possibile guida, ottiene, nell’elenco dei quattro personaggi sottoposti agli intervistati, un 15% di apprezzamento, vicino a quelli di Civati e di Vendola. Di nuovo, non stiamo parlando di voto potenziale, ma semplicemente di percezione del più adatto tra i leader testati.
In sostanza possiamo dire che emerge un’area di opinione importante, che potremmo indicare in circa un quinto dei nostri connazionali, che appare interessata a questa forza. Questo potenziale consenso raggiunge i livelli massimi tra chi è colpito dalla crisi e tra gli anziani. È un profilo che si sovrappone sostanzialmente a quell’area che ha ridotto il proprio consenso per Renzi, e che tende ad esprimere un disagio che spesso sconfina nella protesta. Scarso invece il consenso potenziale da parte di operai e in linea quello dei ceti medi. Appare difficile quindi che su questa base si formi l’embrione di quello che potrebbe essere il partito del lavoro.

I leader
Tra i nomi citati nel sondaggio Ipsos come possibili leader di una nuova forza politica a sinistra del Pd, il segretario Fiom Maurizio Landini (foto) conquista il 15% sul totale del campione e il 17% dal Pd
Pippo Civati, della minoranza dem, ottiene il 12% sul totale del campione e il 21% dal Pd
Il leader di Sel Nichi Vendola registra un gradimento dell’11% dal totale del campione e il 10% dal Pd
Fermo al 6% (totale del campione) e all’8 (tra gli elettori del Pd) l’ex viceministro Stefano Fassina
Per il 36% (totale del campione) nessuno di questi nomi sarebbe adatto

il Fatto 10.11.14
Susanna Camusso. Referendum anti-Fornero
“Lega? Ok se è per il lavoro”
di Sara Nicoli

La notizia ha destato stupore. Sentir dire da Susanna Camusso, che qualora la Corte Costituzionale lo approvasse, la Cgil sarebbe pronta a votare il referendum della Lega per l'abolizione della legge Fornero, non è stata una dichiarazione digerita agevolmente dalla base. Perché dare un assist così forte alla Lega? Proprio mentre Salvini dall’altra parte, sulla questione immigrazione, cerca di imbarcare l’estrema destra di Casa Pound. Eppure, Camusso pare convinta: “Nel momento in cui la Corte Costituzionale ammettesse il referendum sicuramente sì, lo appoggeremmo, perché determinerebbe per il governo il tempo entro il quale abolire una legge ingiusta”. La chiave, però, sta tutta lì, nella parola “ingiusta”. Spiegano, in Cgil: “È senz’altro vero che l’appoggio ad un referendum promosso dal Carroccio può destare perplessità tra i nostri iscritti – spiega una fonte vicina alla segreteria di Corso D’Italia - ma poco importa chi lo ha firmato e chi ha raccolto le firme, l’abolizione della Fornero è anche una nostra bandiera e le forze vanno unite contro un governo che vuole ulteriormente precarizzare il lavoro; abbattendo la Fornero, anche con il referendum, ci consentirebbe di mettere il governo con le spalle al muro”. È, però, un qualcosa che è di là da venire, ma quel che vale, oggi, è un dato politico, ovvero il saldarsi insieme di forze sociali che hanno parole d’ordine comuni e intendono contrapporsi al “marchionnismo renziano”.
L’INTERLOCUTORE centrale di questo percorso, che è appena iniziato e che vedrà la sua prova generale il 14 di novembre, con la Fiom che scenderà in piazza contro il Jobs act, è il leader Maurizio Landini. Che ha iniziato da tempo un dialogo con il mondo vario e sparso delle reti precarie, impegnate a mettere su forme di “organizzazione sociale” che vadano oltre il sindacato fermo al ‘900 e che oggi rappresenta in maggior parte garantiti e pensionati. E così, il 14 novembre, nelle intenzioni di Landini, sarà anche una giornata di sciopero sociale, con in piazza un popolo nuovo di lavoratori, quelli che un contratto serio non l’hanno mai visto e forse non lo vedranno mai. Sarà il social strike, con protagonisti i co.co.co e le partite Iva, chiunque sia incastrato in forme di lavoro non garantito e non pensionabile, chiunque viva una condizione lavorativa che non permette l’aggregazione sindacale in senso classico.
Il percorso che porta al 14 novembre e che passa anche attraverso l’endorsement alla Lega e al suo referendum, è il tentativo di organizzare un blocco sociale, molto vasto, che affondi le radici in un terreno di rivendicazione concreto, per rovesciare “quel renzismo – sostengono ancora in Cgil - che cerca di far digerire al mondo precario di oggi che è meglio un lavoro non garantito che nessun lavoro, che con meno diritti per tutti c’è anche più lavoro per tutti; l’abbattimento della Fornero è un passo fondamentale”. Certo, un pericolo di non poco conto questo progetto per Renzi. Che potrebbe trovarsi davanti un sindacato nuovo, composto da chi al sindacato, fino ad oggi, non si è rivolto mai. Li chiamano i social strikers, quelli che vogliono la “rifondazione sindacale”. Il percorso è lungo, ma li guida Maurizio Landini, che Renzi teme più della peste.

Repubblica 10.11.14
Carla Cantone, segretaria generale dei pensionati Cgil
“Nel referendum anti-Fornero non andremo a ruota della Lega”
intervista di Luisa Grion

ROMA . Aggrapparsi al referendum della Lega che chiede l’abrogazione della legge Fornero sulle pensioni sarebbe «un clamoroso errore: il sindacato, in questa battaglia, deve essere protagonista non mettersi alla ruota di altri». Susanna Camusso, leader della Cgil, si è detta pronta a votare il referendum di Salvini se la Corte Costituzionale approverà il quesito, ma Carla Cantone, segretaria generale dei pensionati Cgil non è d’accordo.
Perché? Salvini stesso dice che le battaglie giuste non hanno colore politico.
«Salvini fa il suo mestiere, ma noi dobbiamo fare il nostro. E’ chiaro che se non c’è altro in campo tutti si aggrapperanno al referendum, ma noi non possiamo rinunciare a condurre questa battaglia. Dobbiamo mettere in atto una strategia, lo aveva deciso il congresso».
Perché non ci avete pensato prima?
«Dopo uno sciopero di tre ore non ce ne siamo più occupati e questo errore lo stiamo già pagando».
Cosa potreste fare adesso?
«Convincere il governo a ridiscuterne, con una campagna, possibilmente unitaria, che dovrà partire subito, tenendo conto di tutte le possibilità. Dalla raccolta di firme per un appello fino allo sciopero, cominciando da quello che probabilmente decideremo fra un paio di giorni: fra gli obiettivi dovrà contenere l’abolizione della riforma Fornero ».
Il problema è la Lega? Se il referendum lo avesse proposto il Pd sarebbe stato diverso?
«Il problema non è la Lega o il Pd, il problema è che il sindacato deve avere una sua posizione autonoma dalla politica, tanto più su questi temi. Questo è un nostro argomento, questa gente la dobbiamo difendere noi senza aspettare di aggregarsi al carro di un qualsivoglia partito».
Lei dice di voler convincere Renzi a ridiscutere la legge, ultimamente non vi sta a sentire.
«Direi che le cose stanno cambiando. Dopo la nostra manifestazione del 25 ottobre, quella unitaria dei pensionati, quella - sempre unitaria - della pubblica amministrazione e gli scioperi che verranno, non potrà non prestare attenzione a ciò che esprime il Paese».
Altrimenti?
«Altrimenti sarà travolto dai risultati del referendum della Lega. Penso che gli convenga parlare con noi».

La Stampa 10.11.14
Anm: “Sciopero se indipendenza è a rischio”
Orlando: “Intervento a tutela dei cittadini”
Nel mirino dell’Associazione magistrati il provvedimento sulla responsabilità civile delle toghe
Il prossimo 17 gennaio “Giornata della Giustizia”: «Tribunali aperti e confronti»
qui

Corriere 10.11.14
Le tre anime del governo e la nostalgia delle toghe per Moro e Berlinguer
di Giovanni Bianconi

ROMA Affiora un sentimento di rimpianto, e forse di nostalgia, nelle parole del magistrato ultracinquantenne che evoca i tempi andati: «Dall’altra parte non abbiamo Moro e Berlinguer, che cercano di capire le ragioni e sono disposti a discutere, ma Renzi, a cui interessa solo ottenere una riforma subito, anche se malfatta e inutile», dice dal palco Lorenzo Miazzi, giudice della Corte d’appello di Venezia, esponente di Area, il cartello che riunisce le correnti di sinistra delle toghe. «Questi le riforme le faranno, e per noi l’alternativa è subirle o provare a guidarle. Lo sciopero si potrà anche fare, ma solo alla fine, in maniera unitaria e decisa, se salta tutto»; prima ci sono altre strade: «Di fronte a progetti di riforma offensivi nei modi e nei contenuti, al decisionismo muscolare, non servono reazioni viscerali, ma risposte istituzionali che ci aiutino a raggiungere obiettivi».
L’intervento di Miazzi, nell’aula magna del «palazzaccio» romano di piazza Cavour, è uno dei più applauditi all’assemblea dell’Anm. Per un giorno (festivo) le mura altissime della Corte di cassazione non ascoltano requisitorie, arringhe e sentenze ma una discussione serrata sulle risposte da dare a un governo con il quale i magistrati vedono rinnovarsi l’eterno duello tra politica e giustizia. Con una novità, che non si limita al ricambio generazionale impersonato da Matteo Renzi: stavolta sembra mancare una linea unitaria nel potere politico, all’interno del quale si muovono almeno tre anime.
C’è quella del premier, che ha deciso di incassare risultati immediati anche sul terreno della giustizia per rimarcare la propria diversità rispetto all’immobilismo del passato. Lo fa a colpi di slogan e provvedimenti-spot che hanno avuto l’effetto di irrigidire la magistratura e perfino compattarla nell’indignazione verso chi la raffigura come una casta di impiegati un po’ privilegiati e un po’ sfaticati. Le ferie tagliate per decreto legge allo scopo dichiarato di ottenere una «giustizia più rapida» ha lasciato il segno; così come lo scherno nei confronti dell’Anm, trattata al pari della Cgil o qualunque altro sindacato che «non fermerà il cammino delle riforme». E lo slogan «chi sbaglia paga», in materia di responsabilità civile, è considerato l’altro cavallo di una battaglia più di propaganda che di sostanza.
A meno che non sia un cavallo di Troia per intimidire e influenzare l’azione giudiziaria: è quello che sembra perseguire — nella visione delle toghe — l’ala di centrodestra del governo, che può contare sul viceministro della Giustizia Enrico Costa, Ncd, già schierato con le legioni di Berlusconi nelle legislature precedenti. È lui il paladino di norme considerate più punitive rispetto allo stesso progetto governativo, che secondo i giudici sono vero e proprio attentato all’indipendenza della giurisdizione. «È un disegno dalle finalità afflittive che tende a condizionare i magistrati», attacca Carlo Fucci, che nell’Anm e nella corrente centrista di Unità per la Costituzione ha avuto ruoli importanti, mentre oggi è un «indipendente» che cavalca lo sciopero immediato. Che non ci sarà, ma potrà esserci in futuro.
Estremismi a parte, l’assemblea intera ritiene che introdurre la responsabilità diretta del giudice, o inserire l’interpretazione delle norme tra i comportamenti da sanzionare civilmente, significherebbe minare alla base l’autonomia della magistratura. Ritrovandosi su posizioni non troppo distanti da quelle annunciate dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, pd di provenienza Pds e ancor prima Pci, nonostante la giovane età. Che ancora ieri ha assicurato che le modifiche «non saranno un attacco all’indipendenza dei giudici».
Orlando rappresenta la terza anima del governo e, paradossalmente, con il provvedimento che ha in mente potrebbe diventare il principale alleato delle toghe in questa controversia. Ma il testo governativo ancora non c’è, e i magistrati — consapevoli delle differenze tra le varie anime — aspettano di vederlo prima di tranquillizzarsi; per verificare che ai proclami corrispondano atti concreti, corrispondenti a quanto promesso. In attesa di poter discutere di provvedimenti che affrontino davvero le emergenze della giustizia.
Sullo sfondo dell’aula magna, mentre gli oratori si susseguono al microfono, scorrono le diapositive con cui l’Anm ribatte a quelle di Palazzo Chigi. «Falso in bilancio, corruzione, prescrizione, reati economici: a quando una vera riforma?». È ciò che sottolinea Ezia Maccora, giudice delle indagini preliminari a Bergamo (è lei che ha fatto arrestare Bossetti per il delitto di Yara), già componente del Csm per Magistratura democratica: «Se il governatore della Banca d’Italia dice che urge la legge sull’autoriciclaggio per contrastare una criminalità che ha fatto fuggire investimenti esteri per 16 miliardi di euro, perché il governo si occupa d’altro? Dopo vent’anni di aggressioni non dobbiamo farci prendere dalla stanchezza e rassegnarci, bensì dire e pretendere la verità sullo stato della giustizia in Italia».

Corriere 10.11.14
Un sistema ormai al collasso
La grigia miopia della giustizia
di Sabino Cassese
qui

Repubblica 10.11.14
Turigliatto a processo, per lui appelli da Ken Loach a Chomsky
MILANO Un appello in difesa di Franco Turigliatto, l’allora senatore di Rifondazione che votando contro la decisione di rifinanziare la missione in Afghanistan fece tremare il governo Prodi. Lo hanno sottoscritto il regista Ken Loach, Noam Chomsky, Erri De Luca, e poi parlamentari di Sel, Rifondazione, Syriza e Podemos. Turigliatto infatti è stato rinviato a giudizio dal tribunale di Roma con l’accusa di diffamazione nei confronti di Roberto Fiore, leader della formazione neofascista Forza Nuova. Durante una puntata di Porta a Porta ( era il 13 marzo 2008) Turigliatto lasciò lo studio dopo l’arrivo di Fiore («Non posso stare qui se c’è un fascista») e rilasciò delle dure dichiarazioni contro Fn ad un’agenzia di stampa. «È assurdo essere processati per antifascismo», si legge nel documento in suo sostegno. ( m. p.)

Il Sole 10.14
«Divorzio «facile», tutti i percorsi e le incognite
Al debutto le procedure dall’avvocato e dal sindaco

Firmare un accordo nello studio di un avvocato. O davanti al sindaco. Sono le due strade “facili” per separarsi e divorziare, aperte dal decreto legge 132/2014 - il primo tassello della riforma della giustizia - approvato definitivamente dal Parlamento giovedì scorso.
I due percorsi non richiedono, a differenza delle procedure “tradizionali”, di presentare un ricorso in tribunale. Sono stati infatti introdotti per «degiurisdizionalizzare», come dice la legge, cioè per spostare le vertenze fuori dalle aule di giustizia e permettere ai magistrati di aggredire l’arretrato civile, di oltre 5 milioni di cause.
Ma il nuovo divorzio non è senza insidie. Anzi: dopo le modifiche introdotte dal Parlamento, tempi e costi rischiano di aumentare. Senza contare che il Dl 132 lascia intatti i tre anni che le coppie separate devono attendere prima del divorzio.
La procedura dall’avvocato
Le coppie in crisi senza figli a carico possono lasciarsi sottoscrivendo un accordo in uno studio legale - anziché presentandosi in tribunale - già dallo scorso 13 settembre. Questa possibilità è ora estesa anche a chi ha figli minorenni o maggiorenni incapaci, con handicap o non economicamente autosufficienti.
Le nuove procedure si aggiungono come vie alternative alla tradizionale separazione consensuale, che marito e moglie scelgono quando sono d’accordo sulla decisione di dirsi addio e sulle condizioni della separazione. È la strada più battuta: secondo l’Istat, le separazioni consensuali sono l’85% del totale. Del resto, separarsi consensualmente riduce i conflitti, è più rapido (in media servono 103 giorni contro i 675 delle giudiziali) e meno costoso, anche perché marito e moglie possono farsi assistere da un solo avvocato. Possibilità invece stata esclusa (nel corso dell’esame parlamentare del Dl 132) per chi decide di divorziare in uno studio legale: i coniugi devono avere almeno un avvocato a testa. Un vincolo motivato dal fatto che nella redazione dell’accordo non è coinvolto un giudice. Ma l’effetto economico rischia di farsi sentire.
Inoltre, il Parlamento ha inserito un passaggio in più nella procedura. Se a lasciarsi è una coppia senza figli, uno degli avvocati, prima di inviare l’accordo all’ufficiale dello stato civile per le trascrizioni nei registri, deve trasmetterlo al Pm e ottenere il suo nullaosta. Il Dl, però, non fissa un termine entro cui il Pm deve esprimersi; ed è probabile, visto il carico di lavoro delle procure, che i tempi si allunghino (si veda anche Il Sole 24 Ore del 4 novembre). Una procedura “aggravata”, con la necessità di ottenere l’autorizzazione del Pm (anche qui, non è fissata una scadenza) e il possibile passaggio in tribunale, è prevista per le separazioni di chi ha figli.
L’iter dal sindaco
La possibilità di lasciarsi sottoscrivendo un accordo di fronte al sindaco si aprirà il trentesimo giorno dopo l’entrata in vigore della legge di conversione del Dl 132. La procedura è riservata ai coniugi che sono d’accordo sulla separazione e che non hanno figli a carico: si tratta di circa 50mila coppie l’anno. Inoltre, nell’accordo concluso dal sindaco non è possibile inserire patti di trasferimento patrimoniale (incluse decisioni su somme di denaro o beni mobili, come auto o scooter). Ma questo divieto - che non preclude gli assegni periodici - potrebbe essere superato regolando con un accordo ad hoc le questioni patrimoniali.
Dal punto di vista economico, si tratta di una procedura quasi a costo zero: sarà necessario solo versare un “diritto fisso” che non potrà superare i 16 euro previsti per le pubblicazioni di matrimonio. Questo a meno che i coniugi non decidano di farsi assistere da un avvocato: in questo caso è facoltativo ma può essere utile per mettere a punto l’accordo.
I tempi non possono essere inferiori a un mese, dato che il Parlamento ha previsto una pausa di riflessione di 30 giorni per i coniugi tra la stesura dell’accordo e la sua conferma. Ma, non essendoci l’incognita del “visto” del Pm, dovrebbero essere più rapidi di quelli della procedura dall’avvocato.
Il divorzio breve
Le nuove strade per lasciarsi non toccano però i tre anni di separazione necessari prima di chiedere il divorzio. Mira a tagliare questo periodo di attesa il disegno di legge sul “divorzio breve”, approvato dalla Camera il 29 maggio scorso e ora all’esame della commissione Giustizia del Senato: si prevedono 12 mesi di separazione se manca il consenso tra marito e moglie e sei mesi nel caso delle separazioni consensuali. «Dopo il via libera della commissione Bilancio sulle coperture (arrivato la settimana scorsa, ndr) - spiega la relatrice Rosanna Filippin (Pd) - possiamo procedere con l’esame degli emendamenti, che sono stati depositati da tempo. Spero che il testo possa approdare in aula prima della fine dell’anno».

Altri articoli in due pagine sul tema sul Sole di oggi

Corriere 10.11.14
Medicina, il caso del premio ai bocciati
Il ministero concede ai 5 mila riammessi dopo i ricorsi al Tar di scegliersi l’ateneo che preferiscono
La beffa per quelli che hanno invece superato il test, spesso costretti a iscriversi lontano da casa
di Orsola Riva

«È un’ingiustizia. La prova che in Italia la meritocrazia non esiste. Io che ho passato il test, ho dovuto lasciare la mia città, Brescia, per andare a fare Medicina a Parma, spendendo 600 euro al mese per una stanza in convitto, e c’è gente che invece era stata bocciata ma grazie al ricorso al Tar si ritrova a fare l’università a due passi da casa». Antonio Baglioni è uno dei 10 mila vincitori del famigerato test di Medicina. Purtroppo la prova dell’8 aprile scorso è stata travolta dai ricorsi: plichi manomessi, sospette copiature, anonimato violato per un autogol del Miur... Alla fine i giudici hanno ordinato l’ammissione in sovrannumero di ben 5.000 studenti: bocciati all’esame, promossi dal Tar.
Un maxi ricorso che è stato celebrato come una vittoria storica contro il numero chiuso dai suoi promotori ma che di fatto si è tradotto in un danno oggettivo e soggettivo per chi il test lo aveva passato: oggettivo perché gli atenei sono andati in tilt a causa dell’ondata di nuovi immatricolati e soggettivo per il senso di ingiustizia nel ritrovarsi sorpassati da chi aveva ottenuto un punteggio molto peggiore del proprio.
Diploma scientifico, mamma maestra, papà quadro in un’azienda, Antonio il 28 settembre scorso ha fatto la valigia ed è partito per Parma. Il sistema della graduatoria nazionale unica prevede infatti che chi ha un punteggio più alto abbia diritto di precedenza su tutti gli altri nella scelta dell’ateneo. Antonio è andato bene al test, ma con i suoi 36,20 punti era più o meno attorno ai primi 7.500, non abbastanza in alto da aggiudicarsi uno dei 209 posti in palio a Brescia. Gli è toccata Parma, che era la sua sesta scelta. «E sono stato fortunato perché i miei hanno deciso di investire nella mia educazione, sopportando il costo di questa trasferta. Mentre chi ha fatto ricorso mi è passato davanti anche se stava ventimila posti sotto al mio».
In realtà, il ministero dell’Istruzione a settembre aveva emanato una nota che metteva dei paletti molto stretti per i 5.000 riammessi dal Tar: potevano iscriversi, sì, in uno degli atenei che avevano indicato in sede d’esame, ma avrebbero dovuto optare per quello «nel quale risulta minimo lo scarto tra il primo in graduatoria e il punteggio del ricorrente». Vietato in altre parole iscriversi a Torino, dove quest’anno c’è stato il candidato con il punteggio più alto: (80,5) ma anche a Bari (76,7), a Bologna (73,3) e alla Statale di Milano (72,6). Porte aperte invece in Molise (50,7), a Sassari (51,8) o a Salerno (53,8). Più che un’immatricolazione, una deportazione forzata.
Per evitare nuovi ricorsi il 9 ottobre il ministero ha emanato un’altra nota che rovesciava la precedente permettendo ai ricorsisti di iscriversi nella loro prima scelta. Con buona pace di tutti gli altri studenti con la valigia, come la comasca Claudia Colombo: «Io con i miei 37,8 punti sono finita da Pavia a Torino Molinette: spendo 350 euro per una stanza ma sono in un’ottima università. Conosco una ragazza di Varese che aveva passato il test ma ha dovuto rinunciare perché era finita a Salerno. E poi sono scocciata perché l’arrivo di quelli che hanno fatto ricorso ci ha costretto a fare lezione seduti per terra».
Da Padova a Palermo non si contano i disagi che le ammissioni in sovrannumero hanno creato. Inizio dei corsi rinviato, aule stracolme, lezioni in videoconferenza.
Una prova generale del caos che rischia di travolgere gli atenei se davvero il ministro Stefania Giannini terrà duro sull’ipotesi di abolire il test a favore di una selezione a metà o alla fine del primo anno. A Bari la facoltà si è ritrovata ad accogliere quasi il triplo degli studenti previsti dal bando: oltre 600 contro i 237 di partenza. Spingendo i «regolari vincitori di concorso» a sottoscrivere un manifesto di protesta che si concludeva — amaramente — così: «Vogliamo “solo” studiare». Quello che più fa arrabbiare è l’ingiustizia di un sistema che finisce per penalizzare chi segue le regole, giuste o sbagliate che siano. «Conosco gente che, anche prima di fare il test, aveva già deciso di fare ricorso in caso di bocciatura», dice Claudia. «E poi non è giusto per tutti gli altri che invece sono rimasti fuori perché hanno accettato il verdetto», conclude Antonio.

Repubblica 10.11.14
Sanità privata
Dal pediatra al dentista il medico della mutua rinasce al supermercato
Da oggi alla cassa di 78 market Coop si acquisteranno tre pacchetti assistenziali pagando da 10 a 210 euro si potranno evitare ticket e avere visite specialistiche
di Michele Bocci

IN CODA alla cassa del supermercato per comprare sanità. I luoghi da cui passa l’assistenza ai malati diventano sempre più vari e talvolta restano a debita distanza dal servizio pubblico. E’ il caso delle mutue, che grazie a ticket e liste di attesa, stanno ampliando il loro spicchio di mercato. E ora si attende un salto in avanti, perché proprio da oggi si muove un colosso come la Coop.
Per certi versi si tratta di un ritorno all’antico, a quando nel dopoguerra gruppi di cittadini si mettevano insieme per creare fondi dai quali attingere denaro con cui pagare prestazioni sanitarie agli associati. Oggi in Italia ci sono un centinaio di mutue che assistono circa 600mila persone. I dati sono di Placido Putzolu, il presidente della Fimiv, la federazione più grande di queste realtà. Siamo in un campo diverso dalla previdenza complementare delle aziende e degli ordini professionali, che assiste circa 7 milioni di persone, e anche da quello delle assicurazioni private, un altro milione e 200mila. Le mutue assistono chi non ha tutele legate alla professione e non possono permettersi polizze costose. Cittadini che hanno bisogno di un aiuto per visite, esami, assistenza domiciliare e odontoiatria. E’ proprio su quest’ultima specialistica, assai difficile da avvicinare per molti a causa della crisi, che puntano molte di queste realtà. «In pochi anni abbiamo raddoppiato la nostra presenza - spiega Putzolu - La nostra è sanità integrativa e bisogna diffidare dalle mutue spurie, con dentro i privati». La spesa per i soci varia a seconda della copertura che vogliono avere. In media ci vogliono 160 euro all’anno ma per programmi completi si arriva anche a 500 euro.
Da oggi in ben 78 ipermercati e grandi supermercati di Coop Adriatica, Reno e Consumatori nord-est di Emilia, Lombardia, Trentino, Friuli, Veneto, Marche e Abruzzo verranno venduti i pacchetti NoiSalute, assicurati da Faremutua. Le visite dal pediatra o dal dentista si pagheranno alla cassa come fossero detersivi o sacchetti di verdure. Tre le tariffe previste. Appena 10 euro all’anno per avere il rimborso del ticket per visite, esami, assistenza a domicilio dopo un ricovero, consulenza in caso di familiari non autosufficienti, disponibilità telefonica di un medico 24 ore su 24 oppure a domicilio. Un modo che sembra più che altro pensato per far avvicinare i consumatori a questo strumento. Con 110 euro c’è un’indennità in caso di ricovero e tariffe ridotte per una serie di prestazioni offerte da professionisti convenzionati, che in alcuni casi hanno lo studio addirittura dentro il supermercato. Il pacchetto da 210 euro offre anche il dentista, con visita odontoiatrica e igiene orale gratuite, oltre a un piano di assistenza per i non autosufficienti. Del resto si prevede di avere molti soci anziani.
Dalle Coop puntano anche sulla rapidità della risposta, perché sanno che questo è uno dei problemi del servizio pubblico. Le strutture e gli specialisti convenzionati sono di Unisalute della Unipol. «Siamo convinti di offrire un servizio utile, qualificato e approvato da Coop a migliaia di persone che oggi rinunciano o faticano a curarsi - dice Marco Gaiba, presidente di Faremutua - Non si tratta di sostituire il servizio sanitario nazionale ma di integrarne le prestazioni con un meccanismo di mutuo aiuto, che consente di ottenere di più a costi minori». Da oggi si capirà quante persone infileranno nel carrello l’assistenza sanitaria integrativa.

Repubblica 10.11.14
Cornaglia Ferraris “Così i cittadini si difendono dai disservizi del pubblico”

E’ LA crisi del sistema pubblico ad aprire spazi alle mutue. Ne è convinto Paolo Cornaglia Ferraris, medico specializzato in pediatria e ematologia e scrittore sempre pronto a rivelare le falle del servizio sanitario nazionale.
Cosa pensa della crescita dell’assistenza integrativa?
«E’ come una risposta di anticorpi di fronte ad un infezione. Il sistema sanitario non è più sostenibile ed efficiente. Così i cittadini hanno bisogno di qualcuno che gli offra assistenza e prezzi non troppo alti».
Perché il servizio sanitario è in cattive condizioni?
«E’ stato violentato dalle amministrazioni regionali, che lo hanno usato in modo clientelare per solidificare i poteri locali. I costi sono diventati non più sostenibili perché appesantiti da corruzioni e sprechi. E così le mutue copriranno aree che non funzionano. Si muovono in modo ben organizzato, offrendo sanità ai cittadini a prezzi contenuti ».
Il regionalismo in sanità ha fallito?
«L’idea di partenza era buona, finalmente si decentrava, mettendo le decisioni in mano a persone che conoscono i bisogni locali. Ma lo schema non è stato rispettato, si è risposto alle clientele per consolidare il potere. Del resto la sanità rappresenta l’80% del bilancio delle regioni, e serve a fare assunzioni, dare appalti, accordarsi con i sindacati».
Se le mutue crescono ancora cosa succederà?
«Produrranno un sistema parallelo, caratterizzato dall’appropriatezza delle prestazioni perché se uno ha bisogno di assistenza avrà quella di cui necessita davvero, e niente di più. In quel sistema legato al denaro non si faranno gli esami e le visite inutili che vengono svolti nella sanità pubblica».
Le regioni si devono preoccupare delle mutue?
«Non credo, l’unica cosa di cui sono preoccupate adesso è di protestare contro il taglio di 4,5 miliardi. Ma Renzi è stato gentile, poteva fare riduzioni ben più radicali. Comunque vedranno molti pazienti allontanarsi. Del resto con quello che costa il ticket è meglio rivolgersi a privati, che fanno prezzi concorrenziali e danno prima le prestazioni oppure, appunto, farsi coprire da una mutua». (mi. bo.)

il Fatto 10.11.14
Roma, quel vagone per Pantano
Metrò C, taglio del nastro beffa: il treno si ferma
di Tommaso Rodano

Il romano conosce i suoi polli, e i suoi mezzi pubblici. Sorprenderlo è difficile. Quando il treno nuovo di zecca della famigerata Metro C - l'opera pubblica più costosa del Dopoguerra - si ferma a quattro fermate dal capolinea, la prima reazione istintiva è la risata. I compagni di viaggio incrociano gli sguardi: la reazione è la stessa per tutti, tra l'ironia e l'amarezza. Nella città eterna (eterni guasti ed eterni cantieri) non sarebbe potuto essere altrimenti. "Ma che davèro? Di già?" - sorriso sarcastico - "Annamo bene, annamo". Già s'intuisce, negli sguardi e nei ghigni di chi c'è abituato: non sarà che il primo di una lunga serie di problemi.
I TRENI della linea Pantano - Centocelle sono partiti dai capolinea alle 5 e 30 di domenica mattina. Nonostante l'orario per cuori impavidi, c'è una piccola folla fuori dal capolinea di Centocelle, quartiere popolare diversi chilometri a est della fermata della metro A più vicina, quella di San Giovanni. Molti sono curiosi, alcuni quasi degli ultrà di quest'opera pubblica leggendaria che apre il suo primo tratto dopo un travaglio eterno. Quasi tutti sono armati di smartphone per immortalare l'evento. La prima novità, agli occhi, è il colore della nuova linea: le insegne e in nomi delle fermate sono in verde, dopo il rosso della A e il blu della B. Fanno una certa sensazione le carrozze bianche - sei per ogni convoglio -. Completamente immacolate: mai visto niente di così pulito a Roma. Durerà poco, ma chi c'era può raccontare con orgoglio la visione celestiale. I treni si guidano in automatico, grazie al sistema driverless (senza conducente), che l'Atac descrive come un fiore all'occhiello. Tutto bello, tutto a posto. Finché la carovana non si ferma, senza preavviso. "Iniziamo alla grande...". Battute, imprecazioni, smartphone che riprendono l'imbarazzante esordio. Siamo alla stazione Due Leoni - Fontana Candida. La gente esce dalle carrozze. Passano due, cinque, dieci minuti. Allo scoccare dell'undicesimo arriva un altro treno e si riparte, fino al capolinea, quattro fermate più in là. Gli impiegati di Atac provano a metterci una pezza: l'interruzione è stata causata da "problemi sulla linea". Non è il treno nuovo, insomma, ad aver fatto cilecca. L'azienda dei trasporti, più tardi, conferma questa versione: "Non c'è stata alcuna interruzione nella corsa del primo treno partito dalla stazione di Centocelle. Si è fermato solo alcuni minuti per consentire la soluzione di un problema tecnico proprio per evitare limitazioni e completare la corsa. I passeggeri hanno raggiunto il capolinea senza bisogno di cambiare treno". I presenti possono testimoniare il contrario, ma tant'è.
LA PRIMA corsa della Metro C, dopo un'attesa da deserto dei Tartari, si è fermata. Il ballo della debuttante ha avuto una lunga parentesi d'imbarazzo. Ironia del destino, a fermare il treno sarebbe stato proprio la tecnologia all'avanguardia driverless. Così, almeno, ha spiegato l'assessore ai trasporti Guido Improta: "Il sistema automatico non comanda solo i treni ma anche i binari e stamattina ha segnalato un'occupazione. Il treno viene arrestato per motivi di sicurezza, ma quando è ripartito poteva tranquillamente riprendere". L'assessore cita Matteo Renzi: "Saranno contenti i gufi".
I gufi capitolini, in verità, sono abituati a molto peggio. In questi anni ne hanno viste di tutti i colori, e non si fasciano di certo la testa per un piccolo stop. L'apertura di questo tratto di Metro C è una delle prime buone notizie da diverso tempo a questa parte. Arriva dopo un percorso a ostacoli impressionante. Progettata negli anni '90, nata già con l'idea di diventare la più costosa d'Europa. I cronisti più navigati ricordano le conferenze stampa a metà anni Novanta: l’annuncio della linea che doveva attraversare tutta Roma. La promessa di lavori rapidi. Poi gli intoppi, le polemiche - queste sì, eterne - sul percorso sotto le zone archeologiche. Più o meno in profondità, a destra o a sinistra.
Una linea esagerata: dall'appalto aggiudicato nel 2007 a un prezzo di 2,7 miliardi per una tratta di 25,6 chilometri, oggi la spesa stimata è arrivata alla cifra assurda di 3,7 miliardi. Ieri è stata inaugurata una piccola parte del progetto: 15 stazioni per 12,5 chilometri. Praticamente metà del tracciato, senza nessun incrocio con le altre due linee di Roma.
Il percorso Centocelle-Montecompatri è ancora isolato dal resto della rete. Tra ricorsi, controricorsi, esposti, arbitrati, varianti e indagini della Corte dei Conti (danno erariale contestato dai giudici contabili - solo tra il 2006 e il 2010 - 364 milioni di euro), la storia di questa metropolitana è un film dell'orrore. Se si continua così l'inaugurazione della Metro C vera, fatta e finita - da Monte Compatri a piazzale Clodio - finiranno per raccontarla i nipoti dei nipoti dei gufi.

La Stampa 10.11.14
Roma, ecco il metrò più caro: 160 milioni al chilometro
Apre la terza linea: era attesa per il Giubileo. Ma il primo convoglio si ferma
di Giacomo Galeazzi
qui

Corriere 10.11.14
Multe, sentito dopo la denuncia
Teste contro Marino «Mai rilasciati pass temporanei»
di Ernesto Menicucci

ROMA C’è un superteste che, ascoltato dai carabinieri, smentisce la ricostruzione fornita da Ignazio Marino e dal suo staff sulle multe prese ai varchi della Ztl: «Prima del 12 agosto 2014 non c’era alcun permesso temporaneo per il sindaco», è la dichiarazione, verbalizzata dai militari dell’Arma, di un dirigente dell’Agenzia della Mobilità. E, adesso, spuntano gli orari delle otto contravvenzioni, elevate dal 25 giugno al 25 luglio 2014, il mese in cui la Panda rossa del sindaco risultava «sguarnita» del pass per il centro.
Otto passaggi, registrati dall’occhio elettronico, finiti nei tabulati del Dipartimento entrate del Comune, identificate con numero di atto progressivo (dall’1314114... all’1314128...) e di verbale di accertamento. Particolare non di poco conto: significa che c’è un vigile che ha convalidato l’infrazione. Gli otto verbali sono «spariti»: quattro sono arrivati all’ufficio notifiche, altri quattro no.
Per quanto riguarda gli orari, l’auto di Marino entra, senza autorizzazione, nei varchi a mezzogiorno del 26 giugno (giovedì), alle 15.25 circa del 28 giugno (sabato), verso le undici e mezza del 3 luglio (ancora giovedì), a mezzogiorno meno un quarto del 4 luglio, subito dopo le 18 del 21 luglio (lunedì) e infine alle 11.30 e alle due del pomeriggio del 25 luglio.
Giornate nelle quali l’agenda del sindaco è piuttosto fitta: il 26 giugno, all’una, Marino era alla presentazione del cartellone del Globe Theatre a Villa Borghese; il 28 all’inaugurazione di una mostra; il 3 luglio, verso l’ora di pranzo, lasciava palazzo Chigi dopo il tavolo sul piano di rientro di Roma; il 4 era in Campidoglio a parlare dello stadio della Roma; il 25 luglio a parco Nemorense, a Roma nord, per un incontro coi cittadini. Possibile che, con la sua Panda, il sindaco facesse avanti e indietro, uscendo ed entrando dal centro storico, dove vive e dove si trova il suo ufficio in Campidoglio? Oppure è più probabile che al volante ci fosse un familiare, tipo la moglie? Sulla questione del pass temporaneo, dal 24 giugno, altro «mistero». Secondo il Campidoglio quel permesso (apparso e scomparso dai terminali) era «retroattivo», inserito il 12 agosto per «sanare» la situazione precedente. Ma, in questo caso, il gabinetto avrebbe dovuto pagarlo: 73 euro al giorno, per un massimo di 27 giorni, più le spese d’istruttoria. Sono altri duemila euro, che nessuno ha mai saldato.

il Fatto 10.11.14
A Firenze
Casa dello Studente, quando l’obbrobrio è alto decine di metri
di Matteo Maffucci e David Diavù Vecchiato

IL QUARTIERE E LA SCOMPARSA DEL PARCO DELLA NEOCLASSICA VILLA DEMIDOFF (O VILLA SAN DONATO)

Questa settimana soffermiamo lo sguardo di RiFatto non su uno dei due milioni di edifici abbandonati di questo Paese, né su uno degli innumerevoli ecomostri lasciati a metà, bensì su una grande struttura in uso, spesso criticata, che a noi piacerebbe veder dipinta con opere di arte urbana poiché il contesto potrebbe permetterlo. Le sue alte torri di cemento, che dopo la ristrutturazione di qualche anno fa sono state tinteggiate di un color crema che ha coperto il triste grigio scuro, svettano altissime nel panorama del quartiere Novoli di Firenze. È la Casa dello Studente Piero Calamandrei di viale Morgagni, progettata nel 1964 dagli architetti, Paolo Pettini e Rosario Vernuccio con Giorgio Giuseppe Gori, loro maestro e presidente dell’Ordine degli Architetti della Toscana dal 1934 al 1961, che si occupò a lungo di edilizia scolastica progettando edifici all’insegna della funzionalità e dell’essenzialità, senza mai dare concessioni allo stilismo e al classico. Il progetto prevedeva una base dedicata a zone comuni e di servizio, come reception, mensa, sala studio e spazi ricreativi, e le quattro torri per le camere e i bagni comuni. Edificata nel 1973, quando Gori era già scomparso da quattro anni, coi suoi 432 posti letto è la struttura ricettiva più grande tra quelle gestite dall’Azienda per il diritto allo studio universitario di Firenze, che ha un totale di circa 800 posti in 8 diverse residenze.
COME SI PUÒ ALLOGGIARE LÀ? Bisogna soddisfare i criteri di assegnazione, essere dunque studenti fuori sede iscritti all’Università degli Studi di Firenze, avere buoni voti e un reddito familiare modesto. Molti sono gli studenti stranieri che ci vivono, venuti a studiare a Firenze attratti senz’altro dall’arte del Rinascimento, da Michelangelo e da Leonardo, ma poi calati nell’urbanistica di Novoli. quartiere né rinascimentale né esteticamente coerente che è stato protagonista dell’espansione edilizia a nord-ovest di Firenze degli anni 50 e 60. Sono molti i forum online in cui gli studenti del Campus Novoli più informati si lamentano degli edifici e dei materiali scadenti con cui sono stati edificati. In un’ipotetica classifica delle strutture più criticate di Novoli la Casa dello Studente di viale Morgagni non figura poi così in alto. È preceduta dal celebre “ditone”, l’ex-stabilimento FIAT oggi abbandonato, dal cinema Multiplex e dal colossale Palazzo di Giustizia che, malgrado la firma illustre dell’architetto Leonardo Ricci, sembra un edificio di Gotham City. Ma probabilmente il vero scempio ignobile subito dal quartiere è stato la scomparsa del parco della neoclassica Villa Demidoff (o Villa San Donato), una delle più belle ville fiorentine, costruita tra il 1822 e il 1831 dall’omonima famiglia di nobili russi. Il parco è stato divorato in pieno boom economico dalle ruspe delle ditte di costruzioni che ne hanno man mano edificato tutta l’area. Era un parco all’inglese dove poco più di cento anni fa venivano allevati bachi da seta e dove nel 1889 fu realizzato il primo campo da golf italiano. Dopo i danni della Seconda Guerra Mondiale la villa rimase abbandonata e oggi è uno scheletro in degrado, che non ha mai goduto dei vincoli della Soprintendenza, malgrado fosse la struttura più importante in zona. In zona c’è anche un’altra Casa dello Studente, anch’essa non molto amata per la sua struttura, quella di costruzione recente di via Doni inaugurata nel 2005 e dedicata al poeta e scrittore Mario Luzi. Sembra copiata a Le Carré d'Art, il museo di Arte Contemporanea di Nîmes, ma con pareti in cemento invece che in eleganti vetro e metallo come la sua struttura ispiratrice. Dal momento che l’arte urbana è cultura e che nella struttura di viale Morgagni sono stati realizzati murales interni, ci è venuto in mente che si potrebbero dipingere anche le pareti delle torri e abbiamo pensato a Ozmo e al suo lavoro tra immagini classiche e contemporaneità per interpretarle.
L’opera che l’artista ci ha proposto come bozza, e che ha davvero realizzato su un muro di Miami poche settimane fa, mette a confronto il David di Michelangelo con la Statua della Libertà e può leggersi sia in positivo, come un augurio agli studenti di farcela anche all’estero, che in senso critico, come simbolo di una fuga di cervelli dall’Italia. Sta a voi giudicare.

La Stampa 10.11.14
Berlino, il lungo addio al Muro
Merkel: i sogni si avverano
Spettacolari giochi di luci ed emozioni. La Cancelliera: cambiare si può
di Tonia Mastrobuoni

Forse ottomila palloncini luminosi, incustoditi, tenuti per tre giorni all’aperto in una capitale pesa d’assalto da due milioni di turisti, sono stati un azzardo. Tanto che già sabato, lungo la linea di quindici chilometri di «frontiera della luce» che ricostruiva il percorso della «striscia della morte», ne erano stati bucati, danneggiati e rubati un bel po’. E al momento di liberarli in aria, circa alle sette e mezzo di ieri sera, neanche la coreografia ha funzionato sempre, qualche palloncino è partito troppo presto, qualcun’altro troppo tardi, qualcuno è rimasto attaccato al filo, con i «Ballonpaten», i «padrini dei palloncini» imprecanti. Ma è indubbio che il 25° anniversario del crollo del muro ha regalato molti momenti emozionanti.
Con i suoi lunghi capelli scuri, tintissimi, e l’immancabile cappello nero, Udo Lindenberg non poteva mancare, ad esempio. Icona rock degli Anni Settanta, è sempre stato un mito anche dietro il muro, almeno da quando aveva dedicato una canzone a un suo amore dell’adolescenza, «La ragazza di Berlino Est». E quando ha attaccato con le prime note, sul gigantesco palco davanti alla Porta di Brandeburgo, qualcuno tra il pubblico ha cominciato ad asciugarsi le lacrime.
Ma la cultura e la storia tedesca del dopoguerra, sono piene di storie di «cieli divisi», di amori spezzati dal muro, come avrebbe detto forse la più grande scrittrice della Ddr, Christa Wolf. E sul ieri palco c’era chi suscita reazioni più contrastanti come il leggendario cantautore dissidente Wolf Biermann, che fu espatriato dal regime negli Anni 70 e non perde occasione di insultare la Linke per l’indubbia, persistente ambiguità sulla Ddr. Ieri ha cantato una canzone che molti prigionieri nelle orrende carceri della Ddr ascoltavano per farsi coraggio e che invitava a non chiudersi, a non amareggiarsi, in tempi grami. La stessa cantata tre giorni fa al Bundestag.
Ovvio che in una giornata così importante non potesse mancare l’omaggio della cancelliera, che è avvenuto invece in mattinata, lungo il vecchio muro, dove Angela Merkel ha portato delle rose e ha ricordato «lo Stato ingiusto» che «portò milioni di persone ai limiti della sopportazione e oltre», «ossessionato dall’ideologia». La cancelliera, cresciuta nella Germania Est, ha parlato di «fantasia meravigliosa» che si liberò dopo il 9 novembre dell’89. Ma nel giorno dell’anniversario della fine del regime comunista, Merkel ha voluto anche rivolgere un pensiero al presente: «Possiamo cambiare le cose in meglio, ne abbiamo la forza, è questa la lezione della caduta del muro». In questi giorni, ha aggiunto, «è una lezione rivolta all’Ucraina, alla Siria, all’Iraq e a molte altre aree del mondo».

Corriere 10.11.14
«I meriti Usa? Sopravvalutati E con l’Urss si sbagliò tutto»
di Ennio Caretto

Il titolo del libro, «Il collasso: l’accidentale apertura del muro di Berlino» (traduzione letterale), è intrigante, ma il contenuto lo è ancora di più. Il muro cadde, scrive l’autrice, la storica Mary Elise Sarotte, in seguito non all’intervento del presidente americano Ronald Reagan come creduto comunemente negli Stati Uniti ma agli errori dei leader comunisti tedeschi e alla rivolta dei berlinesi dell’Est. L’Occidente contribuì alla sua caduta, «ma essa fu frutto innanzitutto della complessa interazione tra Gorbaciov, gli incompetenti vertici della Germania orientale e l’opposizione interna».
Che cosa avvenne esattamente a Berlino est quella notte di venticinque anni fa?
«Che un membro del Politburo, Günter Schabowsky, un incapace, annunciò a una conferenza stampa televisiva serale che tutti i tedeschi orientali sarebbero stati subito liberi di viaggiare all’estero. Non era vero, ma i berlinesi si diressero in massa al muro e nessuno poté fermarli. La Germania dell’Est era praticamente in rivolta e il partito era impotente. Per la prima volta a Lipsia un mese prima la polizia aveva rinunciato a usare la forza contro una dimostrazione di protesta perché davvero enorme».
Quale fu il merito dell’America nella caduta del muro?
«Quello di avere contribuito a crearne i presupposti nel corso della guerra fredda appoggiando l’Europa occidentale e i dissidenti nell’impero sovietico e fornendo un modello di democrazia e di crescita economica ai Paesi comunisti. Ma la caduta del muro colse di sorpresa l’intero Occidente proprio perché non ne fu il diretto artefice. Lo ricordo bene perché allora studiavo e vivevo a Berlino».
Ho sentito rivolgerle accuse di revisionismo storico…
«Non mi considero una storica revisionista ma un’accademica. Ho scritto questo libro perché da anni quando presentavo il mio precedente libro ( «1989 , lo sforzo per creare l’Europa del dopo guerra fredda», ndr ), il pubblico mi chiedeva come mai fosse crollato il muro di Berlino. Mi resi conto che la storiografia concernente la fine della guerra fredda e il periodo successivo era in prevalenza memorialistica».
Lei che operazione ha fatto?
«Ho attinto agli archivi e ai documenti desecretati di recente da sei Paesi: le due Germanie, la Russia, l’America, l’Inghilterra e la Francia. Le rivoluzioni sono come le esplosioni: l’esplosivo non basta, ci vuole il detonatore. E il detonatore è locale. Noi americani tendiamo ad agire da soli e questo non lo capiamo. Quando andammo in Iraq nel 2003 qualcuno coniò lo slogan “da Berlino a Bagdad”. Non fu affatto la stessa cosa».
Nel libro «1989» lei si concentra sugli eventi di quell’anno e del ’90 in Europa.
«Sì, e il motivo è che perdemmo una grande occasione per costruire non solo una nuova Europa ma altresì un nuovo ordine mondiale. Anche allora esaminai molti documenti e giunsi a una conclusione diversa da quella generalmente accettata. L’amministrazione Bush senior collaborò con Gorbaciov soltanto a parole, ma in realtà emarginò la Russia dall’Europa. Fu un capolavoro di politica e diplomazia, ma certi successi contengono i semi di future crisi, quella ucraina per intenderci, come scrisse nelle sue memorie il segretario di Stato James Baker».
Non avrebbero potuto rimediarvi Bill Clinton e Bush junior?
«È una domanda a cui non so rispondere: la maggioranza dei loro documenti non è ancora desecretata. Posso però dire che non vi rimediarono e che con Putin non si ripresenterà un’occasione come quella di 25 anni fa. Nella sua testa, l’Urss non è morta, è morto il comunismo, ma la Russia mantiene la propria sfera d’influenza».
Tempo fa lei scrisse che la fine delle due Germanie plasmò la posizione di Putin verso l’Occidente
«Quando il muro di Berlino crollò e con esso crollò il comunismo Putin era a Dresda quale ufficiale del Kgb. Penso che non abbia mai superato il trauma della sconfitta di tutto ciò in cui credeva. È questo che preoccupa la cancelliera Merkel nella crisi ucraina. Lei può parlare in russo a Putin, che può parlarle in tedesco. Ma non sa se riuscirà a strappargli una soluzione politica».

La Stampa 10.11.14
Dove i narcos hanno licenza di uccidere
di Federico Varese

L’alleanza tra politica, forze dell’ordine e trafficanti in Messico ha generato un sistema totalitario, i cui meccanismi ricordano l’universo concentrazionario descritto da Primo Levi.
Oggi sappiamo con certezza che i 43 studenti messicani scomparsi il 26 settembre sono stati trucidati da un gruppo di narcos, su ordine del sindaco della cittadina di Iguala. In un Paese normale, il 26 settembre sarebbe passato quasi inosservato. Un centinaio di studenti di una scuola professionale si mette in viaggio per partecipare ad una manifestazione contro il sistema di assunzione degli insegnanti.
Sperano di raggiungere la capitale dello stato di Guerrero, ma vengono bloccati dalle forze federali. Si dirigono così verso Iguala, dove sta tenendo un comizio la moglie del sindaco, la quale si vuole candidare a governare la città. La signora ha anche il dubbio onore di essere la sorella del capo dei narcos locali. Prima ancora di raggiungere Iguala, gli studenti vengono intercettati dalla polizia, che ha l’ordine di bloccarli a tutti i costi. E così le forze dell’ordine sparano in direzione degli autobus dove viaggiano i giovani, facendo due morti. Allo stesso tempo, i poliziotti prendono di mira per errore il pullman di una squadra di calcio, uccidendo tre persone. Il corpo di un terzo studente viene ritrovato il giorno dopo: gli occhi sono stati strappati dalle orbite e la pelle del volto rimossa, lasciando le ossa del cranio scoperte. Questi aguzzini con la divisa non si limitano ad uccidere, ma infieriscono sui corpi senza vita. E’ questa la «violenza inutile» che Primo Levi osserva ad Auschwitz e che oggi è comune nel Paese.
La logica totalitaria impone anche la soppressione e la falsificazione della memoria. Dopo lo scontro a fuoco, la polizia «arresta» gli studenti e li consegna ad un gruppo di trafficanti, i Guerreros Unidos, affiliati al cartello Beltrán Leyva. Caricati su un camion, alcuni ragazzi muoiono asfissiati durante il tragitto, proprio come le vittime dei nazisti morivano nei treni che li portavano ai campi di concentramento. Chi sopravvive al viaggio viene prima interrogato e poi freddato con un colpo di pistola. La «memoria dell’offesa» analizzata da Levi deve essere estirpata a tutti i costi. Quale prova dell’offesa è più tangibile se non un corpo, delle ossa, dei brandelli di carne, i denti di un uomo? I narcos non hanno a disposizione gli stessi mezzi dei nazisti, ma si arrangiano come possono, costruendo una pira di corpi cui danno fuoco con diesel, benzina, legna, pneumatici e plastica. Il rogo dura da mezzanotte fino alle tre di pomeriggio del giorno dopo. È, in tutto e per tutto, un crematorio a cielo aperto, nei pressi della discarica cittadina. Il rispetto per i morti tipico della tradizione cristiana è assente nell’ideologia totalitaria dei narcos e dei loro alleati. E nessuno pensi che questo massacro sia un’eccezione a Iguala. Nel corso dell’indagine, gli investigatori si imbattono in diverse fosse, con i resti putrefatti di decine di persone. Resti umani si trovano dovunque nelle campagne del Messico, incastrati nelle pieghe del terreno come le ceneri prodotte dai forni crematori sono sparse nei campi di sterminio nazisti.
La falsificazione della memoria consiste, in questo caso, nel dipingere gli studenti come dei pericolosi sovversivi, come i veri criminali. Così sono stati descritti gli aspiranti insegnanti ed educatori sociali che frequentavano la Scuola Normale di Ayotzinapa. Le Scuole Normali in Messico non formano l’élite politica e accademica del Paese, come avviene in Italia e Francia. Fondate negli Anni Venti del ’900 all’epoca della riforma agraria, sono frequentate da figli dei contadini e le loro sedi sono oggi strutture fatiscenti, senza acqua corrente ed elettricità. Questi Normalisti molto speciali, che vivono a convitto e ricevono un piccolissimo sussidio giornaliero, sono direttamente impegnati nell’amministrazione scolastica. Oggi quasi senza più fondi, le poche Scuole rimaste ancora in vita (solo 15) vengono viste con sospetto dal governo perché educano all’impegno e alla lotta sindacale. Ad esempio, nel Febbraio del 2000, 176 studenti sono stati arrestati perché si ostinavano a scioperare contro la decisione del governo di tagliare i fondi dell’istituto. «Nessuno li difende perché sono figli di povera gente», chiosa Etelvina Sandoval, una ricercatrice dell’Universidad Pedagógica Nacional.
Il massacro di Iguala mostra come la strategia del governo di Enrique Peña Nieto non ha dato i frutti sperati. Gli arresti di importanti capi narcos non sono stati accompagnati da un rinnovamento della politica messicana. Il nesso che lega trafficanti a sistema politico ed economico è ancora saldissimo, come mostra questa vicenda. Fino a quando questa zona grigia persiste, non vi sarà speranza di salvezza.
Uno degli slogan che si possono ancora leggere sul muro sgretolato della Scuola Normale di Ayotzinapa è: «Tornerò e saremo milioni». Sono le parole pronunciate nel 1782 dall’ultimo leader degli indios Inca del Perù, poco prima di essere ucciso dagli spagnoli. Speriamo che anche lo spirito dei 43 studenti trucidati dai narcos produca milioni di ribelli pronti a liberare questa terra maledetta.

Corriere 10.11.14
A margine del vertice Apec
Cina e Giappone tornano a parlarsi
A Pechino l’incontro tra Xi e Abe
Colloquio tra il presidente cinese e il premier giapponese, il primo da quando sono entrati in carica due anni fa. Tra i due Paesi tensione alta su un gruppo di isole contese
di Guido Santevecchi
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La Stampa 10.11.14
Centrali chiuse e niente barbecue, a Pechino cielo blu per un giorno
Misure anti-smog in occasione dell’arrivo di 21 capi di Stato
di Ilaria Maria Sala

Il colore del cielo è quello desiderato: «blu Apec», come è stato soprannominato dai pechinesi lo sforzo massiccio in cui si è impegnato il governo cinese per presentarsi al mondo con un’aria più respirabile in occasione del summit del gruppo di Cooperazione Economica dell’Asia-Pacifico. Crudeltà della sorte, però, l’analisi dell’aria resta implacabile, e riporta una concentrazione di micro particelle PM25 superiore a 104, valore per cui respirare continua a essere considerato «malsano» secondo gli standard dell’Organizzazione Mondiale della Salute.
E sì che le misure adottate per purificare il cielo e non far sfigurare Pechino di fronte ai 21 capi di Stato in arrivo – fra cui Obama e il primo ministro giapponese Abe – non hanno lasciato nulla al caso: per limitare il traffico nelle strade cittadine sono state temporaneamente chiuse scuole e aziende (anche se quest’inaspettata vacanza verrà fatta scontare con fine settimana lavorativi per il resto del mese di novembre). Le auto possono circolare solo a targhe alterne, ma tutto ciò che si poteva chiudere è stato chiuso: i crematori hanno l’ordine di non operare fino al giorno in cui i leader mondiali non saranno ripartiti, e anche la tradizione di bruciare offerte per i morti di fronte alle tombe è stata temporaneamente sospesa, così come sono state imposte restrizioni su chi brucia incenso nei templi.
Ma anche per i vivi le cose non sono più semplici: i ristoranti di anatra arrosto - uno dei piatti più noti della cucina di Pechino - hanno avuto l’ordine di chiudere i battenti, e multe pesanti attendono i distratti che proveranno a cuocere imperterriti i loro animali allo spiedo. Inoltre, per non correre il rischio che i venti spazzino via tutti questi sforzi, il governo ha esteso le restrizioni che rallentano la vita nella capitale anche alle regioni circostanti, in un ampio arco che comprende Tianjin e la Mongolia Interna, nonché l’industriale Hubei. I camion possono entrare a Pechino solo per tre ore durante la notte e per incoraggiare i 21 milioni di abitanti della capitale a lasciare la città per qualche giorno le agenzie di viaggio sono state incentivate a fare sconti. Il meeting dei capi di Stato non è nemmeno nella capitale stessa, ma presso il lago di Yanqi, a 50 chilometri da Pechino, in una zona montuosa dall’aria decisamente più fresca rispetto a quella di città.
Il tema ambientale, del resto, era già sull’agenda dell’incontro, dato che il summit per la cooperazione economica non può ignorare uno degli effetti collaterali del rapidissimo sviluppo industriale della Cina. Il Presidente Xi Jinping, il cui titolo principale è quello di Segretario Generale del Partito, nel discorso di chiusura degli incontri preliminari, domenica mattina, ha espresso il desiderio di realizzare un «sogno per l’Asia-Pacifico», estendendo così il suo slogan preferito del «sogno cinese» (che sarebbe un sogno fatto di sviluppo e dell’intensificarsi degli scambi nella regione), al tema dell’ambiente.
Lo slogan è volutamente ambiguo: i Paesi che si danno appuntamento all’Apec sono un gruppo eterogeneo, con molte questioni spinose aperte. Molti vicini della Cina hanno dispute territoriali con il gigante asiatico, ma il vertice Apec se non altro porterà al primo incontro fra il premier giapponese Abe e il leader cinese Xi Jinping, nella speranza che questo possa portare a una distensione nelle relazioni fra Pechino e Tokyo. Inoltre, ci sarà l’incontro con Obama, che arriva in Asia con ancora in volto i lividi della batosta elettorale della settimana scorsa: proprio per questo l’amministrazione americana sembra determinata a portare a casa almeno un accordo positivo con Pechino. E in nome del «blu Apec», gli sforzi si concentrano sul tentativo di diminuire le emissioni di veleni scaricate dalla Cina nel mare, nella terra e nell’aria: gli Stati Uniti, infatti, dopo anni di brontolii, avrebbero finalmente deciso di mettere a disposizione la tecnologia americana per gli sforzi ambientali cinesi, riuscendo a convincere la Cina a sottomettersi a dei limiti sulle emissioni di carbonio. Sembra poco. Ma per Obama e per i cieli cinesi, oltre che per i polmoni del mondo intero, anche poco è meglio di niente.

La Stampa 10.11.14
In Cina la "città delle donne"
Viaggio a Loushi, un villaggio in cui in gentil sesso è al comando senza essere "debole"
di Arianna Curcio
qui


il Fatto 10.11.14
Immigrati, teste rasate e la tentazione Le Pen: così sprofonda Calais
Nella Lampedusa francese rabbia e condizioni disumane
di Aline Arlettaz

Calais è una città del Nord della Francia, sulla Manica. Proprio davanti all’Inghilterra, che si può raggiungere dal mare o, ancora più rapidamente, attraverso il tunnel. Oltre duemila immigrati clandestini si trovano lì in questo momento, pronti a tutto per raggiungere il loro Eldorado. Spesso a rischio della loro stessa vita. Come quelli che ogni giorno si nascondono all’interno dei camion e trattengono il più possibile il respiro, infilando la testa in un sacchetto di plastica, così che i poliziotti francesi addetti a controlli sistematici, non possano rilevare la CO 2 del loro respiro, un modo per capire se nei Tir si nascondano clandestini. Si stima che una trentina di loro, ogni notte, riescano a raggiungere l’Inghilterra.
A Sangatte, vicino a Calais, esisteva un centro per questi sans-papier. La sua chiusura nel 2002, per decisione di Nicolas Sarkozy, non ha fatto altro che spostare il problema dei migranti. Da qualche mese il loro numero si è moltiplicato. Prima si trattava soprattutto di ragazzi e giovani tra i 16 e i 35 anni. Un anno più tardi si è registrato un afflusso di donne, spesso con i loro bambini. La composizione di questa popolazione cambia a seconda dei conflitti in corso nel mondo. Adesso ci sono siriani, eritrei, etiopi, sudanesi ed egiziani. Trovano rifugio in baracche e campi insalubri, tra le diverse comunità scoppiano delle risse e gli abitanti sono esasperati. Il Comune, la polizia e le associazioni sono disarmati. Il sindaco di Calais, Natacha Bouchart, dell’Ump (centrodestra), dice di comprendere la rivolta dei cittadini che ogni giorno sopportano i vagabondaggi di questi stranieri. Sa molto bene chi si avvantaggia di questa situazione: il Fronte Nazionale. Quindici giorni fa, Marine Le Pen si è fatta vedere a Calais. Come aveva fatto nel marzo 2011 a Lampedusa, dove era andata incontro ai migranti. All’epoca aveva dichiarato: «Io, se ascoltassi solo il mio cuore, certo vi offrirei di salire sulla mia barca, solo che la mia barca è troppo fragile e se vi prendo a bordo colerà a picco e noi annegheremo insieme... L’Europa non è più in grado di accogliere tutti questi clandestini ». A Calais, ha denunciato l’immigrazione clandestina.
La signora sindaco dunque deve prendere urgentemente provvedimenti. In primo luogo, trovare un luogo aperto di giorno dove i migranti possano farsi una doccia in condizioni decenti. Perché ormai si tratta di un problema sanitario. David Lacour, direttore di un centro d’accoglienza per donne e bambini a Calais, spiega che da un mese e mezzo le docce della struttura non funzionano più e che c’è solo una doccia mobile. È catastrofico, aggiunge, pensare che il Paese dei diritti umani lasci incancrenire così una situazione. Allo stato delle cose questi immigrati si lavano usando le manichette d’acqua dei pompieri o approfittano delle toilette dei bar. Ma da qualche giorno, ci sono dei baristi che rifiutano l’accesso ai loro locali. Invocando l’igiene o per paura delle risse o anche, spiegano, per via dell’eccessivo consumo di alcol. Ed ecco che s’immischiano dei gruppuscoli d’estrema destra. Il 7 settembre scorso la prefettura ha autorizzato una manifestazione dell’associazione «Salviamo Calais». Davanti al municipio, una formazione, peraltro ufficialmente sciolta dal ministero dell’Interno, ne ha approfittato per tenere un incontro. E che incontro! Il suo leader, Yvan Benedetti, ha incitato la popolazione di Calais, tra cui si trovavano dei giovani tatuati con simboli delle SS, ad attaccare i migranti. E ci sono stati degli incitamenti all’odio.
Come uscire da una simile situazione? La settimana scorsa il sindaco di Calais è andata a Londra per allertare i parlamentari britannici e chiedere aiuto. L’accoglienza è stata piuttosto glaciale. Gli onorevoli le hanno detto che stava a lei, in quanto sindaco, risolvere il problema e spetta alla Francia controllare le frontiere. Mercoledì, il ministro dell’Interno francese, socialista, che sollecitava anche lui la collaborazione della polizia inglese, ha ricevuto un cortese ma fermo rifiuto dal suo omologo britannico. Lo stallo è totale. In effetti, a Calais come a Lampedusa, occorrerebbe una politica dell’immigrazione europea. Che al momento non esiste. Intanto gli immigrati continuano ad arrivare. Sempre con il sogno di attraversare la Manica.
[traduzione di Carla Reschia]

Corriere 10.11.14
Un economista ad Auschwitz
I silenzi uccisero Renzo Fubini
Era allievo di Einaudi. Che non seppe vedere cosa stava accadendo
di Aldo Cazzullo

«La polizia italiana di Aosta arrestò Renzo Fubini il 7 febbraio 1944 in un convento di Ivrea. Lo attirarono all’esterno dicendo che avevano un messaggio da parte della moglie, e lo presero. Avevano ricevuto una lettera non firmata: all’epoca le delazioni venivano rimunerate 5 mila lire, più o meno 250 euro di oggi, ma pare che questa sia rimasta anonima».
Le pagine che Federico Fubini dedica alla storia di Renzo, fratello di suo nonno, hanno l’asciuttezza e la forza di un grande libro. Il titolo, La via di fuga (Mondadori), indica il tentativo vano dell’economista ebreo, allievo di Luigi Einaudi, borsista alla Rockefeller Foundation di New York nel pieno della Grande depressione, di sottrarsi alla persecuzione razziale e allo sterminio nazista. Ma indica anche il possibile rimedio a una crisi — quella di oggi, come quella degli anni Trenta — che non è soltanto economica ma è anche politica, culturale, morale.
Il Fubini giornalista, che indaga sulla compravendita di voti in Calabria (terra dove affonda le radici un altro ramo della sua famiglia) e sull’avvento di Alba Dorata nell’ora più nera del collasso greco, si identifica in parte con la ricerca dell’antenato economista, cui somiglia in modo impressionante, come dimostra il confronto tra la foto del protagonista in copertina e quella dell’autore.
Ovviamente il libro restituisce la terribile singolarità della tragedia degli ebrei italiani nel secolo scorso. Ma emergono anche elementi di raffronto tra il modo in cui l’Italia reagisce alla crisi del ’29 e alla svolta isolazionista e bellicista del fascismo, e il modo altrettanto inadeguato in cui oggi il nostro Paese, il nostro apparato produttivo e le istituzioni europee stanno reagendo a una crisi che minaccia di produrre devastazioni sociali e politiche quasi altrettanto gravi. L’autore cita un allievo di Renzo all’università di Trieste, l’economista Albert Hirschman, secondo cui ci sono tre modi di reagire alle crisi: exit , defezione; voice , protesta; loyalty , lealtà al sistema in declino. E in effetti la perseveranza con cui le Merkel e gli Schäuble insistono nella loro visione ortodossa del monetarismo e del rigore può ricordare l’ottusità con cui il presidente americano Hoover rifiutò sino all’ultimo la possibilità di un piano di investimenti pubblici per far ripartire l’economia. Ma, sostiene l’autore, i fatti dell’Italia nella tempesta delle leggi razziali e della guerra e la vicenda dell’Europa di oggi mostrano che esiste una quarta reazione possibile: il rifiuto della realtà.
Quasi con dolore Federico Fubini annovera anche Luigi Einaudi tra gli studiosi — e gli italiani — che rifiutarono di vedere la realtà. Come studioso, il maestro di Renzo Fubini restò ancorato alla visione classica di Von Hayek, mentre l’allievo era affascinato dalle teorie «interventiste» di Keynes, che contribuirono a trascinare l’America rooseveltiana fuori dalla grande crisi. Come italiano, Einaudi non presagì la tempesta imminente. E non si impegnò per far avere a Renzo un posto all’estero, che l’avrebbe tenuto lontano dal dramma delle leggi razziali e poi dell’occupazione tedesca.
«Dopo aver portato via Renzo, la squadra di poliziotti andò all’appartamento in una frazione poco lontano dove si nascondevano (sua moglie) Marisetta con la figlia Bice, la madre Rosetta Segre e la nonna Bella Allegra Treves. Lei rifiutò di farsi prendere. Disse che non potevano portarla via, perché la legge italiana vietava di arrestare le madri durante l’allattamento. Il caposquadra decise di tornare in caserma a prendere istruzioni, si allontanò e dette il tempo a Marisetta di sparire con Bice, la madre e la nonna mentre Renzo era già in prigione».
Fubini restituisce bene i limiti della cultura economica e imprenditoriale di un Paese «chiuso, gretto, ignorante» come l’Italia fascista, spazzando via insopportabili luoghi comuni e rivalutazioni postume consolatorie ma prive di basi storiche. E addita la continuità delle istituzioni economiche del regime anche nella nuova Italia democratica: «Si è traghettato nella Repubblica il corporativismo, è proseguita l’intrusione della politica nell’azionariato delle imprese e delle banche, e anche l’amministrazione pubblica sarebbe rimasta in democrazia più votata al controllo e al confondere e occultare le responsabilità dei singoli burocrati che all’efficienza o al servizio dei cittadini». Oggi i nodi vengono al pettine, i ritardi dello Stato si sono accumulati, lo scambio tacito tra bassi salari e bassa produttività (anche nell’impresa privata) ha dato i suoi frutti avvelenati: e di fronte alla crisi del sistema e al declino del Paese molti italiani si rifugiano, come i loro nonni, nel rifiuto della realtà. Siamo ancora in tempo a cercare «la via di fuga» che in un contesto lontano e non paragonabile sfuggì a Renzo Fubini. Ma adesso come allora fingere di non stare vivendo un tornante della storia, che richiede risposte straordinarie, può portarci alla rovina. E il riscatto è possibile, ma resta tutto da costruire.
«Il convoglio arrivò ad Auschwitz il 23 maggio 1944 e Renzo Fubini fu immatricolato con il numero A-5410. Qualcuno dichiarò di averlo visto all’ospedale di Birkenau a metà settembre. Secondo un documento del ministero della Pubblica Istruzione del 1950, invece, in un campo satellite di Auschwitz già il 30 luglio sarebbe “deceduto per esaurimento”». Molti anni dopo, Marisetta, la moglie di Renzo, racconterà a sua figlia Bice di aver chiesto a un superstite della Shoah «di dichiarare in un ufficio pubblico di aver assistito al decesso di Renzo. Bice non è sicura, ma probabilmente quel testimone fu Primo Levi».

La Stampa 10.11.14
Quando gli italiani erano “rospi”
Diffidenza, disprezzo, disastri di mare: nel monumentale “Dizionario enciclopedico” della nostra migrazione tutti i dati, i nomi e storie che richiamano vicende d’oggi
di Giorgio Boatti

Nel mondo attuale nessuno sta fermo per sempre e l’Italia non fa certo eccezione: siamo un po’ tutti «migranti» dopo essere stati «emigranti» o «immigrati» e, dunque, non a caso proprio su questo fenomeno fa efficacemente rotta il Dizionario enciclopedico delle migrazioni italiane nel mondo (Demim) realizzato su progetto di Tiziana Grassi Donat-Cattin e voluto dalla Fondazione Migrantes della Conferenza episcopale italiana. 
Inoltrarsi nelle 1500 pagine di quest’opera porta ogni lettore quanto mai lontano, anche dalle sicurezze che crede di avere. Il repertorio dei termini spregiativi attribuiti agli italiani nei diversi Paesi dove emigravano fa comprendere come lo stare a casa d’altri fosse una sfida difficile. In Germania eravamo gli «Ithaker» (da Itaca, ovvero eterni vagabondi), in Francia i «babis» (rospi), in America Latina ci chiamavano «burros» (asini) o «polpettos». E se qualcuno pensa che la «migrazione» non abbia mai toccato da vicino la sua famiglia, faccia una verifica. Consulti una delle banche dati sugli sbarchi di italiani a New York o a Buenos Aires, approdi tra i più significativi dell’esodo che tra Ottocento e Novecento porta lontano dalla patria decine di milioni di nostri connazionali. 
Ad esempio andando al sito del Cemla, Centro de Estudios Migratorios Latino-Americanos, www.cemla.com, ho finalmente saputo chi e quanti Boatti sono sbarcati a Buenos Aires tra il 1800 e il 1960. Di ognuno, oltre all’età e al mestiere, sono riportati anche nome della nave su cui ha viaggiato, data e porto di partenza, giorno dell’arrivo. Non c’è migrante che sia sfuggito ai registri del porto argentino. Se si cerca il cognome Bergoglio la banca dati vi ragguaglia all’istante sull’arrivo di Mario Bergoglio, 21 anni, il padre di papa Francesco, giunto dal Piemonte a Buenos Aires il 15 febbraio 1929 assieme a Giovanni Bergoglio, 45 anni, il nonno dell’attuale pontefice.
A lungo le condizioni della traversata atlantica per i passeggeri di terza classe erano state simili a trasporti di mandrie umane. Dai primi decenni del Novecento le cose, però, erano cambiate. A colazione in terza classe si distribuiva caffè, zucchero, pane a volontà (a volte con acciughe). Per pranzo in tavola arrivava una minestra (magra o grassa), un piatto di lesso, pane e un quarto di vino. A cena - servita alle 6 pomeridiane - si offriva ancora minestra, carne e legumi. 
Il Demim si sofferma ampiamente sulle vie del mare e, di conseguenza, anche sui tragici naufragi che - proprio come le cronache mediterranee di questi nostri mesi - punteggiavano le rotte degli emigranti. Vi sono disastri come quello del vapore Sirio, affondato con 1500 migranti a bordo, il Mafalda, colato a picco per un’avaria, il Matteo Bruzzo, che butta a mare centinaia di cadaveri per un’epidemia a bordo. 
Ma le strade dell’emigrazione procedevano anche via terra, lungo i binari delle ferrovie. Chi nel dopoguerra dall’Italia puntava verso la Germania approdava quasi sempre al binario 11 della stazione di Monaco di Baviera: un universo che senza la voce del Dizionario rischierebbe di scomparire assieme al ricordo del periodo, non così lontano, in cui gli emigranti eravamo noi, non gli altri. Anni in cui l’Italia appena uscita dalle devastazioni belliche firmava col Belgio l’accordo «uomo-carbone»: per ogni connazionale mandato nelle miniere belghe Bruxelles avrebbe fornito alle nostre industrie 2,5 tonnellate e mezzo di carbone. 
A rammentare queste realtà sono sorti in diverse regioni italiane musei dedicati all’emigrazione e monumenti all’emigrante. Molti di questi monumenti hanno in comune la rappresentazione della valigia che ogni emigrante teneva stretta, facendone un tutto unico col suo corpo che, combattuto tra nostalgia e speranza, andava incontro all’ignoto. La valigia era quanto rimaneva del mondo che ogni emigrante si lasciava alle spalle e al quale cercava di rimaner radicato. A volte non solo metaforicamente. Spesso infatti in valigia prendevano posto, in sacchetti di iuta, non solo i legumi, i semi degli ortaggi e i chicchi dei cereali della terra di casa, ma anche alcune viti della vigna di famiglia, nella speranza di poterla far rinascere nel paese di destinazione. Affinché nel corso della lunga navigazione le viti non si seccassero si infilava ogni talea dentro una patata e la si teneva al buio, in valigia, fino allo sbarco. 
Nell’Italia attuale il «paese con la valigia», ovvero il Comune che detiene il primato della maggior percentuale di residenti all’estero rispetto alla popolazione, è una località del Piemonte, Roasio, dove un quarto dei 2457 abitanti, seguendo una tradizione sviluppatasi sin dall’Ottocento, opera in grandi imprese impegnate nella costruzione di infrastrutture nelle più importanti nazioni dell’Africa. 
Appendici statistiche e schede documentarie ampiamente presenti nel Demim e articolate per regioni e città restituiscono a ogni dinamica migratoria la sua originale concretezza. Emergono così le filiere di migranti che riuscivano, partendo da uno specifico territorio, a volte non più vasto di una vallata, a conquistare il predominio su rilevanti mestieri in grandi metropoli. I friulani ad esempio monopolizzavano i posti da infermiere negli ospedali di Buenos Aires. Nell’edilizia, in Francia, andavano forte i piemontesi, mentre gli impianti di riscaldamento di Parigi erano per lo più affidati a lavoratori arrivati dall’Appennino parmense e piacentino. Le modelle ciociare erano le preferite negli atelier dei pittori, mentre le stiratrici dei grandi alberghi erano rigorosamente valdostane. Altri tempi. Tutt’altro che distanti, tuttavia, dai copioni che oggi, mutando volti e lingue dei migranti, vanno in scena nelle nostre città. 

Repubblica 10.11.14
“Dei delitti e delle pene” dopo 250 anni
di Mario Pirani

SI CELEBRANO quest’anno i 250 anni dell’opera fondamentale di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene , che capovolse la legislazione giudiziaria dei suoi tempi. Ne segnò, anzi, un vero e proprio rivolgimento che dettava il principio per cui la determinazione di pene e delitti dovesse venir eseguita esclusivamente in base a un codice ben fatto e definito di leggi, nulla dovendosi lasciare all’arbitrio o all’influenza del giudice, che per essere uomo, poteva lasciarsi trascinare o influenzare dai propri istinti. Se abbiamo ricordato questo principio è perché immaginiamo che le celebrazioni di Beccaria diano adito a una serie di proposte, di riforme di legge e altre iniziative, da molti anni prementi invano all’ordine del giorno. Da ultimo la diatriba tra Berlusconi e i suoi avversari ha reso ancor più confusa e ingarbugliata la materia del contendere.
Ad accavallare ancor più le cose è l’accedere al dibattito di consessi, associazioni, fondazioni ed altre confraternite che si illustrano per la bontà ma anche per il pluralismo dei loro intenti. Così il nostro approccio è avvenuto in modo piuttosto inconsueto, tramite il Comitato etico della Fondazione Umberto Veronesi che, oltre ad onorarci del suo invito alle molte iniziative di studi e formazione sulla sanità e l’oncologia in particolare, ha creduto opportuno coinvolgerci in altre tematiche, concernenti la riforma del sistema sanzionatorio penale, da lasciare in eredità viva alla prossima legislatura. Tra le personalità di maggior spicco figurano nella ricerca che verrà portata avanti nei prossimi mesi l’avvocato Paola Severino, ex Guardasigilli, il professor Antonio Gullo, la professoressa Cinzia Caporale, presidente del Comitato etico della Fondazione ed altri studiosi. Un decisivo impulso al processo di riforma è venuto dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che, condannando l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione medesima, che vieta la tortura e i trattamenti inumani o degradanti, ha imposto all’opinione pubblica la revisione drastica dell’attuale sistema penale. Punto di arrivo dovrebbe essere l’abolizione del carcere come pena centrale della punizione. Una siffatta rivoluzionaria misura che metterebbe l’Italia alla pari con i paesi più avanzati, ben oltre l’introduzione di penalità sostitutive, sancirebbe una revisione complessiva dell’attuale sistema penale. “L’idea del diritto penale come extrema ratio di tutela riporta non solo alla necessità che l’arma tagliente della pena sia utilizzata, in ossequio al principio di sussidiarietà, esclusivamente laddove non vi siano alternative parimenti efficaci e meno onerose per l’individuo, ma al contempo, è una idea che dovrebbe permeare la scelta del legislatore nella selezione di quale strumento vada impiegato all’interno dell’arsenale sanzionatorio penale. Non solo dunque il diritto penale, ma ancor prima la stessa reclusione in carcere, e in generale la risposta detentiva, devono rappresentare l’ultima ratio” (P. Severino). Nel 2014 la faticosa approvazione di una legge delega ha aperto alla approvazione del Parlamento la formulazione di una legge che nei suoi criteri e principi è sensibile alla esigenza di ampliamento del catalogo delle pene principali a favore, tutte le volte che il giudizio positivo sul futuro comportamento del condannato lo consenta, di ancora nuove strategie sanzionatorie come pene principali. Comincia, perciò, a delinearsi un sistema che non ha più il carcere come fulcro ma che, per i casi di minore impatto lesivo, prevede una risposta non carceraria e che anche per i reati più gravi contempla la possibilità di evitare l’ingresso della persona in carcere. Rimarrà centrale, in sede di esecuzione della pena, la figura del giudice di sorveglianza, con una sempre maggiore specializzazione, nonché un possibile rafforzamento anche sotto il profilo organizzativo. In un paese per tanti versi arretrato che pur tuttavia vanta un numero relativamente basso (60 mila) di carcerati, un salto di questo genere rappresenterebbe un passaggio qualitativo dello sviluppo civile. Nel frattempo nominare un direttore del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria (Dap), misura che ritarda ormai da mesi, costituirebbe un passo più che doveroso.

Repubblica 10.11.14
Il gap che dobbiamo colmare prima che sia troppo tardi
Jeremy Rifkin e “La fine del lavoro”
di Riccardo Luna

NON si può dire che non ci avesse avvertito. Nel 1995 il futurologo Jeremy Rifkin ci scrisse sopra un libro: La fine del lavoro si intitolava, e non poteva essere più chiaro di così. Sono passati vent’anni e oggi, guardando i dati sulla disoccupazione crescente quasi ovunque dalle nostre parti, possiamo dirlo: sul lavoro Rifkin aveva ragione. L’automazione, indotta dalle nuove tecnologie, ha avuto e sta avendo davvero un effetto devastante sugli operai, gli impiegati, i commercianti e i liberi professionisti. Basta guardare alla cronaca: la catena di fast food McDonald’s ha appena annunciato di voler introdurre dei tablet per ricevere le ordinazioni riducendo i camerieri; il colosso dell’e-commerce Amazon sta assumendo 10 mila robot nei propri magazzini per sbrigare lo smistamento dei pacchi; mentre da tempo sappiamo che gli algoritmi introdotti da Google e da altri per guidare le auto funzionano alla perfezione ed è solo per una questione di assicurazione (chi paga in caso di incidente?) che non abbiamo ancora auto senza autisti. Torna in mente un altro saggio profetico, questa volta del 2000, scritto da uno dei guru di Silicon Valley, Bill Joy: «Il futuro ha ancora bisogno di noi?».
Anche stavolta la risposta è nella cronaca, in quello che accade ogni giorno, magari senza fare notizia. Qualche giorno fa a Dublino si è chiuso il Web Summit, uno dei più grandi eventi del mondo dedicati agli startupper, una definizione dietro la quale dovete immaginare dei giovani che hanno visto un problema e realizzato una soluzione con il digitale, e che quindi sperano di diventare ricchi in fretta. Bene, ce n’erano circa duemila di startupper a Dublino, da tutto il mondo. E indovinate chi è risultato il numero uno? Una startup italiana, Nextome, un navigatore per musei, gallerie d’arte, centri commerciali, aeroporti e hotel; funziona grazie ad una tecnologia basata sul wi-fi che è stata inventata e brevettata da quattro ragazzi pugliesi. Il giorno prima a Brescia il premio Federico Faggin — dal nome dell’inventore del primo microchip — era stato assegnato a un’altra startup pugliese, Blackshape, che realizza aerei in fibra di carbonio. Nel frattempo in California venivano ufficializzate le start up ammesse al prestigioso acceleratore 500startups: su trenta, due sono italiane. Ogni giorno ce n’è una, di storia così. Non sono più casi isolati, o stranezze. Sono un movimento di ragazzi che ha capito che il nostro tempo presenta rischi e opportunità, ma hanno deciso di provare a cogliere le seconde (far partire una start up è infinitamente più facile di una volta), per non tenersi solo i rischi. Forse, se lo sapessero, anche i Neet (i giovani che non studiano né cercano impiego) sarebbero meno rassegnati ad un futuro buio.
Ciò detto, le startup non sono certo la soluzione ai problemi di disoccupazione di un Paese. Non bastano a risollevare il Pil e a invertire il ciclo economico. Ed è fuor di dubbio che fino ad ora la rivoluzione digitale deve mantenere tutte le sue promesse di un mondo migliore. E però una soluzione c’è. Sono finiti i lavori che possono fare le macchine meglio di noi, ma c’è un dannato bisogno di altri lavori: in Europa si calcola un milione di posti di lavoro pronti per persone che siano computer savvy , ovvero a proprio agio con i computer. È su questo punto che in Italia siamo in fondo a tutte le classifiche possibili. Ed è per questo che un ragionamento sui lavori del futuro non può non partire dalla scuola. Sono sempre le skills, le competenze, il prerequisito del work, del lavoro. E le competenze ormai sono, non possono non essere, legate alla rivoluzione digitale.

Repubblica 10.11.14
I populismi non solo europei L’India protagonista a “Reset”
di Giulio Azzolini

VENEZIA La marea del populismo continua a salire e non è solo la nostra fragile democrazia a vedere ormai superato il livello di guardia. Ecco la diagnosi emersa nel corso della quarta edizione dei Venice-Padua-Delhi Seminars , tre giorni di dibattito interculturale chiusi ieri, ospitati dall’Università di Padova e dalla Fondazione Cini di Venezia su iniziativa di Giancarlo Bosetti e di Nina zu Fürstenberg per Reset Dialogues on Civilizations .
Sono almeno tre le tipologie di populismo che il Vecchio continente si trova oggi ad affrontare: quello xenofobo, basato sull’intolleranza e sulla criminalizzazione dello straniero, quello plebiscitario e quello anti- politico, che ha trionfato nelle recenti elezioni dell’Europarlamento facendo perno su una crisi di rappresentanza dei partiti nazionali e di legittimità delle istituzioni sovranazionali.
Eppure il fenomeno populista non è un semplice segnale di stanchezza dell’immaginario politico europeo. La sua onda bagna infatti anche l’altra sponda dell’Atlantico. Se però il populismo sudamericano ha spesso incoraggiato le aspirazioni libertarie di terre oppresse da ceti dirigenti corrotti, «il populi- smo nordamericano», ci spiega il filosofo canadese Will Kymlicka, «è figlio del neoliberismo, che ha scommesso sul collasso del welfare state e sulla dissoluzione del sentimento di solidarietà che dovrebbe sostenerlo».
Finché nel maggio scorso il successo senza precedenti di Narendra Modi, leader indù del Bharatiya Janata Party, ha portato alla ribalta internazionale il populismo indiano, una forma di radicalismo etno-religioso che spaventa in particolare la minoranza musulmana. «Sono tempi tragici e intolleranti », si sfoga l’attivista Binalakshmi Nepram, in lotta da anni per la libertà delle donne nel militarizzato nord-est. Ma l’India può ancora fornire all’Europa, impegnata com’è in un difficile processo di integrazione, le risorse per arginare il populismo? La storica Ananya Vajpeyi risponde di sì. «E non solo perché, come ricorda Amartya Sen, poggia su una millenaria tradizione di dialogo e di dissenso, ma anche perché sia la costituzione del 1949 sia la cultura indiana valorizzano la convivenza paritaria di lingue, religioni ed etnie diversissime». Il dilagare del populismo non è dunque un destino per le democrazie avanzate? «No, credo sia soltanto una fase». Se così fosse, spetterà dunque alla politica riportare la bassa marea.

Corriere 10.11.14
Gioco di specchi
Da Velázquez a Orson Welles quel dialogo invisibile tra osservatore e osservato
A Lugano, sabato prossimo Osservatore-Osservato, terzo incontro del ciclo «Visioni in Dialogo»
di Roberta Scorranese

«La rappresentazione della rappresentazione». Così Michel Foucault scrisse a proposito di uno dei quadri più analizzati in epoca contemporanea: Las Meninas (1656) di Diego Velázquez. Una tela in cui le damigelle e il resto della famiglia reale guardano negli occhi lo spettatore ma, sorpresa, l’artista stesso ha deciso di autoritrarsi e guardarci, con la tela vista dal retro. Un gioco sottilissimo di osservatori e osservati di cui si parlerà all’edizione autunnale di Visioni in Dialogo a Lugano, sabato 15 novembre.
«Osservatore-Osservato», chi guarda che dipende da chi è guardato e viceversa. Un tema che arriva dopo quelli, suggestivi, della solitudine e della folla , una scelta che, come sempre, attraverserà in modo trasversale, la filosofia, l’arte, la fisica. Fisica, sì, perché è stato proprio dalla rivoluzione scientifica del secolo scorso che si è giunti alla conclusione che le parti minime dell’atomo esistono solo grazie a una serie di interrelazioni. Carlo Rovelli, ordinario di Fisica Teorica all’ateneo di Aix-Marseille, partirà dalle sue idee sulla meccanica quantistica relazionale: gli stati quantistici sono sempre relativi a un osservatore. «Questo suggerisce — afferma lo studioso — che la struttura della realtà possa essere compresa meglio in termini di “relazioni” e “processi” che non in termini di “cose” e “sostanze”».
Le cose dunque sono in virtù di uno sguardo. Tema di cui discuteranno anche Maurizio Ferraris, docente di filosofia teoretica all’Università di Torino e Elena Volpato, storica dell’arte. Ma questa è anche la poesia che ha da sempre innervato l’opera di un artista come Giulio Paolini, tra i relatori.
A cominciare dal suo famoso Giovane che guarda Lorenzo Lotto (1967) fotografia che ritrae il dipinto rinascimentale di Lotto e ci permette così di entrare nel suo stesso sguardo, nel suo fuoco. «Osservare o essere osservati, sulla stessa traiettoria dello sguardo, significa fissare due punti o forse uno solo: un riflesso, un’illusione — spiega l’artista, classe 1940 —. Merito del pittore è saper sottrarre il dato dell’osservazione, far vedere nonostante il quadro , illuminare la zona d’ombra tra tela e parete».
Come in Susanna e i vecchioni di Guercino (1617): Susanna si sottrae, uno dei vecchi le fruga avido nel corpo e un alto guarda lo spettatore come per zittirlo. Lo fa entrare nella tela , al pari del capolavoro di Jan Van Eyck, G li sposi Arnolfini (1434): il segreto è nello specchio in fondo, dove un barbaglio restituisce i testimoni di nozze nascosti dalla scena.
Con questa materia affascinante Paolini ha plasmato altre opere, come per esempio Mimesi (1975): due calchi in gesso del busto dell’ Hermes di Prassitele sono collocati uno di fronte all’altro, leggermente sfalsati in modo che i due sguardi si incrocino. Paolini aggiunge: «All’artista non importa tanto cosa mai sarà quella certa opera che sembra affiorare davanti ai suoi occhi e incrociarne per un istante lo sguardo, ma toccarne la “verità”, consacrarne — vorrei dire l’imperscrutabile segreto».
La dimensione sacra dell’arte si apre all’uomo che guarda e ne nasce una sintesi. Non solo nell’arte. Si pensi alla bellissima poesia Menage di Mario Luzi, che ci fa entrare in una intimità spinosa, lei, la desiderata e l’altro uomo. Il «terzo uomo», per dirla con Aristotele, colui che osserva la relazione tra osservatore e osservato, sarà al centro dell’intervento di Daniel Soutif, filosofo e critico d’arte, che chiamerà in causa dei film come Familia del regista spagnolo Fernando Leon de Aranoa — storia di una famiglia che si rivela poco alla volta nella sua complessità, sotto gli occhi dello spettatore.
Ma anche La signora di Shangai di Orson Welles, regista che impersona il protagonista, Michael O’Hara. Questi si ritrova al centro di un intrigo che non vede (ma lo spettatore intuisce eccome) e alla fine, simbolicamente, eccolo davanti a un labirinto di specchi, mentre assiste all’ultimo incontro tra Elsa e suo marito.
E d’altra parte, la letteratura ha sfondato da tempo questa soglia visiva. Il Calvino di Palomar , certo, ma pure il Tolstoj de La morte di Ivan Il’ic, dove il protagonista di tutto l’intreccio guarda metaforicamente dalla sua condizione di assenza. Viene in mente, alla fine, un racconto di Agatha Christie, tra i suoi più lodati: L’assassinio di Roger Ackroyd (1926). Ma sarebbe un peccato, qui, rivelare il finale, ossia il cuore di questo sguardo del «terzo uomo».

Corriere 10.11.14
I due soggetti che coincidono: è l’ora dell’introspezione
Una nuova luce sulla relazione tra coscienza e cervello
di Giulio Giorello

È notte, «c’è solo qualche fioco lampione che fa cadere una piccola bolla di luce qui e una là». A un tratto vedi un uomo che passa. A rigore, però, non lo vedi passare; piuttosto, lo vedi «apparire sotto un lampione, poi scomparire nel buio e, poco dopo, riapparire sotto un altro lampione, e poi di nuovo scomparire nell’oscurità». Ovviamente non pensi che lui scompaia e riappaia per davvero; immagini, invece, che attraversi le zone di buio tra una bolla di luce e l’altra.
Ma non è detto che nel molto piccolo – diciamo a livello di particelle elementari – le cose vadano altrettanto bene. Ho cominciato citando Carlo Rovelli, La realtà non è come ci appare (Raffaello Cortina): la notte è del 1925, e tu ti trovi nei panni di Werner Heisenberg, che sarà insignito del Nobel nel 1932: per quel fisico giovane e brillante un elettrone non è come un comune passante e, tra un’interazione e l’altra con un qualsiasi apparato di osservazione, non si trova in alcun luogo! Poco più che ventenne Albert Einstein aveva compreso (1905) che il tempo non trascorre uguale per tutti gli osservatori; ancor più giovane, Heisenberg aveva capito che nella fisica delle particelle le cose esistono solo se le si «guardano». Eppure, «siamo sicuri che la Luna esiste solo quando la contempliamo?» Polemicamente, proprio Einstein riprendeva il dubbio settecentesco di George Berkeley, «il filosofo che in Irlanda cerca la fama coi paradossi», come lo ebbe a definire Kant. Ma la Luna o gli esseri umani sono oggetti grandi e grossi, che non si comportano come fantasmi nella notte. Elettroni e soci hanno invece tale natura elusiva.
Un altro filosofo, Martin Heidegger, a suo modo affascinato dalle speculazioni di Heisenberg, contestava che si trattasse di un’influenza dell’osservatore umano sulla «cosa» osservata; quel che contava era solo l’interazione di quest’ultima con il dispositivo tecnologico con cui si pretendeva di osservare la realtà. La volontà di conoscere era stata assoggettata alla tecnica: «tutto è organizzazione e prescrizione»!
Ma ciò che sfugge a Heidegger è che proprio nella teoria della relatività, e per altri versi nella fisica dei quanti, è già emersa la consapevolezza che non si dà uno sguardo incontaminato sulla realtà (un punto che poi lui avrebbe ritrovato in Essere e tempo , 1927). Qualche decennio fa un letterato attento alla scienza come Italo Calvino coglieva il nocciolo della questione in Palomar (Einaudi, 1983): «Di solito si pensa che l’io sia uno che sta affacciato ai propri occhi come al davanzale di una finestra... Di là c’è il mondo, e di qua? Sempre il mondo, cosa altro volete che ci sia?... Forse l’io non è altro che la finestra attraverso la quale il mondo guarda il mondo».
E come è stato per la fisica, cambierà anche lo statuto delle discipline che studiano la mente. È stato a lungo sostenuto che ci si doveva limitare alla considerazione del comportamento di risposta agli stimoli esterni da parte del nostro corpo, considerando inattendibile qualsiasi forma d’introspezione.
Assistiamo già a una decisa inversione di rotta: uno studioso delle basi biologiche della relazione tra Coscienza e cervello (Raffaello Cortina, 2014) come Stanislas Dehaene (Collège de France, Parigi) muove dalle modalità con cui noi riteniamo di osservare noi stessi non per rifugiarsi nel porto tranquillo della fantasia ma per comprendere come i meccanismi dell’immaginazione e magari dell’illusione gettino luce sul funzionamento della macchina che nascondiamo nel cranio e che a sua volta cela qualcosa di noi. L’osservatore è l’osservato.

Corriere 10.11.14
Il narciso Don Giovanni oggi sarebbe uno stalker
Bentivoglio e Bramani fustigano il protagonista di Mozart e Da Ponte

Per illustrare con un’immagine sintetica il senso dell’amore in Occidente, il filosofo Denis de Rougemont scelse il mito di Tristano e Isotta, per lo più noto nella versione musicata da Wagner. È lì che, per de Rougemont, si scontrano le due pulsioni opposte: il cavalleresco amour fou e il borghese e cristiano ordine matrimoniale.
Il lavoro critico che fanno Leonetta Bentivoglio e Lidia Bramani in E Susanna or vien. Amore e sesso in Mozart (Feltrinelli, pagine 284, e 16) cerca anch’esso nell’opera lirica gli archetipi per decifrare l’impalpabile materia amorosa. Ma con un metodo diverso: non utilizza un grande mito come sintesi bensì estrapola una pluralità di passi dalla trilogia mozartian-dapontiana ( Nozze di Figaro , Don Giovanni e Così fan tutte ) facendoli diventare lemmi di una moderna enciclopedia amorosa.
Già prima che il melodramma mettesse in scena stalker, femminicidi e altre fosche immagini, il libertario e massonico Settecento mozartiano aveva annunciato queste situazioni, affiancandole a una sovversiva leggerezza, alle costanze e incostanze amorose, alle ambiguità di ruolo e agli scambi sessuali che emergono oggi con forza. Mozart e Da Ponte (autore dei libretti) sono stati un caleidoscopio di quanto stava per accadere nel sesso e nell’amore dopo la fine dell’innocenza e dei divieti religiosi, e loro stessi — lungi dall’essere dei banali trasgressivi — hanno vissuto sulla propria pelle molte delle contraddizioni che pongono.
Sui loro personaggi le interpretazioni si sono moltiplicate, specie su Don Giovanni, prototipo della vita estetica sin dai tempi di Kierkegaard, variamente ribaltato nelle successive letture critiche e qui messo a nudo dalle autrici nel suo narcisismo inappagabile, nel suo essere un macchinatore meschino e sfacciato e nella sua sessualità predatoria.
Che su di lui l’ermeneutica contemporanea continui a esercitarsi è testimoniato, oltreché da questo libro, dalla lettura fatta dal regista Robert Carsen due anni fa alla Scala (dove Don Giovanni era un beffardo testimone contro le ipocrisie della società) e da un altro volume, La fedeltà di Don Giovanni di Roberto Escobar (il Mulino, pagine 160, e 16). Qui il burlador che ha abitato le pagine di Tirso de Molina, Goldoni, Dumas, Balzac, fino a Nietzsche e Saramago è interpretato come colui che segue la propria ragione e desiderio, una sorta di assoluto superumano, campione della «volontà di potenza». Proprio quanto stigmatizzato da Bentivoglio e Bramani.

il Fatto 10.11.14
Psicoanalisi secondo la gente
di Marina Valcarenghi

La psicoanalisi non è una scienza. Se non sei capace di risolvere i tuoi problemi, come può riuscirci un altro? In fondo sono chiacchiere, male non ti può fare Se vai in analisi diventi dipendente dall’analista. È un programma di adattamento al sistema capitalista. È un programma che destruttura e demolisce le difese. Gli psicoanalisti sono ciarlatani. Gli analisti sono dei guardoni. Gli analisti pensano solo al sesso. La psicoanalisi è una moda, come il pilates e l’aiauasca. Non è vero che da piccolo volevo andare a letto con la mamma e uccidere il papà. Non è vero che da piccola volevo andare a letto col papà e uccidere la mamma. L’analisi ti crea anche i problemi che non hai. La nevrosi è un’invenzione degli analisti. Se sei isterico è meglio una doccia fredda. I sogni dipendono dalla digestione. Allora è meglio andare in India. Allora è meglio il tavor, funziona e costa meno. La psicoanalisi è un business che specula sulla sofferenza della gente. La psicoanalisi è contro la morale religiosa. La psicoanalisi è la confessione religiosa del nostro tempo. La depressione si cura con i farmaci perché è una malattia come la gastrite, tale quale. E se in analisi invece di trovare te stesso trovi un altro? Per un analista anche una biro è un simbolo fallico. Mentre parli sdraiato sul lettino lei fa le parole crociate. Mentre parli sdraiato sul lettino lui dorme.