giovedì 13 novembre 2014

Corriere 13.11.14
L’Italia in piazza e i 22 giorni di fermo


Le iniziative della Fiom nelle industrie del Nord, poi toccherà ai ferrovieri L’agitazione degli autotrasportatori e i timori degli italiani tra Pil e incertezza Il blocco dell’Autosole ha nella storia politico-sindacale italiana un suo forte valore simbolico, è il segno di un Rubicone varcato, di una rabbia che non trova argini. Ieri le tute blu della Ast di Terni l’hanno fatto e di conseguenza hanno spaccato l’Italia per più d’un paio d’ore. Stiamo parlando di operai che sono arrivati ormai al 22° giorno di sciopero ad oltranza con circa 70 tonnellate di mancata produzione. Numeri che, tanto per capirci, ricordano gli anni 80 e i 35 giorni ai cancelli di Mirafiori. La decisione di invadere le corsie è stata presa in alternativa all’occupazione dalla fabbrica e i sindacalisti si sono accodati di fronte alla determinazione dei delegati di fabbrica. Da più di tre settimane nello stabilimento di Terni sono ferme le forniture di acciai per Electrolux, Indesit e Fiat e questo blocco costa circa 100 mila euro al giorno, solo di penale per il mancato rispetto del contratto di fornitura.
Il sospetto avanzato dai sindacati è che i vertici aziendali della Thyssen giochino a dimostrare che l’impianto umbro non ha futuro e di conseguenza non si straccerebbero le vesti se dovessero perdere i clienti top dell’auto e degli elettrodomestici. Quale che sia la verità gli operai hanno sgomberato l’autostrada solo quando è arrivata la notizia di una convocazione, per questa mattina, nell’ufficio del ministro Federica Guidi. I sindacati ci andranno con un retropensiero: l’idea che si possa coinvolgere la Cassa Depositi e Prestiti anche nel salvataggio di Terni. Intanto l’ipotesi (molto più sensata) di trovare una sponda a Bruxelles e di far saltare il veto anacronistico dell’antitrust europeo, che ha bloccato la vendita dell’Ast ai finlandesi di Outokumpu, purtroppo non decolla. La neo-commissaria alla concorrenza, la danese Margrethe Vestager, ha detto chiaro e tondo che nelle sue stanze non c’è la soluzione per l’Umbria.
L’immagine dell’Italia bloccata però, e purtroppo, non inizia e finisce a Orte. Domani in contemporanea sono previsti lo sciopero delle fabbriche del Nord proclamato dalla Fiom di Maurizio Landini con manifestazione a Milano e un’astensione dal lavoro proclamata dai Cobas del trasporto ferroviario. E proprio ieri è stato indetto con squilli di tromba dalla Cgil di Susanna Camusso uno sciopero di otto ore per venerdì 5 dicembre. Il caso poi ha voluto che ancora ieri arrivasse dalle associazioni degli autotrasportatori l’annuncio della proclamazione dello stato di agitazione contro le proposte per il settore avanzate dal ministro Maurizio Lupi.
E’ chiaro che si tratta di rivendicazioni e azioni di lotta che non si prestano ad essere sommate aritmeticamente. C’è di tutto un po’, timori di chiusura di un impianto efficiente, scioperi a forte valenza politica, il “blocco ergo sum” di piccole sigle sindacali, prove di forza tra categorie e ministero competente, ma il quadro che ne viene fuori non è certo rassicurante.
E’ vero che da qui alla fine dell’anno il Pil non ci lascia presagire niente di buono e scaramanticamente stiamo aspettando il giro di boa del 31 dicembre, l’insieme di queste agitazioni finisce per comunicare però un senso di impotenza e di rabbia sorda. Gli italiani che leggeranno i giornali e ascolteranno i tg ne ricaveranno una sensazione non certo gradevole, saranno portati a pensare che oltre a tutti i guai dell’economia per tre settimane sarà difficile persino muoversi.
P.S. Alla Berto’s di Padova 48 ore fa è stato firmato un accordo integrativo che prevede nel triennio un premio variabile di 5.900 euro. Ieri alla Barilla un’analoga intesa frutterà ai 4 mila dipendenti un premio di produzione che in tre anni equivarrà a 2.600 euro. In Italia succede anche questo.

Corriere 13.11.14
Protesta l’Ast di Terni, autostrada bloccata Camusso: sciopero generale il 5 dicembre
di Francesco Di Frischia


Guidi convoca per oggi i sindacati della fabbrica umbra. Duello nel Pd sulla mobilitazione Cgil Boom della cassa integrazione, più 19,3%. Vertice al Viminale per le manifestazioni di domani ROMA Mentre Susanna Camusso proclama per la Cgil lo sciopero generale di otto ore per il 5 dicembre contro la legge di Stabilità e il Jobs act, il ministro Alfano convoca al Viminale un vertice con i sindacati: teme proteste stile «forconi» e disordini in occasione delle manifestazioni organizzate domani in 16 grandi città da sindacati di base, studenti, centri sociali e precari contro i provvedimenti del governo Renzi, senza dimenticare i metalmeccanici della Fiom che, sempre domani, scendono in corteo a Milano. Nel frattempo, però, centinaia di operai dell’Ast di Terni bloccano a sorpresa l’A1 all’altezza di Orte per circa 4 ore: la protesta per i 291 esuberi annunciati dall’azienda siderurgica termina solo quando il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, anticipa a stamattina la convocazione dei sindacati, fissata per martedì prossimo. Intanto arrivano cattive notizie dall’Inps: le ore di cassa integrazione a ottobre sono cresciute del 19,3% rispetto allo stesso mese del 2013. In particolare la cig straordinaria è aumentata a ottobre del 27,1% rispetto a un anno fa e quella in deroga è addirittura esplosa nello stesso periodo facendo segnare un +136,4%.
Susanna Camusso lancia un appello a Cisl e Uil affinché partecipino alla mobilitazione generale del 5 dicembre. «La proposta parte dalle richieste venute dalle piazze del 25 ottobre e dell’8 novembre e dalla volontà di salvaguardare tutti i punti delle iniziative unitarie», precisa. E la scelta del 5 dicembre, aggiunge, «risponde all’esigenza di raccogliere la mobilitazione unitaria già decisa dai sindacati della scuola» e dalla volontà di proseguire la protesta dei lavoratori pubblici con la manifestazione di sabato scorso a Roma. La convocazione da parte del ministro della Funzione pubblica, Marianna Madia, per il 17 novembre, «non cambia la situazione», secondo la leader della Cgil, perché il governo «non ha intenzione di cambiare la legge di Stabilità». A chi le fa notare le parole del segretario aggiunto della Uil, Carmelo Barbagallo, che vorrebbe «prima sentire le posizioni dell’esecutivo», Camusso replica: «Siamo sempre stati disponibili al confronto» e la convocazione «appare proprio il risultato della mobilitazione dei lavoratori pubblici: per questo va continuata la lotta a sostegno della nostra piattaforma».
Che il clima sia teso lo conferma la rivolta dei lavoratori dell’Ast di Terni, esasperati dopo tre settimane di sciopero: al termine di una assemblea davanti alla fabbrica, bloccano per 4 ore la A1 a Orte, causando 9 chilometri di coda. L’episodio fa solo aumentare la preoccupazione, già grande, al ministero dell’Interno per domani quando si sovrapporranno lo sciopero proclamato dai sindacati di base (Asia-Udb-Rdb) e la manifestazione della Fiom a Milano: tra 24 ore infatti studenti, precari, movimenti, sindacati di base, disoccupati e centri sociali sono in piazza, da Nord a Sud, per il primo #sciopero sociale italiano , come è stato ribattezzato sui social network per opporsi ai provvedimenti del governo Renzi. Le città coinvolte sono Roma, Milano, Padova, Venezia, Genova, Torino, Bologna, Firenze, Pisa, Perugia, Pescara, Chieti, Bari, Napoli, Taranto e Catania.

il Fatto 13.11.14
Sciopero, botte Cgil-Renzi, e ormai ci sono due Pd
Protesta il 5 dicembre, i Matteo-boys: “Così fanno il ponte dell’Immacolata...”
di Salvatore Cannavò


Quando alla segreteria del Pd hanno appreso la data dello sciopero generale della Cgil, il 5 dicembre, hanno festeggiato. Lo scontro mediatico tra il “partito” e il sindacato è tornato di nuovo a livelli altissimi, inondando il web e creando un nuovo motivo di polemica che travalica il merito della protesta. A dare fiato alla contesta è stato Ernesto Carbone, neo-componente della segreteria del Partito democratico, renziano di fresca adesione: “Il 5 dicembre è un venerdì poi sabato, domenica e lunedì 8 dicembre che è festivo... il ponte è servito #Coïncidence”.
IL TWEET SI È COSÌ sommato ai tanti che si sono rincorsi in rete e che hanno visto l’indicazione della vigilia dell’Immacolata come una scelta di cattivo gusto. Tanto che, in serata, ha provato a ricucire il presidente del Pd, Matteo Or-fini, sempre via Twitter: “Non condivido le ragioni dello sciopero della Cgil, ha scritto. Ma un lavoratore che sciopera sacrifica molto. Ironizzare sulla data è un'inutile offesa”. Anche la Cgil ha replicato. Prima con Maurizio Landini che, difendendo la data, ha bollato come “sciocchezze” le polemiche. Lo stesso ha fatto il segretario confederale, Danilo Barbi, il quale ha ricordato che, in ogni caso, il ponte è relativo visto che sono in molti a lavorare il 6 dicembre. Più diretto nel rispondere alla polemica, invece, il portavoce di Susanna Camusso: “I lavoratori italiani – scrive Massimo Gibelli nel suo blog sull’Huffington Post – sciopereranno il primo venerdì di dicembre non certo per andare in vacanza, come raccontano i professionisti e i polemisti della politica, quelli che non sanno le regole e che spesso non hanno mai lavorato; quelli che neppure conoscono i sacrifici che un lavoratore deve compiere quando decide di scioperare e rinunciare alla paga di un'intera giornata. Quegli stessi – continua Gibelli – che pensano ai lavoratori, come fancazzisti, assenteisti, bestie da soma alla ricerca di un ponte per spendere i propri guadagni in un resort o in un viaggio all'estero (perché è questo quello che loro farebbero) ”. Parole durissime, le più dure utilizzate nelle polemiche a sinistra e che danno la misura dello scontro all’ultimo sangue che non sembra ormai più reversibile. La scelta del 5 dicembre, presentata al direttivo della Cgil ieri mattina, ha visto la confederazione tutta unita dietro al segretario generale, tranne i tre membri della piccola minoranza interna. Qualche “perplessità” in platea sulla data prescelta c’è stata, ma chi l’ha avuta ha preferito tenere le critiche per sé. La proclamazione dello sciopero era una scelta obbligata in cui si è rinsaldata l’alleanza tra Landini e Camusso: “Sono d’accordo con la relazione del segretario” è stato l’esordio, il primo dopo tanto tempo, del segretario Fiom. E lo sciopero sarà contro il Jobs Act e contro la legge di Stabilità, “tanto non credo sarà cambiata”, commenta Camusso.
SULLE SCELTE della data, però, ha pesato la logica di scontro diretto con il governo che, oltre a trascurare l’impatto mediatico del “ponte” ha tagliato ulteriormente i ponti con gli altri due sindacati, Cisl e Uil, indisponibili a seguire la sorella maggiore sulla strada dello sciopero generale. Fino a creare anche una “gaffe” nei rapporti sindacali. Nel documento finale approvato dal direttivo, infatti si legge che “la Cgil plaude alla scelta dei sindacati dei comparti pubblici di proclamare per il prossimo 5 dicembre uno sciopero generale unitario”. La propria data, quindi, è offerta come valorizzazione di quella iniziativa. In serata, però, arriva la smentita della Cisl: “Nessuna data di proclamazione di sciopero generale per il giorno 5 dicembre era stata sottoscritta dai sindacati di categoria della Cisl della scuola e del pubblico impiego” “Siamo sorpresi che la Flc Cgil e la Cgil funzione pubblica, che ieri ci avevano preannunciato di fare un’ iniziativa unitaria, abbiano votato uno sciopero generale che nulla ha a che vedere con le rivendicazioni della manifestazione dell’8 novembre per il rinnovo contrattuale”. La scelta di tenere alto lo scontro, dopo la grande manifestazione del 25 ottobre, brucia così anche i legami unitari che ancora tengono unite le tre confederazioni. E così, nonostante Ca-musso abbia presentato la data del 5 dicembre come “l’opportunità di un momento di mobilitazione unitaria e generale” la risposta è stata totalmente negativa. Annamaria Furlan, neo-segretario generale Cisl, ha preferito apprezzare l’apertura ai sindacati del pubblico impiego convocati ieri dalla ministra Marianna Madia per il 17 novembre. E lo stesso ha fatto anche il neo-segretario Uil, Carmelo Barbagallo, che pure aveva lasciato aperta la possibilità, nei giorni scorsi, di uno sciopero a due assieme alla Cgil. La partita, quindi, vede impegnato il sindacato “rosso” contro il partito più grande a sinistra. E contro il suo leader.

La Stampa 13.11.14
Intesa Renzi-Berlusconi
Il premier: avanti con Fi anche se divisi su alcune votazioni
Resta il nodo sbarramento
Renzi salva il Patto e allarga la maggioranza per il Colle
No della minoranza Pd
Nota congiunta: “L’intesa è più solida che mai”
di Fabio Martini


Nello studio foderato di tappezzeria gialla del presidente del Consiglio, i due istrioni si congedano in un clima complice, a base di sorrisi e battutine, con Matteo Renzi che richiude la porta più raggiante che mai e con Silvio Berlusconi che se ne va, senza neppure volere essere presente alla stesura del testo finale congiunto, quello nel quale si dirà che «l’impianto» del Patto del Nazareno è «più solido che mai», salvo glissare sul fatto che le divergenze permangono su punti qualificanti. L’incontro, l’ottavo in undici mesi, è durato una novantina di minuti e si è svolto in un clima di grande simpatia. Ad un certo punto il presidente del Consiglio ha spiegato a Berlusconi: «Silvio, lo capisci bene che non posso disattendere un accordo con i partiti della maggioranza raggiunto soltanto due sere fa...». E il Cavaliere, a quel punto, dando per scontato un dissenso, anziché impuntarsi, ha lasciato correre, anche per non passare alla storia - ha spiegato a Renzi - come il persecutore dei partitini. 
Alla fine dell’incontro Matteo Renzi era decisamente compiaciuto: sul piano della manovra politico-parlamentare nell’ultima settimana gli è riuscito tutto. In una fase che Renzi stesso, nella riunione della Direzione Pd in serata, ha provato a drammatizzare, sia pure con misura: «Noi siamo al momento forse più delicato della legislatura perché stanno venendo al pettine tutti i principali nodi, in una fase in cui anche a livello internazionale coincidono diversi problemi». E ancora: «È evidente a tutti che nessuno considera la legge elettorale il principale problema con cui gli italiani vanno a dormire. Ma è il pin del telefonino, la password del pc per dire che si fanno le cose sul serio». E da ieri sera Renzi è tornato in possesso del Pin che potrebbe consentirgli di eleggere il Capo dello Stato a lui gradito: ha ricompattato la sua maggioranza, ha salvato il Patto del Nazareno con Berlusconi. Sulla carta da ieri sera dispone di quasi 700 “grandi elettori” per l’elezione del prossimo presidente della Repubblica e ne bastano 504.
Nel corso dell’ultima settimana Renzi è riuscito a far convergere i voti dei parlamentari Cinque Stelle sulla candidata del Pd alla Consulta; ha portato decisamente dalla sua parte i «partitini» della maggioranza; ha fatto trangugiare a Berlusconi il testo di una riforma che l’altro non condivide, ma senza per questo subire la disdetta del controverso Patto del Nazareno. E Renzi, sulla riforma tagliata su sua misura, ha incassato l’impegno di tutti a chiudere la lettura del Senato entro l’anno, per poi andare all’approvazione finale in data da fissare, ma comunque nei primissimi mesi del 2015. 
Ed entro quella data il presidente del Consiglio - lo ha fatto scrivere anche nel documento congiunto con Berlusconi - conta di aver incassato anche la seconda lettura della riforma che ridimensiona il Senato. Tutti «trofei» in vista di un appuntamento elettorale al quale Matteo Renzi sta pensando davvero, a dispetto di tutte le dietrologie su possibili elezioni anticipate: le elezioni in 9 Regioni che, tra il 23 novembre e la primavera del 2015, porteranno alle urne quasi 30 milioni di italiani. Renzi non può dirlo esplicitamente, ma il suo obiettivo inconfessabile è quello di un 9 a 0, anche se - dicono i suoi - si contenterebbe di recuperare al centrodestra almeno una delle due grandi regioni governate dall’opposizione: la Campania o il Veneto.
E così, a fine giornata e una volta ancora, il fronte più dolente per il presidente del Consiglio restava quello interno, quello della minoranza del Pd e quello della piazza anti-Renzi, che da ieri ha anche una data per ritrovarsi: il 5 dicembre per lo sciopero generale indetto dalla Cgil.

La Stampa 13.11.14
Renzi-Berlusconi, accordo a metà
di Ugo Magri


Solo nella patria di Machiavelli può accadere che due leader si dichiarino in disaccordo su altrettanti punti chiave della riforma elettorale, salvo sostenere poi che il loro patto non è mai stato così forte. L’incontro tra Renzi e Berlusconi si è concluso con un comunicato congiunto dove viene argomentato proprio questo paradosso. Per cui viene da domandarsi come ciò sia possibile ed, eventualmente, che cosa si nasconda dietro.
Chi è bene al corrente del colloquio garantisce che davvero quei due sono andati per un’ora e mezzo d’amore e d’accordo. È stato tutto uno scambio di complimenti battute e perfino smancerie. Mai un passaggio scabroso, nemmeno quando si è arrivati a trattare i motivi del dissenso: il premio di maggioranza alla lista anziché alla coalizione (è Renzi che insiste per ottenerlo), la soglia di sbarramento per i «nanetti» al 5 per cento e non al 3 (pretesa come contraccambio da Berlusconi). Tanto Silvio quanto Matteo hanno stabilito che il nodo si scioglierà con calma strada facendo, durante l’iter dell’«Italicum» in Senato che riprenderà il 18 novembre. Straordinaria acrobazia nel comunicato finale: «Le differenze registrate sulla soglia minima di ingresso e sulla attribuzione del premio di maggioranza alla lista, anziché alla coalizione, non impediscono di considerare positivo il lavoro fin qui svolto e di concludere i lavori in aula entro il mese di dicembre e la riforma costituzionale entro gennaio 2015». Non impediscono, okay, ma con i voti di chi?
Al momento non con quelli di Forza Italia che, sui punti in dissenso sembra orientata ad astenersi (e in Senato l’astensione vale voto contrario). Renzi dunque dovrà far leva sulla sua maggioranza, senza «soccorso azzurro». Lui pensa di farcela, i berlusconiani scommettono di no. Possiamo dunque immaginarci il premier e Berlusconi come due giocatori di poker, uno che sostiene di avere le carte vincenti e l’altro che lo sfida: «Vediamo». Però circola un’altra interpretazione: i due non hanno chiarito perché a entrambi fa comodo lasciare per ora dei punti in sospeso. Dimodoché Renzi possa sorridere ad Alfano: «Nonostante il pressing di Forza Italia non ho alzato le soglie, e dunque voi piccoletti mi dovete la pelle». Berlusconi, dal canto suo, può tener buoni Brunetta, Fitto, Romani e Toti (li ha visti tutti quanti ieri sera a cena) con la favola dell’accanita resistenza opposta al premier, il quale voleva imporgli una soglia del 3 per cento e lui non ha ceduto... Salvo che all’ultimo momento, zac, spunterà fuori un numero intermedio, il 4 ad esempio, capace di scontentare tutti e calare il sipario sulla vicenda.
Ma questi tecnicismi non sono il nocciolo vero. La sostanza è che l’ex Cavaliere, spalleggiato da Verdini, darebbe un dito pur di non essere tagliato fuori dai giochi e in particolare dalle scelte del dopo-Napolitano, rimaste sullo sfondo del colloquio. Al punto da sottoscrivere un comunicato entusiasta dove Renzi viene autorizzato a procedere, sui punti di dissenso, fuori dai famosi patti del Nazareno. Berlusconi è come se dicesse al premier: io non sono granché d’accordo ma tu fai pure, non c’è problema. Si sfoga al telefono un esponente «azzurro» di primo piano, a patto di restare anonimo: «È come se io dicessi: sì, mia moglie mi tradisce, però non ho nulla da obiettare e anzi il nostro matrimonio non è mai stato così saldo...».

Repubblica 13.11.14
Perchè Berlusconi ha scelto di perdere
L’ex Cavaliere accetta una nuova architettura dell’Italicum e ora deve placare il disagio di Fi
di Stefano Folli


Sul premio alla lista finale già scritto Renzi riduce Silvio a comprimario
AVOLERLO leggere con attenzione, il comunicato finale sottoscritto da Renzi e Berlusconi è più esplicito di quanto sembri. È tutto costruito per spiegare l’accordo politico sulla legge elettorale, di cui addirittura si annuncia il passaggio in aula al Senato entro la fine dell’anno. Dentro la cornice dell’intesa, si lascia un paragrafo sui punti di dissenso: soglia minima e premio alla lista.
Per paradosso sono proprio questi due punti a dimostrare che Berlusconi ha accettato quasi tutto, al di là della propaganda del giorno dopo. Di solito infatti le divergenze di merito finiscono per prevalere sulla dichiarata sintonia nel metodo. Ma non in questo caso. E si capisce. Sul «quorum» delle liste minori (il 3 oppure il 4 o magari il 5 per cento) c’è, sì, una differenza fra Renzi e il suo alleato: non tale, tuttavia, da far traballare l’impianto della legge. Sarà facile nelle prossime settimane, meglio se in Parlamento, trovare una sintesi, ossia un compromesso. In fondo non è un caso che lo stesso Alfano si sia dichiarato soddisfatto dell’incontro di Palazzo Chigi.
Viceversa, l’altro punto è strategico: non è un «distinguo » di poco conto stabilire se il premio di maggioranza deve essere dato alla lista o alla coalizione. Costituisce anzi lo snodo fondamentale che regge tutta la legge nella nuova versione che Renzi ha offerto, o meglio ha imposto al suo interlocutore. Su questo, se Berlusconi non era d’accordo, c’era solo una risposta possibile: la rottura netta e definitiva. Non è un dettaglio che si aggiusta nell’aula del Senato, bensì la prova che l’intera architettura della legge è stata modificata dal premier-segretario rispetto al vecchio Italicum. Quindi prendere o lasciare.
Brunetta nei giorni scorsi aveva colto nel segno quando dichiarava che la legge era stata stravolta e perciò Forza Italia non doveva votarla. Ma Brunetta ha suscitato il disappunto del capo e si capisce perché: la linea del vecchio leader non è mai stata la spaccatura, bensì la sostanziale copertura delle posizioni «renziane». Per cui la spina dorsale della nuova legge (il premio di maggioranza non più alla coalizione bensì al singolo partito vincitore) viene accettata dal centrodestra; e la divergenza strategica, quella che condannerà il gruppo berlusconiano a essere la terza o forse la quarta forza politica del paese, è derubricata al rango di piccolo particolare destinato a essere chiarito nel corso del dibattito in Parlamento.
In altre parole, Berlusconi ha detto «sì» e semmai con il comunicato di ieri sera ha cercato di tenere a bada i malumori dei suoi. Come dire: tranquilli, non è finita, il confronto- scontro continua, però voi fidatevi di me. La realtà è un po’ diversa. La giornata ha avuto un vincitore ed è Renzi. Nell’altro accampamento, quello del centrodestra, c’è un comprimario che subisce la personalità del premier e fa di necessità virtù, per una serie di ragioni che non sono tutte attinenti alla politica. Ne deriva che Berlusconi deve farsi piacere una legge elettorale che fino a pochi anni fa avrebbe respinto, essendo la meno adatta a ricompattare il centrodestra.
Tutto questo non significa che la nuova norma avrà senz’altro vita facile in Parlamento. Dissidenti ce ne sono nel centrosinistra come nel centrodestra. E i sussulti della minoranza del Pd, contraria ai capilista indicati dalle segreterie dei partiti, lo testimonia. Ma siamo in un campo che permette comunque un certo margine negoziale, sia a Renzi sia a Berlusconi. Ci potranno essere dei ritardi, ma il carro della riforma si è rimesso in moto. E a confermarlo arriva quell’accenno alla revisione costituzionale del Senato da approvare in seconda lettura entro gennaio. Come dire che l’annuncio del prossimo addio di Napolitano è servito a scuotere l’albero dell’inerzia.

Sul quorum per le liste minori la divergenza sarà facile da comporre L’annuncio del prossimo addio di Napolitano accelera l’iter delle riforme

il Fatto 13.11.14
Il Nazareno è fermo nella palude di Silvio
di Fabrizio d’Esposito


DALL’OTTAVO INCONTRO TRA IL PREMIER E L’EX CAVALIERE ESCE UN COMUNICATO IN CUI VA TUTTO OK. MA SENZA LA PISTOLA DELLE ELEZIONI CARICA NON SI PROCEDE

L’Ottava del Nazareno. Al buio, ovviamente. Alle cinque della sera a Palazzo Chigi, con sessanta minuti d’anticipo sull’orario fissato. Il patto segreto tra il Pregiudicato e lo Spregiudicato cambia colore dopo la sceneggiata delle dimissioni annunciate di Napolitano nello scorso fine settimana. Le tinte renziane si sbiadiscono un po’ e il Condannato riesce a impantanare il tormentone dell’Italicum per allontanare l’incubo delle Politiche nel 2015 e soprattutto a puntellare il suo ruolo di “grande elettore” del prossimo capo dello Stato. Alle fine dell’ottavo vertice tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi c’è persino un comunicato congiunto, in cui si ribadisce “la scadenza naturale della legislatura nel 2018” e il “patto è più solido che mai”. Scrivono Pd e Forza Italia, a proposito della trattativa sulla legge elettorale: “Le differenze registrate sulla soglia minima di ingresso e sulla attribuzione del premio di maggioranza alla lista, anziché alla coalizione, non impediscono di considerare positivo il lavoro fin qui svolto e di concludere i lavori in aula al Senato dell’Italicum entro il mese di dicembre e della riforma costituzionale entro gennaio 2015”.
In pratica, nel colloquio a sei di Palazzo Chigi, da un lato Renzi, Guerini e Lotti, dall’altro Berlusconi, Gianni Letta e Verdini, non è stata raggiunta l’intesa sulla fatidica soglia di sbarramento, che i “piccoli” vogliono al tre per cento, Forza Italia al cinque e il compromesso della vigilia si assestava al quattro per cento. Perdipiù, viene rinviata in Parlamento anche la svolta renziana del premio di lista, alzato comunque al 40 per cento, coalizione o lista che sia. Al contrario, il fronte berlusconiano incassa il numero dei collegi, 100, e soprattutto i capilista nominati mentre il resto saranno tutte preferenze. In questo modo, il Condannato avrà ancora una volta la possibilità di scegliere i suoi parlamentari, collegio per collegio, considerato che con i suoi voti attuali porterà a casa un centinaio di deputati.
L’OTTAVO VERTICE del Nazareno è durato novanta minuti e le colombe forziste riferiscono di “una sintonia totale”, quasi di “un amore ritrovato”. Appena una settimana fa gli umori erano l’opposto, dopo il settimo incontro tra i due contraenti, sempre di mercoledì. A detta dei “nazareni” azzurri B. era stato risucchiato dall’antirenzismo del suo cerchio magico e della fronda pugliese di Raffaele Fitto. A distanza di sette giorni tutti sprizzano gioia dalle parti di Forza Italia. Sia i “nazareni” di Verdini perché “il patto è vivo e vegeto e non è stato ammazzato”. Sia i ribelli perché adesso il patto è stato rimodulato e gli azzurri non subiranno passivamente le offensive renziane. Questione di punti di vista. Basta aspettare i fatti per sapere chi avrà ragione. In ogni caso, il comunicato congiunto di ieri, sottoscritto da Forza Italia e Partito democratico, è il preludio ideale alle grandi manovre per la successione di Napolitano.
Ovviamente se i forzisti godono, dall’altra parte si registra un indebolimento oggettivo di Renzi, che adesso dovrà affrontare tutte le prove parlamentari, compresa quella dell’Italicum, senza la pistola carica del voto anticipato nel 2015. È questo il risultato maggiore della settimana, apertasi nel segno della “stanchezza” di Re Giorgio e dal toto-Quirinale. Non è un caso che, stavolta, pure Angelino Alfano, capofila dei “piccoli” in quanto leader di Ncd, esulta con un tweet: “Ottimo incontro tra Renzi e Berlusconi. Avanti tutta”. Anche questo non era mai accaduto sinora. È la certificazione dell’ammuina in atto sull’Italicum e che sta ingabbiando Renzi. In fondo, il caos scatenato dalle voci su Napolitano era diretto proprio contro il premier. Per la serie: “Non sarò io il capo dello Stato che scioglie le Camere, piuttosto me ne vado”. L’Ottava del Nazareno muta il paesaggio politico del renzismo trionfante. È come se il premier fosse stato spinto in un angolo. Toccherà a lui uscirne e dimostrare di rispettare la tabella di marcia indicata in maniera ambigua nel comunicato di ieri: “Le differenze non impediscono” l’approvazione entro l’anno della nuova legge elettorale. Il significato da attribuire a quel “non impediscono” variano da soggetto a soggetto e soprattutto indica il nuovo stato delle cose. Prima Renzi poteva ricattare tutti, sia la minoranza del Pd, sia Berlusconi e Alfano, con l’arma del voto. Adesso non più.

Corriere 13.10.14
Calcoli errati e vedute corte
di Antonio Polito


Pare proprio che, come aveva minacciato D’Alema in tv, la sinistra pd abbia perso la pazienza. L’alzata di scudi di ieri notte contro il patto del Nazareno bis (o tris) avvia una fase in cui niente più può essere dato per scontato, nemmeno il voto sul Jobs act. È probabile che le piazze sindacali abbiano restituito coraggio e allo stesso tempo costretto a una accelerazione della lotta politica contro Renzi. Ma nel combatterla la minoranza che fa capo a Bersani e D’Alema deve stare attenta a non ripetere gli stessi clamorosi errori che già le costarono il controllo del partito. Con l’aggravante che stavolta non rischierebbe solo in proprio, ma metterebbe a repentaglio la credibilità del governo Renzi in Europa, già in bilico di suo.
Il sospetto di una deriva politica è lecito. Appena qualche giorno fa, con un virtuosismo della litote certamente appreso alla scuola dei padri («Il vivente non umano» di Ingrao e «La non vittoria elettorale» di Bersani), Stefano Fassina è arrivato a proporre sul Foglio non l’uscita dall’euro, come un qualunque Grillo o Salvini, ma «il superamento cooperativo dell’euro», che poi è la stessa cosa, visto che non sembra esserci nessuno in giro disposto a cooperare con noi per farci uscire in modo indolore dalla moneta unica. Così più di vent’anni di zelante europeismo, nuova ideologia di una sinistra che trasferiva a Bruxelles il sol dell’avvenire tramontato all’Est, vengono buttati a mare in un sol colpo. Al posto dell’integrazione europea, cui hanno dedicato la vita leader fino a ieri venerati come Spinelli, Prodi e Napolitano, ecco che si propone la «dis-integrazione ordinata» della moneta unica, così da farne due, o tre, o quindici, come se questo risolvesse il nostro problema cruciale: il costo di un enorme debito.
Il fatto è che il gruppo dei Fassina e dei Cuperlo ha letto fin dall’inizio male il segno politico della crisi economica mondiale, interpretandolo come una potente spinta a sinistra dell’elettorato. Su questa base ha indotto Bersani a fare una campagna elettorale perdente in stile cgil, mentre il suo popolo se ne andava da tutt’altre parti. Ora è sotto choc per aver scoperto che quello stesso popolo segue Renzi, pur bollato come una Thatcher col lifting da Susanna Camusso. Non resta che l’ultimo populismo, quello antieuropeista. Pericoloso ovunque, ma molto di più quando alligna all’interno del partito di maggioranza e di governo di un Paese a rischio come l’Italia.
Non è certo così, facendo i proto-grillini o gli pseudo-leghisti solo un po’ più colti, che la sinistra pd può sperare non dico di riprendersi, ma nemmeno di correggere la barra del timone che ha perso.

Corriere 13.11.14
Patto diseguale e tante trappole
L’accordo sopravvive nel segno del premier
di Massimo Franco


Dopo l’incontro Renzi-Berlusconi conferma la tenuta non tanto del patto del Nazareno ma di quello raggiunto 3 giorni fa tra premier e alleati minori. Il rapporto ineguale tra i contraenti è vistoso.
Più del comunicato congiunto di Matteo Renzi e Silvio Berlusconi dopo il loro vertice sulla riforma elettorale, ieri hanno colpito le parole abrasive del capo dello Stato, Giorgio Napolitano. «Volentieri vorrei che cedessimo a qualcun altro», ha detto con una punta di ironia, «il record mondiale di caduta dei governi». Ha tutta l’aria di un altolà implicito ad una crisi dell’esecutivo e ad elezioni anticipate. Sembra la conferma che il capo dello Stato ha deciso di esorcizzare questa prospettiva anche lasciando trapelare l’intenzione di chiudere il suo mandato all’inizio del 2015. Si tratta appena di un inciso, incorniciato dal discorso sull’Expo di Milano tenuto al Quirinale. Ma pesa su uno sfondo di tensione tra e dentro i partiti: di maggioranza e di opposizione. E si trasforma nell’ennesimo monito ad una classe politica che sbanda tra accordi e minacce di rottura, osservata con diffidenza dall’Unione Europea. Il fatto che ieri la minoranza del Pd abbia deciso di disertare la riunione della Direzione in polemica col segretario-premier indica un malessere persistente; e destinato a riaffiorare nel momento in cui l’arma delle elezioni anticipate si sta spuntando nelle mani di Renzi. È una fronda che si rispecchia anche nelle modifiche chieste da alcuni senatori del Pd sulla riforma della Camera «alta».
Ma si tratta di scarti che non indeboliscono le critiche del presidente del Consiglio ad un Berlusconi accusato di non avere dietro tutte le sue truppe parlamentari. A sinistra rimane un’area di dissenso coriacea, che trova una sponda nella Cgil che conferma lo sciopero generale per il 5 dicembre. Eppure, per quanto esposto al conflitto anche sul piano sociale, il governo va avanti. La tendenza è a considerare i dissensi qualcosa di facilmente superabile. E infatti il 18 novembre la riforma elettorale emersa dal vertice di maggioranza dell’altro giorno comincerà ad essere discussa nella Commissione affari costituzionali. Relatrice: la presidente Anna Finocchiaro.
Rimane da capire quale sistema alla fine emergerà. E soprattutto, se davvero si farà in tempo ad approvare la legge al Senato entro fine anno. A definirlo «impossibile» è il leghista Roberto Calderoli, che mette davanti l’esigenza di approvare i provvedimenti economici. Ma la nota diffusa dopo un’ora e mezzo di colloquio tra Renzi e il sottosegretario Lotti da una parte, e Berlusconi, Gianni Letta e Denis Verdini dall’altra, conferma la tenuta non tanto del patto del Nazareno ma di quello raggiunto tre giorni fa tra il premier e i suoi alleati minori. E rafforza il premier.
Berlusconi ha ottenuto cento capilista bloccati, certo. Ma sbatte contro il limite di accesso in Parlamento al 3 per cento, imposto dai partitini. E il premio in seggi al partito maggiore o alla coalizione rimane in bilico. Sostenere che «l’impianto del patto è più che mai solido, nonostante le differenze», come recita il comunicato congiunto, sa di verità d’ufficio. E non riesce a coprire la sconfitta del leader del centrodestra. La legislatura «dovrà proseguire fino al 2018», concordano i «pattisti». Ma il rapporto ineguale tra i contraenti è vistoso. La legislatura continuerà nel segno di Renzi. Berlusconi può solo inseguire. In affanno.

Corriere 13.11.14
Il leader: Silvio ci seguirà. Vuole stare al tavolo anche nella partita del Colle
«Ognuno ha messo i suoi ingredienti. Ora tutti spingono il carrello»


ROMA A sera, dopo l’incontro con la delegazione di Forza Italia capeggiata da Silvio Berlusconi, Matteo Renzi ha il tempo di rilassarsi un poco con i suoi, prima di prepararsi ad affrontare la riunione della Direzione del suo partito.
Nello staff del presidente del Consiglio circola questa battuta, piuttosto cruda, ma che spiega con una certa efficacia la situazione: «È come se fossimo in un supermercato con il nostro carrello. Ci abbiamo messo il 3 per cento per Alfano, i capilista bloccati per Berlusconi e adesso tutti spingono quel carrello. E questo era quello che ci interessava». Detta così, forse, suona un po’ brutale, ma piuttosto realistica. Perché se è vero che l’ex Cavaliere ieri ha detto «no» al 3 per cento e al premio di lista, è anche vero, come ha spiegato ai collaboratori e ai fedelissimi il premier, che «ci ha assicurato che non farà imboscate e che garantirà che i tempi vengano rispettati».
«Del resto — ha aggiunto Renzi — nessuno si aspettava che ci dicesse di sì, non poteva farlo, dopo aver ricompattato il suo partito, altrimenti Forza Italia si sarebbe nuovamente divisa e Fitto sarebbe tornato alla carica. Insomma, immaginare che Berlusconi fosse disponibile a darci di più era francamente impossibile, ma va bene così». Il presidente del Consiglio è soddisfatto, non dispera di ottenere qualcosina di più durante l’iter parlamentare, ma anche se ciò non dovesse accadere, pazienza. È riuscito a fare un accordo con la sua maggioranza di governo sul premio alla lista (cosa a cui teneva sopra ogni altra cosa, perché è il bipartitismo, in realtà, l’obiettivo finale a cui tende Renzi) e nel contempo non ha provocato la rottura del patto del Nazareno, anche se quell’intesa si è andata modificando nel tempo.
«Non dimentichiamoci — ha spiegato ancora ai suoi il premier — che Berlusconi ci ha anche promesso che andrà avanti con noi sulla riforma del Senato, che non si sfilerà e pure questo è un punto molto importante». Dunque «si può procedere celermente, secondo i tempi stabiliti, senza rinvii e stoppando qualsiasi tattica dilatoria, cosa che era il nostro primo obiettivo».
Per il resto, il premier non è preoccupato per il fatto che Fi voterà a favore solo di determinati punti della riforma elettorale. Sa che sulla soglia del 3 per cento i voti saranno molti di più di quelli dello stretto confine della maggioranza di governo. Per esempio, perché Sel e Fratelli d’Italia dovrebbero dire «no» a uno sbarramento che consente a queste due forze politiche di presentarsi da sole? Quanto al premio di lista, il premier ritene di non avere problemi nemmeno su quel fronte. È convinto che su quel punto il suo partito sarà compatto e che qualche apporto potrebbe venire anche dai banchi dell’opposizione.
Per farla breve, il premier è convinto che la riforma elettorale «verrà approvata entro la fine dell’anno al Senato ed entro febbraio del 2015 alla Camera». Ma non ostenta un po’ troppa sicurezza il presidente del Consiglio? Una fetta della minoranza del Partito democratico potrebbe dargli del filo da torcere al Senato: «Già, ma questa volta — ha spiegato ai più stretti collaboratori — dovranno farlo con il voto palese, mettendoci la faccia e assumendosi le loro responsabilità». Inclusa quella di far fallire una delle riforme che Giorgio Napolitano aveva posto come condizione per accettare il suo secondo mandato.
Renzi, che non è certo un ingenuo, sa bene che sia nel Pd che dentro Forza Italia c’era e c’è chi vuole mandare all’aria tutto e le mosse del vertice di maggioranza di lunedì e dell’incontro di ieri con comunicato incorporato sono servite proprio a sventare queste manovre. Come sa, perché l’ex Cavaliere glielo ha confermato ieri, che Berlusconi vuole stare al tavolo in cui si deciderà la successione a Napolitano: «Lui — ha spiegato ai suoi — mi ha detto di avere tutto l’interesse a essere dentro questa partita». Nei corridoi di Montecitorio, dopo quell’incontro, circola voce che questo sia l’assillo di Berlusconi. Motivo in più perché il leader di Fi non rompa il patto. Motivo in più perché Renzi si senta sufficientemente tranquillo.

Il Sole 13.11.14
Il tentativo di uscire dai poteri di veto
di Sergio Fabbrini

C'è una questione di sostanza e una di metodo, nel negoziato sulle riforme tra Renzi e Berlusconi. Cominciamo dalla sostanza. L'Italia sta aspettando dagli anni Ottanta del secolo scorso (e comunque dalla fine della Guerra Fredda di 25 anni fa) la modernizzazione del proprio sistema istituzionale.
C'è una consapevolezza largamente maggioritaria nel Paese che il nostro sistema di governo deve migliorare le proprie capacità decisionali, così da adeguarsi alla velocità con cui i problemi di politica pubblica si impongono nell'agenda pubblica. Nessun Paese di dimensioni come le nostre (per popolazione, per capacità produttive, per responsabilità politiche) funziona secondo le logiche consensuali, protette dalla diffusione di poteri di veto, che continuano a connotare il nostro sistema di governo. Al di là delle forme costituzionali specifiche, la Germania, la Francia e la Gran Bretagna sono dotate di governi capaci di decidere, generalmente costituiti da uno o due partiti. Anche quando danno vita a coalizioni (come attualmente in Germania), nessuno mette in dubbio la capacità del cancelliere di avere l'ultima parola sulle questioni cruciali. L'integrazione monetaria ha ulteriormente accentuato l'esigenza di governi decidenti e controllati all'interno delle democrazie europee. In questi Paesi, la modernizzazione delle istituzioni di governo (formale, in Francia, o di fatto, in Gran Bretagna) è un'attività costante, condivisa dalle élite politiche di sinistra e di destra. Non è così in Italia. Non solamente continuiamo ad avere istituzioni pensate per un Paese diviso dallo scontro ideologico della guerra fredda, ma continuiamo a pensare che destra e sinistra debbono dividersi anche relativamente alle caratteristiche che deve assumere il comune sistema di governo.
Il cosiddetto patto del Nazareno, ribadito nell'incontro di ieri tra Renzi e Berlusconi, costituisce uno dei pochi esempi positivi di accordo tra leader politici per disegnare un nuovo sistema riconosciuto dai loro rispettivi elettori. Solamente la faziosità di leader populisti ha potuto portare alla denuncia di quel patto come di un "colpo di Stato", denuncia quindi sottoposta alla magistratura (sfidando il senso del ridicolo). Nella sostanza, insomma, il giudizio su Renzi e Berlusconi, ed i loro rispettivi partiti, sarà commisurato alla loro capacità di tenere fede all'impegno assunto di dare al Paese istituzioni più moderne e funzionanti.
Ma nel patto c'è anche una questione di metodo. L'iniziativa del governo Renzi testimonia che i leader politici non sono necessariamente prigionieri del sistema di veti al cui interno agiscono. Fu un errore assumere, come fece il precedente governo, che il Parlamento può autoriformarsi. Le istituzioni non si cambiano con commissioni di studio, ma con l'iniziativa politica. Anche se certamente quest'ultima (come è avvenuto con il governo Renzi) potrà essere ancora più efficace se sostenuta da alcuni dei risultati di quelle commissioni di studio. Tutte le esperienze di cambiamento istituzionale nelle democrazie sono state l'esito della pressione di attori politici esterni a quelle istituzioni. È bene dunque che il governo Renzi continui ad essere il promotore della riforma, senza subire gli stanchi riti consensuali della politica italiana. Tutti debbono poter contribuire alla discussione, nessuno deve avere però il diritto di veto sulle decisioni che emergono da quella discussione. Il governo deve aprirsi e contemporaneamente andare avanti, proprio perché si è impegnato a dare agli elettori l'ultima parola, convocando un referendum anche se non dovuto. Nello stesso tempo, l'iniziativa del governo sulle riforme istituzionali deve procedere di pari passo con l'iniziativa sulle riforme economiche. La legge delega per la riforma del mercato del lavoro deve essere coerente con l'impegno di aprire quest'ultimo, oltre che di ridurre la precarietà ingiustificata che lo connota. Allo stesso tempo, il governo deve proteggere la sua Legge di stabilità dall'assalto alla diligenza che ha caratterizzato il processo di approvazione delle precedenti leggi finanziarie. La riforma istituzionale e la riforma economica potranno procedere insieme solamente se il governo si dimostrerà in grado di avere l'iniziativa, di tenere il controllo dell'agenda, di opporsi ai particolarismi partitici e funzionali. Occorre cioè prefigurare, attraverso la politica delle riforme, il sistema decisionale che si vuole promuovere in Italia. Il governo deve assumersi le responsabilità delle sue scelte, l'opposizione deve contrapporne altre, gli elettori decideranno sui risultati o non risultati conseguiti. Il sistema politico ed economico vanno semplificati e liberati dai barocchismi che li soffocano. Le regole debbono essere poche e chiare. Soprattutto debbono garantire la competizione in politica e nel mercato. La democrazia muore là dove vi sono monopoli politici ed economici. La lotta ai trusts e ai poteri di veto deve diventare la cifra culturale del riformismo di governo.

il Fatto 13.11.14
Renzi va avanti pure senza il Pd
La minoranza diserta la direzione
Lui va in assemblea e dice: “Non ho bisogno del vostro mandato”
di Wanda Marra


“Per me possiamo votare o no, non cambia niente. Ho già il mandato della direzione”. Matteo Renzi, con mezza battuta, liquida la riunione che ha convocato in fretta e furia, la minoranza dem, e il Pd tutto.
Versione maglioncino, toni bassi, si presenta al Nazareno con un’ora di ritardo, dopo il vertice con Berlusconi. Parla di “tre mesi decisivi”, “i momenti di stretta sui provvedimenti”: la riforma del Senato e il jobs act, da approvare entro dicembre, la legge elettorale entro gennaio. Questa è la road map, che il segretario premier offre, anzi comanda, al partito. Dall’altra parte, la minoranza dem minaccia, annuncia diserzioni rispetto a un voto eventuale, critica e promette barricate. Sul jobs act. Come sull’Italicum 2.0. Armi spuntate, almeno ieri sera, da un voto negato direttamente dai vertici del partito. “Il sistema italicum garantisce sia governabilità che rappresentanza - declama dal palco Renzidiventiamo un partito comunità, che punta a maggioranza e in cui si trova il modo di stare insieme rispettandosi”. Pronto a mediare sul jobs act? È molto fumoso: “L’importante è che le nuove norme entrino in vigore entro il primo gennaio 2015”. Poi, si valuterà se mettere la fiducia.
LE MINORANZE Pd ascoltano, disarmate. Dopo riunioni su riunioni andate avanti per tutto il giorno, stavolta a Matteo Renzi avrebbero voluto mandare un segnale forte e chiaro. A guidare la fronda è Massimo D’Alema che, prontamente in mattinata, fa sapere che non ci sarà in direzione, “causa impegni precedenti”. Si capirà in serata che l’impegno è in un ristorante romano dove si degustano i suoi vini. Polemicamente, si nota il fatto che la riunione è stata convocata all’ultimo momento. Il Lìder Maximo partecipa però alla riunione della minoranza delle 19. Ma, oltre all’ex premier, in serata si siedono allo stesso tavolo esponenti delle principali aree della sinistra Dem: dall’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani, al capogruppo alla Camera Roberto Speranza, dal ministro Maurizio Martina a Gianni Cuperlo e Pippo Civati, che passa. Ma partecipa a un’altra, la riunione della mattina, quella del “tutti contro Renzi” (ci sono Francesco Boccia, la bindiana Miotto, Giani Cuperlo, Stefano Fassina, tra gli altri). Dopo una giornata di fibrillazioni, le minoranze decidono di andare e non partecipare al voto (che poi non ci sarà). Spiega Civati: "Personalmente, per non mancare di rispetto al Pd ci sarò per ascoltare il segretario”.
Tiene banco per tutto il pomeriggio la trattativa tra governo e minoranza sul Jobs Act, dove, in commissione Lavoro, quasi tutti i componenti Pd presentano un emendamento che, ripercorrendo quanto deciso nella direzione sulla riforma del lavoro è volto ad “assicurare la garanzia del reintegro nei casi di licenziamenti discriminatori e per quelli ingiustificati di natura disciplinare”. Plasticamente, ci sono due Pd. Per adesso, il Pd non renziano promette una lotta all’ultimo sangue su Italicum e jobs act. Fino a che punto sono disposti a spingere? Non è chiaro, ancora. Ma che si ragioni di scissioni prossime venture non è più un segreto.
I RENZIANI, da un certo punto di vista, si sono già scissi dall’interno. “Non è più tempo di mediare. Adesso noi le riforme le facciamo. E chi ci sta, ci sta”. Reazione a caldo di un fedelissimo all’accordo a metà dopo l’incontro tra Berlusconi e Renzi. Due punti aperti: la soglia di sbarramento (sul 3% Berlusconi non è d’accordo) e il premio alla lista (anche su questo B. non ci sta). Nel frattempo, la minoranza dem grida allo scandalo su un punto di convergenza tra i Nazareni: ovvero, la decisione di 100 collegi, con i capilista bloccati. Troppi posti attribuiti senza voto, protestano. I vertici dem ostentano sicurezza, si appellano al comunicato congiunto. Assicurano che su alcuni punti in Parlamento si voterà a maggioranza, su altri Pd e Forza Italia voteranno insieme. E che gli azzurri non faranno barricate.
Ma il sospetto di tutti lo esprime ad alta voce Fassina: “Qualche dubbio che l’accelerazione sulla legge elettorale serva ad andare al voto ce l’ho”. E in effetti, il piano sembra coerente: dopo l’approvazione delle riforme costituzionali, di quella del lavoro e dell’Italicum, con tutti quelli che ci stanno, Renzi può offrire dei risultati a Napolitano. Il quale, a quel punto, avrebbe un ottimo motivo per sciogliere le Camere: un Parlamento eletto con legge incostituzionale non può eleggere il suo successore.

Repubblica 13.10.14
La minoranza Pd pronta a dire tre no
Vertice con D’Alema-Bersani: ora in trincea contro l’Italicum, Jobs Act e legge di Stabilità Ma il premier vede per un’ora il capogruppo Speranza: “Ho un patto con lui, i giovani sono con me”
di  Goffredo De Marchis


ROMA Darsi un’organizzazione per contrastare Matteo Renzi e le sue riforme, dalla legge elettorale al Jobs Act. La minoranza del Pd prova a uscire dalla sindrome Armata Brancaleone, ampiamente dimostrata con i voti in ordine sparso nei gruppi parlamentari, nelle direzioni, e che non hanno fatto altro che rafforzare il premiersegretario. Dunque, una riunione prima della direzione notturna finisce con una decisione univoca: non si deve votare la relazione di Renzi e se si vota bisogna non partecipare. Perché ora è il momento di dire dei “no” solidi: no al nuovo patto del Nazareno, no alla riforma del lavoro, no alla legge di stabilità. Renzi però è convinto di aver già rotto questo fronte sempre fragile. «Ho fatto l’accordo con Orfini», racconta ai suoi collaboratori. Ma questa non è una novità. «E ho stretto un patto con Roberto Speranza », aggiunge il premier. Come dire: la vecchia guardia faccia quello che vuole, il capofila dei giovani all’interno della pattuglia degli oppositori sta dalla mia parte. Questo tassello del puzzle, raccontano a Palazzo Chigi, è stato aggiunto durante un colloquio di un’ora tra Speranza e Renzi, successivo al vertice con Berlusconi. In quel colloquio si è anche deciso di non votare in direzione. Una mano tesa di Renzi a tutti coloro che non vogliono seguire gli oltranzisti della sinistra.
Sono passaggi tuttavia che un pezzo della minoranza dà per scontati. Il capogruppo del Pd alla Camera Speranza viene ormai considerato perso alla causa dell’antirenzismo. Un gruppo di ribelli prova invece a darsi un proprio coordinamento politico e cerca di immaginare i numeri per un’opposizione al governo condotta dentro al Pd. All’ora di pranzo, ieri, si sono visti Stefano Fassina, Gianni Cuperlo, Pippo Civati, Francesco Boccia, Alfredo D’Attorre e alcuni bindiani. Quante truppe hanno nei due rami del Parlamento è difficile da stabilire, soprattutto perché Renzi ha dimostrato notevoli doti di negoziatore ed è capace di dividere gli avversari. Ma quello che conta, nella composizione del tavolo, sono i nomi che mancano ancora più di quelli presenti. È stata fatta una scrematura rispetto a pontieri, mediatori, ambasciatori che vengono considerati, sostanzialmente, renziani dell’ultima ora o dirigenti che giocano in proprio. «Noi, al contrario, dobbiamo fare squadra — spiega Civati —. Superando le correnti, superando la vecchia guardia e facendo le battaglie sui contenuti dei provvedimenti non sulle appartenenze ». Quindi accanto agli esponenti della sinistra Pd siedono adesso anche ex democristiani come Bindi o ex prodiani come Boccia.
Questa struttura che cerca di scrollarsi di dosso l’ombra dei “vecchi” invera l’incubo di Renzi e dei suoi fedelissimi a cominciare da Luca Lotti: un Vietnam parlamentare guidato dalla vera opposizione, quella del Pd. E lo convince a rimanere agganciato a Silvio Berlusconi, in funzione di contrappeso. Però la minoranza può farsi del male da sola. Renzi infatti ha sottolineato con soddisfazione la presenza di Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema alla riunione allargata della sinistra democratica. Come se la loro presenza indebolisse da sola le sfide dei ribelli. Sia l’ex segretario sia l’ex premier sono andati all’attacco di Renzi, sconfessando in blocco la legge elettorale e rifiutando il compromesso delle preferenze con i capolista bloccati. Il sospetto rimane sempre lo stesso: che l’inquilino di Palazzo Chigi sia intenzionato ad andare a votare in primavera.
Il banco di prova sulla tenuta del Pd e del gruppo parlamentare di Montecitorio si avrà nelle prossime ore. Sul Jobs Act, all’esame della commissione Lavoro, i mediatori propongono un emendamento per salvare nell’articolo 18 i licenziamenti disciplinari. Sarebbe un passo avanti. Ma il premier si fida poco. E anche ieri in direzione ha fatto capire di avere in serbo l’arma della fiducia. «Si può chiudere rapidamente con due alternative: procedere con la fiducia o garantire l’entrata in vigore dal primo gennaio anche con modifiche da verificare ».

Corriere 13.11.14
Minoranza in rivolta, attacco sui «nominati»
Anche D’Alema alla «riunione unitaria» della sinistra. E sul Jobs act 550 emendamenti
di Monica Guerzoni


ROMA «Un Parlamento di nominati è inaccettabile, un punto imprescindibile...». Tra la buvette e il Transatlantico di Montecitorio, Bersani non si stanca di declinare i suoi no alle scelte di Renzi, dando corpo e voce allo stato d’animo della minoranza: «Il premier deve sciogliere l’ambiguità, deve spiegarci l’incoerenza. Perché acceleri sulla legge elettorale, se non vuoi andare a votare?».
L’opposizione si è ormai convinta che la corsa sull’Italicum abbia un solo obbiettivo, le urne. Per questo alza i toni e avrebbe alzato fisicamente i tacchi, in direzione, se il segretario-premier avesse chiesto un voto sulla sua relazione.
In vista della convention dei bersaniani sabato a Milano, la sinistra prova a unire le forze. Le diverse anime critiche coordinano ogni mossa e ieri sera anche Massimo D’Alema ha partecipato al vertice che ha preceduto la riunione del parlamentino del Pd (dove però l’ex premier non si è fatto vedere, per impegni precedenti). Alle sette di sera, alla Camera, gli oppositori di Renzi ci sono tutti. Ecco Bersani, D’Alema, Fassina, Damiano, Epifani, Cuperlo, Speranza, D’Attorre, Zoggia... Bindi è impegnata all’Antimafia, ma è come se ci fosse. «Riunione unitaria», sottolineano i partecipanti e concordano la linea. «Se Renzi ci chiede di votare un documento noi ci alziamo e ce ne andiamo», spiega Zoggia. E D’Attorre: «La direzione non può essere il luogo dove si ratificano gli accordi fatti con Berlusconi». Questione di metodo, a cui Renzi risponde con un secco: «Non credo di aver bisogno di un mandato esplicito della direzione».
Il dissenso è a tutto campo, dalla legge elettorale al Jobs act, alla politica economica. Stefano Fassina teorizza l’uscita dall’euro? E Bersani, che pure non è d’accordo, lo difende: «È una posizione paradossale, che non va banalizzata». L’ala civatiana ha voluto rendere ancor più evidente lo smarcamento disertando la direzione «last minute». Alle dieci di sera Pippo Civati sale al Nazareno, ma i suoi delegati, una ventina, restano a casa e annunciano lo strappo criticando lo «scarso preavviso della convocazione» e ironizzando sul patto del Nazareno: «Facciamo tanti auguri a Renzi per gli incontri, sicuramente molto più approfonditi, che dedica a Berlusconi e Verdini».
C’è chi diserta e chi si fa sentire. Fassina chiede «correzioni profonde» alla delega del lavoro e la possibilità, per i cittadini, di scegliere «tutti i parlamentari». I renziani attaccano. Ma Bersani, contro i cento capilista bloccati, è categorico: «Perché dobbiamo andare avanti con i nominati?». Eppure, sul punto cruciale della delega del lavoro, cerca la chiave per conciliare «il dissenso di merito e la lealtà al Pd». E se il governo porrà la fiducia? «Non voglio crederlo».
Sul Jobs act piovono emendamenti: 15 su 550 portano le firme dell’ala sinistra, che chiede paletti anche su demansionamento, voucher e controlli a distanza e non vogliono votare il testo del Senato, quello che cambia lo Statuto dei lavoratori. «Aver messo al centro il tema dell’articolo 18 è stato un errore», attacca Bersani. «Vogliamo correzioni profonde», gli fa eco Fassina. Per scongiurare la fiducia si cerca una mediazione sul reintegro in caso di licenziamento disciplinare ingiusto, oggetto di uno degli emendamenti della minoranza «dem».

Corriere 13.11.14
Quel capannello targato Pds
In Transatlantico
di Monica Guerzoni


Metti un pomeriggio a Montecitorio tra vecchi compagni di partito.
Nel bel mezzo del Transatlantico se ne stavano ieri il leader di Sel Nichi Vendola, l’ex ministro Fabio Mussi, l’onorevole Giorgio Airaudo e l’ex viceministro Stefano Fassina, intenti a commentare l’incontro in corso tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi.
«Che cos’è, una riunione del Pds?» scherza un giornalista di lungo corso, colpito dal gruppetto che ricorda la vecchia Quercia. E Pippo Civati, che si ferma a far capannello: «Pds, sì... E non vi sfugga che la lettera più importante
è la “s” di sinistra».

Repubblica 13.11.14
L’intervista. Pippo Civati
“Sinistra schiacciata, Matteo punta al partito unico di centro”
di Tommaso Ciriaco


ROMA Pippo Civati mette piede in direzione già sconsolato. «La situazione è al limite, stiamo correndo su un filo sempre più sottile». Dalla riunione spedisce sms amari: «Renzi sta dicendo di sé quello che diceva di Letta...». E ancora: «A parole inizia a preoccuparsi della spaccatura ». Si discute di legge elettorale, intanto. E il deputato punta a salvare il salvabile. «Fossimo fuori dal patto del Nazareno, ci sarebbe il Mattarellum. Ma siccome siamo in questo schema, vogliamo capire se è possibile ridurre i danni. Partendo dalla possibilità per i cittadini di scegliere gli eletti, con le preferenze o i collegi».
Ma lei quando decide se restare nel Pd, Civati? Un paio di settimane fa aveva detto: “Entro un mese”.
«Per me la chiarezza va fatta innanzitutto con gli altri che sono a disagio. Ci stiamo confrontando e questo è molto positivo. Oggi sono passato per un saluto alla riunione con Bersani e D’Alema. Vedremo se uno sarà costretto ad andare via per costruire un progetto più ampio, oppure se sarà possibile restare nel Pd, ma con un’agibilità».
Da cosa dipende?
«Sarà possibile discutere, oltre a dover assistere al solito spettacolo? Voglio capire se il Pd è considerato un luogo di confronto, oppure se il nostro spazio si perde nel flusso renziano... Sa, con Renzi non è facile: banalizza le tue proposte, oppure le assume senza riconoscerne la paternità. Dai prossimi passaggi - legge elettorale, riforme, Jobs act, manovra si capirà tutto. Certo, se passa il progetto del partito unico di centro, la risposta su cosa faremo purtroppo già c’è...».
Il partito unico di centro?
«L’Italicum rischia di diventare l’unicum: così nasce il partito unico di centro, una grande forza che domina il sistema. Attorno c’è una destra anti-euro e antitutto. E una sinistra che viene schiacciata e rinuncia ai tratti riformisti».
Pessimista.
«Ecco il quadro: Renzi in mezzo diventa un leader nazional popolare, senza ideologie, che picchia sempre più spesso sulla sinistra. È un crescendo contro i sindacati, gli intellettuali, la vecchia guardia. Un continuo martellare».
Per lei il Pd sta sparendo a causa di Renzi?
«Io sostenevo che le larghe intese ci avrebbero portato fin qui. E infatti si parla di alleanza con Ncd alle Regionali... Pian piano la differenza tra destra e sinistra non c’è più».
Il patto del Nazareno, intanto, regge alla grande.
«Non mi sorprende. D’altra parte il Nazareno è... eterno. Non c’era motivo di pensare che questa intesa non continuasse, nonostante i distinguo. Crollerebbe tutto, altrimenti. Berlusconi fa sponda a Renzi e si vede in mille occasioni: non ricostruisce il centrodestra e si mostra molto più disponibile del passato a mantenere gli accordi».
Potesse modificare l’accordo sulla legge elettorale, cosa cambierebbe?
«Sono liste bloccate, si tratta di fatto di un’elezione indiretta. Senza contare che un capolista può esserlo in dieci collegi: così, alla fine, la segreteria di partito può decidere anche per i secondi classificati ».
A proposito: sul Jobs act la strada resta sbagliata?
«Sì. Se si continua così, alla Camera il dissenso crescerà».

Repubblica 13.11.14
Sempre daccapo
di Alessandra Longo


HA UN senso il dialogo tra credenti e non credenti? Per Fausto Bertinotti, già affascinato da Giovanni Paolo II e ora ancor di più da papa Francesco, il confronto tra menti libere è addittura necessario soprattutto su terreni di lotta comune come le ingiustizie sociali e la difesa della persona umana. «Sempre Daccapo» (Marcianum Press) è l’ultimo libro dell’ex leader di Rifondazione. Una conversazione con Roberto Donadoni e la prefazione del cardinale Gianfranco Ravasi. Il presidente del Ponticio Consiglio della Cultura si rivela un grande ammiratore di Bertinotti, ritenuto «un appassionato lettore delle Scritture cristiane e dei testi del magistero ecclesiale» («Parlare con lui è come guardare il flusso dell’Etna...»). Una citazione paolina, usata nel libro, quasi con intento testamentario, emoziona il cardinale: «Ho terminato la corsa, ho conservato la fede».

La Stampa 13.11.14
Il dubbio di Fassina:
“C’è aria di elezioni”
di Carlo Bertini


Ci sono i venti civatiani che non vanno in Direzione perché avvisati troppo tardi, c’è Civati che va e provoca Renzi, «faccia venire in Direzione Berlusconi e Verdini». Ci sono i bersaniani che per tutto il giorno si arrovellano se sia meglio andare e votare contro o uscire dalla sala al momento del voto, «perché un’astensione non verrebbe capita», dice Davide Zoggia. Ci sono i dalemiani che vanno, mentre D’Alema non rinuncia a un impegno enogastronomico e diserta la Direzione. Ha buon gioco il renziano Andrea Marcucci a sfottere evocando il morettiano dilemma, «mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo affatto?». È una delle riunioni di svolta, dove Renzi deve dimostrare a Berlusconi di essere quello che controlla davvero il suo partito, che chiama all’appello perfino gli eurodeputati, ma alla fine accetta la richiesta di evitare la conta interna. La minoranza fino a mezz’ora prima della riunione non sa come regolarsi. «Va trovata la chiave, la misura per mostrare lealtà alla ditta e dissenso nel merito», si imbarazza non a caso Bersani quando gli si chiede cosa farà al momento del voto in aula sul Jobs Act. Dove i dissidenti Pd voteranno sì se verranno recepite le richieste sull’articolo 18, le stesse su cui avevano votato contro in Direzione a fine settembre.
Per decidere la linea un affollato vertice pre-Direzione. Nella sala Berlinguer al secondo piano “dei gruppi” arrivano Bersani e D’Alema, il ministro Martina e Nico Stumpo, ma anche Cuperlo e Civati: tutte le tribù si riuniscono alla ricerca di un fronte comune. Si discetta per un’ora e alla fine la linea unitaria è: si va, si parla e non si vota. Lo schema del nuovo Italicum in realtà non dispiace alla minoranza Pd, che però solleva le barricate sui parlamentari nominati, «no ai 100 capilista bloccati», alza la diga la sinistra.
Ci pensa Stefano Fassina a dare corpo al dubbio che «l’accelerazione sull’Italicum - anche leggendo la legge di stabilità - serva ad andare a votare». Ed ecco le ragioni del dissenso: «Sulla legge elettorale chiediamo vi sia la scelta dei cittadini di eleggere tutti i deputati». Quindi, no ai nominati con i capilista bloccati. «E sul lavoro bisogna correggere la delega che aggrava la precarietà». Tradotto, ci vogliono più soldi per i disoccupati e va messo nero su bianco che la tutela dell’articolo 18 vale per i licenziamenti disciplinari.

il Fatto 13.11.14
Vannino Chiti E sul Senato sarà battaglia
“Matteo non può fare l’Italicum solo con B.”
di Gianluca Roselli


“Sulla legge elettorale ci sono luci e ombre. Matteo Renzi fa bene a cercare l’intesa con l’opposizione. Ma non bisogna dare l’idea di deciderla solo con Forza Italia”. Vannino Chiti, uno dei senatori ribelli del Pd in prima fila contro la riforma costituzionale, è pronto a dare battaglia anche sul sistema di voto. Ma la sua preoccupazione maggiore resta la legge costituzionale ferma alla Camera. “Io sul Senato elettivo non mollo”, avverte.
Senatore Chiti, come giudica l’ipotesi di legge elettorale in discussione tra Renzi e Berlusconi?
Apprezzo la soglia di sbarramento unica, spero bassa, e il premio di maggioranza che scatta oltre il 40 per cento. In questo modo si garantisce rappresentatività e governabilità. Poi però mancano le preferenze. Le vorrei almeno per il 75 per cento degli eletti. Inoltre vanno tolte le pluricandidature. Come dice il professor Ainis, un candidato deve presentarsi in un solo collegio, altrimenti viene meno il rapporto con il territorio. E non è così che la politica riacquista fiducia agli occhi dei cittadini.
Secondo lei l’accelerazione sulla legge elettorale significa che Renzi vuole andare presto alle urne?
La riforma non è per forza il grimaldello per andare al voto. Si andrà alle urne quando in Parlamento non ci sarà più una maggioranza. Chi pensa il contrario deve stare attento a non scherzare col fuoco, perché la situazione economica e occupazionale è grave e ci vuole prudenza.
Renzi sul sistema di voto sembra procedere come sulla riforma costituzionale: prima mi accordo con Berlusconi e poi con gli altri.
Sarebbe un grave errore. Su questi temi il governo deve confrontarsi con tutte le opposizioni. Il rapporto con Forza Italia è importante, ma non deve essere esclusivo. In Parlamento ci sarà spazio per discutere anche con Sel e 5 Stelle.
La scorsa estate lei è stato uno dei più battaglieri contro la riforma costituzionale.
E non sono affatto pentito. Anzi, sono pronto a continuare la mia battaglia per evitare che l’elezione dei senatori diventi una mostruosità come il sistema che abbiamo visto per le Province. Un vero obbrobrio. La mia proposta era eleggere i senatori contestualmente al voto regionale. Se non sarà possibile, ne ho altre.
Ovvero?
Legare il numero dei senatori alle percentuali prese dai partiti alle Regionali al netto del premio di maggioranza; gruppi in Senato su base territoriale; la Camera che può modificare le leggi che escono da Palazzo Madama solo se si arriva alla stessa percentuale. Altrimenti il Senato diventa un semplice “parerificio” senza alcun potere. Poi occorre diminuire il numero dei deputati e cambiare il sistema delle immunità.
Il testo sulle riforme ora è arenato alla Camera.
A Montecitorio dovrà essere modificato. Altrimenti ci penseremo noi quando tornerà in Senato. Come le ho detto, sul Senato elettivo non mi arrendo.
La minoranza del Pd, dal Jobs act alla legge elettorale, ha ridato segnali di vita. Lei ci s'iscriverebbe?
Io non mi muovo su logiche correntizie, ma faccio battaglie sui contenuti. Detto questo, una minoranza forte e organizzata farebbe bene al Pd. Invece, forse per scarsa generosità dei protagonisti, è divisa e va in ordine sparso. Ma ci sono tanti elettori del Pd che non si riconoscono in Renzi e vorrebbero avere un punto di riferimento alternativo.
Nel frattempo si è aperta la partita anche per il presidente della Repubblica.
Il toto nomi che sento in questi giorni mi sembra irrispettoso per Napolitano, che è ancora in carica e non ha ancora ufficialmente annunciato di voler lasciare.

La Stampa 13.11.14
E D’Alema preferisce il suo vino: il “rosso” che non lo tradisce
L’ex premier sottolinea i pregi dell’“invecchiamento”
di Mattia Feltri


Anche qui si è presa una direzione, e decisamente più piacevole: aperitivo con rosé frizzante e resto della serata con Sfide e Pinot nero, bicchieri di rosso che sono passati sopra un menù di tartare di manzo, ravioli di carne e stracotto.
Su quest’ultimo piatto, Matteo Renzi ci avrebbe fatto della feroce ironia, visto che il grande protagonista della serata è stato Massimo D’Alema: perché incupirsi in Direzione - in questo caso con la d maiuscola - se la vita riserva nuove occasioni di trionfo?
Diluvia a Roma, via Boito, ristorante Mamma Angelina: qui ieri sera l’ex premier ha organizzato - da qualche settimana, quindi da tempi non sospetti - la sua serata di gloria enologica.
Poco meno di un centinaio di amici, ristoratori, esperti, stampa specializzata e tre o quattro parlamentari (Luca Sani e Cristina Bargero) come lui più interessati ai retrogusti che ai retroscena. In fondo D’Alema è ormai un politico a tempo perso, sebbene conservi il cattivo umore di sempre.
A fine agosto, per esempio, era finalmente una pasqua sulla piazza di Otricoli, borgo umbro sulle sponde del Tevere, col suo banchetto per la sagra VinOtricolando, e le bottiglie in vendita. «Massimo, il frizzantino è buonissimo» gli dicevano i paesani con meritata familiarità. Niente acidità di stomaco, prodotta dal riflettere e discutere del giovane usurpatore fiorentino. Certo, fa un pochino impressione che D’Alema diserti proprio l’occasione ufficiale per dire al presidente del Consiglio, e dirglielo in faccia, tutto quello che pensa di lui. Ma ormai il pallino del produttore lo ha preso quantomeno per maggior soddisfazione. Gli capita persino di scaricare le cassette d’uva, dice con goduria da riscoperta della fatica da peone. Il suo vino, prodotto con una certa serietà, a decine di migliaia di bottiglie, va giù che è uno spettacolo, dicono i commensali rapiti e morbidosi. La segretissima cena è stata messa in piedi con la speranza di piazzare il prodotto in qualche ristorante, ma non soltanto: lui vorrebbe varcare le frontiere, se non più per i tavoli delle trattative senz’altro per quelli del rifocillarsi. Ieri sera si è alzato e - mentre all’altro capo della città Renzi si saziava di potere - ha parlato di solfiti e sapori tannici e soprattutto di invecchiamento, settore in cui è ancora un pregio.
Ecco, gli applausi li ha avuti anche lui, nonostante abbia chiuso il discorso di apertura, prima di darci dentro con le forchette, con uno splendido «A noi». Gastronomicamente parlando.

La Stampa 13.11.14
I «Professoroni» contro il governo
di David Allegranti


«Riforme contro la Costituzione?». Quantomeno ci hanno messo un punto interrogativo, quelli della sinistra radical, che dopo essere scesi in piazza contro il berlusconismo adesso organizzano manifestazioni contro il renzismo. «Il governo Renzi si rappresenta come promotore di riforme. La Costituzione dovrebbe essere l’architrave che le sorregge, ma si può temere che varie riforme volute dal governo producano distorsioni incisive dell’assetto costituzionale», si legge nel volantino che pubblicizza l’incontro. Sabato 18 novembre, alle 15, a Firenze, all’auditorium di Sant’Apollonia, torna il vecchio partito dei professori. Con Francesco Pancho Pardi, Piercamillo Davigo, Salvatore Settis e Anna Marson, a parlare di riforme e dintorni, dalla legge elettorale a quella urbanistica. Special guest, Pippo Civati. Capo della sinistra antirenzista.

Corriere 13.11.14
Il nuovo linguaggio che divide la sinistra
di Massimo Nava


L’effetto più evidente di polemiche e contrapposizioni fra Matteo Renzi e la coppia sindacale Landini-Camusso, è di avere aperto negli ambiti più diversi — partito, sindacato, elettori Pd, intellettuali, giornali — una riflessione su che cosa sia oggi la sinistra, o meglio, su che cosa voglia dire fare (o poter fare) cose di sinistra, rispetto alla crisi del Paese e in rapporto al quadro di trattati e politiche europee.
Se l’effetto fosse solo questo, la riflessione, per quanto lacerante, si potrebbe rivelare utile, sia per il governo che deve prendere decisioni continuando a dichiararsi «di sinistra» e appartenente alla grande famiglia riformista, sia per il sindacato e per la minoranza pd che intravedono nella scelte del presidente Renzi una sorta di diluizione di ideali e soprattutto troppe dimenticanze sui bisogni dei ceti più deboli.
Ciò che si vede meno e che rischia di avere effetti più sgradevoli, non solo per la sinistra, è una sorta di strisciante rivoluzione del linguaggio con cui si tendono a definire valori, categorie sociali, classi di età, diritti. Il nuovo linguaggio divide con una certa interessata disinvoltura ciò che è sinonimo di giovane o di vecchio, di moderno o di antico, di conservatore o progressista. Lentamente, si tende a condizionare la morale corrente, definendo anche ciò che è buono, onesto, utile per il Paese.
Giustamente, come ha detto ironicamente Renzi, a nessuno verrebbe in mente di infilare un gettone nell’iPhone, ma possiamo provare a definire un po’ più nel merito il concetto di modernità? È di sicuro moderna una politica che informatizzi la burocrazia, diffonda la banda larga, semplifichi la fiscalità, riformi istituzioni obsolete come il Senato. Ma è sinonimo di modernità ridurre diritti conquistati in decenni, tagliare pensioni finanziate con i contributi, tassare fondi alimentati dai risparmi e, in ultima analisi, definire il tutto come sacrificio «necessario» e la critica come una difesa del «privilegio»?
Ha senso alimentare, anziché la solidarietà fra generazioni, una sorta di conflitto generazionale che ha per conseguenza, praticamente in ogni ambito sociale e di lavoro un’esaltazione del giovane (che per forza è quindi anche «moderno») rispetto alla inutilità dell’esperienza e alla necessaria rottamazione di ogni forma di vecchiaia?
È possibile, poiché potrebbe essere considerata un’operazione di modernità, che di questo passo si passi all’attacco della sanità pubblica, confondendo sacrosante esigenze di razionalizzazione e contenimento della spesa con l’erogazione di servizi e diritti.
Già si sente teorizzare il concetto di vecchiaia come «costo sociale»: ne consegue che l’allungamento della vita non è una conquista moderna della medicina e del progresso, bensì un privilegio dell’Occidente e dei ceti più benestanti che potranno permettersi cure private e pensioni elevate.
Esempi del genere si potrebbero fare anche guardando all’Europa. Anche un bambino, che normalmente non ha una grande padronanza del linguaggio, oggi comprende che le parole usate per definire le politiche europee di questi anni raccontano un’Europa che esiste soltanto nella fantasia dei dépliant o nella testa di alcuni burocrati, per lo più residenti a Berlino e Bruxelles.
Con il termine «austerità» si sono autorizzate e imposte le politiche più rovinose e sciagurate, salvo poi esaltare in corsa la «crescita» che non c’è e non potrà mai esserci con queste politiche monetarie, con queste regole, con questa «modernità» di un’Europa che appare invece molto più vecchia, finendo oggi per assomigliare a quella degli Stati nazionali in conflitto, dei potentati finanziari, delle mire espansionistiche e di dominio del Paese più forte. Esempi di stravolgimento del significato delle parole, meno comprensibili ai più, ma ben noti a tecnici e addetti ai lavori, si potrebbero fare quando vengono definiti Paesi «virtuosi» quelli che hanno imposto lacrime e sangue ai cittadini senza essere usciti dalla crisi e aggravando il proprio debito pubblico. Oppure quando si prendono per oro colato le valutazioni delle agenzie di rating, ossia la «moderna» versione degli editti imperiali o delle bolle papali cui sono obbligati a uniformarsi le comunità, i fedeli, i sudditi.
Può sembrare banale l’auspicio a chiamare le cose con il loro nome e a dare alle parole il loro corretto significato. Di certo, continuando a fare confusione, si rischiano soltanto contrapposizioni sterili, con il risultato che nessuno comprenda (e tantomeno condivida) il significato della parola cambiamento.

Corriere 13.11.14
Gli scontri alla periferia di Roma
Nei due fortini di Tor Sapienza «Qui non si cade, si mena e basta»
di Goffredo Buccini


Pochi denti in bocca e molta rabbia in testa, lo stigma dell’eroina e della miseria. «Ci sarà una grande pulizia, vedrai!», giurano i vecchi di Tor Sapienza, quelli entrati nelle prime case Ater trent’anni fa — una specie di nobiltà locale —, seduti sul muretto dietro al Lory Bar, che è il quartier generale di questo caos: «I neri protetti dal Vaticano e dai comunisti devono anna’ affa...», sibilano.
Terza sera di paura, dopo botte e bombe carta, cortei e sassaiole: ora però ci sono molti blindati, tanti poliziotti, tute antisommossa. Bianchi e neri sono pronti a scannarsi come in una banlieue, come a Soweto, in questa periferia est di Roma. Il civico 142 di viale Morandi è un falansterio di degrado popolato da 500 famiglie, un circolo di otto piani di cemento con quattro pini piantati in mezzo, romeni abusivi subentrati nei sottoscala a 300 euro al mese, vecchi negozi occupati dai rom. «Non ho più il mio metro quadrato per respirare», ghigna Gino, e giura che negli anni Ottanta «qua era un paradiso, prima che venisse ’sta gente».
Le spedizioni degli incappucciati sono partite da qui, dai giardinetti, strillando «viva il Duce!», agitando mazze, confuse dentro i cortei di protesta degli abitanti. Bilancio: quattordici feriti, tra cui molti poliziotti e un cameraman di Raidue. Davanti alla scala DD (ogni civico ha lettere e sottolettere) c’è ancora qualche macchia di sangue di martedì.
I «nemici» sono dall’altra parte di viale Morandi, al civico 153 e seguenti, in un altro casermone, dipinto fresco di arancione: 430 metri quadrati per sette piani più due di seminterrato. Proprio di fronte, stanno. E dalle finestre guardano spaventati, in realtà non hanno gran voglia di combattere, anche se si preparano a barricare di nuovo l’ingresso contro i tentativi di irruzione. Sono ospiti della onlus «Un sorriso», che impiega una quarantina di operatori al centro d’accoglienza. I ragazzi hanno faccette implumi ma già segnate anche loro. Vengono da dove si combatte sul serio, Libia, Siria, Egitto. In tutto trentasei minorenni, per legge sotto la tutela del sindaco Marino. E trentasei adulti rifugiati. Parlano a fatica: «Sono scappato dalla guerra e ho trovato un’altra guerra», «ho più paura di prima», «meglio che morivo a casa mia».
Uno di loro, un bengalese, dimostrerà dieci anni ma ne ha quattordici, è stato preso a bastonate in testa l’altro giorno al parco. Il parco Barone Rampante è un posto sconsigliabile. I romeni ci si sono accampati e lunedì uno di loro avrebbe infastidito una ragazza romana con la coda di capelli bionda e un pitbull al guinzaglio. Quando si usa troppo la locuzione «uno di loro» significa che le cose si mettono male. Ora tutti dicono «tentato stupro», ma non c’è denuncia. La scintilla è stata quella. Il romeno è stato pestato, ma poche ore dopo è partito il primo assalto alla onlus. Negli scontri, anche la ragazza con la coda bionda ha preso un paio di manganellate.
Qua tutti menano tutti, è la legge di questo inferno che ha venti identiche succursali tutt’attorno alla periferia romana, venti focolai in attesa.
Un mese fa toccò a Corcolle. Tra un mese magari sarà la volta di Ponte Mammolo o della Romanina. La tensione gira come una pallina di roulette, il copione non cambia, quelli che soffiano sul fuoco fanno la fila. Lunedì e martedì la polizia ha individuato tra i picchiatori noti fascisti e ultrà. Ieri, rispondendo all’appello «di solidarietà» diffuso dalla onlus, sono apparsi antagonisti e vecchi militanti di Action. L’incendiario leghista Salvini, che pure ha annunciato la sua venuta, stavolta arriverà buon ultimo. Molto atteso sarebbe Ignazio Marino, che tra le grane della sua Panda Rossa ha trovato il tempo per incontrare in Campidoglio alcuni residenti. Ed è certo ingeneroso prendersela con lui, fresco arrivato. Tuttavia un suo comunicato che promette di «individuare soluzioni condivise», «una presa di distanza dagli episodi di violenza» e una visita «a breve», suona inadeguato se non grottesco.
«Qua è ‘na tragedia», inquadra la situazione Gabriella Errico, presidentessa della cooperativa che gestisce il centro d’accoglienza, «l’altra sera hanno tirato sedici bombe carta. Ma, vede, noi non ce ne possiamo andare. Come dicono i colleghi delle altre cooperative, poi si sposterebbero alla Prenestina, all’Ardeatina...», come la pallina della roulette appunto. Gli ospiti del centro sono accusati di furti, provocazioni, persino di cambiarsi nudi alla finestra.
Francesca, dirigente della struttura, calabrese, sospira: «La verità? I ragazzini sono quasi ingestibili. Vengono qui direttamente dallo sbarco. Su di loro devi partire da zero... avessimo cinque anni di tempo! Nessuno ruba. Ma qui si aggiunge disagio a disagio». Accanto, due dei più giovani si azzuffano. Gabriella Errico sospira: «Giocano, sono esuberanti. Sa, gli egiziani?».
In questa storia non si vedono ragioni, tutto sembra un torto. Persino le dimensioni del centro «Un sorriso», quasi quattromila metri quadrati per una settantina di rifugiati a 25 mila euro al mese di affitto pagati da Europa, Stato italiano e Comune di Roma. Certi spazi fanno gola in un quartiere dove prima si occupa e poi si dice buongiorno. «Ma questa è la sede della cooperativa sociale, non c’è solo l’accoglienza», spiega ancora Francesca. Di sicuro il centro attira molta polizia e la cosa non può far piacere ai padroncini dello spaccio locale: anche qualcuno di loro era in mezzo ai tafferugli.
Dalla trincea del Lory Bar, Marina dice che «no! Noi non difendiamo gli spacciatori». Ha una faccia patita per i suoi trent’anni, un cappuccio di lana in testa e, attorno, il gruppo dei vecchi tossici. Qui è nata, sua madre c’è venuta nel ‘78. Ammette: «Sì, l’altra sera c’eravamo noi. Ma abbiamo fatto un’ istigazione ». Cioè? «Ha presente nel Sessantotto quando c’erano i comunisti? Uguale a loro. Abbiamo fatto un’istigazione per farci vedere! Io nun so’ razzista. Negro non lo dico a nessuno perché è una diffamazione. Ma, scusi, se nel suo quartiere le arriva gente così lei che fa?». Un’istigazione? «No, nooo! Una rivoluzione!».
Sotto la pioggerella della sera, un cinquantenne congolese si accascia sul marciapiede della onlus, un taglio in fronte, chiedendo aiuto. Capannelli, polizia, ambulanza. Forse è caduto? Una vocina da dietro risponde: «Qua nun cade nessuno, qua se mena e basta».

il Fatto 13.11.14
Tor Sapienza. Caccia al negro
di Antonello Caporale


ROMA EST. NOTTE DI GUERRIGLIA, ESASPERAZIONE E VIOLENZA PER IL CENTRO MIGRANTI. NERVI TESI

Roma “Te venimo a prenne, nun te preoccupà che entramo e ve svotamo”. C’è una frenesia di botte, di spranghe e mortai di varia intensità nel corpo a corpo di TorSapienza, lungo i metri che separano i due muri di viale Giorgio Morandi, nel rettilineo di periferia che conduce dritti all’inferno. Nel primo blocco di case popolari, un serpentone appena più gentile di quello famoso, sono ospitati i romani residenti e acquisiti. Brava gente, famiglie di lavoratori insieme a teste calde di varia umanità e provenienza. Nel muro opposto, dentro stanze che oramai sono gabbie, resistono asserragliati nel centro di accoglienza una cinquantina di immigrati, il cui destino è però segnato. Dovranno sloggiare presto da qui. O ci pensa la polizia oppure provvedono loro, gli amici di Luciano, una lieve balbuzie, l’animo semplice e tanta voglia di farla finita con gli intrusi: “Nun ce l’ho con i negri ma con gli arabi. Gli arabi fanno schifo, sono stronzi, come pure i rumeni e questi sono arabi e li dovemo caccià”.
Borgata da 16 mila anime
Tor Sapienza conta 16 mila abitanti, è la borgata romana con più ordine apparente, resiste una geometria urbana, un decoro e una mitezza dei colori e degli alloggi tra la via Prenestina e la Collatina, a est di Roma. Trent’anni fa, il Campidoglio decise di posizionare un torrione di case popolari ai margini del quartiere. “Aveva ordine e gradevolezza, tanto che comprai casa lì vicino in unacooperativa”, diceGiuliano, 64 anni, pensionato. “Oggi però è l’inferno. È una rabbia sorda che monta, un’intolleranza che prende piede e ogni giorno si fa più dura. I miei figli mi supplicano di vender casa e trasferirmi in un luogo più tranquillo”. L’ordine era già da tempo divenuto disordine, con una delinquenza organizzata al dettaglio, una piazza speciale nello spaccio di droga, traffici di crimini comuni, un’area eletta per i transessuali e il sesso en plein air. La politica ha fatto il resto e ha trasformato Tor Sapienza, già piegata e depauperata dalla crisi, in una discarica umana. Qui dietro i rom, nel campo selvaggio di via Salviotti, qui davanti gli immigrati. Perfino il costruttore Caltagirone si è arreso all’evidenza e ha lasciato i suoi palazzi con lo scheletro a vista, senza tompagnature per paura delle occupazioni abusive. Cemento issato e invenduto. Meglio fuggire da qui. E dunque sono rimasti solo i nuovi poveri contro questi diseredati, nel più classico e conosciuto revival della disperazione. E le spranghe da due giorni sono iniziate a farsi sentire. Luciana, del comitato di quartiere: “Ci pisciano addosso, fannoladoccianudi”. Roberto, disoccupato: “M’hanno tirato un posacenere”. Carla, in auto: “Li dovete menà”. Roberto: “La situazione è insostenibile”. Signora in pantofole: “La nostra delinquenza ha rispettato ogni abitante di questo quartiere. Invece quelli... ”. Ecco il punto. Lo spacciatore riconosce i condomini e non reca fastidio, il ladro ruba altrove, il cattivo resta quieto in casa sua. Invece il piccolo barcone di Lampedusa che alla fine ha attraccato qui ha rotto ogni equilibrio e spaventato, fatto incazzare tutti per una serie di ragioni. Roberto: “Io sono disoccupato e m’arangio, loro prendono trenta euro al giorno”. Luciana: “Io so quaranta euri”. “Abbiamo le prove”. I soldi che lo Stato spende per il mantenimento provvisorio di questa disperazione umana sono stati visti come un affronto, un gesto offensivo, una incredibile provocazione. Facilissimo alimentare questa nube tossica con altro veleno, e testimoniare l’urgenza di darsi da fare con le proprie mani. Casa Pound ha una cellula attiva a Tor Cervara, due passi da Tor Sapienza, Giulio ha visto l’altra sera, negli scontri tra polizia e manifestanti, saluti romani. “Gridano viva il duce, c’è puzza di fascismo lunga un chilometro in questa protesta. E dentro ci sono pure gli ultras dello stadio. Quelli vedono botte e accorrono”. Luciana: “Non ti permettere di scrivere che siamo fascisti. Noi siamo gente che vuole vivere in tranquillità. Hai sentito di quella ragazza violentata da un immigrato? È stata violentata e poi anche manganellata dalla polizia”.
La passerella dei fascio-leghisti
Botte a non finire due sere fa, la polizia che qui ha steso un cordone di protezione, ha usato i manganelli per resistere alle bombe carta e far fronte agli animi bellicosi, ai pugni mostrati, alle lame dei coltelli”. Ma era solo il primo round. Ieri sera un immigrato è stato preso a botte. Uno a caso, tanto per far capire qual’è la musica. Questi corpi di cemento armato ospiteranno presto il promo di ciò che prevedibilmente interesserà le altre periferie d’Italia. Il sindaco Ignazio Marino verrà nei prossimi giorni, dopo un Consiglio comunale straordinario sulla sicurezza. Ma non esiste la politica nazionale, nessuno si avventura quaggiù. Il premier Renzi tace. L’unica stella che fa capolino è quella di Matteo Salvini che in joint venture con Casa Pound monopolizza temi e simpatie, distribuisce parole d’ordine, accumula slogan e per adesso intenzioni di voto. “Tor Sapienza ha bisogno di noi. Il 23 novembre sarò lì”, ha subito dichiarato. Prima di lui ci sarà già passato il solito Borghezio (domani). Sarà una marcia trionfale e anche il clou di una ribellione di massa, la miccia sul fuoco c’è e il quadrante di Roma attraversato dalla linea ad alta velocità è solo in attesa di mostrare dove la collera può portare e quale dono abbia fatto la crisi economica. Un mese fa un gruppo di abitanti di Corcolle, al di là della linea ferroviaria, avevano preso a sassate i rifugiati africani. Qui hanno alzato il livello e hanno dissotterrato le bombe carta, modelli guerreschi finora in uso alle curve, per “farsi giustizia”. “Abbiamo paura di uscire e di entrare a casa, la vita si fa preoccupante in questa strada”, dice Valentina nel soggiorno a piano terra dell’appartamento. “Ci è costato 75 milioni trent’anni fa, e tanti sacrifici. Si starebbe bene se non ci fossero loro”. Loro chi? “Quelli delle case popolari. Ci sono tante teste calde e tanti fascisti. Vogliono far guerra e adesso hanno trovato il modo per giustificarla”. E allora che si fa? “Mia figlia dice che devo venderla e intanto non mettere il naso fuori. Per fortuna abbiamo il garage con due uscite. Prendiamo sempre quella più lontana e non facciamo mai tardi di sera”.

il Fatto 13.11.14
Il sociologo Marco Revelli
“Tornano le scorie della destra e il Pd è un ogm”
di Tommaso Rodano


Dalle periferie di Roma e di altre città arrivano segnali spaventosi. Stiamo saggiando i limiti della nostra tenuta sociale”. Marco Revelli, intellettuale e sociologo, tra i primi promotori della Lista Tsipras alle scorse Europee, sembra scoraggiato, quasi arreso. “Queste violenze sono uno dei prodotti tipici della crisi. Quando le società marciscono, iniziano i conflitti orizzontali alla base della piramide sociale. I penultimi contro gli ultimi: le guerre tra poveri. I poveri si combattono perché la piramide si è allungata e i ricchi sono fuori tiro”.
E qualcuno ci specula...
C’è chi si arricchisce politicamente su questi sentimenti. È un’operazione indecente.
Nomi e cognomi?
Matteo Salvini. È l’imprenditore dell’odio. Trovo disgustoso questo modo di stare dentro la crisi per qualche pugno di voti in più. Stare contro gli ultimi per conquistare i voti dei penultimi.
Salvini, forse, risponderebbe che lui ascolta la pancia delle persone. Qualcun altro se l’è completamente dimenticate.
Non è l’unico responsabile di questa situazione. Prendiamo i rom: i campi nomadi – dove si vive in condizioni disumane – non se li è inventati certo Salvini. Le amministrazioni pubbliche di ogni colore hanno considerato questa umanità ai margini una zavorra. Salvini incassa, ma sono in molti ad avergli preparato questa situazione.
La Lega ora si allea con Casa Pound.
La crisi sta cambiando i profili delle soggettività politiche. Sta nascendo anche in Italia una destra virulenta, per certi versi persino peggiore del Front National francese, che nel tempo ha smussato alcune sue punte. La destra sta rimettendo in scena le scorie più tossiche della propria identità novecentesca.
E la sinistra?
Simmetricamente, anche la sinistra ha avuto una mutazione genetica. Il Pd è un ogm, in fuga vertiginosa da ogni identità che possa anche lontanamente ricordare le proprie origini. Renzi è impegnato in un’acrobazia spericolata: vuole stare con i ricchi al vertice della piramide (pensiamo alla Leopolda e alle cene per miliardari) e insieme conquistare il voto di chi sta in basso. Un’operazione tenuta insieme dalla sua retorica populista. È molto difficile, perché ad ogni svolta rischia di scontrarsi con la realtà dei fatti. Prima o poi succederà.
Siamo ai limiti. Abbiamo politici spregiudicati: Salvini, Renzi e in qualche momento pure Grillo, che è tentato di appellarsi a certi cattivi sentimenti, come su Ebola e immigrazione. Io avverto con paura degli scricchiolii dell’impalcatura della nostra tenuta civile. Il guappismo renziano ha cancellato anche quella sinistra che per qualche sussulto di memoria, ogni tanto, reagiva. Non rimane che il Papa, l’unica voce che si sforza di comunicare sentimenti e valori positivi.

Corriere 13.11.14
La politica ispirata dal risentimento: una strada pericolosa
di Mauro Magatti


Due episodi in pochi giorni. Stesso scenario: le periferie degradate delle grandi città (Milano e Roma); stessi protagonisti: gruppi sociali marginali, abitanti esasperati, apprendisti stregoni in cerca di riposizionamento politico, gruppi antagonisti e centri sociali, forze dell’ordine. Stesso risultato: la violenza che scoppia e distrugge, confermando ciò che avremmo sperato non vedere più: l’odio che avvelena l’aria delle nostre città e della nostra democrazia.
In un libro di qualche anno fa Zygmunt Bauman ha sostenuto che la crescita tende a creare, come una sorta di effetto collaterale, «scarti umani». Uomini e donne, dice Bauman, che, per una ragione o per l’altra, diventano inadatti a vivere in una società avanzata. «Vite di scarto» che le democrazie tendono a rimuovere, concentrandole ai margini delle proprie città. Dove si pensa non diano fastidio. Almeno alle vite «normali». Salvo poi accorgersi che questa rimozione è un’operazione impossibile: non fosse altro perché c’è sempre qualcuno che è costretto a vivere vicino a questi luoghi della sofferenza contemporanea. Anche se è sgradevole osservarlo, accade cioè qualcosa di simile a quanto succede a proposito delle discariche dei rifiuti. Di cui tutti riconosciamo la necessità, salvo poi volerle sempre altrove e comunque mai nelle vicinanze della propria abitazione.
È attorno a questi luoghi dove concentriamo quelli che sono «scarti» — un campo di rom, un centro per l’accoglienza di immigrati — che è scoppiata anche in questi giorni la violenza. Perché?
È incredibile come le società umane sembrino non imparare mai. Le periferie delle grandi città di tutto il mondo sono contesti fragilissimi, che vivono di equilibri molto precari e instabili. Al loro interno, spesso sono solo le inesauribili risorse di socialità e di umanità presenti nella stragrande maggioranza degli esseri umani a tenere le maglie di un tessuto sociale che manca persino degli elementi più basilari. Ma provate a cambiare, senza nessuna azione di accompagnamento, gli equilibri etnici di questi quartieri (ad esempio attraverso una massiccia immigrazione); aggiungete qualche campo rom o un centro per immigrati illegali, «brillantemente» collocato in un contesto già fragile; fate seguire anni di recessione economica che — come non è difficile immaginare — produce disoccupazione particolarmente elevata, soprattutto tra gli abitanti di questi quartieri. Non è questa la ricetta per il disastro?
Anche se non ce ne rendiamo conto, attorno alle grandi città ci sono quartieri in cui si vive in una condizione di extraterritorialità. Dove i cittadini si sentono letteralmente abbandonati da istituzioni che sembrano non esistere (salvo la scuola che eroicamente continua a essere un presidio in tutta italia) eccetto che per saltuari se non estemporanei interventi repressivi.
In questi quartieri regna un profondo senso di insicurezza che alimenta il risentimento, un misto di rabbia e desiderio di rivalsa, protratto nel tempo, che si prova come conseguenza di un torto o frustrazione subita, sia essa reale o immaginaria.
In queste condizioni, basta una scintilla per far scoppiare l’incendio. E basta davvero poco per organizzare una speculazione politica. Che ha gioco facile nello sfruttare il disagio diffuso e volgerlo contro il capro espiatorio di turno — il migrante, il rom — che può facilmente fare da parafulmine per tutte le fatiche di chi vive in questi quartieri. Così che il risentimento — che non saprebbe con chi prendersela per una vita grama privata persino della speranza — riesce così a trovare uno sfogo. È stato questo il caso di Matteo Salvini, a sua volta bersaglio di aggressioni. Il leader della Lega, in cerca di un riposizionamento politico che fa del modello di Le Pen il proprio punto di riferimento, ha il fegato di andarci in questi quartieri. E di dare così la sensazione di essere vicino a chi non si sente ascoltato.
Nei prossimi mesi vedremo gli esiti di una tale campagna. Certo deve preoccupare lo stato di una democrazia dove i soggetti politici percorrono queste vie per ottenere un consenso che non riescono più a costruire con un discorso capace di guardare al futuro. Il risentimento è un’arma pericolosa. Maneggiarla può portare anche là dove non si voleva finire.

Repubblica 13.11.14
Milano. Occupanti, racket, antagonisti : scoppia la battaglia delle case popolari
Da San Siro al Corvetto: 20 mila sfratti da eseguire, 800 palazzi “invasi”
Risse quotidiane. E gruppi di donne “a difendere la legalità”
di Piero Colaprico


MILANO «Una volta sui portoni segnavano una “M”, o una “V”, era il segnale dell’occupazione notturna. Da quando l’abbiamo capito, e ci piazzavano davanti alle porte, hanno cambiato modo di comunicare. Adesso il nostro incubo sono i fischietti. Quando devono occupare le case lasciate vuote, arrivano alla spicciolata, poi fischiano, si avvisano tra loro e irrompono. Ma mentre loro fischiano, noi usiamo i telefonini e corriamo, chiamiamo la polizia... ».
Sono tutte donne, al quartiere San Siro, e in viale Mar Jonio hanno costituito il primo comitato cittadino in grado di trasformare gli stabili delle case popolari in una gigantesca trincea anti-abusivi. A qualcuno dei vicini, «a forza di sentire quei fischietti, è venuto l’esaurimento nervoso». Ma non a Lucia Guerri, 76 anni, anima del comitato: da quando gira con le stampelle per guai al menisco s’è fatta sostituire dalla nipote Giulia Crippa (cognomi milanesissimi), ma non molla. «Al massimo con noi viene un solo uomo, il Gino, anche i poliziotti ce lo dicono: “Ma i mariti dove sono?”. Eh, davanti alla televisione... ».
Lo stesso fenomeno metropolitano — queste donne senza paura di stare in trincea — succede tra Lorenteggio e Giambellino, dove per tre volte, nella scala D di via Odazio 6, sono state le signore di settanta, ottant’anni, a difendere la porta da uno sfondamento, finché l’Aler (che cura le case popolari per conto della Regione Lombardia) non l’ha assegnata a una signora italiana, portatrice di handicap. E chi se l’è presa, però, con questo coraggioso comitato inquilini che lotta contro le occupazioni? Il centro sociale “Base di solidarietà popolare Giambellino”: la sinistra antagonista s’è schierata a favore delle occupazioni, «sono questi giovani che spaventano i vecchi italiani, ci minacciano, provano a farci paura», dice M. P., «perché con i rom, che hanno occupato varie case, non abbiamo problemi, se non — ed è una citazione testuale — per il fatto che non capiscono la raccolta differenziata dei rifiuti».
Rifiuti a parte, il paradosso di questa battaglia “regolari-abusivi” è apparso nitido anche al Corvetto, dove martedì sera, altri gio- vani dei centri sociali antagonisti hanno attaccato con vernice e fumogeni una riunione di abitanti del quartiere che chiedevano gli sfratti: e se ne sono andati solo quando hanno visto gli anziani cominciare a tossire e star male. Le case popolari di Milano sono una polveriera ovunque, in ogni quartiere, e in più, tra pubblico e privato, ci sono in città circa 20mila sfratti da eseguire. Le prime operazioni di sgombero riguardano chi ha occupato le case popolari. «Allora sarà guerra», si sente dire in giro.
Già dalla quotidiana «battaglia dei fischietti » di San Siro si vedono da vicino i tre eserciti schierati in campo: gli inquilini regolari, al grido «no al degrado»; la massa indistinta degli occupanti abusivi legata al racket dei senza-casa; il centro sociale Cantiere, che partecipa alle feste di strada, promuove amicizia tra vicini e spiega che lotta «contro chi della casa ne fa un bene di profitto. Che sieda in poltrona, i nostri governanti, o che stia per strada, il racket». Ma se la politica è riconoscibile, il racket è sfuggente e, nello stesso tempo, sapiente: «Qui a San Siro — racconta uno degli uomini, in segreto dalle donne — bisogna stare molto attenti a come ci si muove. C’è un tariffario per aprire le porte e per entrare nelle case, duemila euro il servizio completo. Ma non lo può fare chiunque, il lavoro del fabbro, bisogna chiedere il “permesso” a qualcuno che può darlo, e sinora nessuno è andato a rompergli le scatole, né la legge, né i centri sociali, vediamo come andrà a finire ».
Se «vediamo» da vicino le strade delle periferie milanesi una cosa è chiara: ad alzare la voce più forte di tutti è chi vive di illegalità. Com’è successo, per esempio, a Crescenzago: alla fine di un’assemblea pubblica contro il degrado, le auto di molti partecipanti sono state trovate con i vetri rotti e le gomme squarciate. La trincea di San Siro invece resiste, è lunga ben 56 portinerie «popolari», a ogni portineria fanno capo dai cento ai centoventi appartamenti. Ma spicca un altro numero: gli abusivi hanno conquistato in zona ben 800 case. I primi sono stati «gli italiani» che venivano, vent’anni fa, dal quartiere Stadera, rettangolo di strade a non bassa densità criminale: sfrattati, scacciati, arrestati nella periferia Ovest, molti di quei gruppi sono saliti nella periferia Nord. E nessuno ha resistito «ai barbari». Poi, con le ondate migratorie, sono approdate accanto allo stadio le famiglie con bambini: chi poteva occupava le case vuote che — e anche questo dato nudo e crudo è tale da far riflettere — ancora oggi sono alcune centinaia.
Case vuote perché? Per una legge della Regione Lombardia, che impone l’affitto solo di case ristrutturate (ma non le ristruttura, o lo fa con il contagocce). Viceversa, il Comune di Milano, da poco, ha tolto le sue case dalla gestione dell’Aler (succederà entro l’anno), le ha affidate alla società che gestisce la Metropolitana milanese, e ha in mente di provare ad affittare le case «allo stato di fatto», scalando i lavori da eseguire dal calcolo dell’affitto.
Nel frattempo, però, nessuno che aspetta la casa sta a guardare. A due passi da viale Mar Jonio, in via Cividale 30, l’altro ieri un clan di nomadi è andato all’arrembaggio di un intero stabile, ma è scattato l’allarme e tutti sono stati scacciati, anche perché nella palazzina mancavano bagni, porte, scale, eppure «quelli ci sarebbero rimasti lo stesso».

il Fatto 13.11.14
Per i diritti dei rom e dei sinti
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, noi rom e sinti siamo la più grande minoranza europea – oltre dodici milioni distribuiti in tutti i Paesi – non abbiamo una terra di riferimento, neppure l'India delle lontane origini, non abbiamo, come altre minoranze disperse, rivendicazioni territoriali, quindi non abbiamo mai fatto guerre per rivendicare una patria. Siamo cittadini del luogo in cui viviamo. Siamo il perfetto popolo europeo, ma ciononostante siamo il popolo più discriminato d’Europa.(...) Per queste ragioni le comunità rappresentate dalla Federazione Rom e Sinti insieme alla Federazione Romani propongono ai cittadini italiani di sottoscrivere una legge di iniziativa popolare per il riconoscimento giuridico della minoranza linguistico-culturale rom e sinta italiana.
Dijana Pavlovic

COME I LETTORI IMMAGINANO la lettera di Dijana Pavlovic è molto più lunga ed è stato inviato in allegato anche il testo della legge, che sarà pubblicato in Rete. Voglio dire le ragioni della mia risposta. La prima è che firmerò la legge, che ritengo necessaria. È una materia fondamentale di diritti civili e di diritti umani per i quali, quando ero in Parlamento, ho avuto il sostegno e la collaborazione solo dei colleghi radicali. La seconda è che Dijana Pavlovic è una collega e amica che scriveva per l'Unità al tempo della direzione mia e di Padellaro. La terza ragione la leggo nella stessa giornata in cui scrivo (12 novembre) a pag. 5 dell'inserto romano del Corriere della Sera. Titolo: “Smantellato campo rom”. Testo: “Sono arrivati con le ruspe, i camion, pattuglie di rinforzo in caso di reazioni degli occupanti. Ma fortunatamente l'operazione è andata in porto senza guai. I vigili urbani, dopo la nostra denuncia sul ‘campeggio’ rom a Ponte Testaccio, hanno rimosso tonnellate di masserizie e favorito la pulizia dell'area. Sono stati portati via mobili, brande, tende, tv e frigoriferi che rendevano inagibile la banchina del ‘parco fluviale’ che oggi è recuperata”. La cronaca non ci dice a che ora sono arrivate le pattuglie di vigili e le ruspe (certamente un po' prima dell'alba), quanti erano i residenti del “campeggio” e quanti di essi erano bambini. Non ci dice neppure perché, per prima cosa, arriva la ruspa, strumento di distruzione all'ingrosso, capace di spazzare e ingoiare anche una culla, una sedia a rotelle o una più che legittima bicicletta. Dove vanno, in casi del genere, “mobili, brande, tv e frigoriferi che rendevano inagibile la banchina”? C'è un sequestro, una ricevuta, un modo di riaverli indietro se sono ancora utilizzabili dopo il buon lavoro della ruspa? È vero che, nella credenza radicata e diffusa, i rom “rubano”. Ma in casi come questi è il Comune di Roma che ruba ai rom, a meno che manchi la notizia di un grande deposito comunale in cui vengono ospitate e restituite a chi ne fa richiesta con ricevuta, le “masserizie”. Voglio chiarire. Non sto facendo, senza diritto, la morale al Corriere, che ha scritto quello che è effettivamente accaduto. Sto dicendo che il breve testo (certamente tratto dal verbale dei vigili) è documento della cultura italiana contemporanea. Nessuno nota immondizie e oggetti ingombranti, abbandonati e visibili, con danno anche al turismo, in molte zone di Roma, simili alla banchina del Te-staccio. Ma la denuncia scatta subito se vi è un insediamento rom. Lo scandalo (e la violazione di norme internazionali ed europee sottoscritte dall'Italia) non è la rimozione, ma la modalità di essa come è stata descritta, la distruzione delle baracche per vivere (in giorni di pioggia violenta e continua), il sequestro d'autorità dei pochi beni (tv, frigorifero) la cacciata, senza alcuna preoccupazione di avere preventivamente indicato un luogo in cui i rom (certamente famiglie) potranno andare a vivere. Sì, la legge di iniziativa popolare è urgente. È necessaria a tutela della immagine di ciò che resta della civiltà italiana, prima ancora che per la protezione dei rom e sinti (che sono in tutto 150 mila in Italia, la metà donne, la metà bambini) ma vengono tenuti d'occhio come il vero pericolo, più del Califfo). La firmerò e vi prego di firmarla.

il Fatto 13.11.14
Segreti sulle stragi Renzi non risponde
di Gianni Barbacetto


RICORDATE la promessa di Matteo Renzi di togliere il segreto ai “misteri d’Italia”? C’è qualcuno che gli chiede conto della promessa. È Paolo Bolognesi, a nome dei familiari delle vittime delle stragi e della Rete degli archivi per non dimenticare. Presidente dell’Unione dei familiari e ora anche deputato Pd, ha ripetutamente chiesto un incontro al presidente del Consiglio, per porre alcune domande sui documenti che dovrebbero diventare pubblici. “Per evitare che un fatto importante come la tua direttiva si risolva, come in altre occasioni, in un modo per aggirare la richiesta di verità dei cittadini e dei familiari delle vittime”. La direttiva di Renzi dell’aprile 2014 assicurava “un versamento della documentazione relativa alle stragi di piazza Fontana (1969), Gioia Tauro (1970), Peteano (1972), Questura di Milano (1973), Brescia (1974), Italicus (1974), Ustica (1980), stazione di Bologna (1980), rapido 904 (1984)”. Ora, ricorda Bolognesi, si aprono alcuni problemi. I più concreti sono quelli organizzativi e di spazio: dove “versare” i documenti? All’archivio centrale di Stato o a quelli periferici? E dove trovare lo spazio per conservare carte che occuperanno spazi imponenti? “Appare utile utilizzare le caserme dismesse per creare nuove sedi per gli archivi di Stato”, suggerisce Bolognesi. Sarebbe un “grande giovamento anche in termini di risparmio sugli affitti delle sedi attuali”.
Poi ci sono i problemi più sostanziali: che cosa sarà davvero declassificato? E chi deciderà che cosa declassificare? Perché esistono “fatti di terrorismo e stragi (moltissimi!) che non riguardano le stragi oggetto della direttiva”. Questi come saranno valutati? “Occorrerebbe ragionare su declassifiche progressive e versamenti unitari”, dice Bolognesi, “non per fatto singolo, ma in relazione a tutto ciò che interessa quell’arco di tempo (1969-1984), circa i fatti che coinvolgono persone o organizzazioni presenti in quel periodo, implicati nelle vicende di terrorismo e stragi”.
La domanda delle domande però è: chi decide su quali documenti togliere il segreto? Marco Minniti, sottosegretario con delega ai Servizi segreti, a settembre, al Premio Alpi, non solo ha annunciato la de-classificazione di tutti i documenti relativi all’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Krovatin, ma ha anche parlato di “70 metri lineari di documenti dei servizi segreti, relativi alle grandi stragi avvenute tra il 1969 e il 1984, che – in base alla direttiva – sono pronti per essere declassificati e versati all’archivio centrale dello Stato”. Francamente, 70 metri sono davvero pochi per una storia così lunga e così travagliata e complessa. E allora: “Da chi era composta”, chiede ora Bolognesi, “la Commissione che si è occupata di selezionare” quei 70 metri? Oltre alle carte dell’intelligence, la direttiva riguarda i documenti anche di altri enti produttori (la Farnesina, il ministero dell’Interno, quello della Difesa...). Quali sono gli enti produttori interessati? Come si sta procedendo? Che tempi sono previsti? E ancora: i documenti saranno digitalizzati?
INFINE, la domanda delle domande: “Chi deve declassificare e depositare è lo stesso che fino a oggi ha classificato, con sue valutazioni, e coperto i documenti. Quali garanzie possiamo avere che il materiale depositato sia la totalità del materiale? Come sarà possibile controllare?”. Sarebbe per questo opportuno inserire, “nella commissione prevista dalla direttiva, figure quali magistrati, rappresentanti delle associazioni di vittime di stragi e terrorismo e un rappresentante della Rete degli archivi per non dimenticare”. Renzi ha fatto sapere a Bolognesi di avere molto da fare. Per ora, nessuna risposta e nessun incontro.

Corriere 13.11.14
Test di medicina, il timore dei rettori: «Anno accademico pregiudicato»
di Claudia Voltattorni


Dovevano entrarne 10 mila in tutta Italia. Poi ne sono arrivati altri 5 mila. E presto se ne aggiungeranno altri 2 mila. Una situazione «gravissima» e «insostenibile» che «pregiudica il regolare avvio dell’anno accademico». Così i rettori della Crui (la Conferenza dei rettori delle università italiane) hanno scritto al ministro Stefania Giannini chiedendole un incontro urgente per affrontare quella che sta diventando una emergenza: il sovraffollamento di matricole nei corsi di laurea in medicina per l’ingresso dei ricorsisti che, pur non avendo passato il concorso, sono stati riammessi dal Consiglio di Stato. Ciò si è tradotto, in alcuni casi, come quello di Palermo, in quasi il triplo di studenti (intorno ai 1.100) per corsi e spazi pensati invece per un terzo di loro (404). Si parla di aule stracolme e laboratori impossibili da tenere. «Ora stiamo dando una risposta con strumenti straordinari — dice il rettore di Palermo e vicepresidente Crui Roberto Lagalla — ma per i prossimi anni cosa faremo?». Anche perché, scrivono i rettori, «da anni le domande di accesso ai corsi superano le relative offerte, tanto di posti quanto di borse». Il ministro li riceverà domani.

Corriere 13.11.14
L’eterologa e donatrici
Ovociti, il nodo dei compensi
di Luigi Ripamonti


Il problema della mancanza di ovociti per la fecondazione eterologa è puntualmente venuto a galla, come previsto. Del resto accade spesso che l’Italia si areni fra intenzioni e attuazioni. Abbiamo salutato come una vittoria di civiltà la rinnovata possibilità di accedere alla fecondazione eterologa nel nostro Paese, perché poneva fine a una discriminazione su base di censo, visto che chi poteva la faceva all’estero. E ora ci accorgiamo che le cose continuano come prima perché non ci sono donatrici. I motivi? L’assenza di incentivi economici alla donazione (salvo aggirare l’ostacolo con «rimborsi» vari) e, secondo diversi osservatori, la mancanza di cultura della donazione di queste cellule (che richiede una stimolazione ovarica non del tutto priva di rischi).
Su questo punto vale forse la pena osare una riflessione impopolare: donazione per chi? Per una donna di 35 anni in menopausa precoce? Per una devastata dall’endometriosi? Per una che ha avuto un tumore? Pare indiscutibile incoraggiare alla donazione in questi casi.
Promuovere la donazione gratuita per una donna che ha più di 45 anni e che, per libera e legittima scelta, ha deciso di ritardare il momento in cui avere figli? Antipatico dirlo ma l’indicazione medica sarebbe meno stringente e, forse, più comprensibile la richiesta di un compenso. Politicamente scorretti per politicamente scorretti, andiamo oltre: liberalizziamo la vendita degli ovociti? Oggi gli ovociti, domani un rene? Non è la stessa cosa, nel primo caso non ci sarebbe la perdita della possibilità di avere figli, nel secondo se «salta» il rene residuo c’è la dialisi. Però qualche timore di una deriva potrebbe esserci.
E allora? Terza via: mettiamo via gli ovociti, congeliamoli finché siamo giovani così magari ci serviranno più in là negli anni. Niente di male, a meno che non sia il correlato di una cultura che, per varie ragioni, induce a pensare che sia privo di costi il rimandare la gravidanza molto in là nel tempo. Non è senza costi: una cosa è partorire a 25 anni o a 35, un’altra a 48. Però così siamo daccapo e rimane la realtà di oggi, che è quella di ieri: chi vuole può comprarsi gli ovociti all’estero chi non può rimane discriminato. E allora che fare? Ognuno avrà una sua opinione: il dibattito è aperto e complesso.
Non guardare le cose come stanno sarebbe ipocrita, non affrontarle tenendo conto di tutti gli aspetti superficiale. Rimane una considerazione: insieme alla cultura della donazione si potrebbe cominciare a promuovere anche una cultura dell’accettazione (non della rassegnazione) per scongiurare quella della disperazione e arginare quella della commercializzazione eccessiva dei problemi di infertilità.

Repubblica 13.11.14
L’amore non è surrogato
di Michela Marzano

L’ORDINAMENTO italiano, per il quale la madre è colei che partorisce, contiene un espresso divieto della surrogazione di maternità, ossia della pratica secondo cui una donna si presta ad avere una gravidanza e a partorire un figlio per un’altra donna”. È con queste parole che la Corte di Cassazione ha definitivamente rigettato la domanda di riconoscimento del piccolo Tommaso che era stata depositata da una coppia di Brescia. Avendo problemi di sterilità, la coppia si era recata in Ucraina dove, nel 2011, il bimbo era stato messo al mondo da una madre surrogata prima di essere registrato come figlio della coppia. Dopo il rientro in Italia, però, l’uomo e la donna erano stati smascherati e denunciati per falso anagrafico. Conclusione: Tommaso è oggi “figlio di nessuno”. Punito per colpe non sue, è ora in attesa di essere adottato; in attesa di una nuova famiglia.
Chiamata per la prima volta a pronunciarsi nel caso di un “utero in affitto”, la Corte di Cassazione sbarra la strada alla legittimazione dei figli nati con pratiche vietate in Italia, conferma la decisione presa dal Tribunale dei minori di Brescia e respinge l’idea di riconoscere il diritto alla coppia di tenere il bambino avanzata dalla Procura. Di fatto, la Corte di Cassazione ribadisce il divieto di ogni pratica di “fecondazione extracorporea”. Ma non è questo, a mio avviso, il problema che pone oggi questa sentenza. Non è in questione la legittimità o meno della maternità surrogata — su cui i dibattiti etici e giuridici sono ovunque molto tesi, visto che sono in gioco interessi e valori contraddittori; e che c’è, da un lato, il dramma della sterilità di alcune coppie e la questione della genitorialità delle coppie omosessuali, e, dall’altro, il problema della strumentalizzazione del corpo delle donne. Il vero dilemma riguarda il bambino e il suo futuro. Il benessere e la tranquillità di chi, con il reato commesso dalla coppia bresciana, non c’entra nulla. Perché non è certo Tommaso ad aver chiesto di nascere o di essere partorito da una madre surrogata. Non è certo lui ad aver scelto alcunché.
Il piccolo subisce solo. Fin dall’inizio. Non sarebbe mai nato se questa coppia non l’avesse desiderato, non fosse andata in Ucraina, e non avesse utilizzato l’utero di un’altra donna. Ma è lui, adesso, a non avere più una famiglia e a non averne ancora un’altra. Esattamente come sarà lui, un giorno, a dover fare i conti con tutta questa storia piena di strappi e di abbandoni. È forse per questo che la Procura generale della Cassazione aveva chiesto la revoca dello stato di adottabilità e la restituzione a quelli che si erano spacciati per i suoi genitori. Esattamente come la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sollecitata a pronunciarsi sul caso di due coppie francesi, nel giugno del 2014, aveva dato ragione alle coppie. Riconoscendo il danno identitario subito dai bambini, la Cedu aveva chiesto alla Francia di riconoscere ai bimbi nati negli Usa con maternità surrogata lo statuto di “figli legittimi”.
Certo, per la legge italiana “la madre è colei che partorisce”. Ma, per un figlio, la madre e il padre sono soprattutto coloro che lo hanno desiderato, voluto, accolto, coccolato, cresciuto. E poco importa, per lui, quello che possono aver fatto o le leggi che possono aver violato per averlo. Un bimbo si lega e si affeziona a chi comincia ad occuparsi di lui, anche se non si tratta del genitore biologico o non ha ancora lo statuto di genitore adottivo. Che è poi il problema delle famiglie cui si affidano i bambini prima di farli talvolta adottare da altre. Se veramente ciò che conta è il benessere dei più piccoli, non si dovrebbe trovare il modo di proteggerli veramente legiferando? E evitare, così, che l’assenza di regole produca dolorose e ingiuste contraddizioni che poi è fin troppo facile scaricare sulla magistratura.

Il Sole 13.11.14
Lirica. L'audizione del sovrintendente
«Via alternativa ai licenziamenti all'Opera di Roma»
di Antonello Cherchi


ROMA Sull'Opera di Roma c'è la volontà di trovare una strada alternativa ai licenziamenti: lo hanno sottolineato ieri i sindacati e il sovrintendente Carlo Fuortes, entrambi sentiti (ma in momenti diversi) dalla commissione Cultura della Camera. Dopo l'annuncio dell'allontanamento dell'orchestra e del coro e l'esternalizzazione delle attività artistiche, «c'è stato - ha affermato Fuortes - un atteggiamento totalmente diverso da parte dei sindacati, una grande assunzione di responsabilità. Si sono dimostrati disponibili a ridiscutere la parte retributiva e hanno proposto nuove regole sugli scioperi. La fase è ancora aperta, ma nel corso dell'iter che la legge prevede prima di formalizzare i licenziamenti, credo si possa trovare una soluzione».
Anche dalle diverse sigle sindacali sono arrivati conferme in tal senso: «I lavoratori – ha spiegato Alessandro Cucchi segretario generale della Uilcom Roma e Lazio – sono disposti anche a sospendere alcune loro attribuzioni per un periodo determinato, a fronte dell'obiettivo del risanamento, con la possibilità, una volta conseguito, di tornare a recuperare pezzi di salario». «Chiediamo che i posti di lavoro che abbiamo restino e soprattutto chiediamo un progetto cultura», ha aggiunto Maurizio Giustini, segretario della Fistel Cisl.
Su tutto c'è la necessità di risanare i conti del teatro, di aumentare la quota di autofinanziamento e di incrementare la produttività. Per quanto riguarda il pregresso – «una situazione – ha spiegato Fuortes – che non nasce nel 2013, ma è il frutto di interventi stratificati nei decenni che hanno portato ai conti disastrati di oggi» – c'è la possibilità di far ricorso alla legge Bray (legge 91/2013), che ha previsto un fondo di rotazione di 125 milioni di euro per aiutare le fondazioni liriche in grave dissesto, a fronte, però, di un piano di risanamento che l'Opera di Roma ha presentato in luglio al commissario della lirica, Pierfrancesco Pinelli.
Per il futuro, invece, è necessario ridurre le spese e aumentare la produttività. «Dobbiamo incrementare l'autofinanziamento, che ora – ha illustrato Fuortes – è al 17,8%, contro il il 56,6 dell'Arena di Verona, il 51,1 della Scala o il 36,6 di S. Cecilia». In questo modo si sarà meno legati ai contributi pubblici, che all'Opera nel 2013 hanno raggiunto i 41,3 milioni di euro, più anche della Scala, che però ha un valore della produzione di 116,5 milioni, contro i 52 milioni del teatro della capitale. Bisogna, dunque, lavorare di più: «Ora il costo del personale – ha spiegato Fuortes – incide sul valore della produzione per il 76% (39,5 milioni), contro una media del 62%. Eppure l'orchestra "timbra" solo 125 giorni l'anno».

Il Sole 13.11.14
Moro, l'accusa al consulente Usa
Commissione d'inchiesta. I nuovi elementi scaturiti da un'intervista di Minoli trasmessa l'anno scorso da Radio24
Il Pg Ciampoli: «Per Piecznik gravi indizi di concorso morale in omicidio»
di Ivan Cimmarusti, Marco Ludovico


«Concorso morale nell'omicidio» dello statista democristiano Aldo Moro. Un'accusa che adesso pende su Steve Piecznik, ex funzionario del Dipartimento di Stato Usa ed ex consulente del Governo italiano in materia di terrorismo dal 1978. Molto vicino all'allora ministro dell'Interno, Francesco Cossiga, legato a doppio filo con l'intelligence italiana ma non così ben visto in altri ambienti Dc, come quelli andreottiani, che l'avevano soprannominato «il piccolo Eisenhower», Piecznik sarebbe dunque coinvolto in prima persona nell'omicidio dello statista: ne è convinto il procuratore generale della Corte d'appello di Roma, Luigi Ciampoli.
I risultati dei suoi accertamenti, finiti in una relazione di un centinaio di pagine, sono stati illustrati ieri in una lunga audizione alla commissione parlamentare d'inchiesta. Il documento viene trasmesso all'attenzione del procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, a cui il pg chiede di aprire un'inchiesta su Piecznik. Lo stesso documento è stato inviato anche all'ufficio del giudice per le indagini preliminari cui è stata proposta l'archiviazione della vicenda delle rivelazioni dell'ex ispettore di polizia, Enrico Rossi, secondo cui c'erano due agenti dei servizi segreti a bordo di una moto Honda in via Fani a Roma la mattina del sequestro.
Ma è il ruolo di Piecznik a essere al centro delle polemiche. «Abbiamo trovato del materiale interessante – ha detto Ciampoli – nell'analisi dell'intervista all'esperto americano, Piecznik, realizzata da Gianni Minoli anni fa» e trasmessa l'anno scorso da Radio24. L'obiettivo del consulente americano di Cossiga sarebbe stato quello di attuare una «manipolazione strategica al fine di stabilizzare la situazione dell'Italia». «Abbiamo registrato una autoreferenzialità quasi schizofrenica da parte di questo soggetto – ha chiarito Ciampoli – che rivendica in maniera diretta di aver determinato l'uccisione di Aldo Moro. La strategia era quella di mettere alle strette le Br che avrebbero ucciso il Presidente quando si erano ormai piegate alla esigenza di liberarlo. Un omicidio indotto». La Procura di Roma, tuttavia, ha già avuto modo di interrogare Piecznik di recente. Nell'intervista, trasmessa il 30 settembre 2013 nel corso nel programma radiofonico Mix24 su Radio24, l'ex funzionario Usa aveva sostenuto di aver collaborato con le autorità italiane durante il sequestro Moro. Dichiarazioni che, tuttavia, non ha confermato nel corso del suo interrogatorio per rogatoria internazionale al sostituto procuratore Luca Palamara e agli investigatori dei carabinieri del Ros Lazio, al comando del colonnello Stefano Russo.
C'è dunque una divaricazione obiettiva tra i risultati delle indagini della procura e le conclusioni del procuratore generale della Corte d'appello. Se, da una parte, Ciampoli parla apertamente di un coinvolgimento nell'affaire Moro anche dell'ex servizio segreto militare, il Sismi - con il colonnello Camillo Guglielmi, ormai deceduto - nel rapimento dello statista democristiano, dall'altra parte l'inchiesta penale condotta dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo sta svelando un intricato giro di "bufale" finite anche su noti libri d'inchiesta sulla vicenda. C'è, infatti, un'ipotesi precisa di reato in questa indagine della procura capitolina: la calunnia verso esponenti dello Stato. Perché gli accertamenti del Ros avrebbero dimostrato come sul sequestro e omicidio Moro siano state diffuse informazioni fasulle per fomentare l'ipotesi del "complotto". Uno dei soggetti coinvolti è il brigadiere in congedo della Guardia di finanza, Giovanni Ladu, autoaccusatosi di aver fatto parte dell'organizzazione para-militare Gladio. L'ipotesi dei magistrati inquirenti è che in due diverse occasioni - una delle quali sotto il falso nome di Oscar Puddu - Ladu avrebbe fornito false informazioni all'ex giudice Ferdinando Imposimato, utilizzate dall'ex magistrato per due diversi libri sul caso Moro: «Doveva morire» e il recente «I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia» che ha spinto il Parlamento a nominare la nuova commissione d'inchiesta. Resta comunque aperto un enorme interrogativo su come sono andati realmente i fatti. Come dice il Democratico Gero Grassi, uno dei deputati che ha voluto la commissione d'inchiesta, «le dichiarazioni del procuratore generale danno all'intera vicenda una patina che fino a oggi non c'era. Assumono così una rilevanza peculiare e fanno riflettere».

La Stampa 13.11.14
Guaio Capitale
Marino e la Panda in divieto di sosta


Se il sindaco di Roma Ignazio Marino avesse in Campidoglio un consigliere almeno fidato, forse gli consiglierebbe di regalare la sua Fiat Panda rossa. La vettura è infatti al centro della discussione politica capitolina dell’ultimo mese. L’intera opposizione in Campidoglio si basa ormai su quella sua automobile, per lo più in uso alla moglie. Prima la polemica perché per un anno è rimasta parcheggiata gratuitamente nell’area riservata del Senato (pur non essendo più il nostro senatore). Poi è finita multata e subito “graziata” dal Comune di Roma per accessi non consentiti nella zona a traffico limitato del centro storico. Infine, l’altra sera, mentre nei pressi del Pantheon era in corso una manifestazione a favore dei due marò trattenuti in India, un consigliere comunale di opposizione (e le telecamere della trasmissione Le Iene), hanno incrociato prima l’auto bianca del sindaco parcheggiata in uno stallo per disabili, poi anche la Panda rossa, pure quella in divieto di sosta. I vigili sono arrivati mezz’ora dopo. Entrambe le auto erano andate via. Ancora una volta troppo tardi.

Corriere 13.11.14
La Panda di Marino di nuovo in divieto
Il sindaco sempre più in bilico: sono sereno
di Ernesto Menicucci


ROMA Prima le multe, ora il divieto di sosta. Una cosa bisogna dirla: ad Ignazio Marino, sindaco «ciclista», questa Panda rossa proprio non porta bene. Perché, dopo il parcheggio nei posti riservati del Senato e l’accesso alla Ztl con un pass scaduto, arriva un nuovo caso. Martedì sera, al termine del «giorno più lungo» del chirurgo dem, inseguito dalle voci di dimissioni, l’auto è stata «avvistata» sotto casa del sindaco, a due passi dal Pantheon, in divieto di sosta.
E qualcuno gli ha immediatamente scattato le foto, finite subito sulla rete. Non solo. Lì c’erano anche le telecamere delle Iene , che ieri sera hanno mandato in onda il servizio. C’è Marino che rientra a casa, su una macchina di servizio del Campidoglio. E, parcheggiata su un lato, c’è la sua Panda, sotto ad un cartello di divieto di sosta «permanente». Telefonini, foto, telecamere. Fino a che, dopo una mezz’ora circa, arriva un uomo (incaricato dal sindaco?) che sale sull’auto e la sposta, poco prima che arrivassero i vigili urbani. L’auto è quella col pass Ztl per il centro che, con ogni probabilità, usa spesso la moglie del primo cittadino, la signora Rossana Parisen Toldin, padovana di Monselice. Lei, raggiunta telefonicamente dal Corriere , non nega: «Non voglio essere scortese, ma non voglio essere intervistata. Tanto sapete già tutto...». Non ci vuole aiutare a capire chi guidava l’auto, quando sono state prese quelle multe? «Non avete bisogno del mio aiuto. Usate le vostre risorse sui giornali per trattare temi più importanti». Gentile, ma ferma. Anche se chi guidava l’auto non è un dettaglio. Marino, chiedendo il pass (pagato, tra l’altro, dal Comune) come sindaco «per lo svolgimento dell’attività istituzionale» è come se avesse «eletto» la Panda ad auto di servizio. E i familiari (a meno che non accompagnino il sindaco ad appuntamenti pubblici) non potrebbero neppure salirci a bordo, figuriamoci guidarla. Marino appare sempre più solo, anche se ostenta tranquillità: «Sono sereno». Però, per togliersi d’impaccio, sta pensando ad un clamoroso dietro-front: «Sono stato tratto in inganno dai miei uffici», la versione che dovrebbe fornire oggi, per scongiurare la mozione di sfiducia del centrodestra. Intanto, però, Renzi lo ha scaricato: «Chi sbaglia deve pagare», le parole del premier. Basta e avanza per aprire la crisi nella Capitale.

Il Fatto 13.11.14
Sterilizzazioni di Stato
India e nascite: non è un paese per donne
di Roberta Zunini


Nel subcontinente indiano, dentro un ospedale del Chhattisgarh, uno degli Stati più poveri, cinquanta ragazze lottano ancora contro la setticemia provocata dagli interventi di sterilizzazione eseguiti 4 giorni fa in un campo “sanitario”. Per la fretta con cui i medici avevano smaltito le operazioni di chiusura delle tube - ottimizzare i tempi significa minori costi - e a causa di una carente disinfezione degli strumenti, 13 sono morte nel giro di poche ore, 20 sono in gravi condizioni.
SE È PROBABILE che l'inchiesta aperta dalla magistratura su espressa richiesta del premier Narendra Modi spedirà in cella i chirurghi, il mandante continuerà a governare a piede libero. Perché il mandante è lo Stato. L'India, volendo mostrare di essere a tutti gli effetti la più grande democrazia del mondo, non ha mai messo a punto una politica ufficiale di pianificazione delle nascite, la cosiddetta politica del figlio unico di cinese memoria. Ecco perciò che dagli anni 70 il metodo più popolare di controllo delle nascite è stata la sterilizzazione. Indira Gandhi fu la prima a imporla inserendola nel pacchetto di leggi di emergenza. Un escamotage per rassicurare l'enorme ceto povero della temporaneità di una misura ontologicamente impopolare. La maggior parte dei più indigenti ancora oggi ritiene i figli una buona garanzia per aumentare le entrate economiche. In seguito, i vari governi, per pulirsi la coscienza e allo stesso tempo incentivare le donne a presentarsi all'appello, hanno introdotto una “ricompensa” in denaro. Con le 1.400 rupie offerte, circa 18 euro, però anche una famiglia povera, non campa più di un mese. Secondo le stime del 2013, le sterilizzazioni sono state quattro milioni. Cifra giustificata dal fatto che gli indiani sono circa 1 miliardo e 200 milioni e potrebbero diventare 1 miliardo e mezzo entro il 2028, superando i cinesi.
A ESSERE sterilizzate sono prevalentemente le donne, troppo deboli socialmente per opporsi alle decisioni dei tanti mariti-padroni. Le morti per questo tipo di interventi sanitari non sono una novità: negli ultimi dieci anni sarebbero state oltre 1.400. Ma sono numeri ufficiali che valgono fino a un certo punto in un Paese dove la corruzione si annida ovunque e le leggi sono tenute a seguirle solo i più deboli e i politici non sono realmente interessati a restringere l'enorme divario sociale. Nonostante il tasso di natalità sia sceso a 2,4 figli per donna, grazie all'accresciuta emancipazione femminile, l'India non ha accennato nemmeno lontanamente a stabilire una data di chiusura del programma di sterilizzazione e nemmeno una diminuzione della quota fissa di donne da sterilizzare annualmente, volente o nolente.
Le vittime della sterilizzazione finora sono state sempre strumentalizzate dalle opposizioni, di qualsiasi colore, per denigrare le maggioranze di volta in volta al potere.
Il vicepresidente del partito del Congresso, Rahul Gandhi, clamorosamente battuto dai nazionalisti del partito induista alle elezioni di maggio, ne ha subito approfittato per polemizzare, dimenticando che fu proprio sua nonna a introdurre questa normativa.
I corpi delle donne in India sono considerati macchine senza anima. Da usare e manomettere a seconda delle esigenze, degli uomini e dello Stato.

Corriere 13.11.14
Processo agli Stati Uniti in un discorso di Putin
risponde Sergio Romano

Il presidente Putin, il 24 ottobre, ha tenuto un interessante discorso programmatico. Mi sembra che nessun giornale italiano ne abbia parlato. Lei certamente lo ha letto. Perché non ce lo commenta?
Ettore Visca

Caro Visca,
Il discorso è stato pronunciato a Sochi in occasione di uno dei periodici incontri del Club Valdai, un foro russo di analisi e discussioni, simile per molti aspetti a quello svizzero di Davos e creato per iniziativa di Vladimir Putin nel 2011. Hanno partecipato a questo appuntamento alcuni uomini politici (fra cui un ex premier francese, Dominique de Villepin, e un ex cancelliere austriaco, Wolfgang Schüssel), giornalisti, direttori di istituzioni accademiche e di centri di studio sulla politica internazionale.
Putin ha colto l’occasione per uno sguardo d’insieme al mondo dopo la fine della Guerra fredda. È convinto che gli Stati Uniti, autoproclamandosi vincitori, si siano altezzosamente sbarazzati di tutti gli strumenti che erano stati costruiti nel corso degli anni per garantire, nei limiti del possibile, l’equilibrio del potere e la convivenza di sistemi politici diversi. L’America impone unilateralmente le sue regole, fa un uso egemonico della propria moneta, sorveglia e ricatta amici e nemici con una rete globale di ascolto e intercettazione. I nemici contro cui deve battersi, come il fanatismo islamico, sono spesso quelli creati dalla sua stessa politica. All’origine di Al Qaeda vi sono i generosi finanziamenti garantiti dall’America alla resistenza antisovietica in Afghanistan negli anni Ottanta. Il vertiginoso aumento del commercio della droga sarebbe collegato alla lunga guerra contro i talebani nello scorso decennio. Gli Stati Uniti sostengono di essere i paladini della libertà dei mercati, ma impongo sanzioni che contraddicono i loro presunti principi liberali.
L’America, secondo Putin, vuole un mondo unipolare, ma deve disporre, per meglio giustificare il proprio potere e la propria leadership, di un «centro del male». Oggi il nemico potrebbe essere la Cina, l’Iran o la Russia. Nelle parole di Putin il processo all’America è molto severo, ma l’analisi non è priva di passaggi interessanti e persuasivi. Il discorso di Sochi merita di essere letto integralmente.

Corriere 13.11.14
Il sigillo di Grossman, i progetti delle scuole e la staffetta con Expo Non saranno applausi a scena vuota quelli che questa sera inaugurano la terza edizione di BookCity. Sul palcoscenico del teatro Dal Verme (ore 20.30) infatti ci sarà David Grossman, uno dei più grandi scrittori israeliani contemporanei, in libreria con il nuovo romanzo, Applausi a scena vuota (Mondadori). Prima di parlare con Edoardo Vigna della «forza delle parole», il sindaco Giuliano Pisapia gli consegnerà il Sigillo della Città, prima edizione di un riconoscimento che diventerà un appuntamento fisso. Da domani l’invasione pacifica dei lettori travolgerà il centro e la città metropolitana, ma oggi è anche il giorno delle scuole, altra grande scommessa (riuscita) di questa manifestazione che ha visto coinvolto oltre ventimila studenti. I materiali prodotti sono molti e di molti generi (libri, e-book, booktrailer, illustrazioni, fumetti, plastici, cartelloni, giornali) e si potranno vedere al Muba della Rotonda di via Besana. Tra i tanti progetti vale la pena segnalare quello realizzato dai ragazzi dell’istituto Kandinsky al Gratosoglio: «Milano come non l’avete mai vista,» un sito in cui virtualmente vengono ridisegnati gli spazi urbani per i coetanei in visita a Milano per Expo.

Corriere 13.11.14
Il «folle volo»
Quel limite che la ragione non supera
di Raffaele La Capria


L’Ulisse di Dante con un racconto di «enigmatica semplicità» (Sermonti) chiude il ventiseiesimo canto dell’ Inferno. Come tanti sono rimasto anch’io affascinato e sconcertato dal «folle volo» che porta Ulisse ad attraversare le Colonne d’Ercole e a naufragare, dopo aver intravisto all’orizzonte una misteriosa «montagna bruna» «tanto alta quanto veduta non avea alcuna». E mi sono domandato anch’io perché Ulisse è condannato all’ Inferno , qual è la sua grandissima colpa, e infine che cosa vuol dire il suo racconto? Uno come me, che dopo i novant’anni pensa spesso alla vita e alla morte, quando legge quest’episodio si domanda: e se Ulisse «per seguir virtute e canoscenza» — due nobili facoltà dell’uomo — avesse commesso una terribile infrazione, un grave peccato, quello di oltrepassare il limite voluto dalla legge di Dio? Dunque il suo peccato sarebbe di aver disobbedito al comando che impone il limite, il limite che è sacro e che per nessuna ragione può essere oltrepassato, neanche «per seguir virtute e canoscenza». C’è un tempo (cioè un limite) per ogni cosa, è scritto nella Bibbia, «un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per la semina e uno per il raccolto». Se superassimo quel limite la sorte che ci spetterebbe è il naufragio, il fallimento. Il limite che Ulisse avrebbe voluto superare è quello imposto dalla morte alla vita umana. Non ci è permesso ignorarlo, e neanche ci è permesso indagare per sapere ad ogni costo cosa c’è oltre quel limite, questo il peccato di Ulisse.
Sono due le possibilità. Una, che oltre quel limite ci sia un aldilà che duri eternamente. Un’altra, che tutto finisca con la morte. Il limite sta tra queste due possibilità. Se penso alla vita eterna la penso con l’idea che in questo mondo dove vivo si ha dell’eternità, e la parola eterno indica qualcosa che non ha mai fine, e proprio per questo mi spaventa. Solo il limite ci libera dalla paura che si prova per qualcosa che non finisce mai e che questa stessa sua infinitezza rende immobile e sempre uguale. Dunque se devo immaginare questa eternità come è solo possibile immaginarla a uno che vive nella vita terrena, ecco che mi si presenta come una ripetizione infinita di ciò che è uguale, perché l’eternità è per forza uniforme e non può avere varianti. Chi vive in questa vita terrena vive nel tempo e solo nel tempo sono possibili varianti. L’eternità è senza tempo, dunque ferma in sé stessa. La morte, il limite, sarebbe dunque un dono che ci fa apprezzare la brevità della vita e ci libera dalla paura dell’eternità.
Ma qui nasce un’altra questione, perché se tutto finisse con la morte non ci sarebbe un aldilà, non solo quello consolatorio dove è possibile ritrovare i propri cari e gli affetti che avemmo da vivi, ma soprattutto non ci sarebbe quello dove Dio ha instaurato il tribunale che giudica il bene e il male da noi commessi nella vita, non ci sarebbero più il paradiso e l’inferno e non ci sarebbe più giustizia. L’uomo invece ha bisogno di giustizia, ha bisogno di credere che chi male ha agito verrà punito, e chi invece ha agito bene verrà premiato. Dunque pensare che tutto finisca con la morte, e che la morte sia un dono e una liberazione, porta a distruggere un principio che per l’uomo è essenziale, senza di esso non varrebbe la pena di vivere, il senso di ogni azione umana e della responsabilità personale andrebbe perduto, tutto sarebbe confuso in un’irrilevanza distruttiva, e neppure una società potrebbe esistere senza questo principio. E dunque, anche tenendo conto del sentimento religioso (che va rispettato) come la mettiamo?
Sono questi i pensieri di un novantenne un po’ ansioso e piuttosto irrequieto che vorrebbe impadronirsi con la ragione di cose di cui la ragione nulla sa e nulla potrà mai sapere. Noi viviamo nel mistero, le cose di cui parliamo sono misteriose e imperscrutabili, e misterioso e imperscrutabile è anche l’Ulisse di Dante e il suo folle volo, che queste considerazioni, chissà quanto apprezzabili, ha suscitato.

Corriere 13.11.14
Non solo prigionieri ma ostaggi
Soldati italiani in mano a Stalin
di Antonio Carioti


Volti esausti, da cui traspare uno sconsolato fatalismo: i soldati italiani fotografati dopo la cattura da parte dei sovietici, nell’inverno 1942-43, sono consapevoli di avere davanti a sé giorni durissimi. E infatti il tasso di mortalità nelle loro file sarà spaventoso, più elevato di quello dei tedeschi. Le immagini qui pubblicate, insieme a molte altre, arricchiscono la nuova edizione del libro I prigionieri italiani in Russia (il Mulino, pp. 495, e 29), frutto di una minuziosa ricerca condotta da Maria Teresa Giusti negli archivi di Mosca e di Roma. Ma l’apparato iconografico non è certo l’unica parte nella quale il volume, in libreria da oggi, si presenta ampliato e approfondito rispetto alla prima versione, edita nel 2003.
In questi anni Maria Teresa Giusti ha infatti proseguito il suo lavoro di scavo, con risultati importanti. Per esempio ha scoperto una direttiva, firmata dallo stesso Stalin nel giugno 1945, contenente ordini dettagliati per lo sfruttamento dei prigionieri come manodopera coatta. Le indicazioni dall’alto però cozzarono spesso con la disorganizzazione delle strutture che avrebbero dovuto applicarle, a partire dai campi di detenzione: qui, soprattutto all’inizio, regnavano la negligenza e il caos, con effetti disastrosi. Lo stesso apparato repressivo sovietico, il famigerato Nkvd, intervenne per migliorare le condizioni dei militari reclusi, che morivano come mosche, ma spesso le disposizioni rimasero sulla carta.
Di notevole interesse anche le novità sui prigionieri italiani a cui vennero addebitati crimini di guerra. Da documenti sovietici risulta che alcuni di loro non avevano compiuto affatto atrocità ed erano colpevoli soltanto di comportarsi da fascisti convinti. Comunque vennero trattenuti dal Cremlino dopo la fine della guerra, insieme al personale diplomatico della repubblica di Salò catturato dall’Armata rossa in Romania e Bulgaria, per essere usati come ostaggi, merce di scambio. E il nostro governo dovette piegarsi: con un accordo del 1949 ottenne il loro rimpatrio, ma dietro la consegna dei cittadini sovietici, donne e bambini inclusi, che si erano rifugiati nel nostro Paese anche prima della guerra, la cui sorte successiva si può facilmente immaginare.
C’è poi un’altra vicenda che Maria Teresa Giusti sottrae all’oblio: quella dei militari italiani catturati e internati dai tedeschi dopo l’8 settembre, i cosiddetti Imi, che caddero nel 1944 in mano sovietica e furono trattati, in modo del tutto arbitrario, come prigionieri di guerra, anche se avevano rifiutato di arruolarsi nella Rsi, nonostante l’Italia del Regno del Sud fosse ormai Paese cobelligerante al fianco degli Alleati. Così circa 1.300 Imi, sopravvissuti ai lager di Hitler, perirono in quelli di Stalin.

Corriere 13.11.14
La lotta partigiana vista da Noventa

Giacomo Noventa (1898-1960) non è stato soltanto un fine letterato, autore del volume Versi e poesie (Edizioni di Comunità, 1956), ma ha saputo svolgere anche un forte impegno civile, di cui è meritoria testimonianza il volumetto Tre parole sulla Resistenza , edito da Castelvecchi (pagine 67, € 9), nel quale sono contenuti appunto tre brevi saggi, felicemente complementari, dell’autore veneto, il cui vero nome era Giacomo Ca’ Zorzi (Noventa di Piave era il suo paese d’origine, in provincia di Venezia). Nel primo saggio, che risale al 1947, Noventa sostiene che «il nemico contro il quale la Resistenza combatteva non era soltanto l’ultimo fascismo e l’ultimo nazismo, ma l’indifferenza popolare italiana dal Risorgimento in qua». Il secondo saggio spiega che la Resistenza «non appartiene al passato», ma al contrario occorre «rompere l’unione sacra con gli ex compagni» e tuttavia «continuare la Resistenza». Infine, nel terzo saggio, che è l’introduzione incompiuta a un ciclo di disegni del pittore siciliano Renato Guttuso, Noventa conclude sostenendo che «l’antifascismo è tutto rivolto al passato», mentre la Resistenza continua a avere davanti «l’avvenire».

Corriere 13.11.14
Dalla fisica al latino, si rinnovano i Lincei
Anche Salvatore Settis e Paolo Prodi tra i venticinque nuovi soci

Anche l’Accademia Nazionale dei Lincei, la più antica del mondo (fondata nel 1602) si rinnova e guarda alle nuove generazioni. Il 14 novembre venticinque nuovi soci «corrispondenti» riceveranno il distintivo con la lince, animale scelto dal fondatore Federico Cesi per l’acutezza attribuita al suo sguardo.
Trattandosi del più prestigioso organismo culturale italiano, dove si entra solo dopo un attento esame dei titoli accademici, è per esempio da considerare «giovane» Guido Martinelli, 52 anni, professore di Fisica Teorica all’Università La Sapienza di Roma. Lo stesso vale per Gianfranco Pacchioni, 50 anni, professore di Chimica generale e inorganica alla Bicocca di Milano e per la coetanea Maria Concetta Morrone, professore di Fisiologia all’università di Pisa.
Prima notizia. Sei soci già «corrispondenti», ovvero ordinari, sono stati promossi a «nazionali», la fascia più ambita. Si tratta di Paolo Fedeli (latinista, università di Bari), Salvatore Settis (archeologo, Normale Superiore di Pisa), Paolo Prodi (storico moderno, università di Bologna), Paolo Galluzzi (storico della scienza, università di Firenze), Renato Guarini (statistico economico, università La Sapienza di Roma), Michele Parrinello, fisico nella Eidgenössische Technische Hochschule di Zurigo e nell’Università della Svizzera Italiana di Lugano).
Tra i nuovi corrispondenti nelle classi di Scienze morali e Scienze fisiche, l’italianista Emilio Pasquini, lo storico della Chiesa Giorgio Cracco, la giurista Lorenza Carlassare, il sociologo Marzio Barbagli, l’iranologo Adriano Valerio Rossi. Tra i soci stranieri, l’egittologo viennese Manfred Bietak, il giurista giapponese Ichiro Kitamura, la sociologa francese Dominique Schnapper.

Repubblica 13.11.14
oramai uno Stato di fatto mai dichiarato e il centro dell’alleanza che frena l’avanzata dell’Is
Nel cuore del Kurdistan iracheno che vola verso l’indipendenza
di Gad Lerner


ERBIL (KURDISTAN IRACHENO) LA POTENZA emergente del nazionalismo curdo trasformatosi ormai in Stato di fatto, sulle ceneri dell’Iraq avviato alla dissoluzione, si celebra agli incroci delle larghe e trafficate avenues di Erbil. Qui i profughi in fuga da Kobane e Mosul chiedono l’elemosina sovrastati da megaschermi in cui il Falcon Group pubblicizza la ricchezza delle sue torri avveniristiche chiamate Empire Diamond, alternandole con visioni delle raffinerie di petrolio. Riesce difficile pensare alla ferocia della guerra, ai miliziani del Califfato insediati a poche decine di chilometri da una metropoli che per lusso e disegno architettonico cresce a vista d’occhio sul modello di Dubai.
Il mondo guarda con ammirata gratitudine ai curdi che frenano l’avanzata dello Stato Islamico (Is), celebra i peshmerga del loro esercito popolare, mitizza le donne soldato che poco più a Nord, nel Rojava (il Kurdistan siriano) fronteggiano i tagliagole jihadisti. A Erbil giungono armi e rifornimenti dall’Occidente. L’Italia partecipa, inviando 280 addestratori militari nell’ambito della coalizione anti-Is.
È il capolavoro diplomatico di due leader curdi iracheni — l’anziano Jalal Talabani e il presidente Massoud Barzani — che hanno riempito il vuoto di potere del dopo Saddam, realizzando in silenzio il sogno proibito dell’indipendenza. Eredi di una tragedia novecentesca, lo smembramento del popolo curdo nel 1923 in quattro Stati diversi (Turchia, Siria, Iran, Iraq), Talabani e Barzani stanno trasformando un nazionalismo dolce e perseguitato in qualcosa di diverso, al tempo stesso indispensabile e pericoloso.
La foto-simbolo del capolavoro diplomatico curdo risale al marzo 2011: ritrae Barzani mentre inaugura l’aeroporto internazionale di Erbil al fianco del presidente turco Erdogan. Il nemico storico non solo è giunto in visita in quello che di fatto è diventato lo Stato dei curdi, ma vi ha investito miliardi di dollari costruendo un’alleanza di ferro. Oggi un gasdotto rifornisce Ankara col petrolio curdo. Buona parte dei prodotti in vendita nei centri commerciali di Erbil vengono dalla Turchia. L’aeroporto e molti grattacieli sono stati edificati grazie alla partnership col leader neoottomano che in cambio ha solo bisogno di mantenere sottaciuta, non dichiarata, l’indipendenza curda.
Nella hall del sontuoso Hotel Rotana incontro Staffan De Mistura, inviato del segretario generale dell’Onu in Siria. Viene a Erbil perché il governo regionale del Kurdistan iracheno è divenuto protagonista imprescindibile della resistenza all’Is: «Non tutto il male viene per nuocere», spiega. «La capacità strategica dell’Is di manovrare insieme armamenti tradizionali e terrorismo suicida, oltre che una guerra mediatica ferocemente raffinata, costringe il mondo civile a riunire le forze». Il perno della nuo- va alleanza è a Erbil, cioè richiede che venga concessa fiducia alla nuova potenza curda. Pur di vincere le ultime resistenze del turco Erdogan, De Mistura ha fatto ricorso a un paragone imbarazzante col genocidio di Srebrenica: «Poiché la battaglia di Kobane ha assunto un rilievo simbolico, era divenuto essenziale che Ankara autorizzasse il passaggio sul suo territorio dei rinforzi peshmerga curdi». Ma l’autorizzazione non sarebbe mai giunta se Erdogan non si fidasse del senso di responsabilità dei leader curdi iracheni, attenti a non dare fiato alle pretese indipendentiste dei confratelli turchi e siriani.
È un equilibrio delicatissimo, quello che si sta realizzando in questo Stato di fatto mai dichiarato. Lo si verifica, a sud di Erbil, nella città petrolifera di Kirkuk. Se oggi Kirkuk è entrata a far parte dell’area di influenza curda (catastrofica sarebbe la sua caduta nelle mani dell’Is), si evita di chiamare in causa l’articolo 140 della Costituzione irachena, in base al quale un referendum potrebbe ufficializzarne l’ingresso nella giurisdizioÈ ne del Kurdistan. Si fa ma non si dice.
Ciò spiega perché nel vecchio suggestivo caffè Bazco, a ridosso della millenaria cittadella di Erbil, si pronunci malvolentieri il nome di Mustafa Ocalan, il leader del Pkk detenuto da 15 anni nell’isola-prigione turca di Imrali. E ciò nonostante Ocalan stia trasmettendo inviti alla moderazione ai guerriglieri Pkk restii a scendere a patti con Ankara, convinto anche lui della necessità di creare un fronte unito contro i tagliagole Is. Ocalan resta un simbolo amato, e chissà che domani non possa esercitare una funzione benefica di pacificazione dopo tanto sangue versato, ma per il momento va messo in sordina se si vuole realizzare a Kobane la saldatura fra i peshmerga curdi iracheni e i combattenti siriani curdi del Pyd, temuti dalla Turchia per i legami col Pkk. Per coinvolgere davvero la Turchia nella coalizione anti-Is bisogna che l’unica voce ufficiale curda rimanga quella di Erbil.
La simpatia che circonda il nazionalismo curdo non può infatti cancellare gli interrogativi sulla potenza con cui oggi occupa la scena. Chi ha vissuto al fianco dei peshmerga la drammatica estate dell’offensiva jihadista, sottolinea la tradizione pluralista e la disponibilità alla convivenza dei curdi. Il direttore dell’Unicef in Iraq, Marzio Babille, protagonista di coraggiose operazioni di soccorso nelle città assediate dai tagliagole, non si stanca di ripeterlo: «Il Kurdistan iracheno è l’unica regione di quest’area insanguinata nella quale vige il rispetto dei diritti umani; e viene praticata una generosa accoglienza dei profughi di ogni confessione religiosa». Ma è vero anche che le nuove generazioni hanno smesso di imparare l’arabo. Il distacco dall’Iraq è un fatto compiuto. È lecito chiedersi se questo nazionalismo che si fa Stato fuori tempo massimo non darà luogo a nuovi accidenti della storia. Dubbio legittimo. Intanto godiamoci questa isola di libertà in mezzo alla barbarie. Il sole del deserto rende abbaglianti i grattacieli di Erbil, i profughi accampati nelle tende dell’Onu li osservano pieni di speranza.

Repubblica 13.11.14
Herzog “Non so cosa sia la paura”
Il rapporto con il paesaggio, l’arte, la fatica, il cinema e Youtube il grande regista tedesco oggi ospite nelle Langhe si racconta
di Dario Olivero


BAROLO (CUNEO) I FATTI mentono. Quando qualcuno dice «questi sono i fatti, quindi questa è la verità», mente. O meglio, dice solo un aspetto della verità, quella che Werner Herzog definisce «la verità dei contabili ». Ecco i fatti. Herzog è nelle Langhe tra Barolo e Alba per tenere oggi una conferenza sul paesaggio. Sta piovendo ininterrottamente. Dal castello di Grinzane Cavour le colline sono inghiottite dalla foschia come in un quadro di Friedrich.
E quello che è uno dei più grandi registi viventi, quest’uomo di 74 anni vissuti pericolosamente, che ha attraversato gran parte dell’Europa a piedi, ha girato un numero sterminato di film e documentari, ha combattuto contro la natura nella giungla e nei deserti, guardando il paesaggio con gli occhi divenuti due fessure dice tre frasi che forse fatti non sono. «Un paesaggio non ha niente di romantico, un paesaggio ci colpisce per il suo aspetto preistorico. Per quello che suscita nel nostro profondo». Quando e come avviene lo scivolamento da un piano all’altro, dal regno dei contabili a quello nascosto è il mistero racchiuso nei film di Herzog. Ma il mistero resterà tale. Solo film come Cuore di vetro o Aguirre furore di Dio o L’enigma di Kaspar Hauser possono fornire qualche indizio su cosa significa andare oltre i fatti. Perché ogni domanda rivolta a Herzog cade in una terra dove le parole si arrendono e lasciano il campo all’azione. Cercare la verità oltre i fatti è un atto pratico, ha sempre sostenuto Herzog. Essere radicali – ed Herzog lo è sempre stato – significa essere pragmatici. I registi lo sono, devono esserlo. «Bergman – aggiunge Herzog riparandosi dalla pioggia – spesso incominciava la sua ricerca dal volto umano, da un particolare di un viso. Per me è sempre stato più importante un paesaggio».
Che cos’è un paesaggio?
«C’è un uso commerciale del paesaggio, per esempio quello che viene utilizzato come sfondo in uno spot. Ma un paesaggio può avere un significato molto più profondo. Le immagini che lo fissano possono cambiarci prospettiva e percezione. A volte il cinema e la grande pittura possono farlo».
Lei è convinto che le immagini possano causare
una reale trasformazione in chi le guarda?
«Il cinema non ha un potere diretto, a parte alcune eccezioni. Recentemente ho girato un film per la AT&T, la società telefonica. Non volevo farlo, poi mi hanno spiegato che volevano fare una campagna per denunciare che gli incidenti più catastrofici sono causati da chi scrive messaggi sul cellulare mentre guida. Allora l’ho fatto e l’ho messo su Youtube».
Per lei è stato normale metterlo su Youtube?
«Su Youtube tutto quello che supera gli otto minuti non viene guardato. Infatti le cose più viste sono i milioni di video sui crazy cats, i filmati di gatti. Il film è stato visto da mezzo milione di persone, nonostante sia lungo 34 minuti. La conseguenza pratica è che dopo averlo visto non digiterai mai più un messaggio mentre guidi. Questa è appunto un’eccezione. Proposito pratico, risultato pratico. Non è quello che normalmente fa il cinema».
Normalmente il cinema non contempla neanche l’idea di “estasi” che per lei è centrale.
«Estasi è uno stato fisico. È quando salti fuori dal tuo corpo, dalla tua esistenza, dal tuo limite fisico e voli. Ma non siamo nati per volare. Uccelli e frisbee sono fatti per volare. Possiamo volare fuori da noi stessi attraverso il cinema qualche volta. O con la musica, con la poesia. Abbiamo la possibilità di passare a una forma di verità più profonda. Naturalmente questo non ha nulla a che vedere con il cosiddetto cinéma vérité e con la verità dei contabili. È attraverso l’invenzione, che si può giungere a certi momenti di illuminazione. Più che fornire informazione è importante provocare estasi e illuminazione. I fatti non costituiscono la verità: questa è sempre stata una mistificazione. Non esiste nessuna verità dei fatti».
La sua idea di ricreare un universo alternativo alla creazione ha degli aspetti quasi gnostici. Se fosse vissuto nel Medioevo sarebbe stato bollato come eretico. È d’accordo?
«(Ride) Mi sarei trovato più a mio agio in quella che chiamiamo erroneamente preistoria e che invece mostra di avere una civiltà e un’arte. Sono affascinato dalle forme d’arte arcaiche. Penso alle grotte Chauvet del documentario Caves of Forgotten Dreams. Oppure alla Sicilia, alla necropoli di Pantalica».
Si è dato una spiegazione?
«No. Ma il silenzio, il silenzio… Il silenzio che si avverte in quei posti è una diversa forma di silenzio».
Con Fitzcarraldo ha spostato una vera nave su una vera montagna in una vera foresta. Ha mai avvertito la fatica e la disperazione di Sisifo?
«Devo confessare di non essermi mai sentito così perché per Sisifo lo sforzo è vano. La roccia che nel mito greco spinge sulla montagna torna sempre giù, all’infinito. Io ho portato la mia roccia dall’altra parte della montagna. Ho portato a termine una cosa che si può toccare, che si può vedere. Ho sempre finito quello che ho iniziato. Sisifo non riesce a finire il suo lavoro con il masso. Questa è la tragedia. Io non ho vissuto una vita tragica né una vita assurda».
Cambiamo immagine. Un uomo cammina e si allontana, arriva così lontano che le strade sono finite. Procede ancora e vede quello che non dovrebbe essere visto. Quando torna non lo può raccontare a nessuno. È capitato anche a lei? Ci sono cose che non si possono mostrare?
« Grizzly Man è l’esempio. Mi è stato immediatamente chiaro che non potevo mostrare né far udire le scene che riguardavano la morte del ragazzo ucciso da un orso. Più in generale ci sono i video dell’11 settembre. Centinaia di persone si sono gettate dai palazzi del World Trade Center molto vicini alle telecamere ma nessuno ha mai visto quelle immagini. Non si può toccare, oltre alla privacy, la dignità umana. Il mio secondo film, Gioco nella sabbia, non l’ho mai pubblicato e non lo pubblicherò mai. Quando lo girai avevo solo 22 anni, ma capii che c’erano cosa che un film può mostrare e altre che non può mostrare».
Ma oggi è facile trovare ogni tipo di immagine su Internet.
«Internet non ha struttura. Ma la struttura deve essere in te. Per capire le cose devi capirne la grammatica. Solo così riuscirai a muoverti in questa massa amorfa di informazioni. Per farlo devi avere una struttura culturale, ideologica, informativa ed è quello che manca soprattutto ai più giovani».
Perché?
«Perché non leggono abbastanza. Questo vale anche per i film. La cosa che deve essere postulata è leggi, leggi, leggi. Se non leggi non puoi essere un uomo di cinema. Puoi essere un mediocre cineasta, ma non un grande uomo di cinema. Devi leggere. Questa mancanza di grammatica culturale è una delle ragioni per cui la gente oggi vive con un continuo senso di perdita. In Internet perdono se stessi e perdono le cose».
Come si recupera ciò che si perde?
«È come attraversare i paesi a piedi. È difficile da spiegare come il mondo rivela se stesso a chi viaggia a piedi».
Quindi si torna dove eravamo partiti, al paesaggio. C’è una relazione tra paesaggio, estasi, fatica fisica, per esempio camminare.
«A volte quando cammini a lungo, il paesaggio non scompare ma adotta qualità diverse e sviluppa interi romanzi. Quando si cammina la sera e il sole cala e l’oscurità ricopre l’intero paesaggio si perde la direzione eppure si continua a tenere la strada».
Mister Herzog, che cos’è per lei la paura?
«Non lo so. Non esiste nel mio vocabolario».

Repubblica 13.11.14
Ecco che cosa abbiamo imparato da Federico Caffè
L’intervento del presidente Bce al convegno per il centenario dell’economista a Roma
di Mario Draghi


CONOSCENZA della realtà: istituzionale, sociale, comportamentale; capacità di indignarsi per ciò che in questa realtà violava principi etici fondamentali, o anche la razionalità economica, quando vedeva la stupidità prona al servizio dell’avidità; perentorio richiamo ad agire e insieme rimprovero per una accettazione passiva della realtà; cosa fare per porre rimedio alle disuguaglianze ma anche alle inefficienze: questa era la politica economica di Federico Caffè, questa è oggi la Politica Economica nella sua definizione più alta.
È questa sua complessa e completa personalità che reagisce di fronte alla realtà con ragione, con passione, con azione e che sente il bisogno di condividere tutto ciò con i suoi alunni che lo ha reso indimenticabile. Noi, noi studenti (io mi laureai con lui nel ’70 con una tesi sul Piano Werner, il precursore della moneta unica, in cui sostenevo che le condizioni per la sua attuazione allora non esistevano) abbiamo vissuto vite professionali sicuramente diverse tra loro, anche per le diverse interpretazioni che abbiamo dato dei suoi insegnamenti, ma accomunate dalla convinzione che fare politica economica significasse: analisi della realtà, rifiuto delle sue deformazioni, impiego delle nostre conoscenze per sanarle.
È con questa eredità di pensiero che ci confrontiamo e che desidero condividere l’azione che la BCE ha intrapreso per rispondere alla crisi nella quale l’area dell’euro e specialmente l’Italia versa, da ormai molti anni. L’attuale, inaccettabile livello della disoccupazione – il 23% dei giovani tra i 15 e i 24 anni non ha un lavoro – è contro ogni nozione di equità, è la più grande forma di spreco di risorse, è causa di deterioramento del capitale umano, incide sulle potenzialità delle economie diminuendone la crescita per gli anni a venire. [...] I fattori ciclici hanno avuto un ruolo importante nell’aumento della disoccupazione. La BCE ha reagito alla crisi su tre fronti. Per quanto riguarda la politica monetaria cosiddetta convenzionale, ha portato il livello dei tassi di interesse dal 1,5% nel novembre 2011 allo 0,05% oggi. Ha portato il tasso di interesse pagato dalle banche per i loro depositi presso la stessa BCE dal 75 punti base nel novembre 2011 a -0,20 oggi. Ha inoltre attivato già alla fine del 2011 linee di credito per il sistema bancario per 1 trilione di euro e per una durata senza precedenti di 3 anni. [...] Ma gran parte delle misure intraprese può avere effetto sull’economia reale solo attraverso le banche, che nell’eurozona intermediano circa l’80% del credito. Solo se esse passano a famiglie e imprese le condizioni straordinariamente espansive sia in termini di tasso di interesse, sia di durata, sia di quantità disponibile che la BCE offre loro, la politica monetaria è pienamente efficace nella sua azione di stimolo. Perché ciò avvenga occorre che non solo vi sia domanda di credito da parte di clienti in grado di restituirlo, ma che esse stesse siano sane. È a tal fine che la BCE, alla vigilia del diventare il supervisore unico dell’Eurozona, insieme a tutti gli organismi di vigilanza nazionale, ha lanciato un anno fa e da poco completato un’analisi approfondita, il Comprehensive Assessment , delle 130 banche europee più significative. In tal modo è stato rimosso un altro ostacolo al contributo che la politica monetaria della BCE può dare alla ripresa della crescita. [...] Una politica monetaria espansiva, una politica fiscale, che, nel rispetto delle regole esistenti, veda maggiori investimenti e minori tasse, non sono sufficienti a generare una ripresa della crescita forte e sostenibile senza le necessarie riforme strutturali dei mercati dei prodotti e del lavoro. Maggiore concorrenza, completamento del mercato unico europeo, misure che permettano ai lavoratori disoccupati di trovare un nuovo posto di lavoro diminuendo la durata della disoccupazione, misure che permettano di innalzare il livello di specializzazione e di adattarne le caratteristiche alla domanda sono da tempo nell’agenda della politica economica di molti paesi dell’euro: la riflessione faccia ora posto all’attuazione.
È chiaro che entrambe le politiche, quella della domanda e quella dell’offerta, sono necessarie. La lezione del 2012 ci ha insegnato che la crisi di fiducia nell’euro era anche causata dall’incertezza, rivelatasi infondata, sul futuro della moneta unica. A questa incertezza i leader europei reagirono nel giugno del 2012 con la creazione dell’unione bancaria che ha portato alla vigilanza unica della BCE. Questo è stato l’atto di integrazione più importante che sia mai stato deliberato dalla creazione dell’euro. I paesi dell’eurozona hanno in questi anni rafforzato i loro legami e corrispondentemente allargato la base di fiducia su cui essi poggiano: con la politica monetaria comune, con regole di bilancio comuni, ora con una unione bancaria e una vigilanza bancaria comune e presto con un mercato di capitali comune. La nostra esperienza mostra che la condivisione della sovranità nazionale è condizione necessaria per una fiducia duratura nel disegno del nostro comune viaggio europeo.

Il Sole 13.11.14
Un maestro riformista. «Importante per i giovani pensare con la propria testa»
Visco ricorda la lezione di Federico Caffè
«Fu sempre dalla parte dei più deboli, critico della idealizzazione del mercato e sostenitore di un ruolo attivo dello Stato»
di R.Boc.


ROMA Un riformista vero, un eclettico più per necessità che per scelta, che ha lasciato ai suoi studenti un insegnamento essenziale: quello dell'importanza del pensare con la propria testa. Così il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, ha delineato ieri il personaggio Federico Caffè, l'economista del quale anch'egli, come Mario Draghi, è stato allievo durante i suoi studi all'Università La Sapienza di Roma. Visco ha sottolineato che Caffè «fu sempre dalla parte dei più deboli, critico esplicito della idealizzazione del mercato e sostenitore di un ruolo attivo dello Stato per correggerne le inefficienze e rimediare alle diseconomie». Quanto al tema del lavoro, il professore del quale quest'anno ricorre il centenario dalla nascita «guardava al lavoro non solo come occupazione ma anche come realizzazione della persona, all'istruzione e alla formazione come componente fondamentale dell'uguaglianza delle opportunità. E guardava con preoccupazione a una finanza speculativa e disgiunta dall'economia reale». Al tempo stesso, ha rievocato ancora Visco, Caffè non fu mai «contro il progresso e la tecnologia, né a favore di un non rispetto dei vincoli di bilancio, né contro il riconoscimento del merito o a favore di un vago "egualitarismo": fu anzi molto critico verso alcune posizioni estreme». Visco ha poi ricordato lo stretto legame fra Caffè e la Banca d'Italia, della quale egli fu a lungo consulente: «Soffrì, negli anni della contestazione studentesca del 1968-69, per sciocche accuse, legate a questo suo rapporto di consulenza, di "connivenza con i difensori del capitale, del potere economico e finanziario, dei padroni", mortificato anche per la ristrettezza mentale ma comprensivo per l'età di chi le avanzava» ha detto ancora Visco. E ha aggiunto: «Vi è da osservare, peraltro, che ogni stagione ha le sue "sciocche interpretazioni" e anche oggi certo esse non non mancano». Visco ha concluso rievocando l'ammonimento di Caffè agli studenti: «Siate sempre vigili, non cedete mai agli idoli del momento, vale a dire alle frasi fatte, alle frasi convenzionali, rifletteteci con il vostro pensiero e la vostra capacità intellettuale». Un motivo in più, quello dell'esigenza di sviluppare l'autonomia intellettuale, che ha spinto ieri, nel corso del convegno, il governatore Visco a battere a lungo sull'esigenza di investire di più sulla scuola, per garantire un'adeguata formazione e per contrastare la disoccupazione tecnologica.
Anche il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha dato ieri il suo contributo alla commemorazione dell'economista scomparso. Anche se i problemi economici odierni sono diversi da quelli di allora, ha scritto il capo dello Stato in un messaggio inviato al convegno, «il fondamento etico del suo pensiero, la passione civile che lo alimentava possono rappresentare valori guida per le prossime generazioni di economisti».