mercoledì 12 novembre 2014

Corriere 12.11.14
Da Milano a Parigi prove di intesa tra Sel e sinistra pd
di Alessandro Trocino


Prove tecniche di alleanza tra minoranza Pd e Sel? Domani alla Sala Congressi della Provincia di Milano, alla vigilia dello sciopero generale della Fiom, si incontrano in un convegno Pippo Civati, tra i più duri oppositori nel Pd di Matteo Renzi, il leader di Sel Nichi Vendola e Stefano Fassina, da tempo in rotta con la maggioranza del Partito democratico. Convegno dal titolo «Fate il lavoro non fate la crisi». E il 21 novembre, a Parigi, alla Fondazione Jean Jaurès, si incontrano Fabrizio Barca con Nicola Fratoianni (Sel) e la ricercatrice Ludovica Ioppolo. Convegno intitolato: «La sinistra italiana di fronte alla crisi» e organizzato dal circolo Pd di Parigi insieme a Sel.

il Fatto 12.11.14
Senza truppe
Il generale Max in guerra per Pd e Quirinale


Il 18 marzo, nove mesi fa, il tifoso Massimo D’Alema regalò la maglia di Francesco Totti a Matteo Renzi, che aveva appena spodestato Enrico Letta con il famoso plebiscito del Nazareno, una riunione di un partito democratico già votato ai patti con Silvio Berlusconi. Adesso che le poltrone europee sono esaurite (nonostante la autocandidatura come ministro degli Esteri Ue, con tanto di incontro solitario con Jean Claude Juncker) e i dem di radici socialiste europee si trasformano in un contenitori di esuli con un piglio autoritario (vedi rapporti con i sindacati), il “Lìder Maximo” ha ripreso il vecchio elmetto. Quello che utilizza per le campagne decisive, per l’imminente nomina del capo dello Stato, per la legge elettorale e, pare, per le urne anticipate in primavera. A Otto e Mezzo, il generale D’Alema, non più in Parlamento e dunque con scarne truppe al seguito, ha lanciato un messaggio, preciso: “Renzi è un episodio”. Il dalemismo andrà oltre, con buona pace per l’anagrafe che avanza; anche se l’ex presidente del Consiglio ha di recente scoperto la passione per l’enologia e produce vini rossi che esporta già in Svizzera. Senza attendere l’addio di Renzi che non sembra contemplato in questo decennio, almeno secondo le previsioni di Renzi medesimo, D’Alema vuole contare per la successione di Giorgio Napolitano al Quirinale. E poi, per tenere accesa le memoria, non fu D’Alema a informare Romano Prodi di ritorno dall'Africa che la sua posizione vacillava prima ancora di entrare in Parlamento per la verifica? Andò male, malissimo, come D’Alema aveva annunciato, pronosticato o chissà cosa. Non ha pedine da muovere in Parlamento, il “Lìder Maximo”, ma lasenatrice Anna Finocchiaro e l’ex presidente dem Gianni Cuperlo gli sono sempre fedeli, e pure Enzo Amendola, che da un paio di mesi ha ricevuto la delega agli Esteri nella segreteria del Nazareno. E poi va riscoperta la sintonia con Pier Luigi Bersani e i reduci bersaniani, che già preparano la zuffa interna se l’Italicum dovesse sbarcare a palazzo Madama senza le preferenze e con abbondanza di posti bloccati.
Il più caro amico di D’Alema, il più prezioso, resta Ugo Sposetti, il depositario di quel patrimonio ex Pci-Pds-Ds da almeno 500 milioni di euro che fa tanto gola al tesoriere renziano Francesco Bonifazi. Quando l’ex premier sbraita e giura che la “pazienza è finita”, non pensa a una scissione, a un balzo a sinistra: no, vuole riprendersi il controllo di una macchina che conosce, di una ditta che lo omaggiava. Vuole tornare D’Alema. Questo è il problema.

Corriere 12.11.14
Un «laboratorio» nella minoranza pd Chiti e Mucchetti lanciano Articolo 1
di Lorenzo Salvia


ROMA È il primo passo verso una scissione interna al Pd? «Per carità, la prima condizione è proprio che non sia una cosa del genere». Allora state per fare una corrente, anzi è il ritorno del correntone? «Nemmeno per sogno. Di correnti ce ne sono pure troppe, semmai mancano i partiti». Vannino Chiti — senatore del Pd, tra i leader della minoranza che ha contrastato a Palazzo Madama la riforma costituzionale — annuncia «l’imminente nascita» di Articolo 1. Niente scissione, niente corrente. Ma allora che cos’è? «Un laboratorio culturale e politico per riflettere sui due principi contenuti nel primo articolo della nostra Carta: il lavoro, che va riformato ma senza mettere i diritti contro l’occupazione quasi fosse un ricatto; e la sovranità, con una democrazia che deve essere resa più moderna, ma che appartiene pur sempre al popolo». Quella di ieri doveva essere la giornata decisiva, con la registrazione del nome. Ma il parto è rimandato di qualche giorno per chiarire non solo i dettagli ma anche il vero obiettivo di Articolo 1. Chiti dice di aver ricevuto una ventina di «manifestazioni di interesse», per il momento solo dal Senato dove come noto la maggioranza ha un margine risicato. «Ci sono i Pd Paolo Corsini, Massimo Mucchetti e Walter Tocci — racconta — il grillino dissidente Tommaso Campanella, l’ex ministro Mario Mauro, Loredana De Petris di Sel. Come vede non ci sono confini partitici, io mi auguro che arrivi pure qualcuno da Forza Italia». L’associazione dovrebbe essere aperta non solo ai senatori ma anche ai deputati e, più in generale, a chi non è in politica. L’idea era nata proprio nei giorni in cui al Senato si discuteva la riforma costituzionale. «Ma non volevamo dare l’idea di essere legati ad un tema contingente, per quanto importante».

Corriere 12.11.14
E la «Velina rossa» benedice Veltroni al Quirinale


Per gli habitué di Montecitorio è stata come un’altra caduta del Muro di Berlino. Pasquale Laurito ( foto), decano dei cronisti parlamentari ed estensore della Velina Rossa, di antiche simpatie dalemiane, incrocia al bar Walter Veltroni, suo storico «bersaglio» politico. E, a sorpresa, gli dice: «Se i nomi per il Colle sono quelli che leggo, farò il tifo per te». Veltroni ovviamente si ritrae («Ma figurati, sono cose campate in aria, non esistono...»). Ma il miracolo di uno dei più arcigni dalemiani che nella sfida per il Colle tifa per il nemico di una vita s’era ormai compiuto. (Tommaso Labate)

Repubblica 12.11.14
Se l’astensionismo conquista persino l’Emilia-Romagna
di Nadia Urbinati


LA CRISI di legittimità della politica sta raggiungendo il suo acme. E non in un luogo qualsiasi del paese, ma in Emilia-Romagna, quella parte d’Italia dove dal 1945 la sinistra ha conquistato credibilità sul campo, con le opere invece che con la dottrina, ovvero per le capacità dei suoi amministratori e politici di costruire e preservare il buon governo delle città. Le istituzioni sane e le politiche sociali efficaci sono state il fiore all’occhiello della sinistra emiliana, nei fatti socialdemocratica e pragmatica. Oggi, nemmeno quel lascito e quella memoria basteranno a convincere molti elettori e molte elettrici a votare, nonostante tutto. Sono quarantuno i consiglieri regionali dell’Emilia-Romagna indagati dalla magistratura per aver, si dice, effettuato spese ingiustificate con i soldi pubblici, travisandole come rimborsi per lo svolgimento del servizio politico, anche quando si trattava a tutti gli effetti di spese private o privatissime.
Certo, si tratta di accuse da provare, non di condanne. E i consiglieri indagati hanno tutto il diritto di contestare le accuse e di chiedere che si faccia subito luce. Ma la politica è fatta prima di tutto di immagini, di percezioni costruite dall’opinione pubblica, di fiducia non cieca ma ragionata. Un sentimento difficile da creare e consolidare, e allo stesso tempo molto facile da incrinare e demolire. Anche per il “popolo delle feste dell’Unità” (che è stato immortalato in un film-documentario appena uscito, proprio a ridosso di queste difficilissime elezioni regionali in Emilia-Romagna) sarà difficile dimenticare tutto questo. Nemmeno una lunga storia di appartenenza e passione servirà a fermare la caduta di fiducia, che non attenderà la fine delle indagini. La sfiducia è diffusa e palpabile nell’opinione pubblica. Spiegabile anche con il fatto che nella sinistra italiana, locale e nazionale, non è si è mai affermata l’abitudine di votare turandosi il naso. Perché nella sinistra non si è mai, per fortuna, coltivata l’abitudine di giustificare il basso profilo morale dei politici: un fatto che è e deve restare eccezionale, che non può essere consueto e soprattutto così esteso.
La storia dell’uso opinabile delle risorse pubbliche da parte dei consiglieri regionali dell’Emilia- Romagna non è recente. Alcune avvisaglie emersero già un anno fa quando vennero alla luce, era l’estate del 2013, le prime notizie su interviste a pagamento che alcuni esponenti locali coprirono con i soldi pubblici: soldi impiegati non per informare i cittadini, come avrebbe dovuto essere, ma per promuovere la propria immagine. Da allora, le indagini sono andate avanti e hanno colpito i diretti interessati pochi giorni prima delle elezioni regionali. Certo, non hanno coinvolto solo i politici del Pd, ma di tutti i partiti. Però questo argomento non vale come attenuante; è semmai un’aggravante. Perché una delle ragioni sulle quali il Pd ha consolidato la propria immagine, anche nel ventennio berlusconiano, è stata proprio la maggiore dirittura morale dei suoi politici, la loro serietà. Oggi, questa immagine si è molto offuscata. E il fatto che il Pd sia di fatto senza rivali non è d’aiuto. È anzi un peso, un ostacolo, che dimostra ancora una volta come la competizione e il pluralismo politico siano essenziali per una buona democrazia elettorale. Una classe politica che guadagna più dal non avere rivali credibili che dall’avere un proprio endogeno valore è un segno negativo che può favorire il senso di impunità, spingendo verso il basso il valore dell’intera classe politica.
E per molti elettori sarà più che difficile far finta di nulla e votare come se tutto vada nel migliore dei modi. Le insoddisfazioni per un percorso politico sempre meno lineare si sono manifestate già nel corso delle ultime primarie nel Pd che hanno eletto Stefano Bonaccini come candidato alla presidenza della regione. In quell’occasione, si è registrata una partecipazione irrisoria, di poche migliaia di iscritti o elettori. Certo, il numero dei voti è alla fine quel che conta quando si tratta di decretare chi vince e chi perde. Ma il basso numero dei votanti rappresenta un sintomo di malessere che è difficile da ignorare. Un segno di declino di legittimità morale che è gravissimo. Queste recenti notizie danno credito alle previsioni su un’astensione in massa nella regione che un tempo vantava la più alta partecipazione al voto su scala nazionale. Anche perché non c’è un’alternativa politica capace di attrarre consensi. Su questa strada a senso unico, i politici si adagiano e ostentano sicurezza. Sanno che a loro non c’è alternativa. D’altra parte, il non voto, l’astensione sarà (lo è nei sondaggi) il segno che agli elettori non resti davvero molta opportunità di scelta. Quello dell’Emilia- Romagna è certo un caso estremo di una crisi della rappresentanza politica e partitica che sembra irreversibile.

Corriere 12.11.14
Italicum 2
Il partito sopra il 40% blinda il Parlamento
Tornano le preferenze ma i nominati restano
di Dino Martirano


ROMA Il numero magico dell’accordo di maggioranza, il 3% della soglia d’accesso in Parlamento, fa sognare i piccoli della coalizione (dal Ncd al Psi) e dell’opposizione (da Sel a Fratelli d’Italia). Ma anche la data del 2018, ribadita come scadenza naturale della legislatura, galvanizza le forze minori che hanno sottoscritto il patto di Palazzo Chigi (oltre a Pd, Ncd e Psi ci sono Scelta civica, Per l’Italia, Centro democratico e Gruppo autonomie). La diminuzione dei collegi (non più 120 ma un numero compreso tra 75 e 100) non scontenta più di tanto FI e M5S che, viste le quotazioni attuali, potrebbero far eleggere un esercito di capilista nominati dai rispettivi leader. Solo in un Pd vincente, che incasserebbe il premio di maggioranza per il primo partito (340 deputati), si scatenerebbe la guerra delle preferenze tra i secondi e i terzi piazzati nei singoli collegi.
Road map e tempi
Il documento di 34 righe, articolato in 4 punti, costituisce una road map per la legislatura. L’orizzonte temporale (punto 1) è «unicamente quello della scadenza naturale» del 2018 perché «votare prima sarebbe un errore e una sconfitta inaccettabile per tutti». Eppure, la legge elettorale (l’Italicum già passato alla Camera il 12 marzo) dovrà essere approvata «entro dicembre 2014 al Senato e entro febbraio alla Camera».
Premio di maggioranza
Il testo passato alla Camera frutto del patto del Nazareno (Pd-FI) cambia passo. Si alza la soglia di accesso al premio di maggioranza al primo turno (dal 37% al 40%) ma la modifica fondamentale riguarda il «quantum» e il destinatario del premio: che «assegnerà 340 deputati alla lista vincitrice» mentre, in origine, il patto Renzi-Berlusconi prevedeva che il premio «fino a un massimo di 340 deputati» andava alla «coalizione o alla lista vincente che supera il 37%».
Capilista e preferenze
Diminuendo il numero dei collegi (non più 120, oscilleranno tra i 100 e i 75) si asciuga in parte il potere dei segretari di partito che mirano a piazzare i fedelissimi sulle poltrone blindate dei capilista. Con 120 collegi, i posti predeterminati per i tre grandi partiti (Pd, M5S, FI) sono potenzialmente 120. Con soli 75 collegi, aumenta dunque il numero dei seggi da assegnare con le preferenze che però riguarderebbero soprattutto il Pd e il M5S. Mentre in FI (nell’ipotesi che si fermi al 15%, ovvero ottenga circa 66 deputati) non ci sarebbe spazio per candidature non convalidate da Palazzo Grazioli.
Paradossalmente, anche il Ncd di Alfano, che ha incassato pure 10 pluricandidature al posto di 8, eleggerà un numero maggiore di deputati con le preferenze. Se Alfano, per esempio, si «pluricandida» capolista in 10 collegi, alla fine dovrà optare per uno solo posto liberando così 9 seggi per i secondi piazzati (cioè i primi per preferenze).
Tutto questo, però, potrebbe fare a cazzotti con due sentenze della Corte costituzionale: la 203/1975 e la 1/2014 (che ha bocciato il Porcellum) in cui è scritto che «la piena libertà dell’elettore sarebbe garantita attraverso il voto di preferenza» al di là delle liste, anche parzialmente blindate dai partiti. E infatti, negli uffici della I commissione del Senato, convocata oggi per votare il calendario dell’Italicum, c’è stata grande attività di consultazione delle sentenze della Corte alla presenza del presidente Anna Finocchiaro e del senatore Roberto Calderoli.
Sbarramento
Alla soglia di accesso per i piccoli partiti abbassata dall’8 al 3% il documento dedica due righe appena: così «saranno evitati effetti distorsivi nella assegnazione dei seggi a ciascun partito». Con la soglia all’8%, si rischia infatti di tagliare fuori dal Parlamento un quarto della forza elettorale minando il principio di rappresentanza.
Riforme costituzionali
I punti 3 e 4 del documento stabiliscono infine i tempi della riforma costituzionale del Senato (in Aula alla Camera entro il 10 dicembre e approvazione entro gennaio 2015 per poi procedere alla nuova lettura a Palazzo Madama) e del Jobs act (le nuove regole sul lavoro dovranno entrare in vigore il 1° gennaio insieme agli effetti della legge di Stabilità). La tempistica della riforma costituzionale (più lenta della legge elettorale) non consentirebbe però di applicare al nuovo Italicum il «sindacato preventivo di costituzionalità» (proposto da Andrea Giorgis del Pd) per evitare a monte ogni problema con la Consulta. A meno che una norma transitoria riesca a capovolgere la frittata.

Repubblica 12.11.14
Partitini in salvo, ma senza diritto di veto
Con l’Italicum-bis si alza la soglia-premio (40%) e si abbassa quella d’accesso (3%)
Il ballottaggio diventa pressoché certo e lo scettro del comando va a un partito e non a una coalizione
Ecco le novità dell’intesa con cui la maggioranza sfida Fi
di Sebastiano Messina


ROMA Si alza la soglia per il premio di maggioranza (40 per cento), si abbassa quella per entrare in Parlamento (3 per cento). Ma dietro il cambiamento di queste due cifre, l’accordo di maggioranza per la modifica dell’Italicum introduce due novità fondamentali. La prima è che il ballottaggio, il doppio turno, diventa la regola e non più l’eccezione, l’ipotesi eventuale. La seconda è che lo scettro del comando, attraverso un robusto premio di maggioranza, viene consegnato a un partito anziché a una coalizione, e i partiti minori perdono il potere di condizionare il vincitore.
IL PREMIO
Il patto del Nazareno prevedeva un premio di maggioranza che consentisse alla coalizione vincitrice di avere alla Camera 340 seggi su 630, a patto però che essa superasse la soglia del 37 per cento. Una correzione introdotta all’ultimo momento da Renzi, e accettata da Berlusconi due giorni dopo l’incontro, introdusse il ballottaggio tra le prime due coalizioni, nel caso in cui nessuno superasse il 37 per cento, ma in questo caso con un premio ridotto: 327 seggi anziché 340. L’accordo di lunedì sera cambia tutto. L’asticella per aggiudicarsi il premio al primo turno viene alzata al 40 per cento, e non si parla più di coalizioni ma di partiti.
IL BALLOTTAGGIO
E’ ipotizzabile che un partito, alle prossime politiche, superi da solo il 40 per cento? E’ possibile ma non è probabile, perché non è affatto detto che Renzi riesca a ripetere l’exploit delle europee. Se il Pd — o un altro partito — si fermasse al 39,9 per cento, sarebbe inevitabile il ballottaggio. Gli italiani sarebbero chiamati a decidere se affidare il governo a uno dei due partiti più votati, in un secondo turno che ricorda (negli effetti, non nella tecnica) il sistema francese. Sarebbe una sfida a due. Renzi contro Berlusconi, oppure Renzi contro Grillo. E il vincitore avrebbe i numeri per governare da solo. In Parlamento i voti dei partiti alleati sarebbero aggiuntivi ma non più determinanti. E’ evidente che un simile meccanismo darebbe una formidabile spinta verso il bipartitismo.
LO SBARRAMENTO
L’abbattimento delle soglie pretese da Berlusconi, 4,5 per cento per i partiti coalizzati e addirittura 8 per cento per i non coalizzati, era l’obiettivo principale degli alleati del Pd. E l’hanno centrato: la soglia è stata ridotta al 3 per cento, cifra che lascia a molti — anche se non a tutti — la speranza di tornare in Parlamento. In cambio, i partitini hanno dovuto cedere il potere di interdizione, novità non di poco conto.
PREFERENZE E CAPILISTA
Ostinatamente rifiutate da Berlusconi, che aveva imposto le liste bloccare, le preferenze tornano sulla scheda elettorale. Ma con un trucco: prima viene eletto il capolista, poi chi ha preso più preferenze. In concreto, i partiti mediopiccoli manderebbero in Parlamento solo capilista (anche se utilizzerebbero la concorrenza tra i candidati per rastrellare il maggior numero di voti) e le preferenze deciderebbero solo una fetta più o meno grande degli eletti dei partiti maggiori, ovvero la quota di deputati oltre i primi 75 (i capilista). A questo si aggiunga che i leader dei partitini hanno ottenuto la possibilità di candidarsi in dieci circoscrizioni (prima erano otto) in modo da avere la certezza di essere eletti e la possibilità di mettere in concorrenza, a colpi di preferenze, gli aspiranti subentranti.
CIRCOSCRIZIONI
Scendono dalle 120 dell’Italicum a 75. Significa liste non più di sei candidati ma di otto o nove. Con il superamento delle liste bloccate non era più necessario mantenerle “corte” per superare le obiezioni della Consulta. Le liste più lunghe potrebbero consentire al Pd di evitare le primarie (non previste in nessun Paese del mondo per i posti in lista) lasciando che i suoi elettori scelgano i nuovi parlamentari direttamente nei seggi ufficiali.
QUOTE ROSA
L’accordo di maggioranza segna un punto importante a favore della parità di genere. Almeno il 40 per cento dei capilista dovranno essere donne, e nel caso fosse resa possibile una seconda preferenza (verificandone però la compatibilità con l’esito del referendum del 1991 sulla preferenza unica) dovrà essere “di genere”, ovvero a una donna se la prima preferenza è stata data a un uomo e viceversa. Un successo importante per le donne di tutti i partiti che alla Camera hanno combattuto (e perso) la battaglia per avere più chances di essere elette.

Corriere 12.11.14
Un paracadute per gli esodati della politica nelle società che Cottarelli voleva chiudere
Le partecipate sopravvivono a ogni spending review. E con loro la moltiplicazione degli incarichi
Il paradosso. Il commissario ne aveva scoperte 2.671, con più consiglieri che personale
di Sergio Rizzo


Dare l’esempio. Magari poteva servire, pensava il commissario alla spending review Carlo Cottarelli. Alle prese con la grana delle società partecipate dal pubblico, ne aveva scoperte 2.671 con più consiglieri che personale. Una l’aveva il Tesoro. Rete autostrade mediterranee, creata dieci anni fa dal governo di Silvio Berlusconi: un dipendente fisso e dieci fra consiglieri e sindaci.
Cottarelli ne proponeva la liquidazione, illudendosi .
Ecco allora che invece di tirare giù la saracinesca, a fine settembre il governo ha nominato i nuovi vertici. Non più cinque, perché c’è pur sempre la spending review, ma soltanto tre. Non tre qualsiasi. Presidente è Antonio Cancian, detto Toni. Reperto della vecchia Dc per cui venne eletto alla Camera nel 2002, poi deputato europeo del Pdl, quindi passato armi e bagagli nelle schiere di Angelino Alfano, aveva tentato a maggio la riconferma a Strasburgo. Senza successo. Prontamente le larghe intese (versione renziana) gli hanno offerto un minuscolo risarcimento .
Cancian guiderà la società con un solo dipendente in organico insieme al vicepresidente (!) Christian Emmola, presidente (renziano) dell’assemblea del Pd trapanese, e alla consigliera Valeria Vaccaro, dirigente del Tesoro e incidentalmente moglie dell’ex braccio destro di Giulio Tremonti, Marco Pinto, attuale consigliere Rai. Per dare l’esempio, appunto.
E di storie finite così ce ne sono ancora. Ricordate Arcus, società che distribuisce soldi dei Beni culturali e che il governo Monti voleva seppellire? Resuscitata dal Parlamento prima delle esequie, non si sarebbe salvata una seconda volta se avessero dato retta a Cottarelli. Non l’hanno fatto, e l’amministratore unico Ludovico Ortona, 72 anni, ex ambasciatore e già capo ufficio stampa di Francesco Cossiga al Quirinale è sempre lì: riconfermato.
E la Sogesid, società distributrice nel 2013 di 380 consulenze, che sempre il governo Monti voleva sopprimere? Altro che soppressione. Al suo vertice è arrivato il casiniano Marco Staderini, già consigliere delle Ferrovie e della Rai.
E Studiare Sviluppo, società di consulenza del Tesoro per cui il commissario ipotizzava analogo destino? Sopravvive alla grande con un consiglio di amministrazione rinnovato. Ma qui almeno la scelta è caduta su tre dirigenti ministeriali. Magra consolazione, in un andazzo generale che sottolinea il contrasto profondo fra i propositi (verbali) di rinnovamento e le azioni concrete. Qualche caso?
L’ex direttore generale della Rai nominato da Berlusconi, Mauro Masi, è stato confermato amministratore delegato della Consap, ultimo baluardo pubblico nelle assicurazioni: in aggiunta l’hanno fatto presidente. Con lui è entrato in consiglio il segretario della dalemiana fondazione Italianieuropei Andrea Peruzy, per di più amministratore della Banca del Mezzogiorno di Poste italiane. Gruppo di cui nella scorsa primavera l’ex portavoce di Pier Ferdinando Casini nonché ex deputato Udc Roberto Rao è diventato consigliere. Tre mesi dopo alla presidenza della compagnia aerea delle stesse Poste, la Mistral Air, è sbarcato l’ex onorevole Pd Massimo Zunino. Intanto al vertice di Poste Assicura arrivava Danilo Broggi, oggetto di apprezzamenti politici trasversali: è amministratore delegato dell’Atac, la claudicante azienda di trasporto del Comune di Roma. Fra i consiglieri di Poste Vita è comparsa invece Bianca Maria Martinelli, dirigente delle Poste medesime e candidata senza fortuna alle politiche 2013 per Scelta civica .
E se l’ex deputato Pd Pier Fausto Recchia ha conquistato la poltrona di amministratore delegato di Difesa servizi, quella di capo dell’Istituto sviluppo agroalimentare è toccata a Enrico Corali, nominato a suo tempo consigliere dell’Expo 2015 dal dalemiano Filippo Penati. Mentre all’ex commissario della Consob di nomina berlusconiana Paolo Di Benedetto, incidentalmente marito dell’ex ministro della Giustizia Paola Severino, è stato assegnato un posto nel cda del Poligrafico.
Per non parlare delle periferie, dove questo schema viene applicato senza soluzione di continuità. Capita così di scorgere fra i nomi dei nuovi consiglieri di Finlombarda quello dell’esponente di Forza Italia Marco Flavio Cirillo: trombato alle politiche del 2013, nominato sottosegretario all’Ambiente nel governo Letta e lasciato a casa da quello di Renzi. Ma anche di veder salire alla presidenza della Fincalabra, finanziaria di una Regione senza governatore e gestita da una reggente in attesa delle elezioni, Luca Mannarino: coordinatore regionale dei Club Forza Silvio. Il seguito, temiamo, alla prossima puntata sui riciclati .

Corriere 12.11.14
«Riforme e risparmi incerti», i dubbi Ue
La Commissione: il debito frena la crescita a causa del livello molto elevato di tassazione e interessi
L’Italia più esposta ai cambiamenti dei mercati, potrebbe esserci un rischio contagio in Europa
di Luigi Offeddu


Un colpo lungo, uno corto, uno perfetto sul bersaglio: se la Commissione europea usasse nei confronti dell’Italia le stesse regole della balistica classica, cioè del cannoniere che aggiusta il tiro, oggi sarebbe il giorno del colpo corto, ma vicinissimo al bersaglio, cioè alla bocciatura della nostra politica economica. È stato infatti pubblicato il rapporto della stessa Commissione sugli squilibri macroeconomici italiani: e vi si parla di un debito pubblico «ostacolo per l’economia e seria fonte di debolezza», oltre che di ritardi ed errori in vari campi. Come anticipato ieri dal Corriere , la Commissione bolla come «incertezze significative» quelle rilevate nel programma della spending review (controllo e taglio della spesa pubblica), e riconosce che il governo italiano ha avviato delle riforme ma nello stesso tempo «diverse misure ambiziose che potrebbero rappresentare un cambio di passo attendono ancora la piena adozione o un ulteriore decreto di attuazione, e i loro risultati rimangono incerti».
Sono moniti già uditi, e infatti il documento non contiene vere e proprie novità di fondo. Ma ciò non diminuisce, anzi aggrava la sostanza delle critiche. Non si parla neanche del giudizio-raccomandazione sul piano di stabilità italiano, atteso prima della fine del mese e di competenza della stessa Commissione. Questo rapporto appena diffuso, che tiene conto degli aggiornamenti apportati al Def, il Documento di economia e finanza, ma non della legge di Stabilità, tratta «soltanto» degli squilibri macroeconomici italiani, nel quadro di una procedura di infrazione già avviata a suo tempo. Viaggia, insomma, su un binario parallelo rispetto al verdetto che Roma attende da Bruxelles. E tuttavia, sembra il classico smottamento che in montagna annuncia la frana più grande: in ogni commento o quasi, si intravede quella che domani potrebbe essere la bocciatura del nostro piano di stabilità. A cominciare dal giudizio ribadito sul debito pubblico italiano: è «molto elevato», ed è «un ostacolo per l’economia e una seria fonte di debolezza, in particolare nell’attuale contesto di bassa crescita e di bassa inflazione». Detto in altre parole, ma più o meno con lo stesso significato: questo debito «frena la crescita attraverso il livello molto elevato di tassazione, gli alti interessi che limitano i margini di spesa pubblica produttiva, e la limitata capacità di rispondere agli shock economici».
E ancora: è «una causa di vulnerabilità», poiché «sottintende significativi rischi di rifinanziamento e rende il paese vulnerabile a improvvisi aumenti dei rendimenti dei bond sovrani e alla volatilità del mercato in periodi di accresciuta avversione al rischio con effetti diffusivi potenziali in altri Paesi». Quest’ultimo è il temuto effetto «spill over», di tracimazione o contagio dei problemi da un Paese all’altro. Due o tre anni, era un concetto applicato alla Grecia, all’Irlanda o al Portogallo. Ma questi Paesi hanno risalito almeno in parte la china, ed ora è a proposito dell’Italia, che la Commissione parla di un rischio di «spill over». Il cannoniere di Bruxelles aggiusta la mira, il colpo giusto sul bersaglio — il piano di stabilità italiano — è in arrivo?

Il Sole 12.11.14
Le misure. La manovra prevede 10 miliardi di spending nel 2015, «garantiti» da clausole di salvaguardia
Rischio stangata fiscale se i tagli non saranno attuati
di Davide Colombo e Marco Rogari


ROMA Meno di 10 miliardi, di cui oltre 6 a carico di Regioni ed enti locali. I tagli di spesa effettivi contenuti nella legge di stabilità all'esame del Parlamento ammontano a poco più della metà dei 16-17 miliardi indicati nel Def di aprile come obiettivo quasi imprescindibile della spending review nel 2015. Un insieme di interventi che, sulla carta, ci consentirebbero di rispettare la regola della spesa contenuta nei trattati, con un calo dell'1,1% previsto nel 2015. Ma quei tagli, appunto, vanno realizzati fino in fondo, come ha fatto notare appena una settimana fa il presidente dell'Ufficio parlamentare di bilancio, Giuseppe Pisauro.
La necessità di evitare che una riduzione della spesa troppo marcata avesse un'ulteriore ricaduta recessiva su un'economia già ferma e la difficoltà soprattutto dei ministeri a individuare nuovi tagli senza toccare la cosiddetta "carne viva" (pensioni, sanità, stipendi pubblici) hanno indotto il Governo ad abbassare il tiro rispetto al target iniziale. Anche se un giro di vite annuale da quasi 10 miliardi non ha comunque precedenti nell'ultimo decennio. E va considerato un passo in avanti consistente rispetto al passato senza ricorrere, tra l'altro a tagli lineari, almeno in partenza: saranno le regioni e gli enti locali a decidere come centrare gli obiettivi di riduzione di spesa loro assegnati (rispettivamente 4 e 2,2 miliardi).
Già nel 2016, però, l'asticella della spending dovrà ulteriormente salire: solo in questo modo potranno essere disinnescate le clausole di salvaguardia fiscali per oltre 16 miliardi disseminate sul percorso dei conti pubblici che dovrebbe portare al ritardato pareggio di bilancio nel 2017. Clausole che si tradurrebbero in circa 12,8 miliardi di maggiore Iva per effetto di quanto previsto dalla stabilità varata dal governo Renzi e in oltre 3,2 di aumenti di aliquote e accise legati al dispositivo Letta-Saccomanni, solo in parte sterilizzato dall'ultima manovra.
L'Ufficio parlamentare di bilancio ha annunciato una analisi approfondita sui tagli di spesa. Ma ha anche ammesso che per farlo serve una «capacità di monitoraggio» che ancora va consolidata, visto l'insediamento di questo organismo indipendente di valutazione dei conti previsto dalla nuova governance economica europea, è di appena qualche mese. Nel corso dell'audizione davanti alle commissioni bilancio di Camera e Senato del 4 novembre Pisauro ha parlato di un approfondimento, in particolare, sulle riduzioni di risorse per i singoli comuni per poi procedere a un'analisi dei tagli alle Regioni, per le quali il ddl stabilità indica innovazioni sulla gestione contabile e amministrativa, con il superamento del patto di stabilità interno. Si capirà anche da quei rilievi quanto sono davvero credibili gli interventi sulla spesa varati per ora, appunto, solo sulla carta.

Repubblica 12.11.14
Pronto l’accordo Renzi - Berlusconi
L’ultima paura del premier: “Silvio ci sta ma i problemi saranno in aula”
di Francesco Bei e Goffredo De Marchis


Berlusconi vuole chiudere. Mettere la sua firma sotto la nuova legge elettorale, restare al centro del grande gioco. Quello che, tra poche settimane, avrà come premio anche il Quirinale. È questo il senso del «pieno mandato » che si è fatto dare ieri da Forza Italia. Un modo per far capire a Renzi che le parole di Brunetta non contano, che per quanto i Fitto, i Minzolini e tutti gli altri pasdaran interni abbiano fino all’ultimo provato a sabotare l’intesa, l’unica parola che conta è la sua.
Alle sei della sera l’ex Cavaliere varcherà per l’ottava volta il portone di palazzo Chigi e non ci sarà più spazio per riflessioni e ulteriori rinvii. «O si sblocca subito oppure salta il patto del Nazareno », minaccia Renzi. E Berlusconi non ha nessuna intenzione di correre questo rischio, soprattutto ora, a un metro dal traguardo. Soprattutto dopo che lunedì, nella riunione ad Arcore, Confalonieri e figli impegnati in azienda gli hanno preannunciato quello che la Borsa ha scoperto ieri. Ovvero Mediaset sta andando male, molto male: chiude i primi nove mesi del 2014 con una perdita di 46,8 milioni di euro rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. E l’ultima cosa di cui ha bisogno è una Forza Italia relegata a fare l’opposizione in un angolino del parlamento, con l’impero del Cavaliere minacciato da leggi avverse.
Certo, qualcosa il premier dovrà cedere. Berlusconi non può tornare a casa a mani vuote. Ma ormai persino il punto più contestato, il premio di maggioranza assegnato al primo partito anziché alla coalizione, non è nemmeno in discussione. Si erano lasciati l’ultima volta con un «vedremo », Berlusconi gli aveva detto: «Tu hai un partito al 40% ma io posso ancora avere una coalizione. Il premio alla lista in teoria va bene, ci porta al bipartitismo, ma fammici pensare ancora un po’». Questo contrasto è sparito dalla scena. Ieri, durante la riunione a palazzo Grazioli, è stato proprio il leader a usare le parole più aspre contro «quel demagogo populista» di Matteo Salvini, dando dunque per scontata la fine dell’alleanza che ha tenuto insieme per vent’anni leghisti e forzisti. Una nuova coalizione di centrodestra competitiva sembra un’ipotesi irrealistica, inutile inseguire fantasmi.
Il Fort Alamo di Berlusconi è rimasta alla fine la soglia di sbarramento anti-cespugli. La vorrebbe alta, arrivò a proporre uno stellare 8 per cento e si meritò una battuta come risposta: «Silvio, in Turchia hanno il 10% e non è un esempio di democrazia ». Gli piacerebbe almeno ottenere il 5% per tenere fuori dal Parlamento l’Ncd e costringere Fratelli d’Italia a rientrare in un listone unico. Oltretutto, dando per scontata una vittoria del Pd e un 55% di seggi attribuiti al primo partito, a tutte le opposizioni resterebbe da spartirsi il restante 45%. Meno partiti ci sono a dividersi la torta e più seggi spettano ai perdenti. Renzi qualcosa è disposto a concedere. Lo ha preannunciato lunedì sera al vertice di maggioranza con i piccoli: «Lo so che preferite il 3% ma vi chiedo di non irrigidirvi su nessuna clausola. Vi chiedo di lasciarmi un margine di libertà per trattare con Forza Italia e portare a casa l’accordo». Tutti a questo punto sperano si possa chiudere su un compromesso onorevole: al 4 per cento. Forse il 4,5, come è già previsto nell’Italicum per chi sta dentro le coalizioni. Una soglia che consentirebbe a Berlusconi di poter dire ai suoi di aver reso la vita più difficile per Alfano. E che magari potrebbe essere utile a convincere un partitino del centrodestra a entrare nel listone unico.
Renzi è convinto che Berlusconi voglia confermare il patto, accettare la modifiche. Poi chiederà il via libera alla direzione del Pd convocata stasera alle 21. Ma dal leader azzurro pretenderà garanzie sulla tenuta del partito e dei suoi gruppi parlamentari. «Mi sembra che il Cavaliere abbia dei problemi veri in Forza Italia. Lo so che Brunetta va per conto suo e che al Senato i fittiani sono meno che alla Camera. Ma una legge deve superare la prova dell’aula. E in aula quello che concordiamo a quattr’occhi rischia di essere scritto sulla sabbia». Per questo Renzi dice che quello di oggi «sarà l’ultimo incontro con il capo di Fi». Un altro modo per far capire che non accetterà proposte di rinvio. Nemmeno davanti all’argomento che Berlusconi sicuramente metterà sul piatto: la successione di Giorgio Napolitano. Ma l’ex sindaco di Firenze vuole evitare proprio la sovrapposizione dei due percorsi e immagina che una rapida approvazione della riforma elettorale sia la strada per un ripensamento del capo dello Stato sui tempi dell’addio.
L’altro puntello che può rinviare le dimissioni di Napolitano è la tenuta del Partito democratico. Da mettere alla prova già stasera con un voto sulla relazione del premier-segretario. Se il Pd tiene sulla riforma elettorale (e le prime reazioni alle modifiche sono positive) e sul Jobs Act, diventa tutto più facile, si può anche tirare la corda con Berlusconi. Ma la riforma del lavoro resta uno scoglio durissimo, persino i mediatori stanno per alzare bandiera bianca. È una battaglia che dentro al Pd coinvolge la storia, l’identità e i punti di riferimento elettorali di tanti parlamentari.

Repubblica 12.11.14
Il lento tramonto di Berlusconi subordinato alle scelte del premier
Quel che non accadrà è che la nuova legge elettorale veda la luce in tempi molto rapidi, come desidera Renzi
di Stefano Folli


SONO lontani i tempi in cui Silvio Berlusconi dominava il palcoscenico politico. Oggi l’uomo deve accontentarsi di un ruolo subordinato a Renzi. La legge elettorale con il premio al partito vincitore, una legge fatta su misura per il nuovo protagonista della vicenda italiana, certifica che il destino ha cambiato cavallo. E Berlusconi può solo guadagnare tempo.
Una volta avrebbe probabilmente rovesciato il tavolo, come accadde ai tempi della commissione bicamerale presieduta da D’Alema. Ora si accontenta di dire che gli ultimatum del presidente del Consiglio sono inaccettabili e si sforza di tirarla un po’ per le lunghe attraverso «il confronto». Peraltro è chiaro che il problema non è lo sbarramento per i partiti minori fissato al 3 per cento. Vero è che con quella soglia bassa il partito di Alfano potrebbe portare in Parlamento un pugno di fedeli, così da guadagnare un «diritto di tribuna». Ma ai fini pratici, ossia per concorrere al nuovo governo, quei voti avrebbero poco significato, visto che il partito vincitore potrebbe contare sul 55 per cento dei seggi alla Camera, compreso il premio. Ne deriva che il 3 per cento del Ncd, così come di altre forze minori, avrebbe solo un valore di testimonianza, non sarebbe certo il passo d’inizio di un nuovo centrodestra.
Berlusconi conosce il quadro generale, eppure non può ugualmente subire a cuor leggero il «diktat» di Renzi, che prima trova l’equilibrio all’interno della maggioranza e poi si rivolge a lui, il semi-alleato esterno, e gli chiede di accettare senza indugi il pacchetto. È quasi una mortificazione pubblica. S’intende, d’altra parte, che Berlusconi non ha la minima intenzione di rompere i rapporti con Renzi: è disposto, anzi, a mandar giù rospi più indigesti della legge elettorale. Ma deve tener conto del malessere che serpeggia all’interno di Forza Italia. Fitto vuole occuparsi del partito e lo farà. Brunetta scalpita e ha allargato il suo raggio d’azione: non più solo la politica economica. Ha messo sotto tiro Renzi anche sulla riforma elettorale e Berlusconi non ha gradito.
Al capogruppo Romani il vecchio leader ha affidato invece la posizione ufficiale: nessuna rottura con Renzi, ma richiesta di un dialogo da pari a pari. E inoltre la necessità di tenere alto il «quorum» per i partiti minori. Altro che 3 per cento, il minimo deve essere il 4 o 4,5. Una norma «ad personam», verrebbe da dire. Il messaggio è che Alfano dovrà misurarsi con una soglia quasi proibitiva. Urge quindi un colpo d’ala da parte dei centristi, un’idea per sottrarsi alla morsa berlusconiana, loro che sognavano un partito imponente in grado di sottrarre consensi all’area di Forza Italia e di costruire una destra moderata di tipo europeo.
In sostanza Berlusconi continua a negoziare con Renzi e non potrebbe fare altrimenti. Probabile che egli sia consapevole che, un passo dopo l’altro, il suo vecchio partito o quello che ne resta sta per essere fagocitato dal «renzismo», in una sorta di annessione di fatto. Nel lungo tramonto di Berlusconi c’è spazio per una tutela puntigliosa del patrimonio aziendale e familiare, ma è inutile cercare l’antico spirito battagliero. Oggi il copione è un altro, il che non significa che Berlusconi non stia facendo politica, sia pure in una chiave del tutto difensiva. La novità è che non corre più di qui e di là come un tempo in una sorta di campagna elettorale perenne, attività non a caso sganciata dall’imminenza di un ritorno alle urne. Era uno stato d’animo, un modo per stare connesso in permanenza con l’opinione pubblica. Proprio quello in cui eccelle adesso l’attuale presidente del Consiglio. Quel che comunque non accadrà è che la nuova legge elettorale veda la luce in tempi molto rapidi, come desidera Renzi. Le rigidità parlamentari non sono da sottovalutare, senza contare che non tutti i protagonisti di questa lunga fase istruttoria dicono quello che fanno o fanno quello che dicono.

Repubblica 12.11.14
Gli alleati invisibili, scena ottava quei vertici seriali un po’ clandestini
di Filippo Ceccarelli


NEL corso del 2014 il presidente Renzi e Silvio Berlusconi si sono già visti sette volte. E anche se l’incontro di oggi sarebbe l’ottavo, conoscendo un po’ i due soggetti nulla vieta di pensare che qualche appuntamento sia sfuggito alla pubblica opinione — il brivido clandestino essendo privilegio degli innamorati, come dice D’Alema.
Conviene comunque attenersi all’ufficialità. Per cui il primo abboccamento, conclusosi all’insegna della «profonda sintonia », avvenne il 18 gennaio al Nazareno con gran spolvero di dettagli, uno dei quali ambientava il colloquio fra le due ristrettissime delegazioni sotto un poster raffigurante Che Guevara che giocava a golf.
Ancorché misterioso nei suoi termini e nei suoi sviluppi, il patto sulla legge elettorale venne poi accompagnato da singolari apprezzamenti dei protagonisti, fra calcio e devozione. «Vi è piaciuto il cucchiaio?» s’inorgoglì dunque Renzi evocando i gol di Totti; mentre all’house-organ del berlusconismo, il settimanale « Chi », parve opportuno segnalare che l’auto del Cavaliere era entrata nella sede Pd dal lato di una chiesa, Santa Maria in Via, nota per detenere una sacra immagine della Vergine particolarmente miracolosa.
E adesso non è per mancare di rispetto alla pretesa Madonnina dell’Italicum, ma dopo il secondo incontro, 19 febbraio, alla Camera, l’elemento sacro decisamente cedeva al profano, e oltre, se è vero che per scaldare l’atmosfera — cosa per lui fondamentale — Berlusconi s’era messo a raccontare le sue rinomate conquiste femminili e giovanili, con nomi e cognomi, fino a scandalizzare Delrio.
Ragion per cui, conclusosi il colloquio pure in quel caso finalizzato alle più indecifrabili e soporifere articolazioni d’ingegneria elettoralistica, il giovane premier aveva potuto riconoscere a proposito del suo anziano interlocutore: «E’ ancora il numero uno, in gran forma, un cazzaro insuperabile».
Spesso e volentieri il potere vive (anche) di queste cose: otto incontri, e ben tre dalla fine dell’estate, dicono molto, ma nascondono quasi tutto. Per forza di cose e di orari — non se ne abbiano a male i retroscenisti — non di rado i contenuti di queste riunioni di vertice restano avvolti nel prevedibile e nel generico.
Sui quotidiani del giorno dopo lo schema grosso modo si ripete. Da fonte berlusconiana si intuisce che il Cavaliere, ai servizi sociali ma pur sempre uno statista, dà al premier consigli di politica estera, Ucraina, Siria, Libia, addirittura. Da parte renziana s’indovina regolarmente una gran fretta e un’immensa determinazione perché lui non vuole perdere tempo. Così sono sempre contenti entrambi, i due massimi comunicatori.
E però. La cosa incredibile, in una civiltà che come l’odierna è fondata sull’immagine, è che di tutti questi ripetuti e frequentissimi incontri non s’è mai vista una foto, che sia una. Non solo, ma al termine di una sommaria per quanto diligente indagine iconografica ci si sente autorizzati a concludere — cosa obiettivamente significativa nella sua bizzarria — che nella più diffusa abbondanza di archivi e immagini on line non esistono proprio foto di Berlusconi e Renzi insieme. Nemmeno in passato, né allo stadio, né in qualche cerimonia, a teatro, in Parlamento, fuori Italia, a messa, per strada, per sbaglio, niente.
Così s’è venuto a sapere che il 14 aprile Silvione s’è precipitato a Palazzo Chigi lasciando a bocca asciutta 200 imprenditori che avevano pagato mille bombi per mangiare con lui a villa Gernetto; che il 3 luglio Renzi l’ha accolto a colazione nel suo appartamento per ben due ore; che il 6 agosto gli ha fatto fare un bel giro per gli uffici dopo averlo preso sottobraccio come un buon figliolo; che il 17 settembre il Cavaliere ha rassicurato gli onorevoli renziani Guerini e Lotti, milanisti convinti, sul suo ruolo di presidente; e che invece il 5 novembre niente Milan, niente piccante auto-gossip e niente barzellette, che pure naturalmente le altre volte sono risuonate.
Frattanto l’Italicum tentenna, il Job act pencola, i conti non tornano, la corsa per il Quirinale è incerta. Ma in questa mancata, anzi negata trasparenza Berlusconi e Renzi sono veramente e soprattutto d’accordo. Si direbbe il patto dell’invisibile e del non-visto. Curioso, no?

Il Sole 12.11.14
L'interesse del Cavaliere
La politica in numeri
di  Roberto D'Alimonte


Quello dell'altra sera è stato un vertice di maggioranza particolarmente affollato. La cosa curiosa è che il tema in discussione era una riforma elettorale il cui obiettivo è quello di abolire la necessità in futuro di vertici del genere.
Infatti, il pezzo forte del nuovo Italicum concordato ieri dentro la maggioranza di governo è il premio alla lista. Con questo meccanismo il vincitore delle elezioni non sarà più una coalizione di partiti e partitini litigiosi, ma un solo partito. Con il premio alla lista e il doppio turno il partito vincente avrà la maggioranza assoluta dei seggi e governerà da solo. Punto. Non ci saranno più vertici. Ci saranno ancora conflitti e mediazioni, ma saranno tutte interne al partito di governo. Come avviene in tante democrazie occidentali.
Qualcuno farà notare che questo non è del tutto vero. Le piccole formazioni che puntano al governo, a differenza di quelle che preferiscono l'opposizione, faranno di tutto per ottenere posti nelle file di uno dei grandi partiti per assicurarsi qualche seggio. In questo caso si faranno dei listoni. È possibile che questo accada, ma anche se così fosse la decisione dei piccoli di cercare posti nelle fila dei grandi non sarà che il preludio alla loro sparizione definitiva. Si confonderanno con i partiti ospitanti e alla fine spariranno lì dentro. Per evitare questa fine dovranno correre da soli e puntare a superare la soglia di sbarramento. Staranno in Parlamento, ma non al governo.
La soglia unica al 3% è uno degli ingredienti dell'accordo dell'altro ieri. È bassa ma non ha importanza. Era noto che Ncd avrebbe proposto a Renzi il premio alla lista in cambio di una soglia bassa. L'obiettivo prioritario di Alfano è quello di non essere costretto a fare alleanze, soprattutto con Berlusconi. Con un premio alla lista, inserito in un sistema elettorale decisivo, una soglia bassa non fa danni. Farebbe danni solo se il sistema non fosse decisivo, cioè se le elezioni non determinassero con certezza un vincitore con la maggioranza assoluta dei seggi. In tal caso i partitini sopravvissuti alla soglia avrebbero un notevole potere di ricatto. Per questo motivo non sarebbe una buona idea far rientrare questo potere di ricatto con il meccanismo dell'apparentamento tra primo e secondo turno nel caso sia necessario un secondo turno.
E adesso Berlusconi che farà? L'accordo dell'altra sera non si discosta per molti aspetti da quello che lui stesso aveva fatto con Renzi al Nazareno e dopo. Molte delle modifiche concordate, come la soglia al 40% per il ballottaggio e la reintroduzione delle preferenze, sono cose su cui c'era già un'intesa di massima tra Renzi e Berlusconi. Il nodo è il premio alla lista.
Come abbiamo scritto più volte, questo meccanismo non va bene a Forza Italia. Berlusconi, dalle voci che circolano, lo aveva promesso a Renzi già a settembre. Ma non aveva fatto i conti con il suo partito. Oggi gli interessi del cavaliere non coincidono con quelli di Forza Italia. Il conflitto è evidente. Da una parte ci sono i suoi interessi di imprenditore, dall'altra quelli del partito che lui ha fondato. In questo momento la Mediaset di Berlusconi è come la Fiat di una volta: non può che essere governativa. Sono troppi i rischi legati alla regolamentazione del settore delle tv e delle telecomunicazioni in un momento in cui tutto sta cambiando e il centrodestra non ha vere chance di vincere le prossime elezioni. E poi c'è il legittimo desiderio di non finire ai margini delle decisioni politiche che contano, Quirinale in primis. Insomma dal suo punto di vista Berlusconi ha ragione a voler mantenere un buon rapporto con il premier. Il problema è che il suo partito non ne vuole pagare il prezzo. Per esempio, sotto forma di premio alla lista.
Dopo tanti anni durante i quali il conflitto di interessi di Berlusconi è stato additato come uno dei mali della politica italiana, oggi le cose sono cambiate. Gli interessi del Berlusconi imprenditore coincidono con quelli del Paese. Può sembrare curioso ma è così. Il Paese ha bisogno di riforme. L'Italicum è una buona legge elettorale. Con il premio alla lista sarebbe anche migliore. La riforma costituzionale si deve fare. Il Paese ha bisogno di collaborazione tra le forze politiche orientate a governare. Siamo convinti che anche dopo il vertice dell'altra sera ci siano margini di trattativa sia sulla soglia di sbarramento che sulle preferenze. Una soglia al 4% non sarebbe uno scandalo. E a maggior ragione si può trovare un compromesso sul mix preferenze-lista bloccata. Tutto sta a vedere se Berlusconi riuscirà a convincere il suo partito che stare al gioco con Renzi vale la candela. Non dovremo aspettare troppo. Il premier appare deciso a sbloccare l'impasse sulle riforme, a cominciare da quella elettorale. E fa bene.

Repubblica 12.11.14
Jobs Act, altro fronte nel Pd
La minoranza insiste “Non va approvato subito”
Damiano attacca sull’articolo 18
di Giovanna Casadio


ROMA Sembrava che la lacerazione nel Pd si riuscisse alla fine a evitare, che il compromesso sul Jobs act alla vigilia della presentazione degli emendamenti in commissione Lavoro e della direzione dem che questa sera ne discuterà, fosse a un passo dall’approdo. Ma ieri è ricominciato lo scontro tra il governo, la maggioranza del partito e la sinistra dem. Non sono bastati gli incontri, il continuo scambio di mail e sms. Da un lato Cesare Damiano, l’ex sindacalista Fiom, presidente della commissione Lavoro di Montecitorio e il capogruppo dem Roberto Speranza, dall’altro i ministri Boschi e Poletti, il vice segretario Lorenzo Guerini e il responsabile Economia del Pd, Filippo Taddei. «Non si può andare avanti sempre chiedendo il “più uno”, non si può strizzare l’occhio alla linea della Cgil ignorando qual è la posizione prevalente nel partito», è stato lo sfogo di Taddei alla fine di una giornata di trattativa. Poi magari qualcosa si muove: si ostinano a sperare i “pontieri” sicuri che sull’articolo 18 e il reintegro, Renzi non possa fare del tutto orecchie da mercante.
Ma intanto su un punto preliminare la sinistra esce sconfitta. Renzi non ha voluto sentire ragioni: il Jobs Act va fatto subito, il Parlamento ne deve discutere prima della legge di Stabilità. Esattamente il contrario di quanto aveva chiesto la minoranza con tanto di documento firmato da Stefano Fassina, Gianni Cuperlo, Pippo Civati, Francesco Boccia, Alfredo D’Attorre. E lo stesso Damiano ammette che sul Jobs act la possibilità che la mediazione fallisca oppure vada in porto è al «50 e 50». Oggi il termine per gli emendamenti scade alle 16, entro quell’ora la sinistra dem dovrà decidere se presentare i 7-8 che erano stati già depositati al Senato e che poi la fiducia ha spazzato via. Fassina non ha dubbi: «L’articolo 18 deve prevedere il reintegro anche per i licenziamenti senza giusta causa per ragione economiche. Anticipare il Jobs Act rispetto alla legge di Stabilità non va bene, è un punto politico molto rilevante: prima ci deve essere chiarezza sugli stanziamenti per gli ammortizzatori sociali». Ma le «correzioni» non riguardano solo l’articolo 18. Le elenca Damiano. Sono sul de-mansionamento se un’azienda entra in crisi e che però va concordato con le rappresentanze sindacali e non deve prevedere danni salariali; sull’uso dei voucher; sui controlli a distanza che non possono però riguardare le prestazioni dei lavoratori. Le posizioni si irrigidiscono, si torna alla casella di partenza con il governo che invita a votare il Jobs act come uscito dal Senato e poi nei decreti ci saranno le modifiche. E intanto chiede alla sinistra dem di non presentare emendamenti. «Niente da fare», è la risposta dei dissidenti che quindici giorni fa erano in piazza con la Cgil. Stamani si tenta l’ultimo compromesso per cercare di buttare acqua sul fuoco anche dello sciopero generale.

La Stampa 12.11.14
La marcia degli specializzandi in Medicina: attesa una pioggia di azioni legali
Dopo la convalida del concorso di specializzazioni mediche il caos è tutt’altro che finito: l’ultima parola sui test spetterà al Tar del Lazio, a cui migliaia di partecipanti hanno fatto o faranno presto ricorso per l’incredibile errore del Cineca che ha confuso i quesiti di due aree
di Lorenzo Vendemmiale

qui

Il Sole 12.11.14
Sanità, si possono tagliare 22 miliardi
Il rapporto Glocus. «Possibile risparmio del 20% in Asl e ospedali in cinque anni»
di Roberto Turno


La revisione e la trasparenza di tutti i costi, anche degli attuali costi standard. La lotta senza quartiere alla corruzione, che è possibile e a portata di mano. Una cura massiccia di e-health per spendere meno e meglio. Un management scelto per le sua professionalità e non asservito alla politica e ai partiti. E una spuntatina d'unghie al potere regionale, riportando la barra al centro, con un'Agenzia nazionale che garantisca trasparenza, confronti e concorrenza tra pubblico e privato, monitoraggi costanti e un universalismo effettivo da nord a sud. Cinque carte per vincere (e risparmiare) al tavolo della spesa sanitaria. Per cambiare il dna del Ssn e salvare, migliorando la qualità dei servizi. Fino a far risparmiare il 20% ad asl e ospedali: 22 mld in meno in 5 anni.
La sfida per fare dappertutto del Ssn una casa di vetro capace di coniugare buona (e minore) spesa e servizi all'altezza, arriva dal «Rapporto Glocus» che sarà presentato domani a Roma, presente la ministra Lorenzin. Un rapporto che arriva nel bel mezzo dell'esame della manovra 2015 con i governatori in allarme per i tagli che, sostengono, rischiano di ridurre pesantemente proprio i servizi sanitari. Ma Linda Lanzillotta (Scelta civica), vice presidente del Senato e presidente di Glocus, la pensa diversamente. «Ogni anno si drammatizzano le riduzioni di spesa. Senza mai fare una vera analisi dei fattori di costo e di come potrebbero essere fortemente ridimensionati anche migliorando qualità e prestazioni». Col sottinteso che l'eccesso di potere conquistato in questi anni dalle regioni, ha attribuito loro una logica di «condizionamento» che ha drenato risorse a settori strategici per indirizzarle alla sanità.
La revisione dei costi, secondo lo studio, deve partire dall'aggiornamento della rimunerazione (Drg) degli interventi in ospedale: vecchi, maturi, che non premiano le novità tecnico-scientifiche e rappresentano un deficit per il Ssn ma talvolta un surplus per i privati. Poi proseguire con un nuovo elenco degli ausili ai disabili, fermo a 15 anni fa e sganciato dalle tecnologie. Paradossi tali, spiega Lanzillotta, che il Ssn talvolta «rimborsa al fornitore un prezzo più alto di quello che si trova al negozio».
Un cambio di paradigma in cui anche le imprese dovranno però fare la loro parte. E che si aggiunge alla revisione degli attuali costi standard: «Sfatiamo – afferma la presidente di Glocus – il mito dei costi standard e della mitica siringa: così, oggi, lo standard incorpora inefficienze e sprechi. Mentre va fatto sui processi più virtuosi da prendere come riferimento anche con un'analisi dei prezzi grazie alla sanità elettronica». Non a caso la digitalizzazione (che una volta ancora spacca nord e sud d'Italia) dovrà essere la cartina di tornasole del cambiamento. In un combinato disposto con la trasparenza massima del sistema e il contrasto senza moratorie alla corruzione e all'onnipotenza della politica. «Management scelto e valutato su base professionale – è la parola d'ordine – garantendo massima autonomia dalla politica». Altra scommessa. Che dovrà avere in una Agenzia» nazionale il garante dei nuovi processi e del cambio di passo. Il faro sul cambiamento con le spie sui comportamenti locali sempre accese. E portare a 22 mld di risparmi («anche da reinvestire in sanità») in cinque anni.
«Su 200 mld di spese regionali 115 vanno in sanità, 72,5 ad altre politiche e 12,5 a spese di amministrazione. Esclusa la sanità, gli apparati burocratici locali varrebbero il 17% della spesa gestita. Non si impone, dunque – domanda Lanzillotta – un ripensamento sul numero, il ruolo e il costo delle Regioni?».

Corriere 12.11.14
In Italia mancano le donatrici per la fecondazione eterologa
Gli ospedali chiedono all’estero
Le regole in Italia, tutto gratuito
I rimborsi negli altri Paesi
I profili delle donne che donano
di Simona Ravizza


MILANO L’Italia è senza donatrici per la fecondazione eterologa. E va in cerca di ovuli all’estero. Guido Pennings, docente di etica alla Ghent University del Belgio, non ci ha mai girato intorno: «L’altruismo è il fattore più importante nella donazione di ovociti, ma il compenso finanziario è una ragione convincente». Bene. Noi siamo in alto mare su entrambi i fronti. Senza campagne di sensibilizzazione, le donne non sono messe nella condizione di donare le proprie cellule riproduttive. L’idea di proporre un compenso, poi, anche a titolo di rimborso spese, è ben lontana dalla mentalità corrente.
Il risultato: a sette mesi dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha reso possibile tentare di avere un bambino con gli ovuli di un’altra donna, l’Italia fa i conti con l’assenza di ovociti e di donatrici a titolo volontario e gratuito. L’ospedale Careggi di Firenze, il più organizzato a livello nazionale per la fecondazione eterologa, ha deciso di rivolgersi all’estero. Il 29 ottobre è uscito sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea un avviso di gara: «L’azienda ospedaliera universitaria Careggi intende conoscere quali istituti, in possesso dei necessari requisiti, sono interessati a collaborare, all’occorrenza, per l’approvvigionamento di gameti». Il termine per le candidature è il 16 novembre. I centri fornitori dovranno garantire la tracciabilità dei campioni biologici e la consegna di gameti femminili al massimo entro 72 ore dalla richiesta, mentre il Careggi si impegna ad avvisare dell’imminente arrivo l’Ufficio di sanità marittima e di frontiera.
Una decisione tutt’altro che isolata. Quella di rivolgersi ai centri di riproduzione esteri è una soluzione che va per la maggiore, anche tra i privati (come il Demetra, tra i più importanti della Toscana, pronto alla firma di un contratto a giorni).
Negli ultimi incontri tra esperti, a Firenze e a Roma, stanno affiorando altre strade percorribili. Una è il social egg freezing a titolo solidale. È l’intervento che permette di congelare gli ovociti in giovane età, per poter posticipare la maternità. Adesso l’idea — sostenuta dalla ginecologa Elisabetta Coccia, alla guida del Cecos (il Centro studi per la conservazione di ovociti e sperma umani) — è di regalare la crioconservazione dei propri ovuli alle giovani disponibili a donarne la metà. Tra gli ospedali pronti a proporla, il San Raffaele di Milano. Un’altra ipotesi è il gametes crossing , ossia l’incrocio di donazioni anonime. Lo promuove l’Associazione per la donazione altruistica e gratuita di gameti. «Una parente o un’amica che desidera aiutare la coppia infertile dona i propri ovociti a un centro di fecondazione — spiega la psicologa giuridica della Sapienza Laura Volpini —. Il centro a sua volta darà gratuitamente altri ovociti, donati in modo anonimo, alla coppia bisognosa». Terza proposta, l’ egg sharing , dove la paziente che si sottopone a trattamenti per se stessa (fecondazione omologa) dona i propri ovuli in sovrannumero a un’altra. Dalla Casa dei diritti di Milano, la ginecologa Alessandra Vucetich sintetizza: «Sono tutte soluzioni messe in campo per aggirare il vero problema. Non abbiamo una cultura della donazione». La costituzionalista Marilisa d’Amico: «Così la sentenza della Consulta rischia di restare inapplicata».

Repubblica 12.11.14
“Il tritolo per Di Matteo è già a Palermo”
La soffiata di una fonte rivela il piano dei clan: in fase avanzata i preparativi per un attentato al pm della trattativa Stato-mafia
L’esplosivo nascosto in più luoghi
Vertice del pg Scarpinato con i Gis e i Nocs inviati dal Viminale. Super misure di sicurezza
di Salvo Palazzolo


PALERMO L’allerta è tornata altissima attorno al pubblico ministero Nino Di Matteo, il magistrato del pool “trattativa” che il capo di Cosa nostra Totò Riina vuole morto. Una fonte ritenuta dagli inquirenti «molto attendibile » ha svelato che da mesi le famiglie mafiose palermitane stanno raccogliendo esplosivo per un attentato a Di Matteo. La fonte ha spiegato pure che un carico di tritolo sarebbe già nascosto in diversi punti di Palermo. Di più non si sa, la fonte è protetta da un rigido segreto investigativo. Però, proprio in questi giorni, anche l’ultimo pentito di mafia, Antonino Zarcone, ha parlato di un progetto di attentato nei confronti di Nino Di Matteo: «Era coinvolta pure la mia cosca, quella di Bagheria», ha spiegato.
La nuova emergenza sicurezza è stata subito comunicata dal procuratore reggente di Palermo, Leonardo Agueci, al Viminale. E ieri mattina, nella stanza del procuratore generale Roberto Scarpinato sono arrivati da Roma gli “specialisti” delle teste di cuoio, i Gis dei carabinieri e i Nocs della polizia, per partecito pare a un vertice con i magistrati e con i responsabili delle forze dell’ordine. Oggetto dell’incontro, il potenziamento del piano di sicurezza attorno al pubblico ministero che Riina citava durante le sue passeggiate all’ora d’aria, non immaginando di essere intercettato. «E allora organizziamola questa cosa... Facciamola grossa e non ne parliamo più». Questo diceva il padrino di Corleone al boss pugliese Alberto Lorusso: una telecamera della Dia ha ripreso Riina mentre esce la mano sinistra dal cappotallerta. e mima il gesto di fare in fretta. «Perché questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile ucciderlo, un’esecuzione come a quel tempo a Palermo».
Al palazzo di giustizia nessuno vuole commentare l’ultima Il clima è teso. I controlli sono stati rafforzati anche attorno agli altri magistrati del processo per la trattativa “Statomafia”, il procuratore aggiunto Vittorio Teresi e i sostituti Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Controlli intensificati pure attorno al palazzo di giustizia: resta un mistero l’incursione nella stanza di Scarpinato, a fine agosto, qualcuno ha lasciato una lettera di minacce sulla scrivania del procuratore generale.
Adesso, le attenzioni investigative sono tutte concentrate sulle parole della fonte. E sulle rivelazioni del pentito Zarcone, che da venti giorni parla con i pm di Palermo degli ultimi segreti di Cosa nostra. Zarcone era uno dei capi della famiglia di Bagheria, due anni fa era spesso a tavola con i padrini più in vista di Palermo. Alcuni filmati dei carabinieri del Reparto Operativo ritraggono i boss mentre escono da “Ma che bontà”, uno dei locali in della città. Nessuno ha mai saputo di cosa si discuteva a tavola.

Corriere 12.11.14
Fondazioni, così la scure fiscale taglia i fondi per lavoro e scuola
di Fabio Savelli


A Lucca (e provincia) potrebbero mancare i fondi necessari per ristrutturare gli edifici scolastici. A Padova il timore è che vengano ridotti gli incentivi per ricollocare i lavoratori over 50, estromessi dalle aziende manifatturiere fallite per colpa della Grande Crisi. Ad Ascoli Piceno gli interrogativi riguardano le misure a sostegno dell’autosufficienza, per ora un piccolo palliativo per chi si occupa di familiari con patologie invalidanti. A Fossano (Cuneo) lo spauracchio è invece la riduzione di taglia del Fondo emergenza sociale, utile a sostenere le famiglie destinatarie di sfratti esecutivi perché impossibilitate a pagare affitti e mutui.
Potremmo definirli «danni collaterali» dell’aumento dell’imposizione fiscale per le 88 fondazioni bancarie, ipotesi contenuta nella legge di Stabilità appena “incardinata” in Parlamento. Maggiore tassazione che si esprimerebbe sotto forma di riduzione della quota di esenzione sui dividenti percepiti che scenderà dal 95% al 22,26% e che avrebbe anche effetti retroattivi impattando sull’esercizio in corso costringendole ad attingere ai fondi di riserva per coprire buchi (non preventivati) di bilancio.
Che fine fa il «welfare partecipativo» — per dirla con le parole del premier Matteo Renzi — convinto sostenitore della «governance sociale allargata alla partecipazione dei corpi intermedi e del terzo settore»? Il paradosso è che la misura non riguarderà i soggetti profit, per i quali la quota di esenzione resterà immutata.
«In Europa siamo l’unico Paese che non prevede alcun beneficio per la filantropia», attacca Giuseppe Guzzetti, presidente dell’Acri, l’Associazione delle casse di risparmio. Gli fanno eco dalla fondazione Cariparo (Padova e Rovigo) che calcola un multiplo (fiscale) di 15 volte e mezzo per il 2015 se l’ipotesi dovesse diventare realtà «con un taglio alle erogazioni per la collettività di otto milioni di euro». Marcello Bertocchini, direttore della fondazione Cassa di risparmio di Lucca, parla di un (mancato) assegno «per tre milioni di euro che inciderà sull’assistenza alla categorie più deboli». Mentre Vincenzo Marini, vicepresidente Acri e numero uno della Cassa di risparmio di Ascoli Piceno, invita a copiare (per una volta) le best practice nordiche che incoraggiano il secondo welfare contestualmente alla riduzione del «pilastro pubblico» per effetto delle politiche di austerity. Renzi l’ha appena definito «primo settore» (e non più «terzo»). Così non rischia di essere l’ultimo?

Corriere 12.11.14
Scontro politico sulle multe
Il giorno più lungo di Marino


Si comincia da Totò e Alberto Sordi, si finisce allo psicodramma. Con un sindaco, Ignazio Marino, che mai come stavolta è stato vicino alle dimissioni. Tutta colpa delle multe prese dalla Panda rossa del chirurgo dem per un pass alla Ztl (zona a traffico limitato) scaduto. Il caso si è trasformato prima in una spy story e poi in un «pasticcio» amministrativo. La vicenda ha esposto il sindaco ad una vera e propria figuraccia e ha messo in luce le debolezze (e le inadeguatezze) di alcuni dirigenti chiave del Campidoglio. Marino aveva denunciato una presunta «manipolazione informatica» per «creare un dossier» contro di lui, ma è stato palesemente smentito dalla ricostruzione del senatore Andrea Augello (Ncd): nessun hackeraggio, solo un marchiano errore degli uffici, che hanno consegnato a Marino due stampate frutto di due ricerche diverse. In una il pass temporaneo (o sarebbe meglio dire retroattivo) c’era, nell’altra no. I dati sono ancora lì, nessuno li ha contraffatti. E il dossier, se c’è stato, è stato creato per coprire una dimenticanza degli uffici. Marino dovrà cercare dentro casa sua i colpevoli. E da ieri sera è un sindaco decisamente più debole.

Repubblica 12.11.14
Roma, Marino sotto assedio, il multagate è un pasticcio
Voci di dimissioni, lui resiste
Augello di Ncd: ecco la prova che nessuno ha manipolato i dati del sindaco
Il Pd: attacco politico. Renzi: un sindaco si giudica per quello che fa
di Giovanna Vitale


ROMA Il giorno più difficile di Ignazio Marino inizia di buon mattino, quando il senatore Ncd Andrea Augello, che del multagate ha fatto ormai una questione personale, annuncia «due buone notizie: il ritrovamento del permesso abusivamente retrodatato rilasciato alla famosa Panda rossa del sindaco di Roma e l’identità del manipolatore del sistema informatico». Ovvero, il medesimo inquilino del Campidoglio: «È lui ad aver elaborato il dossier falso», tuona Augello, «non c’è nessun hacker». Sbugiardando con tanto di prove — due diverse interrogazioni al database che il chirurgo dem pretendeva violato — la versione sulla sparizione del pass temporaneo che lo avrebbe esentato dal pagamento di otto multe elevate quest’estate alla sua auto privata per ingresso non autorizzato in centro storico.
Da lì in poi è un susseguirsi di voci incontrollate: Marino si dimette; no, non si dimette; caccia via il suo capo di gabinetto (colui che ha acquisito i documenti sulla manomissione del database, poi rivelatasi farlocca, spingendolo a denunciare tutto ai carabinieri); no, se lo tiene e fa finta di nulla. Lo staff non sa cosa fare, annuncia «una risposta ufficiale», che però non arriverà mai. In Campidoglio, dove il sindaco si asserraglia finché può alla ricerca di una via d’uscita, regna il caos. Il suo “cerchio magico” insiste perché mandi via il capo di gabinetto, Luigi Fucito, che però nega qualsiasi suo «coinvolgimento », e Marino a resistere: «Sarebbe come ammettere di aver sbagliato e io non ho sbagliato, si è trattato di una semplice dimenticanza », ripete sino allo sfinimento. Per decidere tuttavia non c’è tempo: a metà pomeriggio deve uscire, andare a Palazzo Valentini, 300 metri in linea d’aria, presiedere l’assemblea della città metropolitana. Inforca la bicicletta ma le Iene sono lì, vogliono fargli qualche domanda, chiedere del permesso scomparso e poi ricomparso, il sindaco non vuole, tenta di sgusciare e rischia di cadere. Deve rientrare. Salire su un’auto di servizio blindata. Più sicura. È la scelta giusta. Nel palazzo vicino lo aspettano giornalisti e contestatori. Urlano: «Marino devi pagare le multe», lui chiede l’intervento della polizia. Poi infila l’uscita sul retro e fugge via.
È sempre più solo, il primo cittadino. Né il Pd, né Sel, dopo la pressante richiesta di dimissioni avanzata dal centrodestra (che domani presenterà in consiglio comunale una mozione di sfiducia), intervengono per aiutarlo. Il braccio destro di Renzi al Nazareno, Lorenzo Guerini, chiama i vertici del partito locale per chiedere cosa sta succedendo. È sconcertato, il vicesegretario dem, preoccupato anche, ordina ai suoi di riportare la calma: «In questo momento non possiamo permetterci una crisi a Roma», taglia corto. Consigliando di gestire la situazione e di garantire a Marino «un minimo di tenuta ». Una rassicurazione che il segretario romano Lionello Cosentino trasmetterà al sindaco in una lunga telefonata pomeridiana. Tradotta, a sera, nella difesa pubblica espressa dai capigruppo di maggioranza convocati d’urgenza.
È solo allora che i partiti del centrosinistra si risolvono a fare quadrato: «È del tutto evidente che il sindaco di Roma è bersaglio di un attacco politico a fronte di una mera dimenticanza amministrativa degli uffici», dicono in un comunicato congiunto. Vicenda chiusa? Non proprio. È già notte quando intervistato a Porta a Porta il premier Renzi dice sibillino: «Le vicende delle realtà locali devono essere affrontate dalle realtà locali», premette, derubricando la crisi della giunta romana. «Non conosco la vicenda, so che ci sono polemiche, ma il principio per me è che un sindaco deve essere giudicato per quel che fa, se sbaglia è giusto che ne paghi le conseguenze sennò va avanti». La telenovela del multagate potrebbe non essere finita.

Repubblica 12.11.14
Marino e il reato di goffaggine
di Francesco Merlo


QUANDO , per evitare le Iene, è caduto dalla bici tutti hanno capito che la goffaggine di Marino non è reato, ma politicamente è peggio, perché il delitto si persegue e la goffaggine si deride. È stato facile rimpiangere le mascalzonate vere dei sindaci d’ antan quando Marino è scappato dall’uscita di emergenza di Palazzo Valentini sbattendo la testa sullo stipite.
C’ERA forse la grandezza del castigo nell’orizzonte degli amministratori ladri di una volta, sicuramente la solennità dei giudici e delle leggi. E invece Marino, gridando ai giornalisti che aveva «cose ben più importanti di cui occuparsi», è finito nella comicità da barzelletta quando ieri sera ha convocato un vertice di maggioranza per discutere della Panda Rossa, che non è la Uno Bianca degli assassini, ma la sua utilitaria multata nove volte dal sistema automatico che registra gli ingressi delle auto nel centro storico senza guardare in faccia nessuno. La spietata telecamera si è infatti comportata alla Otello Celletti, il Vigile interpretato da Alberto Sordi che, inflessibile, multò il sindaco Vittorio De Sica e ovviamente finì male, proprio come è finito male il sistema informatico del Comune che Marino ha denunciato ai carabinieri e che sarebbe ora che chiudesse un occhio (elettronico).
Il fatto è che, per non pagare le contravvenzioni, il sindaco di Roma si è inventato un pass cancella multe e poi ha cercato di applicarlo retroattivamente. E quando, maldestro, non lo ha più trovato nel sistema informatico del Comune è andato dai carabinieri ad accusare i soliti ignoti che lo perseguitano: «Mi hanno teso una trappola ». Non c’era stato nessun furto ma, nel frattempo, come nei film di Steno e di Monicelli, Marino scappava, sbatteva e cadeva. Andava infatti in confusione ogni volta che i giornalisti gli chiedevano chi davvero stesse alla guida della famigerata Panda non solo ha violato nove volte la zona proibita ma è stata pure lasciata posteggiata per un anno e mezzo nel parcheggio del Senato senza che il sindaco ne avesse il diritto, visto che non è più senatore. E dunque ogni mattina, uscendo di casa, il tapino non rischiava di affrontare le manifestazioni degli operai licenziati, o degli studenti, o dei vi- urbani in rivolta, come può capitare ai sindaci di Milano, Bologna e Palermo. No, il sindaco si trovava sotto casa quelli che urlavano contro la sua Panda.
Certo, un altro le avrebbe pagate tutte quelle nove multe, magari facendo notare il paradosso del sindaco che non può circolare nella città che è stato chiamato a goverche nare, anche se la macchina è privata, il permesso era scaduto e lui aveva dimenticato di rinnovarlo. E come sempre avviene nella comicità, ora c’è chi dice che guidava la moglie, chi corregge «no, era la domestica filippina», e c’è anche chi si spinge più in là. Così la farsa diventa gossip, nello stile di Roma, perché Marino non parla, non spiega, ha balbettato quattro differenti ricostruzioni, tirando in ballo gli hacker e «il complotto politico ». Mancano solo la Spectre e il Bilderberg.
E veniva voglia di dargli una mano, l’altra mattina, quando ha inaugurato la Metro C. È entrato agitando il biglietto e dicendo «l’ho comprato», ma subito le porte si sono chiuse, le luci si sono spente e il treno non è partito: inaugurazione rimandata. La chiamano “sfiga”, e non solo a Roma. Ma certo è Roma che Marino sfida. E infatti sembra davvero il marziano di Flaiano, con la bici a posto dell’astronave, e poi l’ossessione dei curricula e quell’aria da americano nella città del «maccarone, tu m’hai provocato e io me te magno ». Quando gli ho chiesto perché sfidava l’ironia dei romani mi ha risposto che «il senso civico va costruito con i simboli» e mi ha pure raccongili tato che «a San Francisco mi hanno fatto la domanda che mi fa lei e io ho risposto che abroad mi applaudono, ma a Roma fatico». Ieri per la verità ha fatto fatica a salvarlo, dai frizzi e dai lazzi dell’opposizione, la maggioranza politica che, malgrado tutto, lo sostiene in consiglio comunale: Pd, Sel e Lista Civica. Sembra quasi che Marino lavori per gli avversari, per il senatore Augello per esempio che si dà arie da king maker della destra romana benché sia stato il consigliere fallimentare di Alemanno e anche di Fini, e ora a Marino dedica interrogazioni indignate e conferenze stampa irridenti.
A Marino l’ho detto: a sinistra circola l’idea maligna che proprio lui stia riconsegnando Roma alla destra, e si fa il nome di Giorgia Meloni. «Mi vuole spaventare? È la destra xenofoba, omofoba, la peggiore…». Appunto, sindaco Marino, è lì che può portarci la sua goffaggine, tra le braccia della reginetta di Coattonia. Dunque si ricomponga, chieda scusa, paghi le multe e, per far capire che davvero vuol ricominciare daccapo, per favore scenda da cavallo, nel senso della bici.

il Fatto 12.11.14
Caos Capitale. Il guaio delle multe
Panda letale: ora Marino rischia il posto
di Eduardo Di Blasi


Permesso scaduto per la Ztl, 8 contravvenzioni. Il sindaco aveva diritto al pass, ma si innesca il papocchio per bloccarle: supposti hackeraggi e videomessaggi. Domani in Campidoglio l’opposizione chiederà la sfiducia, Pd nel guado

Marino, multe e hacker La maledizione in Panda

DOPO LE INTERROGAZIONI DEL SENATORE AUGELLO, IL PRIMO CITTADINO DI ROMA RISCHIA LA FACCIA PER OTTO CONTRAVVENZIONI CHE IL COMUNE HA CONGELATO

Ignazio Marino gira in bicicletta. Chi lo conosce non lo ricorda alla guida di un’automobile. Eppure la sua Fiat Panda rossa rischia di farlo ruzzolare giù dal colle del Campidoglio dove fu eletto, anche con una qualche sorpresa, nel giugno del 2013.
La modesta vettura, del resto, ha prima goduto del privilegio di essere ospitata gratuitamente nel parcheggio del Senato di piazza del Parlamento, dove è stata rimossa a seguito di feroci interrogazioni sottoscritte quasi dall’intero arco parlamentare (Pd escluso) la scorsa settimana. Poi è finita in una vicenda di permessi di accesso al centro storico “fantasma” e multe non pagate.
LA STORIA è la seguente. Tra il 24 giugno e il 12 agosto scorso la Panda rossa del primo cittadino è entrata per 8 volte, senza averne il permesso, all’interno della zona a traffico limitato (Ztl) del centro storico di Roma. L’occhio elettronico che presidia i varchi, ne ha registrato la targa. I vigili, atteso che la vettura disponeva di un permesso scaduto, hanno provveduto a comminare le otto contravvenzioni per un totale di circa 640 euro.
Ora, prima di proseguire con la storia bisogna chiarire un punto. Grazie a una delibera del 1997, il sindaco di Roma ha diritto a tre pass per la Ztl. Marino, quando si insediò nel 2013, ne richiese uno soltanto. Quello per la Panda. Fu eletto il 13 giugno. Dal 23 disponeva del permesso, pagato dall’amministrazione, così come per tutti i consiglieri comunali (sono 37 quelli che, avendone fatto richiesta, lo espongono). Il 23 giugno dell’anno dopo il permesso annuale di Marino scade. E nessuno nell’amministrazione pensa di rinnovarlo. Per cui i vigili multano otto volte la Panda rossa (verosimilmente guidata dalla moglie). Evidentemente, Comune si occupa pure della gestione dei permessi nella Ztl, mette a verbale dai carabinieri (poi spiegheremo la presenza delle forze dell’ordine) che “prima del 12 agosto non c’era alcun permesso temporaneo per il sindaco”. L’amministrazione capitolina sostiene invece che il pass ha validità dal 24 giugno 2014 e il sistema informatico dell’Agenzia per la Mobilità pare confermarlo. Forte di questo dato, il Comune agisce in “autotutela”, bloccando le otto contravvenzioni del sindaco.
Un’interrogazione parlamentare del senatore di Ncd Andrea Augello (noto alle cronache anche per essere stato relatore in Giunta del Senato sulla decadenza di Silvio Berlusconi) al ministro dell’Interno Angelino Alfano ha nei giorni passati squadernato la vicenda che ha fatto in poche ore il giro di giornali, tv e Internet.
Per frenare la valanga su un sindaco poco amato anche nella sua stessa amministrazione, qualcuno ha avuto la bella idea, in Campidoglio, di mandare una volta viste piovere le multe, il sindaco deve averne chiesto conto alla propria amministrazione. Il 12 agosto – da quello che si evince dalle carte messe a disposizione dal Campidoglio – il Comune di Roma prova a metterci una pezza coprendolo con un “permesso temporaneo” di quelli che si concedono ai sindaci che vengono in visita a Roma (non a quelli che di Roma sono sindaci). E qui nasce un nuovo problema. Già perché un dirigente dell’Agenzia per la Mobilità, la società che per il Ignazio Marino in video (da Milano, dove era all’assemblea Anci) ad adombrare un “hackeraggio” del computer dell’Agenzia per la Mobilità. Il sindaco denuncia ai carabinieri e alla Procura della Repubblica di Roma che ignoti hanno “falsificato i dati relativi ai permessi di circolazione” della sua Panda. Mostra anche, a suffragare la propria testimonianza, due fogli scaricati dal sito dell’Agenzia. In uno il suo pass temporaneo c’è e nell’altro no. La procura non può che aprire un’inchiesta.
Il senatore Augello, che non è propriamente una mammola, ieri ha convocato apposita conferenza stampa per segnalare il marchiano errore in cui sono incorsi il sindaco e il suo staff.
I DUE DOCUMENTI non sono diversi per colpa degli hacker, ma per colpa della “domanda” errata posta al sistema. Nel primo foglio che Marino fa vedere non è indicata nessuna richiesta specifica. Nel secondo viene chiesto un permesso “Ztl”. Così il primo foglio ci dice che Marino ha un “permesso temporaneo”. E nel secondo, dove è formulata la richiesta specifica, non compare nulla. Non è hackeraggio, è solo l’incredibile errore di chi ha mandato Marino in video con due fogli sbagliati. Il Campidoglio, del resto, deve ancora rispondere alle domande poste da Roberta Angelilli (coordinatrice regionale di Ncd) e dal capogruppo Ncd al Comune Roberto Cantiani che domani chiederà la sfiducia per Marino nell’aula del Consiglio. Due su tutte: chi ha rilasciato il permesso temporaneo al sindaco? Perché gli sono state tolte? Dal Comune si continua a puntare sull’accesso abusivo al sistema informatico dell’Agenzia per la Mobilità che avrebbe consentito ieri mattina ad Augello di provare la sua teoria. Quegli stessi documenti, però, li aveva mostrati il sindaco in video tre giorni prima.

il Fatto 12.11.14
Nel mirino. Parabole capitoline
Ignazio, che sa procurarsi molto danno con poco
di Antonello Caporale


Ignazio Marino ha la capacità di procurarsi il massimo danno col minimo sforzo. Riesce miracolosamente a sovvertire le leggi della fisica e a dimostrare, in una città in cui hanno dimorato e continuano a risiedere parecchi ladroni patentati, come si possa rischiare di andare incontro a un processo penale e magari anche alle dimissioni da sindaco per una Panda in divieto di sosta. Colpisce qui la dimensione fanciullesca della marachella e l’elevato standard dilettantesco del suo staff. Ignazio in questo episodio sembra un incontrollabile Ciccio Capriccio mentre prova a far sostare l’auto, che dichiaratamente odia, nell’unico spazio preclusogli. L’accumulo di multe, volontarie o meno, hackerizzate o no, dà un saldo di qualche centinaia di euro, per intenderci l’equivalente di un solo pasto da Pasqualino al Colosseo consumato a scrocco da Franco Fiorito, il mitico Batman della Pisana che regalava tagliatelle quotidiane al centrodestra del basso Lazio. Eppure Ignazio nelle vesti di Ciccio Capriccio prova a darsi sulle mani, anzi sulla bici, una legnata memorabile.
Nasce infatti prima la bici e poi Marino e per quelle benedette due ruote si fa subito odiare dal popolo che amministra, notoriamente meccanizzato. Chiude al traffico il Colosseo, ed è il primo segno di un’offesa alla coscienza civile motorizzata della città, raccoglie come fosse un’agenzia interinale migliaia di curriculum per le postazioni di potere nel Campidoglio e riesce però a scegliere, nel caso della nomina del capo dei vigili, l’unico che non ha i titoli giusti. Marino è di Genova, e si nota che Roma gli sta troppo larga. Infatti la restringe pedonalizzandola appena può, e pare che la cosa gli dia un piacere incontrollabile perchè al fondo resta un chirurgo etico, vuole dimostrare che si campa meglio andando a piedi, anzi vuole insegnare a vivere invece che limitarsi a governare e far scegliere ai suoi cittadini cosa sia meglio nella vita.
Ipercinetico, permaloso, accentratore, diffida della politica e dalla politica è ricambiato con pari veemenza. Non c’è partito che non gli voglia fare le scarpe iniziando dal suo, il Pd non attende altro che toglierselo dai piedi. Eredita un Comune dissestato ma sembra che lui abbia contratto i debiti. Promuove o revoca decisioni e operazioni e sviluppa una sua personale progressione verso l’apparente. L’altra settimana comunica alla città l’allerta della Protezione civile: “State a casa e non spostatevi se non per urgente necessità”. I romani lo ascoltano e si barricano in salotto ma a sera scoprono che lui è andato a Milano: “Era tutto normale, tutto sotto controllo”. Ma come?
È RENZIANO nonostante Renzi lo sopporti, è ottimista ma ogni sfiga lo insegue. Annuncia l’inaugurazione della Metro C e però il ministero gliela fa fallire. La riannuncia un mese dopo e al viaggio inaugurale tutto si blocca. Dannazione, ma lui sorride. Roma è ingovernabile per definizione, deflagra la collera figlia della crisi economica, e la violenza delle periferie si nutre di nuovi conati di razzismo. E' una Capitale che fatica a vivere con dignità e certo non s’accorge perchè non ha tempo e non ha neanche voglia di avere un sindaco almeno onesto. Ma lui non s’accorge di Roma. Pedala da solo sulla bici.

Il Sole 12.11.14
Viminale. Fari accesi sul 14 novembre
Allerta sui cortei, si teme la minaccia dell'eversione
di Marco Ludovico


ROMA La minaccia eversiva interna rialza la testa. Quella internazionale resta negli indicatori consolidati, ma da domenica a Roma la Polizia di Stato ha scatenato non solo le indagini giudiziarie ma anche le ricerche e le verifiche, nazionali ed estere, su due magrebini fermati dopo un inseguimento: sono state ritrovate una bandiera dell'Isis e documentazione sulla guerra all'Occidente, oltre a due pistole. «Molto interessante» dicono gli investigatori. Adesso si attendono i riscontri.
Il tema principale all'ordine del giorno del ministro dell'Interno, Angelino Alfano, e del capo del dipartimento Ps, Alessandro Pansa, resta però quello dell'ordine pubblico e dei segnali evidenti di aggressività annunciati nelle prossime manifestazioni: a Napoli, Milano e Roma, quelle più importanti, e comunque in tutta Italia, venerdì prossimo. Per molti sarà una giornata campale. Le dichiarazioni di conflittualità, intanto, abbondano. Il punto è stato fatto nel comitato nazionale convocato lunedì al Viminale da Alfano con i vertici delle forze dell'ordine e dei servizi di intelligence. Certo è che i movimenti anticrisi si sono moltiplicati e le anime della protesta sono ormai un pulviscolo complicato da seguire e gestire in piazza. Ci sono studenti, precari, disoccupati, immigrati, sfrattati e molte altre categorie del disagio sociale. Scendono in campo i sindacati di base - ma anche la Fiom - nelle varie declinazioni. Non mancherà, è probabile, la presenza degli antagonisti, e i responsabili dell'ordine pubblico incrociano le dita per scongiurare la presenza di soggetti anarco-insurrezionalisti, i più temuti e da tempo sottotracccia: fatto che rende più probabile la loro necessità di riemergere e dimostrare presenza e visibilità. Non certo pacifica.
On line si trovano ormai informazioni in quantità sulle proteste in atto e in preparazione. Già annunciate, in realtà, sin da luglio: su www.zic.it, dove stanno anche le "acabnewsBologna" (dove acab sta per "all cops are bastard", tutti i poliziotti sono bastardi), il comunicato finale «della 3 giorni in Val di Susa", datato 15 luglio 2014, parla di «mobilitazione collettiva » che deve realizzarsi «il 14 novembre in prossimità della giornata delle lotte studentesche internazionali».
Su www.infoaut.org un articolo uscito proprio ieri parla senza mezzi termini: «Sotto la spinta della crisi si moltiplicano i punti di insopportabilità»; emerge, a loro avviso, una «istanza di conflitto maturata nella crisi del ciclo produttivo/riproduttivo» che «sembra che parzialmente riaggreghi reti sociali frammentate». Si riconosce una «puntiforme dimensione della conflittualità» ma si sottolinea che «i margini di espansività sono ampi». Su www.usi-ait.org, da cui è scaricabile anche «Lotta di classe» - stampa anarco-sindacalista, viene messo in evidenza come davanti allo «sciopero generale del 14 novembre» si assiste a «un dato storico che si è già puntualmente verificato» e cioè che «quando i lavoratori e le lavoratrici si battono con accanimento in difesa del proprio posto di lavoro e dei diritti acquisiti si fa ricorso alla violenza di stato a suon di manganelli, denunce e cariche poliziesche».
Domani a Roma si riuniscono i vertici delle forze dell'ordine convocati dal prefetto Giuseppe Pecoraro, analoghe riunioni delle autorità di P.s. ci saranno nelle altre città. Nella capitale i cortei di venerdì dovrebbero interessare la zona della stazione Termini e non il centro storico, ma non mancano i cosiddetti «obiettivi sensibili». Di fatto in assenza di un servizio d'ordine della Cgil, da sempre garanzia di fermezza contro gli intemperanti, i livelli di rischio per l'ordine pubblico potrebbero essere molto più alti.

Corriere 12.11.14
«Le case non si sgomberano»
Raid a volto coperto nel circolo pd Milano
Era in corso la riunione di residenti dei palazzi popolari. La solidarietà di Renzi
di Andrea Galli e Gianni Santucci


MILANO La polvere degli estintori impregna ancora l’aria nella stanza; la vernice rossa cola lungo i muri, fino al pavimento, dove restano frantumi di vetro, una cassettiera ribaltata, cartelloni rovesciati, una porta divelta. Fuori, sul marciapiede, una donna vomita, altre anziane ansimano per la fatica di respirare; un uomo, 67 anni, viene caricato in ambulanza. E in quel momento i carabinieri trovano uno striscione. La scritta: «No agli sgomberi, blocchiamo la Tav». Più che due battaglie, la frase indica uno spostamento: i gruppi anarchici si stanno concentrando sempre più sulla crisi della casa e la difesa delle occupazioni abusive. Stavolta, con un inedito livello di violenza, il messaggio l’hanno gridato con un’irruzione nella sede del Pd e del sindacato Sunia, dove erano riuniti una trentina di inquilini, per lo più anziani.
Erano le 15.30 di ieri pomeriggio, via Mompiani, quartiere Corvetto, periferia sud-est di Milano. Secondo alcuni investigatori, l’episodio è stato uno spartiacque. Un salto di livello nel conflitto sociale che percorre i quartieri popolari. La corrente anarchica che prende spazio e visibilità nel magma dell’antagonismo.
Gli anziani (una trentina) erano riuniti con Stefano Chiappelli, segretario cittadino del Sunia, e un funzionario dell’Aler, l’azienda degli alloggi pubblici. Assemblea mensile, dove gli inquilini segnalano i piccoli problemi del quartiere, dal cancello rotto alla serratura inceppata. Ieri, dal cortile interno, hanno sentito urla, cori, esplosione di petardi. Poi una decina di ragazzi con maschere nere hanno divelto la porta, muovendosi nella nebbia di un fumogeno; hanno distrutto la stanza e svuotato due estintori in un ambiente stretto, appena due stanze. Hanno spento le luci e sono scappati. L’aria s’è saturata di polvere irritante. Il sindacalista è saltato giù dalla finestra e ha aiutato gli anziani a scendere.
Su questa dinamica indagano i carabinieri, coordinati dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, dell’anti-terrorismo. Il sindaco Giuliano Pisapia ha promesso: «Non ci pieghiamo davanti alle intimidazioni, insieme restituiamo dignità alle case popolari». In serata sono arrivate le parole del premier Matteo Renzi: «In questo momento l’obiettivo è il Partito democratico».
Che il livello di scontro si sia alzato, lo dimostrano anche alcune prese di posizione di assessori comunali: hanno parlato di «fascisti» e «squadristi filoabusivi». L’«immobiliare rossa» dei gruppi antagonisti ha organizzato da oltre due anni una campagna per l’occupazione delle case sfitte. A Milano, nei primi dieci mesi del 2014, ci sono state oltre 730 nuove occupazioni. Le case popolari vuote sono oltre 5 mila e le famiglie in attesa, in graduatoria, oltre 22 mila.
Ieri si è arrivati all’attacco frontale: contro il Pd e la giunta Pisapia, accusati di essere «responsabili politici di azioni legalitarie». È stata anche un’intimidazione. Verso gli inquilini regolari. Quelli che pagano l’affitto. Quelli che segnalano se si fulmina una lampadina. Sui muri dei loro palazzi, campeggiano scritte così: «Non tirare la cinghia. Tira una pietra».

Corriere 12.11.14
Scontri e bombe carta, rivolta anti-immigrati a Roma
Assediato il centro di accoglienza per rifugiati minorenni. Dodici feriti
Il quartiere: manca sicurezza
di Rinaldo Frignani


ROMA «Per favore, portateci via da qui. Se usciamo ci picchiano, se restiamo dentro ci assaltano per picchiarci». Il terrore negli occhi dei ragazzi del centro d’accoglienza di Tor Sapienza. Ironia della sorte la cooperativa che assiste i minorenni rifugiati — africani e bengalesi — si chiama «Il Sorriso». Ma qui, in viale Giorgio Morandi, di voglia di ridere ce n’è davvero poca. Da due notti i ragazzi sono barricati nel loro palazzo, di fronte ai serpentoni delle case popolari dell’Ater, assediati da centinaia di abitanti rabbiosi per la mancanza di sicurezza nel quartiere. E ieri sera l’esasperazione è scoppiata di nuovo cavalcata da gruppi di incappucciati che hanno attaccato sia il centro sia la polizia che lo proteggeva con lanci di bombe carta, sassi e bottiglie. Il bilancio è pesante: 12 feriti, nessuno in gravi condizioni. Fra loro quattro agenti, un cameraman della trasmissione tv Virus e alcune donne, travolte dalla calca o manganellate in una delle cariche partite con i lacrimogeni per disperdere chi voleva entrare nella struttura d’accoglienza aggirando il cordone. Una notte di guerriglia, di scontri, preceduta dall’aggressione nel pomeriggio nel parco Barone Rampante di un sedicenne bengalese sorpreso fuori dal centro da cinque teppisti. Lo hanno preso a bastonate, lasciandolo dolorante a terra. «I negri fuori da questo quartiere», gridano i manifestanti. Ma in tanti sono anche convinti che il palazzo dei rifugiati sia solo un pretesto. I residenti della zona non ne possono più dei rom, degli sbandati che frequentano il parco e una chiesa sconsacrata poco lontana, degli scippi, delle aggressioni alle donne (l’ultima domenica scorsa a una ragazza che portava a spasso il cane). «Quelli del centro ci sputano, ci tirano addosso i pomodori», accusano i giovani del quartiere. La polizia non esclude che, oltre a qualche personaggio noto dell’estremismo di destra (sono stati urlati slogan per il Duce), dietro alla rivolta ci siano anche gli spacciatori di zona che vogliono le strade libere dalle volanti. Ma c’è anche chi ha paura, e sono tanti,di tornare a casa la sera con strade insicure e rischio aggressioni. Lunedì scorso si sono registrate le prime violenze, con auto e cassonetti incendiati anche in via Carrà e in via Balestrini, dove un romeno ai domiciliari è stato quasi linciato. La polizia è arrivata poco dopo per salvare il ragazzo e presidiare il centro. Ieri sera il cordone non è bastato per scoraggiare il nuovo assalto. Altri incendi, altra violenza. E potrebbe non essere ancora finita.

Corriere 12.11.14
Esplode la rivolta
Tor Sapienza: auto e cassonetti
in fiamme, protesta anti-immigrati
Seconda notte di assalti contro il centro accoglienza: 12 persone ferite negli sconti fra manifestanti e poliziotti. La protesta fomentata dai pusher della zona
di Rinaldo Frignani

qui

La Stampa 12.11.14
Roma, l’orchestra lavora 125 giorni l’anno
“Classic Voice” fa i conti in tasca alla musica in Italia. La colpa? Dei teatri che producono poco
di Alberto Mattioli


Ma insomma, quanto guadagnano? E, soprattutto, quanto lavorano? Il pasticciaccio brutto dell’Opera di Roma, con orchestra e coro licenziati in tronco (però adesso pare ci si metta d’accordo, siamo pur sempre in Italia...), ha scatenato una ridda di polemiche e di prese di posizione, anche e soprattutto da parte di chi in un teatro d’opera non ha mai messo piede.
A far chiarezza provvede una certosina inchiesta del mensile Classic Voice in edicola domani. Sono pagine di dati, che alla fine si possono riassumere così: sì, i musicisti delle Fondazioni liriche italiane lavorano poco e no, non per «colpa» loro o dell’esasperato sindacalismo, ma perché i loro teatri li fanno lavorare poco. Insomma, il solito problema dell’opera in Italia: la montagna di soldi e di personale produce un topolino, cioè delle stagioni quantitativamente ridicole rispetto a quelle del mondo civilizzato (e spesso anche qualitativamente, ma questo è un altro discorso).
Diamo i numeri. Il contratto prevede che un professore d’orchestra lavori 28 ore a settimana (30 al Regio di Torino e 33 alla Scala per accordi aziendali), per un massimo di 11 «prestazioni» settimanali e sei ore al giorno. Per «prestazioni» (massimo due al giorno) si intendono prove e recite. Escludiamo i lunedì, giorni di riposo, le festività e le ferie, in media 30 giorni all’anno (sono 45 a Berlino o Zurigo): restano circa 270 giorni lavorativi all’anno. Anzi resterebbero, perché visto che i teatri non producono, in realtà nessuno li «lavora». Gli stakanovisti stanno al San Carlo di Napoli: 167 giorni per le prime parti, 217 per le file. Seguono Torino (rispettivamente 162 e 206) e l’Arena di Verona (143 e 198). Si lavora di meno, manco a dirlo, all’Opera di Roma, con una media di 125 giorni all’anno, poi al Carlo Felice di Genova, 128 giorni, e al Maggio di Firenze, 144. La Scala si rifiuta di calcolare il lavoro in giorni, ma lo fa in «prestazioni»: l’equivalente di circa 120 giorni per le prime parti e di 150 per gli altri.
Siamo molto lontani da quel che succede in Europa. Anche perché in Italia si perpetuano evidenti assurdità. Per esempio, la regola vuole che per le prime parti sia sempre disponibile un sostituto, cui quindi viene accreditata una «prestazione» anche se non suona. Oppure alcune orchestre hanno in organico un pianista. Visto però che le opere a richiederlo sono pochissime, costui in pratica non fa nulla, anche perché non si può utilizzarlo come maestro collaboratore.
Le buste paga non sono faraoniche. Lo stipendio-base per un primo violino è di 2.288,94 euro lordi mensili, più scatti di anzianità, straordinari, indennità e così via. Le mensilità sono 14 più un premio di produzione e ovviamente i compensi variano da teatro a teatro: un orchestrale costa mediamente 93.687 euro all’anno alla Scala e 78.573 all’Opera di Roma, contro 49.348 al Petruzzelli di Bari e 58.159 a Cagliari. All’estero gli stipendi sono più alti: da 10 a 6 mila euro lordi alla Bayerische Staatsoper di Monaco, per esempio, contro una busta paga da 7 mila a 4.800 euro alla Scala.
Morale sintetica (e già enunciata mille volte): i problemi dei teatri italiani stanno nella loro scarsa produttività e nella scarsissima competenza di chi li dirige. Ma possono funzionare, magari non benissimo, ma funzionare sì, anche con le regole attuali. Prendete la Fenice, attualmente il migliore, dove si sono in pratica raddoppiate le recite senza assumere aggiunti, pagare straordinari e nemmeno «esaurire» il monte-ore di orchestrali e coristi. Ma, semplicemente, organizzandosi meglio.

Corriere 12.11.14
Roma, Genova, Firenze: record negativi all’opera
Inchiesta di «Classic Voice». Gli orchestrali della capitale lavorano 125 giorni all’anno
di Enrico Girardi


La tormentata storia dei rapporti sindacali tra lavoratori e dirigenti delle Fondazioni liriche italiane insegna che le vertenze passano ma i problemi restano, perché strutturali. Li mette a nudo un’inchiesta di Classic Voice in edicola oggi. Il mensile milanese mette a confronto i costi sostenuti dalle Fondazioni per le maestranze artistiche (orchestrali, coristi, maestri collaboratori), in relazione alla produttività.
Dati impietosi, per certi versi, ma tutti da interpretare. Si scopre per esempio che il Teatro dell’Opera di Roma, oggi nell’occhio del ciclone per la vicenda dei minacciati licenziamenti, costa in termini di personale artistico «solo» il 22% dei costi complessivi della Fondazione e rappresenta il 36% delle spese complessive per il personale. Significa che accanto ai musicisti, c’è un esercito di amministrativi e tecnici che nessuno minaccia di licenziare benché costino molto ma molto di più. Strano. Se Roma piange, nelle altre Fondazioni non si ride.
Nella stima dei giorni lavorati all’anno (dati 2013), si vede che i romani ne fanno solo 125, una miseria ma non tanto di meno dei genovesi (128) o dei fiorentini (144), mentre i più virtuosi (Napoli 217, Torino 206, Verona 198) sono comunque lontani non solo dai 300 dei musicisti di Berlino o di Monaco ma dai 270 previsti dal contratto nazionale di categoria.
Facile dare dei lavativi ai musicisti impiegati stabilmente nelle nostre Fondazioni, ma cosa fanno i sovrintendenti per aumentare il tasso deficitario di alzate di sipario, che è la vera causa dello scarso impiego della forza-lavoro? Falso inoltre quel che si dice sugli stipendi gonfiati dei musicisti. Se a Milano un orchestrale guadagna in media alla Scala dai 67.274 ai 99.552 mila euro lordi, a Roma lo stipendio si aggira sui 52.700 annui, a Bologna 40.543. Remunerazioni non certo da nababbi. In ogni caso, molto meno degli oltre 10.000 al mese che prende l’ipotetico maestro Helmut Schmidt, neoassunto come viola di fila alla Staatsoper di Monaco.
Si deve tenere conto inoltre che il lavoro di un musicista non è assimilabile a quello di un generico impiegato. Una tromba non può suonare otto ore di fila. Per «giorno lavorato» si intende una serie di prestazioni (prove, concerti, recite) che vengono conteggiate secondo parametri che hanno la loro ragion d’essere. Insomma dalle tabelle di Classic Voice si deduce che le masse artistiche dovranno rinunciare a talune anacronistiche «indennità» di cui godono ma non rappresentano di sicuro il primo e più grave problema che le Fondazioni liriche sono chiamate a risolvere.

Corriere 12.11.14
La sentenza sui sussidi che spaccherà l’Europa
La Corte europea di Giustizia ha stabilito che il governo tedesco può negare qualsiasi forma di sostegno e di assistenza sociale a un immigrato che non abbia attivamente cercato lavoro
di Giuseppe Sarcina


Il caso nasce dal ricorso presentato da una donna romena, la venticinquenne Elisabeta Dano, residente da 4 anni a Lipsia, il motore economico della Sassonia, ambita destinazione per stranieri in cerca di occupazione. L’ufficio di collocamento locale, però, non ha iscritto la giovane Elisabeta nei ruoli dell’assistenza sociale, sostenendo che non aveva fatto nulla per trovare un impiego. Il tribunale locale ha confermato questa decisione e così il dossier è finito in Lussemburgo, all’attenzione dei giudici europei che hanno chiuso la questione dando ragione ai colleghi di Lipsia.
I più reattivi sono stati i portavoce di David Cameron. Nel luglio scorso il premier britannico aveva annunciato un piano per ridurre drasticamente le protezioni del welfare anche ai migranti in arrivo dagli altri Paesi europei. In quell’occasione Bruxelles reagì seccamente. L’allora numero uno della Commissione, Josè Manuel Durao Barroso, sostenne che non erano accettabili limitazioni al diritto della libera circolazione delle persone, uno dei valori fondanti dell’Unione insieme con il movimento senza ostacoli per le merci, i servizi e i capitali.
Ora la Corte sembra offrire una preziosa e forse insperata sponda giuridica ai governi schierati contro il «benefit tourism», il turismo a caccia di sussidi. In realtà i leader in carica stanno cercando di frenare la tumultuosa crescita dei movimenti e dei partiti populisti che reclamano a gran voce misure restrittive ai confini. Da questo punto di vista il conservatore Cameron, alle prese con l’Ukip di Nigel Farage, è nelle stesse difficili condizioni della collega danese, la socialdemocratica Hele Thorning-Schmidt, assediata dal «Partito danese del Popolo». In Gran Bretagna e in Danimarca si vota l’anno prossimo. Ma la sentenza della Corte europea comparirà nella lotta politica in mezza Europa, Italia compresa.

Repubblica 12.11.14
Kefiah, ricordi e rabbia tra i palestinesi senza leader tentati dalla lotta armata
di Fabio Scuto


RAMALLAH È UN tripudio di lacrime, canti e bandiere. I nostalgici hanno tirato fuori dalla naftalina la kefiah a scacchi neri che nessuno della nuova dirigenza palestinese ha mai indossato, nemmeno Abu Mazen. I pragmatici hanno scelto invece i cappellini gialli con la visiera e il simbolo di Fatah. Ci sono numerose scolaresche venute da diverse zone della Cisgiordania, le associazioni di categoria, semplici cittadini. Molti, come fosse un santino, hanno in mano una foto di Yasser Arafat e rivolgono lo sguardo alla gigantografia che domina da dietro il palco tutta la piazza come per confrontarlo. Lui, l’icona della causa palestinese, nel grande ritratto è preso di profilo con kefiah che sapeva manipolare in modo da avere la forma della mappa della Palestina come negli anni ha manipolato quasi tutto quel che lo circondava. La vita e il mistero sulla morte ne hanno consolidato l’immagine di Abu Ammar. Ha lasciato un’eredità mista di violenza, terrorismo, conquista politica e una leggenda che ha colpito la fantasia di sostenitori e detrattori di tutto il mondo. Era un uomo di un carisma intenso e grande fascino, di carattere duro e ambizioni insondabili. Ed è questo l’Arafat che piace ricordare a questa folla, certamente meno numerosa di quella che gli tributò l’ultimo saluto dieci anni fa.
In attesa di un leader futuro, i palestinesi rivolgono così lo sguardo verso il passato. Perché il presente è fatto di divisioni, lacerazioni, odi interni che spaccano il campo palestinese. «Se c’era ancora Abu Ammar, tutto questo non sarebbe mai successo, Gaza e Cisgiordania sarebbero ancora unite», quasi sussurra Imad Rahadi, un vecchio militante di Fatah. Esprime così un sentimento diffuso nella piazza: nessuno degli attuali leader palestinesi può eguagliare la posizione unica di Arafat nella storia palestinese.
Ne è consapevole il presidente Abu Mazen che oggi ama più ricordare il compagno di lotte in gioventù che non l’Arafat che quando era premier lo mise alla porta nel 2003. Quando il raìs partì su quell’elicottero giordano per il lungo viaggio verso la clinica militare di Parigi dove morì di un male che 54 emeriti medici francesi non hanno saputo diagnosticare, erano sei mesi che non si rivolgevano la parola. L’Abu Mazen che sale sul palco non vuole tirarla lunga sui ricordi nel suo discorso e incalza subito con la tremenda attualità puntando il dito di accusa prima contro Hamas che mina alla base la riconciliazione e la ricostruzione nella Striscia di Gaza, poi contro Israele. Hamas che ha vietato ogni celebrazione per l’anniversario di Arafat nella Striscia, è accusato di essere dietro gli attacchi dinamitardi che la scorsa settimana hanno preso di mira dirigenti di Fatah a Gaza. «La condotta di Hamas a Gaza e in Cisgiordania danneggia seriamente gli sforzi di ricostruzione nella Striscia, e non indica che il movimento è pronto per la riconciliazione e l’unità nazionale », ha detto chiaramente il presidente. Abu Mazen ha poi accusato Israele di voler trasformare la crisi israelo-palestinese in «una guerra religiosa» permettendo ai fedeli ebrei di visitare la Spianata delle Moschee di Gerusalemme. Quelle visite, accusa il presidente, sono provocatorie e i fedeli palestinesi difenderanno il luogo, sacro per ebrei e musulmani. Ai fedeli ebrei è permesso visitare la Spianata in occasione di particolari festività, ma non di pregare. L’aumento del numero delle visite, specie quelle dei colleghi di partito del premier Netanyahu, ha provocato scontri e sollevato il timore che Israele stia pensando di estendere la sua sovranità anche sulla Spianata. Queste visite, l’annuncio di centinaia di nuove abitazioni negli insediamenti oltre la Linea Verde hanno innescato nei quartieri arabi di Gerusalemme tensioni fortissime che sfociano quotidianamente in guerriglia urbana, e che hanno portato a cinque attacchi terroristici nelle ultime settimane. Sono “lupi solitari”, killer che agiscono da soli investendo con l’auto i passeggeri alla fermata dei bus o a colpi di coltello i passanti come lunedì scorso a Tel Aviv e Gush Etzion.
La paura del terrorismo è tornata e si vede negli occhi della gente per strada a Gerusalemme, dove è sufficiente uno stridio di gomme per seminare il panico sui marciapiedi. Lo spettro della terza intifada si fa sempre più visibile, le violenze sono già dilagate anche nelle città arabe d’Israele, in comunità che mai finora erano state coinvolte. E allora perché aspettare, sembra chiedere Marwan Barghouti, lo storico leader dei giovani Tanzim di Fatah in una cella israeliana con cinque ergastoli, in una lettera pubblicata dalla stampa araba, «la resistenza armata contro l’occupazione è l’eredità di Yasser Arafat».
“L’ora della libertà e dell’indipendenza è arrivata”, annuncia un manifesto gigante sui muri della Muqata. Quella che Abu Mazen, dopo venti anni di negoziati diretti con Israele, adesso vuole dalle Nazioni Unite alla fine del mese con la risoluzione che riconosca la Palestina entro le frontiere del 1967 e fissi un tempo per il ritiro da questi Territori. Ma la pace richiederà concessioni, sui rifugiati, su Gerusalemme, sui confini, sulla sicurezza e sugli insediamenti. Arafat avrebbe potuto convincere il suo popolo e fare quelle concessioni. Ma non l’ha fatto e oggi non c’è nessuno nel campo palestinese con la statura o il coraggio per prendere le decisioni necessarie per porre fine al conflitto. Dieci anni dopo la sua morte, Mr. Palestine ancora continua a dominare la scena. Forse era impossibile fare la pace con lui, adesso si scopre che forse è impossibile farla senza di lui.

il Fatto 12.11.14
Cisgiordania
Barghouti: “Pronti all’Intifada”


La tensione tra Israele e Palestina torna a crescere e i venti di guerra si spostano da Gaza in Cisgiordania. Marwan Barghouti, esponente di Fatah in carcere, ha invocato una terza intifada ricordando la figura di Yasser Arafat di cui ricorre il decennale della morte: “Il suo assassinio è stata una decisione ufficiale israeliana e americana. Si deve riprendere in considerazione l’opzione della resistenza per sconfiggere l’occupazione”, ha dichiarato in una nota. La provocazione arriva in un momento delicato, contrassegnato da episodi di violenza. Un palestinese di 21 anni è stato ucciso dai militari dello Stato ebraico durante una manifestazione contro l’occupazione , degenerata poi in lanci di sassi e molotov. Nei giorni scorsi, invece, due palestinesi hanno ucciso a coltellate un soldato, a Tel-Aviv, e una ragazza di 25 anni, nell’insediamento ebraico di Alon Shvut, in Cisgiordania. La risposta del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è stata dura: “Risponderemo agli attacchi. Invito tutti coloro che dimostrano contro lo Stato di Israele e per la Palestina a trasferirsi inCisgiordania o a Gaza. Non vi creeremo difficoltà in questo cammino”. Dall’altra parte, si consuma una nuova frattura tra Fatah e Hamas. Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, si è scagliato contro quest’ultima ritenendola “responsabile dei recenti attentati contro Fatah nella Striscia, di rallentare la ricostruzione di Gaza e di distruggere l’unità nazionale”.

La Stampa 12.11.14
Barghouti lancia la Terza Intifada palestinese: “Ora è il momento della resistenza armata”
Il più popolare leader in Cisgiordania rompe il silenzio dal carcere dove sta scontando 5 ergastoli: trasformare gli episodi di rivolta in una sollevazione popolare. Un morto a Hebron
di Maurizio Molinari

qui

Corriere 12.11.14
Xi e il Sogno di un’Asia meno americana
Il leader cinese propone un’area di libero scambio «rivale» rispetto al Tpp sponsorizzato dagli Usa
di Guido Santevecchi


PECHINO Secondo il presidente cinese Xi Jinping l’accordo è storico: i 21 Paesi dell’Apec, «Asia Pacific Economic Cooperation», si sono impegnati ad incamminarsi verso il traguardo di un’area di libero scambio tra le due sponde dell’oceano. Un progetto gigantesco per i volumi di ricchezza coinvolti: l’Apec raccoglie il 57% del Prodotto interno lordo del mondo e muove il 44% dei commerci. Sono anni che la Ftaap, «Free Trade Area of the Asia Pacific», è in agenda, ma finora l’iniziativa è stata frenata nel timore che la Cina ne tragga un ulteriore vantaggio nella sua corsa alla supremazia.
Al termine del vertice Apec di Pechino, davanti a Obama, Putin, Abe e agli altri leader di Asia e Pacifico, Xi Jinping ha detto che ora «è stato tracciato un percorso verso l’integrazione» e in questi giorni ha parlato spesso di un suo Sogno per l’Asia Pacifico. Sicuramente la proposta tanto cara al leader cinese ha trovato consensi tra i 21 associati dell’Apec. Ma Pechino puntava a fissare l’inizio dei negoziati e una data per la conclusione, mentre la formula scritta nel documento finale è meno entusiastica. L’area di libero scambio Asia-Pacifico non sta per nascere, l’accordo è sulla costituzione di un gruppo che studierà la fattibilità del progetto e dopo due anni produrrà raccomandazioni «con il fine di istituire la Ftaap il prima possibile». I cinesi sono comunque soddisfatti: il ministro del Commercio Gao Hucheng ieri sera ha assicurato che finalmente il ruolo dell’Apec cambia «da incubatore di idee a motore d’azione concreta».
Gli americani cercano di rallentare, se non di fermare del tutto la Ftaap perché stanno chiudendo un accordo ristretto, che si chiama Tpp, «Trans Pacific Partnership» e racchiude 12 Paesi, senza Cina e Russia. Dietro la selva di sigle degna di un cruciverba, c’è il nuovo Grande Gioco Usa-Cina per il primato. In palio ci sono almeno 100 miliardi di dollari, tanti quanti ne perderebbe Pechino in mancate esportazioni, perché se prevalesse la partnership Tpp voluta da Washington, i suoi 12 membri commercerebbero più tra di loro e meno con i cinesi. Pechino osserva che un’intesa a 21 Paesi sarebbe migliore di una a 12 e il ragionamento sembrerebbe ovvio, se non si scontrasse con il dettaglio che nei fatti poi, per far entrare i loro prodotti nella Repubblica popolare, gli imprenditori occidentali debbono spesso scavalcare un muro di protezionismo e burocrazia varia. Xi Jinping nel suo discorso naturalmente ha sorvolato sulla battaglia commerciale e ha assicurato che i due giorni di vertice di Pechino entreranno nella storia. In effetti è riuscito a stringere accordi commerciali importanti con la Corea del Sud, con l’Australia, con la Malesia, ha firmato un altro mega contratto per il gas russo, ha anche concesso finalmente udienza al giapponese Shinzo Abe. E proprio Tokyo sta facendo soffrire i negoziatori di Washington per la conclusione del Tpp: l’ultimo ostacolo è l’apertura dei mercati agricolo e automobilistico, sui quali i giapponesi sono duri a fare concessioni. Si tratterà per ora di un gruppo di studio, ma l’Area di libero commercio Asia-Pacifico Ftaap è in agenda. E anche Obama ieri, almeno a parole, ha negato di voler «contenere la Cina».
I cinesi non ne sono proprio sicuri. «Noi siamo consapevoli che la presenza americana nell’Asia dell’Est è scritta nella storia e sarà anche la tendenza futura. Ma a volte gli americani interpretano le nostre necessità come un tentativo di escluderli», ci spiega Song Guoyou, vicedirettore dell’Istituto di ricerca sugli Stati Uniti all’Università Fudan di Shanghai.

Repubblica 12.11.14
Una nuova Via della Seta per sfidare l’Occidente la scommessa di Pechino
La Cina disegna la mappa del business tra l’Indonesia e San Pietroburgo. “Rapporto alla pari con gli Usa”
di Giampaolo Visetti


PECHINO«La Cina è tornata e fa sul serio». Ai leader alleati, Xi Jinping non nasconde la soddisfazione per il successo del summit Asia-Pacifico, chiuso sul lago di Yanqi. Il messaggio globale è potente: «Il mondo — dice il presidente cinese — ha bisogno di un nuovo equilibrio e spetta ai popoli asiatici gestire sicurezza e affari delle loro economie in crescita ». L’obiettivo, dopo anni di basso profilo, diventa ufficiale e ambizioso: «La Cina ha risorse e dimensione per sostenere la guida di un mercato da tre miliardi di persone, tra il Baltico e il Sudest asiatico». Per gli Usa di Obama significa prendere atto della voglia esplicita di un progressivo «ridimensionamento nel Pacifico ».
È lo stesso Xi Jinping ad annunciarlo al termine del vertice tra i 21 Grandi del «mondo con il segno più». «Abbiamo deciso — dice nell’immensa sala in stile imperiale — di varare una road map per realizzare la nuova area di libero scambio Asia-Pacifico». Pechino è certa di aver vinto il braccio di ferro con Washington. Lunedì Obama, per far saltare il piano cinese, aveva riunito nell’ambasciata Usa a Pechino i dodici Paesi che sostengono la partnership trans-pacifica, che esclude Russia e Cina. Le nazioni dell’Apec invece hanno infine accettato la “free trade zone” guidata dal padrone di casa. Per la propaganda comunista è «una giornata storica». «Quest’area di libero commercio — esulta Xi Jinping — scardinerà le porte ancora chiuse tra le due sponde dell’oceano ». Ci vorranno almeno due anni, ma l’annuncio è sufficiente a giustificare lo sforzo cinese per il summit, che ha costretto anche Mosca-Washington e Pechino-Tokyo a obbligate prove generali di disgelo. La Cina può ora puntare a «trainare l’integrazione economica Asia-Pacifico per sostenere la crescita globale ». Guidare lo sviluppo è il primo passo per aumentare la sua influenza anche nella zona Ue. Per “ridisegnare” il ruolo Usa, decisivo è stato il sostegno della Russia di Putin, che consuma la sua vendetta per le sanzioni post-Ucraina. Grazie al nuovo patto energetico, la Siberia per la prima volta invierà più gas in Cina e che in Europa, assicurando la competitività dell’Oriente.
Xi Jinping, ai piedi della Grande Muraglia, incassa dagli ospiti il sì anche a fondo e banca cinesi che finanzieranno la connessio- ne della nuova Via della Seta ferroviaria, stradale e marittima, alternativa al progetto targato Usa. È la scommessa cinese del secolo: 140 miliardi di dollari in crediti iniziali per ridisegnare la mappa del business tra la Malesia e San Pietroburgo, tra Shanghai e Duisburg, ma pure attraverso l’Asia centrale e il Medio Oriente. Al centro del planisfero ricco del Pacifico torna Pechino, con Usa ed Europa spinte alle estremità impoverite dell’Atlantico. Poco prima di ricevere Obama nella Città Proibita, il “nuovo Mao” anticipa così ufficialmente la voglia «di un più realistico rapporto alla pari». Oltre al sostegno per quello che i media di Stato definiscono «il piano Marshall cinese del Duemila per la ricostruzione dell’Asia», Xi Jinping in due giorni ha ottenuto anche un riavvio di dialogo con Giappone e Corea del Sud, alleati storici Usa nel Pacifico. La diplomazia, a fine vertice, insiste «sui legami indissolubili » che uniscono Pechino a Washington e sulle «opportunità di un rapporto win-win». Il nervosismo si spinge però fino a indurre la Cina a censurare i dati americani sullo smog nella capitale. Gli Usa ironizzano sul cielo pechinese color «blu Apec», sinonimo di «cinica provvisorietà». Le autorità cinesi accusano invece gli Stati Uniti di «manipolare i dati dell’inquinamento per fini politici». Baruffe da cortile, che rivelano la tensione stemperata dai sorrisi. I consiglieri di Xi non nascondono che «da oggi il peso mondiale della Cina appare più definito per tutti». Ne sa qualcosa il premier giapponese Shinzo Abe. Martedì era stato umiliato dal gelo riservatogli dal leader comunista. A Yanqi è stato raggiunto dal vento di elezioni anticipate a Tokyo, causa crisi, scandali e scontro sul ritorno all’atomo, forse già prima di Natale. E il successo personale di Xi Jinping all’Apec non è una buona notizia nemmeno per i pro-democratici di Hong Kong.
Obama a Pechino si è limitato ad auspicare il «rifiuto del ricorso alla violenza» contro gli studenti che da un mese e mezzo occupano il centro finanziario dell’ex colonia inglese. La risposta delle autorità filo-cinesi è stata tempestiva: se i giovani non toglieranno i blocchi, saranno arrestati. Un solo gesto di riguardo: la repressione scatterà appena il presidente Usa si sarà accomiatato da Xi Jinping, destinazione Birmania.

Corriere 12.11.14
Le scuole pachistane e il giorno anti Malala
«Offende noi e l’Islam» Ma sui social network c’è chi difende la premio Nobe
di Cecilia Zecchinelli


Un giorno di conferenze, marce, proteste in 150 mila scuole del Pakistan al grido di «I am not Malala»: la prima grande rivolta organizzata in patria contro la ragazzina nata nella remota valle di Swat poi diventata una star mondiale dei diritti umani. Autrice di un blog in urdu per la Bbc già a 12 anni, ferita gravemente dai talebani arcinemici dell’istruzione femminile nel 2012, da allora Malala Yousafzai vive in Gran Bretagna dove studia e si batte per dare a ogni bambino (e bambina) del mondo il diritto a studiare. Riverita dall’Occidente con mille riconoscimenti, un mese fa ha vinto il massimo tributo, il Nobel per la Pace. È stato quel premio a rendere ancora più evidente la spaccatura del Pakistan, riguardo alla giovane attivista ma non solo. Nel Paese dove i «talebani», o comunque gli estremisti islamici, controllano intere regioni e migliaia di scuole, dove la «legge sulla blasfemia» condanna regolarmente cristiani e apostati veri o presunti perfino alla morte, la travolgente ascesa di Malala come icona internazionale ha suscitato fin dall’inizio ammirazione, ma anche rabbia e sospetti. L’accusa è di essere «uno strumento dell’Occidente», o perfino un’agente della Cia.
«È evidente che Malala ha un legame con Salman Rushdie, fanno parte dello stesso club nemico della nostra Costituzione e dell’Islam», ha dichiarato Mirza Kashif Ali, presidente della federazione di scuole private che lunedì ha lanciato l’iniziativa. La prova? «Nell’autobiografia della ragazza, “ I am Malala ”, suo padre difende i “ Versetti satanici ” di Rushdie, proibiti nel nostro Paese perché blasfemi, e anche il libro della ragazza andrebbe bandito», ha sostenuto Ali. In realtà, nel libro scritto dalla giovane pachistana con la giornalista inglese Christina Lamb, il signor Yousafzai definisce i Versetti «un’offesa all’Islam», ma aggiunge che vanno letti comunque: «L’Islam è così debole da non tollerare un’opera che l’attacca? Non il mio Islam», ha dichiarato.
Il fronte anti-Malala, sottolineano i media pachistani liberal, riflette la mentalità delle classi più povere e arretrate del Paese. Le élite hanno invece reagito con sdegno all’iniziativa e sui social network hanno difeso la giovane.
In Germania, in una conferenza stampa congiunta, la cancelliera Angela Merkel ieri ha chiesto al premier pachistano Nawaz Sharif che ne pensasse di quegli attacchi a Malala. «Penso che lei abbia reso un grande servizio al Pakistan, il Paese è stato molto fiero quando ha ricevuto il Nobel», ha risposto diplomaticamente Sharif, cambiando poi però argomento vista la delicatezza del tema. «Il Pakistan sta scivolando verso un baratro di intolleranza, ignoranza, crudeltà e arroganza e ha assoluto bisogno di eroi — ha accusato dal quotidiano Dawn la scrittrice Razya Siddiqui —. E tutti avrebbero considerato Malala un’eroina se quel giorno i talebani l’avessero uccisa. Invece è sopravvissuta e dice pure di non aver paura di nessuno. Con i talebani e i loro seguaci è l’equivalente di agitare un drappo rosso davanti a un toro. Povero Pakistan».

Corriere 11.12-14
India, la strage delle donne sterilizzate
di Danilo Taino


Il governo indiano di Narendra Modi farebbe bene a mettere fine alla pratica delle sterilizzazioni di massa organizzate da numerosi Stati del Paese. Sabato scorso, nel villaggio di Pendari, Stato centro-orientale del Chhattisgarh, un medico e il suo assistente hanno operato 83 donne in sei ore: a ieri sera, 11 di queste erano morte, più di 50 erano in ospedale, 20 in condizioni gravi. Donne tra i 26 e i 40 anni, la maggior parte delle quali aveva già figli, in genere due. Probabilmente la fretta e le cattive condizioni igieniche hanno prodotto la tragedia. Che è una doppia tragedia: quella delle pessime condizioni sanitarie in parti del Paese e quella delle sterilizzazioni. Il denaro usato per convincere le donne a sottoporsi all’operazione — nel caso di Pendari 600 rupie (quasi otto euro) — sarebbe ben speso per migliorare il servizio sanitario.
Il controllo demografico in India — quasi 1,3 miliardi di abitanti — è stato per anni un’ossessione e sin dall’indipendenza del 1947 affrontato in modo drastico dai governi di New Delhi. Con un culmine di durezza durante la Emergency del 1975-77, quando Indira Gandhi, oltre a sospendere la democrazia, diede al figlio Sanjay la guida della campagna di sterilizzazione obbligatoria per gli uomini con due o tre figli. Da allora, la vasectomia forzata è stata eliminata, ma oggi diversi Stati seguono la regola 2CN ( two-children-norm , norma dei due figli) e incentivano la sterilizzazione con denaro e regali oppure puniscono chi non la effettua con mancati avanzamenti di carriera o meno acqua per irrigare le coltivazioni. Le principali vittime di queste politiche sono le donne, soprattutto le donne povere, le quali spesso non sono in grado di scegliere il modo migliore per controllare le nascite e finiscono per rivolgersi ai campi sanitari del genere di quello di Pendari.
In India la questione «popolazione» è reale: ogni anno, entrano nel mercato del lavoro più di 11 milioni di giovani. Dall’altra parte, però, la demografia — il 54% degli abitanti ha meno di 25 anni — è un punto di forza che, per dire, la Cina del «figlio unico» non ha. Modi dovrebbe rivedere questa pratica: è crudele, antimoderna e senza senso.

Corriere 12.11.14
Le 40 mogli di Joseph Smith il fondatore dei mormoni Usa
Al via l’operazione trasparenza dei leader della religione


Ai giovani missionari mormoni in camicia bianca e cravatta che bussano alle porte di tutto il mondo non è mai stato insegnato che, Joseph Smith, il profeta che 184 anni fa fondò la loro religione, aveva tra le 30 e le 40 mogli, alcune già sposate, la più giovane quattordicenne. Ma è arrivato il tempo della trasparenza.
La Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, spesso accusata di segretezza e di omissione delle parti più controverse della propria storia, sta cambiando strategia: ha pubblicato su Internet 12 saggi che affrontano temi come la poligamia e la discriminazione dei neri.
Le autorità del Tempio di Salt Lake City in Utah, il Vaticano mormone, si sono forse accorte che il rischio più grande non è lo scetticismo degli outsider sui pilastri della loro fede (come il fatto che gli indiani d’America avessero origini ebraiche o che Cristo risorto sia apparso nel loro Paese). I mormoni sono ormai mainstream , con 14 milioni di seguaci nel mondo, più dell’ebraismo, un ex candidato alla Casa Bianca, Mitt Romney, la prima nera repubblicana al Congresso, Mia Love; e nella cultura pop sono il new normal grazie al musical satirico «The Book of Mormon», alla serie tv «Big Love» e al successo di «Twilight» (autrice mormone). Il problema semmai è la disillusione — documentata — tra i mormoni quando incappano sul Web in informazioni credibili mai trattate nella letteratura ufficiale, il che li porta a vacillare nella fede.
Ora la Chiesa spiega che per i capostipiti la poligamia era un ordine divino, che fu accettato «con grande riluttanza» dopo ripetute apparizioni dell’Angelo Moroni che oggi suona la tromba dalla guglia più alta del Tempio. «Con la spada sguainata», l’angelo aveva minacciato la «distruzione» se Joseph non avesse seguito il suo comandamento.
Si sottolinea che il profeta non ebbe rapporti sessuali con tutte e 40 le mogli, poiché alcune — come l’adolescente Helen Mar Kimball — erano unite a lui «solo per la vita eterna».
Scioccante per diversi fedeli è la scoperta che Smith si unì anche a donne già sposate, come pure il fatto che tutto ciò fu un «tormento straziante» per la sua prima moglie Emma, che con lui dissotterrò le tavole d’oro della profezia. La Chiesa ammette pure che, dopo il 1890, quando ripudiò la poligamia sotto pressione del governo, di fatto alcuni membri e leader continuarono a praticarla, benché oggi sia stata davvero respinta.
Un altro saggio contestualizza l’esclusione dei neri dal sacerdozio: erano tempi di schiavitù e segregazione. Un altro discute la «traduzione» del «Libro di Mormon»: per «vedere» in inglese il testo iscritto sulle tavole in una lingua sconosciuta, il profeta usò due pietre incastonate in una montatura e un sasso a forma d’uovo da lui già usato nel (vano) tentativo di scovare tesori sepolti.
Questioni di fede: ognuno ha le sue. Ma questa religione adolescente ha lo svantaggio di dover lavare i panni sporchi nell’era di Internet.

Corriere 12.11.14
L’occasione mancata Gli anni perduti dopo il 1989  
risponde Sergio Romano


Ho letto la sua prefazione al libro edito dal Corriere 1989 . Il crollo del muro di Berlino e la nascita della nuova Europa . Il titolo è: «Per l’Europa un’occasione mancata» ma, francamente, il concetto espresso non mi ha pienamente convinto e mi rimane piuttosto misterioso. Che cosa poteva fare di più l’Europa di fronte all’evolversi degli eventi? Impedire la dissoluzione della Jugoslavia e frenare le turbolenze nella comunità degli Stati Indipendenti? Sottrarsi alla paterna sorveglianza degli Stati Uniti? Liberarsi dalla dipendenza della Russia per le forniture di gas?
Giampaolo Grulli

Caro Grulli,
Dopo il collasso dell’Urss un vecchio politologo sovietico, uomo di mondo brillantemente sopravvissuto a tutte le stagioni politiche della sua patria, chiedeva ironicamente ai suoi amici occidentali: «Avete perduto il nemico. Che cosa farete d’ora in poi?». La domanda di Georgij Arbatov era calzante. La Nato, a cui avevamo affidato la nostra sicurezza, era stata concepita in funzione dell’esistenza di un minaccioso nemico al di là del sipario di freddo. Per supplire alla nostra mancanza d’unità avevamo delegato a un generale americano il comando delle nostre forze armate. Per supplire alla modestia dei nostri bilanci militari avevamo rinunciato alla nostra sovranità su alcune parti del territorio nazionale e permesso agli americani d’instaurarvi le loro capitolazioni, come si chiamavano le enclave europee nell’Impero Ottomano e nell’Impero Cinese. Per non perdere la protezione degli Stati Uniti avevamo permesso che il perimetro delle responsabilità della Nato si allargasse a zone extra-europee dove gli interessi erano prevalentemente americani.
Vi fu un momento, tra la caduta del Muro e i primi anni Novanta, durante il quale l’Europa avrebbe potuto mettere sul tavolo il problema della Nato e della sua utilità. Se lo avesse fatto, avrebbe trovato a Washington orecchie pronte ad ascoltare. Non bisognava tagliare tutti i fili che ci legano all’America dalla fine della Seconda guerra mondiale. Sarebbe stato possibile conservare il Patto Atlantico, o una più aggiornata alleanza politica, ma smontare il complicato castello di istituzioni e infrastrutture militari creato dagli Stati Uniti nel nostro continente. Ancora una volta aggiungo che tali proposte, all’inizio degli anni Novanta, sarebbero piaciute a una larga parte della società americana.
Abbiamo preferito lo status quo e abbiamo assistito impotenti alla nascita di una nuova politica estera degli Stati Uniti, sempre più priva della cautele che l’avevano distinta durante la Guerra fredda. Da allora noi abbiamo fatto, direttamente o indirettamente, tutte le guerre dell’America, da quella contro la Serbia nel 1995 a quelle contro l’Afghanistan e l’Iraq nel 2001 e nel 2003. Se non con le nostre truppe, le abbiamo fatte con le basi installate sul nostro territorio. E dell’America, con l’eccezione di qualche manifestazione d’indipendenza a Parigi e a Berlino, siamo stati quindi alleati e complici. Con quale autorità possiamo presentarci al mondo come gli ingegneri e gli architetti di una nuova Europa?
È questa la ragione, caro Grulli, perché mi sembra giusto che il titolo della prefazione sia «una occasione mancata».

Corriere 12.11.14
Pessimista ma con giudizio: Ceronetti smaschera le ipocrisie
di Cristina Taglietti


I barbagianni sono rapaci dalla vista molto acuta, hanno un campo visivo di 110 gradi con visione binoculare e possono ruotare la testa fino a 270 gradi. Anche Guido Ceronetti sembra appartenere a questa specie animale: il suo occhio è altrettanto acuto, la sua testa altrettanto mobile. Viaggiatore instancabile nei luoghi in cui la contemporaneità consuma se stessa — il corpo, la natura, l’economia, la tecnica, la morte, la democrazia — il Filosofo Ignoto torna ad analizzare ciò che siamo e che stiamo diventando. Operazione che lo porta a fare dolorose scoperte, a trarre conclusioni che sembrano definitive, a stilare diagnosi affilate come lame: «Prolungando a dismisura il tempo dell’esistenza, senza curarsi delle conseguenze, il secolo XX ha voluto strappare il velo a tutti i suoi errori-orrori nascosti: scrutalo meglio, ne avrai una chiave».
Osservare, scrutare, sono le parole d’ordine che governano L’occhio del barbagianni , centotrentaquattro nuovi pensieri in uscita da Adelphi con una delicata copertina disegnata dallo stesso Ceronetti. È consolatorio che questo «mistico saltimbanco», come lo definirono Fruttero e Lucentini, torni a dispensare il suo pessimismo razionale, sferzato da sciabolate di ironia che riportano al livello più basso, elementare, corporale — e quindi vero — qualunque ragionamento filosofico, perché «nessuna saggezza di vita resiste a tre giorni di stitichezza».
Ceronetti dipinge scenari apocalittici con la forza del grande moralista che non conosce moralismo neppure quando sostiene che «è matura per la Distruzione una società che ha per tempio la Banca, che vive e sopravvive in attesa o nel godimento di una pensione ». O quando osserva che «nell’Europa occidentale (l’Italia è esemplare) il degenerare della democrazia non sboccherà più in malvagi poteri totalitari. Si andrà di degenerazione in degenerazione, di legalità in legalità formali incurabilmente amorfe, prive di linfa, di sfinimenti in sfinimenti di ogni principio, in un crescendo di insignificanze».
Il libro è denso di riferimenti filosofici, letterari, ci sono molte letture dello scrittore, dai presocratici a Schopenhauer, da Spinoza a Shakespeare a Petrarca con la consapevolezza che «il Tragico sofocleo contiene risposte a tutto». C’è la vocazione del biblista accanto al gusto per la battuta fulminea, a volte dissacrante. Si comincia con «Salvate il mondo. Mangiate esclusivamente carne umana», si finisce con «La morte riceve 24 ore su 24, ma solo su appuntamento (L’ora ci viene assegnata nascendo»).
In mezzo ci sono i riti del mondo connesso dove l’Antigone che lascia il corpo del fratello Polinice privo di sepoltura, agli scorpioni e alle iene, ha il cellulare appeso al lobo, mentre la barbarie che avanza può avere i paramenti dei funerali di oggi, «affrettati, ridotti al minimo, paternoster da telefonino, abolita la veglia, una corsa da un frigorifero a un cimitero», per una società sempre in affanno, ormai dimentica del fatto che «i morti sono qualcosa . Soffrono come agnelli al macello di questo subitaneo sbarazzarsi di loro. Violenza impalpabile, seme che si deposita in sciagure».
Nonostante il libro contenga invocazioni che sembrano senza appello come «Oh madri, fermatevi! Non aumentate le sciagure umane», non è tutta apocalisse quella che ci resta se Ceronetti sente che «in ciò che esiste d’inesplorato nella natura e nell’anima, c’è l’orma di un Lucrezio o di uno Shakespeare che verrà». C’è vita in queste pagine e pulsa di più proprio là dove l’insensatezza umana, il degrado, la debolezza del pensiero, le storture sociali, la disperazione necessaria sembrano prevalere.
Il barbagianni Ceronetti nelle sue escursioni per osservare il mondo, l’uomo, le idee filosofiche, sfiora ogni mistero perché nulla di ciò che è umano gli è estraneo. La conclusione è quasi obbligatoria, anche se spiazzante: «Come resta impenetrato e inaccessibile il passaggio dalla vita alla morte, così il passaggio — misteriosamente fulmineo — dall’amante appassionata alla vecchia signora».
Il libro: «L’occhio del barbagianni» di Guido Ceronetti esce oggi da Adelphi (pp. 60, e 7)

Corriere 12.11.14
Quel «piacevole orrore» delle Alpi svelato dalla religione del sublime
Fino a metà ‘700 il selvaggio disordine della catena montuosa era inviso al classicismo
Rousseau fu definito il «Lutero» del nuovo culto per le Alpi
Burke riteneva che il sublime fosse legato all’infinito e al terrore
Kant chiarisce che la sublimità sta nel soggetto che lo guarda
di Franco Brevini


U na delle prove più clamorose che le cose le vediamo solo se le pensiamo è offerta dalle montagne. Non fosse che per le dimensioni, difficilmente le montagne possono passare inosservate. Eppure per secoli la cultura occidentale non le ha «viste», semplicemente perché mancavano le categorie per pensarle. Riconoscibilissime dai quai di Ginevra, ancora in pieno ‘700 le cime del Monte Bianco non avevano nome. Qualche carta liquidava quella muraglia di ghiacci scintillanti con il toponimo Montagnes Maudites, «maledette». E, stando all’alpinista e studioso americano William Coolidge, fino al XVII secolo sulle Alpi si conoscevano solo una quarantina di cime oltre i duemila metri di quota.
In realtà con il loro selvaggio disordine, le cime non potevano attrarre la tradizione del classicismo, che aveva proclamato l’ordine, la simmetria, la proporzione e l’equilibrio come caratteristiche ineliminabili della bellezza. Per molti secoli si è ritenuto che il bello fosse una proprietà delle cose: c’erano cose belle e cose che non lo erano. Le montagne, come il mare in tempesta, le desolate distese boreali, i vulcani, il folto della foresta, non erano giudicati «belli» in quanto non corrispondevano ai canoni estetici dominanti. E non venivano presi in considerazione.
Le cose cambiano con la filosofia empiristico-sensistica, che sposta l’asse del discorso dalle caratteristiche degli oggetti alle sensazioni che essi suscitano nel soggetto. In The Standard of Taste Hume scrive: «La bellezza non è una qualità delle cose stesse: essa esiste soltanto nella mente che le contempla ed ogni mente percepisce una diversa bellezza». Nel dominio dell’estetica questa affermazione produsse una rivoluzione copernicana.
Ad avviare lo smantellamento dell’idea di bellezza della Klassik furono inizialmente i fautori dell’estetica del pittoresco. Con essa una moderata asimmetria viene per la prima volta ammessa. È il grande momento del Sud d’Italia: armenti e rovine greco-romane. Ma alla nuova estetica guardano anche Albrecht von Haller con il poemetto filosofico Die Alpen del 1729 e Jean-Jacques Rousseau con la Nouvelle Héloïse del 1761, che reca il significativo sottotitolo di Lettres de deux amants, habitants d’une petite ville au pied des Alpes . Il peso di Rousseau nella fortuna delle montagne fu enorme. Leslie Stephen nel suo celebre T he Playground of Europe lo definì «il Cristoforo Colombo delle Alpi, il Lutero del nuovo culto della montagna».
Ma se quello di Rousseau fu un influsso di tipo prevalentemente sentimentale, spettò all’estetica del sublime di sdoganare definitivamente gli scenari della wilderness, fra cui quelli alpini. Recuperando una categoria circolante fino dal I secolo con il Perì Hýpsous dello pseudo-Longino, essa diede nuova cittadinanza a ciò che è smisurato e mostruoso, a ciò che produce paura e orrore.
Fu la cultura anglosassone la culla dei nuovi sentimenti estetici e la traversata delle Alpi compiuta dai viaggiatori del Settecento offrì le occasioni per sperimentarli. Nei Remarks on Several Parts of Italy del 1705 Addison parlò ossimoricamente di «an agreeable kind of horror», cioè di «un piacevole tipo di orrore». La riflessione su questi temi sarebbe proseguita nel 1757 nella fortunatissima Philosophical Inquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and Beautiful di Edmund Burke: distinto dal bello, legato agli oggetti attraenti, il sublime è piuttosto connesso alle idee di infinito e di terrore. Infine nel 1790, nella Critica del Giudizio , in polemica con la concezione empirista di Burke, sarà Kant a chiarire che la sublimità non sta nell’oggetto, ma nel soggetto che lo contempla. Fra i due libri, nel 1786 cade emblematicamente la prima ascensione alla vetta del Monte Bianco.

Corriere 12.11.14
Cancellate il Diario di Montale «Non è opera sua»
di Paolo Di Stefano


Una pietra tombale o quasi. Il Diario postumo , pubblicato da Mondadori nel 1996 a cura di Rosanna Bettarini, non è di Eugenio Montale. Stiamo parlando della raccolta di 84 poesie che sarebbero state composte tra il 1968 e il 1979 e che Annalisa Cima avrebbe ricevuto da Montale in 11 buste chiuse. Non c’è (quasi) nulla che faccia pensare a testi autografi. È la conclusione che si trae dal convegno tenutosi ieri alla Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, con gli interventi di numerosi studiosi, non solo letterati. E proprio dai non letterati è d’obbligo partire. La perizia grafologica dell’avvocata Susanna Matteuzzi, consulente del Tribunale di Bologna, pur basandosi su materiali fotocopiati non essendo disponibili gli originali (mai messi a disposizione dalla destinataria), lascia pochissimi margini di dubbio: si registra una netta «incompatibilità tra la grafia del Diario postumo e la grafia del Montale coevo». La patologia neurologica (Parkinson?) di cui soffriva il poeta lo costringeva a un andamento grafico che non si riscontra nei fogli del Diario , in particolare la «micrografia» (corpo ridottissimo delle lettere), la disposizione a cono sul margine sinistro e la difficoltà a mantenere il tratto grafico sul rigo di base. Senza dire di altre differenze nel movimento di una ricca serie di lettere. Va da sé che gli accertamenti sugli autografi sarebbero indispensabili, ma Annalisa Cima non ha mai voluto porre rimedio alla lacuna.
Venendo al versante letterario, Alberto Casadei ha condotto un esame stilistico che rileva una serie di dettagli lessicali presenti nel Diario ed estranei al Montale autentico: differenze minime ma significative nell’uso di numerose parole. E come se non bastasse, anche l’analisi della metrica, realizzata da Luca Zuliani, mostra difformità rilevanti. La ricostruzione puntuale della vicenda nella sua curiosa trasmissione (con le tante contraddizioni consegnate negli anni dalla Cima a interviste e racconti vari) è stata realizzata dal filologo classico Federico Condello in un corposo studio intitolato I filologi e gli angeli (Bononia University Press). Ma ieri lo stesso Condello ha aggiunto una «postilla» che estende la questione ad altre carte detenute dalla Cima: si tratta di un testo pubblicato su «Nuova Antologia» nel 2009 e presentato da Annalisa Cima come un inedito poetico di Aldo Palazzeschi a lei dedicato. Il «presunto autografo», datato 6 giugno 1972, presenterebbe ancora una volta una grafia «non compatibile» con gli autografi noti palazzeschiani ma soprattutto rivela delle curiose somiglianze col presunto Montale del Diario postumo .
La Mondadori non poteva chiamarsi fuori da questo caos, e infatti il direttore letterario Antonio Riccardi è intervenuto a dirsi convinto della tesi dell’apocrifia, pur ritenendo che «qualcosa» di autentico potrebbe esserci e ipotizzando che fosse stato lo stesso poeta a ordire la «beffa»: ma ciò, come ha mostrato Condello, si scontrerebbe con altre inconfutabili prove di fatto. Riccardi ha poi letto due lettere di Rosanna Bettarini, risalenti al 1990, in cui la curatrice consigliava di pubblicare la prima plaquette del Diario sotto Natale perché non si notasse troppo l’uscita: segno che neanche lei doveva essere troppo convinta dell’autenticità. Di eventuali «lapilli» montaliani ha parlato anche Maria Antonietta Grignani, che già all’epoca delle prime uscite del Diario aveva espresso i suoi dubbi pur contro le tesi della sua maestra Maria Corti. I «lapilli» potrebbero essere minimi stralci da conversazioni registrate, poi rimontate a suo modo dalla musa. Il che comporta comunque una conseguenza inevitabile: che il Diario postumo venga espunto dal corpus complessivo delle opere di Montale.

Repubblica 12.11.14
L’archeologia ferita a colpi di decreti e grandi opere
Scavi interrotti, cantieri impossibili. Così la legge Sblocca-Italia mette a rischio le nuove scoperte
di Francesco Erbani


STORIE italiane di archeologia. Roma, via Giulia. Le scuderie di Augusto, dove si ricoveravano i cavalli che avevano corso al Circo Massimo, rinvenute nel 2009, giudicate di “eccezionale importanza” dalla soprintendenza archeologica, sono state rinterrate sotto cumuli di pozzolana. Il parcheggio per circa trecento posti si piazzerà, invece, lì accanto. I reperti antichi sono emersi durante lo scavo per i garage, ma dopo cinque anni – cantiere fermo, un’orrenda palizzata che recintava l’area, un lembo di centro storico sconvolto – non si è trovata altra soluzione che sacrificare le stalle imperiali.
Pozzilli e Venafro, provincia di Isernia. Durante i lavori per un metanodotto fra Busso e Paliano, svolti con la collaborazione della soprintendenza archeologica del Molise, vengono alla luce ville romane, fornaci rinascimentali, tracce di una centuriazione, e, soprattutto, insediamenti neolitici con un focolare e materiali d’età del bronzo e, ancora, i resti dello scheletro di un bambino di sei-settemila anni fa. I reperti andranno al museo di Venafro. Le strutture fisse rimarranno sul posto, protette e visibili.
La chiamano archeologia preventiva ed è così che si fa archeologia in Italia. Il novanta per cento degli scavi – circa sei, settemila ogni anno dati del ministero per i Beni culturali – non sono il frutto di programmazione scientifica, coordinata da una soprintendenza. Ma l’effetto, desiderato, più spesso indesiderato, dei lavori per un parcheggio, per le linee di alta velocità, per cavi elettrici. Per la Metro C di Roma, per esempio, o per l’autostrada Bre-Be-Mi. Il risultato può essere positivo, come a Venafro, negativo come a Roma.
Ma, anche se fatta così, quest’archeologia rischia di ricevere un colpo mortale. Il decreto Sblocca-Italia, appena convertito in legge, contiene norme che, temono molti archeologi, potrebbero rendere ancora più difficile il recupero di oggetti e strutture antiche, anche molto rilevanti. I rischi paventati dagli archeologi si affiancano a quelli per le norme paesaggistiche o urbanistiche, contro le quali lo Sblocca- Italia procede a colpi di “semplificazioni” e “autocertificazioni”. D’altronde era stato il presidente del Consiglio Matteo Renzi, presentando nell’agosto scorso il provvedimento, a sbilanciarsi: «Mai più cantieri fermi per ritrovamenti archeologici». «E dire che l’obiettivo principale dell’archeologia preventiva, se correttamente praticata, sarebbe proprio quello di accelerare i tempi di un’opera pubblica », spiega Filippo Coarelli, archeologo di lunghissima esperienza, allievo di Ranuccio Bianchi Bandinelli, «perché individua con anticipo, sulla base di studi, di sondaggi, se un lavoro rischia di interferire con presenze antiche: se lo si sa prima, il progetto può essere modificato più agevolmente che non il cantiere aperto, quando, in caso di un ritrovamento, c’è l’obbligo di fermarsi e di avvisare la soprintendenza, altrimenti si commette un reato».
L’archeologia preventiva in altri paesi è regolamentata in maniera rigorosa e funziona egregiamente. In Francia è governata dall’Inrap, un organismo pubblico che ha alle sue dipendenze archeologi e operai e che interviene in ogni lavoro che comporta scavi. I finanziamenti arrivano da un fondo alimentato con il 5 per cento del fatturato di tutte le imprese edili francesi. E la Francia non ha il patrimonio archeologico che può vantare l’Italia. Secondo Fabrizio Pesando, professore all’Orientale di Napoli, oltre quelle francesi, «anche le esperienze spagnole hanno dato ottimi risultati e, in generale, l’archeologia preventiva sarebbe una buona prassi, che risponde alla necessità di razionalizzare e rendere più veloci i lavori. Inoltre può vedere impegnati tanti giovani studiosi e alimentare le conoscenze ».
In realtà da noi l’archeologia preventiva è spesso una specie di selvaggio West. Le norme in vigore si riferiscono solo alle opere pubbliche, non anche a quelle private, che in tantissimi casi prevedono scavi anche profondi (basti pensare alle fondazioni di un edificio). I costi sono a carico delle aziende, il cui fine ultimo è quello di risparmiare e di far presto e solo raramente quello di dare un contributo all’arricchimento del nostro patrimonio. Molto è affidato a giovani e, ormai, meno giovani precari, in possesso di lauree specialistiche, master e dottorati, ma pagati fra i 5 e i 7 euro l’ora. Le soprintendenze dovrebbero vigilare, però con il personale ridotto al lumicino fanno quel che possono. Uno svantaggio lo sottolinea Pier Giovanni Guzzo, per quindici anni soprintendente a Pompei: «La legge è limitata all’indagine sul campo, cioè a “bonificare” l’area che sarà occupata dall’opera. Lo studio, la pubblicazione, il preventivo restauro dei reperti e la conservazione in magazzini capienti ed attrezzati non sono previsti: così che l’Italia, si riempie sempre più di inediti. Facendo crescere l’ignoranza sulla storia antica del nostro Paese».
Per paradossale coincidenza, la Camera (ultima fra tutti i parlamenti europei) ha ratificato nelle scorse settimane la Convenzione di Malta, un accordo sottoscritto nel 1992 che regolamentava proprio l’archeologia preventiva. Il perno della Convenzione è che gli archeologi siano coinvolti sempre nelle attività di pianificazione e di progettazione degli interventi «che rischiano di alterare il patrimonio archeologico». E che a loro debbono essere concessi «tempo e mezzi sufficienti per effettuare uno studio scientifico adeguato del sito e per la pubblicazione dei risultati».
Lo Sblocca-Italia va in direzione opposta. Mentre la Convenzione di Malta lo prevede in una fase preliminare, l’articolo 1 del decreto stabilisce che per le ferrovie Napoli-Bari e Palermo-Catania un archeologo sia chiamato a valutare un progetto già definitivo, quando diventa assai complicato e costoso modificarlo. Inoltre, sempre nel caso delle due linee ad alta velocità (che per molti archeologi sono la testa di ponte per tanti altri interventi), l’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato è nominato commissario: indice lui la conferenza di servizi «entro quindici giorni dall’approvazione dei progetti », la presiede, decide se i rappresentanti delle altre amministrazioni, compresa la soprintendenza, sono “adeguati”, e, nel caso essi esprimano pareri non favorevoli sul progetto – pareri che debbono essere formulati entro trenta giorni, altrimenti «si intendono acquisiti con esito positivo» – è sempre lui che decide se questi pareri sono regolari e se se ne debba tener conto. Di fatto la presenza dell’archeologo di una soprintendenza è puramente esornativa.
«Siamo di fronte a una contraddizione vistosa: quale delle due norme prevale, lo Sblocca-Italia o la Convenzione di Malta?» si domanda Coarelli. Che azzarda anche una risposta: «L’unica cosa che si può prevedere è che fioccheranno ricorsi e contenziosi: il che rallenterà ancora di più le opere pubbliche».
«Lo Sblocca-Italia può essere il colpo definitivo che annichilisce una disciplina in Italia mai compiutamente decollata», insiste Maria Pia Guermandi, archeologa dell’Istituto Beni culturali dell’Emilia Romagna, «e questo perché procede a un sistematico ribaltamento delle gerarchie costituzionali: le esigenze del patrimonio devono cedere il passo sempre e comunque alle opere infrastrutturali, di cui l’archeologia sarebbe l’ostacolo più insidioso ». «Qualsiasi forma di ridimensionamento o estromissione degli organi preposti alla tutela e conoscenza del territorio è cosa assolutamente da scongiurare», conclude Pesando.
Entro il 31 dicembre il ministero per i Beni culturali deve varare le linee-guida per l’archeologia pre- ventiva, anche questo un provvedimento atteso da anni. Ma, stando allo Sblocca-Italia, non lo redigerà da solo, bensì dovrà concordarlo con il ministero delle Infrastrutture. Esattamente con chi spinge per limitare al minimo i poteri di controllo delle soprintendenze.

Repubblica 12.11.14
Perché adesso la sinistra deve dire addio al passato
Nel pamphlet “Senza il vento della storia”, Franco Cassano spiega i motivi per cui i progressisti hanno bisogno di lasciarsi alle spalle la nostalgia
di Gad Lerner


BEI ricordi, quando il vento della storia fischiava nella giusta direzione... La sinistra poteva inebriarsi, perfino nelle sconfitte, della gratificante sensazione di rappresentare il progresso mondiale, l’innovazione sociale, l’orizzonte cosmopolita nel quale i diversi si riunificavano superando le barriere geografiche, nazionali, religiose. Vero è che l’aspirazione internazionalista («il proletariato non ha nazione») già si infrange nelle trincee insanguinate del 1914. Ma la sconfitta del nazifascismo dà luogo in occidente a un compromesso fra capitalismo e democrazia contraddistinto da alti tassi di sviluppo e espansione dello Stato sociale: sono i “trenta gloriosi” anni della nostra gioventù, con i quali Franco Cassano sollecita la sinistra a smetterla di crogiolarsi. Finiti, superati, e se a noi della sinistra occidentale questa sembra una marcia indietro della storia, non è detto che la pensino così le masse dei paesi emergenti che iniziano a usufruire dello spostamento di quote di ricchezza orchestrato dall’alto. La globalizzazione, cioè, non può essere liquidata come mero progetto di dominio del capitale finanziario e delle multinazionali. La sinistra occidentale deve scendere dalla cattedra e cessare di sentirsi ospite innocente di un mondo cattivo, adesso che non rappresenta più gli ultimi e deve agire controvento. Muovendosi nella scomoda realtà di un pianeta pervaso da conflitti non riconducibili alla sola dimensione economica.
L’ultimo agile saggio di Franco Cassano, Senza il vento della storia. La sinistra nell’era del cambiamento ( Laterza), ha il pregio di affrontare con respiro storico i dilemmi attualissimi del Partito democratico e del governo Renzi. Suppongo che a questa preziosa concretezza lo solleciti anche la sua recente esperienza di parlamentare. Già nel suo precedente libro, L’umiltà del male, di taglio più filosofico, Cassano manifestava la preoccupazione di evitare l’isolamento dei migliori, per non regalare a chi nega il valore della fraternità quella confidenza con le debolezze dell’uomo grazie a cui l’egoismo e il populismo sono diventati senso comune maggioritario.
Di fronte alla nuova dimensione mondiale del capitalismo, abile e veloce nell’incrociare i suoi piani con la spinta dei paesi emergenti, i partiti della sinistra in occidente si ritrovano sulla difensiva. L’istinto li sospinge a ripiegarsi nella mera tutela di diritti e tutele di fasce sociali sempre più ristrette. Minoritarie. Per non venire meno ai propri valori di giustizia sociale e di uguaglianza, rischiano di incappare in una boriosa autosufficienza.
È la ricerca politico-sociale a tornare prioritaria, riconoscendo l’inadeguatezza delle risposte fin qui elaborate per fronteggiare la globalizzazione. Chi s’illude di replicare meccanicamente nel tempo contemporaneo lo schema marxiano della lotta di classe — come fa Toni Negri delineando un conflitto mondiale fra l’Impero e le “moltitudini” degli oppressi — non riuscirà a comprendervi la natura delle guerre militari e commerciali che lacerano il pianeta. Chi delinea una resistenza incentrata su reti Lilliput di comunità locali in difesa dei “beni comuni”, resterà isolato dalle grandi masse alle prese con la scarsità delle risorse.
Cassano ripropone l’insegnamento gramsciano, ovvero la necessità di affidare alla politica, pur in condizioni avverse, l’impresa di costruire un blocco sociale più largo, capace di opporsi all’egemonia del capitale. Non potrà essere più una rete tradizionale di alleanze sociali, dovrà comprendere la nuova dimensione individuale del lavoro autonomo, dell’imprenditorialità, del precariato, dei diritti legati all’ambiente e alla cittadinanza.
E le categorie già tutelate dalla sinistra? Qui il discorso si fa scivoloso ma affascinante.
Rimanere aggrappata alla rappresentanza (decrescente) dei garantiti equivale a una rinuncia perché sinistra vuol dire “molti” e la politica è il luogo dei molti.
Ma allora bisogna anche riconoscere l’impossibilità di una difesa efficace dei diritti che prescinda dalle ragioni della competitività. Cassano chiede alla sinistra di archiviare il patrimonio dei “trenta gloriosi” anni in cui si estese quello Stato sociale le cui garanzie oggi rimangono appannaggio di minoranze organizzate.
Non sarebbe corretto forzare il suo ragionamento dentro alle lacerazioni odierne della sinistra italiana alle prese con la riforma del mercato del lavoro. Eppure riesce difficile ignorarle di fronte a questa sua affermazione: «I diritti accumulati nel corso dei “trenta gloriosi” devono essere rinegoziati e resi compatibili con le risorse che un paese produce e di cui dispone nonché con la sua posizione all’interno del mondo globale».
Poco m’interessa stabilire se gli stimoli di Cassano alla ricerca di un nuovo blocco sociale suonino renziani o antirenziani. Ma certo, come per la Chiesa di Francesco, egli sembra suggerirci che anche per la sinistra del Ventunesimo secolo non possano esistere “valori non negoziabili”.
IL LIBRO Franco Cassano, Senza il vento della storia (Laterza, pagg. 91, euro 12)
RTV-LAEFFE
Oggi alle 13,45 su RNews (canale 50 dt e 139 di Sky) il servizio

Corriere 12.11.14
Gorrini, quel «top gun» (di Salò) che terrorizzava le Fortezze volanti
Abbattuto 5 volte. Inventò una tecnica di volo poi copiata dalla Luftwaffe
È morto all’età di 97 anni l’ultimo «asso» dell’Aeronautica
Aderì alla Rsi: «Volevo proteggere le città del Nord Italia dai bombardamenti indiscriminati»
di Alessandro Fulloni

qui

Corriere 12.11.14
«Gazebo» è il modo più innovativo di occuparsi di politica
di Aldo Grasso


Non c’è dubbio, fra i programmi che si occupano di politica, «Gazebo» è il più innovativo. È vero che facendo satira si hanno le mani più libere, ma ormai il confine tra i vari generi tende ad assottigliarsi. «Gazebo» è alla terza stagione e ormai i meccanismi sembrano ben oliati: buona musica (con ospiti di livello), grafica esaltata dai disegni di Marco Dambrosio in arte Makkox, Diego Bianchi in arte Zoro sempre più padrone della scena (anche se il meglio di sé lo dà nei servizi esterni), puntuali gli «spiegoni» di Marco Damilano (commento filologico sul concetto di fiducia con tanto di citazione latina, in stile Antoine Compagnon, quello di Un’estate con Montaigne ), l’inviato davanti a Palazzo Chigi, il tassista Mirko-Missouri4, l’uso intelligente degli spezzoni tv, delle home page dei giornali, dei social, dei finti hashtag (Raitre, domenica e lunedì, ore 23,15).
Ovviamente i momenti più divertenti sono quelli che riguardano i commenti su Twitter e la #socialtopten: sembra di tornare indietro ai tempi in cui la Gialappa commentava frammenti delle tv locali. Solo che qui i protagonisti sono quasi sempre uomini politici, persone cui abbiamo affidato la guida del Paese: più stanno in alto, più il tonfo è clamoroso. Fossi Alemanno o Castagnetti, per dire, non uscirei di casa per una settimana. Lunedì sera non è mancata l’inchiesta di Zoro su un ghetto per extracomunitari in Puglia, tra Foggia e San Severo: l’ennesima baraccopoli della disperazione.
A volte, la compagnia stabile tende un po’ a parlarsi addosso, a compiacersi della propria marginalità (sono su Raitre, una storia di lotta e di governo nello stile del Partito Fandango), a salire il secondo gradino della «scala Arbasino» (il primo è «giovani promesse»), a mandare in onda cose che alimentano solo l’euforia consensuale.
«Gazebo» è un programma scritto da Diego Bianchi, Marco Dambrosio, Andrea Salerno e Antonio Sofi. Regia di Igor Skofic.