domenica 16 novembre 2014

il Fatto 16.11.14
La volontaria I ragazzi del centro d’accoglienza
“Ci spiegate cosa abbiamo fatto?”
di Tommaso Rodano


Pakistan, Etiopia, Mali, Afghanistan, Eritrea. Tutti rifugiati e richiedenti asilo. Vengono dai conflitti e dalla negazione di libertà. Sono scappati da una guerra e si sono trovati al centro di un'altra”. Carmen Palazzo è una delle operatrici del centro di accoglienza di via Morandi, a Tor Sapienza, il luogo che si è trasformato nel simbolo della rivolta e della guerriglia di una borgata romana. “La cosa più difficile è provare a spiegargli le ragioni di questa esplosione di violenza”.
Lei le ha capite?
Sono convinta che questo centro sia diventato la valvola di sfogo di una protesta che con i rifugiati e i richiedenti asilo ha poco a che fare. I problemi di Tor Sapienza, di certo, non sono iniziati tra anni fa con l’apertura di questa struttura. Ma siamo un obiettivo sensibile, il più semplice. Siamo il simbolo dell'immigrazione, dello straniero, del diverso. E siamo deboli.
Qual è stata la reazione all’esplosione di rabbia del quartiere?
Continuano a chiedersi che colpa hanno, cosa hanno fatto di male per scatenare una rabbia del genere. Sono increduli, ovviamente non è facile spiegare il contesto in cui è nato questo pandemonio. Alcuni hanno subito violenze fisiche, tutti invece stanno subendo violenze psicologiche profonde. E sono persone che sono arrivate qui già con dei traumi.
Nonostante questi traumi, venerdì mattina 17 minori egiziani trasferiti in un’altra struttura erano tornati in via Morandi da soli, prima di essere portati via di nuovo.
Con questi ragazzi si crea un legame speciale. Ora stiamo facendo dei turni extra nella struttura dell’Infernetto, dove sono stati portati, perché continuano a chiedere la nostra presenza. Proviamo a fargli capire che non hanno nessuna responsabilità per quello che è successo.
Alcuni dei rifugiati però durante gli scontri hanno provato a rispondere all’aggressione.
Gestire quella tensione era impossibile. Sono persone, oltretutto, che vengono da contesti socioculturali in cui la risposta alla violenza è molto più diffusa che qui in Italia. Persone abituate ad avere una rivolta di fronte casa. Solo che stavolta l’obiettivo della rivolta erano loro. E non riescono a capacitarsene.
Non c’erano stati precedenti che facessero prevedere l’aumento della tensione nel quartiere?
Non mi pare proprio. Gli episodi di violenza in questo territorio non mancano, ma le persone assistite nel nostro centro non ne sono state protagoniste. Al contrario, a loro è capitato anche di subirne. Qualche giorno prima dell’inizio degli scontri, uno dei nostri ragazzi è tornato con uno zigomo fratturato da un colpo di casco. Quattro persone avevano provato a derubarlo. Ma il dialogo con gli abitanti di Tor Sapienza non era mai mancato. Appena poche settimane fa, la sera di Halloween, abbiamo fatto una festa insieme alla gente del quartiere.
Ora sembra difficile immaginarlo.
Adesso sono costretti a vivere come in un carcere. Gli sconsigliamo di mettere piede fuori dal centro. Ci muoviamo noi al posto loro, anche solo per comprare un pacchetto di sigarette. E pure gli operatori, in questi giorni, si sono presi insulti e minacce. Stringiamo i denti, perché chi rimane dentro è ancora più esposto.

La Stampa 16.11.14
Marino: “Sui centri d’accoglienza tutte le decisioni prese con il Viminale”
Il sindaco: il Lazio accoglie un quinto dei rifugiati. La richiesta di rimpasto del Pd? Non accetto aut aut
intervista di Francesca Sforza

Bisogna dare atto al sindaco di Roma Ignazio Marino che andare a Tor Sapienza il giorno dopo la cacciata dei migranti è stato un atto che molti avrebbero evitato. Non c’era più nessun umore da cavalcare, nessun consenso da racimolare, niente da portare a casa che non fosse rabbia, insulto, malanimo.
Detto questo, signor sindaco, la situazione di Tor Sapienza è scandalosa. Come è possibile che in un luogo già segnato da gravi criticità vengano concentrati quattro centri per rifugiati, tre grossi campi nomadi e un numero imprecisato di microaccampamenti?
«Tor Sapienza è una di quelle zone che nell’edilizia degli anni passati sono state trascurate, costruendo edifici senza pensare alle infrastrutture primarie, però non è esclusiva responsabilità dei sindaci il fatto che i luoghi d’accoglienza si siano concentrati lì. Si tratta di decisioni prese di concerto con il programma del servizio protezione rifugiati del ministero dell’Interno. E in base ai dati del ministero dell’Interno, il Lazio, con 5 milioni di abitanti, la metà della Lombardia, è la regione che accoglie oltre un quinto di tutti i rifugiati del Paese. Di questi, l’87,5 % insiste su Roma. Non è che ci sia tanto da discutere…».
Cosa risponde alle accuse del ministro Alfano ai sindaci, che scaricherebbero la cattiva gestione delle periferie sulle spalle dell’ordine pubblico?
«Mi sono da subito reso conto che le forze dell’ordine a Roma sono sotto pressione e hanno pochi mezzi, e proprio per questo all’inizio del mandato mi sono detto: “Perché non fare un patto con gli Interni? Io metto a disposizione degli edifici, il ministero risparmia l’affitto, e i soldi risparmiati si impiegano in mezzi e uomini”. Faccio notare che solo per la polizia di Stato si spendono 70 milioni di euro di affitti. Il risultato è che il 20 novembre consegneremo ai carabinieri un edificio proprio nella zona di Tor Sapienza, e che è solo uno dei dieci già individuati. Non è che me lo sono inventato ieri, non sa il tempo che ci è voluto per realizzare il progetto. Mi sembra quindi che da parte dei sindaci ci sia attenzione alle forze dell’ordine, gli unici che si saranno dispiaciuti sono i privati che non affittano più al ministero».
Le situazioni esplosive a Roma sono tante, non teme che dopo Tor Sapienza si possa creare un pericoloso effetto-domino?
«Lo dico con chiarezza: preferisco essere minoranza per sempre, ma un ragazzo come quello che ho incontrato ieri, che piangeva dicendo che era sopravvissuto al deserto, al carcere, che aveva rischiato la vita sul mare e adesso ha paura di essere ucciso di botte in Italia, quello per me è un fratello. Le immagini della televisione hanno fissato i momenti più concitati, ma dopo sono rimasto a lungo a parlare con i rappresentanti del quartiere. E quando ho chiesto: “Volete separare le donne e i bambini dai padri? ”, mi hanno risposto che se sono nuclei familiari forse possono rimanere insieme, e uno alla fine ha detto: “Sarebbe bello, se rimettiamo a posto il quartiere, che i loro bambini giocassero con i nostri”. Io penso che ci si possa arrivare, certo che se i quartieri si abbandonano, nessun miglioramento è possibile e gli animi si esasperano».
E’ possibile stilare una lista realistica di cose che si possono fare per rispondere concretamente al disagio dei romani?
«Continuare a occuparsi delle infrastrutture, in linea con l’apertura della metropolitana C, del corridoio Laurentino, del sottopasso di Settecamini. Poi l’illuminazione e l’apertura di nuove scuole, per cui abbiamo un finanziamento di 80 milioni di euro. Infine la gestione rifiuti, consapevoli che si tratta di una transizione difficile: per 50 anni siamo stati con la discarica di Malagrotta, adesso ci troviamo di fronte a un progetto di smaltimento rifiuti ambizioso, ma si tratta di fare in due anni quello che San Francisco ha fatto in 18, è evidente che la città ne è stressata».
Se la direzione del Pd le dovesse chiedere di azzerare la giunta e ripartire con una squadra diversa, pena un ritorno alle urne, lei cosa risponderebbe?
«Metterei le cose in modo diverso: se la questione è migliorare la risposta della Giunta dico che sì, tra l’altro stavo già pensando a un affinamento della mia squadra, non per sopravvivere, ma appunto per essere all’altezza delle sfide che ci aspettano. Se invece è un aut aut, la mia risposta è no».
Si sente sostenuto dal Pd e dal premier?
«Ho avuto un sostegno chiaro nei numeri: con una legge di stabilità che ha tagliato risorse ai comuni io sono andato dal ministro Padoan ad aprile e poi da Graziano Del Rio e sono stato molto chiaro: non volevo regalie, ma norme che mi permettessero di mettere in ordine i conti di Roma. E ho fatto un piano di rientro con 450 milioni di tagli agli sprechi in tre anni. Un esempio: i software di un computer nel pubblico in Italia vengono acquistati a 500 euro, il comune di Roma li pagava 4080 euro. Ora non più, noi tagliamo privilegi illegali e pestiamo piedi, mi rendo conto. In cambio abbiamo chiesto il riconoscimento per Roma Capitale, un allentamento del patto di stabilità di 150 milioni, un finanziamento di 2,1 miliardi per Fiumicino, 200 milioni per il Ponte dei Congressi e altri 300 milioni per il completamento della metro C. Queste non sono chiacchiere, sono fatti, vuol dire che il governo crede in questa amministrazione. Non facciamo saluti fascisti, ma siamo forti del rigore e del negoziato con lo Stato centrale».
Cosa dice sul caso della sua Panda parcheggiata in zona divieto?
«Risponderò in aula martedì, dico solo che esiste un testo unico degli enti locali che dice che il sindaco ha diritto alla Ztl per tutta la durata del suo mandato, non mi sembra uno scandalo. E mentre il precedente sindaco ha ancora l’auto a disposizione del ministero degli Interni e 4 uomini per la sua sicurezza, io non ho nessuno, ho rinunciato ad avere la macchina, non voglio scorte, né sotto casa né da nessuna parte. Credo che almeno il passaggio in Panda nel centro storico lo possa fare…».

il Fatto 16.11.14
Roma, la rabbia in piazza resuscita pure Alemanno
Molta destra locale alla manifestazione delle periferie contro il sindaco
di Enrico Fierro


Puoi farti distrarre dalla musica sparata a palla dal furgone tricolore, successi sempreverdi come L’esercito del surf (ma Catherine Spaak non c’è), e l’eterno inno dell’indolenza romana che invoca opulente e unte società de li magnaccioni, ma qui in piazza sei per capire. Sabato di metà novembre a Roma, piazza dell’Esquilino, la destra romana sale a cavallo del disagio delle periferie. Un migliaio di persone. Tantissimi striscioni, uno, il più grande di tutti, porta scritto “Ora basta, Marino vattene”. Marino è Ignazio, il chirurgo genovese inopportunamente prestato alla politica, che a un certo punto della sua vita volle provare l’ebbrezza di essere sindaco della Capitale, Ottavo Re di Roma. E fu un disastro. Il ventre di Roma se ne vuole liberare. “Il popolo si riprenderà la Capitale”, urla a favore di telecamere un anziano signore. “Perché Roma deve tornare ai romani”. “Basta co sti zingari che se prendono tutto”. “Negli asili nido non c’è più posto per i figli degli italiani, arrivano sempre prima i clandestini”. Tor Sapienza, Tor di Nona, Corcolle, Centocelle, Roma Est, Tuscolana, Tor Bella Monaca, periferie che sono città. Abbandonate. Luoghi destinati ad accogliere disagi, che si intrecciano, si sovrappongono, si contrappongono, si scontrano. Una Santabarbara sociale pronta a esplodere. Che nessuno racconta più. Nando, Jessica, Giusy, non hanno avuto una scuola e non vedranno lo straccio di un lavoro, Marianna fa le pulizie nei portoni e ha un figlio in una comunità di recupero, Fabrizio faceva il commerciante ma ha dovuto chiudere (“colpa de sti stronzi de cinesi”). Vite difficili che non finiranno mai sulle pagine di un libro. Non c’è un Pasolini moderno per loro, oggi gli scrittori declamano il loro ombelico comodamente stravaccati nei salotti che contano. La destra romana ha capito che nelle periferie c’è una prateria immensa da conquistare per riprendersi la città. E allora dal furgone tricolore partono le parole d’ordine.
“DEDICHIAMO questo corteo e questa meravigliosa marcia alla signora Reggiani, vittima della violenza dei rom clandestini”. È una tragedia di qualche anno fa, ma va bene lo stesso in questi giorni di rabbia. “Dedichiamo questa giornataa Falcone e Borsellino, i nostri eroi”. E giù applausi. “Noi il centro d’accoglienza non lo vogliamo”, urlano in coro. Ma il ragazzo con i bicipiti tatuati ben in mostra che dal furgone dirige slogan e corteo, ci tiene a precisare: “Destra e sinistra non esistono di fronte alla legalità. I giornali ci accusano di essere razzisti ma non è vero”. E per dimostrarlo chiama accanto a sé un uomo di colore, l’unico presente al corteo. “Tu sei contro la legalità? ”, gli chiede. Quello si emoziona, non capisce e replica sì. Imbarazzo. “Non ha capito, le paghi le tasse? ”. Di nuovo sì. Entusiasmo dello speaker: “Avete visto, così li vogliamo gli immigrati, chi viene qui si deve integrare con la nostra cultura, altrimenti via”. Ancora applausi. Il signor Giulio viene da Settecamini: “Io quelli di Casa Pound manco li conosco, sto qui perché da noi vogliono costruire un centro d’accoglienza. So matti, prima i soldi per le scuole che non ci sono, per le mense e il tempo pieno... ”. Il Campidoglio promette, il governo taglia, l’esasperazione cresce.
INTANTO IL CORTEO passa per via Cavour. I camerieri dei ristoranti cinesi che propongono involtini primavera, ma anche rigatoni cacio e pepe, osservano. Come i pakistani che vendono statuette del Papa e colossei in miniatura made in Taiwan. “Basta, basta con le rapine, l’illegalità e gli stranieri che non pagano il biglietto sui mezzi pubblici”, si scandisce in coro. “E finiamola pure co sti venditori ambulanti, ma lei ha visto quante bancarelle? ”, si lamenta una signora nel momento sbagliato. Perché ora a stringere mani nel corteo c’è Giordano Tredicine, sorriso d’ordinanza e pacca sulle spalle per tutti. La sua famiglia ha costruito un impero sulle bancarelle, ma poco conta. Perché qui la destra è di casa e la memoria corta. Arriva Gianni Alemanno, ultimo sindaco del disastro, scortato come Obama. Gli amici neri assunti nelle municipalizzate, il disastro dei trasporti, gli scandali. E chi se ne ricorda? “C’è una invasione, troppi nomadi e troppi immigrati, io l’avevo detto ai tempi di Mare Nostrum”. Ovazioni per Gianni, e destra tutta unita. Adriano Tilgher regge lo striscione insieme agli altri. Quando gli anni erano di piombo, fondò con Delle Chiaie Avanguardia Nazionale, è invecchiato, ma marcia ancora. Con i camerati di un tempo e quelli giovani. Si sono divisi e ora sono di nuovo qui, a sentire gli sberleffi su Marino e la sua Panda plurimultata. C’è Fabrizio Ghera, Giovanni Quarzo, Marco Pomarici, consiglieri capitolini ed ex assessori, c’è il figlio di Domenico Gramazio (“er Pinguino”), Luca, consigliere alla Regione. Sono i lepenisti d’Italia, pronti a unirsi alla Lega. Presenti. Sempre. Pronti a ricominciare. Basta soffiare sul fuoco delle periferie.

Repubblica 16.11.14
Saluti romani alla marcia contro Marino
Roma, corteo dopo la rivolta anti-immigrati: “E ora sciopero delle tasse”
di Corrado Zunino


ROMA Sessantadue rioni romani in marcia, la borgata di Tor Sapienza in testa e applaudita. È diventata simbolo del degrado e della reazione di una periferia della capitale: «Attaccando il centro rifugiati avete difeso la città». La Marcia dei rioni, ieri mattina, è partita dall’Esquilino, quartiere che è periferia multirazziale in pieno centro. Una destra prostrata dal quinquennio di Gianni Alemanno, penultimo sindaco, ha provato a riprendere in mano le leve della protesta. E si è fatta affiancare dall’ala estrema, fascisti d’antan e neofascisti. Al centro dell’ultima ribellione popolare — non erano molti, un migliaio — c’era il sindaco in bilico, Ignazio Marino, colpito qui da nuove richieste di dimissioni, «Vattene», e ironie, «Pidocchio e Pinocchio», «Clandestino», «C’è da spostare una macchina».
Sono arrivati da Corcolle, dove il sequestro di un bus di linea da parte degli immigrati a fine settembre scatenò una caccia al nero. Da Settecamini, Lunghezza, Torre Angela e da Torpignattara, dove invece un mese fa un diciassettenne italiano uccise a pugni un uomo pachistano. Delegazioni dal Portuense, da Boccea, da Aurelio, Appio, Flaminio e Cassia, quartieri della classe medio-alta. Tutti dietro un tricolore largo 35 metri e coordinati da quelli di Ponte di Nona: «Da quattro mesi organizzavamo l’evento». All’Esquilino è risuonato l’Inno di Mameli. Di nuovo a metà percorso, quando si sono levati saluti romani. Gli organizzatori hanno chiesto a un ragazzo nero dall’italiano incerto di salire sul camioncino e cantare l’inno. «Non siamo razzisti, ma...», inizia così il racconto di una fila di rapine straniere, scippi, stupri tentati e riusciti accaduti nelle loro strade: «Via i campi rom, via i clandestini, siamo pronti a non pagare più una tassa».
I cartelli spiegano molto: «Roma vuole rispetto, questo schifo non lo accetto». Le testimonianze illuminano: «All’Esquilino gli immigrati pregano per strada, vadano alla moschea». Quelli di Tor Sapienza alzano il tiro: «Chiusura del centro rifugiati, via i nomadi, i transessuali e i romeni che vivono nei sottoscala pagando in nero il parroco della chiesa ortodossa». Si rivede Gianni Alemanno, quindi il vicepresidente del Consiglio comunale Giordano Tredicine, una famiglia di commercianti ambulanti. E Adriano Tilgher, fondatore di Avanguardia nazionale, pronto a ogni ribellione forcona.

il Fatto 16.11.14
Pd, azzerare Marino o voto in primavera
I democratici pressano il primo cittadino
O sostituisce la maggioranza degli assessori o rischia di non arrivare a Natale
E già si preparano a correre Marchini e Meloni
di Luca De Carolis


L’avviso di sfratto scade tra una, massimo due settimane. Per strapparlo, due condizioni chiare: azzeramento della giunta e totale cambio di linea. Ma la strada è stretta, per il marziano in bicicletta: forse troppo. E allora c’è già una folla ad attendere che se ne torni sulla luna, cioè a casa. Tanto che il prossimo candidato Alfio Marchini già twitta: “A Roma elezioni in primavera”. Ignazio Marino è alla fine della sua settimana horribilis: dal deflagrare del caso multe all’inferno di Tor Sapienza, fino al corteo delle periferie che ieri ha invocato la sua testa in varie forme. Sullo sfondo, l’ultimatum: quello del segretario romano del Pd, Lionello Cosentino, lanciato ieri su Repubblica: “Marino ha sette, massimo 14 giorni di tempo per varare una nuova giunta”. L’ultima finestra per dare segnali concreti ai Democratici arcistufi, che venerdì nella direzione romana l’hanno processato a favore di taccuini. Cosentino nell’intervista di ieri ha parlato di rimpasto. Ma nelle ultime ore il Pd si è unito in una sola richiesta: azzeramento di tutti gli attuali assessori, con la sola Silvia Scozzese (Bilancio) sicura del posto in una nuova giunta, perché gradita ai vertici renziani (dovrebbe salvarsi anche il rutelliano Guido Improta, Trasporti). L’altra condizione irrinunciabile è il mutare di linea e atteggiamento: basta con il sindaco che decide in solitudine. D’ora in poi Marino dovrà confrontarsi passo dopo passo con il suo partito. In caso contrario, non mangerà il panettone. Anche perché sul suo capo già pende la mozione di sfiducia dell’Ndc per il pasticcio multe. Il giorno della resa dei conti potrebbe essere martedì 18 novembre. L’ex chirurgo dovrà presentarsi nell’aula Giulio Cesare e rendere conto sulle otto contravvenzioni a quella Panda rossa che neanche guida. Soprattutto, dovrebbe vedere il gruppo del Pd, per un confronto quasi da dentro o fuori.
MA IL CONDIZIONALE è d’obbligo, perché alcuni consiglieri spingono per far saltare l’incontro. “La nostra posizione la conosce, ora Marino si regoli” è il concetto. Una richiesta di “discontinuità” è filtrata anche dai vertici nazionali. E si parla di un incontro tra Marino e il vicesegretario nazionale Guerini, tra oggi e domani, per cercare la quadra. Ieri il sindaco è rimasto a casa, a riflettere. Oggi pomeriggio sarà in tv, a In Mezz’ora, con la gente di Tor Sapienza collegata. E nel Pd c’è molta attesa (timore) per quello che potrebbe dire. Perché non è affatto scontato che si presenti da penitente davanti a Guerini o al gruppo dei dem. Chi lo conosce lo descrive come deciso ad andare avanti, alla sua maniera. E a difendere alcuni dei fedelissimi, come l’assessore alla Scuola Alessandra Cattoi. Mentre pare in bilico il capo di gabinetto Luigi Fucito. Ma la partita è difficile per il chirurgo. Renzi non stravede per lui, è risaputo. E trovare nuovi assessori non sarà facile. Sullo sfondo, una certezza: in caso di elezioni politiche in primavera, il voto a Roma sarebbe automatico. In questo quadro, già impazza il toto sostituti.
SI PARTE dalla filiera di Renzi, e il nome che circola di più è quello di Paolo Gentiloni, renziano doc, romano. Ma spostarlo dal ministero degli Esteri non sarebbe semplice. Il nome più gettonato tra i Democratici è allora quello di Dario Franceschini: in buoni rapporti con il rottamatore, emiliano ma legato anche sentimentalmente a Roma (è sposato con la consigliera comunale Michela De Biase). Un nome nazionale, che andrebbe bene a quasi tutte le correnti democratiche. Quotato anche l’eurodeputato Enrico Gasbarra, ex presidente della Provincia, uno dei leader di Noi Dem (area trasversale filo-renziana). Sul piatto potrebbe mettere anche le 112 mila preferenze raccolte nelle scorse europee (47mila a Roma). Ma si candiderebbe solo d’intesa con i vertici nazionali. Si cambia versante, e si passa al centrodestra, dove in prima fila c’è Giorgia Meloni: leader di Fratelli d’Italia, romana, radicatissima in città. Berlusconi l’avrebbe candidata al posto di Alemanno già l’anno scorso. Lei non si sbilancia, ma è pronta a correre. SiparlaanchediRoberta Angelilli, europarlamentare di Ncd, vicina ad Andrea Augello (il grande accusatore di Marino). Ma l’ex An non è conosciutissima. Non a caso l’attivissimo Augello ha già sondato un’altra strada, offrendo sostegno e una possibile vice (Sveva Belviso) ad Alfio Marchini. L’imprenditore, erede della dinastia di costruttori rossi, si candidò già lo scorso anno prendendo un buon 9,4 per cento. E si accinge a riprovarci. Per ora l’offerta di Augello è stata declinata. Marchini preferirebbe un’ipotesi di centrosinistra, ma non esclude nulla, compresa una nuova corsa in solitaria. Intanto ieri ha twittato: “In primavera elezioni a Roma”. Chissà cosa avrà pensato Marino.

il Fatto 16.11.14
Nuovi razzismi
La lezione di Tor Sapienza: un Paese a luci spente
di Furio Colombo


Le luci della Repubblica sono spente. La politica se n’è andata. Un Paese di gente sola si aggira fra negozi sottocosto, ristoranti turistici un po’ più squallidi e treni sporchi. Non ha un partito, non ha una chiesa, non ha una scuola, non ha un’azienda. Qualcuno alza la voce per dirti chiaro chi governa, ma non si capisce per conto di chi. E i suoi discorsi un po’ esagitati, appena ci si abitua al rumore, non intaccano in nulla la paura e la solitudine. “Ma quale odio razziale, quale fascismo, quale violenza squadrista? Ho partecipato alle proteste sotto il palazzo degli immigrati la prima e pure la seconda sera. Ma potesse rivoltarsi mio padre nella tomba, ho sempre votato comunista. Ho gridato con tutto il fiato che avevo in corpo che non ne possiamo più. Stavano violentando una ragazza, e qui la sera c’è il coprifuoco, non possiamo più uscire. Ecco come stanno le cose” (intervista a una donna che grida, di Federica Angeli, La Repubblica, 13 novembre). È la testimonianza perfetta: rabbia, paura, notizie false, un partito che non c’è, una solitudine paurosa.
STO PARLANDO della rivolta di Tor Sapienza, periferia di Roma senza sindaco, senza questore, senza prefetto, senza governo, con poca polizia disorientata, pochi filmati di “scontri”, nessuna notizia precisa di due morti accoltellati “di colore”, un “gambizzato” per una lite fra “bianchi” nessuna smentita delle notizie gravi e false, come “lo stupro” che non è mai avvenuto, nessun tentativo di far notare che, in un quartiere di 50mila abitanti, i quaranta minorenni africani accolti in una casa rifugio che è anche un po’ una prigione (non escono, in attesa di essere dichiarati “rifugiati politici”, perché vengono da Paesi dove divampa la guerra) non possono essere “troppo”, non possono essere un pericolo. Però sono un’occasione da non perdere per scatenare paura sulla paura, a cura di chi non vuole in giro la polizia, che potrebbe interessarsi di droga romana, invece che della “invasione dei negri”. Perché la donna che votava comunista mostra di credere fervidamente al nuovo pericolo dei ragazzini sfuggiti alla guerra, di credere allo stupro mai avvenuto e riesce a dimenticare il pericolo vero di tutte le notti, da anni, nel luogo in cui vive?
Del resto l’incidente di Milano (“Raid a volto coperto nel circolo Pd: era in corso una riunione dei residenti dei palazzi popolari”, il Corriere della Sera, 12 novembre) non è molto diverso. Una banda di violenti e incappucciati ha terrorizzato gruppi di persone che credevano di vivere nel passato (“prevalentemente persone anziane”, precisa l’articolo) ed erano sicuri che una sede politica fosse il luogo giusto per discutere. Ma il Pd non c’è più, non c’è più politica. Il “nuovo” e il “giovane” capo di governo l’ha abolita, roba da buttare. Un partito è solo un espediente per i sondaggi. È l’organizzazione di nulla, perché tutto è deciso altrove, e nessuno ci ha mai detto dove. Approvazioni, dissensi, proteste, adesioni, sono per addetti ai lavori, in un “cerchio Interno”, e non c’è nulla da dire agli estranei (i cittadini). In un vuoto simile dove non fai e non devi fare politica. E coloro che credevano di essere nel luogo giusto (sbagliando anno, sbagliando epoca) devono scappare dalle finestre. Intanto in altre strade e quartieri di Milano è cominciata l’ondata delle occupazioni delle case. O perché sfitte o perché gli inquilini sono fuori, al lavoro o al mercatino. La rete sociale si è rotta e non puoi mica mettere un poliziotto alla porta di ogni appartamento.
Ha ragione questo giornale quando intitola “Roma si arrende ai violenti”. Roma o Milano o dove capita. Sentite alcuni nomi dei vigilantes che animano strade e piazze della rivolta: Giorgia Meloni, che ha governato la città – e Tor Sapienza – per e con Alemanno, per cinque anni e si presenta come nuova (ovazioni) ; Simone Di Stefano, leader di Casa Pound, che si vanta del suo accesso trionfale perché non ha mai governato; Matteo Salvini, che sta passando al nazionalismo carogna di Roma dopo avere fervidamente militato nel secessionismo carogna di Milano, accolto come un leader in ascesa; Mario Borghezio, forse il personaggio politico più repellente in Europa, anche per l’odiosità della sua condanna (bruciava i giacigli dei senza casa sotto i ponti della Dora, a Torino).
LE MINACCE violente piovono. Alla fine ci sono, a Roma, due morti di coltello e un ferito di arma da fuoco, tutto a opera dei cittadini in rivolta contro “i negri di merda” (e già che ci sono esigono anche ruspa e buldozer per i campi rom). Purtroppo è semplice: è come il deterioramento degli edifici abbandonati. Entrano muffa e umidità e spaccano i muri. La politica non abita più qui né in alcun luogo di questo Paese. La donna che era stata comunista giura al cronista del Fatto che lei “negri di merda” non l’ha mai detto. Ma è sicura, ferma, disperata come gli altri: i quaranta ragazzini scampati al naufragio, alla tortura, alla guerra, sono “troppo, non ne possiamo più, devono andarsene”. È un modo per farci sapere che l’abolizione della politica (non siamo né di destra né di sinistra, non siamo nè sopra nè sotto, non siamo né migliori né peggiori, non vogliamo giudizi neppure dei giudici, vogliamo “sbloccare l’Italia”, che vuol dire “basta controlli” e certificazioni e distinzioni ossessive fra buoni e cattivi) produce il suo frutto: un nuovo fai da te senza politica, seguendo impulsi primitivi di paura che sono umani e che sono ben assecondati dalle Giorgia Meloni, dai Casa Pound, dai Mario Borghezio.
Mentre loro preparano la strada per il linciaggio, noi celebriamo, con il dovuto orgoglio, il semestre italiano in Europa.

Repubblica 16.11.14
Da Tor Sapienza all’Infernetto quelle periferie inghiottite dal buio
di Mimmo Calopresti


FANNO paura, hanno paura. Sono finiti in un posto di Roma lontano da Roma. Un gruppo di persone, degli adulti e qualche ragazzo, mi dicono che me ne devo andare. Sono davanti a un cancello in un luogo senza dimensione e senza nessuna caratteristica che mi permetta di definirlo, vorrei dire che sono nel nulla, ma anche questo mi sembra troppo, sono nel niente.
Siamo ai margini della città insieme a Giosuè che è preoccupato perché stanno arrivando all’Infernetto, nel quartiere dove abita un gruppo di ragazzi che sono dovuti andare via da Tor Sapienza, cacciati dagli abitanti del quartiere. «Qui hanno provato a mandare tutti, tossici e nomadi senza casa, adesso è l’ora di questi che nessuno vuole. Qui c’è buio, le strade sono rotte e non c’è una macchina della polizia nei dintorni. Siamo i vicini di casa del presidente della Repubblica, della sua residenza estiva e nessuno si occupa di noi». L’Infernetto è delimitato dalla tenuta estiva del presidente della Repubblica a Castelporziano, dalla Colombo e dalla Strada del mare, quella porta ad Ostia. Una miriade di casette basse circondate da un piccolo giardino. «Facevo il pilota mi sono comprato un pezzo di terreno e trasferito qui per avere il mio giardinetto davanti a casa. Mai mi sarei aspettato di diventare prigioniero di questo quartiere di cui nessuno si vuole occupare, che nessuno ama, ho chiesto aiuto a tutti ma nessuno è disposto ad ascoltarci». Si avvicina un ragazzo alto e con un italiano arrangiato. «Ve ne dovete andare». Non ho paura dei suoi toni bruschi e scortesi, so bene, se oggi è qui è perché anche lui ha paura di restare a casa sua, dove è nato, dove forse c’è la guerra, e in fondo questo nulla che lo circonda è già qualcosa, sicuramente è più tranquillo dell’orrore da cui è fuggito. Mi chiedo se sa dov’è? Se sa che cos’è l’Infernetto e se ha mai visto il Colosseo. «C’è il caos qui», insiste Giosuè . Io continuo ad insistere che c ‘è solo normalità e basta. Solamente non c’è abbastanza luce per illuminare le strade e le vite delle persone che vivono qui. O almeno c’è n’è troppa poca per un’inquadratura decente, bisogna accontentarsi di dettagli e spezzoni di un film che bisognerebbe riuscire a fare. «Erano casinari, un po’ prepotenti e anche un po’ stronzi», almeno così si dice al bar che c’è vicino a questo centro di accoglienza per minori e rifugiati politici. «Rubano le buste della spesa ai pensionati».
Mi guardo intorno e cerco di mettere a fuoco questo paesaggio, dove tutto è povero. Le case il cemento le strade, un giardino, un grande prato sullo sfondo, il trafficone di uno stradone, tutto troppo anonimo. La periferia è periferia. Tor Sapienza è un quartiere ai margini di Roma, è lontana, il centro della città lo vedi la sera in televisione al telegiornale quando quasi sempre è la politica che prende la parola. Il generatore della luce è rotto da trent’anni, cioè da sempre, quando cala la luce del sole tutto è inghiottito dal buio fitto. Comincia il coprifuoco, e in giro ci sono solo quelli che non hanno paura oppure quelli che fanno paura. Ci sarebbe bisogno di più luce in viale Giorgio Morandi, per illuminare le strade e per poter raccontare le vite di chi le attraversa, queste strade. Bisognerebbe avere il coraggio di accendere le luci sulle loro vite, cercare lo straordinario di quel vivere e preparare uno spettacolo decente per cominciare a respirare la vita del mondo e non restare soffocati da questo regno di poco e niente. Qui impera la normalità, meglio ancora lo squallore della normalità, un posto dove se non dai l’assalto ad un centro d’immigrati nessuno s’accor- ge che esisti. Tutti i giorni la stessa vita, un po’ da quartiere dormitorio, qualche perenne disoccupato che vaga da un posto all’altro senza fermarsi mai in questo acquario di cemento. Per la verità il verde c’è e anche qualche giardinetto e un pratone dove portare il cane. Ci sono anche tanti cassonetti dell’immondizia. Dei nomadi, imperterriti qualunque cosa succeda, continuano a rovistare nell’immondizia per recuperare qualunque cosa. Ti arrivano voci sussurri bisbigli che passano di bocca in bocca. «Al centro i ragazzi, i neri, sì perché quelli del centro sono tutti neri, mangiano carne tutti i giorni e quando c’è quella di maiale che loro non mangiano per religione, la buttano fuori dalla finestra. Proprio qui che è pieno di gente che non ha i soldi per dare da mangiare ai propri figli». Allora t’incazzi e dici che se ne devono andare. Quando qualche giorno fa una giovane mamma ha appena urlato che tre stranieri hanno cercato di saltarle addosso mentre il suo bulldog scorrazzava sul pratone. Sono scesi tutti insieme per strada, soprattutto quelli del serpentone che si affaccia sul centro e stanno con le tapparelle sempre abbassate per non vedere quelli di fronte che girano nudi per le stanze.
Le voci circolano e alimentano il fuoco dell’indignazione. «Siamo uniti e quei bastardi se ne devono andare e se arriva la polizia c’è n’è per tutti». Niente di eroico e indimenticabile, solo un’incazzatura irrefrenabile. E alla fine i neri vengono portati via e la normalità nelle strade torna sovrana. Non si può aggiungere disagio a disagio. Arriva il buio della notte e tutto ritorna nell’anonimato.
Tornando a casa mi viene in mente Giorgio Morandi, pittore italiano di paesaggi e nature morte: sublime la sua luce che rende delle inerti bottiglie di vetro oggetti intimi e poetici. Viale Morandi è il posto dove c’è il centro a Tor Sapienza.

Su Repubblica. it un video di Mimmo Calopresti girato a Tor Sapienza e all’Infernetto.
Regista, classe 1955, l’ultima opera di Calopresti è Socrates, uno di noi , sul calciatore brasiliano

il Fatto 16.11.14
Storia di Q. Bimbo lasciato in Congo come fosse un pacco
Adottato a 7 anni, ha il cognome italiano ma, assieme ad altri cento, gli è vietato l’espatrio in Italia
di Graziella Durante


Sono 5140 i kilometri che dividono Roma da Kinshasa, la capitale del Congo. Una distanza che Elena ha percorso in 12 ore di volo, quando aveva 29 anni, animata solo da un’irresistibile attrazione per l’Africa. Avrebbe dovuto farvi ritorno 8 anni più tardi, questa volta insieme a suo marito Valerio, per stringere tra le braccia suo figlio adottivo Q. che nel 2013 non aveva ancora 7 anni. Distanze geografiche che diventano cosmiche, se di mezzo c’è la burocrazia internazionale e l’inefficienza delle istituzioni italiane. Conserva ancora il biglietto aereo, Elena, e me lo mostra tirandolo fuori da un faldone rosso zeppo di documenti come fosse un cimelio. “Era il 28 settembre. Il cuore ci esplodeva di gioia. ” – mi racconta con una voce rotta dalla commozione – “Era tutto pronto: visti, documenti, passaporti, il biglietto del ritorno fissato per il 30 ottobre. Dovevamo trascorrere un mese a Kinshasa tutti insieme, come previsto dalle regole del governo congolese. Volevamo partire ben equipaggiati”. Mi mostra gli ingombranti bagagli, stipati in un armadio. “Non li abbiamo mai disfatti da allora. È un rito scaramantico. Un gesto di buon auspicio. Tiene viva la speranza di poter finalmente conoscere nostro figlio”.
Cai, dopo gli errori solo confusione e silenzio
A interrompere bruscamente il sogno di Elena e Valerio, e di oltre cento coppie italiane, è stata una telefonata da parte dell’Ente che ha seguito fin dall’inizio la loro pratica, come previsto dalle procedure italiane, uno dei 66 autorizzati dalla Cai, l’organo governativo con il compito di garantire che le adozioni di bambini stranieri avvengano nel rispetto dei principi stabiliti dalla Convenzione de L’Aja del 1993 sulla tutela dei minori. “Tre giorni prima della partenza ci dicono che la Dgm, un organo del Ministero degli Interni congolese, aveva sospeso per un anno il rilascio dei permessi di uscita dei nostri bambini. Avevo le vertigini. Mi è sembrato che il cuore si fermasse. Ero esasperata, delusa. Ho chiesto spiegazioni. Si sono limitati a farfugliare che c’erano state gravi irregolarità nei percorsi adottivi di alcune coppie americane. L’Italia non c’entrava niente. Tutto si sarebbe risolto per il meglio. Da quel giorno il buio totale. Solo un’attesa cieca e senza parole”. Nel 2012 Elena e Valerio, hanno ottenuto l’abbinamento con Q. Nello stesso anno, una Sentenza del Tribunale Congolese concedeva l’adozione, ufficialmente riconosciuta dal governo italiano. Da allora Q. ha il cognome dei suoi genitori italiani. “Non è stato affatto facile. L’iter adottivo è stato un calvario, un’esperienza grottesca. Devi districarti tra procedure, controlli medici, legali, economici, colloqui con assistenti sociali, psicologi, attese, carte bollate, burocrazie giudiziarie e amministrative, visti consolari, costi stellari, molto superiori a quelli indicati dalla Cai. Pensi che è richiesto addirittura il consenso dei nonni”, mi spiega Elena con un sorriso amaro di chi ha imparato ad avere a che fare con l’assurdo. Dopo il blocco congolese, i genitori si sono riuniti in un comitato, per fare pressioni sulle istituzioni. “Io e Valerio volevamo adottare un bambino del Mali o del Burkina Faso. Come altre coppie, siamo stati incitati a scegliere il Congo, perché il numero dei bambini disponibili era maggiore e i tempi più rapidi. Nessuno ci ha informato degli enormi rischi che correvamo. Il Congo non ha stipulato nessun trattato bilaterale con l’Italia in materia di adozioni e non figura neppure tra i paesi firmatari della Convenzione de L’Aja. La Cai dovrebbe vigilare perché i suoi principi siano rispettati, ma come può farlo con un Paese che non li ha accettati? Non le sembra tutto assurdo? Questa è una delle tante responsabilità che imputo alle istituzioni italiane”.
Nei mesi successivi, molti hanno chiesto di partire per raggiungere i loro bambini. “Ma ci hanno detto che era una mossa sbagliata – incalza Elena – Che si trattava di un caso diplomatico. Intanto, agli inizi di novembre, 26 coppie della lista partono per portare a casa i loro bambini, ma restano bloccati a Kinshasa. Da chi sono stati autorizzati a partire è ancora un mistero. Altro che attività diplomatiche, le istituzioni italiane hanno prodotto solo caos. Hanno agito con superficialità, incompetenza e senza nessuna trasparenza”.
Dalla Kyenge a Renzi il pasticcio non si risolve
Stando alle dichiarazioni ufficiali dell’allora ministro e Presidente della Cai, Cécile Kyenge, la partenza era stata il frutto della sua visita diplomatica in Congo e degli accordi ottenuti. Accordi smentiti dai fatti, oltre che dai successivi comunicati della stessa ministra che intanto, passava la palla alla Farnesina. Le ombre si addensano sempre di più. Il 5 dicembre 2013, due coppie seguite dal Naa rientrano in Italia con i bambini. La notizia trapela solo a cose fatte. “Una decisione - aveva spiegato in una dichiarazione ufficiale la presidente del Naa, Ingrid Maccanti - presa in accordo con la Cai, per evitare che si generasse troppo clamore. E questa la chiamano trasparenza! È evidente che il caso è fuori controllo e che ogni Ente usa tutti i mezzi a sua disposizione per agire”, riprende Elena.
“Le famiglie che nel frattempo non si sono mai mosse dall’Italia sono state abbandonate da tutti. Non è più trapelata una sola informazione. Il sito della Cai era, e resta, in aggiornamento perenne”. Passano i mesi e cambiano le facce e i nomi della politica italiana. S’insedia il giovane, dinamico, ‘governo dei fatti e non delle parole’. “Con il governo Renzi le cose sono peggiorate. Al danno si è aggiunta la beffa. Renzi ha usato la nostra sofferenza per farsi propaganda, presentandosi come l’uomo che cambia le cose. Dall’aereo atterrato a Ciampino lo scorso 28 maggio, sono scesi 31 bambini e Q., come molti altri, non era nella lista. È stato uno spettacolo mediatico ridicolo e sadico con una testimonial d’eccezione, la ministra Boschi che, fino a prova contraria, si occupa di Riforme, ma forse era solo la più telegenica della squadra di governo. Il Presidente del Consiglio ha parlato di un intervento umanitario, che però ha riguardato solo alcuni. Quali sono stati i criteri della selezione? Di quale lieto fine si riempie la bocca, Renzi? ”.
È davvero difficile frenare le parole di Elena, il suo racconto diventa sempre più fitto. “Da maggio sono passati altri sei mesi. A settembre, con una circolare, la Cai ci ha addirittura intimato di ‘mantenere discrezione e riservatezza’. Voglionoanche tapparci la bocca! Ho contattato la Rai. Mi hanno risposto che non sono interessati a questa vicenda. Recentemente ci siamo attivati per manifestare, minacciando di creare disordini. Solo così abbiamo ottenuto una convocazione da parte della Cai. Vedremo cosa hanno da dirci”.
Disegni e giocattoli La vita continua
Mentre parla, Elena tira fuori, questa volta da un faldone più piccolo e verde, l’ultimo disegno che ha ricevuto da Q. al quale invia regolarmente lettere, vestiti e giocattoli. “Cerco di fargli sentire che ci siamo, che lo amiamo. Ci occupiamo delle cure mediche, della sua istruzione. Il pensiero che stia crescendo lontano da noi mi uccide.
Nei suoi disegni, Q. ci ritrae sempre insieme, mano nella mano. E in cielo, sul tetto di una casa, un aereo. Gli operatoridell’istituto mi dicono che si addormenta con le nostre foto sul petto e intanto, aspetta che l’aereo arrivi anche per lui ”. Elena resta ferma, con le mani appoggiate ai suoi due faldoni. “Ho deciso di dividere la burocrazia dai sentimenti - Mi spiega - Da una parte cartastraccia, parole miserabili che non mi hanno ancora permesso di abbracciare mio figlio – dice – dall’altra le sue foto, le letterine, tutto l’amore di questi lunghi anni che Renzi, la Boschi, dovrebbero innanzitutto imparare a rispettare. Pensi - aggiunge con un filo di voce - Roma/Kinshasa sono solo 12 ore di volo”.

il Fatto 16.11.14
I giorni di Nino Di Matteo, un uomo solo a Palermo
“Questo Paese è indifferente”
Il pm della Trattativa minacciato dal tritolo. I silenzi dei colleghi
“Il sostegno delle istituzioni? Niente di niente” dicono gli amici
Ieri al magistrato la solidarietà di studenti e associazioni
Lui: “Non vi adeguate”
di Sandra Rizza


Palermo Il tritolo per lui è nascosto da qualche parte nelle borgate di Palermo, ma da 48 ore, da quando cioè il neopentito Vito Galatolo ha raccontato che il piano di morte per Nino Di Matteo è pronto a scattare, non una mail e neppure un sms è arrivato al magistrato sotto minaccia da parte dei colleghi della Procura di Palermo. “Niente di niente”, dice un amico che lo conosce bene. Dopo due anni di continue intimidazioni, il pm della “trattativa” continua a rimanere un uomo solo. Per questo ieri mattina, dritto nella piazza davanti al Palazzo di Giustizia, il magistrato non ha trattenuto la commozione davanti agli studenti, coordinati da Scorta Civica e dalle Agende Rosse, che si sono riversati in strada con megafoni e cartelli per chiedere al ministro dell’Interno Angelino Alfano di concedere il bomb-jammer al pm più minacciato della storia dell’antimafia.
“Io non so cosa accadrà – ha detto Di Matteo – ma ho una speranza nel cuore: la speranza che conserverete sempre questa passione civile e che non vi adeguerete mai all’andazzo prevalente di un Paese sempre più indifferente alla giustizia e insofferente alla verità e all’indipendenza della magistratura ed alla tutela vera dei valori costituzionali”.
DAVANTI A LUI, non più di duemila persone, né poche, né molte, i soliti marziani in una Palermo abulica, che vive l’ennesimo allarme nei confronti del sostituto anziano del pool Stato-mafia con la granitica indifferenza di sempre. E se in piazza c’è l’immancabile sindaco Luca Orlando, c’è il portavoce del M5s Maurizio Santangelo, c’è persino qualche esponente del Pd come Fabrizio Ferrandelli, e numerosi familiari delle vittime di mafia (da Franca De Mauro a Vincenzo Agostino), dietro gli striscioni che urlano la rabbia degli studenti non c’è la città dei piani alti che il sabato mattina preferisce passeggiare a Mondello e non ci sono i professionisti, neppure quelli dell’antimafia istituzionale che solo poche ore prima, nello scenario luccicante dell’Hotel delle Palme, avevano dato vita a un convegno targato Pd sulla “lotta alla criminalità organizzata”, senza neppure pensare di invitare il pm nel mirino. E tantomeno di nominare la trattativa Stato-mafia.
Di lui, dell’uomo che da un giorno all’altro rischia di saltare su una carica di tritolo perché così vogliono “anche entità esterne a Cosa nostra” (questo sostiene Galatolo, rampollo di un clan da sempre sospettato di legami con i servizi segreti), nel convegno-passerella del Pd non si sarebbe neppure parlato, se il procuratore ad interim di Palermo Leo Agueci, alludendo all’escalation delle minacce, non avesse detto che “si guarda a questa situazione con grande attenzione”, e se il presidente dell’Antimafia Rosy Bindi, ospite d’eccezione, non avesse dichiarato che “tutti i dispositivi di sicurezza sono stati messi a disposizione”.
Ma dietro l’ipocrisia delle dichiarazioni ufficiali, tutti sanno che non è così: da mesi Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso in via D’Amelio, si è intestato una battaglia per ottenere che sulla jeep blindata di Di Matteo possa essere montato il jammer, “l’unico strumento che potrebbe realmente tutelarlo dal rischio di un attentato”. Nei mesi scorsi, Alfano giurò che avrebbe fatto il possibile per concedere il sofisticato congegno alla scorta del magistrato di Palermo, ma le sue promesse sono rimaste sulla carta. E quando Antonio Ingroia ha puntato il dito contro il “silenzio delle istituzioni”, Agueci ha minimizzato: '”Non è vero, l’allarme è costante, si è vista una risposta in tempo reale”.
LA VERITÀ È che Di Matteo, giorno dopo giorno, è sempre più solo: nella città indifferente, in un Palazzo pieno di invidie. Non ha neanche un capo nel suo ufficio sconquassato dai rancori, perché l’asse Napolitano-Renzi-Berlusconi ha deciso di tarare le procure più “calde” su una giustizia modello Nazareno: e dunque si attende che il Csm coaguli le sue preferenze verso un candidato istituzionale, Franco Lo Voi o Sergio Lari, che vada a Palermo con la benedizione del Colle. Ecco perché l’uomo solo che ieri parlava agli studenti appariva quasi sorpreso di trovarsi attorno quei duemila in corteo: “Voi giovani – ha detto – avete la possibilità di cambiare le cose: coltivate il vostro sogno”.
Due piani più sopra, nella Procura dei veleni, nessuno ha pensato di scendere in strada al suo fianco: da mesi l’ostilità dei colleghi si alimenta nelle chiacchiere di corridoio e nelle riunioni della Dda: l’ultima quella del 21 ottobre scorso, quando discutendo dell’imminente deposizione di Napolitano nel processo sulla “trattativa”, i sostituti presenti non trovarono di meglio che contestare i pm del pool Stato-mafia, Di Matteo in testa, “accusandoli – come riferisce l’Ansa – di avere cercato la ribalta mediatica attraverso la citazione del capo dello Stato”. L’uomo solo lo sa e tira dritto: “Comunque vada – dice ai suoi ragazzi – avrete combattuto per rendere più giusto e libero il Paese, e sarà stata una giusta battaglia”.

il Fatto 16.11.14
“Ogni notte a casa penso che può essere l’ultima”
Tra i carabinieri del Gis che da un anno e mezzo scortano il magistrato
I timori di falle nei dispositivi e l’infinita attesa del bomb jammer
di Giuseppe Pipitone


Palermo Possono darci quello che vogliono, ma senza bomb jammer ci fanno fuori comunque”. L’ultimo allarme si è infilato nei corridoi del palazzo di giustizia di Palermo portandosi dietro l’odore della paura. Un odore acre, come il tritolo che secondo Vito Galatolo, il boss dell’Acquasanta che ha deciso di saltare il fosso e farsi pentito, sarebbe già arrivato a Palermo, per fare saltare in aria Nino Di Matteo, il pm che da anni indaga sulla trattativa Stato–mafia, condannato a morte dalle parole di Totò Riina, oggi bersaglio principale di una strategia della tensione che mescola minacce, allarmi bomba e confidenze che dal ventre molle di Cosa nostra raccontano di un attentato già in fase preparatoria.
“Non è questione di paura, con quella ci lavoriamo”
La notizia non ha scalfito il muro umano che ogni giorno sta a guardia del magistrato: sono una decina di uomini, i suoi angeli custodi, posizionati alla fine del corridoio al secondo piano del palazzo di giustizia, dove c’è l’ufficio di Di Matteo. L’ultima rivelazione sul tritolo già arrivato a Palermo, è finita sui giornali mentre stavano facendo il loro lavoro, muti e impassibili come ogni giorno. “Non è una questione di paura: con quella ci lavoriamo portandocela addosso e guadagnandoci lo stipendio” si lascia sfuggire qualcuno, tradendo un minimo di emozione. Un lusso, l’emozione, che chi fa questo lavoro non può permettersi di avere, neanche ora che al palazzo dei veleni tornano a risuonare quelle frasi, parole nere che raccontano dell’arrivo di esplosivo e che già vent’anni fa erano state presagio di stragi. “In realtà non è cambiato granché: semplicemente ogni notte penso che potrebbe essere l’ultima che passo con mia moglie”.
Fino a un anno e mezzo fa, a fare da scorta all’uomo più in pericolo d’Italia c’erano soltanto cinque carabinieri: poi in Procura erano iniziate ad arrivare lettere di minaccia, missive anonime in cui si spiegava come “amici romani” di Matteo Messina Denaro avessero già decretato la morte del pm, perché qualcuno non voleva un governo fatto di “comici e froci”.
Doppi turni per evitare il cambio a metà giornata
Da quel momento il livello di guardia per Di Matteo è stato alzato, la scorta è stata raddoppiata, e da Roma sono arrivati gli uomini del Gis, il Gruppo intervento speciale dei carabinieri, teste di cuoio addestratissime per ogni evenienza. Seguono Di Matteo ogni metro, fanno turni doppi per evitare di darsi il cambio a metà giornata, controllano ogni dettaglio nella vita del magistrato, bonificano gli ambienti e i percorsi quotidiani: solo che qualche falla nella protezione del pm continua a esserci. A cominciare dalle vetture con cui Di Matteo si sposta: sono tre jeep, due di colore grigio, un po’ datate e con una blindatura media, e una nuova, con una blindatura B6, resistente a colpi ripetuti di Kalashnikov. Solo che l’auto più nuova e sicura, quella messa a disposizione di recente per proteggere meglio Di Matteo, non è di colore grigio come le altre, ma nera: un dettaglio importante per ipotetici attentatori che capirebbero facilmente in quale jeep si trova il pm.
“All’esplosivo non si scampa neanche con l’auto blindata”
“Il problema maggiore – dicono però i ragazzi della scorta – non è uno scontro a fuoco o un attentato con fucili mitragliatori o armi da fuoco: il vero problema è un attentato con il tritolo, a quello non si scampa neppure con le auto più blindate del mondo”. L’unica soluzione per evitare una nuova strage troppe volte annunciata è rappresentata dal bomb jammer, il dispositivo elettronico in grado di bloccare le frequenze radio, neutralizzando così qualsiasi ordigno esplosivo piazzato nei pressi delle auto blindate dei magistrati. “Il bomb jammer per Di Matteo è già stato messo a disposizione” aveva detto nel dicembre 2013 Angelino Alfano, dopo aver partecipato al vertice del comitato per l’ordine e la sicurezza, convocato alla prefettura di Palermo proprio per incrementare la sicurezza del pm minacciato da Riina. E invece a quasi un anno dalle rassicurazioni del Ministro dell’Interno, il bomb jammer per Di Matteo non è mai arrivato. Ufficialmente perché il dispositivo sarebbe ancora in fase di sperimentazione per saggiare i possibili effetti collaterali. In realtà il dispositivo è stato già utilizzato diverse volte, per scortare i capi di Stato stranieri in visita nel nostro Paese. A Palermo, però il bomb jammer non c’è ancora. Nonostante le scorte raddoppiate, le teste di cuoio e i veicoli blindati, lo Stato non ha ancora spedito l’unico strumento che può davvero salvare la vita al pm che indaga sulla Trattativa. E con la sua, salvare anche quella dei suoi angeli custodi.

il Fatto 16.11.14
Il personaggio, le inchieste e le minacce di Riina

Nino Di Matteo, nato a Palermo nel 1961, è in magistratura dal 1991, prima come sostituto procuratore a Caltanissetta e dal 1999 nel capoluogo siciliano. Ha iniziato a indagare sulle stragi di mafia in cui sono stati uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli agenti delle rispettive scorte e sugli omicidi di Rocco Chinnici e Antonino Saetta. Ha rappresentato l’accusa nel processo all’ex generale dei carabinieri ed ex capo del Sisde Mario Mori (assolto, è in corso l’appello) durante il quale gli giunse la minaccia Totò Riina: “A questo ci devo far fare la stessa fine degli altri”. È impegnato nel processo sulla trattativa Stato-Mafia.

il Fatto 16.11.14
Bersani accusa: “Il Nazareno va e Mediaset guadagna”
Ironia sul patto. Ma l’area di sinistra è divisa al suo interno
di Davide Vecchi


Milano Il patto del Nazareno è stato rinnovato tre giorni fa e la Borsa ha fatto meno 2,9 per cento ma Mediaset ha invece guadagnato il 6 per cento: se è un toccasana così allarghiamolo a tutte le imprese”. Sorride, Pier Luigi Bersani. Scherza sulle macchie che Matteo Renzi ha fatto tornare al manto del giaguaro. Nella sala milanese dove ieri si è riunita l’area riformista del Pd, l’ex segretario si sente a casa. È stato accolto da chi lo accompagna non più perché è il capo, ma solo perché crede in una sinistra riformista. “Il renzismo ci ha liberato del codazzo di voltagabbana”, è l’affermazione cinica, quanto veritiera, di un vecchio esponente dei Ds lombardi. E il riferimento è ad Alessandra Moretti, Debora Serracchiani e a quanti sono corsi sul carro del vincitore. Bersani glissa, non mostra rancore. Al suo fianco ha Maurizio Martina, l’oggi ministro digerisce ogni attacco rivolto all’esecutivo di cui fa parte. Lui ha il gravoso compito di mediare e mostrarsi equidistante. “Noi di Area riformista nel Pd non siamo né signor no né yes man. Con le nostre idee lavoriamo per cambiare il Paese, rafforzare il partito e vincere la sfida di Governo”, dice.
IL GIOVANE ministro è politicamente nato col Pd di Walter Veltroni e cresciuto come segretario regionale della Lombardia, poltrona su cui è riuscito a rimanere nonostante le sconfitte elettorali in Provincia prima e al Pirellone poi. Penatiano fino a quando Filippo Penati è rimasto in politica. Penatiano come almeno il 90% dei democratici lombardi: l’ex sindaco di Sesto San Giovanni, del resto, era il partito. Come Matteo Mauri, anche lui ieri intervenuto con Bersani all’incontro di Area riformista, di Penati è stato assessore. O Roberto Rampi, altro deputato cresciuto nel Pd penatiano. Ma a Milano arrivano, tra gli altri, anche Cesare Damiano, Guglielmo Epifani e il capogruppo del Pd a Montecitorio, Roberto Speranza che pochi giorni fa ha partecipato alla cena di finanziamento renziana a Roma. “Non abbiamo bisogno di signorsì ma di un grande soggetto plurale in cui insieme si costruisce la linea politica”, dice. E puntualizza: “Come è noto sono autonomo e non renziano voglio lavorare per costruire un percorso che consenta a tutto il Pd di essere protagonista. Lo spirito di Area riformista e dell’iniziativa di oggi è questo: dire che esiste un grande Pd in cui ci sono anime diverse e che c'è un pezzo di sinistra che rivendica le proprie idee e che porta a casa risultati importanti”. Bersani ascolta. E sorride. Poi tocca a lui.
Inizia dal Pd che, dice, “è casa nostra sul serio”. La nascita del partito “non è stato l’incontro tra modernisti e cavernicoli, ma tra culture riformiste e non mi risulta che il Pd sia nato alla Leopolda”. Poi, quasi a voler rispondere a Speranza, aggiunge: “Il Pd è casa nostra, ma è difficile cantare fuori dal coro quando il coro è assordante”. Dopo aver sistemato il coro, Bersani si è interessato del direttore d’orchestra: Renzi. Il premier ha chiesto “28 fiducie, che forse arriveranno a una trentina, in otto mesi: non ho mai visto un parlamento così disponibile verso il governo”. Bersani lo dice confutando “l’idea che si è voluto dare che c’è un cavaliere, paladino Orlando, che affronta i mori conservatori. Non siamo frenatori, ma gente che dice che non si fa abbastanza non si va abbastanza a fondo. Non è solo una questione di riforme: nelle periferie ci sono problemi che una politica ridotta a comunicazione non riesce a dare voce. La comunicazione si accorge della periferia solo quando esplode. Senza una politica che vada a mediare sui problemi fuori dai riflettori siamo nei guai”. Non ci gira intorno, l’ex segretario. E proprio quando sembra abbia ormai archiviato le care e fantasiose metafore ne tira fuori una parlando del jobs act: “Sono stati fatti passi avanti importanti che è giusto rivendicare, ma resta il fatto che l'approccio al tema non è stato corretto e purtroppo rimettere il dentifricio nel tubetto non è facile. Si stanno mettendo delle pezze”. Alla fine quella battuta sul titolo Mediaset che vola grazie al patto del Nazareno. Battuta a cui, poche ore dopo, ribatte Silvio Berlusconi: “Il patto del Nazareno non contiene nulla su Mediaset”, afferma sfidando la realtà dei dati. Decisamente più rilevante la conferma che l’accordo “durerà a lungo”. A sostegno di Berlusconi si sono espressi: Gasparri, Serracchiani, Fitto e Boschi. E Bersani sorride.

Repubblica 16.11.14
Serracchiani
“Stavolta ha sbagliato battuta: Pierluigi divide il partito”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA . «È una delle battute di Bersani, ma è un errore». Debora Serracchiani, vice segretaria del Pd, replica gelida all’ex capo del partito.
Serracchiani, il patto del Nazareno è un favore anche economico a Berlusconi?
«Questa credo sia stata una delle solite battute di Pierluigi. Però è un errore. Quando si parla di unità del partito non lo si può dire solo in teoria, ma lo si deve anche praticare».
Sta dicendo che Bersani piccona l’unità dem?
«Abbiamo fatto in questi mesi un lavoro di cucitura, di rammendo e anche di coesione dentro il Pd, che ci ha portato a raggiungere una maturità e una condivisione su temi importanti, come per esempio il Jobs Act, e non abbiamo assolutamente bisogno di tornare a dividerci».
Però accreditare Berlusconi come interlocutore privilegiato aiuta anche Mediaset?
«Non abbiamo scelto Berlusconi come interlocutore privilegiato. Abbiamo detto al Paese che c’è una assoluta urgenza di fare le riforme e chiesto a tutti di essere protagonisti di questa partita: alcuni come Berlusconi hanno risposto positivamente, altri come il M5S no. Quindi non c’è alcuna questione economica di mezzo. Credo onestamente che di certe affermazioni si possa fare a meno».
Ma le riforme si fanno grazie al Patto del Nazareno?
«Le riforme istituzionali si fanno con tutti, lo abbiamo sempre detto e continueremo ad insistere per trovare la più larga condivisione possibile in Parlamento».
Sul Jobs Act è stato ripristinato il reintegro per i licenziamenti discriminatori e questi sono tipizzati o è ancora tutto molto vago?
«In commissione è stato fatto, come ricordava Roberto Speranza, un ottimo lavoro. Siamo partiti dal testo del governo, dalla riforma degli ammortizzatori sociali, dall’estensione delle tutele, dall’introduzione del contratto a tutele crescenti e, anche rispondendo alla richiesta della direzione del Pd, il governo ha accolto la richiesta di specificare i licenziamenti disciplinari».
Ma sono le modifiche che vuole la minoranza dem e che ha chiesto il sindacato?
«Il testo già rispondeva a molte istanze della sinistra: per la prima volta il contratto a tempo indeterminato costerà meno di tutti gli altri contratti. Abbiamo così anche cercato di disboscare una serie di contratti di lavoro che creano precariato».
Un Pd scosso dalla riforma del mercato del lavoro. E anche dalla vicenda della giunta romana. Il sindaco Marino dovrebbe dimettersi?
«Il Pd è e sarà leale e responsabile con il sindaco Marino, che ha contribuito ad eleggere. Non possiamo però nasconderci che ci sono criticità e tensioni, posizioni distanti e quindi siamo consapevoli che ci vuole un salto di qualità. Un cambiamento è certo necessario, ma senza diktat. Una crisi politica non servirebbe a nessuno ».
Non c’è quindi un tempo massimo per la giunta Marino?
«Sia con il Pd locale che con il sindaco c’è un costante dialogo. E sicuramente dobbiamo ritrovare coesione politica e riteniamo che, anche la volontà di ripartire, risponda a una richiesta di fare chiarezza. Nell’interesse dei cittadini e di Roma lavoriamo perché questa chiarezza avvenga nel minor tempo possibile, ma non ci sono tempi massimi».

Il Sole 16.11.14
Più largo il solco sinistra Pd-Cgil: la scissione impossibile
di Emilia Patta

L'apertura di Matteo Renzi alla minoranza del suo partito sul Jobs act, con la decisione di inserire già nella delega la questione del reintegro per i casi più gravi di licenziamento disciplinare, ha avuto l'effetto politico di depontenziare l'opposizione interna e di allargarne la distanza dalla piazza della Cgil e della Fiom. Basta mettere in fila le reazioni indignate dei vari esponenti della sinistra del Pd – da Roberto Speranza a Guglielmo Epifani a Cesare Damiano – alle pesanti accuse del leader Fiom Maurizio Landini («questo accordo è una presa in giro, serve solo ai parlamentari per conservare il proprio posto») per misurare il solco scavato in poche ore. Al netto delle volgari accuse di voler conservare il posto, in un certo senso Landini ha ragione, perché la delega recepirà un principio che il premier si era impegnato a recepire comunque con i decreti delegati davanti alla direzione del suo partito e davanti al Parlamento tramite le dichiarazioni del suo ministro Giuliano Poletti. Ma rinunciando alla fiducia su un testo blindato Renzi ha dato ai suoi oppositori interni una onorevole via di uscita, lasciando isolati i critici più tenaci come Gianni Cuperlo, Stefano Fassina e Pippo Civati.
Non è certo un caso che lo scontro nel Pd stava per deflagrare proprio sull'articolo 18, il "totem" attorno a cui la sinistra democratica si dilania da circa un ventennio. Val la pena ricordare che il libro Il mercato e il lavoro del giuslavorista e già parlamentare del Pci (quindi non un pericoloso esponente della destra radicale) Pietro Ichino – libro che per la prima volta introdusse in Italia il dibattito sulla flexsecurity e che fu molto apprezzato dall'allora leader del Pds Massimo D'Alema – è uscito non qualche settimana fa ma nel 1996, quasi vent'anni fa. La leadership di Renzi, la prima post-ideologica, ha fatto venire il nodo al pettine, e la decisione è stata scioglierlo in senso riformista. Questo è un bene per il Pd e per il Paese, e forse ci si arriva troppo tardi. Ma Bersani coglie nel segno quando, ribadendo che a suo avviso è stato un errore riparlare di articolo 18, nota che «è complicato rimettere il dentifricio dentro il tubetto». La scelta di riformare il mercato del lavoro è una di quelle scelte che vanno nella direzione di modernizzare il Paese, e appare irreversibile. Così come irreversibile, e comunque al momento vincente, sembra essere il processo avviato da Renzi di trasformare il vecchio Pd in un moderno "partito della Nazione" rappresentativo di interessi sociali trasversali.
Alla parte più corposa della minoranza interna non resta che percorrere la strada dell'opposizione dentro il Pd per far valere e dare rappresentanza ai principi della sinistra («il Pd è casa nostra sul serio, non lasciamo andare via la gente», ha detto ieri Bersani). Certo, i toni talvolta acrimoniosi contro Renzi usati dai vecchi leader (lo stesso Bersani, e soprattutto D'Alema) sono anche frutto del dato oggettivo che per la prima volta la componente ex diessina del Pd si ritrova in netta minoranza nel partito dopo averlo gestito direttamente o indirettamente dalla sua fondazione. Ma i vecchi leader sanno che almeno dal 2008, quando Walter Veltroni impose la scelta maggioritaria costringendo anche il centrodestra ad unirsi nel Pdl, non c'è più spazio in Italia per una sinistra radicale di tipo tradizionale che superi le piccole percentuali del 3-4%. Una scissione importante, insomma, non è alle viste. Ciò non toglie che la soglia del 3% prevista dall'ultima versione dell'Italicum potrà favorire qualche fuoriuscita al momento delle elezioni politiche (molti pensano a Fassina e a Civati, non a caso molto corteggiati in questi giorni dal leader di Sel Nichi Vendola). Ma si tratta di fuoriuscite che il premier e segretario del Pd ha già messo ampiamente nel conto.

il Fatto 16.11.14
Strategie
Renzi ora è un po’ meno Fonzie: è arrivata la realtà
Toni più bassi e meno ottimisti: il premier vuole fare il salto da rottamatore a statista
di Wanda Marra


Ci sono quelli che fanno il broncio pure all’arcobaleno. A me piace vivere a colori”. Così diceva Matteo Renzi il 7 agosto, il giorno dopo che le stime sul Pil (-0,2%) conclamavano la recessione. Allora, mentre invitava gli italiani ad andare in vacanza “belli e contenti”, si difendeva così: “Ho promesso di cambiar verso. Non di cambiare l’universo in 3 mesi. Quello lo lasciamo ai supereroi dei fumetti”.
SONO PASSATI 3 mesi da allora, eppure nella parabola del giovane premier sembra un’era geologica. Gli arcobaleni non si vedono proprio più. E anche se il presidente del Consiglio alla battuta non ci rinuncia, l’esortazione all’ottimismo è decisamente in ribasso.
Adesso, con il meno 1% del Pil, certificato dall’Istat, l’Italia risulta maglia nera in Europa. Lui si trincera in un “tutto previsto, perché la scommessa è per il 2015”. Non è più il tempo di metafore immaginifiche. Piuttosto è la fase del maglioncino (vedere la direzione del Pd di mercoledì). La realtà - suo malgrado - è entrata nello spettro visivo del premier. E mediaticamente in quello di tutti gli italiani. Il momento è complicatissimo. C’è la legge di stabilità da fare, Roma è sull’orlo del collasso, a Genova (e non solo) l’allerta maltempo è continua. E poi ci sono le piazze contro. Venticinque solo venerdì. “Negli ultimi mesi, dovunque va, viene fischiato: non è mica facile sorridere”, commenta un deputato, renziano. La realtà va da Renzi, lui (ancora) se ne tiene il più lontano possibile. A Genova non c’è andato, nelle periferie romane meno che mai. Appuntamento già fissato, quello del G20 di Brisbane, ma è evidente che per lui è meglio farsi fotografare con Obama, o addirittura con un koala, che in mezzo a fischi e piogge. A proposito di koala, anche la moglie Agnese ha fatto la suaphoto opportunity. E in Australia è sbarcata con un guardaroba tricolore: rosso, verde e bianco. Una scelta in linea con il nuovo corso del marito, che a questo punto vuole fare il salto da Rottamatore a statista. Ecco i toni più seri. Con l’Italia in queste condizioni non è il caso di fare il pagliaccio. E neanche di andare allo scontro tutti i giorni: tanto, il sindacato come nemico pubblico necessario, è costantemente nel mirino. “Mi dispiace che gli operai siano contro di me. Mentre invece l’ostilità dei centri sociali non mi dà nessun fastidio”, ha confessato più volte ai suoi. Fa tutto parte della stessa strategia. Cercare un’interlocuzione con Landini, che come oppositore ufficiale per lui è l’ideale. E porsi come argine rispetto al dissenso meno codificato. Guarda al grande centro: le minoranze Pd le ha in larga parte addomesticate, per il resto marginalizzate (e se qualcuno se ne va, meglio così) ; Ncd non l’ha mai considerato un vero interlocutore (e in effetti, pare che anche sul jobs act l’accordo sia fatto) ; Forza Italia è un partito sbrindellato, e Matteo sta lavorando sul suo elettorato, tra aperture incondizionate a imprenditori e industriali e comparsate in tv buone per le grandi masse (da Barbara D’Urso a Paolo Del Debbio, Mediaset è casa sua). I vecchi Dc che sceglievano l’ex Cav., ora sono contenti di tornare a casa. Scelta Civica e Sel a metà sono già nel Pd. Molti dei Cinque Stelle pronti a trasmigrare. Insomma, il partito-piglia-tutto della nazione è già in fieri, con tanto di legge elettorale pronta a certificarlo: il 40% alla lista e la soglia di entrata molto bassa significano certificare un grande partito e tante piccole opposizioni. Il Parlamento è ridotto a mero organo certificatore: da marzo 2013 a ottobre 2014, l’84% delle leggi sono di iniziativa governativa. Le fiducie sono 28. Però, gli oppositori ci sono e sono tutti nel mondo reale. Quello che il premier ultimamente vede poco, tra Palazzo Chigi, viaggi all’estero e visite alle aziende. Oggi, lo scontro è massimo con i sindacati. Sul jobs act Renzi va diritto come un treno. Ha promesso l’abolizione dell’articolo 18 alle imprese e agli investitori stranieri. Non si ferma: l’accordo di questi giorni è un contentino, che verrà disinnescato dai decreti delegati. Già pronta un’altra battaglia: la riforma della giustizia penale. Quella che si era arenata durante l’estate, anche per tenere sotto ricatto B.
ORA IL DOSSIER è sul tavolo del premier, con falso in bilancio (tutto da calibrare) e prescrizione in primo piano. Un altro scossone. Così in un Tweet l’8 novembre, accompagnato da foto poetica con bambino estatico: “Abbattuto l’ultimo diaframma della #variantedivalico. L’Italia ha una storia da scrivere, non solo da raccontare”. Quale e come, resta un’altra questione.

il Fatto 16.11.14
Furio Monaco
Metti un indagato alla cena Pd
di Loredana Di Cesare


Alla cena di finanziamento del Pd di Matteo Renzi, al Palazzo delle Fontane dell’Eur di Roma, c’era anche un imputato. Era seduto al tavolo numero 50. Si chiama Furio Monaco, imprenditore edile. Il suo nome spunta in un’inchiesta della procura di Roma - condotta dai pm Paolo Ielo e Giuseppe Cascini - per tentata estorsione. Il gip Stefano Aprile ha disposto il suo rinvio a giudizio e ora, il rampollo della famiglia Monaco, che ha finanziato con almeno mille euro la cena di fund raising del partito di Renzi, dovrà difendersi dalle accuse di Alessandro Filabozzi, manager del Consorzio cooperative costruzioni. Secondo gli inquirenti Monaco, in concorso con Riccardo Mancini, ex ad di Eur Spa e braccio destro di Gianni Alemanno, avrebbero indotto Filabozzi, a non presentare ricorso al Tar, minacciando di escluderlo da tutti i rapporti di lavoro con l’amministrazione capitolina.
L’IMPUGNAZIONE riguardava un appalto di circa 200 milioni di euro, per la realizzazione del “corridoio filobus Laurentino”, vinto da Monaco, vertice di un’associazione temporanea d’impresa. I fatti risalgono al 2008, nel periodo a cavallo tra la giunta Veltroni e Alemanno, e l’indagine nasce da un’inchiesta più ampia, su una presunta tangente da 600mila euro, versata dalla Breda Menarini alla società Roma Metropolitane, controllata dal Comune di Roma, come garanzia per la fornitura di 40 vetture. La gara per la costruzione dei binari per i filobus è indetta dall’amministrazione di centrosinistra e aggiudicata da quella di centrodestra. Il neo assessore ai trasporti di Alemanno, Sergio Marchi, a giugno, decide di sospendere l’iter di assegnazione. Ma a novembre la Monaco Spa si aggiudica i lavori e Filabozzi, secondo classificato, manifesta l’intenzione di impugnare l’appalto con una richiesta d’accesso agli atti. Ed è proprio in questa fase che, secondo l’accusa, s’inserisce l’estorsione a Filabozzi “affinché rinunci, a seguito di serie e concrete minacce, al ricorso giurisdizionale”. Filabozzi racconta ai pm di aver “ricevuto una telefonata da Monaco... il quale mi suggeriva di non presentare ricorso e m’invitava a una colazione di lavoro con Mancini, espressione della nuova amministrazione”. Durante l’incontro - continua Filabozzi - “Mancini, alla presenza del Monaco, disse che tenuto conto del nuovo orientamento di maggioranza un appalto di tale portata non poteva essere aggiudicato al CCC (azienda di Filabozzi, ndr) e aggiunse che, se ci fossimo rivolti al Tar, ci avrebbe impedito la materiale esecuzione del lavoro ed escluso da ogni successiva partecipazione sul territorio comunale. Se non avessimo impugnato l’atto, si sarebbe potuto parlare dei lavori del prolungamento della Metropolitana B”. Ma Filabozzi presenta comunque ricorso. E le minacce diventano concrete: “Mi venne disdetto l’appuntamento per discutere dei lavori della metro. E decisi di recedere dal ricorso”. Il gip ritiene le dichiarazioni di Filabozzi “logiche” e “attendibili” e quelle di Monaco “laconiche” e “reticenti”. E c’è un’altra inchiesta nella quale – sebbene non abbia avuto ripercussioni penali – compare il nome del costruttore, ospite alla cena del premier.
NE PARLA Lorenzo Cesa agli inquirenti di Piazzale Clodio, nell’ambito dell’inchiesta in cui fu condannato a 3 anni, poi prescritto, sulle tangenti Anas da 30 miliardi di lire. È il 1993 e Cesa, portaborse dell’allora ministro Giovanni Prandini, racconta di aver conosciuto il giovane Furio Monaco, che gli presenta suo padre, per chiedergli di sbloccare una pratica pendente all’Anas. Per il disturbo – racconta Cesa – “Monaco portò nel mio studio una busta di carta rigida contenente denaro destinato al ministro (…) Penso che la somma si aggirasse intorno ai 15 milioni di lire”. Il Fatto Quotidiano ha contattato Monaco che ha confermato di esser stato presente alla cena del Pd, versando la quota di mille euro. “Sono stato invitato dal mio amico Domenico Tudini, ex ad di Ama, e ho deciso di partecipare perché nutro stima profonda nei confronti di Renzi”.

il Fatto 16.11.14
Tipi di oggi
Sandro Gozi, l’ex prodiano tutto ego e lasagne
di Carlo Tecce


Sandro Gozi è un appassionato di maratone. Quando la politica italiana ne ignorava l’esistenza, i giornali romagnoli segnalavano la presenza del giovane Sandro, classe ‘68 di Sogliano al Rubicone, sul ponte Brooklyn di New York. Oggi fa vita sedentaria, pure piuttosto insalubre, nei salotti televisivi. I truccatori gli passano una cazzuola di fondotinta, gli impomatano la chioma nera, e Gozi scatta: è il più convinto dispensatore di ottimismo renziano pur non essendo di origine renziana. È così fiero e tronfio per la poltrona da sottosegretario a palazzo Chigi che gli ha donato Matteo Renzi - e finanche con l’agognata delega per gli Affari europei - che potrebbe persino smentire di aver conosciuto Romano Prodi, di aver collaborato col professore presidente della Commissione europea e di aver consumato due legislature in Parlamento con geniali proposte di legge per valorizzare la sfoglia emiliana. Quello che Gozi non smentirà mai è che Gozi è uno statista, un europeista, prototipo di una generazione Erasmus (lo rivendica) che doveva prendere il potere, e forse un pochino l’ha preso. A cosa va attribuita, se non a un atteggiamento egemonico, la doppia cacciata da Chigi del consigliere per Bruxelles, il rampante Stefano Grassi, e dell’esperto ministro Enzo Moavero? Una coppia al servizio di Enrico Letta e Mario Monti, non proprio due tapini per i tecnocrati. Grassi e Moavero lo potevano oscurare, una malattia per un uomo che vive di lucine di telecamere, di poltrone dentro cui sprofondare, di scenette da interpretare. Vive di capi chinati, come all’ambasciata di Francia per ricevere il titolo di Cavaliere della Legion d’Onore; di visione globale, come nel pronosticare la ricchezza indiana da consumato reggente dell’associazione Italia-India. Fu leggendaria la scalata di un tir per discutere in tv con un camionista ingrugnito e tatuato, l’esatto opposto di Gozi che gesticola con attenzione ieratica, sacerdotale. E avrà ragione Umberto Bossi che abbandonò sdegnato il tavolo di una trattativa impossibile a Varese per puntellare l’ultimo governo di Prodi: il professore disertò l’appuntamento dai leghisti, e mandò il sobrio Gozi. Che per Bossi era “un ragazzino di parrocchia”, col massimo riguardo per le parrocchie, il Senatur scappò fuori a sfumacchiare il sigaro.
A QUEI TEMPI, sebbene fosse deputato e non più un funzionario di Bruxelles, Gozi correva da fermo. E fu citato, senza conseguenze penali, nelle carte dell’inchiesta “Why Not” e i comitati di affari di San Marino. Al professore di Bologna, Gozi deve l’ascesa in Europa e la discesa a Roma. Ha sofferto la pugnalata dei 101 a Prodi per il Quirinale, ma ha sofferto e ha denunciato ancora di più la “pulizia etnica dei prodiani”. Per l’esattezza, di un prodiano. Perché il partito non aveva assegnato a Gozi la presidenza di una commissione di Montecitorio. Non fu nominato ministro o vice o qualsiasi cosa nell’esecutivo di Enrico Letta, e lo sgarbo aumentò il fastidio del perseguitato Gozi, che s’era infilato lesto nella segreteria di Pier Luigi Bersani, tanto per coprire un fianco e accumulare punti come se la politica fosse la tessera di un supermercato: prima o poi, vinci un premio. Il mite Sandro divenne severo. Avvertiva, sospettoso, i ritardi di programma, i disguidi con Bruxelles, i pateracchi di maggioranza. Quant’era fiscale, Gozi. O era già renziano: “Il segretario di partito e il presidente del Consiglio devono coincidere”, ferragosto 2013. Una condanna a morte per l’esecutivo di Letta e una promozione a Renzi. Erano ancora lontane le primarie di dicembre. Con le primarie dem, Gozi ha sempre avuto un rapporto bizzarro. Nell’autunno 2012, all’epoca contestatore lieve di Bersani e tosto di Renzi, s’è candidato per un giorno. Un sacrificio, disse, per i figli dell’Erasmus. Condì il comunicato con un appello a Civati: “Pippo, facciamo squadra insieme”. Pippo o non Pippo, rimase solo. Sul lago di Bolsena, per le “governiadi” di Beatrice Lorenzin (Pdl), Gozi era in compagnia di tanta gente didestra. E siccome è un tipo che si adatta, si adattò. Elogio del Porcellum: “In teoria avrebbe agevolato il merito. Avremmo avuto la migliore classe dirigente della storia della Repubblica”. Con modestia, si può presumere che Gozi si riferisse a Gozi, anch’egli selezionato col Porcellum. In seguito, Gozi ha celebrato il Mattarellum, ovviamente l’Italicum versione iniziale e l’Italicum versione attuale. Esperto di sfoglie, se ne aveste bisogno, vi può fornire la ricetta per una lasagna classica. Il segreto: deve essere ristretto. Il sugo, non l’ego.

La Stampa 16.11.14
Berlusconi, sul patto del Nazareno con Renzi: «Durerà a lungo»
«L’intesa è forte anche per il Quirinale»
Prove di dialogo con Alfano: “Riunificare il centrodestra è una necessità”
«Dopo le divisioni personali si deve tornare a lavorare tutti insieme»

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La Stampa 16.11.14
Tiziano e Matilde Renzi infuriati con le Femen
di David Allegranti

I Renzi schierati contro le Femen. Ma chi, Matteo e la moglie Agnese? No, sono la sorella Matilde e il babbo Tiziano a commentare negativamente, su Facebook, le performance delle femministe ucraine, che giovedì erano nello studio di AnnoUno, la trasmissione di La7 condotta da Giulia Innocenzi. «Io le Femen – scrive Matilde Renzi – le manderei negli stati islamici, in particolare in quelli dove crocifiggono i cristiani o li bruciano vivi. Vadano a manifestare nude in quei posti se hanno il coraggio. Questa è trasgressione altro che andare da quella “brava” giornalista».
Il riferimento, va da sé, è alla Innocenzi, che ha ricevuto molte critiche dopo l’esibizione poco moderata (eufemismo) delle ragazze ucraine. Anche babbo Renzi, che è su Facebook con lo pseudonimo di Orso Saggio, non apprezza la protesta delle Femen, tant’è che ha condiviso uno status con zero diplomazia di Carlo Fidanza di Fratelli d’Italia («Mi associo al commento di molti: maledette schifose, sottoprodotto degenerato della sottocultura laico-progressista, partite per Teheran o, peggio, per Mosul», scrive l’eurodeputato). Poi Tiziano se la prende, in prima persona, con le «donne nude pitturate che vengono beatificate in trasmissioni su la tv di tutti e che violano luoghi ad altro scopo usati». Ne ha pure per gli «operai che spaccano strumenti di lavoro della propria azienda» e si chiede se, in tutta questa baraonda, sia giusto «lasciar perdere, minimizzare, cercare le giustificazioni, giusto tacere… È comodo voltarsi dall’altra parte e non prendere posizione o è complicità?». Ma non ci sono solo le Femen nel mirino, pardon, nella tastiera dei Renzi. Matilde ha diverse idiosincrasie. Considera Halloween una roba da satanisti e Conchita Wurst che canta all’Onu la lascia perplessa. Le Femen, poi, proprio non riesce a tollerarle: si facessero un giretto in Pakistan, con le loro minigonne di pelle.

La Stampa 16.11.14
Dossier Mappa del nero
Gli abusivi sono un milione Il Fisco perde 12 miliardi l’anno
di Paolo Baroni

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Il Sole 16.11.14
Le regole che devono cambiare
Ma chi si occupa di combattere la corruzione?
di Luigi Zingales


Questo fine settimana si è riunito a Brisbane il vertice dei G-20. Questi vertici sembrano una grande perdita di tempo. Grandi kermesse in cui i leader nazionali si fanno propaganda, occupando i telegiornali con meravigliose dichiarazioni di intenti, cui raramente seguono i fatti. Perché non abolirli? A sostenere questi vertici non sono i loro successi, ma la disperata necessità che il mondo ha di soluzioni globali. Oggigiorno molti dei principali problemi hanno una scala mondiale, ma manca un'autorità che coordini una risposta globale (le Nazioni Unite sono inefficaci). Prendiamo il rischio di una epidemia di ebola: le inefficienze del sistema sanitario di due Paesi africani diventano improvvisamente un problema di tutti. Lo stesso vale per l'inquinamento atmosferico e i cambiamenti climatici.
Raramente questi vertici sono risolutivi. Ma quasi sempre aiutano un coordinamento internazionale delle politiche. Coordinamento troppo lento rispetto a quello che sarebbe necessario, ma certamente più veloce di quello che avverrebbe in assenza di questi vertici.
Il meeting di Brisbane ha due temi di particolare rilevanza per l'Italia: i paradisi fiscali e la corruzione. Come dimostrato dal recente scandalo che ha coinvolto il neo-presidente della commissione europea Juncker, anche il piccolo Lussemburgo riesce a creare notevoli opportunità di elusione fiscale a imprese di tutto il mondo. Questi paradisi sopravvivono anche per l'assenza di uno sforzo combinato degli altri Paesi nel combatterli.
Lo stesso vale per la corruzione internazionale. È una visione diffusa - soprattutto nel nostro Paese - che la corruzione in altri Paesi sia un male necessario, soprattutto in certi settori. «Così fan tutti» si sente affermare troppo spesso ai vertici delle imprese, e «così fan tutti» ripetono molti politici, lasciando intendere che chi afferma il contrario è o ingenuo o in mala fede. Se così fan tutti, possiamo fare anche noi, senza senso di colpa alcuno.
Si tratta di un atteggiamento non solo cinico ma anche miope. Cinico perché condanna interi continenti alla miseria. Grazie alle nuove scoperte di petrolio e gas, nel prossimo decennio alcuni dei Paesi più poveri al mondo riceveranno 3mila miliardi di dollari in royalty. Se questi soldi non andranno ad arricchire dittatori cleptocrati potranno sollevare l'Africa dal sottosviluppo. Senza regole appropriate rischiano di creare una nuova stirpe di oligarchi, da fare impallidire quelli russi. È inutile che ci impegniamo in politiche di aiuto, se non risolviamo questo problema.
Ma non è solo l'altruismo per le sofferenze del continente africano che ci deve spingere a una battaglia contro la corruzione internazionale. Come è miope pensare che l'ebola sia un problema solo della Liberia e della Sierra Leone, così è miope pensare che la corruzione dell'Africa sia solo un problema africano.
Dato che le tangenti non sono legali, per pagarle è necessario alterare il sistema di reporting finanziario, creando un sistema segreto che mina alla radice la possibilità di una corretta corporate governance. La corruzione distrugge anche la possibilità di un meccanismo di promozione meritocratica. Il pagamento delle tangenti presuppone una omertà mafiosa tra i vertici, che mal si sposa con un sistema in cui chi sbaglia paga. Le prime vittime della corruzione sono proprio la governance e l'efficienza delle imprese che la praticano.
Sarebbe poi ingenuo pensare che, una volta creato un sistema opaco per pagare le tangenti, questo non sia utilizzato dai manager delle imprese stesse per fare la cresta alle tangenti o addirittura stornare fondi delle imprese a vantaggio personale. La corruzione è più contagiosa dell'ebola.
Purtroppo non si può combattere la corruzione internazionale in un solo Paese. Negli anni 80 l'unica nazione ad avere una legislazione chiara in materia erano gli Stati Uniti, che dopo lo scandalo Lockheed, avevano introdotto il Foreign Corrupt Practices Act (Fcpa). Questa legge però non veniva fatta molto rispettare. Grazie allo sforzo di organizzazioni internazionali come l'Ocse e il coordinamento avvenuto in meeting come i G-20, tutti i Paesi sviluppati (inclusa l'Italia) hanno adottato regole comuni contro la corruzione internazionale, prendendo a modello la Fcpa. Questo coordinamento ha permesso agli Stati Uniti un'applicazione più rigorosa della stessa.
Al centro del vertice di Brisbane c'è la crescita economica. Speriamo che un peso adeguato sia dato anche alla lotta contro la corruzione. La corruzione aumenta il costo di fare affari, erode la fiducia del pubblico, mina lo stato di diritto, riduce gli investimenti e provoca sprechi e inefficienze. È venuto il momento di intensificare il coordinamento internazionale nella lotta alla corruzione. Qualsiasi passo in questo senso basterebbe a giustificare il G20 di Brisbane.

La Stampa 16.11.14
La crescita che non c’è
Finiamola con l’alibi dell’Europa
di Luca Ricolfi

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Repubblica 16.11.14
Torni a fiorir la rosa che pur dianzi languìa
Oggi il cambiamento lo vogliono tutti e non guardano se è ben fatto o mal fatto
E poi c’è la battaglia di Bruxelles che dovrà essere effettuata con coraggio
di Eugenio Scalfari


MI CAPITA spesso, ma credo che accada a tutti, di capire meglio la natura della realtà che ci circonda se sono stimolato da incontri occasionali che in apparenza non hanno nulla a che vedere con essa: un vecchio film, una vecchia canzone, una frase letta in un libro o su un giornale.
Nei giorni scorsi ho visto un film del 1991 intitolato A proposito di Henry . Il protagonista, che è Harrison Ford, viene colpito da un incidente che lo paralizza completamente e gli toglie anche la memoria e la parola. I medici lo ritengono spacciato ma non è così: le cure che gli praticano dopo molti mesi hanno risultati sorprendenti, al punto che lui torna a casa e perfino al lavoro: era un avvocato molto importante e anche molto autoritario in studio, in tribunale e in famiglia. Ma pur essendo perfettamente guarito, Henry si rende conto che l’autoritarismo d’un tempo e l’autorevolezza che ne derivava non gli piacciono più, li sente come gravi difetti di carattere e concentra tutte le sue forze nel cambiare se stesso. Ci riesce e diventa un altro uomo, umile, affettuoso, caritatevole. Prima era dominato dall’orgoglio e tutto gli era dovuto; adesso vuole soltanto il bene degli altri e nulla per sé. Dopo la parola “ End” ho pensato che Henry aveva rottamato se stesso.
Qualche giorno dopo ho trovato canzoni della mia giovinezza incise su un cd. Tra quelle canzoni ce n’è una che racconta tutti i guai che affliggono il cantante che tuttavia termina con un finale consolatorio cantato in un francese bastardo che si rivolge ad una immaginata marchesa sua amica e dice così: “Malgré cela, Madame la Marquise, tout va très bien, tout va très bien”.
SIGNIFICA che l’ottimismo è il solo modo per sopportare la fatica di campare. Un giovanotto che voleva parlarmi del suo futuro di giornalista e si dichiarava un cronista perfetto perché privo di idee politiche, ripeteva spesso durante il colloquio che della politica lui se ne fregava. Quel “me ne frego” mi ha fatto ripensare a tempi del passato: i fascisti avevano il “me ne frego” come parola d’ordine e lo mettevano anche nelle loro canzoni. Ho letto sul Manifesto che Asor Rosa parla anche lui del “me ne frego” come di un ricorrente malanno italiano. Stiamo molto attenti, con queste cose non si deve scherzare perché sono pessimi segnali per la vita democratica d’un Paese.
Infine m’è venuto tra le mani il libro di poesie del Parini e sfogliandolo con antico amore ho colto due versi assai belli e speranzosi: “Torna a fiorir la rosa / che pur dianzi languìa”. Recessione, depressione, deflazione: hai visto mai che questo scenario possa improvvisamente cambiare?
Voi vi domanderete perché io v’abbia fatto questi racconti invece di approfondire la realtà. Rispondo che ciascuno di essi configura un’ipotesi e scegliere tra di esse non è affatto facile, ma forse adesso le vediamo più chiaramente.
* * *
L’elemento politico che più degli altri caratterizza la situazione italiana è quello che Matteo Renzi definisce il Partito della Nazione. Non è il solo, si sprecano articoli, analisi, libri su questo tema. Il Partito della Nazione è visto bene da quasi tutto il Pd, ma anche dal centro democratico e comunque è una realtà: è un partito che fa prevalere i concreti interessi nazionali sulle ideologie.
C’è un solo guaio, ma non è affatto piccolo: il Partito della Nazione è soltanto uno. Pensare che ce ne possano esser due è privo di senso. Infatti ce n’è uno solo, quello di Renzi che raccoglie i voti della sinistra moderata, del centro e d’una parte della destra.
Grillo non ha niente a che vedere col Partito della Nazione, la Lega ovviamente è il suo contrario. Berlusconi no. Lui è favorevole, ideologie non ne ha mai avute. Però riconosce che quel partito c’è già e non è il suo, ma lui lo appoggia. Deve inghiottire qualche amaro boccone? Pazienza, purché duri e lui ne sia uno dei tanti padrini. Ha contrattato che la legislatura duri fino alla sua fine, 2018. E se dovesse continuare per un’altra legislatura? Benissimo, lui ne sarà sempre un padrino. L’obiettivo dei suoi fedelissimi è quello. Della famiglia anche. Affari e politica vanno d’accordo per un padrino del Partito della Nazione. E poi Berlusconi ha già detto più volte che Renzi lui sentimentalmente l’ha adottato.
Naturalmente esser guidati da un solo partito non è una conquista per la democrazia, anzi è una bastonata in testa. Attenzione però: ci sono vari modi di intendere la democrazia. Bipartitica? È un’ipotesi. Monopartitica: perché no, se il partito unico è democratico.
Il Partito della Nazione di Renzi è democratico, al suo interno si discute liberamente, Renzi non è solo al comando (l’avevo scritto qualche giorno fa ma lui mi ha smentito), con lui c’è una squadra che lavora, è competente, discute e ascolta tutti. Discute anche con il leader, ma poi è lui che decide.
Questa è la ragione per cui Renzi non vuole più il Senato, ma un assetto monocamerale. Contano solo i deputati e quindi il popolo sovrano che li elegge. Ma come li elegge? Ecco che arriva la riforma elettorale. In buona parte sono designati dal leader, in piccola parte dalle preferenze (pessimo tappabuchi, dovrebbero almeno essere collegi uninominali).
La tecnica è questa. Tony Blair? Certo, Tony Blair, di fronte al quale la Corona non contava assolutamente niente. E sarà così anche tra poche settimane, quando Napolitano si dimetterà. Il nuovo nome sarà Renzi a indicarlo e candidarlo. Qual è l’identikit che ha in mente?
* * *
In Germania la gente non sa neppure il nome del Presidente della Repubblica. Quello del Cancelliere naturalmente lo conoscono tutti. Gli italiani però, almeno quelli che vanno a votare ed hanno quindi una sia pure sfocata visione del bene comune, il nome dell’inquilino del Quirinale vogliono conoscerlo, vogliono che abbia un prestigio ed anche qualche potere. Il motore starà a Palazzo Chigi e non al Quirinale, ma il Presidente della Repubblica “rappresenta la Nazione” ed è anche la tutela della Costituzione, quindi dev’essere una personalità che la gente conosce e apprezza.
Renzi lo sa, perciò la sua non sarà una scelta facile, uomo o donna che sia. E poi l’elezione del Capo dello Stato è sempre stata una scommessa. Solo Ciampi passò subito alla prima votazione e Napolitano alla quarta, perché se lo meritavano. Anche Cossiga passò subito, chi comandava allora era De Mita, che ottenne il “placet” immediato del Pci.
Tutti gli altri sono stati contrastati prima che un nome uscisse dalle urne con la maggioranza prescritta e così è possibile che avvenga anche questa volta. * * * Sarebbe utile sostituire Renzi e mettere al suo posto una persona che non guidi il Partito della Nazione ma il Pd?
Personalmente non credo sarebbe utile. Oggi il cambiamento lo vogliono tutti e non guardano molto se è un cambiamento ben fatto o mal fatto. E poi c’è la battaglia di Bruxelles che dovrà essere effettuata con coraggio e Renzi il coraggio ce l’ha. Lui pensa di vincere a Bruxelles. Qualora non vincesse, cioè non ottenesse i finanziamenti dei quali ha bisogno, governerà col deficit. Romperà con l’Europa? No, ma cercherà di fare di testa propria finanziando gli investimenti col deficit. Ma fino a che punto?
D’altra parte lui sa che se non ripartono gli investimenti e la nuova occupazione, l’opinione pubblica e soprattutto i giovani e i lavoratori, si arrabbierebbero molto con lui. In parte sta già avvenendo e la sua popolarità sta perdendo smalto.
A me Renzi non piace, vorrei che si auto- rottamasse come Harrison Ford nel film che ho raccontato. Ma per il bene del Paese debbo sperare che il suo programma abbia successo e “torni a fiorir la rosa che pur dianzi languìa”.

il Fatto 16.11.14
Tra una settimana si vota in Emilia: panico affluenza


DOPO 15 anni di presidenza Errani, fra una settimana la Regione Emilia-Romagna avrà un nuovo presidente. Domenica prossima si va alle urne per rinnovare il consiglio regionale: sono sei i candidati alla presidenza. E molte le apprensioni legate soprattutto all’affluenza alle urne e alle inchieste che stanno coinvolgendo i rimborsi nella quale sono coinvolti quasi tutti i consiglieri regionali uscenti. In molti sono pronti a scommettere che le regionali di domenica prossima saranno le elezioni con la partecipazione più bassa della storia dell’Emilia-Romagna. Il pronostico, in ogni caso, sembra scontato: rispetto alle europee il centrosinistra parte con un vantaggio di oltre 30 punti percentuali sugli avversari. È guidato da Stefano Bonaccini, segretario regionale del Pd, sostenuto anche da Sel, dal Centro democratico e da una lista civica. I suoi due sfidanti principali sono il leghista Alan Fabbri e Giulia Gibertoni, M5s.

Repubblica 16.11.14
Intercettazioni choc sulle spese pazze
Ora in Emilia è allarme astensionismo
di Silvia Bignami


BOLOGNA . Regionali fantasma, sotto la scure dell’inchiesta “spese pazze”, che getta discredito sull’intera classe politica. È questo il quadro in cui l’Emilia Romagna si prepara al voto del 23 novembre, tra soli 7 giorni, per scegliere il successore di Vasco Errani. Sotto choc il Pd, vincitore annunciato nella regione “rossa”, che teme di fare i conti con una scarsissima partecipazione al voto, tale da delegittimare anche il suo candidato Stefano Bonaccini. «La gente non sa che si vota» ha ammesso lui stesso giorni fa. E ieri lo ha ribadito: «Sono preoccupato per la partecipazione ». La campagna del resto non è mai decollata. È stata anzi squassata dall’inchiesta “spese pazze”, i cui avvisi di garanzia sono arrivati pochi giorni fa, con 41 indagati su 50 consiglieri: tutti accusati di aver speso illecitamente i soldi pubblici dei rimborsi ai gruppi. A peggiorare la situazione s’è aggiunta la trascrizione di una riunione in Regione nel 2012, registrata di nascosto dall’allora grillino Andrea Defranceschi (oggi pure lui indagato ed espulso dal Movimento). Centosessanta pagine di intercettazioni in cui il capogruppo democratico Marco Monari istruiva i consiglieri sull’uso dei fondi pubblici per cene e rimborsi chilometrici: «Tutto ciò che non è raccontabile non si può più fare». E continua, forse riferendosi ai colleghi: «Oltre a non fare nulla e a non capire nulla, spendono un sacco di soldi...Non so, non posso sapere che cazzo fanno 25 consiglieri regionali dalla mattina alla sera... ». Aggiungendo poi insulti alla stampa «serva della gleba», alla giornalista di Report Milena Gabanelli, «che quando la vedo mi viene l’orchite », all’ex premier Mario Monti, «piscio sulla sua foto», e al Pd, «partito con molti idioti. Quello della politica è un concentrato di idioti». Su di lui i vertici locali sono decisi ad applicare «in maniera rigorosa il Codice etico». L’obiettivo è spingerlo ad autosospendersi. Lui glissa «ci penserò» - ma non è detto che basti a convincere i cittadini, dopo le dimissioni di Errani per la condanna per falso ideologico nell’inchiesta Terremerse. Bonaccini, in giro «fino a notte fonda » col camper, fatica a invertire la tendenza. «Azzererò rimborsi e auto blu» giura il candidato. I due consiglieri dem indagati e ricandidati andranno in settimana in procura. Ma il procuratore aggiunto Valter Giovannini commenta severo: «Ci voleva un’inchiesta per capire come, al di là dei reati eventualmente commessi, era evidente un utilizzo non oculato del denaro pubblico?».
Tutta benzina sul fuoco, alla vigilia di elezioni in cui i sondaggi riservati parlano di una affluenza sul filo del 50%. Un tracollo rispetto al 68% del 2010 e al 77% del 2005. A complicare le cose anche l’assenza di traino nazionale al voto, e il risultato, da molti dato per scontato, nonostante gli avversari Giulia Gibertoni, M5S, e Alan Fabbri, Lega. «Queste elezioni sono tra il Pd e il non voto» profetizza la politologa Nadia Urbinati. E lo scrittore Carlo Lucarelli commenta amaro: «Ho guardato da lontano la campagna elettorale. Mi interessa più la società. Lì ci sono i problemi concreti. Se saranno accertati come veri certi rimborsi impropri avranno l’effetto di un peccato mortale. Cose del genere sono criminali perché allontanano la gente dalla politica e dall’impegno».

Corriere 16.11.14
Più imprenditori, meno impiegati Così si trasforma l’elettorato del Pd
Consensi al 38,3%, in calo di 2,5 punti. Balzo della Lega (+1,9%), unico partito in crescita
di Nando Pagnoncelli

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Il Fatto 16.11.14
Napoli, “Pazienti come cavie”
Il Gip: “Indagate sui medici”


Nell’ordinanza del giudice Antonio Cairo, che tre giorni fa ha mandato agli arresti domiciliari il manager del Policlinico di Napoli Pasquale Corcione, l’imprenditore farmaceutico Massimo Petrone e altri cinque indagati nell’ambito dell’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Alfonso D’Avino e delegata al pm Francesco De Falco, si legge che la Biotest Italia faceva di tutto “per assicurare la penetrazione commerciale dell’azienda farmaceutica”. E per ”estendere a pazienti ospedalieri, almeno in numero di quindici, trattamenti terapeutici a base di farmaci commercializzati dalla società (...), parrebbe a prescindere dalla validità terapeutica”. La Procura ipotizza “regali o altre utilità” ai camici bianchi: viaggi in Grecia, cesti di creme solari e iPad. Pertanto il giudice sottolinea che “sarebbe stata doverosa una riflessione investigativa più attenta sul ruolo di una serie di soggetti appartenenti all’area medica”.

La Stampa 16.11.14
Torino. Respinta da due ospedali
“Non tocca a noi”. E muore dissanguata
Era al settimo mese di gravidanza
di Gianni Giacomino

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Repubblica 16.11.14
Il Paese degli alibi
di Salvatore Settis

MILANO invasa da Seveso e Lambro, Genova e la Liguria che spiano col fiato sospeso i loro torrenti, Alessandria allagata.
IL disastro annunciato che colpisce l’Italia a ogni botta di maltempo innesca ogni volta gli stessi effetti: i primi giorni pianti e lacrime, imprecazioni, ipotesi di mega- piani risolutori. Subito dopo, le chiacchiere si dissolvono nel nulla e si torna alla consueta strategia dell’oblio. Eppure quel che è in ballo è la vita dei cittadini, la salute del territorio, la salvaguardia delle generazioni future. Viceversa, ci industriamo a sbandierare alibi: cambiamenti climatici, bombe d’acqua, il fato, la sfortuna. Ma non ci sono scuse: non è vero né che questi disastri siano imprevedibili, né che siano recente novità, dato che già negli anni 1985-2011 si sono verificati in Italia 15.000 eventi di dissesto, di cui 120 gravi, con 970 morti (rapporto Ance-Cresme).
È vero invece che i governi d’ogni segno chiudono gli occhi per non vedere che l’Italia è il Paese più fragile d’Europa, col 10% del territorio a elevato rischio idrogeologico, il 44% a elevato rischio sismico, mezzo milione di frane in movimento. Un solo rimedio è possibile: mettere in sicurezza il territorio, programmare e avviare grandi opere di manutenzione e salvaguardia. Fare, per quel corpo di tutti che è l’Italia, quello che ognuno fa per il proprio corpo: non aspettiamo una malattia grave per andare dal medico, corriamo ai ripari da prima, sappiamo che prevenire è meglio che curare. Non si eviteranno tutti i danni, ma se ne ridurrà enormemente il numero, la frequenza e la portata.
Quali sono i costi di questa mancata manutenzione? Se- condo il rapporto Ance-Cresme, non meno di 3,5 miliardi di euro l’anno, senza contare morti e feriti. E quanto ci vorrebbe per mettere in sicurezza l’intero territorio italiano? Qualcosa come 1,2 miliardi l’anno, per vent’anni. Dunque l’opera di prevenzione, nei tempi lunghi, non è solo un investimento, è un risparmio. Ma proprio questo è il problema: i nostri governi rifuggono dai tempi lunghi, sono anzi afflitti da cronica miopia. Non sanno guardare lontano, non praticano la nobile lungimiranza predicata da Piero Calamandrei («la Costituzione dev’essere presbite »). Sono afflitti da strabismo, anche: davanti ai peggiori disastri, ne distolgono lo sguardo e sognano “grandi opere” (cioè grandi appalti), proclamando che da lì, e da lì solo, verrà l’agognato benessere.
E la storia si ripete: nel 2009, dopo la frana di Giampilieri (Messina) che seppellì 39 cittadini, il sottosegretario Bertolaso sostenne che era impossibile finanziare la messa in sicurezza dell’area, e due giorni dopo il ministro Prestigiacomo proclamò che bisognava affrettarsi a fare (su quelle frane) il Ponte sullo Stretto. Con identica sequenza, a far da contrappunto ai lutti in Liguria è venuta la dichiarazione del ministro Lupi alla Camera (10 novembre): «Io sono sempre favorevole alla realizzazione del Ponte e credo sia un tema che qualunque governo dovrebbe porsi».
Anziché leggere i segni premonitori dei prossimi disastri nel paesaggio deturpato, nell’assenza di piani paesaggistici regionali (invano prescritti dal Codice dei Beni culturali e del paesaggio), nella mancanza di una carta geologica aggiornata (per il 60% del territorio dobbiamo accontentarci di quella del 1862!), ci stracciamo le vesti a ogni disastro, come se i colpevoli non fossimo proprio noi. Questa incuria, che coinvolge anche un’opinione pubblica incline a distrarsi, è ormai “strutturale”, un dato fisso dell’orizzonte politico italiano. A chi giova? A chi pratica una selvaggia deregulation, che nega ogni pianificazione di lungo periodo e in nome della libertà delle imprese e di uno “sviluppo” identificato con la speculazione edilizia calpesta i diritti dei cittadini e la tutela del territorio.
Nessun governo ha finora avuto il coraggio di fare una spregiudicata analisi degli errori, prerequisito indispensabile di ogni capacità progettuale. Anzi, nel recente Sblocca- Italia si prevede per la manutenzione del territorio un contentino di 110 milioni, a fronte di quasi 4 miliardi di spese in nuove “grandi opere” che accresceranno la fragilità del territorio. Dopo la Bre-Be-Mi, autostrada fallimentare e semivuota, avremo dunque la Orte-Mestre, con un beneficio fiscale di quasi due miliardi per le imprese costruttrici. Verrà perfino ripresa la costruzione della Valdastico, già nota come Pi-Ru-Bi (Piccoli- Rumor-Bisaglia), e lasciata poi cadere perché superflua. Ma l’unica, la vera “grande opera” di cui il Paese ha urgentissimo bisogno (e che genererebbe moltissimi posti di lavoro) è la messa in sicurezza del territorio. Per imboccare questa strada manca a quel che pare l’ingrediente essenziale: un’idea di Italia, un’idea declinata al futuro.

Repubblica 16.11.14
Il Satiro Danzante di Mazara del Vallo è al buio, i tesori greci di Siracusa non hanno sorveglianza

Ma negli uffici dei beni culturali ci sono 100 capi in più dell’intero ministero
Sicilia, l’ultima beffa 300 dirigenti nei musei ma non ci sono soldi per le lampadine
di Antonio Fraschilla


PALERMO Il Satiro danzante, che sembra librarsi nell’aria con il suo carico di mistica energia, è illuminato ma solo a metà. Il museo che lo ospita, creato apposta per lui nel cuore di Mazara del Vallo, non ha potuto chiamare un elettricista per installare l’illuminazione adatta perché non saprebbe come pagarlo. E il caso della statua in bronzo emersa miracolosamente dal mare nel 1997 non è isolato. Al Paolo Orsi di Siracusa, uno dei più importanti scrigni di tesori preistorici, greci e romani del Mediterraneo, le telecamere di sicurezza si sono rotte da tempo ma è impossibile ripararle. La Regione, d’altronde, quest’anno non ha investito un euro per il funzionamento dei siti e delle aree archeologiche che ospitano i suoi gioielli. In compenso però ha a libro paga un esercito di dirigenti, che affollano a dismisura gli uffici dei beni culturali dell’Isola. Un esercito di comandanti, spesso solo di se stessi, promossi dal Duemila e man mano trasferiti nei musei, con il risultato paradossale di oggi: la Sicilia nei proprio beni ha più dirigenti del ministero — 306 contro 191 — comprese soprintendenze e siti.
«Colpa di una legge che in una notte del Duemila ha promosso mille funzionari a dirigenti», dice l’attuale responsabile del dipartimento Beni culturali dell’Isola, Salvatore Giglione. Tutti promossi e negli anni migrati verso i siti culturali, magari quelli più vicini a casa così da non allontanarsi troppo dalla famiglia. Una miriade di dirigenti che — per dirne un’altra — nel loro curriculum hanno di tutto fuorché lauree in storia dell’arte, antropologia o archeologia.
Nel piccolo museo di Aidone, che ospita la Venere di Morgantina, non ci sono brochure o guide perché la Regione, manco a dirlo, non ha i fondi visto che il capitolo di spesa per il funzionamento dei Beni culturali è stato azzerato dal governatore Rosario Crocetta, alle prese con un buco di bilancio di 3 miliardi di euro. Un gioiello, la Venere, che al Getty Museum di Malibù in poche settimane ha attratto 400 mila visitatori e che da quando è tornata in Sicilia è stata ammirata da non più di 30 mila persone in un anno. In compenso ad Aidone la Regione ha sul groppone ben tre dirigenti, con stipendi che variano dai 60 agli 80 mila euro lordi all’anno. Due di loro sono agronomi. Si, proprio così, con un lungo curriculum di pubblicazioni sul grano e le coltivazioni autoctone della Sicilia. Ma d’altronde sembra esserci un particolare legame tra l’agricoltura e i beni culturali di Sicilia: un agronomo è stato appena nominato tra i dirigenti del parco di Selinunte, una delle aree archeologiche più grandi e importanti del Mediterraneo. E qui gli altri due colleghi graduati del sito sono un architetto e un ingegnere. Al parco archeologico di Agrigento, invece, i dirigenti sono otto ma nessuno è archeologo. Così come alla Villa romana del Casale di Piazza Armerina, un piccolo sito che però ha due dirigenti a tenersi compagnia.
In tutto il Polo museale fiorentino, che al suo interno ha la Galleria degli Uffizi, c’è un solo dirigente, la soprintendente Cristina Acidini. Così come al Polo museale romano che gestisce dal Colosseo ai Fori imperiali: «Nelle direzioni del ministero e nelle sedi periferiche, quindi anche nei poli museali da Pompei a Milano, c’è solo un dirigente dopo i tagli varati dai governi degli ultimi anni », dice il segretario della Funzione pubblica Cgil per i beni culturali, Claudio Meloni.
Nell’Isola del tesoro, invece, di dirigenti ce ne sono talmente tanti che non bastano le poltrone. Così a una dozzina di graduati il dipartimento ha pensato bene di affidare compiti di “studi e ricerca”. Qualche esempio? C’è chi studia i teatri attivi in Sicilia, chi invece le feste popolari nell’Isola Orientale. Un esercito di superstipendiati, mentre i musei rimangono in abbandono. A tutti i siti hanno staccato il telefono, perché da mesi la Regione non paga le bollette: «Possiamo solo ricevere telefonate — dicono dal museo archeologico di Enna — ma questo non è l’unico problema: non abbiamo fondi per pagare il gas e quindi niente riscaldamenti». Da Taormina a Segesta non c’è poi una sola brochure, né una caffetteria o un bookshop dove acquistare una guida oppure un volume sulle opere appena viste. Il “rivoluzionario” governo Crocetta, come ama ripete il presidente della Regione, ha bloccato le gare sui servizi aggiuntivi, sospettando “sprechi e malaffare come avvenuto in passato”. Da due anni e mezzo tutto è fermo.
«Non abbiamo soldi», è il ritornello e soltanto in questi giorni, raschiando il fondo del barile, la Regione ha trovato 400 mila euro per pagare gli straordinari di dicembre ai custodi, e garantire così l’apertura nel festivi. Apertura fino alle 13, s’intende, e comunque oltre il normale orario dei custodi, che in Sicilia lavorano come i bancari: da lunedì a venerdì. Il resto è straordinario. Un altro paradosso, considerando i 1.545 addetti a libro paga, molti di più che nelle altre regioni d’Italia. Un altro record, nei beni culturali di Sicilia trasformati in carrozzoni salvastipendi.

Il Sole 16.11.14
G20
L'Europa corre il rischio di essere due volte irrilevante
di Mario Platero

Finora per l'Europa c'era soprattutto l'irrilevanza economica, ora si sta manifestando la sua conseguenza diretta e cioè l'irrilevanza politica. È questo il doppio prezzo che si dovrà pagare - un doppio declino - per la miopia di chi a Bruxelles e a Berlino ha voluto solo rigore, per chi ha ignorato lezioni che avevamo imparato fin dalla crisi coreana, e dalla severità inutile dell'Fmi, e cioè che stringere troppo soffoca. L'appello, accorato, lo abbiamo ascoltato al G20 di Brisbane.
L'appello, perché l'Europa «cambi passo» come ha osservato il Premier Matteo Renzi, perché chiuda l'esperienza del rigore per aprire quella dello stimolo, dell'investimento, dello sviluppo, non vuole solo accontentare chi, dagli Stati Uniti o dall'Asia ci chiede di dare il nostro contributo al traino della crescita globale. Il passaggio alla crescita diventa urgente soprattutto per noi europei. Perché il presupposto di leadership, di influenza politica, di possibilità di sedere al tavolo dei grandi in modo attivo e vitale, deriva prima dal potere economico che da quello militare. Lo aveva capito Ronald Reagan quando chiese all'America di cambiare, di uscire dal conformismo ancora legato al vecchio modello roosveltiano per abbracciare un passaggio al mercato. Reagan prometteva che l'America sarebbe uscita da una stagnazione ventennale, che avrebbe vissuto un nuovo rinascimento e che nel bel mezzo della Guerra Fredda contro l'Unione Sovietica, «essere forti in casa si sarebbe tradotto in una forza all'estero».
Ebbe ragione. Perché nel giro di 8 anni l'America vinse la guerra fredda. Oggi leadership vuol dire essere parte integrante, influente, di un dialogo che portano avanti Russia, Stati Uniti e Cina. L'Europa è sì è inclusa in gruppi di contatto, in missioni di mediazione, ma lo è più per cortesia che per influenza. Dobbiamo chiederci: avrebbe Mosca osato quello che ha osato con l'Ucraina se avesse avuto a che fare con un'Europa potente sul piano economico e non ricattabile su quello energetico?
A titolo di confronto, la corsa che abbiamo visto in Asia, dalla Cina all'Australia viaggiando prima al vertice Apec e poi al G20, è impressionante. Invece, passando dalla debolezza economica alla debolezza politica e di rimando a una debolezza economica ancora più preoccupante, si arriva al pessimismo che pervade oggi molti paesi, il nostro per primo. Ed eccoci in un circolo vizioso. Per questo non si può più aspettare; perché gli altri corrono, ma soprattutto perché è possibile cambiare. La rivoluzione reganiana fu molto più difficile, epocale, traumatica di quella che si chiede all'Europa - un passaggio dal rigore allo sviluppo - e all'Italia - un passaggio dalla rigidità e dalla complicazione alla semplicità, regina incontrastata per l'ordine delle cose.

La Stampa 16.11.14
Soldati, basi e missili così la Russia prepara la conquista dell’Artico
Mosca apre il fronte del Nord: quelle risorse sono nostre
di Mark Franchetti
*corrispondente da Mosca  del Sunday Times di Londra 


Il presidente russo Vladimir Putin ha lanciato un piano per militarizzare l’Artico, nel tentativo di ripristinare la presenza che nell’era sovietica Mosca aveva nella regione, assai contesa perché patria delle maggiori risorse energetiche mondiali non ancora sfruttate. Il mese scorso la Russia ha iniziato la costruzione di due installazioni militari nuove di zecca nell’Artico, attuando così la prima espansione della potenza russa post-comunista nell’area. Il Cremlino prevede di costruire sei nuove basi nella regione artica e ha annunciato che vuole creare qui una struttura di comando militare con due brigate di fanteria meccanizzata supportate da motoslitte e hovercraft. 
La mossa segna una pietra miliare nella militarizzazione russa di una regione che il Cremlino aveva abbandonato negli Anni 80. Mosca ha detto che vuole avere una forza permanente «artica» di 6000 uomini con sistemi radar e di orientamento di stanza vicino a Murmansk, una città portuale sul Mare di Barents. Due settimane fa l’esercito russo ha annunciato di aver aperto una nuova base militare sull’isola di Wrangel, una riserva naturale all’interno del Circolo Polare Artico, vicino all’Alaska, nel Mare di Chukchi. Un’analoga base - realizzata con strutture modulari prefabbricate - sarà presto completata nel vicino Cape Schmidt. Gli avamposti, che comprenderanno basi sovietiche ripristinate così come nuovi impianti, sono i primi di una serie di installazioni militari che movimenteranno la frontiera settentrionale della Russia. 
Con circa il 15% del petrolio mondiale e un terzo del suo gas naturale ancora da scoprire, la regione è una potenziale miniera d’oro. Inoltre, il riscaldamento globale sta producendo un effetto devastante sul ghiaccio artico, che si sta gradualmente sciogliendo aprendo per la prima volta una rotta a Nord che è potenzialmente una lucrosa alternativa al Canale di Suez.
Le rivendicazioni della Russia sull’Artico e sulla sua ricchezza energetica sono in competizione con le ambizioni del Canada, della Danimarca, della Norvegia e degli Stati Uniti, e questo rende l’area una delle regioni potenzialmente più instabili del mondo. «È di fondamentale importanza per noi fissare obiettivi per i nostri interessi nazionali in questa regione», ha detto di recente Dmitry Rogozin, l’aggressivo vice primo ministro della Russia, che è stato incaricato da Putin di moltiplicare gli sforzi per costruire le infrastrutture necessarie a dispiegare i soldati nella regione artica. «Se non lo facciamo, perderemo la battaglia per le risorse e questo significa che perderemo anche una battaglia per il diritto alla sovranità e all’indipendenza». 
Nel 2013, una base chiusa alla fine della guerra fredda è stata riaperta nelle isole Novosibirsk e ora ospita dieci navi militari e quattro navi rompighiaccio. Il Cremlino sta anche progettando di ripristinare sette piste di atterraggio nella regione artica. Inoltre, ha ordinato all’industria della Difesa di sviluppare armi in grado di affrontare il duro ambiente artico. 
Nel 2007 il Cremlino ha piantato una bandiera russa, in una capsula di titanio, 2,5 miglia al di sotto del Polo Nord. Quando gli è stato chiesto dell’Artico in una riunione con i membri pro-Cremlino del parlamento, Putin di recente ha parlato della presenza di sottomarini Usa nella regione «con missili puntati contro Mosca e San Pietroburgo». «La presenza militare russa nella regione artica non è né una posa né un’ostentazione, è molto seria», ha detto Pavel Felgenhauer, un analista militare di Mosca. «Chi è al potere è davvero convinto che entro il 2030 ci sarà una grave carenza di risorse energetiche nel mondo e che l’Occidente, guidato dall’America, attaccherà la Russia per prendere il controllo del petrolio e del gas. Si tratta di una guerra per le risorse. Questo è il senso della militarizzazione dell’Artico».
Secondo una versione vicina ai timori del Cremlino, la Russia ha recentemente tenuto nell’Estremo Oriente del Paese le più grandi esercitazioni militari della sua storia. Le esercitazioni hanno coinvolto 155.000 uomini e migliaia di carri armati, aerei, navi militari. Lo scenario sviluppato dai militari, pare, includeva una potenza straniera chiamata «Missouria» - un modo per indicare gli Stati Uniti secondo gli analisti indipendenti - che provocava un conflitto tra la Russia e una nazione asiatica senza nome per una disputa territoriale. Nello scenario «Missouria», con il sostegno degli alleati, utilizzava questo conflitto come pretesto per iniziare un’invasione su vasta scala della Russia. 
A riprova di quelle che Putin ritiene le priorità future della Russia, il bilancio per la difesa del Paese per il prossimo anno raggiungerà una cifra record di 60 miliardi di euro, il 25% in più - in un momento in cui la Russia sta entrando in una fase di recessione. «Un leader che dice ai suoi cittadini che aumenterà le spese militari nel mezzo di una crisi economica», ha scritto Alexander Golts, un analista militare critico nei confronti del governo, «è come un padre alcolizzato che, dopo aver appreso che il prezzo della vodka è salito, dice ai suoi figli non che berrà di meno, ma che ora loro dovranno mangiare di meno».
Traduzione Carla Reschia 

il Fatto 16.11.14
Grecia, minori disabili chiusi in gabbie


Vita da reclusi in un istituto statale per minori disabili: 65 ragazzi vivono in gabbie di legno, accuditi per le loro necessità elementari da uno “staff” di sei infermieri. In un reportage la Bbc ha mostrato l’istituto degli orrori di Lechaina, uno spaccato di degrado e violazione dei diritti. MaroKouri

il Fatto 16.11.14
India, donne sterilizzate con topicida


Potrebbero essere stati antibiotici contaminati con topicida la causa della morte di 15 donne dopo un intervento di sterilizzazione di massa. È l’ipotesi emersa dopo il sequestro di medicinali nel magazzino di una ditta fornitrice del governo. Più di 80 donne erano state operate in 5 ore. Ansa

il Fatto 16.11.14
Turchia, musulmani primi in America

L’America non è stata scoperta da Cristoforo Colombo nel 1492 ma da “marinai musulmani” più di tre secoli prima. Lo ha sostenuto il presidente Tayyip Erdogan citando una testimonianza di Cristoforo Colombo e annunciando: costruirà una moschea a Cuba, se l’Avana lo permetterà.

Corriere 16.11.14
Continuiamo a scrivere a mano
non per nostalgia del passato ma perché è importante nei processi di apprendimento


Soltanto dieci anni fa scrivere con una tastiera era uno sforzo che richiedeva un corso di dattilografia. Oggi alzi la mano chi ha prodotto, recentemente, un testo medio-lungo usando la penna, la matita, la stilografica. In corsivo, per di più. Per carità, esistono ancora autori che sostengono di scrivere i loro libri rigorosamente a mano. Donna Tartt lo ha fatto con il suo ultimo romanzo, Il cardellino , quasi novecento pagine. Certo, a scuola si impara il corsivo, ma ormai i bambini di sette anni sono più veloci dei loro genitori (certo dei loro nonni) a digitare su tablet e telefonini. Negli Stati Uniti, dove ogni cambiamento del costume porta con sé una regola nuova, hanno tratto una conseguenza: lo stampatello basta e avanza, la scrittura che lega tra loro le lettere di una parola non fa più parte degli insegnamenti obbligatori del «Common Core Curriculum Standard», la base dell’insegnamento in tutti gli Stati. La Francia ha fatto il contrario (lo ricordava ieri Le Monde): dall’inizio degli anni Duemila il ministero dell’Istruzione ha invitato i docenti a insegnare il corsivo dall’ultimo anno della scuola materna.
Difendere la scrittura corsiva non è soltanto una questione di nostalgia o di passatismo. Molti neuropsicologici, infatti, sottolineano l’importanza dell’apprendimento del corsivo nello sviluppo psicologico e cognitivo dei bambini, nell’acquisizione di competenze di analisi e di sintesi, nell’espressione della propria personalità, mettendo in guardia anche sul fatto che a bbandonare la scrittura manoscritta potrebbe rallentare l’apprendimento della lettura.
Demonizzare l’uso dei computer, anche nelle scuole, è una battaglia di retroguardia che non ha nessun senso, la loro utilità, a tutti i livelli, è fuori di dubbio, ma si tratta di affrontare le cose con lungimiranza. Perdere la capacità di collegare tra loro le lettere, è, un po’, anche perdere la capacità di collegare tra loro le cose.

Corriere La Lettura 16.11.14
La democrazia è in crisi  Niente di nuovo
«Gli elettori? Sono diventati un pubblico»
Inutile rimpiangere l’epoca dei partiti di massa Il guaio è la carenza, non l’eccesso, di leadership
di Michele Salvati


I libri e gli articoli dedicati all’attuale crisi della democrazia riempirebbero molti scaffali di biblioteca: forse più una conseguenza del gran numero di insegnamenti in materie politiche — e dunque di studiosi interessati a pubblicare — che non di una crisi democratica più forte di altre che abbiamo attraversato in passato. Sia chiaro, credo anch’io che la democrazia stia attraversando una crisi seria. Credo anche, però, che sia difficile comprenderne la natura e proporre rimedi se non si è consapevoli che questa forma di governo è da sempre, e per sua natura, soggetta a crisi. Lo è stata nella democrazia diretta degli antichi, lo è in quella rappresentativa dei moderni. In quest’ultima, lo è stata sia nella democrazia parlamentare dei notabili, a suffragio ristretto, nel corso dell’Ottocento; sia nella democrazia a suffragio universale dei grandi partiti ideologici di massa, nel corso del Novecento. E lo è tuttora, nella democrazia mediatica e leaderistica in cui viviamo.
Le due ragioni di fondo della crisi sono note dai tempi antichi e riguardano sia la partecipazione al processo democratico — l’ input della democrazia, per così dire — sia i risultati, la qualità dei governi, l’ output . La democrazia è sempre sull’orlo della crisi poiché il suo ideale di eguaglianza — di eguale influenza politica di ogni cittadino nel governo della comunità politica cui appartiene — è sempre stato smentito dalla realtà, e non si vede come possa essere pienamente soddisfatto in società caratterizzate, anche le più egualitarie, da forti differenze di ricchezza, prestigio e potere. Differenze che inevitabilmente si convertono in differenze di influenza politica. E poiché l’ideale di buon governo — questo è l’obiettivo che qualsiasi regime politico dovrebbe proporsi di raggiungere — di fatto ben di rado è stato anche solo approssimato.
Fino alla metà del XVIII secolo, i principali pensatori politici erano addirittura convinti che non fosse raggiungibile, per le spinte demagogiche e irresponsabili che la democrazia sollecita, e a essa erano preferite forme temperate di monarchia o oligarchia. Ma il processo democratico si rivelò inarrestabile e, dopo le rivoluzioni americana e francese, nel corso della democrazia parlamentare dell’Ottocento i ceti più ricchi e influenti si avvidero che le conseguenze più estreme che la democrazia consentiva — l’esproprio dei pochi da parte dei molti — potevano essere evitate. Prima con la restrizione del suffragio; poi mediante strumenti meno grezzi e contraddittori con l’ideale democratico. E così la democrazia si avviò a diventare il regime politico più diffuso a livello mondiale, «il peggiore sistema di governo... ad eccezione di tutti gli altri», nella famosa battuta di Winston Churchill. Un sistema di governo la cui qualità può essere mantenuta a un livello accettabile solo attraverso un continuo, faticoso processo di manutenzione riformistica.
Sono partito dall’Abc della crisi democratica — dalle due ragioni di fondo per cui la democrazia non è mai riuscita e non riuscirà mai a mantenere in modo completo le sue promesse di eguaglianza e di buon governo — poiché la discussione in corso può dare l’impressione che la democrazia sia in crisi soprattutto oggi. Che oggi sia una «causa persa», poiché la democrazia è «sfigurata». Che, a differenza di un recente passato, il regime in cui viviamo neppure sia degno del suo nome e debba essere chiamato in modo diverso, «post-democrazia» o altro (sto parafrasando titoli di buoni libri usciti da poco). Una vena di nostalgia percorre molti di questi scritti: è convinzione diffusa che in un passato prossimo la democrazia stesse in condizioni migliori di oggi e che il vecchio partito ideologico di massa — quello che allora era prevalente, in Italia Dc e Pci, per intenderci — fosse uno strumento di democrazia assai migliore del partito mediatico e leaderistico che ad esso è succeduto, soggetto a continui impulsi populistici o plebiscitari.
Anch’io credo che i regimi democratici — e mi riferisco solo a quelli dei Paesi economicamente avanzati — stiano affrontando una stagione difficile a partire dagli ultimi due decenni del secolo scorso. Ma non più difficile di altre che essi hanno affrontato in un passato più lontano. Una stagione dovuta a mutamenti strutturali profondi, per far fronte ai quali la rievocazione di un più felice (?) passato recente non fornisce efficaci indicazioni per un’azione di rimedio. I due più importanti mutamenti strutturali riguardano, il primo, la situazione internazionale nella quale una singola democrazia nazionale è immersa; il secondo riguarda le trasformazioni (sociali, economiche, tecnologiche) che tutte le democrazie nazionali hanno attraversato negli ultimi decenni e influiscono profondamente sulle modalità di rappresentanza e, in particolare, sui partiti.
Una democrazia rappresentativa può operare solo all’interno di uno Stato sovrano: i suoi cittadini, mediante il voto, scelgono i governi, le cui azioni verranno giudicate dagli stessi cittadini in successive elezioni. Ma il benessere dei cittadini non dipende solo, e neppure principalmente, dall’azione dei governi o dalla qualità delle istituzioni dello Stato. Dipende sempre di più dalle relazioni economiche e politiche che lo Stato intrattiene con l’insieme di Paesi che formano la comunità internazionale: una comunità certamente non democratica, attraversata da rapporti di egemonia e dipendenza e da regole sempre più fitte che li disciplinano.
Per un lungo periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, i «trent’anni gloriosi» fino agli anni Settanta, questi rapporti, e le regole conseguenti, produssero risultati di benessere straordinari per i principali Paesi europei: non si va lontani dal vero se si pensa che la nostalgia per i sistemi politici nazionali di quei tempi (e dunque anche per i grandi e stabili partiti di massa allora prevalenti) fosse più dovuta alle condizioni di benessere consentite dalla grande crescita economica che alla loro qualità democratica, sicuramente non eccelsa, ed anzi pessima nel caso italiano.
Dopo le turbolenze degli anni Settanta del secolo scorso si è però entrati in tutt’altra fase internazionale, una fase di minore sviluppo e di crescenti ristrettezze economiche, alle quali, sul piano nazionale, si cerca di reagire mediante impopolari riforme volte a migliorare la competitività dell’economia e l’efficienza delle istituzioni pubbliche. Di nuovo, non si va lontani dal vero se si ritiene che una parte del discredito per la nostra democrazia sia oggi dovuta a queste difficili condizioni esterne, più che un drastico peggioramento della sua qualità. Ad aggravare la situazione — comune a tutti i Paesi che si devono adattare alla globalizzazione, al regime neoliberale imposto dagli Stati Uniti e dal capitalismo internazionale — si è aggiunta per alcuni Paesi europei, tra cui il nostro, la decisione di aderire all’Unione monetaria europea, una decisione che si è rivelata infausta per i Paesi più deboli e foriera di un problema serio di democrazia.
Mentre i Paesi al di fuori dell’euro affrontano la globalizzazione armati di tutti i poteri che la sovranità consente loro di usare, i Paesi deboli dell’euro hanno le mani legate e la loro azione è sottoposta a penetranti vincoli e controlli da parte di Bruxelles. Si obietterà: ma questo avviene per tutte le unità regionali di uno Stato più grande, ad esempio per i singoli Stati americani nei confronti di Washington. L’obiezione non regge e la lesione del principio di sovranità democratica rimane: in America i cittadini degli Stati sono anche cittadini della federazione e votano per il suo governo, in tal modo controllando democraticamente i controllori dei loro Stati. Insomma, è loro sottratto potere democratico a livello statale e gli è restituito a livello federale. Non è questo che accade nell’Unione Europea, dove le elezioni del Parlamento europeo non danno il potere di controllare democraticamente il governo dell’Unione.
Il secondo grande mutamento strutturale è avvenuto lentamente, producendo risultati ormai irreversibili: è il mutamento che ha condotto dai grandi partiti ideologici di massa ancora dominanti sino a metà del secondo dopoguerra al partito attrezzato a operare nella «democrazia del pubblico», come la chiama Bernard Manin. Il partito che i più vecchi tra noi hanno conosciuto, il partito ideologico di massa, guidato da un’oligarchia formalmente legittimata da un processo di democrazia associativa (in realtà assai poco democratica, come aveva già notato Roberto Michels più di un secolo fa), non è e non può più essere il contesto nel quale si formano le opinioni della grande massa delle persone e si definiscono le intenzioni di voto di gran parte degli elettori.
Si oppongono a questa persistenza trasformazioni sociali, economiche, culturali e tecnologiche difficilmente resistibili: l’indebolimento dei legami e delle distinzioni territoriali, religiose, culturali che, a partire dall’Ottocento, avevano dato origine ai partiti; un profondo mutamento nella struttura di classe e la scarsa credibilità delle narrazioni ideologiche che su di essa facevano perno; un forte aumento nei livelli di istruzione (non necessariamente accompagnato da un miglioramento nella qualità della stessa); una crescente individualizzazione e frammentazione della società, sia sotto il profilo degli interessi che degli orientamenti valoriali; il travolgente sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa: prima la radio, poi, e tuttora dominante, la televisione, ora anche internet e social media.
Tutte cause che inducono, anche nei partiti più tradizionali, il passaggio dall’oligarchia prodotta dalla democrazia associativa a una forte personalizzazione della leadership: gli elettori stanno a casa, sono diventati un «pubblico» atomizzato di fronte al quale i leader dei partiti (se ancora ci sono: più in generale, gli imprenditori politici) sciorinano in televisione la loro mercanzia sperando di carpirne il voto, di indurli a comprarla. Che questo produca rischi di plebiscitarismo e populismo è fuori dubbio. Ma è altrettanto certo che non si può tornare alle oligarchie (assai poco democratiche, lo ripeto) delle vecchie «ditte», dei partiti ideologici di massa.
Queste sono le due principali sfide che la democrazia odierna deve affrontare, una sfida esterna e una interna. La prima non è affrontabile con gli strumenti della democrazia, perché i rapporti internazionali non sono democratici. Qui, oggi, è giocoforza affidarsi alla saggezza e alla qualità dei ceti dirigenti dei diversi Stati, alla loro capacità di azione comune, perché le costrizioni che la globalizzazione e l’Unione Europea impongono alla possibilità dei governi di soddisfare le domande dei cittadini, anche le più ragionevoli, minacciano seriamente la qualità della democrazia in molti Paesi. La sfida interna è invece affrontabile con gli strumenti della democrazia e del costituzionalismo, purché i mutamenti sociali ed economici che hanno condotto alla democrazia del pubblico vengano riconosciuti nella loro forza, non si pretenda di spingere indietro l’orologio della storia e non si cominci a paventare plebiscitarismo e cesarismo ogni volta che appare sulla scena un leader dotato di capacità di iniziativa e decisione. Gli strumenti costituzionali per sventare derive cesaristiche esistono e possono essere rafforzati: ma, dai tempi di Max Weber, sappiamo che ciò di cui la democrazia maggiormente soffre è la mancanza di leadership i ndividuale, di decisione e di iniziativa, non di un suo eccesso.

Corriere La Lettura 16.11.14
Mamme contro i figli. «E la Rete è complice»
Donne che avvelenano i piccoli per poterli curare e suscitare compassione sui social
Una serie di casi fa perlare di «sindrome di Munchausen per procura»
Ma la diagnosi è controversa
di Anna Momigliano


Lo scorso 15 ottobre, in un paesino della regione basca della Francia, una giovane madre è stata arrestata con l’accusa di avere ucciso il figlioletto di 18 mesi: il piccolo era morto quattro mesi prima nella culla, sembrava per colpa di un rigurgito, nulla che facesse pensare a una violenza. Con il tempo, però, alcuni tratti della personalità della donna, che aveva già perso due figli e postava spesso sui social network immagini dei suoi «principini», hanno insospettito le autorità: e se fosse stata lei? e se cercasse in questo modo tremendo di attirare l’attenzione su di sé? La giovane, riferisce il quotidiano «Sud-Ouest», ha confessato.
Pochi giorni prima, nella cittadina inglese di Worchester è iniziato il processo contro una donna di mezza età accusata di avere arrecato danni alla salute della figlia adolescente sottoponendola a una superflua cura ormonale: dopo essersi inventata un’inesistente disfunzione alla tiroide, e aver trovato dopo numerosi tentativi un medico disposto a «curarla», avrebbe iniettato alla ragazzina una dose di estrogeni tre volte superiore a quella prescritta.
Lo scorso agosto un’infermiera torinese è stata arrestata con accuse simili: avrebbe iniettato dosi d’insulina al suo bambino di 4 anni, con il solo intento — questa la tesi dell’accusa, che gli avvocati della donna respingono — di indebolire il piccolo fino a renderlo perennemente ammalato.
Due mesi prima, a giugno, una giovane madre single, Lacey Spears, è stata messa sotto processo nello Stato di New York con l’imputazione di avere ucciso il figlio di 5 anni: il piccolo Garnett era morto a gennaio dopo una misteriosa malattia e le autorità sospettano che la giovane lo abbia lentamente avvelenato facendogli ingerire dosi tossiche di sodio. Spears si è dichiarata non colpevole, ma il processo è ancora in corso.
In tutt’e quattro i casi si è parlato, in sede legale e sulla stampa, di «sindrome di Münchhausen per procura»: una rara — e forse controversa — malattia psichiatrica che secondo alcuni esperti si sta diffondendo in questi anni a causa della pervasività di internet, ma che altri studiosi guardano ancora con sospetto.
In pratica, si tratta di sfruttare le malattie dei figli per attirare l’attenzione su di sé, suscitando lodi (che brava madre, sempre dedita a curare il suo piccolo!) e compatimento (poverina, con un bimbo così malato...). È una variante della «sindrome di Münchhausen» (talvolta scritta con la grafia semplificata ma errata «Munchausen»), ovvero il disturbo per cui soggetti smaniosi di farsi notare — proprio come il leggendario barone celebre per i suoi racconti esagerati — si inventano malattie immaginarie.
La differenza qui è che il «mezzo» per ottenere l’attenzione sono i figli e le malattie non sono sempre immaginarie: «Il termine “sindrome di Münchhausen per procura” si applica sia a madri che mentono sullo stato di salute dei figli, inventando malanni o esagerandone la gravità, sia a quelle che arrivano a provocare una malattia nei figli, per esempio iniettando sostanze nocive», spiega a «la Lettura» Marc D. Feldman, membro della American Psychiatric Association e autore del libro Playing Sick? Untangling the Web of Munchausen Syndrome . Peraltro, aggiunge, «è frequente che si passi da una forma all’altra e anche casi apparentemente “lievi” sfociano nel maltrattamento del minore, perché portano a procedure mediche inutili».
Sebbene la «sindrome di Münchhausen per procura» sia nota dalla fine degli anni Settanta — il termine è stato coniato nel 1977 dal pediatra britannico Roy Meadow, tanto che talvolta viene definita «sindrome di Meadow» — Feldman è convinto che la diffusione di internet abbia «contribuito ad alimentare» questo disturbo: «In Rete esistono innumerevoli gruppi che offrono sostegno incondizionato ai genitori di bambini malati, accessibili 24 ore su 24. Quando un individuo cerca compatimento o empatia, può andare online e ottiene subito tutta la gratificazione emotiva che desidera», dice lo psichiatra. «Prima era necessario portare un bambino all’ospedale, ora basta postare la foto di un bimbo malato per ritrovarsi al centro dell’attenzione: io dunque la chiamo “sindrome di Münchhausen per procura via internet”».
La pensa così anche lo psicologo forense Eric G. Mart, autore di Munchausen’s Syndrome by Proxy Reconsidered . Che a «la Lettura» spiega: «Credo anch’io che il web possa alimentare questo genere di disturbi. Basta fare in giro sui forum dedicati a malattie specifiche per vedere che ci sono genitori un po’ troppo entusiasti quando al loro bambino vengono diagnosticati la fibromialgia o l’autismo». I media anglofoni hanno dedicato molto spazio all’attività online di Lacey Spears, la donna sotto processo nello Stato di New York, che aveva raccontato la malattia del figlio su Twitter, Facebook e un blog (garnettsjourney.blogspot.it): «Nell’era della condivisione ossessiva Spears aveva trovato un vasto pubblico», ha scritto il «New York Times». Il britannico «Daily Mail» lo ha ribattezzato il caso della «mamma blogger».
C’è tuttavia chi ritiene che l’impatto della Rete sulla vicenda sia ingigantito. A ben vedere, il blog di Lacey Spears contiene soltanto due post e i tweet relativi alla malattia del figlio non superano la ventina. «La notizia di una mamma che ha ucciso il figlio non era abbastanza sensazionale, così i media l’hanno raccontata come una storia sul mommy blogging», cioè la pratica di tenere diari online sulle proprie esperienze di genitori, fa notare Andy Hinds sul sito «The Daily Beast». «Il sottinteso era che il mommy blogging , con le sue implicazioni narcisistiche, ha svolto un ruolo nella morte del bimbo». Lo stesso Feldman sostiene che in alcuni casi la gratificazione offerta dal web potrebbe in realtà mitigare gli aspetti più nocivi della malattia: «Una madre affetta da questa sindrome può trovare in Rete l’attenzione cui anela senza bisogno di provocare un danno al figlio. Dunque internet potrebbe ridurre la probabilità di danni fisici, ma serve più ricerca per stabilirlo».
Altri studiosi invitano alla cautela davanti al concetto stesso di «sindrome di Münchhausen per procura» e alle sue implicazioni legali. «Ci sono seri problemi con la sua definizione e con i criteri di diagnosi», aggiunge Eric G. Mart. Per indicare un disturbo simile, infatti, esistono troppi termini diversi. Oltre ai già citati «sindrome di Münchhausen per procura» e «sindrome di Meadow», alcuni psichiatri parlano di «disturbo fittizio per procura», mentre l’ultima edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali ha introdotto il «disturbo fittizio imposto ad altri».
Il problema, sostiene Mart, è che «ogni etichetta implica criteri diagnostici leggermente diversi e questo complica gli studi comparati». Inoltre è un disturbo che «va di moda» e che dunque viene diagnosticato un po’ troppo spesso: «Visto che c’è tutta questa sovraesposizione mediatica sulla sindrome di Münchhausen per procura gli psichiatri tendono a cercarla e di conseguenza a diagnosticarla». Nella sua esperienza di consulente, Mart ha poi notato che i giudici talvolta accettano con un po’ troppa facilità tesi che partono da questo disturbo: «Nei tribunali statunitensi gli standard di prove sufficienti a definire un caso di maltrattamento di questo genere sono piuttosto bassi e manca il personale addestrato». Il risultato è che i genitori sotto accusa spesso non sono messi in condizione di difendersi, perché le autorità non prendono in considerazione spiegazioni alternative: «Ci sono madri che sottopongono i figli a cure inutili perché sono semplicemente troppo ansiose, e può capitare che con l’aiuto di internet un genitore possa diagnosticare una malattia che il medico non ha visto», spiega Mart. Il punto, conclude lo psicologo, è che «non tutto ciò che sembra “sindrome di Münchhausen” è per forza “sindrome di Münchhausen”».

Corriere La Lettura 16.11.14
Il legame sociale è figlio degli Dei
«Chi viene sorvegliato si comporta bene»
Un principio alla base delle civiltà più antiche
di Marco Ventura


Nel 1904 Max Weber attraversa in treno gli Stati Uniti. Conversando con un casuale compagno di viaggio, il sociologo finisce col parlare di religione. È allora che l’uomo, un commesso viaggiatore, pronuncia una frase divenuta celebre: «Signore, per quel che mi riguarda ognuno è libero di credere o di non credere, a suo piacimento; tuttavia, se incontrassi un agricoltore o un imprenditore che non appartiene ad alcuna Chiesa, non gli farei credito nemmeno di 50 centesimi. Perché uno che non crede in niente dovrebbe pagarmi ciò che mi deve?».
Il tema della fede è centrale nello sviluppo della società umana. Ne dipendono l’organizzazione dei gruppi, commercio e crescita, pace e guerra. In un mondo in cui siamo sempre più a contatto con chi ha una religione diversa, e con chi non ha religione alcuna, la questione del commesso viaggiatore di Weber è fondamentale. Possono convivere credenti e non credenti? Può coabitare chi ha Dei diversi? La risposta è di norma affidata ai leader politici e religiosi: a Obama, al Dalai Lama, a Papa Francesco, al califfo dello Stato islamico. Oppure ai teologi. Tuttavia, contributi profondi e originali vengono sempre più dagli antropologi, dagli studiosi di economia comportamentale, dagli psicologi.
Ara Norenzayan, professore di Psicologia sociale all’Università della British Columbia, in Canada, ha scritto un libro molto importante che esce ora in Italia: Grandi Dei (Raffaello Cortina). L’autore ha una tesi ambiziosa. Si deve alla religione la transizione avviata circa undicimila anni fa da società organizzate in piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori strettamente imparentati tra loro, a società stanziali, inizialmente basate sulla domesticazione di animali e cereali, e poi ingranditesi fino alle grandi strutture sociali moderne, in cui moltitudini di anonimi cooperano su larga scala.
Perché ciò fosse possibile, si sono combinati da un lato meccanismi mentali intuitivi, e dall’altro dinamiche culturali che hanno permesso a certe varianti delle credenze e delle pratiche religiose, scrive l’autore, «di propagarsi in fretta da mente in mente». Le società costruite sulla cooperazione tra estranei non sono il risultato di una religione qualsiasi. Ci sono voluti «Grandi Dei» perché nascessero «grandi gruppi»: ci sono volute le divinità delle grandi religioni monoteiste e politeiste che hanno conquistato la terra, Dei potenti, onniscienti e intenti al controllo del comportamento morale degli uomini.
Si srotola pagina dopo pagina l’argomentazione di Norenzayan. Lucida e appassionata. I Grandi Dei possono essere molto diversi tra loro, tanto quanto Shiva differisce da Gesù Cristo. Essi tuttavia hanno in comune otto principi di cui l’autore intende dimostrare la validità logica e sperimentale. Il primo principio è il più importante: «Chi è sorvegliato si comporta bene». L’avvento dei Grandi Dei e dei grandi gruppi è cominciato qui, quando il controllo sociale esercitato dai piccoli gruppi etnico-familiari è stato sostituito dalla sorveglianza di «occhi soprannaturali». È stato allora possibile costruire legami di fiducia e scambio tra estranei, allargare l’economia, ingrandire le comunità. Sviluppando precursori naturali inscritti nella mente attraverso l’apprendimento culturale, i Grandi Dei hanno creato legami efficaci di timore e di fiducia. Sono i principi numero due, tre e quattro: «La religione è più nel contesto che nelle singole persone»; «L’inferno è più potente del paradiso», «Fidati di coloro che si fidano di Dio».
Crescendo, le grandi religioni hanno dovuto combattere il rischio della falsa fede, dell’imbroglio, dell’ipocrisia dei profittatori. Hanno così selezionato leader credibili e divinità degne di venerazione, per cui valeva la pena di compiere riti «bizzarri» e «costosi». Ecco i principi numero cinque e sei: «Nella religione le azioni contano più delle parole»; « Gli Dei che non sono oggetto di adorazione sono Dei impotenti». Si sono imposti così, recita il principio numero sette, «Grandi Dei per Grandi Gruppi», ovvero gruppi religiosi che, come recita l’ultimo principio, «cooperano per competere».
Emigrato in Canada dal Libano a causa della guerra, Ara Norenzayan giunge con il suo ultimo principio al nodo della violenza religiosa. Constata che nei Grandi Dei vi sono parti che «possono generare e intensificare i conflitti», ma anche «impulsi che possono essere convogliati per attenuare e superare i conflitti». È piena di energia questa sfida a guardare al divino dal punto di vista dell’interazione tra mente e società, tra evoluzione biologica e culturale. L’attenzione sulla sorveglianza dall’alto pone questioni scomode. L’autore suggerisce che dopo il passaggio dalle piccole società alle società sotto «i grandi occhi del cielo», si profila ora il passaggio a società complesse in cui l’empatia e la compassione per il genere umano e la solidarietà sociale, unite a istituzioni laiche efficaci e non corrotte, con giudici indipendenti e Stato di diritto, si candidano a sostituire gli «osservatori soprannaturali».
È il passaggio che sembra intravvedersi nelle società scandinave, cui è dedicato l’ultimo capitolo del libro, e in generale laddove i credenti, a differenza del commesso viaggiatore di Weber, riescono ad aver fiducia persino negli atei. Nella sua bella introduzione al volume, Telmo Pievani invita a non ridurre il pensiero di Norenzayan, com’è invece avvenuto negli Stati Uniti, alla divisione del mondo in svedesi laici, ricchi e tolleranti, e arabi religiosi, poveri e fondamentalisti. Il passaggio «dagli Dei vigili ai governi vigili» è certo cruciale. Ma la forza dell’autore sta altrove. Egli si sforza di adottare il punto di vista dell’occhio di Horus, raffigurato nei bassorilievi dell’antico Egitto, e degli occhi di Buddha, ritratti negli stupa del Nepal. Come fanno gli Dei, Ara Norenzayan guarda in fondo alla nostra mente.

Corriere La Lettura 16.11.14
Storia mondiale delle fedi
(compresi gli atei e i terroristi)
di Ennio Caretto


Gli americani si considerano — non a torto — il popolo più religioso d’Occidente. Secondo i sondaggi, un quinto di essi non pratica alcuna fede, ma solo il 6 per cento si professa ateo o agnostico. Ogni anno nelle università oltre 250 mila studenti seguono un corso di religione. Chiese, moschee e sinagoghe sono affollate e il primo a dare l’esempio, recandosi alla funzione la domenica, è il presidente. La scritta «Confidiamo in Dio» campeggia sulle banconote da un dollaro. Non sorprende perciò che una grande casa editrice, la Norton, abbia appena pubblicato la Norton Anthology of World Religions , due tomi di 4.200 pagine ($ 100) in cui sono racchiusi 3.500 anni di storia religiosa con una documentazione straordinaria. Sorprende invece che l’antologia, che tratta delle sei fedi principali di oggi — induista, buddhista, taoista il primo volume; cristiana, ebraica, islamica il secondo —, contenga testi come quelli di Bin Laden, il leader di Al Qaeda, e di sir Bertrand Russell, il filosofo ateo inglese. Per Jack Miles, che ha coordinato la stesura dell’antologia, non c’è nulla di strano. Miles insegna Storia delle religioni all’Università di Irvine in California, ed è l’autore di Dio. Una biografia che nel 1996 gli fruttò il Pulitzer. Ex seminarista gesuita, spiega di aver voluto conferire ai due volumi «una prospettiva laica», che comprenda anche voci sociali e culturali «alternative», rivaluti il ruolo delle donne e consenta un’analisi comparativa delle fedi. Il fatto che ad Antico e Nuovo Testamento e al Corano l’antologia affianchi sermoni di predicatori controversi, testi poetici semiblasfemi, proclami femministi, programmi politici, fino al j’accuse di Bin Laden, profeta del terrorismo, ha innescato un vivace dibattito. Mentre gli estratti del saggio di sir Bertrand Russell del 1927, Perché non sono cristiano , sono considerati generalmente accettabili, il testo de Il fronte mondiale islamico , la dichiarazione di guerra santa di Bin Laden del 1988, non lo è affatto. Secondo Jack Miles, non sarebbe stato però giusto ignorare il leader jihadista. «L’antologia dà molto spazio alle voci moderate dell’islam — dichiara —, ma Bin Laden ne ha plasmato le correnti estremiste e il suo impatto sarà avvertito a lungo». Lo storico aggiunge che destano eguali polemiche nella sezione sull’ebraismo gli scritti di Yeshayahu Leibowitz (1903-1994), il filosofo ortodosso e sionista che contestò la concezione religiosa dello Stato di Israele e disse che i soldati israeliani nei territori occupati rischiavano di diventare «giudeonazisti». Che effetto avrà la pubblicazione dell’antologia? Miles si augura che promuova la tolleranza e la cooperazione tra le religioni e avvicini a esse i non credenti, che nell’America politically correct sono chiamati «spiritualmente indipendenti». E cita le memorie del poeta Christian Wiman (1966), ateo convertito al cristianesimo. Ma non è certo di raggiungere l’obiettivo: «Una cosa ho imparato — dice — . All’interno delle varie religioni esistono ancora divisioni assai profonde».

Corriere La Lettura 16.11.14
La Legione Straniera per il Duce
di Dino Messina

Il 3 agosto 1935 il maresciallo Pietro Badoglio, capo di stato maggiore, ricevette una lettera dal ministero delle Colonie: uno studio intitolato Costituzione di una divisione straniera coloniale . Era in pratica la proposta di una Legione straniera sul modello di quelle francese e spagnola. Il momento era propizio: l’avventura coloniale in Etiopia. E quale strumento migliore di proselitismo internazionale, in contrasto al vento sfavorevole antifascista, di una Legione straniera? Mussolini era d’accordo e il progetto fu sul punto di essere realizzato, ma l’opposizione dei vertici militari, e in particolare di Badoglio, motivata in una risposta scritta del 15 agosto, ebbe la meglio. A quel progetto e agli uomini disposti nel mondo a rischiare la vita per il fascismo ha dedicato un saggio su «Italia contemporanea» lo storico di origini lusitane João Fábio Bertonha, La legione straniera di Mussolini. I volontari stranieri nella guerra d’Etiopia 1935-1936 . La motivazione del «no» di Badoglio era sintetica ma efficace: l’avventura coloniale italiana era vissuta anche come un riscatto della sconfitta di Adua, che doveva avvenire per mani italiane. Inoltre le colonie erano considerate una soluzione al nostro eccesso demografico. Intanto nelle ambasciate del mondo continuavano ad arrivare richieste di arruolamento: Bertonha, che ha studiato materiali inesplorati presso l’archivio storico del ministero degli Esteri, ha calcolato circa 10 mila domande. Più o meno la stessa cifra stimata inizialmente per costituire tre reggimenti, in massima parte di fanteria. Se si guardano le oltre 3 mila domande d’arruolamento arrivate tra l’8 agosto e il 31 dicembre 1935, si vede che le popolazioni più interessate erano quelle vicine al fascismo: Germania, Romania, Ungheria, Jugoslavia. Ma tante domande arrivavano anche dalla Francia e persino dalla Russia. Gli interessati erano avventurieri, persone in cerca di riscatto, spesso con l’esperienza della Grande guerra alle spalle, ma soprattutto disoccupati attratti dal soldo sicuro dell’avventura coloniale.

Corriere La Lettura 16.11.14
Interventismo, la vittoria di Pirro
Nell’autunno 1914 lo scontro si inasprisce e spacca la classe dirigente
I fautori liberali della guerra volevano «fare gli italiani»
Ma pur di battere Giolitti delegittimarono il Parlamento
di Simona Colarizi


«L’Italia s’è desta». Questo è il titolo dell’editoriale sul «Corriere della Sera» che il 22 maggio 1915 preannunciava la dichiarazione di guerra all’Austria consegnata nelle mani degli ambasciatori il giorno successivo. Le parole dell’inno di Mameli riassumevano la lunga battaglia di Luigi Albertini per l’intervento dell’Italia nel primo conflitto mondiale, che per una parte della classe dirigente liberale doveva portare alla rigenerazione morale, civile e politica dell’Italia. Quella guerra, culmine del Risorgimento, che avrebbe riunificato all’Italia le terre rimaste «irredente» e avrebbe portato a compimento l’altra missione storica lasciata in eredità dai padri risorgimentali: quel «fare gli italiani» che D’Azeglio aveva indicato come la meta finale del processo unitario iniziato nel lontano 1848.
Nessuno dei due lasciti risorgimentali era stato onorato dagli eredi dei padri fondatori, svuotati di ogni slancio ideale, devitalizzati, corrotti e privi di ogni memoria dei compiti a loro assegnati. Lo dimostrava l’imbelle schieramento neutralista giolittiano, insensibile alle ragioni di questo appuntamento storico che l’Italia non poteva disertare.
Lo sferzante giudizio del direttore del «Corriere» pur nella sua partigianeria — Albertini era da sempre un fiero oppositore di Giolitti — coglieva la crisi di identità già emersa evidente nel 1913, quando, con le prime elezioni a suffragio universale maschile, i liberali erano stati costretti ad allearsi con i cattolici contro il pericolo di una crescita irresistibile dei socialisti. Il patto Gentiloni aveva arginato la frana, ma l’alto numero dei deputati cattolici «gentiloniani» entrati in Parlamento testimoniava lo sbandamento dei liberali. Gli antigiolittiani si illudevano che le dimissioni del presidente del Consiglio nel 1914, pochi mesi prima dello scoppio del conflitto in Europa, avrebbero arrestato il declino, riunificato e rigenerato le file del liberalismo, che invece non avrebbe retto alla prova della guerra. Li accecava una visione tutta elitaria della politica che impediva alla maggioranza dei liberali di capire quanto erano cambiati i modi e gli strumenti della politica con l’avvento delle società di massa. E il governo di questa nuova società passava dai partiti di rappresentanza individuale — i liberali appunto — ai grandi partiti di integrazione.
Alla difesa, all’assistenza, ma anche all’educazione politica, sociale e civile del proletariato provvedevano i socialisti e i cattolici.
Restava invece un profondo vuoto di rappresentanza per la moltitudine dei ceti medi, piccoli e piccolissimi borghesi al primo gradino della scolarizzazione, che avevano altrettanto bisogno di trovare chi si facesse carico delle loro rivendicazioni, dei loro interessi materiali, li istruisse sui loro diritti, doveri, libertà; insomma li organizzasse, fornisse i luoghi e gli strumenti per acquistare quell’identità politica collettiva che avrebbe loro garantito forza e spazio nella vita dello Stato. La frammentazione di questi settori sociali rendeva l’aggregazione più difficile rispetto alla compattezza strutturale del proletariato; ciò nonostante un moderno partito della borghesia ispirato agli ideali del liberalismo aveva potenzialmente un ampio terreno di reclutamento, sempre che si dotasse dei mezzi necessari a svolgere questo compito.
I liberali non sarebbero stati capaci di arrivare a questa meta e nel vuoto si sarebbe incuneato il Partito nazionale fascista, che convertiva gli ideali del liberalismo in un populismo aggressivo destinato a spianargli la strada per la conquista del potere e la distruzione dello stesso Stato liberale. Proprio la guerra e lo scontro tra interventisti e neutralisti avevano dato alimento alle forze eversive che sulle divisioni del mondo liberale costruirono la dittatura. Nel conflitto aperto nell’agosto 1914 sulla partecipazione dell’Italia alla guerra esplosa in Europa, si possono individuare le origini di questo processo che proprio gli antigiolittiani mettevano in moto. Perché la loro battaglia contro la maggioranza liberale neutralista delegittimava il ruolo del Parlamento, cuore istituzionale della dottrina liberale. Quel Parlamento nell’agosto 1914 rappresentava pienamente la volontà del Paese, dove socialisti, cattolici e gran parte dei liberali condividevano la posizione prudente del governo rispetto a un conflitto tra gli interessi delle grandi potenze che solo marginalmente coinvolgevano l’Italia. Tanto più l’Austria sembrava disposta a negoziare la cessione al Regno sabaudo di una parte delle terre «irredente». Un patteggiamento che invece di stemperare, attizzava gli umori bellici della minoranza interventista, ai cui occhi il famoso «parecchio», che si sarebbe potuto ottenere da Vienna secondo Giolitti, confermava l’assenza di ogni slancio ideale, la passività codarda e l’ignavia della classe dirigente, incapace appunto di costruire la «Grande Italia».
Certo, il mito della potenza non era condiviso dall’intero schieramento a favore dell’intervento, dove fianco a fianco si ritrovavano nazionalisti, liberali, democratici, riformisti, transfughi socialisti — Mussolini — e una coorte di intellettuali affascinati dall’idea della guerra in sé — da d’Annunzio ai futuristi. Faceva però da comune denominatore il lascito risorgimentale di Trento e Trieste da «redimere»; soprattutto il collante tra componenti così diverse e addirittura opposte stava nella battaglia contro il «nemico», il Parlamento appunto, che doveva essere espugnato. Perdenti a Montecitorio, gli interventisti si preparavano a vincere sulla piazza con una campagna che faceva leva in larga misura sul ceto medio imbevuto di miti risorgimentali e alla ricerca di un’identità politica, incantato non dagli editoriali dotti degli Albertini, ma dalla retorica bellicista delle odi dannunziane.
Eppure proprio il quotidiano liberale più diffuso, il «Corriere», sceglieva d’Annunzio come «educatore politico della nazione»; a lui affidava il compito di risvegliare la memoria storica della «Grande Italia» dalle glorie della Roma imperiale all’epopea risorgimentale. Un patrimonio storico al servizio della «guerra giusta», non certo in contraddizione con la formazione culturale e spirituale dei liberali interventisti che sembravano indifferenti all’altra faccia della predicazione dannunziana, la più pericolosa e delegittimante del potere costituito.
Quelle invettive del poeta, che definiva il Parlamento una «cloaca», occupata da «un pugno di ruffiani e di frodatori», capeggiato dal «vecchio boia labbrone» (Giolitti), «ansimante leccatore di sudici piedi prussiani». Propaganda e comunicazione erano ancora all’anno zero e ben pochi si rendevano conto di quanto sovversivo fosse un linguaggio finalizzato a eccitare la ribellione popolare contro i depositari dell’ordine. L’attacco contro la classe dirigente neutralista era funzionale al vecchio sogno di rinnovare la politica italiana, sommato adesso al genuino desiderio della guerra capace di sanare questo male cronico dell’Italia. Gli interventisti liberali riuscirono a trascinare l’Italia nella guerra, ma non sopravvissero al dopoguerra.

Corriere 16.11.14
L’avvocato delle streghe
Nel 1631 un testo critica a fondo le indagini basate sull’uso sistematico della tortura Una voce sostenuta dall’amore per la verità: figlia, ma non prigioniera del suo tempo
di Claudio Magris


Anni fa, il vescovo di Trieste Lorenzo Bellomi mi raccontò che qualche giorno prima aveva ospitato tre suoi amici, due uomini e una donna, suoi compagni di scuola poi divenuti medici con cui era rimasto in stretti rapporti d’amicizia e che si erano fermati a Trieste, tornando a casa, dopo essere stati a Medjugorje. Durante la cena gli avevano detto, con imbarazzo e senza alcuna enfasi mistica, di aver visto la Madonna, aggiungendo che sapevano bene come lui non amasse quelle cose e fosse alquanto scettico, memore forse che Gesù rimprovera duramente chi chiede miracoli. Bellomi rispose: «Siamo amici da una vita e non mi passa per la testa di non credervi se mi dite di aver visto la Madonna. Se mi dite di averla vista, certamente l’avete vista. Il che non vuole ancora dire che la Madonna vi sia realmente apparsa».
Quel vescovo, ancor oggi ricordato con grande affetto e considerazione, non intendeva certo insinuare che i suoi amici potessero soffrire di allucinazioni. Diceva una cosa molto più generale e importante della fondatezza di quelle apparizioni. Sottolineava un’universale debolezza umana, ossia la difficoltà — difficoltà che riguarda tutti — di vedere la realtà, portati come siamo a vedere ciò che ci attendiamo di vedere, che siamo preparati a vedere e che proiettiamo, in assoluta buona fede, su ciò che ci sta davanti agli occhi e magari è molto diverso. Capita più o meno a tutti; ricordo che una volta, raccontando un fatto per fortuna di minima importanza, ho alterato in piena sincerità un particolare, deformandolo secondo la mia aspettativa, piegandolo all’immagine e alla convinzione che c’era già nella mia mente prima di vederlo. Per fortuna non si trattava di una testimonianza in un processo e quella mia onesta ancorché deplorevole invenzione non poteva danneggiare nessuno.
Questa difficoltà di vedere ciò che realmente accade è spesso accresciuta dalla cosiddetta «aria del tempo», dalle convinzioni, abitudini e credenze dell’epoca in cui si vive e che talora illuminano talora appannano la realtà e la sua visione. Non farsi condizionare dai pregiudizi e dalla mentalità del mondo in cui si vive è una delle più ardue e rare virtù, che rivela un’eccezionale libertà e creatività di spirito. Uno dei più grandi esempi di questa creatività — che smonta l’idea della verità quale figlia del proprio tempo — è Friedrich von Spee, un gesuita del Seicento che fu confessore di molte donne condannate al rogo perché streghe.
Figlio del suo tempo e degli idoli del suo tempo, von Spee credeva che potessero esistere streghe e commerci di vario genere con il demonio. Sarebbe stato facile — e, sotto il profilo storico-culturale, comprensibile — che egli, come tanti suoi contemporanei e soprattutto come tanti che si occupavano di quei processi, vedesse delle streghe e degli stregoni nelle persone perseguitate, esaltate, mentalmente e fisicamente malate, spesso repellenti, torturate, ree confesse sotto tortura. Preparato a incontrare complici e seguaci del Maligno, von Spee ebbe la straordinaria, geniale capacità di accorgersi che nessuna di quelle persone disgraziate e sciagurate era una strega o uno stregone ed ebbe il coraggio di dirlo e denunciarlo apertamente, in uno scritto, Cautio criminalis (1631), che rischiò di mettere lui stesso in pericolo e che è un vero capolavoro di cristiano amore del prossimo e della verità, di logica incalzante e serrata, di razionalità che non si lascia abbagliare né intimidire.
Nella Cautio criminalis — ottimamente tradotta da Mietta Timi già nel 1986 per la casa editrice Salerno e introdotta con particolare finezza da Anna Foa — rivive la terribile Germania di quei decenni, devastata da guerre politiche e religiose che distruggeranno due terzi della popolazione, lacerata in un caos di anarchia e di violenza cui si accompagna un incredibile fervore culturale, una fioritura letteraria, filosofica e teologica che darà i suoi frutti per secoli, ma non lenisce l’orrore delle stragi, della fame, delle pestilenze, della morte. Spee è fermo, equilibrato ma implacabile nella sua denuncia e nella sua difesa di martoriati e martoriate innocenti. Contesta la validità delle confessioni rese sotto tortura, perché — dice — sotto tortura si finisce per dire e ammettere qualsiasi cosa, pur di farla cessare, ed ammette di non sapere come si comporterebbe egli stesso se sottoposto a intollerabili sofferenze. Da questo punto di vista, incalza con sottigliezza, la tortura è colpevole perché induce gli uomini a peccare, a dire il falso, ad accusare innocenti inceppando così la stessa giustizia, giacché il torturato deve inventare colpevoli e svia in tal modo le indagini. Descrive con asciutta efficacia la crudeltà di magistrati inquirenti, anche sacerdoti, i riti precedenti la tortura o l’esecuzione (la rasatura delle imputate, i marchi le cicatrici le deformità interpretati quale opera del demonio, l’implausibile vaghezza delle ammissioni di aver partecipato al sabba diabolico).
Spee non ha solo un cuore caldo, ha anche una testa lucida ed esperta del diritto. Sostiene il principio della presunzione di innocenza, individua il bisogno che i prìncipi hanno di quei processi ma, politicamente più sottile di loro, pure il danno che tali messinscene dell’orrore recano alla stessa autorità pubblica che li promuove. La Cautio criminalis può gareggiare con la manzoniana Colonna infame , con l’ulteriore merito di essere stata scritta più di due secoli prima.
Spee sa bene come l’Inquisizione non sia solo la leggenda nera creata nei secoli successivi e che la storiografia contemporanea — si pensi, per fare solo alcuni esempi, agli studi di Adriano Prosperi, a un’opera fondamentale come il Dizionario storico dell’Inquisizione da lui diretto, oppure agli studi di Carlo Ginzburg e di molti altri — ha indagato a fondo. Il meccanismo mortale dell’Inquisizione è complesso e comprende — come si vede leggendo il Sacro Arsenale , il manuale per i giudici — anche minuziosi garantismi, quali la necessità di almeno tre testimoni per accusare qualcuno, la verifica dei testimoni stessi e il divieto di suggerire, neppure indirettamente, agli imputati le risposte.
Spee si muove con forza e prudenza in questa selva, inflessibile e insieme avveduto nella sua battaglia. Leggendo le sue pagine così forti e insieme misurate, si vorrebbe sentire anche direttamente la voce delle accusate e degli accusati, le parole rotte e sanguinanti che uscivano dalle loro bocche ridotte, dall’incultura e dalla violenza subita, quasi all’afasia. Andrea Del Col ci ha fatto sentire, nelle sue notevolissime ricerche, queste voci spezzate e balbuzienti — vorremmo poter sentire anche il loro timbro, il loro suono, il loro respiro strozzato. Spee lo ha sentito; le parole di quella gente sventurata gli arrivavano all’orecchio insieme al loro fiato e forse anche questo gli ha dato la forza di battersi, giungendo a dire che vacillino pure i poteri giudiziari se debbono fondarsi su quelle infamie.
Non stupisce che fosse pure un delicato e intenso poeta, che ha cantato l’amore di Gesù e la dolcezza della natura, gareggiando, come dice il titolo della sua principale raccolta di versi che ha un suo posto rilevante nella letteratura tedesca, con gli usignoli. «Deh, lasciati vedere, io cerco te!/ Gridai tosto di nuovo,/ non sole ma solo l’ultime parole/ sentii ripetere, io cerco te». Era figlio del suo tempo. Tutti lo siamo, ma qualcuno, come quei carnefici, è pure figlio di buona donna.

La Stampa TuttoLibri 15.11.14
“Per cambiare il mondo servono i Robespierre”
Dopo la Bastiglia, sangue, ghigliottine, ideali, complotti: “Dalle sofferenze di quei giorni, la gioia della nostra libertà”
di Michela Tamburrino


Se Hilary Mantel non fosse la grande scrittrice che è, sarebbe l’incarnazione perfetta di un’eroina contemporanea, dunque materiale privilegiato per un romanzo. Uno dei suoi romanzi. E la storia di Mantel, infarcita di dolori, abbandoni, viaggi, ritorni, malattie, eccessive magrezze ed eccessive grassezze, una famiglia povera e scombinata, e infine la fama, è una storia da antologia. Quanto la sua scrittura che ha sperimentato con successo quella forma ibrida di narrativa storica, non saggistica e non narrativa, una terra di pionieri dove la legge è lì per essere violata. Ma anche un porto sicuro perché quando si è avventurata nel contemporaneo dando del manichino a Kate Middleton e fanta-ipotizzando l’assassinio di Margareth Thatcher, ad essere decapitata è stata lei, Hilary Mantel. Fraintendimento dei detrattori è stato il verdetto e per tanto clamore la Nostra si è pure divertita. Giusto aplomb della più grande scrittrice inglese vivente, vincitrice di due Man Booker Prize per Wolf Hall e Anna Bolena, una questione di famiglia (che fanno parte della trilogia dedicata alla dinastia dei Tudor) per Time, tra le 100 donne più influenti del 2013. È uscito da pochi giorni in l’Italia il secondo capitolo della sua storia sulla rivoluzione francese: Un posto più sicuro. La storia segreta della rivoluzione. Seconda parte. Un potente affresco dell’evento fondante della società moderna. Siamo alla caduta della Bastiglia, in una Parigi divenuta un campo di battaglia, le giovani generazioni di rivoluzionari si trovano alle soglie della fama e del potere. Ci sono Camille Desmoulins che con la sua penna sprona alla ribellione, (tra i più cari alla Mantel, il più avventato, ambiguo e arguto, facile da immaginare in quanto scrittore) Danton, acclamato padre della patria, Robespierre amato dal popolo e guardato con sconcerto dagli amici. La Repubblica tanto attesa è sempre più vicina. Ma ancora nessuno sa quale prezzo si dovrà pagare.
I rivoluzionari che tanto piacciono alla Mantel, giovani, spinti dalle province alla capitale proprio come lei e come lei forniti di estrema ambizione, vengono raccontati come in sequenze cinematografiche a distanza ravvicinata. L’autrice è lì con loro e porta il lettore in quello stesso tempo.
Signora Mantel, perché un’inglese scrive di Rivoluzione francese?
«Perché quelli sulla Rivoluzione francese sono stati i primi libri che ho letto, presi in prestito in biblioteca, uno dopo l’altro. Poi cominciai a raccogliere appunti. Dopo un po’ mi chiesi: “Che cosa sto facendo?” Subito mi risposi: “Sto scrivendo un libro”».
E che cosa l’affascina tanto di quel passato?
«Ho iniziato come scrittrice di narrativa storica e ho scritto le prime due versioni de La storia segreta della rivoluzione a vent’anni, prima di ogni altra cosa. I miei romanzi storici sono incentrati su persone vere, che voglio capire e conoscere bene. Ciononostante so che ci si muove in un terreno misterioso, che i documenti vanno persi, che i testimoni sono faziosi. In quest’area i biografi non possono muoversi legittimamente. I romanzieri sì; riempiamo i buchi basandoci su informazioni il più possibile attendibili. Un lavoro che richiede un appetito inesauribile di fatti e una fame insaziabile di congetture».
Ha dichiarato di provare più simpatia per Robespierre che per Danton. Perché?
«Cerco di non avere opinione sui personaggi quando comincio. All’inizio non li giudico, li guardo, studio quello che fanno e che dicono. Il mio primo giudizio si basa sui testi letti, perciò è convenzionale. Di solito Danton è il personaggio più affascinante. Ma la storia mi ha fatto cambiare idea. E Robespierre è di gran lunga il più interessante dei due».
Si può affermare che sia la storia francese la sua preferita?
«I francesi hanno avuto rivoluzioni migliori. Ma solo gli inglesi hanno un re che si è sposato sei volte e ha fatto uccidere due delle sue mogli».
Come descriverebbe in sintesi questo romanzo?
«Tre giovani uomini collocati nel mondo che hanno l’intenzione di cambiarlo. Al centro della rivoluzione vivono più ebbrezza e sofferenza in cinque anni di quanto la maggior parte della gente non faccia in una vita intera. E la loro sofferenza è il nostro guadagno».
E adesso?
«Sto lavorando al terzo romanzo della trilogia sui Tudor e su Thomas Cromwell ma ho anche progetti più contemporanei. Non faccio distinzioni. Tutto il mio lavoro è politico: questa è la sua natura più profonda».

La Stampa TuttoLibri 15.11.14
Giulio Giorello
“La scienza è gaia, colora il mondo”
Il filosofo: “E’ l’unico grande tentativo di globalizzazione che sia riuscito: affratella i popoli, non divide”
intervista di Gabriele Beccaria


«E’ vero, sono il direttore responsabile di “Scienza e Idee”, ma la collana nasce da uno sforzo collettivo e dalla fiducia che mi ha sempre accordato l’editore Raffaello Cortina. Lui stesso, d’altra parte, va a scovare libri. Anche all’estero. Con lo stile di un intelligente cane da tartufo, che spesso torna con tartufi di prim’ordine».
Giulio Giorello passeggia per Milano, dopo una lezione all’università, dove insegna Filosofia della scienza, e racconta con passione e ironia i suoi 252 «tartufi». Altrettanti titoli di una collezione che ha compiuto 20 anni e che esibisce una sfrenata ambizione: raccontare la scienza. Tutta. Dalla biologia alla fisica, girovagando per l’antropologia, la bioetica e le nuove tecnologie.
Professore, lei la celebrerà oggi in occasione di Bookcity: ha già preparato una frase a effetto?
«Vent’anni dopo, come direbbe Alexander Dumas! La mia sarà una discussione libera con i frequentatori del Museo di Storia Naturale, un luogo che amo e che si deve valorizzare di più, insieme con gli altri musei di Milano. “Pezzi” che dovrebbero ricordarci, secondo la migliore tradizione dell’Illuminismo lombardo, che la città ambiva a essere la città della scienza e della tecnica. È pensando a questa eredità che, di fronte a un boccale di birra, abbiamo pensato nel 1994 di battezzare la collana “Scienza e Idee”».
«Scienza», che parola labirintica: lei come la spiega?
«La scienza è il nucleo propulsivo di alcune delle idee più straordinarie degli ultimi secoli. E non c’è bisogno che le citi i miei eroi preferiti».
Li ricordi, per favore.
«Si chiamano Einstein, Bohr, Dirac, Fermi e altri... Sono stati spesso protagonisti dei nostri libri. Perché abbiamo pubblicato le loro biografie o dei testi potenti».
Per esempio?
«Testi sul rapporto tra meccanica quantistica e Relatività, come ne Il grande, il piccolo e la mente umana del matematico Roger Penrose o nel saggio, che ha avuto grande successo, del fisico Carlo Rovelli: La realtà non è quello che appare. Penso a questi titoli come ad alcuni dei puntelli della collana e ne sono orgoglioso: libri pensati qui in Italia e altri frutto di una politica di traduzione spesso coraggiosa».
A una traduzione è particolarmente legato, vero?
«Sono le 400 pagine di biografia di Dirac, L’uomo più strano del mondo di Graham Farmelo. Una scommessa e anche un rischio economico che l’editore - devo dire - ha corso in modo audace».
Ma anche con i titoli «made in Italy» avete fatto notizia.
«Sono nati dall’iniziativa di giovani e intelligenti collaboratori: ora non sono più tanto giovani, ma intelligenti lo sono ancora adesso. Penso a uno dei dialoghi più belli e anche più strazianti dal punto di vista umano, come quello di Lakatos e Feyerabend: è Sull’orlo della scienza, curato da Matteo Motterlini. Oppure al lavoro di Stefano Gattei, che ha messo insieme i testi più interessanti di Kuhn in Dogma contro critica. È un libro che ha anticipato i Collected Papers dello stesso Kuhn, pubblicati negli Usa».
Una sua idea, invece?
«Quella che è stata fatta propria da Corrado Sinigaglia, quando abbiamo pubblicato la prima “messa a punto” dei neuroni specchio e a realizzarla è stato Giacomo Rizzolatti, l’uomo che li ha individuati. So quel che fai ha avuto 12 traduzioni in 11 lingue».
Dodici e 11?
«Sì. Perché è stato tradotto due volte in cinese. Una per la Cina e una per Taiwan. È una realtà che la dice tutta sullo scarto tra la saggezza scientifica e le beghe della politica».
Ecco che la scienza torna a giganteggiare.
«Guardi... l’impresa tecnico-scientifica - e la chiamo così perché non faccio parte dei filosofi che piangono sulla tecnica, salvo poi servirsene quando conviene - è l’unico tentativo riuscito di globalizzazione. Che affratella i popoli anziché metterli gli uni contro gli altri, a differenza delle teorie economiche o dei disastri delle religioni. La scienza non ha bisogno di missionari e conversioni: va avanti grazie al gusto della controversia, della disputa, della proliferazione di punti di vista. Ed è questo il punto di vista della collana. Più ci sono pareri diversi e più sono contento».
A proposito di scienza e religione, non vi siete risparmiati il piacere delle controversie.
«Infatti abbiamo pubblicato punti di vista biologici e antropologici sulla religione e difese intelligenti della religione stessa, come quella del filosofo, fisico e teologo anglicano Polkinghorne, Credere in Dio nell’età della scienza. È la dimostrazione che la scienza non ha bisogno di Dio, ma che non lo nega e in qualche modo lo aspetta. Non ci interessa sposare la causa degli Odifreddi e nemmeno quella dei Mancuso. Basta che ci facciano dei buoni libri, come quelli in collana: Il computer di Dio e L’anima e il suo destino. E aggiungo che sono orgoglioso di aver ospitato anche Orizzonti e limiti della scienza e Figli di Crono del cardinale Martini».
E ora arriva il titolo 252: «Dimostrare l’impossibile».
«E’ una perla. Di Claudio Bartocci. Il tema lo descriverei così: come la scienza inventa il mondo. Nella ricerca ci scontriamo di continuo con forme di impossibilità. Ma il bello è che le sappiamo sempre aggirare».

il Fatto 16.11.14
Altro che ariani, la star del cinema nazi era un ragazzo nero
Mohamed Husen era molto apprezzato dai registi
Fu denunciato per la relazione sul set con una bianca
di Carlo Antonio Biscotto


Un attore di colore nel cinema nazista. Il documentario appena uscito, Il viaggio di Majub di Eva Knopf, racconta la straordinaria vita di Mohamed Husen, da soldato-bambino ad attore cinematografico nella Germania degli anni 30. Non ha mai avuto ruoli da protagonista ma era molto apprezzato dai registi. E poi – come acutamente commenta la cineasta Eva Knopf - “Ci sono molti più sudditi che re; in un film in genere ci sono più comparse che attori di primo piano”.
Mohamed era nato a Dar es Salaam (attuale Tanzania) il 22 febbraio 1904, figlio di un ascaro della Schutztruppe tedesca. A 10 anni era stato arruolato nelle forze coloniali tedesche durante la prima guerra mondiale. Ferito gravemente aveva trascorso un po’ di tempo in un campo di prigionia a Nairobi.
DOPO LA GUERRA si era imbarcato sulle navi mercantili e nel 1929, di passaggio in Germania, aveva chiesto di essere riconosciuto come ascaro e naturalizzato tedesco con il nome di Mohamed Husen. Aveva trovato lavoro come cameriere e come insegnante di lingua Swahili a Berlino. Ma la sua popolarità la deve al cinema. All’epoca a Berlino e Amburgo le persone di colore erano abbastanza numerose e molte trovavano lavoro nel mondo dello spettacolo in un momento in cui Josephine Baker era all’apice della popolarità anche in Germania. Mohamed apparve in numerosi film e nel 1932 sposò la cittadina tedesca Maria Schwadner dalla quale ebbe tre figli. Per Mohamed e altri tedeschi nati in Africa, la vita sul set era molto migliore di quella di tutti i giorni. L’ambiente del cinema era una sorta di zona di sicurezza, una realtà parallela dove la fantasia permetteva di dimenticare le durezze della vita reale.
NEGLI STUDI cinematografici, come ricorda Dorothea Diek, erano tutti amici, non si parlava di politica, non c’erano nazisti e gli attori africani erano accettati senza problemi. Ma il quarto d’ora di popolarità e di tranquillità passò in fretta. Già nel 1933 era stata tolta a Mohamed e alla sua famiglia la cittadinanza tedesca e nel 1935 perse il lavoro da cameriere perché i colleghi bianchi dissero alle autorità che non volevano lavorare con lui. Husen non si diede per vinto e, allo scoppio della seconda guerra mondiale, chiese di essere arruolato come volontario. La sua domanda fu respinta.
Per qualche tempo tirò avanti con le poche scritture che gli riuscì di trovare. La fortuna gli voltò definitivamente le spalle nel 1941 sul set del suo ultimo film, la storia dell’esploratore tedesco Carl Peters con la regia di Herbert Selpin. Mohamed interpretava il ruolo del fedele servitore di Peters, tristemente famoso per aver fatto uccidere senza pietà la sua amante nera perché aveva una relazione con il suo servitore. Nel settembre del 1941 fu accusato – pare da alcuni colleghi – di aver avuto sul set una storia con una attrice ariana da cui aveva avuto un figlio. Nessuno ebbe pietà di lui. Sua moglie fu costretta a chiedere il divorzio e Mohamed fu rinchiuso, senza processo, nel campo di concentramento di Sachsenhausen dove morì il 24 novembre 1944.
È sepolto nel cimitero delle “Vittime della guerra e della violenza” a Berlno -Reinickendorf. Il suo figlio maggiore Bodo morì sotto i bombardamenti mentre si ignora il destino degli altri figli e di sua moglie.
Il film di Eva Knopf si attiene in modo molto asciutto ai fatti. Altri registi avrebbero potuto fare di lui un eroe, un pioniere, il simbolo dell’ingratitudine della Germania nei confronti degli africani che l’avevano servita durante l’avventura coloniale.
“NON SO PROPRIO che giudizio dare di lui - spiega la cineasta - non era quello che i nazisti volevano che fosse, un vero ascaro, ma non era nemmeno quello che noi avremmo voluto che fosse: un combattente per la libertà o un antifascista”.
In realtà – se lo ha fatto per convinzione politica o per opportunismo non è dato sapere – verso la metà degli anni 30 in divisa militare partecipava ai raduni nazisti urlando slogan del tipo “la Germania ha bisogno delle colonie in Africa”. Come molti immigranti provenienti dalle ex colonie, Mohamed era un fantasma e il poco che sappiamo di lui non ha alcunché di eroico. Resta la figura di un giovane di colore che per qualche tempo diventò attore nel momento più buio e razzista della storia della Germania, e poi fu travolto dagli eventi.

Repubblica 16.11.14
Da Aristotele a Orazio la difficile virtù di aspirare alla normalità
di Maurizio Ferraris


«SAINT- Marc Girardin ha detto una frase che resterà: siamo mediocri! Confrontiamola con la massima di Robespierre: chi non crede all’immortalità del suo essere si rende giustizia. Le parole di Saint-Marc Girardin implicano un odio immenso nei confronti del sublime». Così Baudelaire in Il mio cuore messo a nudo . Tuttavia, se de Maistre ha potuto scrivere un elogio del boia non meno sublime della ghigliottina di Robespierre, vale la pena di abbozzare un elogio della mediocrità, questa virtù etica (la mesotes , la medietà di cui parla Aristotele, e che diventerà l’ aurea mediocritas di Orazio) così screditata. Girardin, che non era affatto un mediocre, o comunque meno mediocre di tanti teorici dell’eroismo (fu professore alla Sorbona, ministro, giornalista, deputato, e autore tra l’altro di un monumentale Corso di letteratura drammatica ), dopotutto, propone il contrario delle sbruffonate alla “armiamoci e partite”. Dice infatti «Siamo mediocri», il che non è banale.
Vale anzitutto la pena di osservare che tra i destinatari dell’esortazione Girardin include se stesso. Cioè non prende le pose magniloquenti dell’Eroe («L’armi, qua l'armi: io solo combatterò, procomberò sol io»), o meglio propone un eroismo diverso, quello di El Héroe di Baltasar Gracián, dove l’eroismo è anzitutto capacità politica di dissimulazione, malizia che aiuta in quella milizia che è la vita, una guerra tanto più spietata quanto meno dichiarata. Ma, anche senza attribuire intenzioni machiavelliche a Girardin, resta che di inni alla mediocrità se ne sono visti pochi, mentre l’elogio dell’eccezionale, della creatività, del sublime, del genio, è la cosa più banale che ci sia. In pratica, non c’è una sola pubblicità che non nasconda una qualche promessa di eccezionalità. Perciò, oltre a un (eventuale) eroismo gesuitico, Girardin manifesta, in forma indubbia, una grande originalità. Non è mediocre, non è da tutti, apostrofare i propri contemporanei con un «Siamo mediocri!».
Ci vuole un bel coraggio, quasi una hybris demoniaca, perché la mediocrità, in senso proprio, è un ideale raro e statisticamente implausibile. Quello con cui abbiamo a che fare è una funzione gaussiana: il 50 per cento del genere umano è al di sopra della media, il 50 per cento è inferiore. Valla a trovare la mediocrità. Ciò che impropriamente chiamiamo “mediocrità” non è né la medietà aristotelica, né la medietà statistica, bensì una escursione perversa al di sopra o al di sotto della media. Viceversa, la mediocrità in senso proprio è il risultato di un esercizio ascetico, l’inseguimento del più regolativo tra gli ideali regolativi: la media statistica. Perciò, additare la mediocrità come ideale è instradare l’umanità (e ognuno di noi con lei) a una meta difficile. Esortarla, invece, alla eccezionalità, significa lasciarla dove era già: siamo tutti al di sopra o al di sotto della media.
Si potrebbe proseguire a lungo su questi ragionamenti, ma è meglio fermarsi su una considerazione che l’esperienza prima o poi rende inevitabile. Non c’è imbecille che in qualche momento della sua vita non si sia identificato con Napoleone. Ma ci è voluta tutta l’arte di Tolstoj per capire che il vero eroe è Kutuzov, il cortigiano che temporeggia e lascia che la grande armata sia battuta dal Generale Inverno. Se c’è una caratteristica infallibile di quello che ossimoricamente potremmo definire “il peggior mediocre” (o il “mediocre cattivo”, per distinguerlo, come nel colesterolo, dal “mediocre buono”) è mirare alla eccezionalità. Perché, leggiamo nel dizionario della Treccani, il mediocre si rivela come tale in «attività che per se stesse richiederebbero doti non comuni d’ingegno e d’intelligenza». Ed è lì che casca l’asino. Ecco perché l’esortazione «Siamo mediocri! » (siamolo per davvero, non presumiamo di noi)è un principio di autocoscienza, una norma di prudenza, e forse persino il massimo coraggio che sia dato a un essere ragionevole circondato da aspiranti al Nobel, all’Oscar e al Telegatto.

Corriere 16.11.14
«La nostra comicità corre sul web»
Il Terzo Segreto di Satira: uniti dalla politica. La serie «Se fossi Renzi» su Corriere.it
di Chiara Maffioletti


MILANO Si sono conosciuti alle Scuole civiche di Milano, a uno di quei corsi di regia che frequenti «perché sogni, un giorno, di fare cinema d’autore». Ma molto presto, Pietro Belfiore, Davide Rossi, Andrea Mazzarella, Davide Bonacina e Andrea Fadenti si sono accorti di avere gli stessi gusti in tema di comicità e di politica: «Abbiamo sempre votato a sinistra, ma mai Pd. E nemmeno Grillo», raccontano in quello che oggi è diventato il loro ufficio, l’ufficio del Terzo Segreto di Satira. «Di solito votiamo partiti appena nati e che, in genere, muoiono subito dopo le elezioni: amiamo la nicchia» spiegano ora che alla nicchia, almeno per quanto riguarda il loro lavoro, hanno detto addio.
I loro video di satira politica sono diventati un fenomeno. Partiti come risposta alla «frustrazione che viene quando inizi a lavorare nel settore audio video e realizzi contenuti per necessità», i filmati di questi ragazzi nati tutti tra il 1983 e il 1988 hanno fatto registrare numeri importanti sul loro canale YouTube. Li ha notati la tv. Per primo, Report : «Ci ha chiamati una giornalista. Per sei mesi non abbiamo più saputo nulla, finché una mattina suona il telefono. Eravamo in trasferta a Roma. Rispondiamo con la voce ancora impastata e sentiamo: pronto, sono Milena Gabanelli. Allora, idee?». Da quel momento è stato come avere «un certificato di qualità: di colpo avevamo una levatura che non meritavamo». E sono arrivate altre proposte, tra cui quella di Corrado Formigli: «Anche lui ha chiamato di persona: ci ha proposto una collaborazione». I video del Terzo Segreto di Satira sono diventati un appuntamento fisso di Piazza pulita , un po’ quello che Crozza è stato per Ballarò e continua ad essere per Floris .
La passione è diventata un lavoro: anche su Corriere.it è partita una serie con la loro firma, Se fossi Renzi (le nuove puntate vanno online lunedì e giovedì), in cui si propongono soluzioni paradossali per migliorare le sorti dell’Italia.
«Siamo partiti autoproducendoci e vogliamo farlo ancora. Era difficile immaginare che potesse diventare un lavoro vero». È successo. E sono arrivati anche i fan illustri: Staino, Scamarcio, Argentero e Serena Dandini. Ogni video li coinvolge alla pari: dalla scrittura al montaggio. Alla scelta degli attori: «Ridono perché, nonostante anni di teatro, la gente li riconosce per i nostri video».
All’inizio era solo la passione a muoverli: «Non c’erano compensi. Offrivamo loro solo il pranzo e si portavano da casa i vestiti per cambiarsi». Nessuno tra gli autori compare in video («eccetto qualche spalla, o nuca, ma più per mancanza di comparse»), tranne Davide Bonancina: «Faccio dei cammei, tipo Orson Welles» ridono lui e gli altri. Il metodo funziona: i video di Piazza pulita vanno benissimo e Formigli vorrebbe rinnovare loro il contratto: «Ma dobbiamo avere delle idee buone...». Di solito arrivano da discussioni tra loro: «Non siamo sempre popolari. L’altro giorno Pietro ci ha telefonato gasatissimo, dicendo: oh, c’è Fitto, l’ho visto in strada, c’è Fitto! E noi: dove? Corriamo... Quanti 30 enni si esalterebbero per aver visto Fitto? Che poi era un sosia...». Progetti per il futuro? «Ci piacerebbe una serie tv. O con un film, alla Boris , sulle burocrazie e le mafiette italiane. E con i nostri attori: se abbiamo fatto tre cose buone lo dobbiamo anche a loro».

Il Sole Domenica 16.11.14
Enea, mito per tutti i secoli
Philip Hardie ha ricostruito in un denso e preciso saggio la storia culturale del grande classico della letteratura occidentale. E delle sue molte letture
di Alessandro Schiesaro


Sedici ottobre 1944. Londra è in balia di nuovi missili devastanti, l'ultimo colpo per una città che in anni di guerra e di bombardamenti ha già accumulato molte ferite. T. S. Eliot pronuncia la sua prolusione come primo presidente della neonata «Società Virgiliana». Il titolo – «Cos'è un classico?» – ha forma di domanda, ma la risposta non tradisce esitazioni: un classico, il classico, è Virgilio, «il nostro classico, il classico di tutta Europa». Non possono aspirare a quel ruolo i sommi autori delle letterature nazionali; Virgilio sì, perché poeta in una lingua che, morendo, ha irradiato tutta Europa e le ha garantito il contatto con l'eredità dei greci.
Nel nome di Virgilio Eliot traccia un progetto di salvezza culturale del continente che rinascerà dalle macerie, individuando un comune denominatore che trascenda anche Dante o Goethe o Shakespeare. «Dobbiamo ricordarci – afferma – che, come l'Europa è un'unità (e tuttora, pur crescentemente mutilato e deturpato, l'organismo dal quale deve svilupparsi una maggior armonia mondiale), così la letteratura europea è un'unità». È, la sua, l'esaltazione teorica più esplicita della centralità culturale di Virgilio, che risponde a un sentire e un'esigenza reali. Quando, pochi anni dopo, Carlo Dionisotti arriva a Oxford, si concentra sui classici latini, Virgilio in primis, convinto che sia questa la base del dialogo tra l'esule (antifascista) di un paese sconfitto e i suoi colleghi britannici.
Il ruolo principe di Virgilio e soprattutto dell'Eneide è una costante della cultura europea da prima che l'aggettivo abbia un senso. Il suo poema è un classico mentre l'autore ancora lo scrive, poi una presenza immediata e costante sui banchi di scuola e nell'immaginario. In questo libro affascinante, che guida con acutezza il lettore tra una miriade di opere e di autori, Philip Hardie racconta la storia di questa duratura e poliedrica canonizzazione.
L'Eneide, pur così specifica nella sua trama, nella sua tessitura linguistica, nei suoi riferimenti culturali, è celebrata e imitata (anche parodizzata) in letteratura e spesso anche nelle arti figurative per due millenni perché il suo schema narrativo si adatta agevolmente ad altri contesti. È la storia di un esule che fonda un impero, o, meglio, che ritorna col suo popolo ad una terra insieme nuova e antica (i Troiani si volevano discendenti dell'etrusco Dardano), per gettare le basi di un regno la cui grandezza il poema può solo garantire al futuro. Anche se Enea non vede in prima persona il trionfo di Augusto, la profezia di Virgilio propone un modello attraente per ogni impero che si voglia eterno e invincibile. Quando descrive l'emergere dell'ordine dal caos, il contrasto tra le potenze infernali della discordia e la forza di un principe che si vuole capace di interrompere il ciclo inevitabile del declino umano riportando in terra una nuova Età dell'oro, l'Eneide costruisce un'intelaiatura ideologica pronta a farsi archetipo.
Sarebbe però un errore ricondurre il successo dell'Eneide, anche solo in campo ideologico, esclusivamente alle aspirazioni imperialistiche e panegiristiche di successive generazioni di potenti. Certo, la prefigurazione di un sovrano che ascende al cielo offre un modello (e quindi anche un antimodello) di molte apoteosi successive: a Milano è dipinta l'apoteosi di Napoleone, sul Campidoglio di Washington quella del repubblicano Washington. Ma la trama del potere che Virgilio costruisce è più complessa e più sottile. Il suo è anche (per molti, oggi: soprattutto) un poema di esilio e di transizione, che all'ombra di un motto perentorio e mille volte sfruttato, la promessa di Giove ai Romani che il loro sarà un «impero senza fine», suggerisce riflessioni meno rassicuranti. Lo dice senza mezzi termini Agostino, quando la distruzione che Alarico infligge a Roma "eterna" nel 410 revoca in dubbio il valore delle parole di Giove. Anzi, lo fa dire a Virgilio stesso, il quale si assolve da ogni responsabilità osservando che, in fondo, è stato un dio pagano a sbagliare. E lo ripeterà con foga W. H. Auden nel 1959, rimproverando al poeta di immaginare un futuro che non si proietta oltre gli eventi della sua vita: «Neppure il primo dei Romani può imparare/ La sua storia romana al futuro». Per Auden, Alarico ha vendicato Turno, l'eroe latino sulla cui morte per mano di un Enea furente Virgilio sceglie ambiguamente di chiudere il poema. È su Virgilio, sull'Eneide, che si misurano la filosofia e la teleologia della storia.
La critica del dopoguerra ha messo in giusto rilievo molte delle tensioni e delle esitazioni ideologiche che rendono impossibile, o comunque tristemente riduttiva, una lettura dell'Eneide solo in chiave di panegirico (la reazione era dovuta, se solo si pensi allo sfruttamento fascista di Virgilio profeta della Terza Roma). Si erano già segnalate, però, ingegnose operazioni controcorrente. A inizio Quattrocento Maffeo Vegio, dotto monaco domenicano, compone un tredicesimo libro dell'Eneide che per qualche secolo avrà l'onore di essere stampato in appendice al capolavoro. Vegio regala ai lettori l'happy ending che manifestamente manca nell'originale. Turno viene sepolto con onore, Enea e Lavinia si sposano, assistiamo alla fondazione di Lavinio e all'apoteosi di Enea. Un finale dell'opera, insomma, che riscatta la violenza inscritta nelle omissioni di Virgilio, il quale non esitava a chiudere sull'orrore dell'uccisione di Turno e nulla dice né di Lavinia (un'assenza, un simbolo evanescente) né del destino di Enea.
Nella storia culturale dell'Eneide la dimensione politica assume un ruolo di primo piano che però non è esclusivo. L'Eneide è anche, per esempio, il racconto della tragica intersezione tra Storia e destino personale nell'amore di Didone ed Enea, sviluppato anch'esso sul filo di tensioni irrisolte che affascinano Chaucer e Tasso e Shakespeare. E mentre insiste sulla vittoria dell'ordine e la sconfitta del caos, l'epos celebra il ruolo ineliminabile delle passioni e degli istinti, trasfigurati nei venti che Eolo reprime a stento in una caverna, o nella violenza che anima le furie infernali al servizio dell'implacabile odio di Giunone. Sul frontespizio dell'Interpretazione dei sogni, datata 1900 con imprecisione tecnica ma suggestivo simbolismo, Freud, fa sue le parole di Giunone: «se non posso piegare gli dei superi, scuoterò l'Acheronte» e schiude le porte a una fase feconda della ricezione del poema, quella che ne rinnova la dimensione "classica" riconoscendone fino in fondo le ansie e le contraddizioni.

Philip Hardie, The Last Trojan Hero. A Cultural History of Virgil's Aeneid, London-New York, I.B. Tauris, £ 25,00

Il Sole Domenica 16.11.14
Pensare razionalmente
Danielle Macbeth, studiosa di Frege, parte anche stavolta dal grande matematico per riprendere la teoria della logica e Hegel
di Ermanno Bencivenga


Il confronto fra Hegel e la tradizione si svolge sul piano della logica: la dottrina del logos, del discorso significante. Da un lato la logica aristotelica, analitica, per cui il significato è un insieme di tratti, stabilito una volta per sempre (il significato di «umano» è «animale razionale») e in rapporto di irriducibile opposizione con tutto quanto ne viene escluso (un malato terminale di Alzheimer non è umano); dall'altro la logica dialettica hegeliana, per cui il significato è un processo narrativo che ripetutamente affronta crisi e contraddizioni e le supera, trascendendo sue fasi precedenti in una versione più matura (e un malato terminale di Alzheimer potrebbe rivelare una più elevata umanità).
Ove si escludano l'ingombrante presenza del pensiero marxiano e fenomeni periferici come il neoidealismo italiano di Croce e Gentile, la filosofia dell'ultimo secolo è vissuta nell'oblio, quando non nell'esplicita contestazione, di Hegel. Ciò nonostante, versioni e frammenti di logica dialettica sono emersi per ogni dove: negli spostamenti di Freud, nelle somiglianze di famiglia di Wittgenstein, nelle genealogie di Nietzsche e Foucault, nelle derive decostruzioniste. A rimanere indenne da questo contagio, finora, era stata la logica formale di matrice prima tedesca (Frege, Hilbert, Carnap) e poi angloamericana (Russell, Church, Kripke), governata da un aristotelico orrore per la contraddizione e quindi dolorosamente turbata dalla prova gödeliana che non sarà mai possibile, per nessuna teoria significativa, assicurarsi che la contraddizione non la infetti. In tempi recenti si è cominciato ad avvertire in proposito qualche cambiamento: logici formali come Robert Brandom e Graham Priest hanno preso ad analizzare testi hegeliani; si moltiplicano convegni sui rapporti fra logica dialettica e logica formale; ed escono libri, come Realizing Reason di Danielle Macbeth, che occhieggiano a un incontro fra Hegel e la logica contemporanea.
Macbeth è una studiosa di Frege, sul quale ha già pubblicato (nel 2005) Frege's Logic. E anche qui il suo lavoro è centrato su Frege, più precisamente su una dimostrazione contenuta in Begriffsschrift (Scrittura per concetti, 1879) che, sostiene Macbeth, per quanto condotta in modo rigoroso a partire da assiomi e definizioni, risulta estensiva della nostra conoscenza, nel modo in cui erano intesi essere i giudizi sintetici a priori di Kant (ma non quelli analitici, di cui dovrebbe essere costituito il sistema fregeano). Raccogliendo e articolando così la metafora dello stesso Frege che le sue conclusioni sono contenute nelle definizioni non come delle travi sono contenute in una casa, ma come delle piante sono contenute nei loro semi.
La metafora di Frege ha un ovvio sapore hegeliano e allude a uno dei punti forti della logica dialettica: Aristotele ha gravi difficoltà a dar conto dell'identità, diciamo, di Socrate a cinque anni con Socrate a settanta, perché ben pochi tratti rimangono in comune fra i due (e non abbastanza da distinguerli, diciamo, da Callia); per Hegel invece esempi del genere sono i benvenuti, perché quello che porta dal bambino all'adulto (o dal seme alla pianta) è un chiaro esempio di processo dialettico che afferma l'identità nella differenza (e nella crisi, e nella contraddizione). Non è un caso dunque che intorno a questa metafora Macbeth organizzi un testo che, pur citando una sola volta la sua (implicita?) fonte ispiratrice, è diviso in tre parti intitolate Percezione, Intelletto e Ragione a loro volta suddivise in tre capitoli; sostiene l'indispensabilità di una prospettiva storica per una comprensione dell'attività scientifica; e arriva a formulare iperboli sui risultati conseguiti mediante il processo storico che non sarebbero apparsi fuori posto nelle opere del maestro di Stoccarda: «solo con la realizzazione della ragione come potere di conoscenza possiamo considerarci conoscitori di cose in sé, le stesse per tutti gli esseri razionali».
Nei riguardi di tanto trionfalismo, però, Hegel sarebbe stato severamente critico: lo avrebbe considerato espressione di un'intenzione ancora (con buona pace di Macbeth) non realizzata. Il sistema logico di Frege, infatti (già vi accennavo), è governato dallo stesso rifiuto della contraddizione di quello aristotelico; ed è per questo motivo che la scoperta del paradosso di Russell (l'insieme di tutti gli insiemi che non si appartengono si appartiene e non si appartiene) ha sancito la bancarotta del programma logicista che su tale sistema era fondato. Perché si arrivi a un autentico incontro fra logica formale e dialettica, sarebbe necessario vedere quel paradosso (e ogni altro) con la stessa gioia con cui Hegel guardava all'insorgere di una contraddizione: non come a un malaugurato incidente di percorso ma come a una benefica sfida da affrontare e superare per passare a una fase più avanzata e consapevole del concetto.
Danielle Macbeth, Realizing Reason: A Narrative of Truth and Knowing, Oxford, Oxford University Press, pagg. xii+494, $ 60,00

Il Sole Domenica 16.11.14
Ridiscutere la bioetica
A guidare il prossimo convegno romano su questi temi sarà Francesco Paolo Casavola

Il suo ultimo libro ha il merito di porre questioni fondamentali
di Cinzia Caporale


La prossima settimana si svolgerà a Roma l'iniziativa del Semestre italiano di presidenza del Consiglio dell'Unione Europea dedicata alla bioetica, organizzata dalla presidenza del Consiglio dei Ministri e dalla Commissione europea e curata da Laura Palazzani, vicepresidente del Comitato nazionale per la bioetica (Cnb). La materia in sé non è ricompresa direttamente nei Trattati dell'Unione. Del resto, attribuirle un livello comunitario potrebbe far correre il rischio di un conflitto con i valori costituzionali degli Stati membri e, più in generale, con gli ambiti legislativi nei quali si esprime la loro dimensione valoriale e identitaria. Tuttavia, proprio per queste ragioni, le occasioni di dialogo tra le istituzioni nazionali per la bioetica e tra queste e i prestigiosi organismi europei a essa dedicati, costituiscono una vera opportunità.
Nel ventesimo incontro del National Ethics Councils (Nec) Forum e dello European Group on Ethics in Science and New Technologies (Ege), a guidare il Cnb sarà Francesco Paolo Casavola, presidente Emerito della Corte costituzionale, che lo presiede dal 2006, ovvero da nove dei ben venticinque anni di attività che verranno raggiunti nel marzo 2015.
Il suo ultimo libro, Bioetica. Una rivoluzione postmoderna, pone domande fondamentali, con un approccio non dogmatico e di grande interesse per la coesistenza ideale della diversità morale europea.
Secondo Casavola «quando dalla ricerca e dalla discussione si deve costruire una regola nelle grandi società democratiche del nostro tempo le ragioni dell'uomo devono essere condivise dalla maggior parte degli uomini». Tale affermazione deve tuttavia essere letta alla luce dell'insieme delle considerazioni che arricchiscono lo studio e che rinviano a suggestioni scientifiche avvincenti e a etiche in rapida evoluzione. L'Autore invoca una «rivoluzione culturale degna del nuovo millennio», che non limiti il progresso della scienza ma che al contempo non esaurisca l'uomo nella medesimezza con il corpo e in generale con la materialità.
In effetti, uno dei temi fondamentali del libro di Casavola è la questione del rapporto tra le costituzioni moderne, le dichiarazioni dei diritti dell'uomo, le religioni e il pensiero religioso.
Casavola mostra come concetti fondamentali quali la dignità della persona (fondamento della Grundgesetz della Germania moderna) e la libertà di coscienza abbiano origine nel pensiero giudaico-cristiano. Non si può non concordare con questa prospettiva. Ad esempio, è un fatto storico e non un'interpretazione di stampo religioso che il principio di eguaglianza nei diritti, che costituisce una delle colonne portanti delle costituzioni degli Stati nazionali, deriva dal principio cristiano per cui ogni persona ha un'anima individuale e che ogni anima ha lo stesso valore. Ciò è vero nella tradizione costituzionale degli Stati Uniti («All men are created equal», afferma la Declaration of Independence del 1776) ed è vero anche nella tradizione costituzionale francese: «Les hommes naissent et demeurent libres et égaux en droit», come afferma la Declaration des droits de l'homme et du citoyen del 1789. Come ha ben scritto Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l'Unesco, «è stato il Cristianesimo a rivendicare il valore della persona umana, ad affermare che essa ha un valore assoluto, perché la persona essendo ordinata a un fine trascendente, che è Dio, non è subordinata a nessuna finalità mondana: di qui la condanna di ogni assolutismo politico (totalitarismo), di ogni assolutismo statale (statolatria), di ogni assolutismo familiare (schiavitù)».
Casavola, ripercorrendo alcuni momenti cruciali della storia del rapporto tra religione e politica, evidenzia con maestria le diverse forme istituzionali che esso ha assunto. Ad esempio, nel ricordare il Bill of Rights della costituzione degli Stati Uniti che nell'articolo 1 stabilisce che «Il Congresso non potrà fare alcuna legge per il riconoscimento di qualsiasi religione, o per proibire il libero culto», egli sottolinea come questa disposizione fosse figlia delle guerre di religione e volta a evitare che esse si ripetessero sul suolo americano. Si può forse aggiungere come questa non fu la sola motivazione. Perché l'altra motivazione fu di garantire i principi del limited Government: ovvero di evitare che il nascente governo degli Stati Uniti si potesse basare su di una singola religione riconosciuta per aumentare i suoi poteri e riprodurre così il modello degli Stati assoluti europei.
Vi è senz'altro una nota critica nel giudizio di Casavola di come la questione della libertà religiosa venga oggi posta nel pensiero politico-costituzionale contemporaneo. Accortamente, evidenzia il fatto che «anche negli Stati liberali la libertà di religione sembra essere il corollario del principio di eguaglianza e di non discriminazione dei cittadini, piuttosto che la predisposizione di una garanzia all'esercizio libero di una forte religiosità». Casavola sottolinea come sia questa anche la visione della Costituzione europea, la quale «esprime la riluttanza a riempire di contenuti attivi la libertà di religione». Il giudizio di Casavola sembra così negativo nei confronti di questa tendenza della politica contemporanea. Una tendenza – va sottolineato – che non ha nulla a che vedere con il principio di laicità correttamente inteso. Il principio di laicità si oppone al fatto che una religione come istituzione governi la cosa pubblica. Ma non si oppone affatto a che i valori di una o più religioni innervino sia la società civile, sia la politica e le sue decisioni democratiche. In questo la visione di Casavola concorda con quella di una maestro liberale del costituzionalismo, Nicola Matteucci.

Francesco Paolo Casavola, Bioetica. Una rivoluzione postmoderna,
Salerno Editrice, Roma, € 7,90. http://www.governo.it/bioetica/

Il Sole Domenica 16.11.14
Il rapporto tra Freud e il Duce
di Giorgio Dell'Arti


Einstein Incontro tra Freud e Einstein, il 28 dicembre 1926, a Berlino, in casa del figlio Ernst. Il giorno dopo Freud scrisse alla figlia Anna: «Einstein era molto interessante, sereno, felice, abbiamo parlato per due ore, anche discusso, molto più sull'analisi che sulla teoria della relatività. Sta leggendo, naturalmente non ha convinzioni, ha l'aspetto più vecchio di quanto avessi pensato».
Savinio Savinio, avendo scritto su un settimanale che Leopardi era morto per un'insistente "cacarella", Mussolini fece chiudere il settimanale e vietò a Savinio di scrivere su qualunque altro giornale o rivista d'Italia.
Gestapo Il 15 marzo 1938 la Gestapo perquisì l'appartamento di Freud e la sede della sua casa editrice, la Psychoanalytisches Internationales Verlag, gestita dal figlio Martin. La figlia Anna fu costretta ad aprire la cassaforte e i nazisti rubarono tutto il denaro.
Espatrio «Posso raccomandare la Gestapo a chicchessia» (dichiarazione che Freud dovette rilasciare per poter ottenere il nulla osta necessario per l'espatrio).
Forzano Mussolini cercava gloria anche come scrittore e assoldò a questo scopo Giovacchino Forzano, incontrato all'Opera di Roma all'inizio del 1923 in occasione della prima de I compagnacci di Primo Riccitelli, di cui Forzano aveva scritto il libretto. Il 7 luglio 1929, Mussolini affidò a Forzano la stesura di un dramma sulla fine di Napoleone, da trattarsi, a onta della verità storica, facendo perno sul tradimento. Il dramma, intitolato Campo di maggio, andò poi in scena nel 1931 e Forzano ne scrisse a Ugo Ojetti, il quale registrò nel suo diario: «La sera della prima Mussolini mandò la famiglia in palco (era andato alla prova generale), provò ad andare a un altro teatro; ma non era finito il primo atto che nervoso egli si presentò all'Argentina, e rimase in fondo al palco ad ascoltare. "Sembrava un giovane autore, – dice Forzano – contava le chiamate, criticava gli attori". Il giorno dopo lo chiamò. Volle fare aggiungere due battute, quella, fra l'altro in cui Napoleone si duole di non aver avuto fiducia nell'Italia e nella sua unità, ché l'Italia gli sarebbe stata fedele. E il pubblico applaude sempre a quella tirata che è l'opposto della verità storica. Il pubblico, si vede, egli lo conosce bene».
Dedica Nella traduzione tedesca, che Forzano portò in dono a Freud, l'opera risultava scritta, oltre che da Forzano, anche da Mussolini. La dedica di Mussolini e Forzano a Freud: «A Sigmund Freud / che renderà migliore il mondo, / con ammirazione e / riconoscenza / Vienna 26 aprile 1933 XIo Benito Mussolini und G. Forzano».
Controdedica «A Benito Mussolini coi rispettosi saluti di un vecchio che nel detentore del potere riconosce l'eroe della civiltà» (dedica scritta da Freud sul frontespizio di un libro mandato in regalo a Mussolini nel 1933).
Offensivi Nelle due informative diffuse dal ministero dell'Interno il 22 e il 23 gennaio 1940, si leggeva che in Italia i libri di Freud e quelli di psicoanalisi in generale erano proibiti, perché l'autore era ebreo e perché «offensivi per la religione cristiana». Freud era già scappato in Francia da due anni.

Fatti tratti da: Roberto Zapperi, Freud e Mussolini. La psicoanalisi in Italia durante il fascismo, Franco Angeli, Milano, pagg. 144, € 18,00

Il Sole Domenica 16.11.14
Corrado Passera
Proposta fuori dal Pd
di Sabino Cassese


C'erano una volta i programmi dei partiti politici, lunghi elenchi di aspirazioni e promesse, destinate a non essere mantenute. Ora, i partiti come organizzazione non esistono. Neppure esistono i partiti come movimenti politici. Restano i partiti come séguito elettorale di "leaders". Quanto ai programmi, si sono ridotti a slogan. Nel deserto della politica, è utile che qualcuno si cimenti con la prospettazione di nuovi futuri per l'Italia, come ha fatto, con questo libro, Corrado Passera.
L'autore del libro non è un politico di professione. È passato attraverso moltissime esperienze professionali, nel settore pubblico e in quello privato. Ha lavorato alla McKinsey, alla Cir, alla Olivetti, alla Mondadori, al Gruppo editoriale L'Espresso, è stato presidente di Poste italiane, amministratore delegato di Intesa San Paolo, ministro dello Sviluppo economico, delle infrastrutture e dei trasporti. Negli ultimi anni si è dedicato alla cosa pubblica, all'inizio di quest'anno ha fondato il movimento "Italia Unica", ha girato l'Italia raccogliendo aspirazioni, lagnanze, proposte, progetti, testimonianze. Infine, ha disegnato un nuovo futuro per l'Italia, che ha raccolto in questo libro-manifesto politico, dove si parla di tutto, anche della raccolta differenziata dei rifiuti, ma con la preoccupazione costante di presentare una visione complessiva in cui tutto si tiene. Ne è uscito un libro nello stesso tempo realistico e utopistico, pieno di proposte interessanti, con frequenti citazioni di esperienze straniere da cui imparare e con riferimenti a concrete esperienze di successo (di particolare importanza le dieci pagine dedicate all'esperienza di Passera alle Poste, che sono un piccolo esempio di come far funzionare una struttura appesantita dalle invadenze sindacali e partitiche, nel momento nel quale stava per perdere la sua funzione principale, quella del trasporto e della distribuzione della posta).
Passera, senza timidezza, fa una carrellata che comprende tutti i problemi dell'Italia, cominciando dal suo declino (disoccupazione, debito pubblico, invecchiamento della popolazione, Stato che non funziona, giustizia lenta, inadeguatezza della classe dirigente). Poi passa a quelli che lui chiama i cinque "piloni" del ponte per tirar fuori l'Italia dalla crisi. Questi sono l'economia (qui propone una scossa che muove dalla mobilitazione di 500 miliardi per lo sviluppo), la semplificazione delle istituzioni (attraverso revisione delle procedure, merito, trasparenza, monocameralismo e un sistema elettorale maggioritario a doppio turno di coalizione), la società (dove propone nuove idee e rispolvera vecchie proposte per la scuola, il lavoro, la ricerca, turismo, artigianato e ambiente), lo Stato sociale (sanità, pensioni, famiglia, povertà, diritti, giustizia), l'Italia in Europa.
Lo scopo di questo libro-manifesto è quello di «presentare una proposta politica alternativa a quella del Pd socialista e del suo segretario» (p. 205). Una proposta destinata ad attrarre l'elettorato che non si riconosce in un voto "socialista" e tanto meno grillino o leghista e che in buona parte non è andato a votare, o ha votato scheda bianca o nulla, o ha votato Pd solo per evitare la crescita eccessiva di Grillo. Un elettorato che per Passera potrebbe costituire qualcosa di più di un quinto del Paese, a cui viene così presentata una offerta politica finora inesistente.
Il lettore di questa nuova offerta politica si fa due domande. La prima: riuscirà questa proposta a giungere a quel quinto degli elettori italiani ai quali è destinata, a convincerli, a spingerli a dare un appoggio al progetto, a produrre un successivo ampliamento del consenso, tale da consentire il suo successo? La seconda: se questo progetto è destinato ad avere successo, con quale calendario sarà applicato? Quali saranno le priorità, le persone che saranno chiamate ad attuarlo, quali i mezzi per tradurlo in pratica?
Se la buona politica si nutre di idee, specialmente se maturate nell'esperienza e se affidate a chi conosce uomini, ambienti, culture diverse, questo libro è un eccellente inizio.

Corrado Passera, Io siamo.  Insieme per costruire un'Italia migliore, Milano, Rizzoli, 2014, pagg. 213, € 15,00

Il Sole Domenica 16.11.14
Pisa
Modigliani a Parigi
A Palazzo Blu opere dell'artista e dei colleghi dei mitici anni parigini (1906-20) con notevoli prestiti dal Centre Pompidou
di Anna Orlando


Scandali e scalpore accompagnano Amedeo Modigliani, in vita, come dopo la morte. Dalla prima personale, alla galleria di Léopold Zborowski di Parigi, nel 1917, quando i suoi nudi femminili irriverenti, sintetici eppure suadenti sconvolgono la borghesia bene della città, tanto da fare intervenire i gendarmi; al suicidio del l'amata Jeanne che si getta nel vuoto con in grembo il loro secondogenito che non vedrà la luce, due giorni dopo la morte del pittore, a trentacinque anni per una meningite tubercolare, nel 1920. È la stessa Jeanne che ha fatto registrare un prezzo record di 26 milioni di sterline nel l'asta londinese di Christie's nel 2013, e che appare, su una piccola tela del 1918 proveniente dal Musée d'art Moderne di Troyes tra i capolavori della mostra «Amedeo Modigliani et ses amis», allestita sui due piani di Palazzo Blu, sul lungarno di Pisa, fino al 15 febbraio (info: www.modiglianipisa.it).
La ragazza dalle lunghe trecce, con un grande cappello sopra l'ovale del viso su cui spiccano due occhi azzurri a mandorla e un accenno di sorriso, fa parte di una sequenza di volti femminili e maschili con cui chiude la mostra, il cui percorso, di sala in sala, prepara il visitatore alla forza espressiva di queste opere mature, degli anni 1915-1919, gli stessi in cui infuriava la Prima guerra mondiale.
Modì resta saldamente ancorato alla figura, pur passando attraverso il cubismo e osservando da vicino il primo astrattismo dell'arte moderna che maturava proprio a Parigi, dove arriva nel 1906. Se mai, trova la più originale sintesi tra astrazione e figurazione, quella per cui ha un posto tutto suo nella storia dell'arte, rendendo così reale e al tempo stesso evanescente l'uomo o la donna che posano per lui: Dédie, dolce e malinconica nel suo inclinare il viso; Gaston Modot, il regista, sceneggiatore e attore, ieratico come una scultura nella tela del Pompidou del 1918; il Giovane apprendista dell'Orangerie, dipinto tra il '17 e il '19, quando le campiture piatte del colore palesano la meditazione sul l'opera di Cézanne, in modo del tutto simile al Ragazzo coi capelli rossi del Pompidou, 1919, quando la luce del Midì riscalda gli incarnati, senza che si dilegui la malinconia di un volto che si staglia sulla neutralità incolore del fondo.
Dieci ritratti della maturità accostati a un Nudo sdraiato del 1917 in prestito dalla Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli di Torino e a una decina di disegni che mostrano il primo approccio del pittore al ritratto, con lo studio della posa e dei tratti essenziali dell'effigiato, concludono una retrospettiva capace di accompagnare per mano il visitatore attraverso le fasi veloci della sua maturazione artistica. In continuo dialogo visivo tra sculture, dipinti e disegni, e con le opere dei suoi amici Raoul Dufy, Chaim Soutine, Susanne Valadon, Moïse Kisling, André Derain, Léopold Survage, ma anche Pablo Picasso, Juan Gris, Fernand Léger e Gino Severini.
E poi gli scultori: dall'anonimo autore di una maschera africana del Gabon, ai cubisti Jaques Lipchitz, Henri Laurens e Ossip Zadkine, fino al rumeno Costantino Brancusi. La sala dedicata al dialogo Modigliani-Brancusi, dove sculture e fogli propongono forme e linee ricche di rimandi reciproci, è una delle più belle della mostra.
Jean-Michel Bouhours, conservatore delle collezioni moderne del Musée del Centre Pompidou, partner organizzativo con Fondazione Palazzo Blu e Mondo Mostre, e grazie a cui si devono tanti e tali prestiti importanti da collezioni pubbliche e private di Parigi e del resto della Francia, è riuscito a costruire un percorso critico senza sbavature e senza divagazioni del fatto artistico. Così, avendo tutti ben a mente la formula classica e matura del più tipico Modigliani dei ritratti con i volti allungati e sognanti, i visitatori passeranno dalle primissime opere ancora in Italia, quando la lezione di Guglielmo Micheli a Livorno lo instrada verso la pittura di paesaggio dei macchiaioli, fino all'arrivo a Parigi nel 1906. Ha solo ventidue anni. Ma è nel posto giusto al momento giusto.
E il suo talento trova spazio, facendo breccia tra i disagi di una vita nella malattia e nella povertà. Con i primi ritratti del 1909, tre prestiti eccezionali di collezione privata e della Fondazione Pierre Giannadda di Martigny, nelle superfici ruvide di una materia grossolana sulla tela, già s'intuisce dove il pittore sarebbe andato a parare: sguardi malinconici che ipnotizzano, tratti essenziali e decisi del pennello, un segno nero che profila la forma e la costruisce nella bidimensionalità; tinte ribassate nella fierezza di un colore vivo.

Amedeo Modigliani et ses Amis,  a cura di Jean-Michel Bouhours, Pisa, Palazzo Blu, fino al 15 febbraio 2015. Catalogo Skira