martedì 18 novembre 2014

La Stampa 18.11.14
Madia: “Non ci sono risorseper sbloccare i contratti pubblici”
I contratti della Pubblica amministrazione sono fermi da sei anni
Incontro con i sindacati. Camusso: confermate le ragioni dello sciopero
di Francesca Schianchi


Non ci sono le risorse per sbloccare i contratti dei dipendenti pubblici nel 2015. Ma c’è un impegno: nessun esubero. Nonostante il superamento delle province e la razionalizzazione della Pubblica amministrazione, «nessuno andrà a casa». Anzi, il governo ribadisce la volontà di «assumere i vincitori per concorso e i precari della scuola». Sono i punti fermi che il ministro della PA Marianna Madia ha chiarito ieri sera ai segretari di Cgil, Cisl, Uil e Ugl, convocati per un paio d’ore a Palazzo Chigi alla presenza del sottosegretario Delrio. A loro il ministro ha proposto anche di incontrarsi di nuovo «per discutere insieme le regole del gioco», cioè di lavorare insieme alla normativa del contratto del pubblico impiego. Un’apertura che non cambia però il segno dell’incontro, bollato alla fine come deludente e insoddisfacente dai sindacalisti.
«E’ un incontro di cortesia o una nuova stagione?», chiede nel suo intervento la leader Cgil Susanna Camusso. «Non è un incontro di semplice cortesia; quanto alla stagione, io so solo che siamo in autunno», la risposta ironica ma ferma del ministro. L’appuntamento era fissato per parlare del disegno di legge delega sulla Pa, «l’occasione per parlare della riforma e riaprire il tavolo del contratto», si augura alla vigilia dell’incontro il segretario della Cisl, Annamaria Furlan, perché «non è possibile che in una finanziaria da 36 miliardi anche questa volta siamo al blocco del pubblico impiego». Speravano in uno sblocco del contratto, i sindacalisti, ma il ministro non li ha accontentati. Il ragionamento che porta a dire che no, non è possibile, è che le priorità sono altre, dinanzi a dati ancora preoccupanti della disoccupazione, a persone che rischiano il lavoro e altre che guadagnano troppo poco.
«La riapertura del contratto del pubblico impiego è nell’agenda di governo, ma per il 2015 non sono previste in bilancio risorse per i rinnovi», spiega quindi chiaramente il ministro ai segretari riuniti – oltre alla Camusso e alla Furlan, ci sono Carmelo Barbagallo della Uil e Paolo Capone dell’Ugl -, gelando le loro aspettative, «anche noi sappiamo che il contratto del pubblico impiego bloccato da sei anni è un problema. Ma abbiamo scelto di concentrare le risorse su chi stava peggio», considerato anche che «i bonus degli 80 euro andranno a un lavoratore pubblico su 4, circa 800mila dipendenti pubblici».
Posizioni che deludono i sindacalisti. «Al di là del bel modo con cui vengono detti i “no”, non abbiamo alcuna novità positiva», giudica alla fine la Furlan. «Qualche auspicio sul futuro, nessuna risposta», aggiunge la Camusso, che considera «discutibile» la dichiarazione della Madia sugli 80 euro: la Cgil ha già proclamato lo sciopero generale per il 5 dicembre, e «l’esito della riunione conferma le ragioni dello sciopero». Ma non è detto che altri non seguiranno quella strada. Potrebbe farlo l’Ugl. Convocherà lo sciopero anche la Cisl? «Saranno le categorie a decidere che fare visto l’andamento dell’incontro», lascia aperta ogni possibilità la Furlan.

il Fatto 18.11.14
Pubblico impiego, il governo chiude
Sciopero più vicino


PER SUSANNA CAMUSSO si è trattato di “qualche auspicio ma nessuna risposta”. La più moderata Annamaria Furlan, della Cisl, ha parlato di “modi cortesi” ma nessuna novità. Anche per la Uil non c’è stato “nessuna novità di merito”. Sugli Statali, ancora fumata nera tra governo e sindacati. “Possiamo dire che è stato un incontro che nella parte conclusiva ha avuto qualche auspicio e nessuna risposta” ha commentato la leader della Cgil. “Non abbiamo risposte - ha aggiunto - che siano all’altezza della grande manifestazione che i lavoratori pubblici hanno tenuto lo scorso 8 novembre”. Unica novità positiva, ha chiosato, è che l’incontro “è stato di quasi...due ore”. Delusione anche dalla Cisl che sottolinea come il governo continui a dire che “gli 80 euro compensino il mancato contratto”. Ed è la Cisl a ipotizzare la protesta sindacale:“Decideranno le segreterie perchè l’unico impegno del governo non può essere quello di un rinnovo del contratto solo se passa la crisi" ha precisato Furlan. Lo sciopero generale unitario del pubblico impiego è ora una possibilità concreta oltre a quello della Cgil del 5 dicembre.

il Fatto 18.11.14
Sciopero Cgil, per il Garante è quasi illegittimo


LO SCIOPERO GENERALE del 5 dicembre, proclamato dalla Cgil, è “parzialmente illegittimo”. Lo ha deciso l’Autorità di garanzia per gli scioperi, specificando che alcuni settori andranno esclusi dallo sciopero, a partire dall’intero comparto del trasporto ferroviario. Inoltre, in alcune Province non si potrà scioperare con riferimento al trasporto locale. Il problema si pone in relazione al regolamento secondo cui più scioperi non possono insistere sullo stesso bacino di utenza e devono rispettare gli “intervalli minimi” tra uno sciopero e l’altro. Nei trasporti si tratta di quindici giorni. Nell’ultima settima di novembre e nelle prime due di dicembre sono previsti numerosi scioperi del trasporto locale (Firenze, Napoli, Roma. Bergamo) scioperi regionali e uno sciopero nazionale nel trasporto aereo il 15 dicembre.

Repubblica 18.11.14
Quei lavoratori poveri
di Luciano Gallino


UNO dei principali esiti del Jobs Act, a danno dei lavoratori, sarà la liquidazione di fatto del contratto nazionale di lavoro (cnl), in attesa di una legge — di cui il governo parlerà, sembra, a gennaio — che ne sancisca anche sul piano formale la definitiva insignificanza rispetto alla contrattazione aziendale e territoriale. D’altra parte la strada verso tale esito nefasto era già stata tracciata dagli accordi interconfederali del giugno 2011 e del novembre 2012 (non firmato dalla Cgil). In essi venivano assegnate al cnl dei compiti del tutto marginali rispetto alla sua funzione storica: che sta nel difendere la quota salari sul Pil, cioè la parte di reddito che va ai lavoratori rispetto a quella che va ai profitti e alle rendite finanziarie e immobiliari. Grazie al progressivo indebolimento del cnl, dal 1990 al 2013 tale quota è diminuita in Italia di circa 7 punti, dal 62 per cento al 55. Si tratta di oltre 100 miliardi che invece di andare ai lavoratori vanno ora ogni anno ai possessori di patrimoni, dando un contributo di peso all’aumento delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza. Questo spostamento di reddito dal ai profitti e alle rendite ha pure contribuito alla contrazione della domanda interna. Un top manager può pure guadagnare duecento volte quel che guadagna un suo dipendente, ma quanto a consumi quotidiani, dagli alimentari ai trasporti, non potrà mai rappresentare una domanda pari a quella di duecento dipendenti.
Oltre che tra i lavoratori e le classi possidenti, le disuguaglianze aumenteranno tra gli stessi lavoratori. La facoltà conferita alle imprese, comprese decine di migliaia medio-piccole, di regolare mediante accordi sindacali anche locali sia il salario, sia altre condizioni cruciali del rapporto di lavoro, avrà come generale conseguenza una ulteriore riduzione dei salari reali e con essi della quota salari sul Pil. In fondo, è uno degli scopi del Jobs Act, anche se non si legge in chiaro nel testo. Ma ciò avverrà, quasi certamente, con differenze rilevanti attorno alla media tra le imprese che vanno bene e le tante altre che arrancano. Queste si gioveranno della suddetta facoltà per pagare salari che in molti casi collocheranno i percipienti al disotto della soglia della povertà relativa, che nel 2013 era fissata in circa 1.300 euro per una famiglia di tre persone. Si può quindi stimare che il numero di “lalavoro voratori poveri” aumenterà in Italia in notevole misura. Alle disuguaglianze di reddito tra un’azienda e l’altra, a parità di lavoro, si aggiungeranno quelle territoriali, quelle che un tempo il cnl doveva servire a superare, stabilendo quanto meno una base salariale per tutti.
Va però notato che il regime di bassi salari, introdotto di fatto dal decreto sul lavoro, ostacola fortemente anche la modernizzazione delle imprese e danneggia l’intera economia. Le imprese italiane — con rade eccezioni — si collocano da anni tra le ultime della Ue quanto a spesa in ricerca e sviluppo; tasso di investimenti fissi; età degli impianti; innovazione di prodotto e di processo. Nonché, guarda caso, per la produttività del lavoro. Dagli anni 90 in poi le spese in ricerca, sviluppo e investimenti fanno registrare entrambe un patetico zero virgola qualcosa. L’età media degli impianti è il doppio di quella europea, più o meno 25-28 anni contro 12-15. Inoltre le imprese italiane sono, in media, troppo piccole. Risultato: l’aumento della produttività del lavoro segna anch’esso uno zero virgola sin dagli anni 90.
Varando delle leggi sul lavoro che consentono un uso sfrenato del precariato, evitando di impegnarsi in qualsiasi azione che assomigli a una politica industriale, i governi italiani hanno efficacemente contribuito a mantenere le imprese italiane nella condizione di ultime della classe. Il Jobs Act offre ad esse un aiuto per mantenersi in tale posizione. Si può infatti essere certi che ove la legge permetta loro di pagare salari da poveri quattro imprese su cinque utilizzeranno tale facilitazione e non spenderanno un euro in più in ricerca, sviluppo e investimenti, rinnovo degli impianti, innovazioni. E l’aumento annuo della produttività del lavoro, che è strettamente collegato a tali voci, resterà nei pressi dello zero.
C’è in ultimo da chiedersi se gli estensori del Jobs Act abbiano un’idea di quanto siano oggi numerosi e complessi i fattori della produttività del lavoro: essa è seriamente misurabile solo a livello nazionale, mentre a livello di impresa, in specie se medio-piccola, misurare stabilmente e per lunghi periodi la produttività del lavoro, è come cercare di catturare un ologramma con una canna da pesca. Qualsiasi bene o servizio un’impresa produca, è ormai raro che se lo produca per intero da sola. La maggior parte dei componenti arriva da altre imprese. Innumeri prodotti, dai gamberetti alle camicie, percorrono migliaia di chilometri in aereo o per nave prima di arrivare nei nostri negozi. Un piccolo elettrodomestico da cinquanta euro, assemblato da ultimo da una casa italiana per essere venduto nei supermercati, capita sia costituito di un centinaio di pezzi provenienti da dieci paesi diversi. In tali complicatissime “catene di produzione del valore” come sono chiamate, interamente fondate sull’informatica, può avvenire di tutto. Che un componente ritardi; che non sia quello giusto; sia guasto; abbia cambiato di prezzo rispetto al contratto; richieda macchinari non previsti per essere rifinito o assemblato; ecc. Tutti questi inconvenienti incidono ovviamente sulla produttività dell’impresa finale. E non sono l’ultimo motivo per cui la produttività del lavoro aumenta annualmente dello zero virgola nelle imprese italiane. Le quali, temo, cercheranno invano nel Jobs Act, come si fa a misurarla davvero, e magari come si fa ad aumentarla. Senza di che i nuovi “lavoratori poveri”, in tema di frutti della produttività, avranno ben poco da spartirsi.

La Stampa 18.11.14
E Renzi registra il primo calo della fiducia
di Marcello Sorgi


La visita del sottosegretario alla presidenza del consiglio Graziano Delrio in Liguria nelle zone investite dal maltempo, e l’annuncio che il governo farà in modo di consentire ai comuni piu danneggiati di sforare i limiti del patto di stabilità, per consentire i primi interventi, hanno cercato di mettere un argine all’alluvione di chiacchiere seguita a quella di pioggia e di fango dei giorni scorsi. Per la prima volta infatti l’assenza di Renzi, impegnato a Brisbane nel G20, ha avuto l’effetto di sottolineare le difficoltà del governo, finito nel mirino delle amministrazioni locali e della gente in attesa di soccorsi. Fin dall’inizio la rabbia delle persone colpite, soprattutto in Liguria, s’è indirizzata contro i sindaci (a Genova, Doria, ne ha fatto le spese in prima persona). Ma quando il premier ha scaricato la colpa del dissesto del territorio sulle regioni, comprese quelle di sinistra, la reazione dei governatori, in prima linea quello della Liguria Burlando e quello della Toscana Rossi, è stata durissima. Sotto accusa sono finiti i condoni edilizi che negli ultimi vent’anni per tre volte, con Craxi, Dini e Berlusconi, avevano consentito di sanare abusi intollerabili; e il decreto “SbloccaItalia”, nelle pieghe del quale, sostengono i governatori - e il ministro dei lavori pubblici Lupi ha dovuto smentire - annidato una specie di nuovo condono mascherato.
Ma dietro la polemica che ha visto opposti a Renzi due governatori che provengono dall’area di minoranza del Pd c’è una questione che è emersa nel giro di due settimane e sta creando timori a qualsiasi livello: l’improvvisa recrudescenza, non legata solo al maltempo, di fasce sociali che si sentono vittime della congiuntura economica negativa e considerano insufficienti le politiche del governo. Le manifestazioni di sabato scorso in tutta Italia, sommate all’esplosione delle periferie urbane per l’occupazione delle case o per l’invasione di immigrati che i centri di accoglienza non riescono a trattenere, delineano un fenomeno in crescita e difficilmente affrontabile. I tentativi di gestirlo, dei sindaci, come Doria a Genova, alle prese con il maltempo, o come Marino a Roma, preso di mira dalla rabbia delle periferie, si sono rivelati fallimentari, ma anche quelli delle opposizioni di cavalcarlo. Ieri a Tor Sapienza, dove il ministero dell’Interno è dovuto intervenire per trasferire un gruppo di immigrati, una delegazione del Movimento 5 stelle è stata respinta, all’urlo di “non vogliamo politici”, né più né meno come era accaduto a Grillo in Liguria. Una reazione che si riflette anche su Palazzo Chigi: non a caso i sondaggi del fine settimana segnalano per la prima volta una flessione degli indici di fiducia in Renzi e nel suo governo.

il Fatto 18.11.14
Renzi perde quota e i gufi preparano il blitz
La squadra del premier minimizza il calo nei sondaggi: “Abbiamo tutti contro”
Alle regionali si teme il flop affluenza
Jobs act, nuovo scntro con Ncd
di Wanda Marra


Avere un partito presumibilmente al 36% è comunque un buonissimo risultato. I sondaggi cambiano nel tempo e l’esperienza dimostra che anche i sondaggisti sbagliano”. La versione ufficialmente rassicurante è affidata al ministro Boschi. Il premier è in Australia, i renziani ostentano sicurezza, ma il nervosismo è evidente dal tono teso e evasivo delle risposte. Domenica Repubblica (non certo giornale nemico) fotografava un calo di 10 punti nel gradimento del premier (dal 62 al 52 per cento da ottobre a novembre), con relativa discesa del Pd al 36,6%. “I sondaggi? Un sondaggio”, commenta un alto dirigente Dem, mentre mira a chiudere la comunicazione. Dario Parrini, fedelissimo del premier e segretario Pd Toscana, snocciola una serie di altri dati: l’Ixe registra un 38,6% (-0,4%), Swg 39,9 % (-0,2%), Datamedia 39,7 (-0,3%) e Piepoli 40,5% (+0,5%). Ma un’altra voce dai piani alti di Palazzo Chigi: “Che dobbiamo fare? In un momento di tensione sociale come questo, con l’economia che non riparte e gli effetti dei provvedimenti che non si vedono, un calo del gradimento è inevitabile”. Ammissioni pesanti, che fotografano un dato di realtà inoppugnabile. “Cosa facciamo? Andiamo avanti per la nostra strada, a partire dal Jobs act”. Sicuri che la riforma del lavoro invertirà la tendenza? Momento di pausa. “Noi dobbiamo fare le cose”.
IL RENZIANO doc per natura getta il cuore oltre l’ostacolo. E soprattutto, va avanti per la sua strada. “Continuiamo come rulli compressori. In Italia, chiunque provi a cambiare, si trova davanti l’alzata di scudi delle categorie. Abbiamo tutti contro”. Però, “se si dovesse andare a votare, di certo il dissenso rientrerebbe”. Sempre le elezioni sullo sfondo, come scialuppa di salvataggio.
Intanto, a votare per le Regionali ci si va domenica, in Emilia Romagna e Calabria. In Emilia, il risultato che dà per vincente il candidato Pd, Stefano Bonaccini è scontato. Ma l’affluenza preoccupa. “È mancato un progetto e per questo mancherà anche il voto”, diceva ieri a Repubblica, Matteo Richetti, il deputato emiliano che si è ritirato dalle primarie. E tra i Dem, il timore che l’affluenza scenda addirittura al di sotto del 50% è diffuso. “Vinceremo? Sì. La bella figura la facciamo un’altra volta”, commenta un giovane onorevole emiliano. Come molti sono convinti che ci sarà un exploit della Lega. In Calabria il candidato Mario Olivero è un non renziano: anche lui vincerà, ma non sarà una vittoria del Pd del segretario-premier.
SULLA LEGGE di stabilità, intanto, il Pd non renziano, quello della minoranza non dialogante, ma di opposizione, annuncia battaglia. Oggi ci sarà una conferenza congiunta di Stefano Fassina, Pippo Civati, Gianni Cuperlo. Primi firmatari (con loro, tra gli altri, Dattorre, Bindi e Pollastrini) di una serie di emendamenti alla legge di stabilità che sono stati presentati in Commissione Bilancio. Uno, soprattutto, può mettere in difficoltà il governo: quello che chiede di introdurre l’Isee per il bonus di 80 euro. Un modo per estenderlo agli incapienti, dai disoccupati ai pensionati. Modifica “non segnalata” dal gruppo Dem, che dovrebbe essere fatta propria da Sel. E il governo, sono convinti i presentatori, potrebbe andare sotto, grazie anche ai voti di FI. Altro cavallo di battaglia è quello che chiede il finanziamento della riforma degli ammortizzatori sociali per la riforma del lavoro. Francesco Boccia, in quanto Presidente della Commissione Bilancio, non li ha firmati. Ma non nasconde il fatto di essere d’accordo. “Riportare il Pd nell’alveo del centrosinistra”, è l’appello che ha lanciato all’Huffington post agli stessi Civati, Cuperlo, Fassina e ai bindiani per dar vita a un “coordinamento” tra quelli che “non si arrendono al pensiero unico”. Il coordinamento è già in piedi: sono state fatte una serie di riunione sulla manovra. Boccia, che comunque assicura sia “lealtà” che “velocità” nel cammino della Stabilità in Commissione, avverte: “Se si va al voto anticipato, prima il congresso”. E Ncd torna a minacciare battaglia sul jobs act, dopo che il governo annuncia l’emendamento sull’articolo 18 per i licenziamenti disciplinari che recepisce l’odg della direzione Pd. I fronti aperti aumentano.

La Stampa 18.11.14
Nove mesi di Renzi, dalle slide al pantano
Aveva debuttato con la sfrontatezza del rottamatore pronto a debellare vent’anni di colpevole immobilismo. Ma ora è già ostaggio di vertici e verifiche, di alleati e minoranze. Come ai tempi della vecchia politica
di Mattia Feltri

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Repubblica 18.11.14
Le elezioni di “midterm” un test per Renzi e per la tenuta del suo governo
Se Salvini sconfiggerà Grillo, il voto regionale risolverà alcuni problemi al premier ma gliene creerà di nuovi
di Stefano Folli


ILNOVEMBREd i Renzi non è fatto solo di alluvioni, screzi sulla riforma del lavoro, rivolta nelle periferie e qualche passo indietro nei sondaggi. C’è anche un miniappuntamento elettorale domenica prossima che è quasi un “midterm” nostrano, sia pure molto circoscritto.
Si vota come è noto in Emilia Romagna e in Calabria, due segmenti significativi dell’Italia di oggi. Troppo poco, certo, per confermare o smentire la mappa politica emersa nelle elezioni europee di maggio. Ma abbastanza per richiamare l’attenzione del premier di ritorno dall’Australia. Ovvio che la tendenza all’espansione dei consensi prima o poi doveva arrestarsi e in fondo le percentuali di Renzi restano alte, grazie anche all’assenza di alternative. Tuttavia l’impressione è che l’opinione pubblica, a questo punto, abbia voglia di vederci chiaro nel fenomeno politico del 2014.
Il giudizio sul personaggio diventa più maturo, meno condizionato dal dinamismo mediatico. E le difficoltà dell’autunno, in qualche caso più drammatiche del previsto, servono a misurare meglio i fatti del governo dopo le parole. Renzi sa che la prima fase del suo mandato si è esaurita per sempre. Ma proprio per questo ha bisogno di verificare il rapporto con gli elettori. Le regionali in Emilia Romagna e Calabria arrivano al momento opportuno: non sono un “test” troppo rischioso, ma nemmeno irrilevante. Vincere, e vincere bene, può rappresentare il modo migliore per proiettarsi con fiducia verso le scadenze di fine anno.
D’altra parte, le polemiche con le autorità regionali sulle cause del dissesto territoriale dicono molto circa la fragilità della situazione. Il successo di Renzi nei primi mesi di governo è stato rapido e impetuoso, ma può incrinarsi quasi alla stessa velocità. Chissà se il presidente del Consiglio si è ricordato in questi giorni delle altalenanti fortune di un ottimo riformatore come Gerhard Schroeder, che nel 2002 fu rieletto cancelliere in Germania anche in virtù del modo serio e tempestivo con cui affrontò le inondazioni di quell’anno, mettendo proprio i piedi nell’acqua, ma nel 2005 non seppe gestire con la stessa serietà un’analoga emergenza e ne pagò le conseguenze. In altre parole, a Renzi serve qualche risultato tangibile, che non sia solo l’arabesco infinito del patto con Berlusconi. Ma serve anche un conforto elettorale. E l’unico possibile passa oggi da Bologna e Reggio Calabria. Due regioni dove il centrosinistra è atteso domenica alla vittoria, ma poi si tratterà di valutare le cifre e il merito dell’affermazione.
La Calabria, dopo l’inquietante tramonto della giunta Scopelliti, dovrebbe aggiungersi con agio al conto delle regioni governate dal centrosinistra. Per Renzi sarà una notizia da valorizzare con la dovuta enfasi, visto che fino a pochi mesi fa non era scontata. Del resto, il centrodestra è diviso e i nomi presentati non proprio di primo piano. I grillini non incidono e la nuova Lega non è ancora arrivata così a Sud.
Quanto all’Emilia Romagna, il discorso è più complicato. S’intende che il candidato del Pd, Bonaccini, è favorito. Ma sarà interessante contare i voti e misurare il peso dell’astensione. Se c’è una parte d’Italia dove i quadri del partito tradizionale, il partito per cui Livia Turco piange in tv, sono ancora solidi, quella è l’Emilia Romagna. E se c’è un pezzo d’Italia centrale in cui Salvini può fare le prove generali per superare Berlusconi e dare legittimità alla sua ambizione di guidare l’intero centrodestra, esso ha ancora i contorni della regione “rossa”. Lunedì potrebbe essere proprio Salvini la figura che si pone in prospettiva come alternativa al centrosinistra. Soprattutto se, come è plausibile, avrà sconfitto Grillo ed ereditato una fetta consistente dei suoi consensi. Come dire che il piccolo “midterm” risolverà alcuni problemi a Renzi, ma gliene creerà di nuovi.

Repubblica 18.11.14
Così Renzi e Bersani ora siglano la pace sul nuovo Jobs act
Le assicurazioni dell’ex segretario sulla fiducia hanno riaperto i contatti tra i due “avversari”. Sullo sfondo la partita del Quirinale
di Goffredo De Marchis


ROMA La battuta su Mediaset come vero obbiettivo da salvare attraverso il patto del Nazareno era davvero solo una battuta. Certo, l’accusa di intelligenza col nemico non è mai indolore. Ma in realtà un dialogo tra Matteo Renzi e l’area che gravita intorno a Bersani esiste e produce qualche risultato a cominciare dalle modifiche al Jobs Act. L’ex segretario ha detto chiaramente a Milano, all’assemblea di Area Riformista, che non sono ammesse derive di tipo sfascista dentro al Pd: «Noi voteremo la fiducia, questo governo è il nostro governo, il Pd è anche il nostro partito». Parole che non solo escludono la scissione ma segnano la distanza da un’ala sinistra molto più radicale nella sua lotta al segretario rappresentata da Pippo Civati, Stefano Fassina e Gianni Cuperlo, quest’ultimo plasticamente non invitato alla riunione milanese.
Il punto più basso dei rapporti tra Renzi e Bersani, nella loro lunga storia conflittuale, è stato toccato alla Leopolda. Quando il premier aveva praticamente invitato i dissidenti ad andarsene dal Partito democratico. «Non vogliamo un partito di reduci, non restituiremo il Pd del 41 per cento a quelli che hanno preso il 25». Boato della sala e tutti hanno pensato a Bersani. Da quel giorno, tre settimane fa, i due fronti hanno fatto dei passi di riavvicinamento. Il premier, in particolare. Voleva a tutti i costi confermare il testo della riforma del lavoro uscito dal Senato col voto di fiducia e invece ha fatto retromarcia accettando la mediazione dei bersaniani Guglielmo Epifani, Cesare Damiano e del capogruppo del Pd Roberto Speranza. Una “concessione” meditata e che punta a vari bersagli. Per iniziare, l’approvazione del Jobs Act senza una spaccatura dirompente del Pd. Un tentativo di dividere la minoranza tra dialoganti e oltranzisti. Dividere amici e avversari è uno dei suoi “sport” preferiti. In prospettiva, last but not least, stringere un’alleanza con un pezzo del partito per le elezione del nuovo capo dello Stato, la grande partita del prossimo anno. «E noi, tutti insieme, siamo molto più di 101», fa notare maliziosamente un bersaniano evocando la bocciatura di Romano Prodi che fu anche la fine della segreteria Bersani. E molti di più dei parlamentari rimasti a Silvio Berlusconi, questo è il messaggio.
La minoranza prova a rimanere unita per avere più forza. Francesco Boccia, che in questa fase viene visto a Palazzo Chigi come un pericolo serio per il suo ruolo chiave di presidente della commissione Bilancio di Montecitorio e per le sue capacità sui conti pubblici, da settimane dice che serve un «coordinamento politico» degli oppositori interni di Renzi. Altrimenti ci si condanna all’irrilevanza. Ma il fronte fatica a trovare una via comune e di conseguenza un leader riconosciuto. Oggi c’è un nuovo tentativo di unità con la presentazione di otto emendamenti alla legge di stabilità firmati da Alfredo D’Attorre, bersaniano, Fassina, Cuperlo, Civati e bindiani. «Emendamenti condivisibili, alcuni dei quali perfettamente in linea con le nostre tesi», dice Speranza. Ma il capogruppo non crede ai messaggi del “no a tutti i costi”. «Ho detto in faccia a Renzi che io punto a creare un’alternativa al renzismo. Ma dentro al Pd. E non facendo cadere il governo », sottolinea Speranza. Il capogruppo e i bersaniani non possono del resto non rivendicare il successo del cambio di strategia di Renzi sul Jobs Act. «È Renzi che sta cambiando verso nei rapporti con noi - fa notare D’Attorre -. Ma questo non indebolisce la nostra battaglia. Sul lavoro confermiamo che non saremmo intervenuti sull’articolo 18 e sull’Italicum non accettiamo un Parlamento che sarebbe composto in larghissima parte da nominati. Oltre che la fretta di approvarlo che genera il sospetto di un voto anticipato ». Ma un’altra fetta della minoranza continua a immaginare il no alla fiducia sul Jobs Act. Cuperlo sostiene che le modifiche non bastano, non esclude categoricamente la scissione e alcuni vedono dietro di lui la mano di Massimo D’Alema, certamente il più feroce dei critici del premier. Così è difficile comporre il quadro di una minoranza unita, davvero compatta su una sola linea politica da seguire nei confronti di Renzi. E in grado di farlo scivolare.

Corriere 18.11.14
Un coordinamento delle minoranze
L’invito di Boccia raccoglie consensi
di Monica Guerzoni


ROMA «Il carro di Renzi è stracolmo e io sono l’unico che ne è sceso...». Con lo stesso balzo con cui ha lasciato la maggioranza del Partito democratico per sistemarsi all’opposizione, Francesco Boccia è passato dal ruolo di ala destra a quello di «mister» dell’ala sinistra. La lealtà al governo, giura, non è in discussione, ma il presidente della commissione Bilancio lavora per mettere su un «carretto» nuovo. Una squadretta di outsider della minoranza che possa un giorno affrontare sul campo la nazionale renziana.
Il sogno è ambizioso e Boccia lo sa. Ma poiché non gli sono sfuggiti i sondaggi che danno il premier in crisi, sente che il momento è questo. Sull’ Huffington Post ha lanciato un appello ai compagni spronandoli a unire le forze in un «coordinamento dei non renziani». Oggi il debutto: una conferenza stampa per presentare gli otto emendamenti congiunti alla legge di Stabilità scritti da Fassina e firmati, tra gli altri, da Cuperlo, D’Attorre, Civati, Zoggia e dalla bindiana Margherita Miotto. Quello sugli 80 euro sembra studiato per agganciare Sinistra e libertà e, spera Boccia, persino grillini e leghisti.
«Apriamo il cantiere della nuova sinistra pd», sprona Barbara Pollastrini. «I gufi aprono le ali...», è la sintesi di Civati. E anche Rosy Bindi ricorre alla metafora ornitologica cara al premier: «Chi pone alcune questioni non è un gufo, è solo più in sintonia con quella parte di Paese reale che non si sente accolta dal Pd». Quella parte di Paese, Boccia la chiama sinistra. Proprio lui che — gli ricorda la moglie Nunzia De Girolamo quando ha voglia di sfotterlo — «un tempo era la destra del Pd e adesso, miracoli di Renzi, si trova dalla parte opposta». Francesco ci ride su e spiega il paradosso: «Non è una cosa così strana, con il Pd che si è messo a guardare a destra. Un partito che si rifiuta di tassare le multinazionali del web e che non va nelle periferie, né fisicamente, né con le politiche redistributive di Fassina...». La convention di sabato a Milano ha segnato l’avvicinamento di Area riformista a Renzi e la domanda che molti si fanno è: da che parte sta Bersani? «Pier Luigi sa quanto gli voglio bene, magari è entrato in maggioranza a sua insaputa», risponde Boccia. «Battuta affettuosa» per ricordare come Cuperlo non sia stato invitato dalla corrente che lo votò alle primarie. «Sono passati con Renzi, come i turchi di Orfini — è la lettura di Boccia —. Io non li critico, ma non pensino che il nostro è un mondo frammentato e di solisti». Davide Zoggia sogna in grande e vede una «prateria» per quella sinistra che non ha voglia di cedere alla «omologazione totale» e che si prepara ad aprire il fronte del congresso anticipato. «È indispensabile un momento di confronto con le primarie», incalza D’Attorre. Certo, ci vorrebbe un leader... L’identikit di Zoggia porta dritto a Nicola Zingaretti, il quale avrebbe in agenda diverse iniziative a carattere nazionale.

Repubblica 18.11.14
Boccia
“Discussione surreale, il mondo va altrove”
intervista di Luisa Grion

ROMA . «E’ tutto sbagliato, la discussione è sbagliata fin dall’inizio. L’economia sta vivendo il momento più drammatico dalla rivoluzione industriale in poi e noi ci interroghiamo, ci dividiamo, mediamo e poi ci dividiamo ancora sull’articolo 18? Questo è un incubo, per favore svegliamoci». Francesco Boccia, Pd, è il presidente della commissione Bilancio della Camera e ha votato «no» al testo emanato alla direzione del suo partito, frutto della mediazione fra minoranza e maggioranza su quelli che saranno i licenziamenti e i reintegri al lavoro nel Jobs act.
Avendo votato no il destino di quel testo le è indifferente?
«E’ una questione di dignità, la dignità del Pd. Per salvarla il documento votato in direzione dovrà entrare così com’è alla Camera. Se così non sarà, se Sacconi riuscirà a far valere la sua interpretazione vorrà dire che sarà contento lui e sarà contenta la destra. Io invece sarò molto arrabbiato e mi chiederò cosa ne sarà di questo partito, o meglio, lo chiederò a Renzi».
Quindi difende la mediazione?
« Si tratta di evitare una sconfitta nella sconfitta, ma quel testo è sbagliato, anzi è tutto
sbagliato».
Partiamo dall’inizio.
«Stiamo vivendo il periodo più difficile nella storia del capitalismo. Saltano i confini degli Stati nazionali, la ricchezza si concentra negli Stati Uniti e in Cina. Due aziende da sole -Amazon e Google - valgono tanto quanto tutta la Borsa di Milano. Dieci multinazionali capitalizzano duemila milardi, muovono e governano due miliardi di persone, incidono sulla diplomazia ai massimi livelli, fino al G20. E noi ci interroghiamo sull’articolo 18? » Secondo una parte del suo partito è il retaggio di un mondo del lavoro che non c’è più.
«E’ un modo vecchio di concepire la politica. Pensiamo davvero che limitare ulteriormente l’articolo 18 oltre quanto già previsto dalla legge Fornero possa, nel mondo di cui parlavo prima, rilanciare l’economia? Tanto più che lo ha detto Poletti - il Jobsc act è a saldo zero: ciò vuol dire che per ogni euro che spendi ne deve entrare un altro. E’ così che pensiamo di estendere le tutele?».
Lei cosa propone?
«Comincerei con il far sì che Amazon e Google paghino le tasse nei paesi dove operano, per esempio. Sicuramente sarebbe meglio recuperare risorse in questo modo che scannarci per poche centinaia di milioni sugli ammortizzatori sociali, o restare appesi alle diatribe sul lavoro fra Damiano da una parte e Sacconi dall’altra».
Renzi non le ha già risposto che su queste tassazioni deve decidere l’Europa?
«Ma io non sono per il pensiero unico, quello al quale la maggioranza del mio partito si sta adeguando. Ora chi fa ragionamenti più complessi di quanto riescono a contenere i tweet a 140 caratteri è considerato un conservatore. Ma io non ci sto, sono per il pensiero lungo e spero, prima o poi, di essere ascoltato».

Repubblica 18.11.14
Italicum, le trappole del Senato per far saltare il sì prima di Natale
Tempi strettissimi per il via libera alla legge. Oggi l’esame in commissione
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA Il rischio che Roberto Giachetti debba davvero ricominciare il suo sciopero della fame c’è, ed è concreto. Del resto è per questo, che il vicepresidente della Camera ha annunciato ieri: «Se il Senato non approverà l’Italicum entro dicembre, riprenderò la protesta». Perché non sono pochi, a voler mettere trappole sulla via della legge elettorale: un fronte trasversale che va da Forza Italia a una parte dell’Ncd passando per ex grillini poco desiderosi di andare al voto e democratici battaglieri sulle preferenze.
La tabella di marcia prevista dopo l’accelerazione impressa dal governo a Palazzo Madama è stretta: si comincia oggi in commissione Affari Costituzionali. La presidente Anna Finocchiaro, che è anche relatrice del provvedimento, ha già detto che i tempi per chiudere entro dicembre ci sono. I primi due o tre giorni saranno dedicati alle audizioni. Giovedì 20 o martedì 25 dovrebbe cominciare la discussione generale, per poi esaminare gli emendamenti e avere il testo pronto per l’aula a metà dicembre. Quindi, si finirebbe entro l’anno a Palazzo Madama e, come chiesto dal premier, entro febbraio a Montecitorio.
Perché sia così, serve che fili tutto liscio. «Berlusconi ha dubbi sul premio alla lista e sulle soglie, ma la maggioranza in commissione ha due voti di scarto, in aula almeno 4 o 5. Se sarà necessario, faremo senza di loro», dice chi ha avuto modo di parlare della strategia. I cambiamenti da fare rispetto alla legge approvata alla Camera sono tanti: il premio alla lista garantirà 340 deputati a chi vince. Per non andare al ballottaggio, servirà il 40% dei consensi (non più il 37). Le circoscrizioni passano da 108 a un numero variabile tra 75 e 100. I capilista saranno bloccati (tra questi il 40% devono essere donne, per le quali c’è anche l’alternanza in lista), ma dal secondo scattano le preferenze (secondo la minoranza pd non basta, perché così il 50 per cento degli eletti verrebbe comunque “nominato”). Infine, per garantire maggiore rappresentatività - a fronte di una governabilità garantita dal premio - le soglie di ingresso al Parlamento si abbassano al 3 per cento per tutti.
«Sono norme ritagliate sulle esigenze di Renzi - dice il senatore forzista Augusto Minzolini così si torna alla prima Repubblica. Il segretario di partito vincente sarebbe così forte da poter scegliere sia il governo che il capo dello Stato, visto che non c’è un correttivo come l’elezione diretta per il Quirinale. Non sarebbe neanche la Russia di Putin, ma quella del Pcus di Brè_nev». In più, spiega, sono in molti a vedere dietro un’approvazione rapida lo spettro di elezioni a primavera. E sono in molti a non volerle. Dal Pd, si ribalta il ragionamento: se salta il patto sull’Italicum, le elezioni si avvicinano, piuttosto che allontanarsi. Con il consultellum, se necessario, una legge praticamente proporzionale. Magari Renzi bluffa, ma - a oggi - nessuno può saperlo.

Repubblica 18.11.14
I nodi del Senato
di Alessandro Pace


TERMINERÀ oggi la discussione generale della Camera dei deputati sul disegno di legge costituzionale Renzi-Boschi e il 24 scadrà il termine per la presentazione degli eventuali emendamenti. Mi pare perciò doveroso evidenziare le principali contraddizioni e i gravi pericoli istituzionali sottesi alla modifica del Senato qualora il testo, licenziato dal Senato nello scorso luglio, venisse approvato dalla Camera.
Premesso che 95 dei 100 senatori saranno eletti non direttamente dal popolo ma dai consigli regionali e dai consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano, il duplice problema che il ddl pone è il seguente: il futuro Senato, non essendo eletto dal popolo, può legittimamente esercitare la funzione legislativa? In considerazione dei poteri attribuitogli dal ddl, potrà costituire un contro-potere della Camera dei deputati?
1. Se si tiene presente che nei regimi democratici gli organi titolari del potere legislativo devono essere eletti dal popolo è di tutta evidenza che i poteri di revisione costituzionale e i poteri legislativi, attribuiti dal ddl Senato ancorché non eletto con suffragio universale e diretto, sono assai discutibili, e ciò anche perché la funzione legislativa verrebbe esercitata da parlamentari non responsabili nei confronti del popolo. Ma non basta. Contro la scelta dell’elezione indiretta dei senatori sollevano perplessità sia la ristrettezza dei collegi elettorali (solo 7 consigli regionali superano i 59 consiglieri), sia l’inopportunità di “promuovere” i consigli regionali a collegi elettorali senatoriali dopo tutti gli scandali che li hanno caratterizzati.
Ciò detto, è inesatta l’analogia, a più riprese tentata, del futuro Senato italiano col Bundesrat tedesco. E ciò per la semplice ragione che gli ordinamenti federali succedutisi dal 1871 in poi — con la parentesi del nazismo — non hanno mai cancellato le preesistenti identità storico-istituzionali come invece fu fatto con l’unificazione del Regno d’Italia. I Länder non sono quindi i “grandi elettori” dei senatori, ma sono essi, in quanto titolari di diritti “propri”, i componenti del Bundesrat.
Più vicino al modello previsto nel ddl è invece l’ordinamento costituzionale francese, il quale prevede che il Senato, dovendo assicurare «la rappresentanza delle collettività territoriali della Repubblica », viene eletto a suffragio indiretto. Qui però finisce l’analogia, perché le elezioni senatoriali francesi sono “vere” elezioni che coinvolgono circa 150.000 persone tra deputati, consiglieri regionali, consiglieri generali e delegati dei consiglieri municipali. Non quindi solo 19 consigli regionali e due consigli provinciali (e poco più di un migliaio di persone), come nel ddl. Inoltre, ben diversamente dal modello Renzi-Boschi, in Francia possono essere eletti senatori anche coloro che non siano consiglieri regionali. Ed è infine significativo, quanto al ruolo riconosciuto al Senato dall’ordinamento francese, che i suoi poteri sono identici a quelli dell’Assemblea nazionale.
2. Al fine di verificare la funzionalità del sistema — prescindendo dalla legittimità democratica dei poteri legislativi del Senato — è poi doveroso comparare il Senato alla Camera sotto il profilo della fonte di legittimazione, del numero dei componenti, del tempo dedicato alle funzioni parlamentari e dei poteri rispettivamente attribuiti.
Quanto alla fonte di legittimazione, i senatori sono “designati” da consiglieri regionali e non “eletti dal popolo”; il numero dei deputati è soverchiante (630 contro 100); imbarazzante è il poco tempo dedicato alle funzioni parlamentari da parte dei senatori, dovendo essi nel contempo svolgere le funzioni di consigliere o di sindaco, con un evidente spreco di pubblico denaro perché non si impegneranno sufficientemente né nelle une né nelle altre funzioni. Quanto infine ai poteri attribuiti alle due assemblee, quelli della Camera sono, anche qui, soverchianti: vanno dall’esclusività del rapporto fiduciario col governo alla spettanza alla Camera in via geneterni”. rale del potere legislativo (collettivamente col Senato solo in alcuni casi) alla possibilità, in via di principio, di eleggere da sola, ancorché in seduta comune, il Presidente della Repubblica e un terzo dei componenti del Csm.
Pertanto è di tutta evidenza che la Camera non rinviene nel Senato un effettivo contro-potere esterno (tranne nel fatto che gli spetterà, da solo, il compito di eleggere due giudici costituzionali). Una situazione istituzionalmente ancor più grave se venisse approvato l’ Italicum sia nella prima che nella seconda versione, in quanto ad avvantaggiarsi di questo concentrato di poteri legislativi e di indirizzo sarebbe in fin dei conti il governo quale espressione della coalizione o del partito beneficiario del robusto premio di maggioranza.
In presenza di questo accumulo di poteri in favore della Camera, ci si sarebbe aspettati quanto meno la previsione di contro-poteri “inal Invece il ddl si è limitato a demandare le garanzie delle minoranze ai futuri regolamenti parlamentari (che, com’è noto, sono approvati a maggioranza assoluta!). Né il governo si è preoccupato di prevedere la possibilità degli interessati di ricorrere alla Corte costituzionale contro le decisioni delle Camere in tema di ineleggibilità, incandidabilità e incompatibilità, come da anni e anni si invoca. Anzi il Senato ha addirittura escluso, salvo limitate eccezioni, l’esame in commissione dei disegni di legge che è il vero cuore del procedimento legislativo. Infine, nella fretta dei primi giorni dello scorso luglio, lo stesso Senato ha respinto gli emendamenti dei senatori M5S e Pd volti ad introdurre, anche in Italia, il diritto delle minoranze di chiedere l’istituzione di commissioni d’inchiesta. Una garanzia tanto più necessaria in presenza di un Moloch come la futura Camera dei deputati.

Repubblica 18.11.14
“Pd senza iscritti”. E Livia Turco piange in tv
di Vera Schiavazzi


RIAPPARE a una trasmissione tv, “L’aria che tira”, su la 7, e rifà quello che l’aveva già resa famosa in sei legislature da parlamentare come negli incarichi da ministro: piange. Ma questa volta il pianto di Livia Turco, per anni ai vertici del Pci, poi diventata Pds e Pd (anche se afferma con ragione “di essere del tutto al di fuori dal gioco delle correnti”), aveva un contenuto intenso e personale.
“Mi fa soffrire — ha detto a La 7 — vedere che migliaia di persone potrebbero iscriversi al Pd ma non lo fanno, perché sentono il nostro partito lontano da loro. Sono persone di sinistra, che con la loro dedizione, il loro volontariato, hanno svolto una grande parte nella storia d’Italia. E allora chiedo al segretario del partito di non farli sentire esclusi, conservatori, perché magari troppo attaccati a valori come l’articolo 18”. Perché, ha aggiunto, la sinistra «non è un ferro vecchio».
Con questa perorazione, accompagnata da una commozione che è stata ben colta dalla conduttrice Myrta Merlino, Livia Turco esprimeva due cose nello stesso momento: il dispiacere per i militanti di base tenuti ai margini del partito, e l’amarezza per chi come lei, ma anche della sua stessa generazione e storia benché senza incarichi di governo o presenze in Parlamento, ora si sente semplicemente escluso dalla conduzione di Matteo Renzi del Pd. Turco, del resto, non è nuova a piangere né in tv né a semplici dibattiti.
Lo ha fatto, per citare qualche esempio, sia il 20 aprile 2013 su Robinson (ce l’aveva col finanziamento pubblico ai partiti, e con la fine che se ne stava decretando) dove si è commossa per le migliaia di persone impegnate in politica, sia il 5 febbraio 2010 a Porta a Porta, quando ha pianto anche come una madre che si era sentita dire dal figlio “quanto facile fosse trovare la droga”, mentre in trasmissione si parlava dell’esclusione di Morgan dal Festival di Sanremo.
E poi nel passato, per esempio nel 2010, quando mentre il ministro De Mauro si commuoveva, sia pure con maschile pudore, rispetto alle difficoltà di riformare l’Istruzione, la Turco gli esprimeva totale solidarietà, bloccandosi con un nodo alla gola e pensando invece alla fatica di riscrivere le politiche sociali. A più riprese, intervistata sulla sua “facilità alla lacrima”, Turco si è riscattata, rivendicando come non vi fosse nulla di male nell’esprimere anche le proprie emozioni personali discutendo alla tv o in un dibattito, senza distinzioni tra pubblico e privato.
Ieri, invece, non ha voluto rilasciare dichiarazioni. Ma al fondo non c’era soltanto una certa inclinazione a commuoversi, quanto un grido di dolore su chi ormai è e si sente come un’icona del passato, un reperto d’archivio o comunque qualcosa si assai poco gradito in un Pd guidato da un leader lontanissimo dalla storia di Turco, e delle migliaia e migliaia di militanti, iscritti o no, che arrivano da una lunga storia, quella della sinistra italiana. “Una storia — ha ribadito lei — che è stata importantissima in questo paese, e che non andrebbe dimenticata”.

il Fatto 18.11.14
Trombati in rivolta
La falange degli ex a difesa del vitalizio
Sono 2.200, costano 170 milioni l’anno alle Regioni
di Marco Palombi


“Resistere in giudizio ovunque”, come - aggiungeremmo noi - su un’immaginaria linea del Piave. Ecco, magari Stefano Arturo Priolo, nonostante il doppio nome, non è Francesco Saverio Borrelli, ma con non meno pathos dell’ex Procuratore capo di Milano arringava la folla a fine ottobre: questo scempio accade “per la prima volta nella storia” e per di più “in un clima mediatico torbido”. Il lettore si chiederà giustamente quali oscure forze, quale complotto stesse denunciando il Priolo: detto in maniera un po’ volgare, il taglio dei vitalizi per gli ex consiglieri regionali (compreso chi, e non sono pochi, ha pure il vitalizio parlamentare).
IL NOSTRO, d’altronde, ha il dovere per così dire istituzionale di non far passare lo straniero sul suo Piave. Dagli anni 90 è il presidente dell’associazione degli ex politici regionali calabresi e da un bel po’ pure di quella nazionale: una piccola falange di 3.200 (ex) eletti che incassa 170 milioni di euro l’anno. Un tesoretto che ora rischia di essere pesantemente decurtato: la Conferenza Stato-Regioni, infatti, il 10 ottobre ha votato un odg che chiede tagli pesanti. Giammai, dice Priolo, toccherete “giusti e legittimi diritti acquisiti”. Mica si fa così, che poi uno si rimangia la parola. E dunque “resistere in giudizio ovunque”, dall’Alpi al Lilibeo, dal Manzanarre al Reno.
Siccome, però, si tratta pur sempre di (ex) uomini delle istituzioni, si tenta di evitare lo scontro. L’associazione degli ex ha dunque inviato una lettera-diffida ai presidenti dei Consigli regionali: abbiamo un pacco di pareri legali e qualche sentenza della Consulta che ci danno ragione, guai a voi se tagliate. Segue maledizione biblica: “Il contenzioso giuridico finirà per ricadere” su di voi (“posizioni puramente demagogiche e includenti porteranno a maggiori costi per le Regioni”).
La cosa curiosa è che le regioni si ritroveranno a lottare contro pareri di giuristi (tra i quali, ad esempio, quello autorevolissimo dell’ex presidente della Consulta Piero Alberto Capotosti) che hanno pagato loro: la sezione calabrese dell’Associazione degli ex parlamentari, per dire, prende 103mila euro l’anno dal Consiglio, quella siciliana all’ultimo dato disponibile 45mila, i veneti 30mila fino a quest’anno (ora basta, però). Non solo: anche le sedi di queste simpatiche associazioni sono graziosamente messe a disposizione dalle regioni. Insomma, la lobby del vitalizio vive fianco a fianco coi politici in attività, in attesa che anche loro divengano ex e si uniscano alla causa.
FA RIDERE, ma non troppo. Parliamo di gente di territorio, spesso capace di portare voti e prendere preferenze. Nel Lazio la platea interessata è ad oggi di 270 ex consiglieri che costano 20 milioni l’anno (in Sicilia la stessa cifra se la spartiscono in
207) tra cui l’ex governatore Piero Badaloni e Isabella Rauti, figlia di Pino e moglie di Gianni Alemanno: li guida Enzo Ber-nardi, assessore del fu Pri nei lontani anni 80. In Friuli Venezia Giulia, dove si spende la bellezza di 9 milioni per 230 beneficiari, guida la falange il leghista Guido Arduini: “Sembra quasi che l’unico cruccio di questo Paese siano i vitalizi”, è quello che un ottimista chiamerebbe il suo pensiero sul tema. In Trentino Alto Adige, invece, la faccenda è più complicata: basti dire che in 130 si sono spartiti un assegnone da 90 milioni. Ora che le province autonome ne chiedono indietro un pezzo, però, l’orgoglioso germanofono della Südtiroler Volkspartei, Franz Pahl, replica in buon italiano: “Non accetto espropri”.
Nell’operoso Veneto, invece, la regione paga 11,2 milioni a 140 ex consiglieri e un altro milione e mezzo agli eredi di quelli purtroppo passati a miglior vita: il Consiglio in carica, al cospetto, è un consesso di frati trappisti visto che costa solo 9 milioni. Con quei soldi, per dire, gli ex nel 2012 chiesero un parere tecnico contro il taglio dei vitalizi a Maurizio Paniz, all’epoca deputato Pdl e retore d’aula talmente immaginifico che convinse la Camera che Ruby Rubacuori era davvero nipote di Hosni Mubarak. Solo il meglio per gli ex consiglieri, che d’altronde già sopportano il prefisso che rende eterno il dramma della decadenza, della trombatura.
Nel disastrato Piemonte se ne vanno 8 milioni per 170 eletti dantan (li guida l’ex potente comunista subalpino Sante Bajardi), in Toscana 4,6 milioni vanno a 157 beneficiari, tra cui il presidente degli ex consiglieri, Angelo Passaleva, medico, professore universitario, ex Dc devoto al sindaco-santo La Pira, che esercita modestia e austerità con un assegno da 3.500 euro al mese. In Lombardia invece c’è l’ex migliorista del Pci Luigi Corbani, oggi direttore generale dell’orchestra Verdi: “Ho un vitalizio di 2.000 euro senza adeguamento Istat”, ha tentato di farsi compatire una volta. Uomo saldo e fiducioso nel futuro, come ogni migliorista che si rispetti: “Vinceremo al 99,9%”, è il suo parere sui ricorsi.
NEL PICCOLO e indebitato Molise sono un’ottantina i percettori di vitalizio per un esborso di 3 milioni l’anno, stessa cifra all’ingrosso che spende la Basilicata, che però non ha pubblicato la lista dei beneficiari. Gli anonimi assegnisti possono stare tranquilli: li guida la mano sicura dell’avvocato Gabriele Di Mauro, già socialista, che da direttore dell’Agenzia regionale per le erogazioni in agricoltura nel 2009 è stato condannato dalla Corte dei Conti per un danno erariale da 45mila euro. Non bastasse lui, c’è sempre l’ottimo Priolo: “L’odg che chiede di tagliare i vitalizi? Siamo contrari per ragioni di metodo e di merito”. Così parla uno statista.

il Fatto 18.11.14
Condoni per tutti: in 30 anni 2 milioni di richieste accolte
Dal 1985 la politica perdona gli abusi edilizi che violentano il territorio
di Daniele Martini


L’Italia non sarebbe così sfasciata e fragile se negli ultimi trent’anni non si fosse coalizzata una santa alleanza dell'abuso edilizio che coinvolge tutti. Dai cittadini che alla meno peggio si sono tirati su la casetta, alle imprese del mattone che hanno fatto spuntare come funghi villaggi in riva al mare e interi quartieri fuori legge, fino ai sindaci e assessori, certi che con il pugno duro si sarebbero scavati la fossa, elettoralmente parlando. Ma siccome come dicono a Napoli “o pesce fete da' capa”, il pesce puzza dalla testa, la scriteriata propensione nazionale al cemento selvaggio non si sarebbe trasformata in una catastrofe epocale, se non fosse stata tollerata, anzi, incentivata dai governi in cambio di consensi a buon mercato.
IL LASCIAPASSARE dello scempio si chiama condono, uno stratagemma sconosciuto fuori dai confini nazionali. Dalla metà degli anni Ottanta del secolo passato fino al 2003 in Italia ne sono stati approvati tre di condoni edilizi, con una cadenza di un decennio l'uno dall'altro. E non è finita perché similcondoni o condoni mascherati sono in cottura e ai fornelli spignattano politici di destra, centro e sinistra. Laura Biffi di Legambiente ha contato 22 tentativi legislativi dal 2010 al 2014 per salvare le case abusive. L’ultimo, il decreto Falanga, da Ciro Falanga, senatore Forza Italia di Torre Annunziata, è passato 9 mesi fa a Palazzo Madama con 189 voti e appena 61 no grazie alle larghe intese. Nel 2009, Berlusconi imperante, con i Piani casa fu concesso dal governo alle Regioni addirittura una specie di condono preventivo, con un regalo del 20 per cento di cubatura a chi avesse voluto allargare l'abitazione. Un cavallo di Troia usato da alcune regioni per permettere interventi para abusivi su larga scala.
Il primo condono, quello che aprì un'era, risale al 1985, ed è a doppia firma: Bettino Craxi, socialista e capo del governo, e Franco Nicolazzi, socialdemocratico, ministro. Entrambi poi spazzati via da Mani pulite. Fu un successo clamoroso e velenoso: le richieste di sanatoria furono più di 1 milione e 500 mila. L’adesione fu così massiccia che per reggere l’ondata gli uffici tecnici comunali assunsero personale apposito, gente che ancora oggi sta dietro quelle pratiche perché dopo 29 anni e dopo altre due sanatorie restano in attesa di valutazione 844 mila domande, quelle alle quali i sindaci non hanno saputo o voluto dire sì o no.
A quei tempi c’era ancora il Partito comunista che un po' d'opposizione parlamentare la fece, anche se pure a sinistra ci andavano con i piedi di piombo, tutti presi dalla teoria giustificazionista (e in larga misura infondata) dell’abusivismo di necessità dei poveri cristi che non sembrava giusto punire con severità. Dopo ogni condono i politici hanno sempre giurato che sarebbe stato l'ultimo. Di motivi per vergognarsi ne avevano a iosa perché le sanatorie sono una bomba contro la bella Italia e un'ingiustizia che premia i furbi.
DOPO 10 ANNI a impugnare di nuovo la bandiera corsara dell'abusivismo fu Silvio Berlusconi, l'inventore della popolare teoria “ognuno è padrone a casa propria”. Il primo condono di Berlusconi è del 1994, raccolse solo, si fa per dire, 312 mila richieste di sanatoria (leggi anche: voti) e fu proseguito in parte dal governo Prodi. Berlusconi 10 anni dopo fece il bis e ottenne altre 214 mila richieste. Dal 1985 a oggi le domande di sanatoria sono oltre due milioni; quelle respinte appena 27 mila, con una bocciatura in media ogni 74 casi. Così, tanto per dare un po' di fumo negli occhi.
In attesa del prossimo colpo di spugna, chi può continua a costruire illegalmente. Uno studio del Cresme, il centro di ricerche sull'edilizia, ha accertato che l'anno passato i nuovi immobili illegali sono stati 26 mila. Che si sono aggiunti allo stock edilizio di quelle costruzioni così fuori da ogni grazia di dio che i proprietari manco hanno provato a condonarle. Nel 2010 l'Agenzia del territorio le censì scoprendo una metropoli fantasma e diffusa di 1 milione e 200 mila immobili.

il Fatto 18.11.14
Burlando e la Liguria del cemento
di Ferruccio Sansa


“Io non sono un cementificatore”. Il terrore di Claudio Burlando, dopo trent'anni da dominatore della Liguria, è che l’epitaffio sulla sua carriera sia questo: il cementificatore.
Ma quale eredità ambientale lascia Burlando? L’ultimo capitolo è nell’inchiesta sull’imprenditore Gino Mamone, arrestato giovedì con l’accusa di aver corrotto dirigenti pubblici a colpi di mazzette e prostitute per assicurarsi 10 milioni di appalti, spesso legati all’alluvione (i soldi sarebbero stati portati in Svizzera dalla moglie nascosti negli assorbenti). “Gli facciamo venire il cagotto a Burlandino”, dice Mamone (in Liguria signore degli appalti pubblici per rifiuti e movimento terra), lasciando intendere, scrivono i pm, di pretendere aiuto dal governatore in cambio del silenzio sui loro passati rapporti. Un ricatto? Un fatto è certo: Burlando ha avuto rapporti con Mamone, che sponsorizzava la sua associazione Maestrale. Lo dimostrano informative dei Noe e intercettazioni dell’imprenditore: “Io sono amico di Burlando… questo progetto non lo blocca nessuno”. È l’ultimo capitolo. Prima bisogna parlare del piano casa. E qui le scelte di Roma, contro le quali punta il dito Burlando, si intrecciano con quelle del governatore. È vero che la legge fu voluta da Berlusconi. Ma il piano casa della Regione Liguria suscitò critiche di Angelo Bonelli e Roberto Della Seta, ambientalisti scomodi: “È devastante, spalanca le porte a decine di milioni di metri cubi di costruzioni. Addirittura si applica, pur con qualche distinguo, agli immobili condonati”. Il piano fu voluto da Burlando e dall’allora vice-presidente della Regione, Marylin Fusco (Idv), poi finita in manette in un’inchiesta. Così come fu arrestato il suo successore, Niccolò Scialfa, scelto da Burlando per sostituirla. E quasi mezzo consiglio regionale è indagato per i rimborsi.
LE SCELTE URBANISTICHE del centrosinistra sono state spesso contestate: come quando si diede il via libera alla costruzione di un outlet a Brugnato, a due passi dal fiume Vara. “Per me è in zona a rischio”, disse l’allora assessore regionale all’Ambiente, Renata Briano. Le ruspe arrivarono lo stesso, pochi mesi dopo l’alluvione che nel 2011 devastò la val di Vara. Anche il capo della Protezione civile, Franco Gabrielli, ha censurato quei cubi di cemento sfiorati dal fiume. Ci fu chi ricordò la presenza di Marina Acconci, socia del Maestrale e vicina a Burlando, tra i realizzatori del progetto. Non è il solo caso. Vedi il porticciolo della Marinella, alla foci del Magra, dove mille posti barca (e tanto cemento) rischiavano di imbrigliare un fiume che provoca disastri. Nel cda della società – in mano alla banca rossa del Monte dei Paschi – sedeva il tesoriere elettorale di Burlando. Il progetto è fermo per i guai Mps. Ancora: c’è chi ricorda che Vittorio Grattarola, ex assessore all’Urbanistica con Burlando al Comune di Genova, è diventato poi progettista di operazioni immobiliari discusse che hanno ottenuto il via libera da amministrazioni di centrosinistra. Vedi quella di Cogoleto, tra i partecipanti un imprenditore ora latitante a Dubai. Attacca Christian Abbondanza della Casa della Legalità: “Tra i soci del Maestrale c’erano imprenditori che realizzavano opere che la Regione doveva approvare, architetti che le progettavano e dirigenti regionali che dovevano approvarle”. Come Gian Poggi, fedelissimo del governatore, per i pm in contatto con Mamone.
Burlando è stato poi grande sponsor dell’operazione Erzelli. Cittadella della tecnologia o colata di cemento pagata anche con soldi pubblici? Renzo Piano, che aveva realizzato il progetto, si sfilò temendo la colata. Oggi si stentano a trovare imprese che occupino i grattacieli. Erzelli pesa come un macigno su banca Carige che finanziò l’operazione (250 milioni). Memorabile poi la legge sui porticcioli approvata da Burlando ministro di Prodi: “Un mio amico (Prodi, ndr) si è augurato di vedere sulle spiagge più ombrelloni e meno porticcioli. Io invece dico: più ombrelloni e più porticcioli”, disse Burlando. Così Pd e Pdl hanno dato via libera a decine di chilometri di moli, con i posti barca passati da 14mila a oltre 23mila (più annesso cemento).
Altre vicende sono state oggetto di polemiche: la piastra di cemento (su cui espressero
dubbi gli stessi dirigenti regionali) per un parcheggio lungo il Fereggiano realizzata utilizzando fondi destinati alle alluvioni; la legge regionale che riduceva le distanze delle nuove costruzioni dall’alveo dei fiumi. Per non dire di decine di operazioni immobiliari da milioni di metri cubi volute dal centrosinistra di cui Burlando era signore. A Sanremo si rese edificabile una zona prima definita a “frana attiva”. Ma la responsabilità non è solo di Burlando. Il centrosinistra ha approvato o taciuto.
Burlando ha più volte tentato di scacciare da sé l’immagine del cementificatore. Ha cercato figure autorevoli come “garanti”. A cominciare da Franco Bonanini, che sembrava il salvatore delle Cinque Terre e che poi è stato arrestato per lo scandalo del Parco (processo in corso). Poi Oscar Farinetti: con una modifica di una norma regionale ha aperto Eataly a Genova. Tra le assunzioni: figlio di Burlando, compagna dell’allora segretario Pd, nonché moglie e cognata di Gian Poggi.

il Fatto 18.11.14
I re dell’oro nero lucano e la rivolta dei ragazzi
Con Sblocca Italia via libera a super-trivellazioni, in cambio una pioggia di milioni
Eni Shell, Total e politici esultano
Gli studenti vanno in piazza
di Antonello Caporale


inviato a Viggiano (Potenza)
Anche i lucani nel loro piccolo s’incazzano. L’Opa delle compagnie petrolifere sulla regione, l’offerta di comprarsela in blocco e trivellarla nel modo giusto, facendo zampillare una selezione tra i migliori dei 479 pozzi censiti e “assaggiati” (271 in provincia di Matera e 208 in provincia di Potenza) in cambio di una distesa di bigliettoni di euro alle comunità coinvolte deve ora vincere l’ultimo e più increscioso degli accidenti: la paura.
UN PASSO indietro. Matteo Renzi a maggio decide di trasformare la Basilicata nel nuovo Texas italiano e avoca al potere centrale, nel decreto Sblocca Italia, le competenze per l’ampliamento della produzione petrolifera. Lo chiedono le tre grandi sorelle interessate all’affare: Eni, Shell e Total. Dei 38 pozzi attualmente in produzione con 85mila barili al giorno, che diverranno 135 mila appena i 50 mila marchiati Total saranno sul mercato e 154 mila quando l’Eni attiverà l’estrazione dell’ultimo ceppo concordato nella vecchia intesa, si può succhiare da altri buchi altro meraviglioso oro nero. La cosa straordinaria è che la scelta di Renzi di evirare ogni autonomia alla Lucania ottiene fra gli evirati un indiscutibile successo. Vivissimo plauso da parte del pacchetto di deputati e senatori che detengono la Regione. Per Marcello Pittella, il governatore, si aprirebbero così “grandi opportunità” per il territorio. Marcello è fratello di Gianni, azionista di riferimento del Pd e capogruppo dei socialisti europei a Bruxelles che nel silenzio annuisce.
L’EX GOVERNATORE Vito De Filippo è sottosegretario alla Sanità e figurarsi. L’altro ex conducator Filippo Bubbico, predecessore di De Filippo e Pittella, è viceministro all’Interno e stra-figurarsi. C’è da aggiungere che un altro potentino, Roberto Speranza, è capogruppo alla Camera e quindi sonnecchia con circospezione. Il sestetto di mischia si completa con un vero fan del petrolio, il deputato Salvatore Margiotta. I potenti e influenti politici locali dunque non solo applaudono ma rifiutano di accogliere la richiesta popolare di ricorrere alla Corte costituzionale contro l’articolo 38 che centralizza l’affare, spostandolo a Roma, lontano dal cuore. Resta, quasi solitario, il voto di Vincenzo Folino, anch’egli Pd: “Combatto controquesta posizione anche se so di perdere”.
Il contesto sembra far girare il vento per il verso giusto. Matera è intanto eletta capitale europea della cultura, e dunque festeggia i suoi Sassi infischiandosene della puzza e delle trivelle. Anche le parrocchie salutano compatte all’incipiente sequela di perforazioni. Del resto le tre sorelle del petrolio, sempre animate da spirito collaborativo, sostengono col loro marchio un decisivo volume della Cei dal titolo “Itinerari religiosi in Basilicata”. Federica Guidi, il ministro dello Sviluppo economico in una sua visita quasi lacrima per la gioia: non ha mai visto un popolo più tenero, disponibile e responsabile di quello lucano: “È veramente brava gente”.
Poi però qualcosa s’inceppa. Iniziano gli studenti medi, quelli dei licei. Programmano le cinque giornate, ma non è nulla di letterario. Ci saranno cinque giorni di proteste in piazza. Banale ma efficace la questione posta. Emanuele, uno dei leader, domanda a Renzi: “Vieni nella mia casa e non bussi alla mia porta? ”. Manifestano il primo giorno, e sono migliaia. Pure il secondo giorno sono migliaia. E così il terzo. “Un modo per non andare a scuola”, snobbano i pretoriani. Allora le manifestazioni vengono spostate al pomeriggio: e sono migliaia comunque.
TURBOLENZE giovanili? Sì e no. Perché la rabbia dei giovanissimi si unisce a quella di chi non vive di petrolio ma di turismo e agricoltura. I materani, pur in festa, iniziano a interrogarsi sul fatto che il loro cielo si sporchi di nero per colpa dei potentini, dei quali non hanno grande simpatia (ricambiati, del resto). Dunque dopo Potenza anche Matera il 23 novembre scenderà in piazza. È un contagio lento ma che avanza. E dove non può la rabbia, ce la fa l’altra paura. La paura di vedersi ricco ma ammalato. Qui a Viggiano, capitale del petrolio, i soldi sono tanti ma anche la fifa è blu. Tanto che il sindaco Amedeo Cicala confessa: “Potessi direi no al petrolio. Ma come si fa? Mi preoccupa però l’economia drogata, ho terrore che la mia comunità sia espropriata dal diritto di governare la scelta industriale”. Viggiano, 3200 abitanti, incassa 11 milioni di euro di royalties all’anno. Sono ricchi ma storditi. Ricchi ma impauriti. Infatti il consiglio comunale voterà il ricorso alla Corte costituzionale contro l’articolo dello Sblocca Italia che gli lega mani e piedi. La paura è che il petrolio produca danni alla salute. Gli ultimi dati disponibili riferiscono di un evidente, straordinario innalzamento delle patologie oncologiche. Sono 366 casi di cui 183 con decesso. Mesotelioma e carcinoma polmonare i principali killer riconosciuti. “Quando si alzano quelle fiammate lunghe decine di metri verso il cielo io tremo. E tremano anche quelli che fanno affari con il petrolio”, dice il sindaco di Viggiano. Le fiamme, i fumi. Anche Matera davanti a sè ha i gas dell’Ilva che quando sono poderosi si scorgono nitidi all’orizzonte, e dietro di sè il fuoco, o i veleni sotterrati nella piana del Basento.
MA GLI AFFARI, incrociando le dita, vanno a gonfie vele. E qui però la terza e ultima novità: sta per approdare a riva una inchiesta della procura di Potenza, oramai avviata da mesi, sul business connesso al petrolio. Gli affari viaggiano sui tir che trasportano i reflui tossici, le scorie radioattive e i fanghi. Dove e come questi veleni vengono sotterrati? Quali le cautele e quali le imprudenze? È davvero tutto a norma di legge? Ed esiste o è un’invenzione di alcuni “cronisti straccioni” l’esistenza di un circuito politico che si abbevera ai pozzi? Sui cieli lucani turbolenza in arrivo, allacciare le cinture!

il Fatto 18.11.14
Bologna
Hera, il modello emiliano che “inquina”
di Marco Franchi


Novembre 2012: Hera si aggiudica il Premio Aretè promosso dal Ministero dell'Ambiente per aver realizzato il progetto “Sulle tracce dei rifiuti” ovvero la diffusione di un opuscolo che illustra l'intero percorso della raccolta differenziata sul territorio, da casa ai cassonetti, fino alle imprese che si occupano del recupero dei materiali.
Novembre 2014: la squadra di Report racconta in tv la vicenda dei rifiuti tossici seppelliti sotto la sede di Hera a due passi dal centro di Bologna documentando il livello di inquinamento presente nel suolo e i rischi per la salute a cui, secondo le analisi che sarebbero state svolte da Hera stessa ma mai divulgate, i dipendenti sono sottoposti andando a lavorare lì dentro ogni giorno. Ieri, la Procura di Bologna ha acquisito la registrazione della trasmissione di Rai 3 che si è occupata di fare luce sulle attività della multiutility bolognese, una delle più grandi municipalizzate d’Italia posseduta da 180 comuni dell’Emilia Romagna. Nel loro complesso i soci pubblici del territorio di riferimento - 124 legati da un patto di sindacato, tra cui Bologna, Padova, Trieste, Udine, Modena, Imola e Ravenna - sono oltre 200, con una quota complessiva di circa il 57% del capitale, singolarmente ciascuno non supera il 10 per cento. Il Comune di Bologna, è sceso di recente al 9,9% (prima della quotazione in Borsa, nel 2003, aveva il 37,6%).
POLITICA LOCALE e poltrone spesso si trasformano in un altro mix altamente tossico. Tanto che una parte dell’inchiesta di Report di domenica si è concentrata sulle nomine al vertice della società di gestione dell’energia e dei rifiuti. In particolare è finita sotto la lente della trasmissione di Milena Gabanelli la recente nomina di Danilo Manfredi nel consiglio di amministrazione di Hera. Avvocato civilista con competenze in diritto societario, Manfredi è stato prima capogruppo in consiglio comunale a Ravenna, dopodiché segretario comunale del Pd. Ha quindi ricoperto ruoli chiave nella principale forza politica della città. Nell'autunno scorso l'avvocato col pallino della politica ha pure partecipato alle primarie per la poltrona di segretario provinciale del partito, nelle quali è stato però sconfitto dall’ex assessore di Cervia, il giovane Michele De Pascale. Poco dopo è arrivato l’incarico in Hera, sponsorizzato dal sindaco ravennate Fabrizio Matteucci (di scuola diessina ma convertito di recente al renzismo). A luglio è stata chiamata in cda anche Giorgia Gagliardi, proposta dal sindaco di Cesena Paolo Lucchi: la Gagliardi lavora alla Cooperativa Muratori & Cementisti di Ravenna dove si occupa degli aspetti legali e contrattuali connessi alle attività internazionali. In curriculum vanta una laurea in Cooperazione, sviluppo Locale e Internazionale oltre ad essere stata consigliere comunale di centrosinistra a Fusignano, piccolo Comune del Ravennate, quindi consigliere provinciale per il Pd, carica che ha sommato a quella di vicesindaco della stessa Fusignano, ricoperta negli ultimi cinque anni. Poi, la poltrona nel board della multiutility. Di recente la società bolognese ha tagliato il numero dei consiglieri, da 20 a 14, e i loro emolumenti: massimo 60 mila euro l'anno, da 75 mila (prima ancora erano 100 mila). Gli enti locali vengono comunque gratificati con i dividendi: a giugno il Comune di Bologna ha incassato quasi 14 milioni lordi. Chissà cosa ne pensa il rottamatore Matteo Renzi dell’inchiesta di Report. Visto che da presidente della Provincia di Firenze, si era infatti battuto per la realizzazione di un termovalorizzatore alle porte del capoluogo toscano. E che l’azienda incaricata di progettare, costruire e gestire l’impianto è partecipata al 40% da Hera. Il cui presidente Tomaso Tommasi di Vignano risulta al momento indagato dalla Procura di Bologna per reati ambientali in seguito a due denunce incrociate risalenti a prima dell’estate. La prima, accusa la multiutility e arriva dal titolare della società Cogefer (l’ad Corrado Sallustro è indagato per calunnia), in trattativa da lungo tempo e poi in contenzioso con Hera sull’acquisto di un lotto di terreno nell'area, per edificarlo.

Repubblica 18.11.14
L’amaca
di Michele Serra


SE AVETE per caso letto l’implacabile articolo di Tomaso Montanari sulla cementificazione dell’Italia (Repubblica di ieri), o altri resoconti di analogo spessore, vi sarete fatti un’idea della catastrofe strutturale che sta a monte di ogni frana e alimenta ogni alluvione. “Strutturale” non è aggettivo che si possa usare spensieratamente. Dice che non la contingenza o l’incidente o il dettaglio, ma la struttura stessa del nostro sviluppo, la sostanza della quale esso è fatto (l’ingordigia imprevidente, figlia di una povertà secolare e della fretta cieca di allontanarsene) è la causa dei nostri mali.
Se questo è vero, altrettanto strutturale dovrebbe essere il mutamento: culturale, politico, economico. Qualcosa di molto simile a una rivoluzione; o almeno a una riforma radicale delle prospettive, delle priorità, di ciò che è importante e di ciò che lo è di meno. Ma non se ne vede traccia. E anzi mai come adesso la politica sembra avere perduto ogni radicalità, ovvero ogni speranza di incidere strutturalmente (appunto) nella nostra organizzazione sociale, nelle nostre leggi e nelle nostre vite. Quanti dei cantieri che il molto contestato Sblocca Italia di Renzi rimetterà in opera sono solo la coda infetta del vecchio sviluppo speculatore e cieco? Sbloccare ciò che è vecchio lo rende forse nuovo?

il Fatto 18.11.14
Tolleranze. Marino in difficoltà
Nezzun razzista, sono loro a essere zingari
di Elisabetta Ambrosi


“Io sono sposata alla guardia del corpo di Berlinguer, le pare che posso essere razzista? ”. Non ha dubbi la signora Marina Brasiello, cittadina di Tor Sapienza, quando esibisce le sue credenziali democratiche davanti al sindaco Ignazio Marino durante la trasmissione di Lucia Annunziata, In mezz’ora. Lei fa parte pure dell’“Associazione famiglia c’è”, ma “quel palazzo è diventato un emblema, mia madre non può stendere l’intimo perché il ragazzo di fronte fa i gestacci, siamo accerchiati da una serie di campi rom, di centri sociali, e il nuovo mattatoio, lei porterebbe sindaco suo nipote a vedere un trans tutto nudo? ”. Marino annuisce, non chiede cosa c’entri l’assalto a un centro di accoglienza per rifugiati con i rom, i centri sociali, i transessuali, “Tor Sapienza è un quartiere di persone per bene che vogliono la felicità nella propria vita”, asserisce, mentre snocciola le azioni del Comune. È il turno del signor Torre, che racconta di una Tor Sapienza gentile e civile, ma “siamo avvelenati dalla diossina e i roghi tossici, e poi il precariato messo sotto il tappeto, una concentrazione di arrangio di vita”. Marino annuisce, non chiede cosa c’entrino gli assalti a minori fuggiti dalla guerra con diossina e precariato, snocciola le azioni del Comune, “il problema è creare nuovo lavoro”, ma “tutti insieme ce la possiamo fare”. È la volta di Franco Pirina, comitato cittadini Tor di Nona: “L’immigrazione va seguita con l’integrazione, quelli che si integrano gli diamo un posto, gli altri li buttiamo fuori”. Annuisce Marino, “non possiamo continuare con l’accoglienza in queste proporzioni”, poi tenta l’appello al cuore, “decideremo insieme, ma se invece di adulti ci mettiamo donne e bambini? ”. “Non cambia niente, i mariti tornano”, se ne devono andare. Annuisce Marino, “chi non rispetta le leggi se ne deve andare”. E poco importa che quei minori debbano essere accolti, dice l’Europa (che ci mette i fondi), il sindaco ascolta sempre i suoi cittadini. D’altronde non sono mica loro i razzisti. Sono gli altri, casomai, a essere zingari.

La Stampa 18.11.14
Gli immigrati trasferiti all’Infernetto. La protesta contagia un altro quartiere
Dopo i disordini a Tor Sapienza nuovo malumore degli abitanti: «Non li vogliamo»
E Marino tenta la mediazione: «Questa non sarà la soluzione definitiva»

qui


La Stampa 18.11.14
«Sono ragazzi terrorizzati usati come capri espiatori»
di Gia. Gal.

Lei, Francesco Gobbi, è presidente del Coordinamento Infernetto. In quali condizioni sono i 25 ragazzi trasferiti da Tor Sapienza all’Infernetto?
«Li ho visti terrorizzati. Hanno tra i 14 e i 17 anni e, tranne quattro del Bangladesh, vengono quasi tutti dall’Egitto. Sono musulmani e cristiani copti. Hanno perso il padre, sono scappati da situazioni terribili e sanno di non poter tornare dalle loro madri. A Tor Sapienza frequentavano le medie e andavano a scuola in bus. Erano confortati, assistiti e abbastanza integrati. Dopo l’assalto al centro d’accoglienza sono stati portati via in gran fretta per proteggerli».
Ora sono in un centro non attrezzato per loro ...
«La struttura “Le betulle” è condotta da ong, cooperative ed enti religiosi. È stata aperta tre anni fa ristrutturando casali di campagna. Dall’ex complesso agricolo sono stati ricavati 8 edifici: un centro diurno per malati di Alzheimer e alloggi per minorenni, spesso mandati dalla Caritas, in attesa di una casa famiglia e di comunità protette. Questi 25 ragazzini chiedono di tornare a Tor Sapienza: lì avevano operatrici diventate come seconde madri. Relazioni di affetto e umanità che non si possono sostituire. L’Infernetto è sistemazione provvisoria. Trauma su trauma».
Cosa spaventa i profughi?
«Il più piccolo si è messo a piangere. Si sentono animali in gabbia. Non capiscono le ragioni del caos esploso. All’Infernetto, su 270 strade in 70 chilometri, 90 sono senza illuminazione, mancano commissariato di polizia, stazione dei carabinieri, vigili urbani e presidio medico. Abbiamo insediamenti rom e diffusa criminalità. I profughi minorenni sono capri espiatori in una giungla di rabbia. Temiamo un Far West in cui nessuno controlla più niente».

Corriere 18.11.14
Marino frena i sindacati nell’Atac
l rilancio Cisl: taglia più permessi
di Francesco Di Frischia


ROMA All’Atac, l’azienda di trasporto pubblico dei romani, lavorano oltre cento sindacalisti che rappresentano 10 sigle a tempo pieno: uno ogni 119 dipendenti, che in tutto sono 11.950. Costano complessivamente all’azienda circa 3 milioni e mezzo di euro l’anno, facendo una stima su uno stipendio medio di circa 34 mila euro lordi.
Nel nuovo piano industriale 2015-2019, però, anche in virtù del pauroso deficit (1,6 miliardi negli ultimi 10 anni) l’azienda prevede, tra l’altro, di razionalizzare le linee periferiche e aumentare le ore di lavoro degli autisti.
Saranno anche più cari biglietti e abbonamenti ma a dover stringere la cinghia saranno pure i sindacati: l’Atac vuole tagliare i loro permessi del 20%, sull’esempio della circolare del ministro per la Pubblica amministrazione, Marianna Madia, che ha sforbiciato del 50%, a partire dal 1° settembre, le assenze sindacali in uffici centrali e periferici della Pa.
La Fit Cisl, la più rappresentativa con i suoi 3 mila iscritti e 11 sindacalisti distaccati, non ci pensa proprio a protestare e anzi rilancia: «Anche noi vogliamo fare la nostra parte — sottolinea Francesco Sorrentino, segretario generale della Fit Cisl del Lazio — e neanche tanto provocatoriamente diciamo che il taglio dei permessi può arrivare al 30%». In che modo? «I distacchi vanno redistribuiti in base al numero di iscritti — fa notare Sorrentino — e alla rappresentatività acquisita con le votazioni delle Rsu. Servono regole chiare e precise».
E se ne sono accorti anche i vertici dell’Atac che i permessi sindacali fino a oggi sono stati distribuiti, di fatto, a pioggia: se infatti la Fit Cisl ha 11 sindacalisti distaccati che rappresentano quasi il 30% di dipendenti, è anche vero che ci sono organizzazioni, con poche decine di iscritti, che vantano in percentuale molti rappresentanti.
Se si applicasse il metodo proporzionale proposto dalla Fit Cisl, l’azienda di trasporto pubblico, che a Roma serve un’area di 1.285 chilometri quadrati e garantisce con bus, tram e metropolitane più di 4 milioni di spostamenti al giorno, potrebbe utilizzare a tempo pieno circa 30 dipendenti in più, che le costano comunque oltre un milione di euro l’anno. Si tratta ovviamente di un dato puramente indicativo: una rigida divisione dei distacchi sindacali in base alla rappresentatività potrebbe portare anche a dimezzare, senza fatica, il monte-ore complessivo attuale che assomiglia, in maniera imbarazzante, all’Everest. Ma di bello non ha nulla.

il Fatto 18.11.14
Milano, dagli occupanti delle case mattoni contro la polizia
di Davide Milosa


Milano La signora esce di casa poco dopo le nove. Nella borsa tiene le cartelle cliniche. Ha fretta. Deve andare dal dottore. Milano ieri. Ennesima giornata di pioggia. La metropolitana non va, il traffico è in tilt. Fuori dal civico 71 di via Vespri Siciliani, nel quartiere del Giambellino, la situazione non è come al solito. Non ci sono gli alunni delle scuole o i pensionati che vanno al mercato. Ci sono carabinieri e poliziotti in assetto antisommossa. La gente urla per strada. Qualcuno lancia dei sassi, le forze dell’ordine sparano quattro lacrimogeni. È una guerriglia. Parte la carica. Ci sono dei fermati. Tra questi anche la signora che senza nemmeno rendersene conto si trova nella camionetta dei carabinieri. Grida che non c’entra niente. Che deve andare dal dottore. I militari si accorgono dell’errore e la fanno scendere. La signora è infuriata. “Dovevo andare via, ora resto”. Lo dice ai carabinieri che stanno presidiando l’ingresso del portone. Cronaca di un sgombero antiabusivi in un lotto di case popolari gestite dall’Aler: quattro persone italiane (due adulti e due bambini, uno disabile) che hanno occupato da tre mesi. Cronaca che si ripete, settimana dopo settimana. Con la polizia a fronteggiare la rabbia dei cittadini. E con politica e istituzioni a creare task force per 200 sgomberi. S’inizia oggi. Operazione a tappetto.
“LA VIOLENZA NON CI FERMA”, ha detto l’assessore comunale alla Casa. Sottoscrive il presidente della Regione Bobo Maroni. L’allarme è a livelli di guardia. Succede nella Milano dell’Expo, città che si riscopre alluvionata e nella morsa di un conflitto sociale che al Giambellino mostra tutta la sua gravità. Perché ieri, chi c’era ha visto la protesta del popolo, ma anche la stanchezza disegnata sul volto di poliziotti e carabinieri, i quali, per umana debolezza, hanno risposto agli insulti. “Se filmi loro - ha detto un militare - filma anche il mio sangue”. E di feriti, le forze dell’ordine ne hanno contati cinque, uno colpito da un mattone. Altri ce ne sono stati tra i cittadini. Un signore, solo perché voleva rientrare in casa, si è preso una manganellata in testa. Un gruppo di donne, vedendolo, ha urlato “stronzi”. Risultato: “Ci hanno picchiate, eravamo stese a terra”. E così, mentre al quarto piano dello stabile polizia e funzionari Aler completano lo sgombero, in strada si forma un corteo spontaneo. Ci sono cittadini, ma anche gli antagonisti confluiti dalla zona di piazza Tirana. Il traffico viene bloccato e un’auto dei carabinieri circondata. I militari fanno retromarcia.
La tensione in città resta alta. Tanto che sempre ieri il Nucleo informativo dei carabinieri, coordinato dal procuratore aggiunto Romanelli del dipartimento antiterrorismo, ha eseguito tre perquisizioni nel quartiere Corvetto. Si tratta del primo atto dell’inchiesta nata dopo il blitz di un gruppo di incappucciati che l’11 novembre scorso è entrato nel circolo Pd di via Mompiani 10 distruggendo due locali e gettando nel panico una ventina di anziani che, assieme al Sunia (sindacato degli inquilini) e a funzionari Aler, discutevano dello stato di degrado delle case popolari. Alcuni di loro si sono sentiti male per un fumogeno e sono stati portati in ospedale. Secondo quanto ricostruito, allo stato ci sono due indagati per danneggiamento e violenza. Si tratta di due ragazze di 24 e 28 anni con alcuni precedenti di polizia per manifestazioni di piazza. Entrambe, riferiscono gli investigatori, sono legate all’area dell’antagonismo di matrice anarchica.
I CARABINIERI le hanno identificate grazie alle testimonianze dei residenti e alla visione di alcune telecamere di sicurezza che le hanno riprese mentre scappavano a volto scoperto. Inoltre, ha spiegato il procuratore Romanelli, si sta vagliando la posizione di altre quattro persone presenti al blitz. L’obiettivo delle perquisizioni di ieri, si legge nelle cinque pagine del decreto firmato dal procuratore aggiunto e dal pm Piero Basilone, era “individuare armi, indumenti e strumenti atti all’imbrattamento”. In via Mompiani 6, dove vive una delle indagate, però i carabinieri non hanno trovato nulla di tutto questo e hanno portato via un hard disk. Non solo. L’avvocato Eugenio Losco ha precisato: “La mia assistita al momento dei fatti era al lavoro”. Vestiti e maschere sono stati individuati, invece, nel secondo appartamento. Nel mirino delle indagini è finito anche un negozio di tatuaggi di piazza Gabrio Rosa che ieri mattina è stato visitato dai carabinieri.

La Stampa 18.11.14
“Noi dell’Ardita, squadra di sinistra, presi a botte dai neofascisti”
Tifosi e calciatori dopo l’agguato di domenica: “Non riusciranno a fermarci”
di Grazia Longo


Da una parte c’è la tifoseria calcistica a cui siamo, ahinoi, abituati: se va bene cori osceni e insulti, se va male botte da orbi e vendette alla trasferta successiva. Per non parlare di casi estremi, come l’omicidio del tifoso napoletano Ciro Esposito.
Poi però c’è il mondo alternativo del «calcio popolare» come l’Ardita del quartiere romano San Paolo, vicina al mondo della sinistra, dove la squadra è finanziata direttamente dai soci-tifosi. E dove, anche se arriva un’orda di 50 neofascisti incappucciati, armati di spranghe e bastoni che picchia a sangue sei ragazzi, invece che organizzare trasferte per «lavare il sangue», si tira dritto per la propria strada fatta di impegno nel sociale e di un calcio declinato in nome del dialogo e della cooperazione.
A qualcuno può suonare strano, se non impossibile, ma è la verità. La faccia bella del calcio abita in questo angolo di periferia dove, all’indomani di un’aggressione violenta e caotica con tanto di fumogeni, bombe carta e slogan di estrema destra, non si respira aria di rappresaglia. 
Feriti nel fisico ma non nello spirito, i sei tifosi dell’Asd Ardita (squadra popolare di terza categoria fondata quattro anni da un gruppo di ventenni) non retrocedono di un passo dai loro ideali progressisti. Hanno tra i 20 e i 30 anni, alcuni sono operai, gli altri studenti universitari (due ancora ricoverati in ospedale per «le botte di quei fascisti»), tutti convinti che «si è trattato di un vile tentativo di screditare il nostro modo di concepire il calcio e lo sport». E cioè? «Per me - racconta uno di loro - quello che conta è sostenere la squadra attraverso la nostra organizzazione democratica orizzontale, impegnandomi per quel che posso in attività sociali. Le botte mi hanno fatto male, ovvio, ma non per questo voglio cedere a quello stile di vita». Utopia? A sentire lui sembra di no: «Ci siamo già confrontati in assemblea e abbiamo convenuto che noi vogliamo essere fedeli al nostro stile. Di sinistra? Certo, non lo nascondiamo, il nome della nostra squadra si è ispirato agli “Arditi del popolo”, gruppo antifascista degli anni ’20. Noi ora non vogliamo essere vittime due volte. I calci e i pugni ce li siamo già presi, ora non vogliamo certo cedere al ricatto di uno stile di tifoseria violenta che non ci appartiene. Tanto più che quelli erano pure neofascisti».
I carabinieri dei Comandi provinciali di Roma e Viterbo hanno già arrestato i presunti colpevoli: 9 giovani tra i 18 e i 32 anni, ultras della Viterbese e vicini agli ambienti di estrema destra. Residenti tra Viterbo e provincia si trovano ai domiciliari. La rivalità calcistica confusa nell’antagonismo politico non è una novità. Lo è semmai l’evoluzione - almeno nelle intenzioni per quanto possiamo rilevare al momento - per risolvere in maniera diversa l’episodio grave di domenica mattina sugli spalti del piccolo campo sportivo Magliano, in provincia di Roma, durante la trasferta dell’Ardita.
«L’aggressione subita va oltre la rivalità destra-sinistra - commenta Michele Magro, un membro della dirigenza dell’a squadra - . Secondo noi è un attacco al nostro modello di sport popolare che danneggia le società che a Roma hanno sempre avuto il monopolio su impianti sportivi e scuole calcio». Michele spiega inoltre come la linea e la struttura dell’Ardita siano state importate dall’estero «dalle esperienze inglesi ma soprattutto tedesche di calcio popolare, al servizio dei ragazzini del quartiere, compresi quelli delle case-famiglia. Con una massiccia adesione anche da parte di ragazze».

La Stampa 18.11.14
La politica fermi gli incendiari
di Giovanna Zincone


Troppi attaccanti e su troppi fronti. Collocate su un unico fronte si trovano le misure che riguardano rifugiati, irregolari e rom: casi diversi tra loro, ma confusi nella percezione pubblica e nel dibattito politico. Questo fronte subisce i più temibili attacchi a livello locale: qui si concentra la rabbia delle periferie che ospitano i vari centri di accoglienza e i campi rom.
Casi come quelli di Tor Sapienza non costituiscono una novità e non riguardano certo solo Roma e dintorni. Anche nell’area torinese abbiamo visto esplosioni analoghe. Aspettiamocene altre. Le situazioni di disagio sono reali e si cumulano. Faccio notare, tuttavia, che siringhe sparse, strade dissestate e buie, rifiuti abbandonati, preesistono ampiamente all’arrivo degli stranieri e sono oggi il risultato complessivo, da una parte, di comportamenti di utenti (italiani e non) indifferenti al decoro pubblico, dall’altra, di servizi urbani che non funzionano: pulizia delle strade, illuminazione, manutenzione ordinaria sono trascurate magari in favore di eventi effimeri. Ma le esplosioni sono anche la conseguenza di un disagio economico e culturale più ampio. Non a caso si producono anche negli stadi.
Una politica razionale, centrale o locale, di governo o di opposizione, specie in situazioni di forte indebitamento e di mancato sviluppo, dovrebbe darsi alcune banali priorità: ammortizzare difficoltà e conflitti sociali, evitare sprechi, attrarre risorse. Ma la politica ha una sua razionalità che si nutre anche e molto di emozioni distruttive. La Lega muove la sua scalata all’elettorato grillino giocando pesante sui sentimenti anti immigrati. Gioca facile, sia perché alcune componenti dell’immigrazione e delle minoranze rom (che in gran parte immigrate non sono) ci mettono del loro, sia perché alcuni antirazzisti trasformano gli imprenditori del razzismo in vittime sacrificali. Invece di fracassare la macchina di Salvini i suoi contestatori avrebbero fatto meglio ad accoglierlo sdraiati per terra muniti di fiori e palloncini. Ma l’immaginazione non solo non è al potere, ma neanche nell’antagonismo. Utilizzando risposte più banali: ad Alemanno che guida i cortei della protesta romana basterebbe ricordare che di quella città è stato in tempi non lontani un potente sindaco, ai più agguerriti leghisti che il loro partito è stato a lungo al governo e ha compiuto la più ampia regolarizzazione della storia italiana. Le amnesie, purtroppo, sono un altro tratto della razionalità politica, e non solo dei partiti, anche degli elettori.
Quartieri disastrati, partiti e leader xenofobi non esauriscono lo schieramento di chi assedia il fronte immigrazione & c. I partner europei hanno protestato contro la nostra propensione a chiudere un occhio sull’attraversamento di straforo dei confini da parte dei migranti in direzione Nord. Hanno subordinato maggiori aiuti a nostri maggiori controlli. La risposta italiana è stata affermativa: una circolare ha sollecitato la rilevazione delle impronte degli irregolari fermati e il nostro governo ha coordinato l’ultimo programma di pattugliamento e intercettazione dei sospetti sul territorio dell’Unione. Per inciso, mettere su questa operazione di polizia l’etichetta «Mos maiorum» (la tradizione dei nostri antenati) suona ironico: gli antenati romani dell’Europa costruirono un duraturo impero che aveva come punto di forza l’inclusione degli stranieri. Comunque, il governo italiano risponde alle richieste, ma dall’Ue arrivano pochi aiuti.
La ricollocazione di rifugiati in altri paesi membri rimane su base volontaria. Frontex Plus o Triton non è un valido sostituto di Mare Nostrum perché è scarso di fondi, si occupa più di contrastare arrivi clandestini che di salvare persone. Inoltre parteciparvi non è compito dell’Unione, ma solo di chi vuole farlo e, soprattutto, ognuno può farlo come crede. Ma soprattutto in questa nuova impresa alla Marina italiana non è stato affidato quel ruolo di comando al quale comprensibilmente aspirava. Insomma, mentre il fortino immigrazione è sotto assedio a livello nazionale, gli aiuti da fuori sono insufficienti e deludenti. Anzi da fuori arrivano pure dure critiche.
Prima dell’operazione Mare Nostrum, il governo italiano era stato giustamente accusato di respingere i natanti senza verificare che tra loro non ci fossero potenziali rifugiati. Poi, a Mare Nostrum si è rimproverato di svolgere con troppa cura il servizio di soccorso in mare e di incentivare così traversate più rischiose. Ovviamente, questa tesi è stata rapidamente condivisa dagli assedianti interni, dai partiti e dai leader anti immigrati attivi in Italia.
Il trattamento delle migrazioni è sotto accusa in patria e all’estero, da una parte, per le possibili conseguenze di un’eccessiva solidarietà, dall’altra, addirittura per gravi lesioni dei diritti umani. Giudizi e sentenze imbarazzanti hanno riguardato l’accoglienza in Italia dei profughi e il trattenimento degli irregolari. Nel 2011, l’Assemblea del Consiglio d’Europa ha inserito l’Italia nell’elenco dei Paesi dove non rimandare indietro i richiedenti asilo. Corti di singoli stati europei, in particolare in Germania ma non solo, hanno accettato ricorsi di migranti contro i respingimenti in Italia. Il Regolamento di Dublino prevede, infatti, che i richiedenti asilo siano respinti nel «primo Paese sicuro» in cui siano passati, ma il nostro non è sempre giudicato «sicuro». Non lo è a causa delle condizioni di vita degradanti dei nostri centri. Nei giorni scorsi questo umiliante stigma è stato rinforzato dalla Corte Europea dei diritti Umani che ha accettato il ricorso contro il respingimento di una famiglia arrivata in Svizzera dall’Italia. Diamo atto, però, che sul problema dell’accoglienza gli ultimi governi italiani hanno cominciato a fare qualcosa: moltiplicando i centri e distribuendoli sul territorio. È importante però, e Tor Sapienza lo conferma, che una più equa distribuzione territoriale riguardi non soltanto regioni e città, ma anche quartieri e sobborghi della stessa città.
Costruire a livello centrale e periferico politiche capaci di rispondere agli attacchi giustificati e non sul fronte migratorio non è facile, specie con arrivi tanto massicci. Sappiamo bene che la politica non riesce e sanare tanti problemi sociali, ma può alleviarli o peggiorarli. Il gioco a lanciare palle incendiare su alcune materie complicate – l’immigrazione è solo una di queste – giova nell’immediato al potenziale elettorale dei lanciafiamme. Ma questo incattivire rapporti sociali e politici a livello interno e internazionale rischia di travolgere tutti, anche gli stessi lanciafiamme.

il Fatto 18.11.14
Un’obiezione all’obiezione del papa
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, sono rimasta sorpresa e stordita dall’esortazione ai medici di Papa Francesco che dice: “Fate obiezione”, quando si tratta di aborto e di eutanasia. E sono colpita dalla terribile espressione “falsa compassione” per chi aiuta a chi chiede disperatamente un aiuto estremo. Torna a funzionare l’automatismo spietato detto “potere della Chiesa”. Il Papa sarà anche buono e simpatico, ma il potere della Chiesa non cede terreno.
Lucrezia

VEDO IN QUESTE due dichiarazioni del Papa un grave errore morale (l’abbandono dei deboli, ricordate il caso Welby, la sua morte volontaria, la porta chiusa della chiesa?) e forse un invito al reato (l’astensione arbitraria del medico dall’adempire il suo dovere di presenza e intervento) quando si negano i diritti umani e civili, ovvero i privilegi inalienabili attribuiti a tutti i cittadini. Occorre ricordare che la Chiesa cattolica, né prima di Bergoglio né con Bergoglio, ha mai chiesto ad alcun credente di fare obiezione di coscienza alla guerra, di ogni tipo e con ogni arma, non ha mai chiesto obiezione di coscienza alle forze dell'ordine se ricevono ordini sbagliati (da Genova a Cucchi), ai dirigenti d'azienda quando licenziano secondo strategie di Borsa o di mercato (tipo facilitare la vendita di una impresa) senza alcun rapporto con la stabilità dell'impresa e la qualità della prestazione.
Quanto ai medici, mai sentito parlare di obiezioni per i team di interventi chirurgici in cui tutti, o alcuni dei medici partecipanti, sanno che l’operazione si fa solo per fare cassa, ed è quindi un’azione rischiosa, inutile e immensamente crudele. Tutto ciò che sembra importare alla Chiesa cattolica è l’esercitare l’estremo potere di controllare la nascita e la morte. Una volta stabiliti questi due ossessivi punti di controllo, tutto il resto è più facile, non tanto per convertire quanto per addomesticare alla fede. È particolarmente difficile accettare una intrusione così violenta (il medico che si nega) nella vita delle donne, come se fossero fatalmente e irreversibilmente soggette al loro destino ginecologico. È ovvio – e il buon senso quotidiano di Bergoglio non può non saperlo, e perciò rende più grave l’affermazione – che fare la dovuta obiezione di coscienza facilita in modo incredibile la carriera, e, per un giovane medico, è la prima mossa giusta per conformarsi al sistema. In questo modo diventa “persona fidata” e che “è capace di fare squadra”. Un gesto simil-santo introduce perciò alla malavita sanitaria dei silenzi, degli appalti, degli acquisti, dei primariati politici. Dareste voi un intero reparto di delicate e costose cure mediche a qualcuno che, a tempo debito e in momenti di tensione terribile per il più debole (i pazienti) non ha saputo tener testa a pressioni indebite con una nobile e ferma “obiezione di coscienza”? Tranquilli, le obiezioni di coscienza si sprecheranno, perché di questi tempi alla santità non rinuncia nessuno. Quanto all’eutanasia, la crudeltà è ancora più grande, come ha dimostrato la disperata implorazione di Giovanni Paolo II morente, e il caso Welby che ho appena ricordato. I Radicali, a cui si deve (senza la partecipazione dei “grandi” della politica, mai) la conquista di un diritto negato (la decisione della donna sul suo corpo) e la lotta nonviolenta per ottenere un dignitoso diritto di morire, sanno che Bergoglio sarà anche simpatico e ha persino telefonato a Pannella. Ma dovranno continuare l'impegno senza fine, con quelli di noi che non vorranno chiamarsi fuori.

Repubblica Salute 18.11.14
Aborto, pillole, obiettori È allarme clandestinità
Interruzione di gravidanza.. Diminuisce il numero totale
I ginecologi: liste d’attesa, pochi spazi, turn over bloccati, difficile applicare la legge
E il Papa sostiene chi si rifiuta
La proposta: “Ricompense e promozioni per chi non si tira indietro”
di Elvira Naselli


DA UN lato i dati dell’ultima relazione del ministro della Salute sull’attuazione della legge 194. Dall’altro i ginecologi non obiettori di coscienza, da poco riunitisi a Napoli per il congresso Laiga, che lamentano accessi difficili all’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg), organici striminziti e tempi lunghi di attesa per le donne, costrette a cambiare regione o a rifugiarsi addirittura nella clandestinità. Nel 2012, secondo le stime dell’Istituto superiore di sanità, gli aborti clandestini sarebbero stati tra 10 e 15.000, un numero sbalorditivo se si pensa che c’è una legge per poterlo fare legalmente. Secondo la relazione del ministro, inoltre, i medici non obiettori sono sufficienti ma l’organizzazione territoriale non è adeguata: la stima è che un medico non obiettore faccia 1,4 Ivg a settimana, con un minimo di 0,4 in Valle D’Aosta e 4,2 nel Lazio. Numeri, però, che mal si conciliano con le cifre iperboliche dell’obiezione di coscienza che domenica ha avuto il sostegno anche di papa Francesco: nel 2012 media del 69,6%, con il Sud che supera l’80. Arrivando al 90,3% in Molise, l’89,4 in Basilicata, l’84,5% in Sicilia, l’81,9 del Lazio. Dove, però, con un decreto regionale, il governatore Zingaretti ha posto dei limiti all’obiezione di coscienza nei consultori, che potrà riguardare soltanto l’intervento vero e proprio ma non la prescrizione di contraccettivi, pillola del giorno dopo e spirali comprese, o il rilascio della certificazione richiesta per poter abortire.
Detto questo, le Ivg in Italia continuano a diminuire: i dati 2013 hanno fatto registrare un -4,2% rispetto all’anno precedente.
Dei 102.644 casi del 2013, l’8,5% è stato un aborto farmacologico, con la RU486.
Percentuale che però sale al 25,2% in Liguria o al 19 del Piemonte. Il problema della media Ivg per ginecologo non obiettore però resta. «Forse hanno compreso nel calcolo anche i ginecologi ambulatoriali - ragiona Massimo Srebot, direttore Ostetricia e Ginecologia e responsabile area materno-infantile della Usl 5 di Pisa - che non possono fare interruzioni di gravidanza. In ogni caso allungare le liste d’attesa è un’azione ai limiti del reato perché si favorisce l’aborto clandestino». Qualche soluzione Srebot ce l’ha. «Snidare l’obiezione di comodo per cominciare. Con incentivi economici, come quelli riconosciuti alle cliniche convenzionate per l’Ivg. Ma anche con progressi di carriera, come la direzione di una struttura semplice a un non obiettore. C’è poi un discorso culturale. Il percorso dell’Ivg fa parte della fisiologia della vita della donna, anche se non è un percorso felice, e allora perché deve occuparsene un medico? L’ostetrica potrebbe fare l’80% del percorso, dall’accoglienza della donna, alla spiegazione dell’iter fino alla firma del consenso. E da noi lo fa, con tanti vantaggi: è più vicina alla donna, ha appropriatezza e costa meno di un medico».
Meno felice la situazione pugliese. «La metà degli aborti si fa nel privato convenzionato - attacca Antonio Belpiede, primario di Ginecologia e ostetricia, ospedale di Barletta - ma nel pubblico ci sono infinite criticità che, nonostante la sensibilità dichiarata dal governo regionale, non sono state risolte. Non ci sono spazi specifici e dignitosi per le donne, esiste una quota di obiezione di comodo e non c’è ricambio di medici non obiettori. Noi abbiamo circa 400 aborti farmacologici a fronte di 150 chirurgici, perché le donne arrivano in tempo utile per l’uso del farmaco. L’intervento è appannaggio delle meno informate e svantaggiate. Detto questo, ci sentiamo abbandonati: non abbiamo ostetriche neanche per i parti e non riusciamo a fare counselling contraccettivo».
Non va meglio nel Lazio. «I non obiettori sono dei garibaldini - racconta Elisabetta Canitano, medico 194 per la Asl Roma D e presidente di “Vita di donna” - ci sono operatori assunti solo per la 194 che lavorano in cinque ospedali diversi. E quando sono malati o in ferie l’attività si blocca. Inoltre ci sono gli ospedali laici che non fanno interruzioni di gravidanza, nel Lazio sono almeno dieci. Un altro tipo di problema è quello dell’aborto terapeutico perché parliamo di donne che volevano un bambino ma hanno scoperto gravi malformazioni con la diagnostica. Al congresso di Napoli, Kypros Nicolaides, specialista di medicina fetale del King’s College di Londra, ha insistito sulla necessità di anticipare quanto più possibile i tempi della diagnostica. Entro il primo trimestre si deve arrivare a fare una valutazione precoce delle malformazioni, e quantificare il rischio di parto precoce. Se riusciamo a farlo, possiamo concentrarci sulle gravidanze a rischio con consulenze e interventi in utero. I medici non obiettori non sono pro aborto ma pro scelta della donna, quale che sia».

Repubblica Salute 18.11.14
“Ipocrita e immorale lavarsene le mani Io aiuto queste donne fino a 24 settimane”
“Non vado contro i tempi stabiliti dalla normativa”
intervista di Giuseppe Del Bello


DA UN LATO orgogliosa dei risultati del «nostro centro in cui in una sola settimana ci si prenota e si abortisce», dall’altro furibonda per le «incongruenze della 194 che andrebbero assolutamente cambiate». Carla Ciccone lavora da 35 anni nella divisione di Ostetricia e ginecologia dell’Azienda ospedaliera San Giuseppe Moscati di Avellino. Un’isola felice in una regione — la Campania — che, in linea con tutto il Sud, è al top per numero di medici obiettori di coscienza.
Incongruenze di che tipo?
«Come quella che permette a un obiettore di coscienza di scaricare una donna appena arrivata la diagnosi di malformazione fetale. Da quel momento il collega se ne lava le mani, soltanto perché la paziente sarà affidata ad altri per interrompere la gravidanza e lui si sente esentato da qualsiasi compito assistenziale. È fuori da qualsiasi etica professionale ».
Lei contesta l’impalcatura della 194?
«Senta, io mi interesso di aborti terapeutici: le infermiere e tutto lo staff sono impeccabili e, al massimo entro 48 ore, una donna viene avviata all’Ivg, ma è proprio l’obiezione di coscienza che dovrebbe essere abolita dalla legge. Ipocrisia da cancellare».
Ma non è un’ipocrisia per il medico-obiettore?
«Eh no, invece è proprio così. Perché chi ha le tasche piene di soldi, anche se è trascorso il termine fissato, può comunque permettersi l’aborto. Tre giorni fa è arrivata da noi una donna alla 25esima settimana con una seria alterazione cromosomica fetale. Ebbene, lei non rientrava nei protocolli e io gliel’ho detto. Non ha replicato nulla, aveva il danaro e se n’è andata in Grecia dove se ne fregano del tempo di gestazione. Eppure io fino alla 24esima settimana do la mia disponibilità all’aborto».
Ma il limite di legge scatta prima, lei non lo rispetta?
«Alt. La legge dice che entro 90 giorni è possibile abortire volontariamente, mentre 22 settimane e tre giorni sono il limite per l’aborto terapeutico».
Appunto, lei invece va avanti per altre due settimane.
«Certo, perché questo limite se l’è dato la comunità scientifica, non l’impone la legge. Io accetto entro e non oltre le 24 settimane, una soglia decisa con il Comitato etico».
Quanti obiettori ci sono nel suo ospedale?
«La percentuale è equilibrata, 50 a 50. E anche lo staff anestesista fa registrare lo stesso trend, mentre tra le ostetriche, due su sei sono obiettrici. L’anno scorso sono stati fatti 130 aborti terapeutici (dalla 13esima alla 24esima settimana); mentre quelli spontanei, entro i tre mesi, hanno toccato quota 700. E qui arrivano non solo donne da tutta la Campania, ma anche dal basso Lazio, da Foggia e dal Molise ».

La Stampa 18.11.14
Il Papa andrà a Philadelphia: «La famiglia base della convivenza»
“I bambini hanno diritto ad avere un padre e una madre”
Il monito al colloquio internazionale interreligioso sulla complementarietà tra uomo e donna, promosso dalla Congregazione per la dottrina della fede
di Andrea Tornielli

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Repubblica 18.11.14
L’armadio vuoto dei misteri d’Italia così la trasparenza diventa una beffa
di Filippo Ceccarelli


L’APERTURA degli armadi segreti è una gran bella iniziativa e un doveroso tributo alla democrazia, tanto più se l’operazione trasparenza inaugurata dal governo riguarda la declassificazione degli atti segreti sulle stragi che insanguinarono l’Italia dal 1969 al 1984.
L’annuncio venne dato personalmente dal premier Renzi il 22 aprile scorso in una conferenza stampa a Palazzo Chigi, seguirono una nota su Facebook e la foto della direttiva pubblicata su Twitter. Alla novità fu dato il giusto risalto, venne creata una specifica commissione e si crearono parecchie, legittime aspettative.
Il 15 maggio il sottosegretario della Presidenza del Consiglio Marco Minniti, Autorità delegata per la Sicurezza della Repubblica, spiegò che la mole di materiale era notevole assicurando che la sospirata « disclosure », più e più volte promessa da vari governi, avrebbe di certo «consentito al cittadino comune di andare all’Archivio di Stato non per trovare una verità giudiziaria, ma per ricostruire una storia politica del nostro paese ». Chiunque abbia lavorato sulle carte desecretate degli archivi americani o inglesi sa benissimo che è così: lì dentro si apprendono e si imparano molte cose, non di rado perfino sorprendenti.
Ma in Italia, evidentemente, no. A dispetto di qualsiasi proclama e impegno, una volta aperti gli armadi, viene quasi voglia di richiuderli. O almeno: come ha scoperto Repubblica, nel fascicolo finalmente consegnato dal ministero della Difesa sulla strage di Brescia (maggio 1974) si trova un materiale che può definirsi: preistorico, misero, quindi non solo inutile, ma anche grottesco nella sua misteriosa entità.
In concreto: cosa diavolo c’entreranno mai con piazza della Loggia le indagini effettuate dal Sifar tra il 1950 e il 1952 sulle sue iniziative commerciali del Pci con l’Est? Alcuni dei personaggi menzionati, oltretutto, Eugenio Reale e Spartaco Vannoni, futuro amico di Craxi e direttore dell’hotel Raphael, di lì a qualche anno uscirono pure dal partito.
Ancora. Quale sarà il nesso tra la bomba e una nota in cui il leggendario capo dell’Ufficio Quadri di Botteghe Oscure, Edo D’Onofrio, si diffonde sulla perequazione degli statali comunisti trasferiti per punizione (1952)? E la Commissione Europea di Difesa? Qui siamo al 1954: sulla Ced uscì dalla Dc Mauro Melloni, il futuro Fortebraccio.
Viene da pensare: ma allora tutto! E infatti ecco un appunto del 1968 sul Pci che invoca la riforma della Rai. E poi un arcano e monco carteggio svoltosi nel 1975 e 1976 tra Moro e Forlani a proposito del segreto di Stato da apporre su qualcosa che si comprende ancora meno del resto.
Questa la sbandieratissima declassificazione all’italiana? La s’indovina in bilico tra caos, inerzia, cialtroneria, gelosia di burocrati, insipienza archivistica e/o spionistica, come se una mano avesse pescato e inserito a caso. Comunque una beffa o una truffa per chi abbia ancora nelle orecchie lo scoppio della bomba e le grida terribili dei feriti. Un rotolone polveroso e vano. Un cestino di cartacce. O forse un rebus, una lotteria. Si attendono i nuovi arrivi, magari nel dossier sui traffici del Pci si troverà qualcosa di interessante sul terrorismo a Brescia e dintorni.

il Fatto 18.11.14
Quando Falcone iniziò a morire
di Gian Carlo Caselli


Giovanni Falcone fu assassinato dalla mafia il 23 maggio 1992, ma cominciò a morire il 19 gennaio 1988. Queste le parole pronunciate, nel trigesimo di Capaci, da Paolo Borsellino. Egli si riferiva a un’incredibile decisione della maggioranza del Csm: quando (con motivazioni risibili e con l’apporto decisivo di qualche Giuda; ancora parole di Borsellino) fu preferito a Falcone, come successore di Nino Caponnetto a capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, Antonino Meli, deceduto in questi giorni all’età di 94 anni.
Per Falcone un’umiliazione tremenda e del tutto inattesa, se si considera che il Csm si era messo sotto i piedi una sua delibera del 15 maggio 1986, che per la nomina dei dirigenti degli uffici di frontiera nella lotta alla mafia aveva introdotto il parametro della professionalità specifica. Parametro poco tempo prima correttamente applicato nominando procuratore di Marsala Borsellino, e non un magistrato molto più anziano di lui totalmente digiuno di mafia. Un caso del tutto identico (anzianità contro professionalità antimafia) a quello Meli-Falcone: ma questa volta la maggioranza del Csm, con una ardita capriola, rovesciò i suoi criteri di scelta.
E DIRE che Meli, trasparente-mente, aveva chiarito al Csm (in apposita “audizione”) che lui del “metodo Falcone” non sapeva che farsene. Se fosse stato scelto avrebbe cancellato il pool, la squadra di specialisti che si occupava soltanto di mafia. I suoi magistrati avrebbero dovuto occuparsi, come in passato, di tutto un po’. E una volta nominato, coerentemente frantumò le inchieste e le parcellizzò in mille rivoli. Specializzazione e centralizzazione relegate in soffitta. Ora, scegliendo Meli invece di Falcone, la maggioranza del Csm non poteva non rendersi conto di condannare a morte il pool e il suo metodo di lavoro. Perciò, con una buona dose di ipocrisia anche i consiglieri che avevano votato contro Falcone assunsero l’impegno solenne di difendere il suo metodo, nonostante quel che Meli aveva esplicitato. Ma quando quest’ultimo effettivamente smantellò il pool, il Csm lasciò fare e se la prese… con Borsellino, “colpevole” di aver denunciato lo smantellamento. Egli infatti, spinto dalla “spiacevole sensazione che qualcuno voglia tornare indietro” di vent’anni, intervistato nel luglio ‘88 da Attilio Bolzoni e Saverio Lodato, aveva lanciato un violento j’accuse contro le indagini arenate e lo Stato che sembrava aver gettato la spugna, favorendo la riorganizzazione di Cosa Nostra. Per queste dichiarazioni egli fu sostanzialmente processato dal Csm, che gli rimproverò di... non aver percorso le vie istituzionali. Ridicolo. Tutto finì poi in nulla, ma solo dopo infinite polemiche. Intanto l’avviso ai naviganti era partito: guai a toccare certi fili.
Della vicenda Meli-Falcone si deve ricordare un altro profilo. Ed è che Meli aveva presentato anche domanda per la presidenza del Tribunale di Palermo. Qualcuno però lo convinse a ritirarla e a rimanere in lizza solo per il posto di consigliere istruttore, garantendogli evidentemente la nomina. Senonché, il rapporto tra presidente del Tribunale e capo dell’Ufficio istruzione era lo stesso che può esserci tra la direzione di un grande quotidiano nazionale e la rubrica della posta del cuore su un foglietto di provincia. Non tanto perché l’Ufficio istruzione non fosse un posto importante, semplicemente perché si era a pochi mesi ormai dall’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale (1989) che quell’ufficio avrebbe per sempre cancellato.
DUNQUE la scelta del Csm (preceduta da una vera e propria bagarre, con punte di asprezza davvero vergognose) non si spiega riducendo la successione di Caponnetto a una mera questione di nomi. Era anche questo, ma non solo. Trattandosi di dirigere un ufficio ormai “defunto”, emerge ancora una volta che il punto centrale era la valutazione del metodo di lavoro contro la mafia che aveva portato alla clamorosa vittoria del maxi-processo. Bocciando Falcone a un passo dalla sconfitta della mafia, di fatto si indicava un percorso ben strano: rinunziare a combattere per ricominciare a sparare a salve. Come si vede, di “stranezze” se ne possono scorgere in tante fasi della lotta antimafia. Non sono un’esclusiva delle complesse vicende rubricate alla voce “trattativa”.

il Fatto 18.11.14
La storia oscura non chiarita, si ripete
di Sandra Bonsanti


Ci risiamo. Ci risiamo a quel clima orrendo che ha segnato la storia tragica della nostra Repubblica. Ci risiamo al 1992 ma non soltanto... speriamo di no, muoviamoci affinché non sia così. Ma quelle frasi tremende sul tritolo “che è già arrivato” per Nino Di Matteo, gli avvertimenti al Procuratore generale Roberto Scarpinato, e quel clima speciale che si stabilisce all’interno delle istituzioni appena si avvicina l’elezione del presidente della Repubblica, non può non destare allarme. E la situazione è tanto più grave in quanto cominciano quei disordini sociali che sono così facili da infiltrare e indirizzare verso finalità oscure. Mentre il Paese è governato da chi disprezza la trasparenza e il Parlamento e predilige accordi riservati.
COME SE NON bastasse sono riapparsi sulla scena personaggi legati al nostro passato più controverso: vedi la presenza di Michael Ledeen, storico e giornalista americano, fortemente legato all’intelligence Usa, dichiarato “indesiderabile” negli anni Ottanta e tornato in auge prima con Berlusconi e ora con Matteo Renzi e Marco Carrai.
C’è di che essere fortemente preoccupati.
È come se il nostro Paese non volesse mai lasciarsi alle spalle quella posizione di ancella fedele e sottomessa che accettò sin dal primo dopoguerra. La subalternità forse ci piace, ma a me pare rischiosissima soprattutto quando il potere è nelle mani di pochissimi, e la democrazia costituzionale è derisa e ignorata.
In questo clima la nuova commissione sul sequestro e l’uccisione di Aldo Moro ha speditamente imboccato la strada dell’influenza avuta dalla Cia (ed eventuali altri servizi) nella gestione e nel finale dei 55 giorni. Sono cose antiche, si dirà. Ma come ci ha insegnato l’intramontabile Bobbio, se ciò che è oscuro non si chiarisce è destinato a perpetrarsi. Noi abbiamo alle spalle un passato di non verità e un esercito di morti ammazzati in stragi rimaste senza giustizia.
Faccio un esempio: io sono assolutamente convinta (anche perché ricordo le esternazioni di alcuni dei protagonisti di allora, come Man-nino) che la trattativa tra mafia e Stato ci fu. Ma chi rappresentava lo Stato, in questa trattativa? Davvero lo stratega fu il presidente Scalfaro come affermano oggi comodamente alcuni testimoni, o c’è ancora da scavare sui protagonisti di quella tragica vicenda? Certamente in parte lo Stato era rappresentato da chi trattava con Ciancimino ecc., ma i veri politici coinvolti chi furono?
MI TORNA SPESSO in mente una risposta che mi dette Scalfaro quando gli feci una domanda che per molto tempo non avevo avuto la possibilità di fargli. Era il 24 gennaio 2011 ed ero andata nel suo studio di Palazzo Giustiniani per registrare, con Enrica Scalfari, un video che Libertà e Giustizia avrebbe proiettato alla manifestazione del Palasharp per chiedere le dimissioni di Berlusconi. Ero rimasta sola col presidente mentre si preparavano le attrezzature e gli chiesi: “Perché il 3 novembre del ‘93 a reti unificate lei disse quel celebre ‘Io non ci sto’? ”.
Una domanda improvvisa, una risposta immediata: “Volevano farmi fare cose che io, magistrato, non potevo fargli fare”. Tutta l’intervista che seguì fu un inno alla magistratura e al dovere di assicurarne l’autonomia. Non dimentico le sue parole e mi chiedo se fu davvero lui ad allentare la morsa sul 41-bis oppure se volevano quello ed altro da lui: chi “voleva”? Io non lo so, ma ricordo che in quei mesi il Quirinale, il presidente e la figlia Marianna, erano accerchiati dalla morsa dei servizi, regolari o deviati. E ricordo le minacce della Falange armata oltreché la lettera dei familiari della mafia. Insomma, non mi convincono le accuse dei Martelli e Amato. Così come non mi hanno mai convinto Mancino e Mannino. E mi piacerebbe che si indagasse oltre, anche perché la verità ci serve a capire cosa sta succedendo oggi. Che gli uomini al potere sono altri, ma che il ricatto della non giustizia fatta continua a pesare e forse ancora a indirizzare molto più di quanto ci appaia giorno dopo giorno, tweet dopo tweet. E il papello del primo Nazareno è tuttora segreto in qualche armadio della vergogna

La Stampa 18.11.14
Opera di Roma, trovato l’accordo per evitare i licenziamenti
Buone notizie per i 180 musici ai quali è stata congelata una parte del salario accessorio
Si prevedono risparmi per 3 milioni e c’è l’impegno a non scioperare più

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La Stampa 18.11.14
I volti di Aleppo sono polvere e pietre
La Storia ha ucciso la rivoluzione
Qui convivevano fedi diverse e nel 2011 nacque la rivolta laica pro-democrazia Ma oggi le sue strade sono terreno della guerra fra islamisti e truppe di Assad
di Domenico Quirico


Aleppo è la mia città assassinata. Laggiù, ormai fuori del tempo ma eternamente dentro il dolore, rigida, calcificata nelle sue rovine, coperta di polvere e di morti.
L’ho vista molte volte in questi quattro anni agonizzare, un grande organismo vigoroso e amorfo che respirava, si agitava, mormorava e riempiva l’atmosfera del suo alito caldo, ubriacante e torbido. Ora Aleppo è morta. Aleppo della rivoluzione, Aleppo martire, Aleppo simbolo, Aleppo indomita, è stata sgozzata come gli ostaggi del vicino oriente. Questa città ne era l’essenza, ciò che ne rimaneva, come il precipitato di una reazione chimica.

L’ultimo passaggio attraverso cui l’Armata Siriana Libera, anzi il poco che ne resta, riforniva e raggiungeva la città, è caduto. La rivoluzione siriana è davvero finita. Faccia a faccia restano i suoi assassini: l’esercito di Bashar e le milizie dello Stato islamico. Stamane a Roma Andrea Riccardi e la Comunità di Sant’Egidio promotori in giugno di un appello per salvare la città teatro della coesistenza secolare tra uomini che pregano dio chiamandolo con nomi diversi, richiameranno, ancora una volta, attenzioni distratte a riflettere su delle grandi tragedie di questo tempo. L’appello era stato firmato da premi Nobel, personalità politiche e religiose, intellettuali. Ma ormai la possibilità di ottenere una «città aperta» per salvarla e salvare coloro che ancora ci vivono stritolati dal maglio della guerra civile, è sfumata. Parliamo di morti.
Arrivavi ad Aleppo scivolando su un tratturo tra dolci colline, poi imboccavi l’autostrada che aggira la zona industriale a tutta velocità: perché qui i militari e gli «shabia» uscivano spesso per montare, con i blindati, improvvisi e letali posti di blocco. Non riuscivi neppure tu a spiegarti l’improvvisa vampata di benessere quando superavi il primo presidio dei ribelli con la bandiera a tre stelle vicino alla carcassa del carro armato distrutto, e poi, a destra, come un monumento intangibile o il segnale sulla via, un altro rottame, una jeep russa. Non era il pericolo scampato. Era la gioia del viaggiatore che trova rifugio dopo un percorso burrascoso.
La prima volta che vi entrai, ancora, nei quartieri controllati dagli insorti, si organizzavano manifestazioni contro il regime; bambini marciavano in testa, sembra incredibile raccontarlo, con striscioni che invocavano libertà e dignità. Qualcuno alzava caricature del dittatore, «l’oca» come lo chiamavano, o «l’oculista», per il collo lungo e per il vecchio mestiere, prima di ereditare una tirannide.
L’oratore saliva su un palco improvvisato e arringava la folla di quartiere, senza invocare jihad, massacri, eliminazioni. Alla fine scandivano il «takbir», dio è grande; ma era una richiesta di aiuto, non una maledizione. Era gente, quella di Aleppo, che sognava più che una democrazia come la disegniamo noi, uno stato di diritto, dove la gente non venisse arrestata perché si era fatta crescer la barba o perché si riuniva in più di cinque persone. E dove non ci volesse una autorizzazione dei mukabarat, torvi e feroci agenti dei servizi di sicurezza, per sposarsi, e non si venisse convocati perché i figli giocavano con le biglie, potenziale strumento di rivolta. Anche questo accadeva nel regime.
Si combatteva, certo, e duramente, sulla linea che divideva la città, i colpi della artiglieria cadevano scintillando contro il cielo azzurro come un fiammifero acceso. Ma si andava al fronte in taxi, automobili derelitte, con l’autista che strappava gemiti al motore per passare di gran carriera le zone sotto il tiro dei cecchini o guidava con il naso all’insù per seguire le evoluzioni troppo pedanti di un elicottero assassino.
Ti sentivi addosso gli occhi dei bambini allora, scintillanti di gioia silenziosa anche se si viveva già cacciati sotto le rovine, inimicati con la luce, con la chiarezza, con la verità. E la gente in strada era portata via dal vento delle esplosioni in immensi frammenti, era sotterrata nel cielo.
Come si uccide una città intera? A poco a poco, smontandola. Dopo qualche mese camminavi nelle vie dei vecchi quartieri ormai abbandonati come in fondo a uno stretto canyon, sgusciando tra i rottami, i calcinacci, i fili della corrente elettrica che pendevano come arterie recise. Era silenzio, solo lo scricchiolio del vetri rotti sotto le tue scarpe e l’acqua che colava dalle tubature esplose. Eppure trovavi ancora qualcuno che ti chiedeva: «Noi abbiamo infranto il muro della paura. Quando lo farete anche voi europei, e ci aiuterete?».
Sì, la rivoluzione non era ancora sfuggita di mano al popolo siriano, non c’erano lugubri combattenti vestiti di nero che parlavano male l’arabo, ma sapevano uccidere con flemmatica ferocia. Poi la città, bagnata da un sole rovente, cominciò a coprirsi di una maleodorante polvere che ristagnava in una densa nube e puzzava di cordite. I bombardamenti da terra e dal cielo erano diventati continui, i mortai con le «nail bomb» piene di chiodi colmavano gli spazi vuoti, anche nel buio gli aerei passavano snelli e mortali contaminando la notte. Le mitragliere e i traccianti li inseguivano, schizzando verso i bersagli sconsolatamente in ritardo, come razzi al rallentatore.
La città era divisa in due, il buio dei quartieri già rasi al suolo e la luce di quelli dove ancora ci si batteva. Ora trovavi gente che ti inchiodava con occhi gelidi, una nuova guerra fanatica e straniera si era infiltrata dappertutto, come un verme in ogni cellula di questa città.
I pochi amici ancora vivi ti salutavano con «dio eccomi», la formula per l’arrivo alla Mecca: ci sottomettiamo a te. Era ormai un turbine così profondo che nemmeno si scorgeva in qual senso vi si cade, in profondità che non si vedono. La città muore, tutta quella vita annega la fiamma e l’acciaio e si richiude e si riforma come il mare. Quei volti che ho conosciuto laggiù ora non sono più che polvere e pietre.

il Fatto 18.11.14
Londra, orge dei Vip
C’è un testimone: “Uccisero un bambino”
di Caterina Soffici


L’INCHIESTA SUI PEDOFILI DI WESTMINSTER NEGLI ANNI 70-80, PARLA UNA DELLE VITTIME, PORTATA DAL PADRE AI FESTINI: “MI VIOLENTARONO, C’ERANO PARLAMENTARI E UN MINISTRO”

Londra Con la passione degli inglesi per incasellare sempre tutto, questa nuova branca dell’inchiesta sui pedofili di Westminster l’hanno chiamata Midland Operation. Scotland Yard non ha spiegato perché, ma il nome dà l’idea che siamo davvero in una terra di mezzo, una sorta di terra di nessuno, senza legalità e neppure pietà, dove un bambino di 12 anni può essere portato dal padre adottivo in una casa di piacere per Vip e parlamentari depravati, che pagano per fare di lui cane di porco e assistere addirittura all’omicidio di un suo giovane compagno di sventure. È la prima volta che si parla di omicidio, oltre agli abusi sessuali. E questa volta c’è un testimone oculare, una delle vittime di allora (si parla di episodi avvenuti tra gli anni 70 e 80), che alla bellezza di 40 anni suonati ha deciso di parlare e di raccontare quello che ha visto. Questa nuova branca dell’inchiesta esce ora grazie al giornale online Exaro, esperto in giornalismo investigativo, che lavora sul caso da mesi, ha agganciato il testimone oculare e l’ha convinto a parlare a Scotland Yard. Lo hanno chiamato “Nick”.
NICK RACCONTA cose agghiaccianti. Da ragazzino, veniva portato in questi luoghi di perdizione, case private principalmente, dove uomini famosi, parlamentari e anche un ministro dell’allora governo conservatore, abusavano dei bambini. Una volta ha assistito allo strangolamento di un ragazzo di 12 anni. “Non so come ne sono uscito vivo”, ha detto. Nick ha raccontato poi di aver visto uccidere anche un altro bambino, di 10 o 11 anni, investito da una macchina guidata da uno degli stupratori di fronte a un gruppo di altri ragazzini terrorizzati. Un monito a lui e agli altri di tenere la bocca chiusa, di non raccontare mai a nessuno degli abusi se non volevano fare la stessa fine. Un altro ragazzino sarebbe stato ucciso durante un’orgia, dove era presente anche un deputato conservatore. La prima volta Nick fu abusato a un party di Natale da due parlamentari. Aveva 11 anni. Le sue parole sono crude: “Ci chiedevano se volevamo un drink. Era sempre del whisky. I parlamentari erano brutali. La prima volta sono stato violentato contro una vasca da bagno, e mi tenevano la testa sotto l’acqua”. Nick ricorda di essere stato inserito in questo giro di pedofili da suo padre, che aveva già abusato di lui. “Venivamo prelevati da macchine di lusso, guidate da chaffeur e portati a questi party in vari luoghi”, compreso un complesso di appartamenti vicino al Parlamento di Westminster. Tre omicidi sui quali adesso sta indagando Scotland Yard. Presunti, per il momento. Perché di alcuni di questi ragazzini non si conosce neppure il nome. Ma il testimone sembra assolutamente attendibile e alza il livello dell’indagine a un punto tale che la politica difficilmente potrà ignorare. Sono troppi i misteri e le nebbie che coprono gli abusi di Westminster. Per adesso ogni operazione ha il suo nome. C’è il mistero del Dossier Dickens, un rapporto su abusi di quegli anni che era stato consegnato all’allora ministro degli Interni e che è misteriosamente scomparso. C’è un’indagine su una casa degli orrori, la cosiddetta Elm House, dove le vittime venivano portate per festini e orge con vari personaggi, tra i quali alcuni parlamentari. Ora questo nuovo filone, Operation Midland, dentro una operazione più ampia, la Operation Fairbank. Insomma, tanti nomi e si gira sempre intorno allo stesso pallino. Prima o poi si tireranno le fila e le cose verranno a galla. Non sarà facile, perché da quanto scrivono i giornali britannici, sono coinvolti politici di allora, ma ancora in attività.

Repubblica 18.11.14
Pedofili a Westminster
“Politici di primo piano coinvolti in stupri e omicidi di bambini”
di Enrico Franceschini


LONDRA MANCAVANO solo gli omicidi per dare al parlamento di Westminster la reputazione di una casa degli orrori, degna di un romanzo di Stevenson o di Dickens, e adesso sono arrivati anche questi. Da anni gli scandali di pedofilia in Inghilterra sono diventati così frequenti da sembrare un virus: ne sono venuti alla luce ovunque, all’interno della Bbc, in scuole private, orfanatrofi e ospedali, quindi perfino dentro alla camera dei Comuni. L’estate scorsa è emerso che un dossier di 114 casi di pedofilia e abusi sessuali, su cui la polizia aveva indagato negli anni ‘80, era scomparso dagli archivi di Scotland Yard, spingendo il ministero degli interni ad aprire addirittura un’inchiesta su un possibile cover up, un insabbiamento da parte delle più alte autorità del paese, su orge, violenze e stupri che coinvolgevano la leadership politica nazionale. Ma niente era mai stato insinuato di paragonabile alle rivelazioni dello scorso fine settimana, quando un uomo di 40 anni, identificato soltanto come “Nick”, ha raccontato alla Bbc di essere stato violentato per lungo tempo da ministri e deputati del partito conservatore, di avere assistito personalmente all’omicidio di un ragazzino di 12 anni da parte di un deputato dei Tories che aveva precedentemente abusato sessualmente la sua vittima, e di essere a conoscenza di almeno altri due delitti dello stesso genere commessi da una rete di altolocati pedofili in una lussuosa residenza di Londra.
I fatti risalgono agli anni ‘80, le accuse sono rimbalzate su tutti i giornali e Scotland Yard ha ammesso di avere aperto un’inchiesta. Ieri un deputato laburista, Tom Watson, ha chiesto al primo ministro David Cameron, vista la gravità e la vastità delle accuse riportate, di creare una task-force per investigare la vicenda. Non è chiaro perché “Nick”, probabilmente non il suo vero nome, abbia deciso di fare proprio ora la sua confessione, anche se è possibile che i numerosi scandali degli anni passati possano avergli dato il coraggio di parlare. Nell’intervista alla Bbc, l’uomo afferma di essere stato abusato sessualmente da membri del parlamento e generali delle forze armate per ben nove anni. In particolare, ha sostenuto di essersi trovato nella stessa stanza in cui un bambino di 12 anni venne strangolato da un deputato, in un’elegante casa di Londra, a metà circa degli anni ‘80. Nick ha dichiarato che lui e il ragazzino furono portati insieme nella villa in un’auto con autista allo scopo specifico di essere sessualmente abusati. Al termine di quella che descrive come un’orgia gay, il suo giovane compagno venne ucciso da uno dei pedofili. «Ero lì e ho visto mentre succedeva», dice l’uomo. «Non so come ne sono uscito vivo io stesso». Nick afferma che un anno e mezzo più tardi un secondo ragazzino fu assassinato dalla stessa gang di pedofili vip alla presenza di un pezzo grosso del partito conservatore, all’epoca ministro, dopo un brutale assalto sessuale. E racconta che un terzo bambino, di 10 o 11 anni, fu ucciso dalla banda, investen- dolo con un’auto in una strada della capitale.
L’autore di queste raccapriccianti rivelazioni spiega che fu suo padre a consegnarlo alla rete dei pedofili, evidentemente in cambio di soldi, e precisa di essere stato ripetutamente violentato durante “sex party” che si svolgevano a Dolphin Square, in un condominio del quartier di Pimlico, non lontano dal parlamento, dove molti deputati avevano un appartamento. Finora si credeva che la sera, al bar di Westminster, qualche deputato bevesse troppo e allungasse le mani. Adesso viene il sospetto che tra i politici inglesi ci fossero degli assassini, che prima stupravano bambini e poi li sopprimevano. Un horror film dentro la casa della democrazia.

Corriere 18.11.14
Hamsun, il premio Nobel che pagò le colpe di Hitler
I diari dell’internamento forzato per motivi politici
di Pierluigi Battista


La storia non fa sconti alla destra: da Pound a Céline. Alla sinistra sì. Oramai quasi novantenne, Knut Hamsun fu costretto a girare tra manicomi e ospizi, sottoposto ad atroci soprusi da parte di carcerieri che non nutrivano soggezione alcuna per uno scrittore che pure nel 1929 era stato insignito del premio Nobel per la letteratura. Il romanzo che lo aveva reso famoso, Pan , era del 1894, Fame del 1900, lo stesso anno dell’ Interpretazione dei sogni di Sigmund Freud. Thomas Mann, Bertolt Brecht e Gottfried Benn riconoscevano nei suoi romanzi una delle vette della narrativa europea.
Ma dopo il 1945 questo gigante della cultura norvegese ed europea venne «umiliato in modi anche gratuiti», come ha scritto Filippo La Porta. Privato della lettura di libri e giornali, escluso dal prestito della biblioteca dell’ospizio (ed era pure quasi cieco), divenne vittima di «incredibili perizie psichiatriche» e, è ancora La Porta che scrive, fu «costretto a pescare la corrispondenza nel lago di minestra e caffé che si formava nel suo vassoio». Come mai questo trattamento crudele per uno scrittore tanto prestigioso? Perché si era infatuato così spudoratamente del nazismo da fare omaggio a Goebbels della sua medaglia del Nobel. Perché aveva vergato un servile panegirico all’Hitler trionfante. Perché aveva «tradito la Patria norvegese», accodandosi al governo fantoccio filonazista di Quisling. Perché aveva frequentato il Male assoluto. Perché aveva radicalizzato così furiosamente la sua protesta contro la modernità, la città, l’industria senz’anima che schiaccia gli individui, e aveva così idealizzato un culto per la Natura incontaminata e «autentica», da vedere nel nazismo e nel suo Führer il compimento di un eroico destino. Perciò doveva essere punito. E nelle forme più spietate.
In questi giorni l’editore Fazi ripubblica opportunamente un grande documento della condizione spirituale degli intellettuali nell’epoca dei totalitarismi: Per i sentieri dove cresce l’erba . È il resoconto dettagliato della punizione che Knut Hamsun dovette scontare per aver fornito idee, suggestioni, atmosfere, oggi si direbbe «narrazione», alla causa demoniaca del nazismo. Non si poteva tollerare che intellettuali prestigiosi avessero messo la loro penna o le loro tele al servizio di una causa dannata. Perciò la vicenda di Hamsun risulta ancora oggi conturbante. Le idee e le persone che le incarnavano vennero caricate di una responsabilità storica in una misura inedita nella storia moderna. Tra le parole e le cose la distanza fu abolita. Il fiancheggiamento ideologico dell’orrore venne equiparato all’orrore stesso. Non poteva esserci differenza tra uno scrittore e un aguzzino di Auschwitz. Un grande giurista che servì senza riserve ogni atto del nazismo, Carl Schmitt, venne messo in prigione per un anno e mezzo e portato alla sbarra a Norimberga come «maggior criminale dal punto di vista morale». Le pagine del suo Ex captivitate salus (tradotto e pubblicato in Italia da Adelphi) assomigliano in modo impressionante a quelle di Hamsun in Nei sentieri dove cresce l’erba . Affiora in entrambi lo sconcerto per qualcosa di inaudito: l’equiparazione «dal punto di vista morale» dell’adesione intellettuale a un regime rispetto alle nefandezze da esso compiuto. Portare argomenti intellettuali a un regime che si è macchiato di crimini contro l’umanità diventò esso stesso un crimine contro l’umanità.
Per questo l’«epurazione» post-nazista non ha risparmiato gli scrittori e i filosofi coinvolti con il Male. In Francia Robert Brasillach, il più celebre dei cantori del collaborazionismo con i nazisti (assieme a Pierre Drieu La Rochelle, suicida nella temperie della sconfitta), era stato condannato a morte. Louis-Ferdinand Céline conobbe l’esilio. Martin Heidegger, raccontano i suoi biografi, visse quegli anni nell’incubo «d’essere privato della sua biblioteca» e, allontanato dall’accademia, recluso nel suo «rifugio» nella Foresta Nera, riceveva i libri recapitati regolarmente con le pagine strappate con cura dai sorveglianti. Ed è nota la sorte di Ezra Pound, il grande poeta americano che non negò i suoi servigi al regime mussoliniano e che venne trattato come un traditore, prima rinchiuso in una «gabbia per gorilla» nel campo di Coltano vicino a Pisa, e poi segregato per dodici anni nel manicomio criminale di St. Elizabeths a Washington. Una sequenza ancor più impressionante se si pensa alla distanza assoluta tra le parole e le cose, tra il limbo d’innocenza in cui sono stati protetti gli intellettuali che si sono consacrati ad altre cause portatrici di morte e massacri e la storia «effettuale» scaturita da quelle idee.
Chi ha potuto far notare a Louis Aragon la vergogna di aver intonato un inno imbarazzante ai carnefici della Gpu, la polizia segreta sovietica, o al poeta Pablo Neruda quella di aver dato manforte agli assassini del poeta Mandel’štam? E le legioni di intellettuali occidentali che hanno osannato la Rivoluzione culturale di Mao malgrado i campi di concentramento e le esecuzioni di massa? E i sostenitori dell’aguzzino Pol Pot che fece strage in tre anni di un terzo della popolazione cambogiana? Per un inno a Stalin, mentre il Gulag raggiungeva vertici di spaventosa crudeltà, non si è mai avuta condanna e anzi la reputazione degli adulatori non ha mai subìto alterazioni. Per uno a Hitler, Hamsun venne rinchiuso in manicomio criminale sulla soglia dei novant’anni, e con lui Pound, Heidegger e Céline.
Può darsi che questo duplice esito fosse inevitabile. Ma certo non si può negare che in quello scorcio tragico della storia le «idee» non hanno goduto del privilegio solitamente loro accordato dai princìpi della libertà d’opinione. In quell’apocalisse non si potevano implorare sconti e la spietatezza dei tempi non poteva risparmiare un vegliardo come Knut Hamsun? Può darsi, ma Per i sentieri dove cresce l’erba è un documento eloquente di quella tragedia.

Corriere 18.11.14
Come la città di Kant divenne base sovietica  
risponde Sergio Romano


Ci può dire qualcosa di più di Kaliningrad, l’enclave russa sul mar Baltico, di cui si è parlato in un articolo del Corriere ? A quanto pare si tratterebbe di territorio russo che, però, non confina con la Russia, ma con Paesi della Unione Europea.
Monica Alessandri

Cara Signora,
Kaliningrad è il nome che Mosca dette alla città di Königsberg, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, per onorare la memoria di un militante bolscevico, Michail Kalinin, presidente del Presidium del Soviet Supremo (una carica equivalente a quella di capo dello Stato) sino al suo ritiro dalla vita pubblica nel 1946. In teoria il possesso sovietico di questa città della Prussia orientale era provvisorio e destinato a durare soltanto sino al giorno in cui una conferenza della pace avrebbe formalmente definito i confini dell’Urss con i suoi vicini occidentali. Ma la rottura del fronte alleato e la Guerra fredda rinviarono il trattato di pace alle calende greche e il problema dei confini fu risolto con la firma dell’Atto di Helsinki nell’agosto del 1975: un documento che formalizzava i mutamenti di frontiera avvenuti alla fine della Seconda guerra mondiale ed evitava, in linea di principio, qualsiasi futura contestazione territoriale.
Ma l’Urss, nel frattempo, non aveva atteso l’Atto di Helsinki per trasformare il possesso in proprietà. L’operazione fu facilitata dalle condizioni di Königsberg alla fine del conflitto. La città era stata interamente distrutta, le tracce del suo passato teutonico e prussiano erano scomparse, la popolazione era fuggita. I sovietici costruirono una città nuova, la popolarono con immigrati provenienti da altre regioni del loro sterminato Paese (fra cui un gruppo di tedeschi del Volga, arrivati in Russia all’epoca della Grande Caterina), costruirono una sontuosa cattedrale ortodossa, sostituirono la toponomastica tedesca con una toponomastica slava, fecero del porto una delle principali basi d’appoggio per la flotta russa del Baltico.
Più recentemente la città ha attraversato due fasi distinte e potenzialmente contraddittorie. Nell’agosto del 2005 Vladimir Putin sembrò desideroso di valorizzare il grande passato della città e festeggiò il 750° anniversario della sua fondazione invitando a Svetlogorsk (il nuovo nome di Rauschen, una Rapallo del Nord molto amata da Thomas Mann) il presidente francese Chirac e il cancelliere tedesco Schröder. Nel frattempo erano cominciati i restauri della grande cattedrale luterana e l’università era stata intitolata al nome del più noto e ammirato cittadino di Königsberg: il grande filosofo Immanuel Kant. Ma in tempi più recenti Königsberg-Kaliningrad è tornata alle cronache come base militare. È accaduto quando Dmitrij Medvedev, allora presidente della Repubblica russa, ha dichiarato che se gli Stati Uniti avessero installato basi missilistiche in Paesi un tempo membri del Patto di Varsavia, la Russia avrebbe installato i suoi missili a Kaliningrad. Sono state le prime avvisaglie di quella che rischia di essere, soprattutto dopo le vicende ucraine, una nuova Guerra fredda.