martedì 11 novembre 2014

il Fatto 11.11.14
Grandi manovre
D’Alema avverte Renzi: “La pazienza ha un limite”
L’ex ministro: “Matteo? Un episodio”
“Litiga tutti i giorni con qualcuno... Berlusconi se ne è innamorato, lo ha scelto come erede, c’è qualcosa che non funziona. Hanno la tendenza a dire delle cose e a farne altre”.
di Marco Palombi

Ecco, magari non sono più i tempi in cui “capotavola è dove mi siedo io”, ma Massimo D’Alema - desertificata la sinistra, sedotto il fu Cavaliere - pare essere l’unica figura di un qualche peso rimasta all’opposizione di Matteo Renzi. Ieri, per dire, il Líder máximo s’è presentato alla scrivania di “Otto e mezzo”, su La7, per mettere in chiaro alcune cosette, sbertucciare il giovane premier e lanciare oscuri presagi di sventura.
Matteo Renzi completa l’opera iniziata con la caduta del Muro di Berlino, butta lì Lilli Gruber. D’Alema tiene a bada le vertigini, comprime in un rapido aggiustamento degli occhiali la voglia di bestemmiare e scolpisce: “No, non sono d’accordo: Renzi è un episodio nella storia della sinistra italiana, non un punto d’arrivo”. Non siamo al fascismo come parentesi di Croce, ma insomma.
TANTO PIÙ che, replica virilmente a Beppe Severgnini, “se qualcuno pensa che la sinistra abbia smobilitato, sbaglia i suoi calcoli e si troverà qualche sorpresa: finora c’è stato molto senso di responsabilità, ma la pazienza ha un limite e un pezzo del partito potrebbe assumere un atteggiamento più combattivo”. Finito? Macché. D’Alema non nasconde nemmeno qual è il pensiero che gli tiene calde le notti, ma nasconde la forza del desiderio sotto le spoglie di una profezia vagamente iettatoria: “La storia non è finita, come non era finita dopo la caduta del Muro: l’Italia è un paese capace di repentini innamoramenti, ma poi se non ci sono i fatti seguono disamori anche abbastanza repentini”. Urticante la battuta sul governo che scaturisce dalla citazione degli ultimi, pessimi, dati economici: “Questo paese vive un conflitto tra l’ottimismo delle parole e il pessimismo non dei gufi, ma dei fatti”. E ancora: “L’Italia avrebbe bisogno di uno spirito maggiore di armonia, invece questo governo ogni giorno litiga con qualcuno: con Bruxelles, coi conservatori del suo partito, coi burocrati... ”.
PIÙ OVVIE, anche se non meno importanti, le sciabolate sul Patto del Nazareno: “Dalle riforme che produce si può dire che conteneva cose non apprezzabili: il Senato lo nominano i consigli regionali, la Camera i segretari di partito. E i cittadini? Andiamo tutti in vacanza? ”. Ma il Patto scricchiola, obiettano i presenti. Il nostro allarga le braccia col pensiero: “I contenuti restano segreti: è difficile anche sapere se scricchiola o no”. Certo, è la mazzata leggermente minacciosa, “l’unica cosa che mi tranquillizza è che il prossimo capo dello Stato non può essere eletto al Nazareno, bisogna farlo in Parlamento”. E qui, sorride D’Alema, casca l’asino: “Io ho avuto parte nelle elezioni di Ciampi e Napolitano, due scelte di prim’ordine: spero che anche la prossima sia dello stesso genere” (il nostro, ufficialmente, vuole “una donna”). Lui non è ovviamente nella lista: “Da Renzi non mi aspetto niente: lui punta sui fedeli e io ho il vizio di pensare da solo”. Con Berlusconi invece, è la maligna sottolineatura, va d’accordissimo: “È un fatto che ne abbia fatto il suo interlocutore privilegiato”. L’ex Cavaliere, d’altronde, ha un trasporto passionale per il suo giovane successore: “Se il maggiore esponente dell’opposizione è innamorato del capo del governo allora è finita”. In realtà, persino Renzi avrebbe “bisogno di una destra europea”, mentre “Berlusconi è il principale problema della destra italiana: non si sa come uscirne”. I due si tengono (anche se non siamo nei pressi del simul stabunt previtiano): “Non saprei di chi fidarmi fra Renzi e Berlusconi, diciamo che entrambi hanno la tendenza a dire delle cose e a farne altre”.
Sarà per questo che vanno così d’accordo, tanto è vero che oggi dovrebbe chiudersi l’accordo sull’Italicum 2.0: il fu Cavaliere ha convocato il comitato di presidenza di Forza Italia e illustrerà ai reprobi i motivi per cui dire sì al premier sul premio di maggioranza al partito anzichè alle coalizioni: è lui che dà le carte e in cambio della legge elettorale le elezioni vengono spostate almeno al 2016 (d’altronde le Camere sono occupate con la finanziaria adesso e col nuovo presidente della Repubblica a gennaio) e Berlusconi potrà sedersi al tavolo per la scelta del prossimo capo dello Stato. Dal canto suo, Renzi ha invece badato a calmare gli animi nella maggioranza: una soglia di sbarramento unica al 5%, infatti, ucciderebbe Ncd. Angelino Alfano, in un incontro a due, ha proposto di portarla al 3%: l’accordo è probabile attorno al 4. Il ritorno alle preferenze (ma i capilista restano nominati) accontenta infine sia i centristi che la minoranza del Pd. Basta che non si voti subito, d’altronde.

Corriere 11.11.14
D'Alema: "Berlusconi? E' innamorato di Renzi e l’ha scelto come erede"
L'ex ministro degli Esteri a 'Otto e mezzo'

un video qui

IL VIDEO INTEGRALE DELLA TRASMISSIONE, QUI

Repubblica 11.11.14
Sinistra dem sulle barricate “Almeno il 70% degli eletti sia scelto con le preferenze”
La controproposta dei bersaniani alla riunione del partito A palazzo Madama i ribelli si contano: “Stavolta saremo 30-40”
di Giovanna Casadio


ROMA «L’Italicum così non va e guai se Renzi la dà vinta a Berlusconi e Verdini che vogliono un Parlamento di nominati». La sinistra dem è in trincea sulla legge elettorale. Mercoledì sera in direzione sarà show down: Renzi cercherà di strappare l’unità del Pd sulle modifiche, ma lo scontro è già in atto. I senatori bersaniani hanno preparato una controproposta a quel compromesso con Berlusconi ipotizzato dal ministro Maria Elena Boschi, cioè i capilista nominati e gli altri eletti con le preferenze.
Hanno spiegato la settimana scorsa al premier-segretario che si potrebbe piuttosto pensare a un sistema a quote: un 25-30% di nominati e il resto dei parlamentari scelti con le preferenze. Ma prima delle tecnicalità, c’è il dissenso politico netto e profondo. Massimo D’Alema è sarcastico: «Se l’impianto dell’Italicum fosse confermato e il Senato abolito, i cittadini che fanno? Se ne stanno a casa?». Le accuse dell’ex ministro degli Esteri testimoniano che la sinistra che non ha smobilitato affatto e rappresentano un giudizio su tutto il pacchetto-riforme.
Nella serata del vertice di maggioranza la legge elettorale tiene banco nel Pd. Contro l’Italicum sulle barricate è tutta la sinistra del partito, da Pierluigi Bersani a Gianni Cuperlo a Stefano Fassina. «Certo che la legge elettorale uscita da Montecitorio va cambiata, il cittadino deve scegliere il parlamentare », attacca l’ex segretario Bersani da Bologna dove assiste alla proiezione del documentario sui settant’anni delle feste dell’Unità. Lancia l’allarme, Bersani, sui rischi per la democrazia tra Italicum e trasformazione del Senato in Camera delle autonomie. A Palazzo Madama, dove oggi ricomincia l’iter parlamentare dopo l’ok della Camera, i dissidenti si contano: questa volta, assicura la minoranza dem, saremo fra i 30 e i 40 a opporci se non ci saranno modifiche profonde. Miguel Gotor, senatore bersaniano, ricorda che «tutto il Pd è contro un Parlamento di nominati. Deve essere evidente che il pallino non può essere in mano a Berlusconi perché le liste bloccate sono l’idea di democrazia che hanno l’ex Cavaliere e Verdini». «Noi sono dieci anni che diciamo “no” ai nominati, questo è un punto di principio dal quale non si può recedere», rincara Cuperlo.
Quindi le modifiche sulle soglie, sul premio di maggioranza sono sì importanti, ma il cuore della battaglia è sulla scelta dei parlamentari. Alfredo D’Attorre è convinto che il compromesso di cui si è parlato in questi giorni sia «incostituzionale », che non è pensabile che ci siano capilista nominati e gli altri che si cercano il consenso. «Incostituzionalità evidente», è il giudizio di Giuseppe Lauricella, deputato dem, che agita un altro spauracchio: al Senato potrebbe ricomparire l’articolo 2 dell’Italicum, ovvero rientrare dalla finestra quello che era stato buttato fuori dalla porta e che impedisce a questa nuova legge elettorale di essere applicata al Senato, essendo prevista la sua cancellazione con la riforma costituzionale. Lauricella non crede alle rassicurazioni del ministro Boschi: «Con un emendamento che applicasse l’Italicum anche al Senato si potrebbe andare subito al voto». E a pensare male, riflette, talvolta ci si azzecca. Comunque, sottolinea Maurizio Migliavacca, che fu capo della segreteria di Bersani, la linea del Piave sta tutta in quei «punti irrinunciabili». A partire dal “no” ai parlamentari nominati.

La Stampa 11.11.14
La doppia partita incrociata del premier
di Marcello Sorgi


Un vertice di maggioranza dell’anomala coalizione sinistra-destra che sorregge l’attuale governo rappresenta di per sé una novità. Se Renzi ha deciso di sottoporsi a una delle più vecchie liturgie della Prima Repubblica (nella Seconda, ai tempi di Berlusconi, avevano provato a cambiargli il nome in “cabina di regia”), mettendo per iscritto l’impegno per tenere in vita il governo fino al 2018, è perché la sua strategia, dal primo al secondo tempo della partita della legge elettorale, è cambiata.
Nella fase uno, che aveva portato alla faticosa approvazione dell’Italicum alla Camera, il patto del Nazareno si era rivelato decisivo e Renzi aveva usato Berlusconi contro le resistenze dei suoi alleati minori e un po’ anche contro quelle della minoranza interna del Pd. Nella fase attuale preferisce stringere con la sua maggioranza, per poi poter dire a Berlusconi che le modifiche al testo passato a Montecitorio sono indispensabili per tenere in piedi il governo. Se Berlusconi vuol rompere il patto, faccia pure e resti all’opposizione. Altrimenti, se vuole, dia una mano, e magari su qualche punto un compromesso si troverà anche con Forza Italia.
Un’impostazione come questa, capovolta rispetto al quadro politico su cui finora Renzi s’è appoggiato, è legata alle divisioni che attraversano il partito berlusconiano, che in certi momenti sembra ormai sfuggire al controllo del suo fondatore. Ma anche all’urgenza, per Renzi, di approvare la legge elettorale al più presto, se non proprio entro l’anno, almeno all’inizio del prossimo, che si aprirà con il fondamentale appuntamento dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica.
Affrontare una scadenza così complessa, che già sposta in avanti qualsiasi scommessa sulle elezioni anticipate - dato che tra dimissioni del Capo dello Stato, convocazione delle Camere riunite, votazioni, proclamazione dell’eletto, si arriverà a primavera -, senza poter contare sulla legge elettorale, sarebbe troppo avventuroso anche per Renzi. Il premier non avrebbe infatti nessun modo per difendersi dagli agguati dei franchi tiratori, che stavolta, come accadde un anno e mezzo fa con Bersani, mirerebbero contro di lui. Con la legge in mano, invece, avrebbe buon gioco a tenere a bada i parlamentari più riottosi, con l’arma della mancata ricandidatura alla prossima scadenza elettorale, che se per ora rimane sullo sfondo, non è detto che non possa riproporsi in anticipo.
Tutto ciò, senza rompere, o almeno senza rompere del tutto, con Forza Italia. Anche perchè il disgelo con il Movimento 5 stelle, celebrato sull’elezione di un giudice costituzionale e di un membro del Csm, è durato lo spazio di un mattino. Ieri Grillo ha addirittura dato ordine ai suoi legali di presentare un esposto in Procura contro il patto del Nazareno.

Corriere 11.11.14
Un’alleanza con i «piccoli» per piegare il partito di Berlusconi
di Massimo Franco


Qualche giorno fa sarebbe stato diverso. Il vertice della maggioranza di governo avrebbe accentuato il profilo decisionista di Palazzo Chigi; e mostrato un Matteo Renzi non solo determinato a procedere speditamente, ma in grado di piegare le resistenze agitando lo spettro delle elezioni a primavera. Le probabili dimissioni di Giorgio Napolitano a gennaio, invece, modificano lo sfondo. Forza Italia esagera sostenendo che il capo dello Stato ha «di fatto sfiduciato il premier»; ma lo costringe a rivedere il suo ruolino di marcia. La sensazione è che al di là degli appelli a fare presto, Renzi stia già ridisegnando il suo percorso.
Fino alle votazioni per il Quirinale, è difficile pensare che si riesca a sfuggire ad una sorta di sospensione dell’attività politica. La prospettiva di approvare in tempi rapidi la riforma del sistema elettorale oggi appare meno scontata. E lasciando capire che non scioglierebbe in anticipo le Camere, Napolitano smonta la strategia renziana della «pistola carica». Come minimo, lo costringe a rimodularla. Il problema, per il governo e la sua coalizione, diventa quello di riuscire a non fermarsi nelle prossime settimane; di continuare a trasmettere all’Europa quell’immagine di attivismo, sebbene caotico e controverso, che ha connotato il premier nei mesi scorsi.
La riunione di ieri, chiesta dal Nuovo centrodestra di Angelino Alfano, è servita come arma di pressione su Silvio Berlusconi. Renzi, convinto avversario del potere di ricatto delle forze minori, ora sembra intenzionato a usare il loro istinto di sopravvivenza per indurre l’ex premier a dire sì alla sua riforma; oppure per approvarla con i soli alleati di governo. La pletora di delegazioni che rappresentano partiti con percentuali inferiori alle soglie di sbarramento proposte finora, ha reso plasticamente l’idea dell’operazione che Palazzo Chigi ha in mente: un asse con i «piccoli» per mostrare a Berlusconi quali rischi corre se non accetta il premio di lista. E non è escluso che così riesca a convincerlo.
Sono manovre destinate tuttavia a fare aumentare sia la confusione, sia la conflittualità dentro e fuori dalla maggioranza di governo. Confermano la difficoltà a unificare un panorama frammentato e quasi ingovernabile. Per paradosso, la denuncia strampalata alla magistratura del cosiddetto patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi, presentata ieri dal M5S, è quella che potrebbe di colpo rianimarlo. La complicazione deriva dal fatto che gli interessi di Pd e Fi, rispetto alla riforma proposta da Renzi, divergono. Il sospetto berlusconiano è che il premier voglia un «sì» rapido per andare alle urne.
Non si può escludere che anche questo abbia influito sul desiderio di Napolitano di chiudere il suo mandato a gennaio. Il presidente della Repubblica ha voluto far capire che non è intenzionato a coprire ancora i partiti; né a sciogliere in anticipo le Camere. L’insistenza con la quale gli si chiede di rimanere ancora dimostra come il capo dello Stato abbia messo a nudo le contraddizioni delle forze politiche. E, al di là delle diatribe domestiche, l’Italia deve fare i conti con un’Europa che sta decidendo come valutare la legge di Stabilità. Di certo, un’altra campagna elettorale non aiuterebbe.

Repubblica 11.11.14
La variabile del fattore tempo che può far saltare il patto
Il collegamento tra il tavolo della riforma elettorale e la successione al Quirinale è imposto dalle circostanze
di Stefano Folli


NON stupisce che Matteo Renzi desideri vedere Napolitano al Quirinale ancora per qualche mese, ben oltre la scadenza di fine anno. Convincere il presidente a posticipare le dimissioni al mese di maggio, ad esempio, forse permetterebbe al premier di risolvere il rebus della legge elettorale. Ma si tratta di una proroga di quattro, cinque mesi.
Nelle attuali condizioni sono un tempo lungo. Soprattutto perché farebbero dipendere le decisioni del presidente della Repubblica dalle esigenze dei partiti, aspetto di non poco conto che Napolitano tende a escludere («decido io quando lasciare»). D’altra parte, il gomitolo della riforma elettorale si svolge molto lentamente. Nella migliore delle ipotesi la legge non sarà votata in Parlamento prima di febbraio-marzo. Ma quale legge? Mesi fa la Camera ha approvato in prima lettura un testo che adesso è stato abbandonato dal presidente del Consiglio e segretario del Pd. Può sempre essere ripreso, ma oggi è finito in un cassetto a favore di un nuovo schema che prevede, come è noto, il premio di maggioranza alla lista e non più alla coalizione vincitrice. Su questo l’intesa con Berlusconi è faticosa. Non c’è rottura, ma nemmeno vero, convincente accordo.
Sappiamo che Renzi sta lavorando con tenacia per mettere insieme i tasselli del mosaico. Che non riguardano solo gli equilibri fra i partiti maggiori, ma anche l’accesso ai seggi parlamentari da parte delle forze minori (Alfano, Vendola, Meloni). Per loro la soglia di sbarramento deve ancora essere definita e al momento oscilla fra il 5 per cento (troppo alta) e il 3 per cento (troppo bassa): si tenta la mediazione sul 4 per cento, ma ovviamente non si tratta solo di questioni tecniche. L’intero impianto della riforma costituisce un grosso problema politico. Soprattutto perché non si capisce quanto sia affidabile oggi Berlusconi come interlocutore del premier.
La mitologia del «patto del Nazareno» vuole che l’accordo fra i due, una volta raggiunto, garantisca il passaggio celere della riforma e al tempo stesso apra la strada a un’intesa sul successore di Napolitano. Il collegamento fra i due tavoli è infatti imposto dalle circostanze. Ma la realtà è più complicata e un giocatore abile come Renzi lo sa bene. Forza Italia è un partito lacerato e la fazione pro-Renzi, alla quale appartiene lo stesso Berlusconi, non controlla per intero i gruppi parlamentari. La legge elettorale, nella sua nuova connotazione idonea a rafforzare il Pd renziano, suscita dubbi e perplessità crescenti: si veda l’attivismo di Fitto e altri. Ne deriva un rischio di sfasatura fra quello che si decide al vertice e quello che dovrà essere votato in Parlamento. A maggior ragione nel momento in cui è d’obbligo allargare il confronto e comprendervi una materia incandescente come l’indicazione preliminare del prossimo capo dello Stato.
In questo caso Renzi deve misurarsi anche con un «fronte interno»: quella minoranza del Pd che sta aspettando l’occasione di una rivincita. Di nuovo, il «patto del Nazareno», se fosse una cosa seria, chiuderebbe tutti i varchi e permetterebbe di eleggere il presidente — quando sarà — con sufficiente sicurezza. È il metodo piuttosto raro dell’intesa allargata che in passato ha evitato la guerriglia parlamentare in un paio di occasioni: con Cossiga prima e con Ciampi poi.
Tuttavia, se il patto Renzi-Berlusconi fatica a produrre la riforma elettorale, è poco probabile che serva a dare all’Italia un capo dello Stato in tempi rapidi, cioè fra la prima e la terza votazione sulla base dei due terzi dell’assemblea. In ogni caso oggi si tratta di cominciare a individuare le caratteristiche dei candidati, stabilendo se si vuole un continuatore di Napolitano come garante delle istituzioni, ovvero un semplice notaio delle decisioni assunte dal capo del governo. Come dire che la partita è appena all’inizio e nessuno, nemmeno Renzi, ha tutte le carte in mano.

Il Sole 11.11.14
La riforma, la manovra e la paura del voto
di Lina Palmerini


È la paura del voto anticipato l'ostacolo alla riforma elettorale. Il premier rassicura ma la legge di stabilità – con tutte le misure che vanno a caccia del consenso del ceto medio – lascia il sospetto delle urne.
La via d'uscita per sbloccare la legge elettorale non sta tanto nelle soglie di sbarramento o nel premio di maggioranza, punti importanti, ma non del tutto decisivi. La chiave è disinnescare la paura del voto anticipato di quei parlamentari che rischiano – forse più della metà – di non essere rieletti. È lì il cortocircuito che mette sabbia negli ingranaggi del patto del Nazareno e nelle intese con la maggioranza sull'Italicum. Tensioni che in prospettiva si scaricheranno sulla successione al Quirinale, tassello importante dell'accordo con Silvio Berlusconi, convinto pure lui – come ha dichiarato qualche giorno fa – che Renzi punti alle urne a primavera.
Matteo Renzi ha rassicurato ancora ieri che l'orizzonte è il 2018, ma è la legge di stabilità – con tutte le misure che vanno a caccia del ceto medio – a far vivere il sospetto. E dare sostanza a quei timori. È la manovra il "luogo" della tentazione. Da sempre le finanziarie sono servite alla politica per produrre consenso e questa legge di stabilità – che certamente si muove nella giusta logica di fermare la recessione e invertire il ciclo economico – lascia aperto lo scenario di uno sbocco elettorale a breve. Perché lo spirito di fondo è un po' come quello che ha preceduto le europee di maggio. Si ritrova la conferma degli 80 euro per i ceti medio bassi ma c'è anche l'apertura alle imprese con il taglio dell'Irap. E la frenata sulla spending review si può leggere nello stesso senso: non esporsi troppo all'impopolarità. Dagli annunci di settembre a oggi, Renzi ha ritoccato al ribasso l'entità dei tagli: dai 20 miliardi annunciati è passato alla metà, circa.
La scommessa è non perdere la presa sul ceto medio e aprirsi a nuovi blocchi sociali. Per i redditi fino a 25mila euro la legge di stabilità conferma il bonus di 80 euro che porterà uno sconto fiscale sull'anno di 960 euro. Secondo i calcoli di Bankitalia si tratta di un alleggerimento del 3,6% del carico fiscale di un lavoratore dipendente con uno stipendio medio annuo di circa 20mila euro. Renzi ha poi aggiunto il bonus bebè e sta cercando la formula fiscale adatta per mettere il Tfr in busta paga.
Insomma, un pacchetto per dare fiato ai redditi di una categoria sociale che è lo zoccolo duro del Pd, quello che votò Bersani nel 2013 e ha votato anche Renzi nel 2014. Nelle stime di Itanes (2013) sulle professioni che pesano di più nel bacino elettorale del Pd, dopo i pensionati (37,5%), ci sono gli impegati pubblici e privati – 22,5% – e gli operai, 10%. Cioè, più o meno la stessa platea di redditi a cui parla la legge di stabilità che così potrebbe incrociare circa un terzo degli elettori del Pd.
E per aprirsi ai nuovi voti, questa volta c'è anche il taglio Irap (2,7 miliardi nel 2015 e 4 nel 2016) così come la decontribuzione per i neo-assunti mentre per i piccoli e piccolissimi imprenditori, artigiani e commercianti, il regime agevolato delle partite Iva funzionerà un po' come gli 80 euro in busta paga per i dipendenti. Una finestra su nuovi elettori per cercare di consolidare quei consensi arrivati, in parte, a maggio.
L'unico intoppo è l'Europa. A fine novembre la Commissione Ue darà il suo giudizio sulla legge di stabilità e il rischio è la richiesta di nuove correzioni. A Bruxelles si sta ancora trattando, l'esito non è scontato.

Il Sole 11.11.14
La Commissione europea attende

Manovra, la Ue riflette
di Beda Romano


Da qui a fine mese, la Commissione europea presenterà la sua attesa opinione sul bilancio previsionale italiano. La partita è complessa. Incrocia dati economici e analisi politica. L'Esecutivo comunitario dovrà tenere conto di numerosi fattori. Non si limiterà a valutare il mero rispetto delle regole di bilancio.
Dovrà prendere in considerazione anche l'andamento dell'economia, tanto che le previsioni di Bruxelles in questo campo potrebbero essere di aiuto al governo Renzi.
La Finanziaria prevede un aggiustamento strutturale del deficit dello 0,3% del prodotto interno lordo. Secondo le regole europee, un paese nella situazione dell'Italia, con un disavanzo sotto al 3,0% del Pil ma con un debito elevato, dovrebbe ridurre il deficit di almeno lo 0,5%. Dovrà l'Italia introdurre nuove misure di risanamento dei conti? È possibile. Nel presentare le sue stime economiche, Bruxelles ha lasciato la porta aperta a questa possibilità (si veda Il Sole/24 Ore del 5 novembre).
«La valutazione della Finanziaria non è terminata», spiegava ieri sera un funzionario europeo. Aggiungeva un altro esponente comunitario: «Al netto dell'analisi della Finanziaria, c'è un dibattito all'interno della Commissione sull'opportunità o meno di chiedere nuovi sforzi ad alcuni paesi tra cui l'Italia». In una conferenza stampa qui a Bruxelles giovedì scorso il nuovo commissario agli affari economici Pierre Moscovici ha assicurato che la Commissione avrà «un approccio intelligente».
Tra gli aspetti negativi per l'Italia, Bruxelles considererà le sue previsioni sul deficit strutturale italiano, destinato a scendere dallo 0,9% del Pil nel 2014 allo 0,8% nel 2015, per poi tuttavia risalire all'1,0% nel 2016. Nel contempo, la Commissione ha respinto l'ipotesi che la situazione economica possa essere considerata, a livello di zona euro, una circostanza eccezionale, tale da consentire ai singoli stati membri di disattendere le regole europee, secondo quanto previsto dal Patto di Stabilità e di Crescita.
Chi tra i commissari vuole chiedere maggiori sforzi all'Italia intende anche difendere la credibilità delle regole europee ed evitare eventuali ricorsi dinanzi alla Corte di Giustizia del Lussemburgo contro una Commissione ritenuta troppo benevola (soprattutto in Germania). C'è da chiedersi peraltro quale potrebbe essere l'impatto sulle scelte di Bruxelles della debolezza politica del presidente Jean-Claude Juncker, sulla scia degli scandali fiscali in Lussemburgo, suo paese d'origine.
Tra i fattori favorevoli all'Italia, l'esecutivo comunitario è pronto a prendere in considerazione le riforme economiche, come attenuanti a misure troppo impegnative sul versante del risanamento delle finanze pubbliche. Ma anche su questo aspetto i risultati italiani sono in chiaroscuro. Alcune riforme sono state adottate, ma spesso sono mancati i necessari atti amministrativi e decreti legge perché i pacchetti legislativi potessero entrare in vigore.
A favore di una posizione più accomodante ci sono anche preoccupanti previsioni economiche della stessa Commissione, in un contesto politico italiano molto fragile e mentre si torna a parlare di elezioni anticipate. L'output gap, ossia il divario tra crescita reale e crescita potenziale, è elevata: del 4,5% del Pil nel 2014 e del 3,4% del Pil nel 2015. Per questo anno, Grecia, Spagna, Cipro e Portogallo sono messi peggio. Per il prossimo, solo Grecia, Cipro e Spagna hanno valori superiori a quelli italiani.

il Fatto 11.11.14
L’altro sciopero: ecco i precari per sempre
di Sal. Can.


L’ASTENSIONE “SOCIALE” DURERÀ 24 ORE. IN PIAZZA CO.CO.PRO. E COLLABORATORI. NESSUN POLITICO PARTECIPERÀ

Far incrociare le braccia a coloro che, per contratto e reddito, in genere non possono farlo. È la scommessa dell’altro sciopero, quello “sociale” convocato da mesi per il 14 novembre e che si snoderà nella stessa giornata in cui la Fiom terrà il suo sciopero generale per il nord del paese con corteo a Milano. Per presentarsi, i promotori – una costellazione di centri sociali e sindacati di base – hanno utilizzato delle figure-tipo: “Anna, consulente del lavoro di 36 anni con una figlia di 5”, oppure Omar, “35 anni e da 12 cuoco presso una catena di ristoranti con contratto part-time”. O, ancora, Marta, “co.co.pro e progettista” resa famosa dal video trasmesso in Rete – finora ha ottenuto 18 mila visualizzazioni – e in cui Marta, “28 anni, precaria” risponde a “Matteo”, cioè Renzi, dicendo che la sua riforma del lavoro può buttarla nel cestino.
I settori che si vogliono coinvolgere rappresentano figure lavorative nuove – l’editing editoriale, il giornalismo freelance ormai fuori dalle redazioni, la ricerca di qualità – ma anche lavoratori più tradizionali come i precari della pubblica amministrazione o quelli della scuola. Accomunati dal fatto di guadagnare anche meno di mille euro al mese. La sfida dello “sciopero sociale” punta a sottrarre al premier e alla sua “narrazione” quei settori del lavoro precario che non si riconoscono nei sindacati tradizionali ma che fanno fatica anche a riconoscersi nel messaggio renziano. Perché hanno scoperto che la precarietà non è una fase transitoria della loro vita ma una condizione permanente.
LO SCIOPERO si terrà il 14 novembre “e durerà 24 ore – spiega al Fatto Dario Di Nepi, del Laboratorio per lo sciopero di Roma, laureato con un master e precario del terzo settore – proprio per permettere a tutti di partecipare alla giornata nelle modalità possibili”. Si comincia il 13 a mezzanotte quando gli attivisti dello sciopero si recheranno nei locali della movida per parlare con i lavoratori precari dei tanti locali che costellano il centro delle città romane, a partire da Roma. Qui, venerdì mattina, si terrà il corteo cittadino con sciopero degli studenti e dei lavoratori che potranno partecipare. Le iniziative però sono in tutta Italia. A Venezia si terrà una “critical mass” in bicicletta, alle 15, per i luoghi del “vero degrado” di Mestre. A Milano l’iniziativa è tutta dedicata al “no Expo” e alla contestazione della Fiera internazionale che si inaugura il prossimo primo maggio.
Le richieste possono essere riassunte nel “salario minimo intercategoriale a 10 euro l’ora” – oggi sono frequenti lavori da 6 euro l’ora ma anche a meno – un “reddito di base per precari, disoccupati e studenti” e “l’abolizione delle 46 diverse tipologie contrattuali” che costellano la precarietà per allargare “le tutele a tutti”.
“SIAMO ANCORA una coalizione di attivisti sociali, non siamo ancora un movimento” ammette Dario che però, quando si tratta di indicare i riferimenti simbolici oltre a citare i mitici wobblies degli Stati Uniti di inizio ‘900 ricorre ai precari dei fast food che pochi mesi fa sono riusciti a scioperare non solo negli Usa, ma nel resto del mondo.
Il rapporto con la Fiom è d’obbligo e non solo perché il 14 novembre la Fiom manifesterà a Milano. I punti di contatto sono diversi e stasera con Maurizio Landini si terrà un confronto pubblico all’Università di Roma. Chi non è compreso nella giornata del 14, al momento, è la politica dei partiti. Nessuna presenza, più o meno simbolica, delle varie sigle. E questa è una novità.

il Fatto 11.11.14
Al referendum con Salvini: l’ok di Camusso divide la Cgil
La Cantone (segretario Spi) prende le distanze: “È un errore clamoroso”
di Salvatore Cannavò


Tra le varie polemiche che animano la Cgil quella relativa al referendum della Lega per abolire la riforma Fornero delle pensioni è la più inattesa. Dover registrare una contiguità tra il sindacato più “rosso” e la formazione politica che vuole importare in Italia il messaggio di Marine Le Pen, non è cosa di tutti i giorni. Non è un caso, quindi, che le parole di Susanna Ca-musso - “appoggeremo il referendum della Lega” - abbiano creato un malumore interno. Come quello della combattiva segretaria dei Pensionati, Carla Cantone, che ieri, in una intervista a Repubblica, ha reso pubblico il proprio disappunto: “Aggrapparsi al referendum della Lega, spiega Cantone, sarebbe un clamoroso errore. Matteo Salvini fa il suo mestiere ma noi dobbiamo fare il nostro”.
LE PAROLE DI CANTONE parlano a un corpo della Cgil, e della sinistra, che fa fatica a ingoiare la pillola di un’alleanza, sia pure occasionale, con il Carroccio. Una Lega che si presenta con magliette dalla scritta “Stop invasione”; che manda il parlamentare europeo Mario Borghezio a fare incursioni nelle scuole; una Lega che intende fondare, con Casa Pound, “un nuovo soggetto politico”.
La segreteria nazionale della Cgil formalmente non reagisce. Ma ai suoi Susanna Ca-musso ha ribadito la posizione sostenuta sabato scorso: “Ma se la Corte costituzionale approverà il referendum che abolisce la riforma Fornero noi che facciamo, stiamo zitti? ”. L’idea della leader sindacale è che il sindacato appoggi quel referendum e si batta per ottenere il risultato pieno. I maligni dicono che si tratta dell’ennesima trovata per attizzare lo scontro con Matteo Renzi. In Cgil c’è anche chi le rimprovera la maglietta con cui è scesa in piazza, sabato scorso. Aveva l’immagine di Arrogance e la scritta: “Profumo di premier”. Una maglietta “carina”, dicono dalle parti di Corso Italia, “ma forse non adatta al segretario generale”. Battute che restituiscono un clima teso nonostante l’unità interna che ha segnato la giornata del 25 ottobre e da cui la Cgil vuole trarre il massimo del risultato.
Lo scontro con Renzi è ormai irreversibile e sarà rilanciato con forza domani quando il direttivo nazionale proclamerà lo sciopero generale. Il primo contro un governo che si definisce di sinistra. L’avversione a Renzi, però, non spiega tutto. Sulle pensioni la Cgil, come ammettono molti dei suoi dirigenti, sconta l’assenza di una iniziativa che è mancata al momento della riforma Fornero e che è mancata anche dopo. È su questo versante che si posiziona la Fiom di Maurizio Landini il quale, parlando con il Fatto, non intende intervenire sulle dichiarazioni di Camusso ma sposta con nettezza il discorso sul piano sindacale: “Noi facciamo gli scioperi. All’epoca (della riforma, ndr) siamo stati gli unici a fare otto ore di fermata e venerdì 14, il giorno del prossimo sciopero generale della Fiom, la richiesta di modificare le pensioni è nella nostra piattaforma”. L’iniziativa, spiega Landini, “da sindacalista quale sono” è quindi da assumere sul piano strettamente sindacale: “Il problema si pone già oggi, dobbiamo ottenere subito dal governo che si riapra la trattativa sulle pensioni, non possiamo aspettare chissà cosa”. Si tratta di difendere posti di lavoro, evitare licenziamenti. Ma il referendum della Lega? “Adesso non me lo pongo” risponde Landini.
SUL PIANO sindacale il problema si complica perché, lo scorso congresso, la Cgil decise che proprio sulle pensioni sarebbe stata avviata una campagna di massa da svolgere unitariamente insieme a Cisl e Uil. Da maggio, però, sono passati sei mesi e di iniziative non se ne sono viste. Nel frattempo, l’unità con Cisl e Uil è sfumata - anche se ieri il nuovo segretario Uil, Carmelo Barba-gallo ha proposto di fare insieme lo sciopero generale - le pensioni sono rimaste fuori dall’agenda politica e la Lega di Salvini ha raccolto le firme per abolire la Fornero. Il vuoto di iniziativa ha creato diversi problemi al sindacato, come dimostra la posizione del segretario della Fiom lombarda, Mirco Rota, che si trova a operare direttamente sulla zona di “frontiera”: “Qui al nord l’esposizione all’influenza leghista è maggiore - dice al Fatto
- e quindi la sensibilità sul referendum è molto forte. Anche perché le firme sono state raccolte in Lombardia, mica nel Lazio”. I metalmeccanici, quando votano Lega spesso sono iscritti anche alla Cgil e chi fa sindacato sul territorio se li trova di fronte. “Sulle pensioni abbiamo perso un giro” dice ancora Rota, “e la Lega ha occupato lo spazio. Ora non si può sfuggire a questo passaggio”. Posizione condivisa dal deputato di Sel, ex Fiom, Giorgio Airaudo: “La nostra distanza da Salvini è enorme ma se la Corte ammette il referendum, ha ragione Camusso, bisogna sostenerlo”. Non tutti gli iscritti a Sel della Cgil, però, se la sentono di appoggiare queste parole. La discussione in Cgil è solo cominciata.

il Fatto 11.11.14
Se Camusso adesso va con la Lega
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, prima mi sono illuso che la notizia fosse la solita invenzione dei giornali, poi ho dovuto arrendermi, è vero. La segretaria generale della Cgil ha dichiarato che lavorerà insieme a Salvini e alla Lega Nord per il referendum contro la legge Fornero. Riconosco che la legge Fornero è pessima, ma andare con Salvini è impossibile.
Pietro

L'ANNUNCIO, pubblico e impegnativo, della Camusso, dimostra una sorprendente cecità politica. Si sa benissimo che della Lega si dice, di volta in volta, che “si è preso la vecchia sinistra” o che “i leghisti stanno facendo rinascere il fascismo”. Sono vere tutte e due le affermazioni. Molti operai abbandonati dalle loro fabbriche e dal loro partito possono avere votato Lega o pensare di votare Lega, ma per amarezza e ripudio di chi li ha abbandonati. Ed è probabile, per chi è stato privato di ogni possibile politica e speranza di sinistra (la questione riguarda anche la Cgil) si senta meno a disagio in prossimità della Lega (che ha in apparenza un linguaggio bonario e popolare) che di Alfano o di Verdini (persone che, “per il bene dell'Italia”, solo Renzi riesce a sopportare e trattare come se fossero amicizie normali). Quanto al fascismo della Lega (più incolto ma più estremo di quello di Marina Le Pen) con Salvini è aumentato di molto. Può sempre accadere che anche un leader come Salvini e un partito intellettualmente a livello zero come la Lega preparino una iniziativa politica che altri avrebbero potuto e dovuto pensare. Ma unire le forze senza badare con chi ti associ è un gravissimo errore. Tutto nella Lega è ripugnante, il razzismo estremo, la caccia ai rom, le iniziative come quella di Bologna, intollerabilmente odiose e provocatorie (“Il leader della Lega Nord andrà a visitare un campo rom” è come l'annuncio di una visita di Himmler a Dachau), l'invenzione e il tipo di gestione dei giustamente malfamati “centri di identificazione e di espulsione”, i modi in cui, ai bei tempi del libero uso di danaro pubblico nel partito, e nelle famiglie top della Lega (vedi Belsito e i suoi clienti), venivano perseguitati gli immigrati sul lavoro e i bambini degli immigrati, lasciati digiuni a scuola, il famoso progetto “bianco Natale” in cui varie province e comuni leghisti tormentavano immigrati legali con vigili urbani trasformati in polizia speciale, e le minacce di espulsione immediata (nel silenzio dei prefetti, che adesso sono così attivi nel cancellare presso alcuni comuni democratici e civili le trascrizioni dei matrimoni gay), tutto ciò diventa materiale di vita e di storia italiana sbianchettato dalla Cgil, dalla sua profonda tradizione democratica, dalla fiducia dei lavoratori che pensano (pensavano) alla Cgil come ciò che resta (restava) di vivo nella sinistra. L'errore è talmente grave che richiede una smentita immediata, oppure una separazione netta dal sostegno che molti di noi credevano di poter dare alla Cgil. Compreso il prestigio in crescita, che adesso si arresterebbe di colpo, del neo protagonista Landini.

il Fatto 11.11.14
“Noi sinti ci sentiamo più italiani dei leghisti”
di Giulia Zaccariello


Bologna In questi giorni hanno visto e sentito di tutto. Coinvolti in una campagna elettorale costruita su sparate acchiappa titoli ed eventi ad alto impatto mediatico. Ed è forse anche per questo che alle porte del loro campo di via Erbosa, a Bologna, lo stesso dove sabato era atteso il leader della Lega Nord, Matteo Salvini, hanno piazzato una bandiera italiana. L’hanno appesa in bella vista, all'entrata, per spazzare via gli appellativi e le definizioni da propaganda xenofoba.
“QUANDO I LEGHISTI ci chiamano profughi o rom ci viene da ridere. Io sono nato a Crevalcore, a due passi da Bologna, e miei genitori sono di Torino. Siamo tutti sinti, sì, ma italiani. Anzi italianissimi”. Chi parla si chiama Matteo. Matteo e basta: come altri, preferisce tacere sul cognome per paura di ritorsioni sul lavoro. “Alcuni padroni non ci vedono di buon occhio”. Ha 53 anni, venti dei quali passati in questo fazzoletto di terra non asfaltata ai piedi di un traliccio e poco distante dalla tangenziale di Bologna. Accanto alla sua casa mobile, una scatoletta dalle pareti chiare ben tenuta, abita un’altra cinquantina di persone. Sono discendenti di storiche famiglie di giostrai, gli Orfei in particolare. Hanno nomi italiani e cognomi pure. E quasi tutti lavorano. Barbara ha 44 anni e due figlie: “Faccio le pulizie, ma nessuno conosce le mie origini. Temo che mi mandino via”.
GLI UOMINI RACCOLGONO il ferro, mestiere tradizionale di questa comunità. Alcuni sono traslocatori. C’è anche chi ha aperto una pizzeria in una frazione di Bologna. “I leghisti? Brutte persone. Sono razzisti e vogliono dividere il mondo in noi e loro, solo per guadagnare voti sulla nostra pelle. Non hanno alcun rispetto. Prendete il caso della consigliera Lucia Borgonzoni. È volato uno schiaffone quando è venuta qui, è vero. Ma lei è entrata a casa nostra, con macchine fotografiche e telefonini, dopo averci insultato. Cosa avremmo dovuto fare? ”.
Guardano il taccuino con diffidenza, ma poi si lasciano andare. “I ragazzi dei centri sociali non li conosciamo, ma hanno fatto bene a contestare Salvini. Spero non torni, siamo pronti a cacciarlo via di nuovo”. Ci tengono a smontare gli argomenti usati dal Carroccio, che a giorni alterni invoca lo sgombero del campo. In particolare lo slogan che li vorrebbe a carico delle casse pubbliche. “Il Comune ci dà un contributo sulle bollette, perché gli impianti non sono a norma. Questo è uno spazio provvisorio”. Nelle roulotte e nelle case mobili hanno solo luce e acqua. Per riscaldarsi usano stufette: niente gas, sarebbe pericoloso.
Per capire perché vivono proprio qui bisogna tornare indietro nel tempo, fino agli anni della banda della Uno bianca. Il campo fu assegnato nel 1991, dall’allora sindaco Renzo Imbeni, ai sinti italiani, parenti delle vittime della strage di via Gobetti del 1990. Altri tempi, altra politica. “Ce lo ricordiamo bene Imbeni, era un gran sindaco. Veniva a trovarci, sempre senza giornalisti a seguito. Portava pane e vestiti. In tanti, qui, abbiamo pianto al suo funerale”.
IL CAMPO DI VIA ERBOSA doveva essere una soluzione a tempo, per mettere al sicuro le famiglie. Ma negli anni, a causa della mancanza fondi, la sistemazione è diventata definitiva. Anche se il campo non è mai stato e mai potrà essere a norma. Per questo, oggi, l’amministrazione comunale sta lavorando per trovare un’alternativa. E i contributi stanziati per le utenze non sono voci a parte, ma rientrano nella spesa complessiva che Palazzo d’Accursio sostiene per dare una mano ai bolognesi in difficoltà economiche. Che vivano in case popolari o in casette mobili. “Non chiediamo niente di particolare. Solo rispetto e civiltà”.

il Fatto 11.11.14
La nuova CasaPound nel fronte neroverde: “La Lega è come noi”
Il leader estremista: “Parliamo lo stesso linguaggio”
E il capo del Carroccio loda le loro “politiche sociali”
di Enrico Fierro e Tommaso Rodano


Tutti a Parigi, ad abbeverarsi alla fonte di Marine Le Pen, la bionda leader del neofascismo francese. Tutti Oltralpe a capire come si rinasce dalle ceneri di ideologie morte e sepolte da tempo. Tutti insieme, ex secessionisti padani ed ex “fascisti del Terzo millennio”, se matrimonio sarà il figlio prediletto si chiamerà Fronte Nazionale italiano. Il vecchio Umberto Bossi può continuare a parlare di “Lega antifascista”, tanto nessuno lo ascolta. Matteo Salvini fa di testa sua e il senatur deve accontentarsi della ritirata strategica imposta dal leader della Lega sul terreno scivoloso dell’inchiesta sui fondi neri della Lega e sui rapporti con la ’ndrangheta. Teo, come con affetto lo chiamano le sue nuove ammiratrici, vuole fare il pieno di alleanze tra gli scontenti della destra, moderata, estrema o sociale, poco importa.
“È una strategia che condivido”, ci dice Simone Di Stefano, uno dei leader di CasaPound. Erano i “fascisti del Terzo millennio”, un po’ tetri e tristi come tutti i nostalgici, ora vogliono giocare a tutto campo nella politica nazionale. “CasaPound non è più solo un centro sociale, siamo un movimento politico nazionale. La Lega dice le stesse cose che diciamo noi, un percorso è già tracciato, non dimenticate che abbiamo fatto eleggere Mario Borghezio al Parlamento europeo”. E Borghezio ha ringraziato portando nel suo staff due “ragazzi” di CasaPound. Di Stefano è una delle teste pensanti del neofascismo sociale romano. “Noi e la Lega parliamo lo stesso linguaggio su sovranità monetaria, uscita dall’euro e lotta alla burocrazia di Bruxelles. Come noi guardano a Mosca come partner strategico e non all’Occidente. Quando Salvini va in televisione, dice quello che diremmo noi se solo ci invitassero”.
ATTENTI, NON È folklore da Fascisti su Marte. È politica. Prima gli italiani, ripete ossessivamente come un mantra il nuovo “fronte”. Lo fanno i neri di CasaPound nelle loro sedi sparse in tutta Italia e lo fa Salvini, instancabile presenzialista di talk show di ogni orientamento. Tutti insieme parlano agli operai delle fabbriche del Nord chiuse, alla piccola borghesia impoverita dall’euro, ai pensionati dei quartieri periferici milanesi e ai disoccupati del Sud. Quel mare di disagio che non trova certo ascolto nel Pd delle cene da mille euro a cranio.
“CasaPound lo considero un movimento democratico, certo. E preferisco le loro occupazioni a quelle dei centri sociali di sinistra. Altro che fascio razzismo, questi fanno politiche sociali che Renzi neppure si sogna”. Così parlò Salvini il 23 ottobre quando si fiondò nella Roma ex ladrona a far visita a Casa-Pound nel quartier generale all’Esquilino. E i neri ricambiarono mandando duemila di loro a Milano alla manifestazione contro l’immigrazione.
Patto d’acciaio, quindi, che commuove Borghezio. Un precursore, e non solo per le sue origini fascistoidi (“ho militato per 14 anni nella Giovane Europa ai tempi dell’università”), ma perché fu il primo a teorizzare l’alleanza. Anni fa illustrò la sua strategia ai neofascisti francesi e le telecamere nascoste di una tv registrarono tutto. “Bisogna entrare nei piccoli comuni, giocare sul regionalismo. Ci sono buone maniere per non essere etichettati come fascisti, ma sotto sotto rimanere gli stessi”, consigliava bisbigliando. Ora tutto avviene alla luce del sole.
“C’È UNA VASTA AREA di senza papà della destra, non solo estrema, che guarda alla Lega – dice oggi Borghezio –. Gruppi che magari non si parlano tra di loro, ma vedono Salvini con grande speranza. Grillo, poi, ci sta lasciando praterie e quando ho visitato CasaPound sono stato colpito dalla serietà del loro impegno e dal fatto che hanno costruito quadri politici maturi. Si può fare, certo, la Lega è ancora Nord, ma ha aperto ad altri interlocutori anche dal punto di vista geografico. Pensi che mi arrivano decine di messaggi, quasi tutti da Roma. Un arcipelago di persone che chiedono di collaborare alla costruzione di questa cosa, che voi giornalisti vi ostinate a chiamare nero-verde”. Lepenisti d’Italia uniti, quindi.
Sarà questa la “sorpresa” delle prossime elezioni. E ha ragione Borghezio quando parla di arcipelago. La destra è frantumata, quella estrema dispersa in mille rivoli (da Storace alla Meloni), quella moderata spaventata dalla crisi di Berlusconi e dall’avanzata di Renzi, c’è spazio per un nuovo soggetto. Gianluca Iannone, altro leader di CasaPound, ne è convinto. “Salvini sta ampliando gli orizzonti della Lega per costruire fuori dal centrodestra un soggetto di carattere nazionale”.
OLTRE LA LEGA e Casa-Pound, Fratelli d’Italia della Meloni, Forza Nuova di Fiore e Progetto Nazionale di Piero Puschiavo. A Milano, alla manifestazione contro l’immigrazione, c’erano anche loro a sognare la Lega dei Popoli, guidati dal conte Alessandro Romei Longhena. Troppe sigle, troppa gente? “A Salvini gliel’ho detto – rivela Di Stefano – ‘a Matte’ stai attento, sei sull’onda del successo elettorale, proveranno a entrare tanti personaggi da evitare”.

il Fatto 11.11.14
Il partitino di Fiore, i camerati di Boccacci e i custodi della memoria di Priebke


PUR ELETTORALMENTE irrilevante, la galassia neofascista italiana è frammentata e il terreno più fertile lo trova a Roma. I principali movimenti, oltre Casa Pound, sono tre.
FORZA NUOVA
Fondata da Roberto Fiore (ex Terza Posizione) alla fine degli anni 90, è il partito neofascista più "pesante". Nazionalismo e tradizione. Alle Politiche 2013 ha ottenuto 86 mila voti (0,26%). Ma a Roma, alle Comunali dello stesso anno, è stata surclassata nel derby nero con Casa Pound: 2.000 preferenze (0,16%), contro 7.000 (0,6%).
MILITIA
Non è un partito, secondo i carabinieri del Ros è un’associazione “dedita ad atti violenti di matrice xenofoba”. Il leader è il pluricondannato Maurizio Boccacci, ex Movimento politico. Pochissimi, molto violenti.
MOVIMENTO SOCIALE EUROPEO
La bandiera del Movimento sociale europeo (fenice nera e fiamma coi colori del Reich) sventolava fuori dal circolo di Daniele De Santis, presunto assassino del tifoso napoletano Ciro Esposito. Il capo è Giuliano Castellino, già pupillo di Alemanno e Storace, in prima linea se c’è da difendere la memoria di Erich Priebke. (to. ro.)

Corriere 11.11.14
Il trotzkista Turigliatto: a processo per antifascismo con me compagni e attori
intervista di Fabrizio Roncone


(Dieci minuti per convincerlo a parlare)
«No, guardi, spreca tempo».
«Lasci stare, davvero».
«C’è un processo in corso».
«Mi spiace, il mio avvocato m’ha ordinato di tacere».
(Ma anche il più tosto degli ultimi trotzkisti, alla fine, cede).
«Mhmm... Okay, va bene: sa per cosa vengo processato? Per antifascismo. In tivù, da Bruno Vespa, dissi che Roberto Fiore, quello di Forza Nuova, è un fascista e adesso devo difendermi perché Fiore mi ha querelato. Dice di sentirsi diffamato, offeso. Lui, Fiore. Il capo di Forza Nuova».
Il compagno Franco Turigliatto, di anni 67, era un pensionato tranquillo nel suo giardino di Rivara, in Piemonte. Rose inglesi di inizio Ottocento da potare e pomodorini biologici rosso fuoco, il rumore della motozappa a coprire i ricordi dei bei tempi andati: tra il 2007 e il 2008 fece tremare il Senato e fu tra quelli che negarono la fiducia al governo di Romano Prodi, minacce serie e sempre mantenute al microfono di Palazzo Madama seduto nello scranno di Rifondazione (da cui fu poi espulso), niente a che vedere con certe sceneggiate comiche delle ultime settimane, tutte urla e niente fatti.
Poi, una mattina d’ottobre dello scorso anno, suona il postino.
C’è una raccomandata.
«Conteneva un decreto penale di condanna per diffamazione: 2.480 euro di multa. Rimasi senza parole. Non ero stato interrogato, nessun giudice mi aveva convocato, nulla mi era stato notificato...».
Diffamazione. C’è scritto così: «... e offendeva l’onore e il decoro di Roberto Fiore, dicendo esplicitamente che Forza Nuova è una forza politica dichiaratamente neofascista e neonazista».
Cinque anni prima, Porta a porta (se volete togliervi lo sfizio, potete andarvi a rivedere tutto su YouTube ).
Turigliatto sta lì seduto, nel filmato sembra di vedere anche Cesare Damiano. Chiacchiere varie, Prodi di qua, Prodi di là, Afghanistan, guerra utile, guerra inutile.
Din don!
Vespa fa entrare Roberto Fiore. Poche parole per introdurlo e subito si sente la voce di Turigliatto. «Dottor Vespa... io ho un problema... mi dispiace molto, ma non posso continuare a rimanere qui». Vespa intuisce: «È una sceneggiata che non le fa onore. Lei sapeva benissimo della presenza di...». Turigliatto, alzandosi e avviandosi verso le quinte dello studio: «È un fascista e...». Vespa, furibondo, come sa diventare furibondo certe volte Vespa: «Lei è profondamente scorretto! Buona serata!».
Fiore, il giorno dopo, fa partire la querela. Che naviga silenziosa negli uffici del Tribunale di Roma, fino alla condanna di Turigliatto. «È il meccanismo del cosiddetto “decreto penale” - spiega l’avvocato difensore dell’ex senatore, Gianluca Vitale - .Per cui quando il giudice ritiene che ci sia l’evidenza della prova e valuta sufficiente una sola pena pecuniaria, può chiedere direttamente la condanna. Ciò accade senza che l’imputato venga mai ascoltato. Insomma, piaccia o no, è la legge che lo prevede, il condannato si vede arrivare la condanna e ha 15 giorni di tempo per decidere cosa fare».
Turigliatto ha deciso di andare a difendersi in aula. Prima udienza, lo scorso 4 novembre.
«Mi creda, una mortificazione assoluta» (la voce di Turigliatto quasi trema).
Ho letto l’appello in sua difesa scritto e firmato da...
«C’è il regista Ken Loach e c’è Erri De Luca, ci sono Noam Chomsky e un mucchio di parlamentari di Sel, Rifondazione, Syriza e Podemos. Più sindacalisti, docenti universitari e tanti, tantissimi compagni...».
Lei, dopo l’esperienza di Rifondazione, fu tra i fondatori di Sinistra Critica. Adesso dove fa politica?
«Sono con Sinistra Anticapitalista e due volte alla settimana continuo ad andare davanti ai cancelli di Mirafiori per ascoltare gli operai, capire i loro problemi...».
Leon Trotsky al tempo di Matteo Renzi.
«A Mirafiori ci sono operai che lavorano tre giorni al mese».
( La preparazione di questo articolo ha consentito la scoperta di una fatto piuttosto curioso. Cercando notizie recenti di Roberto Fiore su Google e finendo dentro Wikipedia, dove trovate biografie di chiunque, da Gigliola Cinquetti a Valerio Fioravanti detto Giusva, alla voce Roberto Fiore c’è scritto: «Questa pagina è stata oscurata e bloccata a scopo cautelativo a causa di una possibile controversia legale». Domanda: cosa c’era scritto su Roberto Fiore in quella pagina? ).

il Fatto 11.11.14
L’ira di Bagnasco sulle nozze gay: ”Un cavallo di Troia”


IL PRESIDENTE della Conferenza episcopale italiana, Angelo Bagnasco, si è scagliato contro le unioni civili: “Hanno l’unico scopo di confondere la gente e di essere una specie di cavallo di troia di classica memoria”, ha detto nella prolusione che ad Assisi apre l’assemblea generale della Cei. Non nuovo a posizioni conservatrici, il cardinale genovese è intervenuto molto duramente sulla questione delle nozze gay pur non citandole mai in modo esplicito: "I figli non sono al servizio del desiderio degli adulti e hanno diritto ad un papà e una mamma. È irresponsabile indebolire la famiglia creando nuove figure per scalzare culturalmente e socialmente il nucleo portante della persona e dell’umano”. Bagnasco ha concluso definendo la famiglia come “patrimonio e cellula dell’umanità, costituita da un uomo e da una donna, come è definita e garantita dalla Costituzione”.

il Fatto 11.11.14
A cena col Pd
“Chicco Testa sempre in piedi” Il trasformista che siede a corte
di Carlo Tecce


A sinistra gli è rimasta la riga dei capelli. Ovunque occupa le poltrone dei cda. Il bergamasco Chicco Testa, spessofidanzato e mai coniugato, dai trascorsi comunisti (deputato per due legislature) ne ha ricavato un’eredità: non ideologica, ma di rapporti. Ha la stabilità precaria di un “misirizzi”, il pupazzo che oscilla e non cade mai: Chicco (Ercolino) sempre in piedi. Non cade mai, però pende: che sia verso Massimo D’Alema ai tempi di una preistorica raccolta fondi in via Veneto; che sia verso Walter Veltroni se c’è da scavare la Roma antica da presidente di una metropolitana; che sia verso Matteo Renzi per la cena di finanziamento a Roma di venerdì scorso.
CHICCO TESTA, UN MARCHIO di potere più che un nome completo, era in passerella al raduno degli imprenditori da 1.000 per il renzismo. Era capotavola. Dei debutti ecologisti, fondatore-segretario-presidente di Legambiente, non ha dismesso l’abitudine di frequentare Calpalbio, la prima costa toscana che confina con il Lazio, dove di verde, appunto, ci sono i muretti a secco che non richiedono cemento. E i muretti abbracciano il ritiro estivo di Chicco Testa, e pure una stradina provinciale non consona al transito dei suoi amici. Di questi contatti diretti con la vita, Testa ci informa in Contro (la) natura, un libro appena pubblicato da Marsilio, che ha editato pure Siamo tutti puttane della compagna-giornalista Annalisa Chirico: “Anch’io per mia fortuna possiedo una casa su una splendida collina nella Maremma. Isolata, insonorizzata e con miliardi di stelle sopra la testa (…) Gli amici, che vengono volentieri a casa mia, si lamentano, garbatamente, per i tre chilometri di sterrato che devono percorrere con le auto a carrozzeria bassa”.
Quando precipitò nei salotti romani, studioso di filosofia laureato a Milano, Chicco Testa non animava i salotti, non ammiccava ai boiardi. Poi s’è fatto boiardo da salotto. E la presidenza di Enel, durante il governo di Prodi I su indicazione di Francesco Rutelli, è soltanto l’inizio di una rivisitazione storica di se stesso. Nei sette anni a Legambiente (1980-1987), Chicco Testa andava in televisione contro il nucleare per il pauperismo. Memorabile un’intervista a Rete 4, seduto in una macchina senza tettuccio, reclamizzava “Slurk” il mangialattine, esibizione che seguì lo speciale sui tic di Sandra Milo e Lello Arena. Di giorno sfilava per Roma bardato di giallo per bloccare le centrali nucleari in Italia e proporre il referendum (stravinto). Depositava corone funebri all’ambasciata Sovietica: “Moriremo piano, moriremo tutti”. Urlava, con la pettinatura composta: “Lotta dura vogliamo la verdura. Dura lotta vogliamo la ricotta”. E non risparmiava lo spirito movimentista per sostenere il Cora, il comitato radicale antiproibizionista. Poi venne l’ingresso in Parlamento e la fuoriuscita di un Chicco Testa inedito o ben tenuto nascosto. Il politico indipendente e classe dirigente che il sindaco Rutelli spedisce in Acea, l’azienda pubblica romana dei servizi. I residui ambientalisti svaniscono con la nomina in Enel, dove matura nuove convinzioni che offre agli italiani con un’associazione, convegni e un libro: “Serve l’efficienza energetica, ma serve anche il nucleare”. Rimprovera i Verdi troppo fiscali con la modernità, troppo astrusi per il benessere collettivo. Ha funzionato, il Chicco Testa sperimentale, che si definisce no-atomo-pentito mentre l’allora ministro Altero Matteoli gli faceva opposizione.
DOPO IL RODAGGIO nelle aziende pubbliche, viene conteso dai colossi esteri perché abile a tessere relazioni, a fare il lobbista. Dirige Assoelettrica, la Confindustria dei produttori di energia tradizionali che battaglia contro i sussidi alle rinnovabili. E ha una cadrega nei cda di Cadogan Petroleum con sede a Kiev e in Metirerranean Oil & Gas, compagnia inglese che estrae idrocarburi nel Mediterraneo e che, attraverso una controllata, è interessata a trivellare al largo dell'Abruzzo. “Il Chicco Testa”, ancora non dato alle stampe, più che un manuale è un elenco di incarichi: Cnel, Cispel, Acea, Roma Metropolitane, Enel e Wind, Riello, Rothschild, Telit Communications, Energie Valsabbia, Idea Capital Funds. Più profondo di un pozzo di greggio, il Chicco Testa pensiero è improbo da riassumere, ma a pagina 97di Contro (la) natura ci aiuta con un aforisma: “L’inquinamento fa male alla salute. Ma la mancanza di inquinamento, in alcuni casi, ancora di più”.

Corriere 11.11.14
I segni di un degrado civile
Argini infranti di una comunità
di Ernesto Galli della Loggia

qui

il Fatto 11.11.14
L’Aquila, assolti gli scienziati “È come per Stefano Cucchi”
Ancora impunità: nessun dolo per le rassicurazioni alla vigilia del sisma
In primo grado i 7 membri della commissione sicurezza condannati a 6 anni
di Sandra Amurri


I sette membri della Commissione Grandi Rischi che avevano partecipato alla riunione del 31 marzo 2009, cinque giorni prima del sisma del 6 aprile a L’Aquila, condannati in primo grado a 6 anni per omicidio e lesioni colpose, sono stati tutti assolti in Appello: il fatto non sussiste. “Vergogna, mafiosi”, grida pronunciate tra lacrime di rabbia e dolore dei familiari delle vittime presenti in aula. Franco Barberi, presidente vicario della Commissione Grandi Rischi, Enzo Boschi, presidente dell’Ingv (Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia), Giulio Selvaggi, direttore del Centro nazionale terremoti, Gian Michele Calvi, direttore di Eucentre e responsabile del progetto Case, Claudio Eva, ordinario di fisica all’Università di Genova e Mauro Dolce direttore dell’ufficio rischio sismico di Protezione civile per la Corte d'appello presieduta da Fabrizia Francabandera che ha emesso la sentenza, non sono responsabili di aver rassicurato la popolazione sottovalutando il rischio del sisma al termine di quella riunione, tant'è che i cittadini sono rimasti a dormire nelle loro case distrutte dal terremoto che ha spezzato la vita di 306 persone. Solo a Bernardo De Bernardinis, allora vice capo del settore tecnico della Protezione civile, è stata confermata la condanna a 2 anni di reclusione con sospensione per omicidio colposo e lesioni colpose, ma solo in riferimento ad alcune vittime, mentre è stato assolto per le stesse accuse nei confronti di altri morti.
Ci erano volute 940 pagine per dimostrare che quella riunione produsse una mancata analisi del rischio e risultanze rassicuratorie, che indussero gli aquilani a restare in casa mentre, con una condotta più prudente, si sarebbero potute salvare diverse vite.
NELLA MOTIVAZIONE della sentenza di primo grado il giudice Marco Billi scrive che “la migliore indicazione” sulle rassicurazioni della commissione, si ricava dalla frase finale della bozza del verbale della riunione, dove l’assessore alla Protezione civile regionale Daniela Stati, in modo emblematico, disse: “Grazie per queste vostre affermazioni che mi permettono di andare a rassicurare la popolazione attraverso i media che incontreremo in conferenza stampa”. In sintesi: “Se avessero fatto il loro dovere” se “non avessero pronunciato quelle parole rassicuranti nella famosa riunione molte persone non sarebbero morte”.
Nulla a che vedere con un processo “alla scienza” per non essere riuscita a prevedere il terremoto del 6 aprile 2009. “Il compito degli imputati, quali membri della commissione medesima, non era certamente quello di prevedere (profetizzare) il terremoto e indicarne il mese, il giorno, l’ora e la magnitudo, ma, più realisticamente, di procedere, in conformità al dettato normativo, alla ‘previsione e prevenzione del rischio’”. Il giudice, infatti, richiamava l'attenzione sulla “corretta analisi del rischio che andava, di pari passo, calibrata con una corretta informazione”. Tant'è che gli scienziati vennero condannati per analisi negligente del rischio sismico. “Non può finire così, i nostri morti chiedono giustizia”, ripete come un automa un genitore che non ha mai smesso di piangere il figlio. “Immaginavo un forte ridimensionamento dei ruoli e delle pene, ma non un’assoluzione così completa, scaricando tutto su De Bernardinis, cioè sulla Protezione civile”, è il commento sconcertato di Romolo Como, procuratore generale de L’Aquila che dovrà decidere sulla richiesta di proscioglimento della Procura dell'ex capo della Protezione civile Guido Bertolaso, indagato in un filone parallelo al processo alla Commissione grandi rischi. Usa parole forti Wania Della Vigna avvocatessa di alcuni degli 8 ragazzi rimasti uccisi dal crollo della Casa dello Studente e anche dei sopravvissuti segnati da quella tragedia: “Siamo di fronte a uno Stato che assolve se stesso come nel processo Cucchi”. Mentre l'avvocato Antonio Valentini, autore dell'esposto che ha dato il via all'inchiesta non si arrende e guarda con fiducia alla Suprema Corte.

il Fatto 11.11.14
“Ora qualcuno riderà di nuovo”
di Davide Milosa


Ore 17, entra la Corte: tutti assolti. Trecentonove vittime, ma per il terremoto de L’Aquila del 6 aprile 2009 non ci sono colpevoli. Così hanno deciso i giudici d’Appello. Pochi secondi. Tanto basta perché il pubblico urli: “Vergogna”. Ancora meno perché la notizia giri in rete.
TRENTOTTO SECONDI
Si legge e si commenta. Lo fa Giusi Pitari, docente all’Università de L’Aquila. Il suo blog si chiama 38 secondi. “Il tempo - spiega - che mi sembra sia passato dal momento in cui mi sono svegliata il 6 aprile 2009”. Rilancia su Twitter: “Dovevamo morire tutti e invece lo facciamo oggi, il 10 novembre 2014 (...). Nemmeno dopo 2044 notti riusciamo a dimenticare che restammo in casa e ci coricammo”.
AQUILANI FATEVI SENTIRE
C’è Max Mangione che ieri era in aula. Alle 17, sul suo profilo Facebook annuncia la sentenza: “Assolti”. Poi commenta: “Ce lo aspettavamo in molti, soprattutto quando, entrando in aula, ci siamo accorti che mancava la famosa scritta: La legge è uguale per tutti”. Sarcasmo, ironia. Qualcuno risponde. E non scherza. Scrive su Twitter: “Forse è arrivata l’ora che gli aquilani (quelli veri) si facciano sentire una volta per tutte”.
VI AUGURO DI VIVERE IL 6 APRILE 2009
Andrea Braconi, cronista locale nelle Marche, ricorda le risate tra l’imprenditore Piscicelli e il cognato, quando il primo dice: “Alla Ferratella occupati di ‘sta roba del terremoto perché qui bisogna partire in quarta subito, non è che c’è un terremoto al giorno”. “Lo so”, e ride. “Per carità, poveracci”. “Vabbuò”. “Io stamattina ridevo alle tre e mezzo dentro al letto”. Alle 20 di ieri Andrea su Twitter scrive: “E quindi ancora una volta qualcuno riderà de L’Aquila, del terremoto del 2009 e dei suoi 309 morti”. Altre persone, che quella notte alle 3.32 del 6 aprile, erano in Abruzzo scrivono: “Vi auguro di vivere il 6 aprile 2009, alle 3.32. Altro che il fatto non sussiste”. Altri fanno riferimento al mancato allarme da parte della commissione Grandi Rischi. “Spero che qualcuno vi tranquillizzi nel benaugurato caso vi possa succedere qualcosa di brutto”. L’organizzazione no profit 3:32 (l’ora del sisma), sulla sua pagina Facebook segue la vicenda giudiziaria in diretta. Scrive: “Assolti! Vergogna”.
IL TERREMOTO NON SUSSISTE
Poi ci sono quelli che s’indignano. Come Giulia Mazzetto: “L’Italia è una Repubblica fondata sull’assoluzione”. O come Gabriella: “Senza parole, a questo punto è ovvio che anche il terremoto non sussiste, i morti non sussistono. Le case distrutte non sussistono. La terra non si è mossa”.

il Fatto 11.11.14
Dimesso a metà. Così il Colle ricompatta i “Nazareni”
La mossa di Napolitano chiama alla covergenza
di Fabrizio d’Esposito


Più che di esperti quirinalisti, a questo punto, ci sarebbe bisogno di un antico cremlinologo per interpretare ogni gesto e ogni virgola dell’eterno togliattiano Giorgio Napolitano, a partire dall’ultima esternazione di domenica scorsa, quando con una nota anodina il Quirinale non ha smentito né confermato le dimissioni a gennaio dal secondo mandato presidenziale a tempo. Nella persistente assenza però di un quadro chiaro sulle condizioni reali del capo dello Stato, dopo gli articoli di sabato di Fatto e Repubblica sulla “stanchezza” dell’ottantanovenne capo dello Stato, colpiscono due affermazioni di Napolitano. La più devastante, politicamente, è quella che chiude la nota della “non smentita e non conferma”: “E restano esclusiva responsabilità del capo dello Stato il bilancio di questa fase di straordinario prolungamento, e di conseguenza le decisioni che riterrà di dover prendere. E delle quali come sempre offrirà ampia motivazione alle istituzioni, all’opinione pubblica, ai cittadini”.
Voto anticipato sempre più lontano
Di fatto, ancora una volta, la monarchia repubblicana del Quirinale non solo si piazza al centro della scena politica ma ne devia pure il corso. Il balletto sulle dimissioni di San Silvestro, fatto filtrare alla nuova firma di Repubblica Stefano Folli (tramite l’amico Fondatore Scalfari?), ha infatti ridotto se non annullato l’ipotesi di un voto anticipato nel 2015. La minaccia di andarsene e di non essere quindi il presidente che farà sparare la pistola carica del premier sulle elezioni sta già portando a una rinegoziazione del patto del Nazareno tra lo Spregiudicato e il Pregiudicato. Avanti piano con la riforma elettorale dell’Italicum e un anno in più di legislatura per completare il percorso costituente. Del resto, i due contraenti dell’accordo segreto Bierre (copyright Formica) hanno iniziato la trattativa sul successore di Napolitano e il Condannato avrebbe posto la sua prima condizione: non toccando a lui fare il nome (Renzi ha già detto che l’indicazione spetta al Pd) ha chiesto l’ambitissima poltrona di segretario generale del Quirinale (in pratica, il ruolo più influente dopo quello del capo dello Stato) per il Gran Visir berlusconian-andreottiano
Gianni Letta, nume dei mandarini ministeriali e amico invisibile di cricche e logge segrete. Il ricatto di Napolitano, come lo hanno chiamato sia Grillo sia Brunetta, ha avuto i suoi effetti, smascherando il bluff renziano con il Movimento 5Stelle e mascherando invece l’ammuina dell’ex Cavaliere dentro Forza Italia.
La “stanchezza” e l’escalation
Vale la pena, allora, per comprendere fino in fondo la sceneggiata di sabato e domenica, l’escalation della settimana scorsa. Tutto comincia con il nuovo vertice di mercoledì 5 novembre tra Renzi e il Condannato a Palazzo Chigi, smentito sino all’ultimo minuto utile dal cerchio magico di Berlusconi. L’incontro va male: B. vuole prendere tempo sull’Italicum perché teme il voto anticipato nel 2015. La vendetta del premier arriva il giorno successivo, giovedì 6, quando il Parlamento registra una svolta: i grillini si accordano con il Pd per un loro nome al Csm e allo stesso tempo i renziani silurano la candidata azzurra per la Corte costituzionale. Nella vulgata di Palazzo il Nazareno è sull’orlo di una crisi di nervi e il premier conferma con una battuta: “Il patto scricchiola”. Si arriva così alla moltiplicazione delle voci sulla “stanchezza” di Napolitano. Il Fatto, sabato 8, scrive della stanchezza soprattutto sulla base di una drammatica scena avvenuta durante una manifestazione al Quirinale, giovedì 6. Questa: impegnato con alcuni ospiti, Napolitano viene raggiunto dalla moglie Clio, che dice: “Giorgio andiamo via”. Repubblica, invece, “dipinge” in chiave politica le dimissioni annunciate di gennaio: me ne vado perché sono stanco e anche deluso perché manco la legge elettorale avete approvato.
I controlli di governo ad Antonio Segni
Colpisce, infine, una seconda frase della nota domenicale: “Ciò (l’accettazione del secondo mandato, ndr) non gli ha impedito e non gli impedisce di esercitare nella loro pienezza tutte le funzioni attribuitegli dalla Costituzione”. Questo è un passaggio delicatissimo. Innanzitutto perché al Quirinale c’è stata non poca irritazione per gli articoli di questi giorni che tratteggiano un presidente stanco e malato e che hanno costretto il ministro degli Esteri Gentiloni a dire in una trasmissione tv che “Napolitano è lucidissimo”. Qualcuno ne dubita? Ed è forse riconducibile a questa irritazione la decisione di fare una passeggiata pubblica in piazza di Spagna per andare in una gioielleria. Mai accaduto prima. L’ostensione del corpo è un fattore vitale nelle liturgie sovietiche. Anche perché a Napolitano non sfugge un precedente del passato: quello di Antonio Segni colpito da ictus nell’agosto di mezzo secolo fa. Non c’è paragone sanitario tra i due casi, ma di fronte alla malattia del capo dello Stato, Pietro Ingrao del Pci rivolse un’interrogazione al governo e l’allora presidente del Consiglio Aldo Moro nominò un collegio di medici per valutare le condizioni di Segni. Se il “buio” sulle condizioni e sulle dimissioni di Napolitano continua, la salute del presidente della Repubblica può anche diventare un problema parlamentare.

il Fatto 11.11.14
S’offrono al Quirinale “Io sì che sarei perfetto”
Nella corsa alla successione riparte il gioco delle autocandidature e Boldrini parte: “Ci sono donne autorevoli, con storie significativa”
di Luca De Carolis


Mi si nota di più se parlo e poi me ne sto in disparte, o se non parlo per niente? Parafrasando un Nanni Moretti d’annata, è questo il dubbio dei dubbi per la folla di candidati veri e presunti al Quirinale. Incerti se inseguire copertine e telecamere, oppure se stare sott’acqua in attesa degli eventi, fedeli all’antico adagio: “Chi entra papa esce cardinale”. Ma la scaramanzia non è roba per Laura Boldrini. La presidente della Camera è stata netta: “Il Paese è pronto per avere un presidente della Repubblica donna. In Italia ci sono donne autorevoli, con storie significative, ed è giusto che possano essere candidate”. A voler essere birichini, pare che manchi solo la postilla: si consiglia giornalista di 53 anni, con lungo curriculum internazionale (Onu), per ora terza carica dello Stato. Ma i bookmaker di Betpassion, già operativi con le quote per il Colle, la danno bassina: 50 volte la posta. Altra storia con Roberta Pinotti, ministro della Difesa, dem convertita al renzismo. La quotano a 5, prima delle donne in teorica lizza. E si capisce. Il suo nome rimbomba dalla scorsa primavera: e lei, genovese, 53 anni, non si è certo adontata. Il primo agosto, intervistata da Gente, rifletteva così: “Una donna al Quirinale non sarebbe male, ma non ci si sente mai pronti per cose come questa: se poi succedono, uno prova a gestirle”.
SE QUESTA è una smentita, Renzi è un bolscevico. Nelle ultime settimane però Pinot-ti ha cominciato a negare, come vuole il galateo dei Palazzi (P maiuscola). “Io al Colle? Chiacchiere giornalistiche, non ci ho mai pensato” assicurava a Libero meno di un mese fa. A seguire, noticina: “Tempi maturi per una donna al Quirinale”. Nella ridda di nomi femminili c’è anche Anna Finocchiaro, già in corsa l’anno scorso. Pochi giorni prima del Napolitano bis, l’allora sindaco di Firenze Renzi la bocciò come candidata, citando le foto che la ritraevano all’Ikea assieme alla scorta. E la dalemiana si risentì: “L’attacco di Renzi è davvero miserabile”. Era l’aprile 2013, e pare un secolo fa. Tra il rottamatore e Finocchiaro è scoppiata da tempo la pace. Lei comunque schiva l’argomento Colle (la quotano a 35). Si è invece proposto senza se e senza ma Sergio Chiamparino, sul Fatto: “Se per la presidenza della Repubblica mi vogliono anche i Cinque Stelle io sono già li, ci vado di corsa”. Quasi spericolato, certo sincero: “Forse è già troppo fare il presidente del Piemonte. E poi per un’operazione Pd-M5S sarebbe più naturale Prodi”. Proprio lui, la vittima dei proverbiali 101 traditori che nel segreto dell’urna impallinarono la sua ascesa verso la suprema carica. Una vicenda che è diventata quasi un genere letterario. Ora Romano Prodi dice che è acqua passata. “Mai avuto lo sguardo rivolto al Colle, neppure per un momento” giurava ieri al Corriere della Sera. Esagerando: “Non c’era nessuna ferita da chiudere dopo i 101”. Ecumenico il professore, quasi presidenziale. Lo hanno fiutato anche gli scommettitori, che lo danno a 7. Più sotto, a quota 10, c’è Dario Franceschini. Tre giorni fa il ministro era da Fazio a Che tempo che fa. Apparentemente felice di dover smentire certe voci: “È solo un gioco dei giornali, come si fa a far nomi visti i presidenti di oggi e ieri, Napolitano, Ciampi? Occorre essere all’altezza di questi nomi e avere senso della misura”. Umile e diretto, Franceschini. Pure di bella presenza, che mica guasta. Da chi smentisce a chi non parla proprio, il salto ha un suo senso tattico. Da siciliano che conosce il peso delle sillabe, il presidente del Senato Pietro Grasso osserva a bocca chiusa. Anche se, o proprio perché, è nel toto nomi da un anno. Inutile (per ora) anche sperare in fonemi daGiuliano Amato: secondo nelle quote dei bookmaker. Il primo in classifica è Massimo D’Alema, ieri a Otto e Mezzo. A domanda sul Colle ha risposto secco: “Non mi sento candidato a nulla, mi interessa quasi zero”. Sullo sfondo, il candidato di cui tutti sanno (o dicono di sapere) ma che non ne parla. Piuttosto presenta, il suo film: Quando c’era Berlinguer. Il sospetto maligno di tanti politici è che Walter Veltroni abbia girato il suo film sul segretario del Pci anche come carta per il Colle. Un lungometraggio che racconta uno dei pochissimi intoccabili del dopoguerra è mossa molto bipartisan. Il buonista Walter, che non ha mai demonizzato nessuno, neppure B. (“L’esponente dello schieramento a me avverso”) tace. E ritace. Dovesse farcela, previste visite guidate per assistere alla reazione di D’Alema.

Il Sole 11.11.14
Il Quirinale, le maschere e i giochi pericolosi
Il casting che il Paese non può permettersi
di Paolo Pombeni


È appropriato trattare il problema della successione al Presidente Napolitano come fosse una questione di casting politico? Posta così la domanda suona retorica e tutti risponderanno all'unisono che è assolutamente inopportuno. Peccato che sia quello che si sta cominciando a fare e, come si dice, alla grande. Per certi versi il cosiddetto toto-nomine è una specie di sport nazionale che torna di moda ogni volta ci sia una posizione in gioco: dalla guida di una multinazionale italiana alla conduzione di un programma televisivo, dalla individuazione di un ministro alla elezione del Papa. Si potrebbe considerarlo un comportamento naturale, e per certi versi lo è, ma non per questo è sempre un comportamento sano. Nel caso specifico anzi è quello che si chiama un gioco pericoloso.
Innanzitutto perché sposta la questione dalla sostanza dei problemi all'icona. Cioè si comincia a discutere di un dato di immagine estrinseco, rispetto ad un contenuto sostanziale. Ci vuole una donna, un rappresentante della società civile, un politico sperimentato, un politico giovane, un profilo ideologicamente netto, un uomo buono per tutte le stagioni? Non deve sfuggire quanto sia pericoloso cominciare a porre la questione partendo da simili premesse. Infatti alla fine si costruiscono delle gabbie dentro cui i problemi sul tavolo finiscono per essere intrappolati, anziché avviati a soluzione. Non può sfuggire che aizzando l'opinione pubblica a dividersi su quale di queste icone sia la più adatta a soddisfare delle fratture che percorrono la società (facciamo prevalere il genere, o l'esperienza, o la società civile, ecc.) si finisce per bloccare ogni costruzione di consenso attorno a pre-giudizi che a tutto servono meno che a creare quella convergenza di opinioni che sarà necessaria per evitare almeno un passaggio parlamentare che si protragga per un lungo tempo e porti a soluzioni divisive. Ovviamente questo è un lusso che il Paese non può permettersi in una fase di difficile congiuntura economica come è quella attuale e, diciamolo, nel quadro di un contesto politico percorso da una infinità di tensioni. Ed è proprio questo contesto che rende estremamente pericoloso il fenomeno della ricerca del casting per il futuro presidente della Repubblica.
Una classe politica non fortissima è molto attenta alle fibrillazioni dell'opinione pubblica e il numero di suoi esponenti pronti a speculare sugli umori della gente non è di sicuro ristretto. Si è notato che i settori più responsabili hanno subito cercato di smorzare gli ardori dei venditori di icone politiche, sia insistendo sul fatto che ci si augura che l'attuale inquilino del Colle duri a lungo in carica, sia affrettandosi a dire che è presto per ragionare su ipotesi di successioni, quando non c'è ancora alcuna idea precisa del momento in cui queste avverranno.
Sarebbe peraltro ingenuo illudersi che questi settori responsabili abbiano davvero la forza di fermare le speculazioni in corso, perché ci sono troppi interessi in campo che vogliono sfruttare anche questo passaggio per il regolamento di conti in atto fra le forze politiche. Aggiungiamoci che manipolare questi argomenti non è gran che difficile: se fossimo dei qualunquisti diremmo che in un Paese di tifosi, in cui tutti si sentono autorizzati ad indicare la composizione della nazionale di calcio, è facile trovare spazi per creare fan–club per questa o quella soluzione. Insistiamo: non si tratta solo del fatto che si indichino dei "nomi", dietro ciascuno dei quali stanno padrini e madrine a volte graditi dal candidato, a volte autoproclamatasi tali (cosa già abbastanza sgradevole di suo in questo momento), ma soprattutto del fenomeno per cui si comincia dal costruire le "maschere" che si vorrebbero mettere sulla scena (chi ci starà dietro si vedrà poi). Per evitare il guaio di vedere alla fine il successo del più abile nell'appropriarsi della "maschera" che va per la maggiore, ci permettiamo di suggerire di astenersi dall'immiserire un momento alto della nostra democrazia in una diatriba sul casting che si vedrebbe bene al Quirinale.

il Fatto 11.11.14
Le spese hard dell’Emilia rossa: un vibratore a carico nostro
Alla vigilia del voto 41 consiglieri indagati: rimborsi pazzi per 2 milioni
di Emiliano Liuzzi


Quarantuno consiglieri regionali su cinquanta indagati per peculato, oltre a una segretaria. Un listino degli acquisti dove finisce di tutto: viaggi a Lampedusa (e non per gli sbarchi degli immigrati), un vibratore da 80 euro acquistato in un sexy shop, mangiate a base di aragoste, interviste a pagamento sulle tv locali, monetine per toilette automatiche che sarebberodovute rientrare anche quelle nell’attività politica. Parliamo dell’Emilia Romagna, regione che fu rossa, ma anche virtuosa, una delle più importanti d’Italia. Parliamo anche del Pd al quale i magistrati contestano la metà delle spese fuori controllo: un milione di euro sui 2 che sarebbero finiti in acquisti illeciti e pagamenti non giustificati. Regione anche di Cinque stelle, perché è a Bologna, in viale Aldo Moro, che piazzarono i primi eletti: sotto inchiesta ci sono sia Andrea Defranceschi che Giovanni Favia e l’unica attenuante è che Grillo ha provveduto a espellerli, ma quando hanno speso 98 mila euro erano ancora nel Movimento. Non va meglio per quella che fu l’Italia dei Valori: due consiglieri (Liana Barbati e Sandro Mandini) hanno speso, secondo l'accusa, 423 mila euro. Ottimi i piazzamenti del Pdl, 205 mila euro e della Lega Nord, 123 mila.
MA PIÙ CHE l’ingordigia colpisce la velocità con la quale i soldi venivano bruciati: l’indagine copre un periodo di 16 mesi e non è detto che ai magistrati non siano sfuggiti altri soldi. Due milioni in sedici mesi può essere un record e a poco le parole del sindaco di Bologna, Virginio Merola, che a nome del Pd ha detto che “loro (intesi come partito, ndr) hanno già fatto pulizia”. Quella era una delle regioni del buongoverno della sinistra e finisce in tribunale insieme al suo presidente, Vasco Errani, già condannato a un anno nel processo d'appello per falso ideologico, accusato di falso per la storia di un finanziamento regionale alla cooperativa del fratello Giovanni, al quale finì un milione di euro. Attenuante è che Errani non solo si è dimesso, ma ha anche rifiutato un posto da viceministro che Matteo Renzi gli aveva già promesso.
È quasi uscito di scena dall’indagine (al contrario di Matteo Richetti che rimane indagato), Stefano Bonaccini, che è il candidato del Pd alle prossime regionali in programma tra due settimane: per lui la Procura ha chiesto l’archiviazione, ma il gip deve ancora esprimersi. Gli resta addosso comunque la responsabilità di essere stato il segretario regionale di un partito al quale i consiglieri rispondevano sul piano politico. Niente di personale, ma non si è mai accorto di tutti i quattrini che anche i suoi spendevano in maniera quantomeno disinvolta.
Una storia già letta e raccontata quella delle spese pazze nelle Regioni. Possibile che una donna eletta col Pd, Rita Moriconi, che guadagna oltre diecimila euro al mese, senta la necessità di fare acquisti in un sexy shop (lei nega tutto, dice di non esserci mai entrata) a spese dei contribuenti? E che dire di quei signori che, a leggere le ricevute dei ristoranti presentate all'incasso, avrebbe dovuto mangiare tre volte a sera? E tale Thomas Casadei che presenta due scontrini da cinquanta centesimi l’uno per farsi rimborsare l’uso della toilette pubblica? Possiamo proseguire con i consiglieri del Pdl: a Natale del 2010 andavano a fare acquisti da Tiffany, sempre a spese dei contribuenti, per regali che non si capisce bene dove siano finiti, oppure con le cene di beneficenza della consigliera Udc, Silvia Noè, che poi è anche la cognata di Pier Ferdinando Casini. Tutte persone che raccontavano di “lavorare per il bene del Paese”. I magistrati Antonella Scandellari e Morena Plazzi, coordinate dal procuratore aggiunto Valter Giovannini sotto la supervisione del procuratore Roberto Alfonso, hanno chiuso ieri l'indagine. La loro accusa, oltre alle ricevute, si basa anche su una serie di conversazioni che durante le riunioni dei capigruppo l’ex grillino Defranceschi aveva registrato e consegnato in Procura. Non gli sono valse però la richiesta di proscioglimento.
E TRA 12 GIORNI in Emilia Romagna c'è il voto, proprio per rinnovare il consiglio regionale. Bonaccini, candidato più forte, almeno secondo i sondaggi, sa che il suo nemico può essere l’astensione. E sarà difficile anche per lui portare le persone a votare. Nonostante si tratti della Regione virtuosa, del centro strategico e finanziario del Pd, il partito più importante secondo i risultati delle elezioni europee, lo stesso che governa il cambiamento.

il Fatto 11.11.14
La Metro C funziona soltanto per Caltagirone
Dopo il flop per i ritardi gli unici articoli indulgenti sul “Messaggero”, giornale del costruttore coinvolto nei lavori
di Daniele Martini


Nel gergo dei giornali il “buco” è una notizia bella grossa che i concorrenti hanno in pagina e di cui in redazione nessuno si è accorto. Capita, purtroppo, è uno degli incerti del mestiere e non fa mai piacere. Da ultimo è capitato al Messaggero, giornalone romano sempre bene informato sui fatti della capitale. Al Messaggero non si sono accorti che la tanto sospirata inaugurazione della linea metropolitana C da Pantano a Centocelle all'alba di domenica 9 novembre è stata una specie di festa al cardiopalma con brivido incorporato perché il primo treno, quello con a bordo le autorità cittadine e i capoccioni responsabili dell'opera, non è manco riuscito ad arrivare al capolinea, ma si è mestamente adagiato sui binari quattro fermate prima del dovuto. Mentre tecnici e responsabili dell'inaugurazione rischiavano l'infarto, il convoglio è rimasto in panne per ben undici minuti. E considerando che si tratta di un treno “driveless”, senza guidatore a bordo, quella sosta imprevista è apparsa il prodromo di una colossale figuraccia, l'ennesima maledizione della Metro C, un'opera sfigata, nata male e cresciuta peggio.
TUTTI SI SONO ovviamente accorti del guasto che era una bella notizia dal punto di vista giornalistico, anche se poi l'inconveniente è stato superato. E infatti ne hanno parlato tutti, dai giornali alle televisioni alle agenzie di stampa ai siti web. Con accenti diversi, naturalmente, con più o meno enfasi, con toni più o meno preoccupati, più o meno sorpresi. L’unico giornale che non ha visto né sentito è stato proprio il quotidiano principe della cronaca romana, Il Messaggero, che ha presentato l'inaugurazione della metro C come una radiosa festa senza nubi, tutta sorrisi e selfie. E il buco è apparso così vistoso che si fa fatica a capire che cosa sia successo in redazione.
A meno che non si voglia pensar male. Perché Il Messaggero è il giornale di Francesco Gaetano Caltagirone, uomo d'affari potente e ricchissimo che non è solo un editore, ma anche un costruttore, un immobiliarista, un finanziere. E pure il socio più influente del Consorzio metro C, il raggruppamento di imprese a cui il comune di Roma il 13 aprile 2006 affidò il compito di costruire la nuova metropolitana romana. Caltagirone possiede con la Vianini il 34,5 per cento della società, la stessa quota del gruppo Astaldi, mentre gli altri soci sono comprimari: Ansaldo 14 per cento, Cooperative 17 (Cmb 10 più Ccc 7). Ma mentre negli ultimi tempi Astaldi sembra sempre più prudente, considerato il bailamme che accompagna l'opera, Caltagirone ha moltiplicato i suoi sforzi con il presidente del consorzio, l'ingegner Franco Cristini. Insomma, la metro C è sempre più Caltagirone dipendente. Visto da questa angolazione e volendo malignare, il buco del Messaggero non sarebbe un buco vero, ma un autobuco, un autogol, il deliberato occultamento di una notizia che al padrone non piace.
TUTTI SI AUGURANO, ovviamente, che l'improvvido guasto dell’inaugurazione resti un episodio circoscritto ed isolato. Anche se i guai strutturali della metro C sembrano tutt'altro che superati. Proprio nel giorno del viaggio inaugurale, infatti, sono spuntati nuovi inconvenienti, di cui finora nessuno si era accorto. Un assessore comunale, Luca Pancalli, che da paraplegico ha un’attenzione speciale per le esigenze dei portatori di handicap, ha fatto notare che “il dislivello tra i treni e la banchina crea problemi per i disabili”. Che non sembra un problemino, per la verità. E poi ci sono i mille giganteschi difetti elencati negli ultimi mesi dal Fatto Quotidiano. Prima di tutto i costi, cresciuti del 75 per cento, da 1,9 miliardi di euro a 3,3 da Pantano a piazza Venezia.

il Fatto 11.11.14
Violazione dei dati I pm indagano sulle multe di Marino


VIOLAZIONE di un sistema informatico. È questo il reato per il quale procede la Procura di Roma dopo la denuncia del sindaco di Roma Ignazio Marino su una possibile “manipolazione e falsificazione” dei suoi dati nel sistema informatico che registra i permessi Ztl, e che avrebbe portato all’elevazione di 8 multe nei confronti dell’auto del primo cittadino. A sporgere denuncia è stato il primo cittadino che sabato scorso si è recato al comando dei carabinieri di San Lorenzo in Lucina. La vicenda delle multe ha travolto Marino dopo che alcuni giornali hanno parlato di 8 multe prese dalla Panda rossa del sindaco nelle zone a traffico limitato nel centro storico della Capitale. Prima il Campidoglio aveva parlato di un permesso temporaneo inserito nella white list che non veniva rilevato dalle telecamere. Poi Marino ha presentato alcuni documenti dove spiegava che invece quel permesso era scomparso dal sistema informatico. Sulla vicenda farà chiarezza la magistratura. Che ha già fissato le prime audizioni.

Repubblica 11.11.14
Chi ha paura delle parole
di Ezio Mauro


UNA condanna è stata pronunciata ieri a Napoli per minacce aggravate dalla finalità mafiosa contro Roberto Saviano e la giornalista Rosaria Capacchione, ora parlamentare Pd: minacce di morte pronunciate in un’aula di tribunale, un vero e proprio proclama intimidatorio contro i libri dello scrittore e i suoi articoli su Repubblica , come ha documentato qui Eugenio Scalfari.
Ma i due boss imputati nel processo di Napoli, Antonio Iovine e Francesco Bidognetti, sono stati assolti “per non aver commesso il fatto” e la sentenza riguarda soltanto il loro avvocato, Michele Santonastaso, che in aula aveva materialmente letto il proclama minaccioso.
Davanti all’arroganza camorrista di marcare il territorio persino nel processo, pronunciando una condanna a morte, la sentenza di ieri punisce lo strumento “tecnico” dell’intimidazione mafiosa (l’avvocato) rimandando assolti nelle loro celle i capiclan, uno dei quali è pentito.
È una contraddizione difficile da spiegare: perché è difficile credere che un avvocato possa compiere una scelta così clamorosa e pubblica all’insaputa dei clienti-boss perfettamente consapevoli del salto mediatico che il lavoro di Saviano con “Gomorra” e con “Repubblica” ha fatto compiere alla denuncia della camorra.
Perché il processo di Napoli è stato rovesciato dai camorristi in un vero e proprio processo contro la parola: la parola dello scrittore, la parola del giornalismo. Scrivere per denunciare, leggere per capire, comprendere per poter giudicare. Proprio ciò che per i boss è intollerabile. Per questo, per difendere la libertà della parola, Saviano non va lasciato solo in un Paese cinico e invidioso, più immemore che inconsapevole.

Repubblica 11.11.14
Noi, la famiglia che ha salvato dalla morte in mare tremila migranti”
“Quegli sguardi impauriti dei bimbi nei barconi ti cambiano per sempre”
Imprenditori maltesi (di origini italo-americane), i Catrambrone hanno creato due mesi fa la prima missione privata di soccorso nel Canale di Sicilia: “Non potevamo più rimanere indifferenti”
di Francesco Viviano


UN’ESPERIENZA drammatica, ma bellissima. Perché aver salvato in questi mesi tante vite umane ci riempie di gioia. Quanti? Oltre tremila tra donne, uomini e bambini: recuperati da gommoni e barconi stracarichi, alla deriva in mezzo al mare. I loro volti, le loro storie hanno ripagato i nostri sforzi, anche economici. Insieme al piccolo ma agguerrito equipaggio che fino a pochi giorni fa ha setacciato il Mediterraneo, ovunque ci segnalassero imbarcazioni che stavano per affondare. E quando ti trovi davanti a donne e bambini, anche neonati, affamati e assetati, senza salvagente non puoi non intervenire, non puoi non aiutarli…». L’emozione attraversa le parole di Regina Catrambrone, italiana di origini calabresi che, insieme al marito Christopher, americano di New Orleans, e alla figlia Maria Luisa, è protagonista di questa incredibile storia. La famiglia Catrambrone risiede da dieci anni a Malta, dove gestisce un’azienda, Tangiers group ( agenzia che offre assicurazioni e intelligence nelle zone più pericolose del mondo). L’idea di mobilitarsi privatamente per aiutare i migranti in difficoltà nel Canale di Sicilia venne nell’estate del 2013, quando a bordo del loro yacht individuarono il cadavere di un uomo in acqua. «Capimmo che era uno dei tanti migranti che provano ad attraversare quel tratto di mare», ricorda oggi Regina. «Io e mio marito ci guardammo e decidemmo che non potevamo rimanere indifferenti. Così è nata l’idea del Moas».
Ovvero Migrant Offshore Aid Station , operazione privata di salvataggio nel Mediterraneo. Subito dopo la tragedia di Lampedusa, dove il 3 ottobre 2013, centinaia di uomini e donne morirono affogati davanti alla spiaggia dell’Isola dei Conigli, i Catrambrone decisero di mobilitarsi, procedendo all’acquisto e all’allestimento della Phoenix, nave di 40 metri super- accessoriata (droni compresi) per l’assistenza in alto mare. «A smuoverci fu l’appello di Papa Francesco: non potevamo rimanere inermi davanti a tali tragedie ».
Operativo dall’estate scorsa, il Moas. In poco più di due mesi (da fine agosto a ora), oltre tremila salvataggi e un fiume di denaro — quasi tre milioni di euro — investiti per aiutare i migranti in difficoltà a sopravvivere, consegnandoli alle autorità o ai mezzi navali di Mare Nostrum. «Abbiamo deciso di usare tutti nostri risparmi per contribuire a salvare vite umane — sottolinea Regina Catambrone, ieri a Roma per partecipare a una conferenza internazionale di Ong — Certo, siamo ricchi e avevamo dei risparmi importanti ma potevamo investire in un altro business e invece abbiamo scelto di creare Moas. E siamo felici di aver fatto questa scelta: salvare anche una sola vita umana è una cosa grandissima cosa ».
Ora però i fondi di questa famiglia di “samaritani del mare”, sono finiti e così l’intera operazione è stata momentaneamente sospesa. Dal 31 ottobre la Phoenix è ormeggiata nel porto maltese della Valletta. «Ma siamo certi che riprenderà presto il mare», spiega Regina. «Abbiamo lanciato un appello affinchè altre persone e associazioni possano aiutarci ».
L’ultimo intervento della Phoenix risale al 27 ottobre: in mare aperto, tra Lampedusa e Malta, dove sono stati soccorsi in 331 tra cui decine di donne e bambini. «Pioveva e faceva freddo — racconta Martin Xuereb ex capo delle forze armate maltesi ora comandante dei 16 marinai della Phoenix — e avevamo ricevuto una segnalazione dal centro operativo della Marina Militare italiana di una imbarcazione in difficoltà. In poche ore l’abbiamo raggiunta e portato in salvo 200 persone. Poi, mentre ci dirigevamo verso Porto Empedocle, abbiamo incrociato un altro barcone e alla fine a bordo erano in 331. Situazione non facile da gestire perché tra salvataggio e trasferimento sulla terraferma, sono trascorse 36 ore».
Regina e Cristopher domani rientreranno a Malta con la speranza che il loro appello per sostenere Moas venga raccolto da altri. «Perché davanti a un dramma di dimensioni apocalittiche bisogna reagire», dice Regina. «Noi abbiamo fatto e vorremmo continuare a fare la nostra piccola parte ma è necessario che i governi europei partecipino alle missioni». Ovvero? «L’operazione Mare Nostrum non può finire così: quanti bambini, donne, uomini finiranno in quel cimitero del mare se non c’è qualcuno che li soccorre?». La conclusione dei Catrambrone, “samaritani” del mare, è politica: «Ci vorrebbero corridoi umanitari per consentire ai migranti di arrivare in Europa in maniera sicura, ma serve l’intervento da parte di tutti gli Stati europei».

Il Sole 11.11.14
A dicembre divorzi senza legali
Tra un mese in vigore le novità sullo scioglimento dei matrimoni
In «Gazzetta» la legge con la miniriforma della giustizia civile
di Giovanni Negri


MILANO Pronta la tabella di marcia della miniriforma della giustizia civile. Sul supplemento ordinario n. 84 alla «Gazzetta Ufficiale» n. 261 del 10 novembre 2014 è stata pubblicata la legge n. 162 di conversione del decreto legge n. 132. Un passaggio determinante perché, a partire da oggi, diventa chiaro il giorno del debutto di alcune delle principali novità dell'intervento.
Prima tra queste, se non in ordine di importanza assoluta, almeno di impatto per un settore del diritto assai delicato come quello di famiglia, è la possibilità di sciogliere il matrimonio senza ricorrere al magistrato e neppure all'avvocato. A partire dall'11 dicembre divorzi, separazioni e cambiamenti delle condizioni economiche degli stessi potranno essere conclusi davanti al sindaco, nella veste di ufficiale di stato civile.
Altri 60 giorni, quindi fino a febbraio inoltrato, bisognerà attendere per vedere all'opera la negoziazione assistita, non tanto nella sua versione "ordinaria", quella già possibile per le controversie che non hanno per oggetto diritti indisponibili, quanto piuttosto quella concepita come condizione di procedibilità in due materie chiave come il risarcimento danni da incidente stradale o nautico e le domande di pagamento fino a 50mila euro.
Dall'11 dicembre, invece, si potranno fare i conti con un'altre misura destinata, nelle intenzioni del ministero della Giustizia, a costituire un argine al proliferare del contenzioso: il giudice potrà disporre la compensaizone delle spese solo in caso di assoluta novità della questione trattata oppure di cambiamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. Sempre dall'11 dicembre, si ampliano invece i poteri del giudice in materia processuale perché potrà disporre d'ufficio, per le cause che richiedono una istruzione minima o inesistente, la conversione dal rito ordinario di cognizione a quello sommario.
E l'11 dicembre diventa data spartiacque anche per l'entrata in vigore della disposizione destinata a tradurre in pratica il principio del "chi sbaglia paga", sui procedimenti iniziati da allora, del nuovo e più elevato tasso d'interesse moratorio allineato a quello previsto per i ritardi di pagamento in materia commerciale. Come pure dalla medesima data diventa operativa tutta la nuova fase esecutiva, con la possibilità per gli ufficiali giudiziari di una caccia, attraverso l'accesso alle banche dati pubbliche, a una più aderente rappresentazione del patrimonio del debitore e dei suoi beni sui quali procedere a pignoramento.
Dal Consiglio dei ministri di ieri sera è stato stralciato, ma dovrebbe andare alla prossima riunione dell'Esecutivo, un mini-pacchetto che comprendeva lo schema di decreto legislativo sull'archiviazione per tenuità del fatto e le misure, inserite in un disegno di legge delega, ma con disposizioni in parte immediatamente operative, per rivedere la disciplina dell'estradizione e le regole sulle rogatorie "passive", quelle da eseguire in Italia.

il Fatto 11.11.14
Le stragi dimenticate
Le teste mozzate dai timorati di Dio che non fanno notizia
di Roberta Zunini


Che i tagliagole dell'Isis - i jihadisti del Califfo - si siano macchiati di crimini intollerabili, è fuori discussione. Ma i narcos messicani non sono meno feroci, peraltro animati anche loro da una fede distorta.
Peccato che la stampa americana se ne sia dimenticata. Nel 2013 hanno ucciso 16 mila persone e 60.000 tra il 2006-2012: un morto ogni mezz'ora in sette anni. Una cifra per difetto dato che è stata diffusa dalle istituzioni messicane note per minimizzare poiché infiltrate e sovvenzionate a tutti i livelli dai signori della droga. Il caso dei 43 studenti consegnati dalla polizia a una gang su ordine del sindaco di Iguala, è l'ultimo esempio di una lunga connivenza criminale nonché delle indicibili atrocità commesse da questi mostri ispirati dal Dio denaro e dal culto della Santa Morte con tanto di statue e santini, venduti ai fedeli.
Perché i capi di Zetas e dei Cavalieri Templari sono ferventi cristiani e hanno fatto costruire chiese dedicate per l'appunto al culto di loro invenzione. Questi timorati di Dio, come ha sottolineato l'analista Musa al-Gharbi dell'Università dell'Arizona, hanno decapitato e smembrato, gettando i resti nelle piazze come monito, decine e decine di poveri compatrioti e correligionari, uccisi anche solo per essersi lamentati via internet del clima di terrore in cui sono costretti a vivere. E che dire delle centinaia di bambini e donne rapiti per costringerli a prostituirsi e a fare i muli da droga attraverso la porosa frontiera con gli Stati Uniti?
CHI SI OPPONE viene violentato e torturato fino alla morte, indipendentemente dall'età e dal sesso. Poi gli organi vengono espiantati e venduti. I cartelli da tempo usano anche i social media per postare le foto delle proprie gesta e nel frattempo minacciano la stampa vecchio stile: finora sono stati ammazzati 57 giornalisti investigativi. In territorio statunitense, dal 2006 al 2010, 5.700 americani hanno smesso di vivere per le violenze legate allo spaccio della droga da parte dei messicani e si sono infiltrati in 3mila città controllando l'80% del traffico di stupefacenti.
Ma contro i cartelli messicani non si è formata nessuna coalizione di paesi volenterosi. Forse perché non minacciano ufficialmente le loro sovranità territoriali e hanno corrotto le loro istituzioni?

Repubblica 11.11.14
Il kolossal di Xi Jinping, così il “nuovo Mao” mette in scena il suo trionfo
di Giampaolo Visetti


UNA pagoda di nove piani in un campo da golf e la copia di un villaggio rurale ai piedi di un hotel in cristallo a forma di sole, sospeso sopra il lago Yanqi. Sullo sfondo, i grattacieli della capitale e la Grande Muraglia che si arrampica sui monti Haitou. Per questa immagine impressionante, simbolo della Cina che dal passato si proietta nel futuro e che risorge sul panorama del mondo, Xi Jinping ha lavorato personalmente. Ha corretto i disegni agli architetti e speso quasi due miliardi di euro. Un solo scatto: ma è quello assieme ai leader delle economie in crescita dell’Asia-Pacifico, nel giorno più importante da quando Pechino ha ritrovato il suo “nuovo Mao”.
Per i Grandi dell’Apec, accolti con i fuochi d’artificio e un tappeto rosso lungo quanto lo stadio delle Olimpiadi 2008, il presidente cinese ha preparato una scenografia che nessun altro oggi si può permettere. È l’immagine di ricchezza, capacità organizzativa e avanguardia tecnologica che Xi Jinping vuole fissare nella mente della comunità internazionale, mentre conquista la leadership del mercato più vasto e decisivo del presente. Un suo consigliere, poche ore prima che capi di Stato e di governo mettessero piede nello sfarzoso padiglione imperiale del summit, è stato incaricato di controllare perfino colore dei fiori e altezza dell’erba: quelli britannici, se comparati, devono apparire incolti.
Meraviglia e timore verso la nuova superpotenza del secolo hanno unito ospiti divisi da molti interessi. Assieme allo stupore verso Xi Jinping, segretario generale del partito comunista che in soli due anni ha eclissato il mito di Mao Zedong, sia tra i cinesi che nelle cancellerie straniere. Nessuno si sarebbe aspettato che il sorriso da papà buono nascondesse un capo spietato, deciso a costruire anche un globale e quasi divino culto della personalità. Per la sua incoronazione, il nuovo imperatore della Città Proibita ha chiuso di fatto il Nord del Paese, ottenendo due giorni di quello che la propaganda ha definito “cielo color blu Apec”. Smog invisibile e sicurezza asfissiante: 60 mila uomini e 1680 nuove telecamere a raggi infrarossi. Improvvisamente, in hotel e sale stampa, si sono messi a funzionare anche i social network, altrimenti bloccati dalla censura.
La sorpresa per tutti è stata però il “libro bianco” di Xi Jinping, erede del “libretto rosso” di Mao Zedong. L’apologia in cinque lingue si intitola Il governo della Cina , 515 pagine e 44 fotografie, 5 mila copie in regalo affinché a nessuno sfugga la grandezza dei primi due anni del «leader riformista che ha lanciato il sogno cinese». La definizione va anzi aggiornata. Ai colleghi, Xi Jinping ha spiegato che il «sogno cinese» è già diventato il «sogno dell’Asia-Pacifico», indicata come «una nuova comunità con un unico destino», che Pechino è pronta a guidare.
Non è solo liturgia da vecchio socialismo reale. A poche ore dall’incontro con Barack Obama, Xi Jinping ha esibito ieri i suoi muscoli incontrando in successione il premier giapponese e i presidenti di Russia e Corea del Sud, ossia i leader delle altre tre potenze asiatiche. Freddo «l’incontro concesso» a Shinzo Abe: mezz’ora faccia a faccia, non un sorriso, ma è il primo Pechino-Tokyo dopo tre anni di gelo e di conflitti sfiorati, dunque qualcosa di più di una stretta di mano. La crisi morde, le prime due economie del Pacifico hanno pagato caro lo scontro e come ha spiegato il braccio destro di Xi, «il pragmatismo in certi casi diventa idealismo». Cina e Giappone così «hanno concordato sul fatto di essere in disaccordo», ma hanno concordato pure su un «meccani- smo di gestione dei problemi».
A Vladimir Putin, Xi Jinping ha strappato altri 30 miliardi metri cubi di gas di gas, accordo da 400 miliardi di dollari, mentre da Park Geun-hye ha ottenuto il sì alla zona di libero scambio Pechino- Seul. «In una mattina — ha commentato il Quotidiano del popolo — il presidente ha allargato l’influenza cinese, sfilato gli alleati a Washington, ricostruito l’asse sino-russo e si è riservato di decidere se puntare ancora su Obama o guardare già al suo successore ». E la tela tessuta dal «nuovo Mao», cruccio dei conservatori rossi del Politburo, abbraccia realmente l’intera Asia. Xi Jinping aveva appena stanziato 100 miliardi di dollari per una nuova banca asiatica, da contrapporre a quella a guida Usa. Ieri l’annuncio di altri 40 miliardi per un «fondo aperto» destinato alle infrastrutture. L’obiettivo è «mettere in connessione l’intero continente», puntando a ricostruire «una Via della Seta stradale, marittima e ferroviaria» che «in un decennio richiederà investimenti per 8 mila miliardi ».
Sono cifre, idee e ambizioni che oggi né l’Occidente né il resto dell’Oriente possono mettere in campo, ma che l’autoritarismo della prima economia mondiale impone invece al solo leader con davanti otto anni di potere assoluto. Xi Jinping ha annunciato anche che da lunedì le Borse di Shanghai e Hong Kong saranno collegate, secondo mercato finanziario del pianeta, mentre oggi i 21 Grandi dell’Apec saranno accolti a Huairou con l’ultimo colpo ad effetto. Pechino, con lo strabiliante resort di Yanki e la ski-area di Zhangjiakou, si candida a vincere la volata con la kazakha Almaty per le Olimpiadi invernali 2022. Il “nuovo Mao” pretende che la sua capitale sia la prima nella storia ad ospitare sia i Giochi estivi che quelli bianchi. Le picchiate con gli sci giù dalla Grande Muraglia saranno l’apoteosi per il commiato del leader bi-olimpico. Il problema è che non nevica quasi mai. Dettagli. «Per l’imperatore del Duemila — ha detto la tivù di Stato — i fiocchi sono già nel cannone».

Il Sole 11.11.14
Il ruolo di Pechino
La velocità di Xi Jinping
di Vittorio Emanuele Parsi


Xi Jinping si muove a tutto campo ma anche con straordinaria efficacia, capitalizzando al massimo l'opacità che ha ormai l'aura di Obama. Certo, il fato ci ha messo del suo, e il vertice Apec si svolge proprio a Pechino a una manciata di giorni dalla tornata elettorale americana.
A un Obama che insisteva sul fatto che la «tutela dei diritti umani» rientrasse «negli interessi nazionali americani», che la Trans Pacific Partnership (Tpp l'iniziativa di libero scambio che esclude la Cina, di fatto relativizzano i vantaggi dell'ingresso di Pechino nella Wto) mentre contemporaneamente cercava di blandirne la nuova upper class con una politica sui visti di ingresso meno rigida, il presidente cinese ha opposto un'azione assai più impressionante. Da un lato ha stretto un nuovo accordo con la Russia per la fornitura di 30 miliardi di metri cubi di gas annui (che si sommano ai 38 concordati nella primavera scorsa). Si tratta di un accordo che, a regime, porterà la Russia a fornire quasi un quinto del fabbisogno di gas cinese. Intendiamoci bene, la Cina resta un Paese il cui bilancio energetico resterà ancora sbilanciato fortemente a favore del carbone, per cui quel 20% è un dato significativo ma che va parametrato su questo sfondo. In secondo luogo, rispetto alle vaghezze del Tpp, Pechino ha continuato a lavorare sul suo progetto di un Free Trade Agreement for Asia-Pacific (Ftaap) che ovviamente includerebbe la Cina (oltre agli Stati Uniti) e che sembra attirare maggiori consensi del Tpp. Esso infatti sembra in grado di offrire una sponda regolata e non di rottura rispetto a quel sentiero di costruzione progressiva di un'egemonia benigna della Cina nell'Asia orientale che diversi osservatori vedono come sostanzialmente inevitabile. Nella mente degli architetti cinesi, una simile istituzione dovrebbe riprodurre, a distanza di circa 150 anni quell'accomodamento dei rispettivi interessi economici e strategici che consentì a Londra e Washington di costituire una vera e propria diarchia nel Pacifico.
Una simile prospettiva, evidentemente, necessita dell'attiva collaborazione dei principali Paesi della costa asiatica del Pacifico. In tal senso, i colloqui con il primo ministro giapponese Shinzo Abe assumono una levatura che è difficile non definire "storica". Le relazioni tra Cina e Giappone negli ultimi anni erano drasticamente peggiorate, sia per il contenzioso sulle isole Senkaku/Diaoyu, sia per l'atteggiamento della leadership giapponese, assai più in difficoltà di quella cinese a liberarsi degli aspetti più inquietanti del proprio passato. Le dichiarazioni rese ieri congiuntamente dai due leader aprono la strada alla possibilità di un netto miglioramento della situazione. Analogamente, il trattato di libero scambio tra Cina e Corea del Sud rafforza la sicurezza stessa di Seul, sempre minacciata dall'erratico vicino del Nord. È appena il caso di segnalare che queste due mosse segnalano il crescente avvicinamento a Pachino (e alla sua concezione di ordine regionale) i due pilastri della presenza americana nel Pacifico. Forse gli storici del futuro collocheranno in vertice Apec l'inizio dell'era del dragone nel Pacifico.

Il Sole 11.11.14
Il vertice Apec
Pechino si riavvicina a Tokyo
Prima stretta di mano tra Xi e Abe dopo due anni di alta tensione
di Rita Fatiguso


PECHINO È stato il "giorno perfetto" del presidente Xi Jinping. Quello in cui gli è riuscito di chiudere una sfilza di spinosi dossier e, per giunta, sotto gli occhi degli altri capi di Stato e di Governo arrivati qui per il 25° Apec Summit 2014.
I riflettori del mondo intero sono puntati in questi giorni su Pechino, non sono ammessi passi falsi. L'elenco di Xi parte dalla contromossa di mettere la sordina alle tensioni con il Giappone, continua con la sigla dell'accordo di libero scambio con la Corea del Sud e passa anche dalla conferma dell'endorsement politico del governatore di Hong Kong al quale concede, finalmente, una data per l'avvio degli scambi incrociati tra le borse di Hong Kong e Shanghai: la deadline ufficiale è il prossimo 17 novembre.
Intanto nel weekend Xi Jinping ha rinsaldato l'alleanza con il presidente russo Vladimir Putin, che gravita sempre di più nell'orbita cinese fornendo a Pechino altro gas necessario ad affrontare il prossimo decennio, ma non prima di aver chiuso con il Canada il primo swap currency miliardario in yuan di tutto il Nord America.
Con un gesto memorabile, soprattutto, Xi ha accolto nella Great Hall of People, il Santa Sanctorum del potere cinese tutto velluti, specchi e lampadari, il premier giapponese Shinzo Abe.
È la prima volta dal 2012, nella foto di rito il volto di Xi non sprizza certo di gioia ma quella stretta di mano è l'architrave di una svolta strategica non da poco. Svolta preannunciata dall'accordo in quattro punti tra Cina e Giappone imperniato sulla sicurezza, inclusa quella dei mari del Sud della Cina dove si trovano le isole contese Senkaku-Diaoyu, per le quali Tokio e Pechino sono ripetutamente entrate in rotta di collisione. I media cinesi hanno dipinto finora il nazionalista Shinzo Abe come il male assoluto, ora il presidente cinese Xi Jinping gli concede urbi et orbi la possibilità di riaprire il dialogo.
Nel frattempo, però, Pechino ha annunciato la firma dell'accordo di libero scambio con la Corea del Sud, il vicino asiatico che vanta la leadership delle esportazioni in Cina, al contrario del Giappone che nella prima metà dell'anno ha registrato un crollo pari alla metà dei volumi esportati.
Si è trattato di un'altra mossa a sorpresa concretizzata a ridosso del vertice Apec China 2014, proprio quello in cui la Cina ha ottenuto la riapertura del dossier sul Free trade Asia Pacific agreement (FTAAP), il trattato multilaterale sbandierato come la soluzione migliore per tutta l'area. Dal canto loro gli Usa proprio in queste ore continuano a insistere sul Tpp, il Trans pacific partership, l'accordo regionale definito da Obama come un fatto assolutamente straordinario. Gli americani vorrebbero chiuderlo entro l'anno, ma mentre negoziano febbrilmente con il Giappone la Cina sigla un accordo bilaterale che, secondo il presidente coreano Park, «crea ottime prospettive di crescita a lungo termine, anche perché la Corea vanta un ampio surplus commerciale nel commercio con la Cina».
Il gesto va interpretato come un segno di importanza della Cina per l'economia della Corea del Sud e c'è chi stima che il patto potrebbe far lievitare il Pil della Corea del Sud di una percentuale pari a tre punti nei prossimi 10 anni.
Il presidente Xi Jinping continua dunque ad avere in mano il pallino e dimostra di saper giocare d'anticipo sui concorrenti spegnendo i vari focolai. Infatti, un altro elemento cruciale di tensione estrema delle ultime settimane è stata la questione Hong Kong. Partecipando alla tavola rotonda del Ceo Summit, il governatore Leung CY aveva detto lunedì di aver incontrato il presidente Xi e di avergli chiesto di avviare quanto prima il bridge tra le borse di Shanghai e Hong Kong, rimasto in panne a causa anche della rivolta degli studenti. Un'altra svolta eccezionale e lungamente attesa, dunque, ha trovato una soluzione, dal 17 novembre iniziano gli scambi e le quotazioni incrociate tra le due borse. Per Leung è la prova che Xi lo sostiene, per Xi il via libera all'operazione ha una forte valenza politica: dando impulso concreto a una difficile riforma finanziaria il presidente dà un segnale forte sulla capacità della Cina di realizzare il cambiamento. Come ha detto Leung «Hong Kong non ha nulla da temere, la decisione contribuirà, anzi, a fare di Hong Kong un luogo ideale in cui basare attività e risorse finanziarie, potenziando il ruolo di Hong Kong come hub di elezione per l'utilizzo dello yuan».

Repubblica 11.11.14
Il regime plutocomunista
Si tratta di uno stupefacente mix tra la logica del partito unico e quella delle tradizioni europee incentrate su aristocrazia e censo
di Thomas Piketty


SECONDO i dizionari, il termine plutocrazia (dal greco plutos: “ricchezza”, e kratos: “potere”) indica un sistema di governo in cui la base del potere è costituita dal denaro.
PER analizzare il sistema che il Partito comunista cinese (Pcc) sta tentando di istituire a Hong Kong potremmo inventare un nuovo termine: il “plutocomunismo”. Un sistema che formalmente autorizza libere elezioni, ma con solo due o tre candidati previamente approvati, a maggioranza, da un apposito comitato costituito da Pechino, egemonizzato dagli ambienti affaristici di Hong Kong e da altri oligarchi filocinesi.
Si tratta di uno stupefacente mix tra la logica comunista del partito unico (nella Rdt i cittadini erano chiamati a votare, ma solo per candidati dichiaratamente ligi al potere) e quella delle tradizioni europee incentrate sull’aristocrazia e sul censo (fino al 1997 il governatore di Hong Kong era nominato dalla regina d’Inghilterra, in un sistema di democrazia indiretta fondata su comitati dominati dalle élite economiche). Nel Regno Unito come in Francia, tra il 1815 e il 1848 il diritto di voto era riservato a una piccola percentuale della popolazione, in base al censo e alle tasse pagate: un po’ come se oggi in Francia votasse solo chi è soggetto all’Isf (l’Imposta di solidarietà sui patrimoni). Senza arrivare a tanto, la Cina sembra tentata di seguire un modello di questo tipo, per di più guidato da un partito unico e onnipotente.
Come giustificare un sistema del genere? E come pensare che abbia un futuro? Il meno che si possa dire è che gli stessi comunisti cinesi non sono troppo convinti del modello occidentale di democrazia e pluripartitismo, fondato sulla concorrenza a tutti i livelli: tra partiti, tra candidati, ma anche — cosa forse ancora più importante — tra territori. L’essenziale per Pechino è l’unità politica del vasto territorio cinese, condizione di un armonico sviluppo economico e sociale sotto la guida del partito comunista cinese, garante dell’interesse generale e del lungo termine. Di fatto, a confronto con altri Paesi emergenti — in particolare con l’India — il successo della Cina si spiega in parte con l’accentramento politico e la capacità dei pubblici poteri di finanziare le infrastrutture collettive, le imprese di proprietà mista e gli investimenti nell’istruzione e nella sanità, indispensabili allo sviluppo.
Nonostante le privatizzazioni, il pubblico rappresenta ancora il 30-40% del capitale nazionale cinese, contro il 25% circa nell’Europa dei “trenta gloriosi” (gli anni dal 1945 al ‘75). Oggi nella maggior parte dei Paesi ric- chi l’incidenza del capitale pubblico è praticamente pari a zero (gli attivi pubblici sono appena superiori ai debiti) se non addirittura negativa in certi casi, come in Italia, per l’impatto preponderante del debito pubblico. Mentre il capitale privato — espresso in anni di Pil — è tornato alle vette del periodo precedente la Prima guerra mondiale.
Visto da Pechino, sembrerebbe che il modello cinese fosse più idoneo a regolare il capitalismo e ad evitare la pauperizzazione dei poteri pubblici: un’idea confortata anche dai condizionamenti che bloccano la politica americana, e dall’impressione che l’Unione europea stia attraversando un marasma irrimediabile, col suo territorio spezzettato in 28 piccoli Stati-nazione in accanita concorrenza tra loro, invischiati ciascuno nel suo debito pubblico, con istituzioni comuni inefficienti, incapaci di modernizzare il proprio modello sociale e di proiettarsi nel futuro.
E tuttavia, in seno allo stesso Pcc si avverte la sensazione che il modello cinese attuale, fondato sulla chiusura politica e sulla lotta anti- corruzione per limitare le disuguaglianze, non potrà reggere in eterno. La crescente influenza dei patrimoni privati sull’Assemblea nazionale popolare cinese è obiettivamente inquietante. A Pechino si temono soprattutto sviluppi di tipo russo, con fughe di capitali sempre più massicce e il saccheggio del Paese dall’esterno, da parte degli oligarchi comodamente insediati all’estero. Si discute sempre più dell’introduzione di imposte di successione progressive e di una tassazione delle proprietà. Di fatto, in termini assoluti il governo cinese avrebbe basi abbastanza solide per istituire i sistemi di trasmissione automatica delle informazioni bancarie, i registri dei titoli finanziari e i controlli sui capitali necessari per attuare una politica di questo tipo. Il problema è che in buona parte le élite politiche cinesi non hanno granché da guadagnare dalla trasparenza sui patrimoni, da un sistema di imposte progressive e dallo Stato di diritto. E anche tra chi sarebbe disponibile a rinunciare ai propri privilegi in nome del bene comune sembra prevalere il timore che l’unità del Paese sia irrimediabilmente minacciata dall’affermarsi della democrazia politica, che pure dovrebbe procedere di pari passo con l’avvento di quella economica, e con la trasparenza fiscale e finanziaria. Una sola cosa è certa: da queste contraddizioni finirà per emergere una via unica, decisiva sia per la Cina che per il resto del mondo. E in questo processo, una tappa determinante è costituita dalle lotte in atto a Hong Kong. Traduzione di Elisabetta Horvat

Repubblica 11.11.14
Storia dei Gap partigiani oltre il mito e l’ortodossia
Per la prima volta ricostruite in un saggio di Santo Peli le controverse azioni di guerriglia attuate durante la Resistenza
Né santi, ma neppure demoni. Per un paio di decenni si preferì rimuovere un argomento percepito come spinoso
di Simonetta Fiori


CELI avevano raccontati come eroi granitici, l’avanguardia della lotta partigiana, guerriglieri pronti a sparare a sangue freddo. Una nuova ricerca restituisce uomini e donne dei Gap alla tempesta sentimentale e morale che attraversò le loro vite, alle incertezze, agli errori, alle goffaggini, ai comprensibili cedimenti e anche ai tradimenti che ne correggono la mitografia resistenziale. Né santi ma neppure demoni sfigurati dall’anti- antifascismo in voga negli ultimi decenni. In Storie dei Gap, il primo tentativo di ricostruire le vicende dei Gruppi di Azione Patriottica, Santo Peli evita sia l’enfasi celebrativa che la deprecazione strumentale.
Perché abbiamo aspettato settant’anni per leggere una ricostruzione storica il più possibile completa? Quella dei Gap è sempre stata percepita come “un’altra storia” rispetto all’esperienza partigiana, sia per l’ortodossia comunista dei suoi militanti sia per la specificità delle azioni: guerriglia in città, che poi significa uccisioni visàvis e attentati dinamitardi in ristoranti, caffè e bordelli frequentati dai nazifascisti. Modalità classicamente terroristiche, che avevano lo scopo di portare scompiglio nelle città del Centro-Nord occupate dai nazisti nell’autunno del 1943. Per un paio di decenni, nel dopoguerra, si preferì rimuovere un argomento percepito come spinoso. Il silenzio durò fino ai primi anni Settanta, quando proprio nel circuito culturale degli istituti resistenziali cominciarono ad apparire le prime ricerche. Ma fu allora che irruppero sulla scena le Brigate Rosse e varie sigle terroristiche che rivendicavano assurdamente perfino nel nome una continuità politica e culturale con gli antichi liberatori. A queste farneticanti genealogie, nota Santo Peli, si sarebbe dovuto rispondere con ricerche storiche rigorose. Prevalse invece la rimozione, interrotta in modo frammentario dalla memorialistica dei protagonisti.
Nella sua accurata e partecipe ricostruzione, lo storico non sfugge alle domande più insidiose, a cominciare dal nesso attentato e rappresaglia. Chi sono i gappisti, eroici giustizieri o irresponsabili provocatori della violenza nazista? E le rappresaglie naziste sono soltanto conseguenze o obiettivo consapevolmente perseguito dai Gap? La risposta dello studioso è che la rappresaglia fu sì un obiettivo, «un elemento dolorosamente utile », ma solo nelle primissime azioni (fino alla fine del 1943), quando si trattava di rivelare nelle città del Centro-Nord il vero volto dell’occupazione. Una “pedagogia impietosa” che però non può essere estesa all’intera vicenda dei Gap, se non con un intento criminalizzante. E la rappresaglia delle Fosse Ardeatine, il 24 marzo del 1944, è la dimostrazione più nitida della feroce determinazione tedesca indipendente dall’attentato gappista.
Il problema del consenso della popolazione si pose fin dal principio, dall’assassinio di Gino Gobbi, comandante del distretto militare a Firenze, il primo dicembre del 1943. Gobbi viene ucciso mentre fa rientro a casa in tram: è solo, disarmato, senza scorta. I fiorentini reagiscono tra stupore, timore per le conseguenze, anche speranza. Alla condanna dei “deplorevoli eccessi” da parte del cardinal Elia Dalla Costa replica il dirigente azionista Enzo Enriquez Agnoletti: «Lei non può Eminenza, che in questo momento uomini nostri fratelli subiscono torture che fanno vergogna all’umanità». Insomma, niente ipocrisie: la guerra incalza.
Il dibattito sull’opportunità e sulle conseguenze degli attentati fu molto vivace non solo all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale, ma anche nella stessa base del Pci. La “paura fisica” e le “perplessità morali” non erano una prerogativa degli altri partiti antifascisti. La Direzione comunista faticò moltissimo a organizzare i Gap, per lo più giovani e giovanissimi senza carichi famigliari. E i risultati del reclutamento furono di gran lunga inferiori alle aspettative. Nel tardo autunno del 1943 gli autori degli attentati non arrivarono a un centinaio di persone. Influivano non solo le avverse condizioni della lotta in città — isolamento, clandestinità, azioni ad alto rischio — ma anche le remore morali legate all’uccisione di un uomo. «Questo qua vuole farci ammazzare la gente. Ma è pazzo?», reagisce un operaio di Brescia alla richiesta del compagno “Zolfataro”. Sono tanti quelli che non riescono a sparare, la pistola che scivola dalla mano sudata, il tremore del corpo che ne trattiene il gesto. A Roma come a Milano, a Torino come a Firenze.
Il gruppo dirigente del Pci reagisce con stizza e meraviglia. Piovono accuse di incapacità e “attendismo” contro i compagni, perfino di “tradimento”. A Sant’Arcangelo e a Cattolica si arriva all’espulsione. Solo diversi anni più tardi, Pietro Secchia avrebbe riconosciuto che la volontà di uccidere — per di più in attacco, senza la necessità di difendersi — è estranea alla formazione, alla cultura e alle tradizioni operaie. «È difficile uccidere a sangue freddo un uomo che non si conosce », si sfoga con Giorgio Amendola un compagno paralizzato davanti a un bersaglio tedesco. E ancora, il gappista Uragano: «È vero, sono dei delinquenti, però non ho l’animo di farli fuori». Anche il soldato nazista è un essere umano, «vittima di un sistema e dunque degno di pietà». Affiora l’immagine delle loro mogli, dei bambini biondi che li aspettano a casa.
Alla remora morale s’aggiunge il timore di restare “intrappolati”. E più della morte fa paura la tortura, soprattutto il dubbio di non saper resistere. Questo è un altro capitolo scivoloso, oscurato dalla mitografia comunista. In realtà a resistere furono in pochi. Uomini e donne straordinari, che subirono in silenzio sevizie di ogni genere. Soprattutto le donne, le staffette, esposte ancora più dei compagni all’abuso sessuale del corpo. Ma una gran parte dei gappisti torturati parlò, perché è nell’umana natura cedere all’acqua bollenignorare, te in gola o alle trapanature sulla pelle. Le cadute a catena che devastarono il movimento — ci dice Peli — furono provocate da confessioni estorte. Alcuni prigionieri trovarono salvezza nel suicidio, più uomini che donne. Altri cercarono di resistere finché poterono, come Francesco Valentino, che sopportò a Torino le sevizie per 24 ore, per dare il tempo di fuggire al suo compagno Dante Di Nanni: questi però non lasciò il covo, pensando che Valentino fosse morto e non potesse più parlare, e catturato dai tedeschi si sarebbe gettato dal balcone in un’azione diventata poi leggenda. Scoperto il “cedimento” di Valentino, peraltro morto impiccato per mano repubblichina, il Pci non esitò a espungerlo dalla storia partigiana. Parlare sotto tortura sarebbe stata per svariati decenni una colpa inammissibile. Uno stigma vergognoso. O eroi o niente. E per chi non è un martire non c’è memoria.
Se c’è un filo che attraversa queste storie è proprio la distanza tra la rigidità ideologica del vertice comunista e la disordinata generosità dei combattenti che spesso sono lasciati soli e dunque più esposti a errori grossolani. Anche quello della clandestinità è un mito da rivedere. Ovunque i gappisti appartengono ad ambienti sociali omogenei — operai a Milano e Torino, intellettuali a Roma — , fanno vita di quartiere tra San Frediano a Firenze, Sesto San Giovanni a Milano, il centro storico a Roma. E spesso ci si conosce fin dall’infanzia. Le regole classiche della cospirazione si infrangono contro consolidati rituali famigliari, anche per la mancanza di sostegni finanziari e logistici che il Pci non è in grado di garantire. Qui si inserisce l’altra delicata questione che riguarda gli «espropri» o i «recuperi» per i finanziamenti. Tra l’esproprio per necessità e la delinquenza a scopo di lucro s’estende una vasta terra di nessuno su cui lo storico non è in grado di fare luce: il confine può risultare labile, anche perché tra gli arruolati figuravano elementi assai poco raccomandabili.
Il tema sarebbe stato omesso della storiografia che non ha mai parlato neppure dell’epica rapina agli uffici della stazione di Santa Maria Novella, il 17 giugno del 1944. Trentatré milioni di lire, una cifra da capogiro. Per ciascun membro dei Gap significa una bicicletta, un orologio e un vestito nuovi. Ma non era più l’epoca degli agguati in bici. La repressione nazista richiedeva ben altri mezzi, la stagione eroica dei Gap ormai alle spalle.
IL LIBRO Santo Peli, Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza (Einaudi, pagg. 280, euro 30)

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il Fatto 11.11.14
Aveva 89 anni
Giustolisi, grazie a lui l’Italia scoprì l’“Armadio della vergogna”
di Gian Carlo Caselli


Franco Giustolisi, morto ieri a Roma, è stato un nobile esempio di intelligente ostinazione nella ricerca e ricostruzione della verità. L’avevo conosciuto ai tempi delle Brigate rosse e di Prima linea, quando – lui come giornalista e io come giudice istruttore – seguivamo, ciascuno sul proprio versante, le drammatiche e sanguinarie vicende della violenza terroristica. Col tempo siamo diventati amici. E lo siamo sinceramente rimasti anche dopo aver a lungo discusso di un suo libro (Mara, Renato ed io, scritto con P. V. Buffa), che secondo me dava troppo rilievo ad alcune “fantasie” dell’io narrante, il capo Br Franceschini.
Ma la stima mia (e di tutti gli italiani onesti) per Giustolisi è via via cresciuta constatando il suo coraggio e la sua costanza nel raccontare con rigore i misteri e gli scandali del nostro Paese, dalla P2 alla mafia, senza mai mettere in conto di poter dispiacere ai potenti di turno, direttamente coinvolti nei fatti narrati o collusi con i loro protagonisti. Ma la stima è cresciuta oltre ogni limite quando Giustolisi ha cominciato a occuparsi con analisi scrupolose – praticamente senza mai più smettere finché le forze lo hanno sostenuto – delle stragi nazifasciste che avevano massacrato l’Italia. Oggetto prima della sua attività di giornalista, poi trattate come storico, autore di un libro preziosissimo che già dal titolo (L’Armadio della vergogna) rivela quanto difficile e tortuoso sia stato un decisivo segmento del percorso di edificazione della democrazia italiana. La Resistenza e quindi la Costituzione sono costate lacrime e sangue.
LA GUERRA durata dal 1940 al 1945 è stata distruttiva e ha lasciato dietro di sé, oltre a danni materiali enormi, morti di cui ancora oggi non si conosce il numero esatto. In questo quadro di crudele distruttività, cupamente risaltano le vittime (da 15 a 20 mila, un numero enorme) causate dalle stragi che la ferocia nazifascista ha perpetrato dal 1943 alla fine della guerra. Stragi che la magistratura militare dapprima ha perseguito in alcuni casi, mentre a partire dal 1974 sono rimaste a lungo non più indagate e quindi impunite.
A denunciare questo incredibile sconcio fu proprio Franco Giustolisi, rivelando come ben 695 fascicoli contenenti denunce e molto spesso precisi atti di indagine (con tanto di identificazione dei responsabili) fossero rimasti relegati e nascosti per decenni in un armadio, posto in un remoto corridoio della Procura generale militare di Roma, chiuso a chiave con un grosso lucchetto, per di più con le ante rivolte verso il muro, per evitare – chissà mai – che a qualche sprovveduto di passaggio venissero delle strane curiosità. L’Armadio della vergogna, appunto! Per mezzo secolo la magistratura militare, grazie a un ordinamento che in pratica poneva soprattutto i vertici alle dirette dipendenze del potere esecutivo, venne meno ai suoi doveri, insabbiando ogni accertamento con una “archiviazione provvisoria” inesistente, inventata per l’occasione. Solo nel 1994 (dopo la creazione del Csm militare, che finalmente garantiva anche a quella magistratura una relativa indipendenza) un bravo procuratore, Antonio Intelisano, cominciò ad aprire l’armadio.
Tutto ciò si trova analiticamente documentato nel libro di Giustolisi, che descrive anche (fascicoli alla mano) alcune fra le stragi più bestiali, e inoltre si interroga sul perché della “vergogna”, propendendo per la tesi della pista atlantica, vale a dire di una “ragion di stato” ispirata dall’opportunità di non turbare i freschi accordi Nato.
AL LIBRO (oltre a inchieste del Csm militare e di un’apposita commissione parlamentare) sono seguiti nel corso degli anni processi e condanne (circa 40 ergastoli), fino alla recente sentenza della Corte di Karlsruhe che ha sostanzialmente riaperto il processo per la strage del 1944 a Sant’Anna di Stazzema. Purtroppo le sentenze di condanna sono rimaste ineseguite (non si è mai parlato neppure di arresti domiciliari) e questa ingiustizia nell’ingiustizia indignava Giustolisi, sempre attivo nel cercare di mobilitare le coscienze perché finalmente anche questa vergogna cessasse. E a chi gli chiedeva se valesse la pena battersi per cose di 70 anni fa riguardanti imputati ormai novantenni, rispondeva con orgoglio che se la giustizia non funziona è il popolo che deve farla andare avanti.

La Stampa 11.11.14
E Gesù sposò Maddalena
Non è Dan Brown ma un codice del 570 d.C.
Scritto in siriaco su pergamena sarà presentato domani alla British Library
di Vittorio Sabadin


Un altro tassello fortifica la ancora traballante tesi che Maria Maddalena fosse la moglie di Gesù e la madre dei suoi figli. Un libro scritto nel 570 in siriaco su pergamena, e ora custodito alla British Library, racconta una storia diversa da quella dei quattro Vangeli canonici, molto più vicina - come si è affrettata a ironizzare la Chiesa d’Inghilterra - al Codice da Vinci di Dan Brown. Ma il numero di antichi documenti che conferma questa tesi continua a crescere, e decine di seri studiosi vi si stanno dedicando senza pregiudizi. Domani la stessa British Library terrà una conferenza stampa, e si conosceranno altri dettagli.
Il libro proviene da un monastero egizio ed era stato acquistato nel 1847 dal British Museum. Probabilmente si tratta di una traduzione dall’aramaico di un testo più antico. Redatto in 29 capitoli, racconta la storia di Joseph, un giovane molto noto all’epoca, conosciuto dall’imperatore Tiberio e dal faraone d’Egitto (forse Natakamani), che lo considerava figlio di Dio. A 20 anni Joseph va in sposo ad Aseneth, che gli dà due figli: Manasseh ed Ephraim. Simcha Jacobovici, giornalista investigativo israeliano che scrive anche sul New York Times, e Barrie Wilson, professore di ricerche religiose a Toronto, hanno studiato per sei anni il manoscritto e raccolto le loro deduzioni nel libro The Lost Gospel, il vangelo perduto.
In una delle prime pagine dell’antico testo il misterioso autore avverte che tutto quello che segue è scritto in un codice che va interpretato. I riferimenti cristiani contenuti nelle pagine sarebbero però così tanti che non è necessario essere Robert Langdon per capire che i nomi di Joseph e Aseneth nascondono quelli di Gesù e Maria Maddalena. Nel testo si narra che alla donna, dopo la morte del marito, viene somministrata l’eucarestia, «il pane e il calice della vita». Gli unici quattro Vangeli autorizzati dalla Chiesa dopo le riforme di Costantino non raccontano nulla della vita di Gesù tra la sua infanzia e l’età matura, un periodo nel quale, per un «rabbi», sarebbe stato obbligatorio sposarsi. Ma la storia di Joseph e Aseneth sarebbe raccontata anche in altri manoscritti, sopravvissuti alla sistematica distruzione dei Vangeli apocrifi solo grazie al fatto che celavano la vera identità dei due sposi. Anche il testo della British Library non sembra però sfuggito alla censura: alcune pagine sono state vistosamente strappate via.
Due anni fa la docente di Harvard Karen L. King aveva annunciato la scoperta di un frammento di papiro in copto di uno di questi testi perduti, nel quale si legge: «E Gesù disse loro: mia moglie…». Ma secondo Jacobovici e Wilson basta anche solo scorrere i Vangeli di Marco, Luca, Matteo e Giovanni per convincersi che Maddalena aveva un ruolo di primissimo piano accanto a Gesù. Assiste alla crocifissione, alla sepoltura e alla scoperta della tomba vuota. Lava il corpo del Cristo, cosa consentita solo alle mogli o ad altri uomini, ed è la prima persona alla quale Gesù si rivolge dopo la resurrezione.
Il sentimento popolare, soprattutto in Francia, non ha avuto bisogno di aspettare Dan Brown per venerare Maria di Magdala come la seconda donna più importante del Cristianesimo dopo la Vergine Maria, nonostante papa Gregorio Magno l’avesse bollata nel 590 come una prostituta, commettendo un vistoso errore - forse meditato e voluto - di interpretazione dei testi canonici. Per secoli è stata ritratta dai grandi maestri, da Tiziano a Caravaggio a Canova, come una penitente afflitta dai suoi peccati: che sia stata o no la moglie di Gesù, era un destino che non meritava.

Corriere 11.11.14
Tanti applausi per la guerra dal 1940 al 1943
Tra i militari italiani durò a lungo la fede nella vittoria
di Paolo Mieli

«Inutile andare in giro raccontando che la guerra fu voluta dal solo Mussolini e non dall’Italia», scriveva il 10 agosto del 1946 Gaetano Salvemini a Ernesto Rossi e Leo Valiani. «Certo il popolo italiano non volle la guerra, se si intende tutto il popolo. Ma i generali, gli ammiragli, i grossi industriali, gli alti burocrati, i senatori, i deputati, i professori di università, i vescovi, gli arcivescovi, i cardinali, tutto quel lerciume accettò la guerra e parecchi altri la vollero finché credettero che l’avrebbero vinta dato lo sfacelo militare che era già avvenuto in Francia e che si prevedeva imminente in Inghilterra… Anche se si parla delle classi medie e inferiori del popolo italiano, non bisogna dimenticare che una larga parte di esse seguì Mussolini, e che fra esse Mussolini godé di larga popolarità dopo la vittoria nella guerra di Etiopia ed al tempo dello squartamento cecoslovacco; e se le cose gli fossero andate bene nella guerra mondiale, Mussolini sarebbe per molta gente un grand’uomo». «Questa è la verità», concludeva Salvemini; «bisogna dunque smetterla con questa balla che l’Italia non è responsabile».
A 68 anni da quella lettera, Mario Avagliano e Marco Palmieri hanno compiuto un’accurata analisi sulla corrispondenza epistolare e sui diari dei nostri soldati ai tempi del secondo grande conflitto e ne è venuto fuori un libro, Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte, 1940-1943 (di imminente pubblicazione per i tipi del Mulino), dal quale emerge un quadro ancor più inquietante di quello prospettato nel 1946 da Salvemini. Nel senso che, tenuto conto anche delle lettere di dissenso e perciò censurate o parzialmente autocensurate, «la partecipazione attiva e perfino entusiastica alle politiche fasciste, comprese quelle militari e guerrafondaie» fu pressoché totale. Anche quando le cose per l’Italia si misero male. Persino, in non pochi casi, dopo la destituzione del Duce a fine luglio 1943. Notevole, scrivono Avagliano e Palmieri, «è la persistenza del mito personale di Mussolini che dura decisamente più a lungo rispetto alla reputazione del regime fascista e delle sue gerarchie, già compromesse da tempo».
E perché queste cose vengono approfondite e documentate solo ora? Qui da noi una «guerra della memoria», quella che per Avagliano e Palmieri è una «guerra civile del ricordo, delle celebrazioni e degli studi», ha fatto sì che «l’attenzione riservata alla guerra di liberazione mettesse spesso in ombra la precedente partecipazione alle guerre fasciste, con le quali si è omesso di fare i conti, preferendo soprassedere come se non facessero parte della storia nazionale». Del resto «la stessa definizione di guerre fasciste, a cui spesso si fa ricorso, già di per sé suona come una presa di distanza e un’autoassoluzione che non tiene conto del fatto che esse in realtà furono combattute e pagate da tutti gli italiani». Con un alto grado di consapevolezza.
Avagliano e Palmieri sfatano il mito «di un’Italia fin dall’inizio contraria alla guerra e che già alla fine del 1940 prende le distanze dal fascismo». Dimostrano come, quantomeno tra i soldati, «il consenso alla decisione del regime di entrare in guerra fu quasi plebiscitario e il momento di rottura (rispetto alla partecipazione ideologica e all’adesione entusiastica alle parole d’ordine del regime) fu invece assai tardivo». Viene alla luce un «forte ritardo con il quale gli italiani in divisa approdarono alla scelta del distacco da Mussolini e del ripudio della guerra». «Forte ritardo» che, secondo Avagliano e Palmieri, peserà anche sul rovesciamento del regime fascista, partorito in ambito militare (con il concorso della Corona e dei gerarchi fascisti dissidenti), ma «condotto in modo continuista e passatista, senza un chiaro segno antifascista e senza un’intelligente strategia d’uscita dal conflitto». Con «riflessi evidenti non solo sulle vicende del tragico biennio successivo (estate 1943-25 aprile 1945), ma anche sulla futura storia dell’Italia repubblicana».
Fa davvero impressione leggere le missive degli italiani partiti per la guerra nel giugno del 1940. Trasudano la certezza di una vittoria a portata di mano, un odio per gli inglesi e un’assenza di dubbi che lasciano esterrefatti. «Per gli inglesi», scrive un alpino nel settembre del 1940, «è finita la cuccagna, ora anche noi dobbiamo fare un po’ di bella vita, che anche noi abbiamo il diritto di star bene. Lo vogliamo vedere come debbono stare dopo la guerra questi sfruttatori inglesi. Noi potremo fare quello che vogliamo e far venire in Africa anche le nostre famiglie». Qualcuno come Lamberto Prete, dal fronte francese, ha già dato per finito il conflitto. «La sera», scrive il 30 giugno, «è un incanto con questi tramonti d’oro, con le cime baciate dagli ultimi raggi di sole, con le valli invase dalla penombra, con le strade affollate di gente contenta. La guerra è finita con una facile vittoria e tutti cantano le canzonette del momento». E, invece, altro che canzonette. In quell’estate del 1940 l’Inghilterra resiste, non crolla. E la guerra a questo punto deve andare avanti. Per quel che ci riguarda, in Grecia e nell’Africa settentrionale. In entrambi i casi l’esercito italiano farà un buco nell’acqua e dovranno intervenire i tedeschi a soccorrerlo.
I nostri connazionali in divisa fanno finta di non capire. Il barbiere genovese Fulvio Valentinelli («che fa ai greci barba e capelli» scrive in una lettera del 14 gennaio 1941) si autoinveste del titolo di «Terrore delle Acropoli» e si dice sicuro che verrà presto «il momento propizio di dare la suonata definitiva ai greci» (14 febbraio). In Africa un marinaio sentenzia: «Ormai abbiamo visto che la guerra non è per gli inglesi!». Se ne parla come dei «maledetti figli di Albione», «vigliacchi e farabutti». L’artigliere Gino Lanfranchi bolla i britannici come «audaci fresconi che l’illusione ha voluto per un po’ vittoriosi». E, dopo i primi colpi subiti, un aviere sostiene con sicurezza: «Le passeggere iniziative angloamericane ci lasciano più che scettici increduli … Non sono alcune sporadiche vittorie di Pirro che possono demoralizzarci».
L’anglofobia, notano i due autori, «non è un sentimento concentrato nella fase iniziale della guerra, sull’onda dell’entusiasmo e delle ambizioni di una rapida vittoria, proprio ai danni degli inglesi ritenuti deboli e militarmente inferiori… lascia scorie diffuse anche dopo le sconfitte e dopo tanti mesi passati al fronte».
Il consenso alla guerra, sottolineano Avagliano e Palmieri, «è vasto e diffuso e, nonostante fin dal principio le cose non vadano nel modo sperato e immaginato, rimane a lungo radicato nella coscienza di molti militari, relegando le forme di disapprovazione e malcontento ad una dimensione marginale e comunque riconducibile ai disagi materiali della vita militare e alla delusione per le sconfitte, ma non ad una messa in discussione del fascismo». I primi segnali di svolta li si possono rinvenire già in un rapporto dell’Ovra del febbraio 1941: «Un senso di ribellione serpeggia fra le masse al pensiero che il fiore della gioventù italiana sia stato e continui a sacrificarsi per la vanità o l’incapacità di alcuni capi e questo stato d’animo di sorda protesta si esaspera alle notizie frequenti e concordi sulla deficienza dell’equipaggiamento e dell’armamento dei nostri soldati, alcuni dei quali scrivono dal fronte greco-albanese alle loro famiglie chiedendo insistentemente indumenti di lana, mentre altri, ricoverati feriti o congelati negli ospedali, diffondono un pauroso senso di sgomento».
Per fortuna, però, c’è l’alleato germanico. I tedeschi in Russia vengono accolti dai nostri con ammirazione e con gioia. «Dai loro volti stranamente anneriti dalla polvere traspare quella particolare espressione fatta d’orgoglio e d’allegrezza che è propria di coloro che vengono dalla linea del fuoco», scrive Urbano Rattazzi. «Sono gli Dei della guerra. Sono simboli». I russi, invece «sono petulanti, antipatici e oltretutto poco cortesi», prosegue Rattazzi; «il nostro corpo di spedizione — un magnifico fascio di energie fisiche e morali — passa sopra le loro orde come un rullo compressore, facendo brillare dinnanzi agli occhi stupiti del mondo intero le virtù eroiche della razza, esaltate da vent’anni di Fascismo». Però «il cameratismo e l’ammirazione verso gli alleati tedeschi sono tutt’altro che unanimi tra i militari italiani», scrivono Avagliano e Palmieri, «e laddove esistono e resistono devono confrontarsi con la dura realtà di una guerra condotta in posizione subalterna e di un rapporto al fronte caratterizzato anche da scontri, frizioni, gelosie, invidie».
Un motivo di fastidio è riconducibile «alla scarsa considerazione che i tedeschi mostrano di avere per il valore militare degli italiani» che si riflette nella redazione dei bollettini di guerra «nei quali spesso non si fa cenno alcuno all’operato dei nostri soldati né vengono loro riconosciuti i giusti meriti». «Oggettivamente è giusto ammettere che i tedeschi non parlano male degli alpini», scrive nel marzo 1942 Vito Mantia dal Montenegro. «Bontà loro ci danno atto del nostro comportamento, salvo però dure critiche per la nostra… sensibilità dimostrata in tante occasioni, dopo le radicali e totali distruzioni inflitte alle popolazioni inermi. La loro determinazione e il loro comportamento razzista di superiorità sprezzante non li porterà lontano».
L’Africa, rispetto alla Grecia, «pone nell’animo degli italiani maggiori questioni di amor proprio», scrivono Avagliano e Palmieri, «e lo scotto per aver dovuto accettare il compromesso di un intervento tedesco è maggiore». Ne è prova quel che si legge in una relazione del Comando generale dei carabinieri del maggio 1941: «Negli ambienti militari la soddisfazione per i nostri successi viene sensibilmente temperata dalla considerazione che molto si deve all’apporto dato dalla potente azione delle forze tedesche». Anche se in più di un caso i militari italiani non danno voce a questo genere di risentimento. Anzi. «Quelli che ci comprendono sono i tedeschi», scrive dalla Libia il caporalmaggiore Bruno Palmisa, «essi ci stimano e sono molto gentili con noi, ci portano da mangiare, ci incoraggiano e ci promettono che molte incresciose questioni verranno al nodo». «I rapporti con i militari germanici», conferma un rapporto della censura, «sono sempre intonati alla stima reciproca e al più perfetto cameratismo». Qualcosa cambia dopo El Alamein: «Pensa solo ai paracadutisti della divisione Folgore», scrive un carrista nel dicembre 1942, «di dodicimila ne sono rimasti tremila e non cedevano ancora se i tedeschi non scappavano i primi». Un caporale aggiunge: «Formiamo l’estremo baluardo difensivo, Rommel ha tagliato la corda».
Poi qualcosa cambia. Scrive sul suo diario, il 23 agosto 1943 (trenta giorni dopo la caduta del fascismo e sedici prima che sia annunciato l’armistizio), Lamberto Prete, di stanza in Grecia: «Fino a qualche settimana fa noi vedevamo soltanto da lontano i militari germanici ed avevamo occasione di avere contatto coi loro ufficiali esclusivamente quando partecipando alla nostra mensa si comportavano da veri porci… I tedeschi ci hanno ignorato fino ad oggi ma ora pretendono che ci poniamo ai loro ordini».
Cresce l’ostilità nei confronti della censura. E «nella sfida al censore si può leggere una prima forma di ribellione al regime stesso». Tuttavia il malumore «non sfocia ancora in dissenso e non assume un connotato politico antifascista… L’atteggiamento di molti è al contrario di radicata fiducia nella buona fede, se non del fascismo e delle sue gerarchie, certamente del Duce».
L’esaltazione della figura di Mussolini, scrivono i due autori, «resiste anche ai rovesci militari e si riaccende immancabilmente quando le cose vanno per il meglio e le operazioni militari concedono qualche momentaneo successo». E anche dopo la caduta di Mussolini (25 luglio 1943) quando affiorano nelle lettere insulti al dittatore travolto, i sentimenti generali non cambiano. Il generale Tamassia osserva: «Fa impressione questo abbandono improvviso di tutti i più accesi sostenitori del fascismo». Un ufficiale in Albania racconta così il momento della comunicazione alla truppa delle «dimissioni» di Mussolini: «Tutti avevano le lacrime agli occhi ed abbiamo inneggiato al Duce che è e rimarrà il nostro capo». Un tenente colonnello scrive alla moglie: «Sono persuaso che se il Duce si affacciasse allo stesso balcone di Palazzo Venezia ad arringare la folla, tutta l’Italia cadrebbe ai suoi piedi». Tutti nostalgici, in ritardo sui tempi? No, anche Nuto Revelli, reduce dalla campagna di Russia e in procinto di diventare un esponente di primo piano della Resistenza, ricorda, a ridosso della destituzione del Duce, i soldati «morti per nulla, proprio come se la patria non esistesse più». Ha poi un moto di sdegno e annota sul diario: «Vedo i cortei, sento i discorsi, riconosco troppi fascisti di ieri, più fascisti erano ieri, più oggi sono antifascisti e si agitano, spaccano, urlano… Volevo scendere stanotte; forse mi sarei fatto picchiare».
Anche per questo tipo di sentimenti in molti continuarono a sostenere il regime, persino dopo la sua caduta. Effetti di quella che Avagliano e Palmieri definiscono «la lunga durata del consenso» al fascismo.

Il Sole 11.11.14
Sulle fondazioni liriche si aprono spiragli
Le vertenze. Franceschini: aperto a un tavolo di confronto


Iniziata come la giornata di protesta del mondo della lirica italiana, quella di ieri si è conclusa con alcuni spiragli di apertura su diversi fronti che, pur nella difficoltà del momento, presentano quantomeno dei punti di partenza. A cominciare dall'incontro tra i sindacati e i vertici dell'Opera di Roma, che solo un mese fa aveva annunciato il licenziamento di 180 lavoratori e l'esternalizzazione di coro e orchestra. Il confronto avviato giovedì scorso con Fuortes è proseguito ieri con alcuni rappresentanti dell'azienda, a cui i sindacati hanno ribadito la disponibilità dei dipendenti (di tutti i settori del teatro) a rivedere l'integrativo in cambio del ritiro dei licenziamenti, «a patto che che la discussione affronti il tema di un nuovo modello produttivo», spiega Alberto Manzini di Slc Cgil. Insomma: sì a una maggiore produttività, purché questa non si traduca in «più recite e meno prove». Il clima sembra comunque costruttivo ed entrambe le parti, che si riaggiorneranno questo pomeriggio, sono intenzionate a trovare una soluzione.
La vicenda dell'Opera di Roma, per essere compresa, va collocata però nel contesto non soltanto di un sistema teatrale in grave difficoltà nel nostro Paese, ma soprattutto in quello dei conti disastrati delle 14 Fondazioni liriche italiane: due soltanto (Scala di Milano e Accademia di Santa Cecilia a Roma, a cui è stata riconosciuta l'autonomia statutaria a inizio ottobre) riescono a chiudere bilanci in attivo grazie a una elevata produttività e al sostegno di sponsor privati. Un sistema «vivo», come lo ha definito alcuni giorni fa Francesco Pinelli, il commissario straordinario incaricato di gestire i piani di rilancio dei teatri d'opera previsti dalla legge Valore Cultura. Ma che ha «un patrimonio limitato per sostenere le proprie attività e un debito importante»: 392 milioni. Un sistema in cui il ruolo dei privati è andato aumentando negli ultimi anni, mentre è diminuito quello dello Stato.
Secondo i sindacati, che ieri sono scesi in piazza a Roma per una manifestazione nazionale unitaria dei lavoratori della lirica, serve «una legge di sistema per la lirica, che ponga fine a una serie di interventi segmentati, che hanno portato a una progressiva destrutturazione del comparto». Un'apertura è arrivata ieri dal ministro Dario Franceschini, che ha ricevuto una delegazione di lavoratori al termine della manifestazione. Lo stesso Franceschini che una settimana fa ha affermato che «14 fondazioni lirico-sinfoniche sono troppe per le risorse del Paese», ieri ha rassicurato sul mantenimento dei finanziamenti del Fondo unico per lo spettacolo e ha proposto la convocazione di un tavolo tra le parti. La direzione da seguire è quella di un criterio meritocratico: il Fus sarà distribuito tenendo conto della capacità produttiva dei teatri lirici, che da soli assorbono il 47% del Fondo, a cui si aggiungono i 125 milioni di euro stanziati per risanare le Fondazioni che rischiavano il fallimento.
Le turbolenze non risparmiano nemmeno i «fiori all'occhiello» del sistema, come la Scala, dove la Cgil ha proclamato due mezze giornate di sciopero: una venerdì (per aderire alla manifestazione nazionale Fiom) e una il 19 novembre, legata a rivendicazioni interne al teatro e che mette a rischio la recita del Simon Boccanegra. Il sovrintendente Alexander Pereira si sarebbe però dimostrato disponibile ad avviare un confronto per scongiurarlo, con un incontro che potrebbe avvenire già oggi con i rappresentanti della Cgil e con un incontro con tutte le rappresentanze, convocato sabato prossimo.
Gi.M

Il Sole 11.11.14
Cultura
«Il teatro rischia di sparire»
Escobar (Piccolo): tagli agli enti locali e stretta fiscale riducono le risorse
di Giovanna Mancini

Nel 1947 fu il primo Teatro stabile italiano e ora è il primo a essere riconosciuto «Teatro d'Europa» dal ministero dei Beni culturali (con Decreto del 5 novembre, che sarà in Gazzetta ufficiale entro due settimane). Non è un caso perciò che proprio dal Piccolo Teatro di Milano parta oggi l'allarme per il futuro della produzione teatrale italiana: «Un sistema che rischia di scomparire, travolto dai tagli e dalla crisi economica», dice senza mezzi termini il suo direttore, Sergio Escobar.
«Intendiamoci – precisa Escobar –: sono grato al ministro Dario Franceschini per il riconoscimento e la responsabilità attribuiti al Piccolo, e per il suo impegno in difesa del Fondo unico per lo spettacolo». Ma, dati alla mano, i conti non tornano. La preoccupazione è che il riordino del sistema teatrale italiano previsto nel Decreto ministeriale del 1° luglio scorso (che fissa nuovi criteri per l'erogazione e modalità per la liquidazione e l'anticipazione di contributi allo spettacolo dal vivo) non faccia i conti con il contesto economico reale e con scelte politiche che rischiano «di mettere in crisi il modello finora vigente - precisa il direttore del Piccolo - senza sostituirlo con uno nuovo». Un modello "misto", che si regge grazie all'intervento a sostegno della produzione teatrale non solo dello Stato (che contribuisce con meno del 30% nel complesso), ma anche degli enti locali, dei cosiddetti soggetti intermedi (Fondazioni bancarie e Camere di commercio), di sponsor privati e del pubblico di cittadini.
Tutt'altro che un modello perfetto (anzi, non sempre si è dimostrato sostenibile) e tuttavia, fa notare il direttore del Piccolo, «non si può smantellare un sistema senza prevederne uno nuovo con il quale sostituirlo. Il decreto di luglio ha grandi potenzialità, perché punta a una ristrutturazione del sistema. Ma una ristrutturazione vera deve stabilire le funzioni dei teatri nazionali (previsti nel provvedimento, ndr), dove reperire le risorse e come indirizzarle per attuare quelle funzioni. È una questione di scelte politiche». Il timore è che si inneschi una "corsa" per accaparrarsi il titolo di «Teatro nazionale», anche abbassando la qualità per arricchire i cartelloni, e mettendo a rischio l'uso delle poche risorse.
Ma il problema va oltre il decreto del ministero e riguarda le scelte politiche del Governo, che sembrano andare in direzione opposta, dato che mettono sotto pressione (finanziaria o fiscale) proprio i soggetti che finora hanno maggiormente sostenuto la produzione teatrale nel nostro Paese. Regioni e Comuni, colpiti dai tagli previsti nella Legge di stabilità, che sono i maggiori contribuenti del sistema teatrale. Basti pensare che, mentre il Fus per il 2014 è di 406 milioni, nel 2012 i Comuni, nel loro complesso, hanno investito direttamente nella cultura 1.935 milioni. Il contributo delle Regioni non è invece monitorato da sei anni, ma come termine di paragone si può prendere il dato della Lombardia che, nel 2013, ha investito 27,2 milioni. Ancora non si sa, inoltre, chi si farà carico delle deleghe alla cultura delle Province, che dal 1°gennaio del 2015 saranno abolite, e che nel 2012 hanno contribuito al sistema con 160 milioni.
Anche le Fondazioni bancarie vedono a rischio i contributi (305 milioni nel 2012), colpite da una «falcidia fiscale»; così come le Camere di commercio (52 milioni nel 2012), al centro di una profonda ristrutturazione. Né troppo ci si può aspettare dagli sponsor privati, il cui sostegno è sceso del 41% tra il 2008 e il 2013, a quota 159 milioni, e che difficilmente potranno accollarsi l'onere di sostenere il sistema teatrale, se alle spalle manca un convinto disegno pubblico. Unica voce in controtendenza è quella del pubblico. «Alla luce di questi dati – dice Escobar – mi chiedo verso quale modello stiamo andando. È urgente aprire una riflessione perché, con queste premesse, il sistema della produzione teatrale in Italia è a rischio disastro».