mercoledì 19 novembre 2014

il Fatto 19.11.14
Amalia Signorelli
“La diseguaglianza oltre i limiti porta violenze”
intervista di Antonello Caporale


Crateri improvvisi di povertà si aprono davanti a noi, proprio come le buche dei marciapiedi di Roma, tutti così dissestati da darci pensiero, da obbligarci alla fatidica domanda: ma siamo divenuti così?
Amalia Signorelli registra da antropologa il dissesto sociale, una umanità in continuo smottamento e la nazionalizzazione dei furori di Tor Sapienza.
La collera è figlia di una crisi che adesso inizia a spaventare perché incide così profondamente sul regime di vita da tracimare dai luoghi in cui la nostra esistenza è messa a dura prova. Non sono solo le periferie urbane a subìre i contraccolpi di una povertà che rasenta la fame. Il cerchio inizia a stringersi e dalle borgate prende la direzione del centro città dove vivono isole di disperazione, microperiferie umane. Le fiammate di violenza sono poi frutto di autocombustione. Ogni motivo è buono per mostrare la collera, e le occasioni non mancano purtroppo.
Siamo al contagio della collera?
È scontato che la sofferenza sociale condotta oltre i limiti fisiologici della diseguaglianza inizi a tracimare in atti individuali o collettivi di protesta. Sono violenze disseminate lungo i viali di un Paese che si sta sgangherando perché accanto agli ultimi (oggi facciamo il conto dei conflitti per l'occupazione abusiva delle case popolari a Milano e a Torino) iniziano a dare segni di cedimento anche i penultimi, quel popolo che campava modestamente ma con dignità. Invece dentro quel corpo così largo si aprono voragini di povertà, tanti singoli piccoli drammi umani e familiari, tanti cedimenti che scopriamo con sgomento dietro la porta accanto alla nostra.
Frana il costone di roccia, affondano intere città e andiamo sott’acqua anche noi?
Renzi aveva fatto balenare la speranza, distribuita in dosi massicce per scacciare le mille paure di chi ha perso il lavoro o teme di perderlo oppure non riesce neanche a trovarlo. Ma quella popolarità guadagnata così abilmente è stata poi sostenuta da un atteggiamento piuttosto dispendioso in termini di rigore istituzionale. Stiamo anche scoprendo che le sue magnifiche virtù hanno un carattere provvisorio, molto instabile.
Malgrado i propositi la realtà – cocciuta – si oppone a Renzi?
Avesse avuto più modestia avrebbe forse valutato meglio i limiti di una corsa a perdifiato verso il nulla. Mesi persi a illustrare opinioni che alla prova dei fatti si sono rivelati piuttosto inconsistenti. Analisi economiche sbagliate e strategie politiche nebulose. Il risultato è che, ad oggi, siamo messi peggio di prima malgrado la gioventù e la fierezza rottamatrice.
La gente è in strada e il Palazzo al chiuso che sigla il patto del Nazareno.
In Italia le classi dirigenti non hanno idea, nel senso tondo e assoluto del termine, di quel che accade nella pancia popolare. Non hanno contiguità con le classi meno abbienti né interessi che riescono a condividere. Non sanno, ecco. Altrimenti si accorgerebbero di urgenze che stentano a comprendere. La paura fa spaccare le vetrine, riduce la vita a una impresa solitaria e disperata.
Io odio te, tu odi l’altro.
Esatto: il nemico divieni tu che mi stai vicino. Sei immigrato? Fuori dalla mia casa. E domani accadrà con altri ceti e gruppi. I poveri contro i poverissimi in una lotta senza quartiere.
Non abbiamo speranza, dunque?
C’è una nuova generazione di giovanissimi che inizia a dare segni di vitalità, di partecipazione democratica e di interesse alla cosa pubblica. Esercitano il sacrosanto diritto all’interferenza. Domandano giustamente al sindaco di Carrara perché non abbia controllato i lavori che dovevano tutelare la città dalle piogge e dalle esondazioni e in qualche modo, dichiarato il fallimento delle Istituzioni, tentano di sostituirsi. È una azione primitiva di responsabilità sociale, ma è almeno un granello di speranza. Possiamo sognare anche un contagio positivo e confidare che finalmente non siano solo nuvole nere in cielo.

Il Sole 19.11.14
Immigrazione. Nel 2012 cittadinanza concessa a 65mila persone contro le 115mila della Germania e le 96mila della Francia
Nazionalità, l'Italia fanalino di coda Ue
di Beda Romano


BRUXELLES Complice una legge sulla cittadinanza restrittiva e forse anche una cultura nazionale poco votata all'integrazione dello straniero, l'Italia è tra i paesi in Europa meno generosi nel concedere la propria nazionalità. Gli ultimi dati di confronto europeo pubblicati ieri da Eurostat tratteggiano un quadro che smentisce i pregiudizi e conferma quanto l'Europa stia cambiando. Forse, con una buona dose di ottimismo, si può già parlare di un melting pot all'americana.
Secondo il braccio statistico dell'Unione Europea, i Ventotto hanno concesso la loro nazionalità nel 2012 a 708mila stranieri provenienti dall'esterno dell'Unione. Il totale sale a 818mila quando vengono inclusi coloro che avevano la nazionalità di un altro stato membro. In questo caso, l'aumento è stato del 4% rispetto al 2011 e del 6% rispetto al 2009. I principali beneficiari sono stati nell'ordine i cittadini del Marocco, della Turchia, dell'Ecuador e dell'India.
L'Italia ha concesso la propria nazionalità a 65mila persone nel 2012, con un tasso di naturalizzazione di 1,1 per ogni mille abitanti. I grandi paesi europei si sono dimostrati molto più generosi. La Germania ha dato il proprio passaporto a 115mila stranieri (con un tasso di naturalizzazione di 1,4), la Francia a 96mila (1,5), la Spagna a 94mila (2,0), la Gran Bretagna addirittura a 194mila persone (pari a un quarto circa di tutte le naturalizzazioni europee).
Nel Regno Unito, i beneficiari sono stati in alcuni casi ex cittadini dell'impero: indiani, pakistani, nigeriani e filippini. In Italia, la cittadinanza è stata concessa soprattutto a marocchini, albanesi, rumeni e tunisini. Alla concessione della nazionalità contribuiscono vari elementi. C'è senz'altro il fattore domanda (è probabile che i paesi del Nord attirino di più perché più ricchi), ma anche l'offerta ha un suo peso.
In molti paesi, la legge sulla cittadinanza è stata modificata. Nel 2000, la Germania ha abbandonato in parte lo ius sanguinis, la concessione per ragione di sangue risalente al 1913, optando per una concessione basata anche sullo ius soli, prevalente in molti paesi europei, tra cui la Francia. In Italia invece prevale ancora lo ius sanguinis. Quando la nazionalità viene concessa sulla base di un periodo di residenza, questo è tendenzialmente di 10 anni per coloro provenienti da un paese non appartenente all'Unione.

Corriere 19.11.14
Jobs act, il governo trova la mediazione
Un nuovo emendamento mette d’accordo la minoranza pd e Alfano
Le opposizioni lasciano la commissione
di Alessandro Trocino


ROMA Alla fine l’accordo tiene. E con lui il comma 7 lettera c della legge delega, riscritto da un emendamento del governo che interviene sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e stabilisce il no al reintegro per i licenziamenti economici e il sì al reintegro per quelli disciplinari. Ma solo «per alcune fattispecie ingiustificate». Quali siano queste fattispecie, è il punto politico. Lo stesso che fa esultare simultaneamente Maurizio Sacconi (Ncd) e una parte della minoranza del Pd. Le opposizioni, invece, contestano duramente e a sera, dopo il varo, lasciano la commissione Lavoro per protesta.
L’avvisaglia di un via libera arriva da un intervento mattutino di Angelino Alfano: «Ci siamo». Il testo dell’emendamento, come previsto, esclude il reintegro per i licenziamenti economici, ma lo sostituisce con «un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio». Sarà invece possibile il reintegro per i «licenziamenti nulli e discriminatori e per specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato». Le stabiliranno le fattispecie, i decreti delegati, emanati dal governo. E lì ci sarà la vera battaglia.
Un rinvio che consente a molti di sentirsi vincitori. Sacconi è il primo a rivendicare la paternità dell’accordo: «Siamo soddisfatti, ora bisogna fare presto». Il capogruppo sottolinea l’introduzione di «termini certi» per presentare la domanda di reintegro. E l’Ncd Sergio Pizzolante aggiunge: «Il testo ricalca esattamente l’accordo tra il ministro Poletti e il senatore Sacconi». In realtà il testo supera quello del Senato, difeso strenuamente finora da Sacconi, e recepisce l’ordine del giorno della direzione pd. Per questo Cesare Damiano, presidente della Commissione, rivendica il successo: «Sono molto soddisfatto della riformulazione sul tema dell’articolo 18». Anche Roberto Speranza è in scia: «Siamo riusciti a cambiare il testo su cui si voleva mettere la fiducia. Sacconi? Ha già cambiato idea tre volte». Matteo Orfini attacca: «Sacconi era partito dicendo che o era il testo del Senato o non avrebbe accettato». Segue la replica del capogruppo ncd: «Orfini, rassegnati! Sono con Taddei a parlare di lavoro e Internet e condividiamo il futuro, mentre tu difendi il passato».
Nella singolar tenzone, si inserisce Pippo Civati che, da sinistra, riflette sconsolato: «Sacconi festeggia, ci siamo sacconizzati». Condizione che lo spingerà a votare no.
Ma il sentiero per il Jobs act appare spianato. L’obiettivo è approvarlo entro il 26 alla Camera e farlo diventare legge entro il 1 gennaio. Anche per questo potrebbe essere messa la fiducia: «Se ci saranno migliaia di emendamenti che rallentano l’iter, la fiducia potrebbe essere posta», ammette Taddei. In parallelo, si dovrà vedere se saranno davvero aumentate, come pare e come chiede la sinistra pd, le risorse per gli ammortizzatori sociali.
Infuriate le opposizioni. «Uno scempio», dice Giorgio Airaudo di Sel. «Contro ogni logica» aggiunge Annagrazia Calabria (FI). Si dice «molto preoccupata» la segretaria Cgil Susanna Camusso.

il Fatto 19.11.14
Articolo 18, da Bersani a Sacconi
Approvato l’emendamento del governo che mette d’accordo minoranza Pd e Ncd
di Salvatore Cannavò


È stata una corsa continua a intestarsi l’emendamento sul Jobs Act presentato ieri dal governo. Un testo che, per la prima volta in forma chiara, esclude l’applicazione del reintegro “per i licenziamenti economici” prevedendo “un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio”. Il reintegro viene previsto, nero su bianco, solo per i licenziamenti “nulli e discriminatori” ma anche per “specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato”. Queste ultime righe, che rinviano ai decreti delegati l’indicazione concreta delle “fattispecie”, cioè la lista esatta dei licenziamenti previsti, è stata impugnata sia dalla minoranza Pd legata a Pierluigi Bersani che dal Ncd di Angelino Alfano come la prova della propria “vittoria”. Per tutto il giorno è stato un fluire di dichiarazioni, alle agenzie, su Twitter, in interviste concesse a giornali e tv, per assicurare il proprio elettorato che hanno vinto i riformisti, la sinistra che si impegna oppure, come twitta il responsabile economico democratico, Filippo Taddei, “ha vinto tutto il Pd”.
LA NORMA PERMETTERÀ al Jobs Act di procedere spedito anche perché, se dovessero esserci “migliaia di emendamenti” sarà posta la fiducia come conferma lo stesso Taddei (che però non ha incarichi né di governo né parlamentari). Fuori dall’accordo siglato ieri, e che ha prodotto il voto favorevole della commissione Lavoro, si sono collocati il Movimento 5 Stelle, Sel, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega che hanno votato contro e subito dopo abbandonato i lavori della commissione in segno di protesta. L’intesa con la minoranza sul Jobs Act non ha però chiuso il contenzioso interno al Pd. Le varie minoranze, da Speranza a Pippo Civati, hanno fatto fronte comune. In apposita conferenza stampa ecco pronti otto emendamenti alla legge di Stabilità per favorire gli investimenti, contrastare la povertà, ampliare gli ammortizzatori sociali. Una mossa immediatamente stigmatizzata dai “renziani” come Ernesto Carbone, membro della segreteria: “La minoranza si comporta come se non fosse nel Pd” ha dichiarato l’autore del tweet sullo “sciopero dell’Immacolata” a proposito della Cgil. Anche in questo caso, rituale sequenza di dichiarazioni in agenzia per ribadire le varie posizioni. Tornando dal G20, in serata, Renzi prova a tranquillizzare tutti: “Il Jobs Act non è vero che toglie diritti ma solo alibi”.

Repubblica 19.11.14
Il nuovo dialogo con i bersaniani e la paura renziana di perdere consensi
Sarebbe allarmante se la disillusione prendesse i ceti produttivi, spina dorsale del partito della Nazione
di Stefano Folli


NEL gioco politico stretto Matteo Renzi è abile e lo dimostra una volta di più cucendo l’accordo nella maggioranza sulla riforma del lavoro. Nella legge delega ci sono ancora parecchi angoli bui da illuminare, ma intanto Damiano e Sacconi, i due opposti, hanno trovato il modo di coesistere.
L’operazione non era difficile, però richiedeva un certo senso tattico. Renzi era partito dai punti approvati a suo tempo dalla direzione del Pd e lì è tornato, dopo un lungo periplo che è servito a dare spazio e visibilità in particolare ai centristi di Alfano, da un lato, e un po’ alla sinistra democratica, dall’altro. Ognuno ha svolto la sua parte e alla fine è arrivata la sintesi sull’articolo 18.
Niente di clamoroso, ma uno sbocco obbligato, dal momento che nessuno voleva una vera frattura sui principi della riforma. Il problema sarà semmai come definirne in modo convincente, attraverso i decreti attuativi, tutti gli aspetti rimasti in sospeso. È un punto tecnico non secondario. Tuttavia ieri il tema prevalente era ancora la valenza politica dell’intesa, quella che interessa davvero al presidente del Consiglio e che coinvolge la simbologia persino eccessiva dell’articolo 18. Per il resto si vedrà. La riforma del lavoro è di quelle che premono all’Europa assai più della legge elettorale, ma la sua efficacia nel contribuire alla ripresa del sistema produttivo è tutta da dimostrare.
In ogni caso a Palazzo Chigi c’è bisogno di punti fermi nel programma. E ovviamente di stabilità politica. Con accortezza, ci si è avvicinati a entrambi i risultati. Per cui, in un autunno avaro di buone notizie sul fronte dell’economia e percorso da pericolose tensioni sociali, ecco che l’accordo sul lavoro diventa prezioso. Peraltro esso contiene fin dall’inizio un elemento di compromesso che dimostra come all’occorrenza Renzi sappia anche essere duttile, entro certi limiti. Si può anzi dire che il venir meno dei contrasti sulla delega servirà da argine alla maggioranza per contenere le solite spinte conflittuali intorno alla legge di stabilità. In apparenza il rischio qui è maggiore, in realtà il governo ha in mano tutti gli strumenti per guidare la barca verso il porto.
Ovvio che la minoranza del Pd coglie l’occasione per manifestare il suo nervosismo. Ma a parte alcuni casi di irrimediabile disincanto, da Civati a Fassina più di altri, è ormai chiaro che il grosso del gruppo anti-Renzi studia non come lasciare il partito, ma come tornare a contare. Anzi, come riprendere il potere: secondo la prospettiva annunciata da Bersani e D’Alema. Il che a Renzi in questa fase va bene perché non è da quel fronte che gli vengono le vere minacce. Il timore del presidente del Consiglio è un altro: la possibile erosione prematura della base sociale da lui coltivata con tenacia.
Quando i sondaggi — primo fra tutti quello di Ilvo Diamanti su queste colonne — fotografano le prime difficoltà renziane con le percentuali elettorali, il segnale non è ancora allarmante. Lo diventerebbe se la disillusione si diffondesse fra i ceti produttivi a cui il premier guarda con attenzione. Quei ceti che devono costituire la spina dorsale del cosiddetto partito della Nazione, qualunque cosa tale definizione voglia significare. Di conseguenza, non è troppo pericolosa per Renzi un po’ di guerriglia parlamentare sulla legge di stabilità, come non lo è il malessere permanente della minoranza del Pd. Viceversa, se la riforma del lavoro non dovesse funzionare in tempo utile e se l’Italia continuasse ad arrancare dietro a un’Europa a sua volta stagnante, allora il castello di carte potrebbe ripiegarsi. Non a caso l’astuto Salvini da tempo fa un gioco speculare a quello di Renzi, aspettando solo i primi passi falsi.

Corriere 19.11.14
Reintegro sui licenziamenti disciplinari
Ma per evitare intoppi vince la vaghezza
di Lorenzo Salvia


ROMA La formulazione è vaga, perché il Jobs act è un disegno di legge delega e quindi fissa solo i principi generali che saranno poi dettagliati dalle norme attuative. Per questo l’emendamento del governo approvato ieri può essere sbandierato come una vittoria sia dalla sinistra del Pd sia dai centristi di Ncd. Ma, anche se non ci sono sorprese, il testo arrivato ieri nella commissione Lavoro di Montecitorio cambia radicalmente le regole sui licenziamenti per le nuove assunzioni.
Il reintegro nel posto di lavoro resta per i licenziamenti nulli e discriminatori, cioè quelli basati sul credo politico o religioso. Viene cancellato per i licenziamenti economici, legati all’andamento dell’azienda, per i quali ci sarà solo un «indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio». Mentre resta per «specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato». I casi concreti verranno indicati nel primo decreto attuativo del Jobs act, quello sul contratto unico a tutele crescenti che il governo vuole emanare il giorno stesso dell’entrata in vigore della delega, cancellando per di più i 15 giorni di vacatio legis che di solito passano tra la pubblicazione in Gazzetta ufficiale e l’entrata in vigore.
Fin qui la vittoria è della sinistra pd, perché nel testo uscito dal Senato non c’era un riferimento esplicito all’articolo 18 e questa omissione avrebbe consentito al governo di avere mano libera nella stesura della norma di dettaglio. Ma è proprio qui, nei decreti attuativi, che il governo «risarcirà» Ncd. L’idea di partenza è che il licenziamento disciplinare possa portare al reintegro solo in un caso: quando l’azienda manda via il lavoratore accusandolo di un reato che in giudizio si rivela falso.
Dal punto di vista tecnico, tuttavia, la cosa sembra più complessa del previsto. Per questo resta in piedi il «piano B» e cioè la possibilità che, anche in caso di reintegro disposto dal giudice, l’azienda possa optare per il risarcimento. Anche se a quel punto dovrebbe pagare una somma ancora più alta. C’è però un altro passaggio nell’emendamento arrivato ieri che risponde al gioco del bilancino politico e cambia le regole. Sempre nel linguaggio generico di una legge delega, dice che le norme attuative dovranno «prevedere tempi certi per l’impugnazione del licenziamento». Già oggi i tempi sono certi, l’impugnazione può arrivare al massimo entro 60 giorni. L’ipotesi più semplice è che il termine venga accorciato e portato a 30 giorni. Ma allo studio c’è anche una procedura espressa che potrebbe mettere il lavoratore davanti ad un bivio: trovare subito una conciliazione con l’azienda oppure rinunciare all’impugnazione.
Forse oscurato dalla battaglia sull’articolo 18, c’è stato un altro punto di equilibrio raggiunto ieri. Anche questo piuttosto ambiguo, almeno per ora. Sui controlli a distanza fatti dall’azienda sui dipendenti, la sinistra pd chiedeva che non toccassero direttamente il lavoratore. Il nuovo emendamento dice che riguarderanno gli «impianti e gli strumenti di lavoro». Ma anche qui tutto dipende dai decreti che arriveranno nelle prossime settimane: se anche telefonino, tablet e computer rientreranno (come probabile) nella categoria degli strumenti di lavoro, la sostanza non cambierà di molto.

La Stampa 19.11.14
Stefano Fassina
“Si è data agli imprenditori la libertà di licenziare. E pagheranno i giovani”
“Molti già sollevano dubbi di costituzionalità”
intervista di Francesco Maesano


Stefano Fassina mastica amaro. Poco dopo le otto e mezza l’emendamento del governo che esclude la possibilità di reintegro per i licenziamenti economici e lo prevede per i licenziamenti discriminatori e per alcune fattispecie di licenziamenti disciplinari passa il vaglio della commissione lavoro. «Non lo condivido. È una soluzione del tutto insoddisfacente e non mi pare proprio che affronti in modo significativo il problema dei licenziamenti senza giustificato motivo. D’altra parte non ho condiviso questa impostazione sin dall’inizio, da quando era stata presentata durante la direzione del Pd e continuo a non condividerla: stiamo aggravando la precarietà». 
La sua posizione ha perso su tutta la linea?
«Sì. D’ora in poi nessun imprenditore utilizzerà più il canale dei licenziamenti disciplinari».
Un alibi per licenziare?
«Si è data libertà di licenziamento. Quasi fosse quello il problema delle imprese e non la carenza di domanda o la possibilità di fare investimenti. Da più parti si sostiene la dubbia costituzionalità di un provvedimento che si scarica solo sui giovani. Vorrei che si smettesse di inseguire ricette illusorie, conservatrici e liberiste che prevedono un aumento della precarietà nell’ottica di favorire la crescita».
Ma nella delega entra il riferimento all’articolo 18.
«Nella delega è stato specificato in modo netto che il reintegro viene meno per i licenziamenti per motivi economici ed è quello il punto sul quale avevamo insistito. Noi chiedevamo una soluzione sul modello tedesco che tenesse dentro la possibilità di prevedere il reintegro». 
La settimana prossima il Jobs Act sarà in aula. A quel punto che farà?
«Non credo di poterlo sostenere». 
E se si arrivasse a un voto di fiducia? Lascerà il Pd?
«È questa impostazione che va contro i nostri principi. Non noi. Noi continueremo la battaglia da dove siamo perché il combinato disposto di Jobs Act e legge di Stabilità traccia una linea di politica economica fortemente regressiva. Si è trovata una soluzione che non condivido. E da domani voglio proprio vedere che cosa succede sul taglio delle tipologie di contratti precari. Su questo il Governo aveva annunciato l’ennesimo elemento propagandistico: il contratto unico». 
Perché lo giudica propagandistico?
«Perché nella delega non ce n’è traccia. Poi vediamo se sugli emendamenti che abbiamo proposto alla legge di Stabilità con Civati e Cuperlo ci saranno aperture».
A proposito, vi accusano di remare contro il partito.
«Noi ci siamo fatti carico di una promessa non soddisfatta che il Governo aveva fatto sugli ammortizzatori sociali. Si era promesso che avrebbero accompagnato l’entrata in vigore del Jobs Act. Poi l’esecutivo ci ha messo 0 euro, vogliamo solo rimediare».
Ernesto Carbone sostiene che agite come se foste fuori dal Pd.
«Nelle sedi che sono state offerte per discutere ne abbiamo discusso. Gli emendamenti sono migliorativi in termini di equità, di contrasto alla povertà, di aiuto alle piccole imprese. Vorrei che arrivassero dei commenti sul merito, non grida di lesa maestà».
Dunque non state cercando di smontare la legge di Stabilità?
«Respingo l’accusa: nelle nostre proposte rimane il bonus Irpef sul lavoro dipendente, resta la riduzione del cuneo fiscale. Noi chiediamo di distribuire risorse alle famiglie con figli e magari evitare di darne di più a chi ha già novantamila euro di reddito annuo». 
È previsto un coordinamento con gli altri della minoranza Pd?
«Certo. E molto presto».

Corriere 19.11.14
E i «dissidenti» si coalizzano

Se sul Jobs act le varie anime della minoranza pd hanno avuto posizioni diverse, sulla legge di Stabilità hanno chiesto modifiche con una voce sola. Alfredo D’Attorre, Pippo Civati, Stefano Fassina, Margherita Miotto, Gianni Cuperlo ( foto AdnKronos ) hanno presentato ieri otto emendamenti, siglati da una trentina di deputati dem, «per sostenere i consumi, la domanda e la ripresa». «Non siamo all’opposizione, ma
un pezzo di questa maggioranza», ha spiegato Cuperlo. Ma l’iniziativa non è piaciuta ai renziani: «A parole si dice di far parte della “ditta”, ma nei fatti si lavora contro», ha detto Andrea Marcucci.

Corriere 19.11.14
Modifiche alla Stabilità, la sinistra pd va alla conta
di Monica Guerzoni

ROMA Nessun sabotaggio, nessun agguato per far saltare la legge di Stabilità. Se Stefano Fassina e gli esponenti più agguerriti della minoranza del Pd hanno presentato otto emendamenti alla manovra è per aiutare il premier a «risolvere i drammatici problemi del Paese». O almeno, questo è quanto hanno assicurato nel corso di una conferenza stampa Gianni Cuperlo, Alfredo D’Attorre, Pippo Civati, Margherita Miotto e lo stesso Fassina, primo firmatario delle proposte di modifica. Le firme sono già una trentina e altre, sperano i promotori, arriveranno. L’obiettivo dichiarato è cambiare verso alla politica economica del governo, ma l’operazione ha anche uno scopo politico: è la prima mossa dell’ala sinistra del Pd per provare a saldare le varie anime dell’opposizione in un fronte dei «non renziani». Ieri a mezzogiorno, alla Camera, la prima foto di gruppo del «coordinamento» proposto da Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio. D’Attorre parla di «convergenza in chiave positiva, per costruire un’area di sinistra». Civati assicura che «non è un complotto». E Fassina dichiara «guerra alla povertà, alla recessione e alla precarietà, non al governo».
Ma i renziani attaccano. «A parole sono con il Pd, nei fatti sempre contro la ditta» sferza, via Twitter, il senatore Andrea Marcucci. Ed Ernesto Carbone, che siede nella segreteria di Renzi: «È davvero incredibile... A parole si dice di volere il bene della casa comune, nei fatti ci si comporta come se non se ne facesse parte». Critiche che Cuperlo respinge, chiarendo che i non renziani sono «un pezzo di questa maggioranza». L’emendamento più contestato riguarda il bonus degli 80 euro, che la minoranza «dem» vorrebbe destinare alle famiglie più povere tenendo conto della composizione del nucleo familiare e di eventuali altri redditi. Soluzione che non convince il governo e che, al contrario, piace molto a Sel: il partito di Nichi Vendola lo ha sottoscritto, in tandem con un altro (sempre del Pd) che propone di aumentare le risorse per gli ammortizzatori sociali.

La Stampa 19.11.14
Legge di Stabilità, scontro nel Pd. I renziani contro la minoranza: “Sembra un altro partito”
Fassina, Civati e Cuperlo presentano 8 proposte di modifica: «Non vogliamo boicottare ma correggere l’impianto della manovra»
Ira di Carbone: «Non è metodo democratico»

qui

Repubblica 19.11.14
Legge stabilità, scontro nel Pd adesso la minoranza chiede di dare i bonus ai più poveri
I renziani: sono un altro partito?
Presentati otto emendamenti
E intanto i grillini pensano a un asse “Dialogo possibile con i dissidenti dem per aiutare famiglie e imprese”
di R. P.


ROMA La legge di Stabilità al battesimo del voto in Commissione Bilancio della Camera con l’obiettivo di chiudere l’esame in settimana in attesa dell’approvazione in aula il 27 novembre, dopo l’esame del Jobs Act. «Restituisce fiducia e riduce le tasse», dichiara on line il premier Renzi.
Scontro all’interno del Pd: la minoranza con Fassina, Cuperlo e Civati presenta gli 8 emendamenti annunciati che prevedono la modifica dei criteri di assegnazione del bonus da 80 euro parametrandolo all’indicatore Isee e dunque rivolgono l’aiuto ai redditi più bassi.
Proposta anche la riduzione della platea per il bonus bebè (da 90 mila a 70 mila euro di reddito familiare); il divieto di beneficiare degli sconti contributivi per le assunzioni alle aziende che abbiano fatto recenti licenziamenti. «Bene la conferenza stampa delle minoranze Pd sulla Stabilità», scrive su Twitter il deputato M5S Danilo Toninelli, che aggiunge: «Speriamo che ora dialoghino col M5S per aiutare famiglie e imprese in difficoltà». Dura invece la reazione dei renziani.
«Altro che metodo democratico, altro che discussione e confronto interno. A parole si dice di volere il bene della casa comune, nei fatti ci si comporta come se non se ne facesse parte», osserva Ernesto Carbone della segreteria del Pd.
Il clima è teso e non sono stati ancora affrontati a colpi di voti gli emendamenti più caldi che occuperanno la Commissione da stamattina: bonus bebè, Tfr in busta paga e 80 euro. Su uno di questi temi c’è già da registrare una posizione netta del governo: «Il bonus di 80 euro non si tocca», avverte il sottosegretario al Tesoro Pier Paolo Baretta.
In prima battuta ieri è stato comunque approvato il rafforzamento della manovra di 4,5 miliardi chiesto dalla Commissione di Bruxelles che lunedì darà il suo giudizio sulla Finanziaria italiana.
L’emendamento del governo corregge, dunque, i saldi della legge di Stabilità. Le misure previste riducono di 3,3 miliardi il fondo taglia tasse, sfoltiscono di 500 milioni fondi del cofinanziamento nazionale ai fondi strutturali europei e allargano la reverse charge dell’Iva alla grande distribuzione, cioè agli ipermercati, i supermercati e i discount alimentari. Per quest’ultima misura è stata introdotta l’ennesima clausola di salvaguardia che rischia di portare un aumento delle accise sulla benzina poiché l’ampliamento della reverse charge deve essere sottoposto all’ok Ue.
«Mi aspetto che sarà riconosciuto lo sforzo anche qualitativo sul bilancio e sulle riforme strutturali», dice il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan rispondendo a chi gli ha chiesto se ci sia preoccupazione per l’imminente giudizio Ue sulla manovra. Secondo il titolare di Via Venti settembre la legge di Stabilità «coniuga consolidamento della finanza pubblica e crescita». Padoan si è anche soffermato sulle prospettive di crescita del Paese: «Per l’ultimo trimestre – aggiunge - mi aspetto che continui a dimostrare quello che sta già succedendo, cioè che la macchina smetta di scendere e cominci la risalita».
Tra le misure esaminate anche l’emendamento Pastorelli e Di Gioia in Commissione Bilancio della Camera che proponeva di trasferire le risorse della Cassa conguaglio per il settore elettrico alla Tesoreria unica. E’ stato bocciato.
Intanto anche Forza Italia si prepara alla battaglia della legge di Stabilità. Ieri ha presentato la sua “contromanovra”. Si tratta di 72 emendamenti, già dichiarati ammissibili, che spaziano dalla tassazione sulla casa al Mezzogiorno.

Repubblica 19.11.14
L’ala sinistra e il primo scatto alla Camera
di Filippo Ceccarelli


LE FOTO di gruppo, specie in politica, prendono spesso una china goliardica. Ma che cosa ci sarà di così irresistibilmente buffo nella sala stampa di Montecitorio dove ieri cinque esponenti della minoranza Pd, ciascuno munito di sussidio visivo in A4, hanno presentato otto emendamenti alla legge di Stabilità?
Sardonico D’Attorre, beffardo Civati, estatico Fassina, gioviale Miotto, caloroso nella sua piena gioia Cuperlo, assiduo rifornitore di liriche. Al netto di ermetici tremori torna forse utile “ Allegria di naufragi” di Ungaretti: E subito riprendono/ il viaggio/ come/ dopo il naufragio/ cinque superstiti/ lupi di mare. Ma ancora/ per quanto/ vorrebbero ma non possono?

Repubblica 19.11.14
Ma soltanto Civati è pronto alla scissione
di Tommaso Ciriaco


ROMA Divisi alla meta. E anche ammaccati, come ammette sconsolato Pippo Civati, ormai deciso alla scissione. «Se tutti avessimo tenuto il punto, il Jobs Act sarebbe stato diverso. Davvero non riesco a immaginare Bersani che lo vota...». La minoranza dem rischia davvero di trasformarsi in un caleidoscopio scassato. Cento anime, mille opinioni. Da una parte Area riformista, pronta a ingoiare i nuovi ritocchi all’articolo 18. Dall’altra poche, ma significative defezioni sulla legge delega. Civati, appunto, Stefano Fassina, Francesco Boccia, Gianni Cuperlo, Barbara Pollastrini e probabilmente Rosy Bindi. Nell’Aula di Montecitorio, in tutto, mancheranno una decina di “sì”.
Quasi nessuno dei “resistenti”, in realtà, si spingerà fino a sfiduciare Palazzo Chigi. Alla Camera è possibile sostenere il governo, sfilandosi il giorno successivo nel voto finale sul provvedimento. Così meditano di fare Fassina e Cuperlo. Ieri, assieme ad Alfredo D’Attorre e Civati, hanno fatto il punto riservatamente, prima di presentare gli emendamenti alla manovra. «Sul Jobs Act - mostra cautela D’Attorre - vediamo alcuni miglioramenti, ma il giudizio resta critico. La valutazione di alcuni bersaniani è di attendere il testo definitivo. Capiremo tutto entro venerdì».
I tempi, in effetti, sono stretti. E la mediazione di Roberto Speranza è considerata anche da Pierluigi Bersani come un’inevitabile riduzione del danno. Dove il danno in questione è la deflagrazione dell’opposizione interna. Ne è consapevole anche Fassina, che però difficilmente dirà sì al momento del voto finale: «Vedrò l’impianto nel suo complesso, le risorse per gli ammortizzatori, poi deciderò che cosa fare in Aula. Nella minoranza ci sono posizioni diverse? È legittimo. Non so se è il punto di non ritorno, di certo il Jobs Act è rilevante ».
La spaccatura interna - con le sue proporzioni - si riflette al meglio anche in commissione Lavoro. Lì solo Monica Gregori ha deciso di astenersi. «Una scelta difficile, sofferta - spiega - La fiducia la voterò, il provvedimento vedremo». Strappi che producono strappi, tensioni che alimentano altre tensioni. «Rispetto ogni scelta - commenta la “giovane turca” Chiara Gribaudo - ma non condivido chi in un momento così delicato e importante divide il partito per cercare un po’ di visibilità».
Come se non bastasse, un’altra ferita è destinata ad aprirsi a causa della legge di Stabilità. La sinistra dem si presenta ai blocchi di partenza compatta, grazie agli emendamenti comuni. Eppure una nuova mediazione di Speranza - stesso copione del Jobs Act - finirà col deludere l’ala più oltranzista. Il capogruppo, nel dubbio, stronca l’idea di un coordinamento delle minoranze sui temi economici, avanzata da Boccia: «Io lavoro per un partito plurale, ma unito». Il solco con l’area dura di Cuperlo e Civati, insomma, si allarga ancora. Il primo, incitato da Massimo D’Alema, continua a picchiare duro sul governo. E il secondo accompagnato dal deputato Luca Pastorino - attende solo che si concluda il tour de force su manovra e Jobs Act per dire addio al partito. Per costruire un nuovo inizio assieme a Sel, sembra. «Con lui ci confrontiamo - ammette il coordinatore vendoliano Nicola Fratoianni - e io discuto con tutti quelli che hanno un punto di vista critico verso il governo. Ognuno è libero di fare le proprie scelte, ma visto il valore simbolico del Jobs Act mi sembra difficile scindere la fiducia al governo dal voto sul provvedimento ». La maionese, in effetti, rischia di impazzire. E le anime dem si confondono a ritmo frenetico. C’è chi, come Simone Valiante (AmiciDem), tifa per le aziende: «Ciò che più conta è che la riforma del lavoro aiuti gli imprenditori ». Di certo c’è che gli uomini del premier non smettono di sparare sulla minoranza: «Presentano emendamenti e si comportano come se non fossero del Pd», tuona Ernesto Carbone. «I renziani sono proprio mansueti - ribatte ironico Civati - forse perché stanno fondando il Msi...». Se Pippo scherza per smorzare la tensione, i Cinquestelle prendono sul serio le mosse dell’opposizione dem. E propongono battaglie comuni in Parlamento per sfruttare tatticamente le divisioni sulla manovra. Inutilmente, però, perché i dissidenti del Pd fanno subito sapere che schiveranno l’abbraccio mortale dei grillini della Casaleggio associati.

La Stampa 19.11.14
L’autunno rimane difficile
di Marcello Sorgi


L’accordo sul Jobs Act raggiunto ieri da Renzi con la sua maggioranza, dopo il compromesso interno con il Pd, spiana la strada alla riforma del lavoro ma porta alla rottura con i sindacati, ormai in marcia verso lo sciopero generale contro l’abolizione dell’articolo 18 e nel complesso contro tutta la politica economica del governo. E tuttavia, in vista della prima scadenza elettorale d’autunno, le elezioni regionali in Emilia e in Calabria destinate a trasformarsi in una prova d’appello delle europee di maggio, Renzi segna un punto netto e si prepara ad incassare una nuova vittoria elettorale, anche se il contesto, da maggio ad oggi, è in forte cambiamento.
Quella di primavera infatti, più che una corsa, per Renzi era stata una passeggiata. Con Berlusconi a bordo campo, svogliato e impedito a partecipare alla campagna elettorale dalla condanna definitiva in Cassazione subita l’estate precedente, per il premier in pratica si era trattato di una corsa senza avversari.
Accettata la sfida di Beppe Grillo, convinto, non si sa come, di bissare il successo delle politiche, Renzi incassò nelle urne l’imprevedibile risultato del 40,8 per cento per il Pd, una percentuale mai raggiunta prima dal maggior partito del centrosinistra. Anche stavolta, stando ai sondaggi, la vittoria in Emilia è garantita; e in Calabria assicurata da un sostanziale abbandono del campo del centrodestra, che guidava l’amministrazione regionale uscente. Grillo non a caso ha scelto di disertare l’appuntamento. Quanto a Salvini, il leader della Lega che, grazie a una ricollocazione del suo partito nell’alveo di una destra radicale e nazionale, sta mietendo una forte crescita di consensi, e non solo nel tradizionale insediamento nordista del Carroccio, la sua partita si gioca essenzialmente nel campo dominato fino all’anno scorso dall’ex-Cavaliere, rispetto a cui Salvini non intende più essere subalterno. Resta, certo, il problema dell’ostruzionismo parlamentare di Movimento 5 stelle e sinistra radicale, che potrebbero rallentare il calendario parlamentare, ma in nessun modo impedire l’approvazione dei provvedimenti.
Sul piano politico, dunque, Renzi non ha davanti grosse difficoltà. Se metterà a segno la doppietta dell’approvazione del Jobs Act e della legge di stabilità costruita per la prima volta dopo molti anni su un taglio delle tasse che dovrebbe incoraggiare le imprese a reinvestire, approfittando della flessibilità introdotta dalla nuova legge sul lavoro, anche la pressione di Bruxelles dovrebbe in qualche modo allentarsi, se non altro per verificare se le nuove misure di politica economica saranno in grado di scuotere l’albero disseccato dell’economia italiana. In prospettiva l’incognita più rilevante rimane quella delle dimissioni del Capo dello Stato.
Non è un mistero che il premier si auguri che la ripresa di un percorso virtuoso di riforme possa aiutare Napolitano a resistere ancora qualche mese, per collegare la sua rinuncia a un’uscita dall’emergenza, piuttosto che a un ennesimo fallimento. Ma non è detto che il Presidente torni su una decisione che sembra ormai presa, oltre che largamente annunciata.
Dove invece il governo si troverà ad affrontare un preoccupante mutamento di clima è sul piano sociale. Prima l’ondata di maltempo, poi l’esplosione delle periferie metropolitane soffocate dall’invasione degli extracomunitari, hanno svelato una debolezza intrinseca del Paese, del suo territorio e degli apparati istituzionali che dovrebbero occuparsene, a cui l’ondata di nuovi scioperi e manifestazioni annunciate, in questo momento, rischiano di infliggere il colpo che non ci voleva. Per carità, Renzi ci avrà messo del suo nel rifiutare ogni tipo di concertazione, anche se solo tenendo duro alla fine è riuscito a portare a casa la riforma. Ma in questo quadro è davvero un peccato che i sindacati non abbiano trovato egualmente un modo di interloquire, come ha fatto la parte più ragionevole della minoranza Pd, e abbiano scelto la strada del muro contro muro. E di un’ennesima rottura che peserà su quest’autunno difficile.

Corriere 19.11.14
La sfida sociale sottolinea la pressione su Palazzo Chigi
di Massimo Franco


Il contrasto tra Palazzo Chigi e Nuovo centrodestra si è già ricomposto. In nome del Jobs act e dell’accordo, confermato da Matteo Renzi, sulla legge elettorale. Ma rimane aperto il fronte con la minoranza del Pd. E si allarga lo scontro con il sindacato, perché dopo la Cgil anche la Uil annuncia lo sciopero generale; e forse, a ruota la Cisl. È il segno della difficoltà che ha il governo a tenere insieme spinte contrastanti; e la conferma che i maggiori grattacapi provengono da una sinistra che non perdona al premier una linea ritenuta troppo moderata. Gli otto emendamenti alla legge di Stabilità annunciati ieri dagli avversari di Renzi nel suo stesso partito rispondono al tentativo di metterlo in difficoltà su questo fronte. L’accusa è di avere ceduto all’Ncd sulla riforma del mercato del lavoro. In realtà, il compromesso raggiunto ieri tiene conto delle osservazioni che erano venute dal Pd. E vorrà pur dire qualcosa se Forza Italia è costretta ad annunciare una «contromanovra», attribuendo un aumento delle tasse alle misure del governo. È un modo per rintuzzare la critica di eccessiva accondiscendenza alla strategia di Renzi. E insieme, sia il riconoscimento implicito che la politica economica è indigesta all’elettorato di Silvio Berlusconi; sia che l’intesa tra Renzi e Alfano che abbassa al 3 per cento la soglia di ingresso in Parlamento per i partitini, destabilizza FI.
Prevale una sensazione di confusione, dovuta alla complessità delle materie da maneggiare; alle molte riforme in cantiere; e alla rapidità con la quale si vuole arrivare a un risultato. La voglia delle opposizioni di rallentare il percorso del Jobs act, tuttavia, è pari alla determinazione di approvarlo secondo la tabella prestabilita: dunque entro il 26 novembre. «Quando la cortina fumogena del dibattito ideologico si abbasserà, vedrete che il Jobs act non toglie diritti ma solo alibi: ai sindacati, alle imprese, ai politici», elenca Renzi. E respinge l’accusa di alzare la tassazione. Per questo, alla fine potrebbe mettere la fiducia. Le opposizioni fanno capire che sono in arrivo modifiche destinate, se accolte, a ritardare il voto.
Si tratta di un fronte del «no» che tende a saldarsi con il sindacato, Cgil in testa; e raffigura il premier come un tecnocrate impegnato solo a ricevere il «placet» dell’Unione Europea. Ma il lasciapassare di Bruxelles alla legge di Stabilità conta, non è un fatto secondario. Se ne dovrebbe sapere di più lunedì, e una punta di nervosismo si avverte. Confermare l’impegno sulle riforme, però, aiuta. E permette al ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, di affermare che si aspetta un riconoscimento «dello sforzo anche qualitativo» compiuto dall’Italia. «Sono stufo di sentirmi dire...» che «chiediamo soldi all’Ue». E questo mentre Beppe Grillo scommette sul collasso dell’Italia e offre come antidoto un’impossibile uscita dall’euro.

il Fatto 19.11.14
Lavoro, Renzi accerchiato: lo sciopero raddoppia
Dopo la Cgil anche la Uil per il blocco
Oggi vertice per convincere la Cisl
di Salvatore Cannavò


La pratica dello sciopero generale non è più affare della sola Cgil. Ieri la Uil, che oggi avvia il proprio congresso nazionale ed eleggerà il nuovo segretario Carmelo Barbagallo, ha proclamato anch’essa lo sciopero generale. Una mossa in parte improvvisa, resa possibile dal cattivo esito dell’incontro avuto l’altroieri con la ministra Marianna Madia sul pubblico impiego. La sostanziale chiusura del governo sul contratto degli statali e l’indisponibilità della ministra a offrire sponde credibili ai sindacati, infatti, ha indotto non solo la mossa della Uil ma anche la Cisl, finora prudentissima sullo sciopero generale, a proclamare una mobilitazione nel solo settore del pubblico impiego. L’incognita è se anche la Cisl aderirà alla fermata generale. Ipotesi poco probabile e che la Cgil ascrive alle “forti pressioni” che si stanno generando dal mondo politico.
L’ACCELERAZIONE della conflittualità, in ogni caso, è evidente. Una novità che dipende sia dal clima che si respira nel Paese che dalle previsioni sempre più negative sul piano economico. I tre leader di Cgil, Cisl e Uil si vedranno questa mattina al congresso nazionale della Uil e proveranno a far quadrare esigenze al momento molto diverse. L’unica data certa, infatti, è il 5 dicembre, giorno in cui la Cgil ha indetto il “suo” sciopero generale. La Uil si dice disponibile a qualunque evenienza ma è chiaro che, se non dovesse convincere la Cisl a una mobilitazione unitaria, chiederebbe alla Cgil di modificare la data per sceglierne una congiuntamente. “Noi non dobbiamo escludere nulla” ha detto Barbagallo ai suoi, “ma continuare a insistere nella linea seguita finora: unità e dialogo con tutti”. L’ideale, spiegano in Uil, sarebbe uno sciopero di Cgil, Cisl e Uil, generale proprio il 12 dicembre.
La Cisl, però, continua a frenare. Dice sì allo sciopero del pubblico impiego, anzi lo ha proclamato ieri, ma non è disponibile, spiega Annamaria Furlan, a uno sciopero generale di tutte le categorie “senza obiettivi precisi e con motivazioni confuse o di natura ideologica”. Inoltre, la Cisl intende confrontarsi con il governo sui decreti delegati relativi al Jobs Act e alla legge di Stabilità. Quindi, continuare a trattare.
L’INDISPONIBILITÀ della Cisl rende la geometria degli sciopero di difficile decifrazione. Se Cgil e Uil, infatti, concordassero una data comune, comprensiva anche del pubblico impiego, la Cisl dovrebbe far scioperare i suoi Statali da sola. A meno di non far svolgere nello stesso giorno sia lo sciopero generale che quello del pubblico impiego comprensivo della Cisl. “Un’eventualità mai successa prima” dicono un po’ tutti. Un ginepraio, insomma, che sarà sciolto oggi.
Quello che risalta, al momento, è una dimensione dello scontro sociale che non vede più la Cgil isolata. La dinamica di sciopero si è allargata e Susanna Camus-so segna il secondo punto in pochi giorni, dopo la riuscita della manifestazione del 25 ottobre. Merito di un assist non previsto da parte della Uil di Barbagallo che sta mostrando una capacità di movimento in grado di scuotere le relazioni sindacali per come si sono svolte finora.
La Cisl rimane più in difficoltà sul piano confederale anche se le sue categorie del pubblico impiego si sono già distinte per una forte mobilitazione lo scorso 8 novembre e la dichiarazione sullo sciopero generale, rilasciata ieri dal segretario confederale coordinatore del Lavoro pubblico Francesco Scrima, dimostra che in quella categoria c’è voglia di farsi sentire.
UNA VOGLIA EMERSAin particolare dopo l’incontro del 17 novembre con la ministra Madia che ha lasciato le sigle sindacali senza parole. “Ci aspettavamo delle novità, qualche disponibilità” ripetono tutti. “Altrimenti, perché convocarci alla presenza del sottosegretario Delrio? ”. E invece niente. Lunedì sera, Madia, intervenendo al Tg3 Lineanotte, ha spiegato che il governo vuole discutere con i sindacati della riforma della pubblica amministrazione, assicurando il rinnovo del contratto a partire dal 2016 e garantendo la proroga dei contratti a tempo determinato fino al 2018. “Ma nell’incontro di questo non si è parlato” dicono sia la Cgil che la Uil, la quale rincara: “Ci aspettavamo un segnale di disponibilità che però non c’è stato”. Quindi sciopero. Che rende ancora più esplicita la difficoltà del governo Renzi, mai così accerchiato sul fronte sociale: dal mondo del lavoro alle periferie delle città fino ai disagi per il maltempo. E che evidenzia, allo stesso tempo, la debolezza dell’ultima mediazione sul Jobs Act fatta per accontentare la minoranza Pd. Appena siglata, lo sciopero generale si è allargato.

il Fatto 19.11.14
Metamorfosi
Matteo perde tempo e non spalma l’ottimismo
Il ragazzo sorridente è diventato rancoroso
Testa bassa su compagni di partito e non
E i sondaggi non sono più rosei
di Wanda Marra


Adesso non è il momento delle polemiche. Si scavi il fango dalle città, si tiri via la melma delle pratiche burocratiche, si realizzino le opere da fare. Vi aspetto, un sorriso”. Torna dall’Australia, Matteo Renzi. Ed è subito E-News. Vuole essere ricapitolativa e fiduciosa. È piuttosto lunga e recriminatoria. Dalla riforma elettorale al Jobs Act (“quando la cortina fumogena del dibattito ideologico si abbasserà, vedrete che in molti guarderanno al Jobs Act per quello che è: un provvedimento che non toglie diritti, ma toglie solo alibi”), passando per l’Europa e le cene di finanziamento (“Quando io sono arrivato i dipendenti in forza al Pd erano 161, adesso sono 146 e io non ho fatto neanche un’assunzione. Le spese del passato ovviamente si fanno sentire”). Nel nuovo stile renziano resta il “pensierino della sera” e il “sorriso finale”. Manca il tono leggero e persuasivo.
“NON È PIÙ lui. Si vede lontano un miglio. Mia madre ha 94 anni e vede continuamente la televisione. M’ha chiesto: ‘Che è successo a Renzi? ’ S’è incupito, è nervoso, tratta male le persone”. Parla Staino, vignettista, che Renzi lo conosce da sempre, anche se è sempre stato dall’altra parte della barricata. “Sono segni di debolezza. Lui ha la fortuna di quella faccia sorridente, che fa tutto facile. Ma le cose non sono andate come pensava. E adesso la gente gli tira le uova”. C’è poi un problema di rapporti: “Lui stesso non lega: il suo cerchio magico comincia ad assomigliare a quello di Bossi e di Berlusconi. Io ho sempre pensato che lui sarebbe stato talmente intelligente da riuscire a coinvolgere anche la sinistra e il sindacato. E invece no: si è messo tutti contro, ha cercato la rottura subito”. Lo dice con rammarico: “Io sono tra quelli che ha sperato che ce la facesse. Però, sta perdendo tempo. Con tutti questi problemi economici che ci sono, con questo disagio sociale, lui che fa? Un peggioramento dell’articolo 18. Fa ridere i polli pensare che questo possa risolvere qualcosa”. La mette pure sul filosofico: “L’abolizione ideale dei corpi intermedi porta diritti a Tor Sapienza, con un populismo feroce”.
Che la dura realtà abbia avuto un impatto difficile sul presidente del Consiglio lo pensano in molti. “Voglio vedere lei a fare il premier, con i soldi che non ci sono. Mentre piove, e tutti danno la colpa a lei”, commenta Marco Belpoliti, critico letterario e autore di un libro su Berlusconi che ha fatto scuola come Il corpo del capo: “Governare questo paese è come scendere con gli sci subito dopo che ha nevicato. È difficile restare in piedi”. E i sondaggi in calo? “Non sono altro che la registrazione di stati d’animo. Noi siamo nella dittatura degli stati d’animo ”. Alessandra Ghisleri, sondaggista di fiducia di Berlusconi, più che di cambi di comunicazione parla di “evoluzione”: “Renzi è diventato un presidente pressato dalle difficoltà fisiche ed economiche di questo paese”. Le rilevazioni “registrano un calo costante, uno stillicidio. Anche se il premier resta al 46-47%”. I sondaggi, spiega, vivono di momenti: “Ora c’è la Tasi da pagare. E poi, a parte gli 80 euro, non c’è stata nessuna misura forte. Prima la gente vedeva il bicchiere mezzo pieno, ora vede quello mezzo vuoto”. Mauro Calise, editorialista de Il Mattino (ultimo libro: Fuorigioco. La sinistra contro i suoi leader, La-terza, 2013) la mette così: “Se c’è del nervosismo in più questo proviene da una debolezza: Renzi ha capito che la partita non si gioca in Italia, ma in Europa. C’è un malessere incontrollabile, ha cercato di spalmare ottimismo e di incidere in Europa, ma non ci è riuscito quanto si aspettava”.
Il premier, da parte sua, non rinuncia a battere su tasti universali. Ancora la E-news: “Si chiamava Reyaneh. Aveva 26 anni. Si è difesa dal suo stupratore e per questo è stata condannata a morte e giustiziata. Questa è la sua lettera testamento”.

il Fatto 19.11.14
House of Cards
“Scarponi chiodati come la Thatcher”
Dobbs, a capo del partito della Lady di ferro e autore del romanzo, dà consigli al premier
di Gianluca Roselli


A Matteo Renzi consiglia di fare come Margaret Thatcher: comprarsi un paio di scarpe chiodate da tenere nell’armadio, pronte all’uso. Michael Dobbs, lo scrittore inglese autore di House of cards, romanzi ora tornati di gran moda grazie al clamoroso successo della serie tv americana, non sa quanto in realtà il confronto sia calzante. Perché il premier italiano è stato paragonato proprio alla Thatcher, del cui partito Dobbs era capo staff, dopo il durissimo scontro con la Cgil su Jobs act e articolo 18. House of cards – i romanzi e la serie tv – è diventato oggetto di culto anche per i politici nostrani. Che, leggendolo, avranno preso appunti. Così, quando ha visto Renzi comprare il libro, Dobbs gli ha scritto una mail. “Caro Matteo, attento. House of cards non è un manuale di istruzioni per la politica, ma semplice intrattenimento”. E lui cosa le ha risposto? “Preferisco tenere il riserbo. D’altronde voi italiani sapevate tutto della vita privata di Berlusconi, ora non è forse meglio avere un premier che non racconta tutto di sé? ”, risponde lo scrittore inglese, tuttora membro della Camera dei Lords.
MICHAEL DOBBS è in Italia, a Roma, per presentare il secondo volume della sua trilogia. La sala è piena di cultori della serie, smaniosi di fare domande. E il pallino torna spesso sulla politica italiana. “Se il governo zoppica, consiglio a Renzi di focalizzare il suo obbiettivo. Un politico non deve ambire a essere amato, ma a essere rispettato. E ciò si ottiene solo con un’azione di governo efficace. Ma per arrivarci devi avere molto chiari i tuoi obbiettivi e fare di tutto per raggiungerli”, continua Dobbs. Secondo cui la politica ha sempre un lato oscuro. “Anche se sei animato da buone intenzioni, a certi livelli è impossibile non essere coinvolti in intrighi, complotti e azioni determinate a sconfiggere i tuoi avversari. Un politico ha sempre bisogno di nemici e, se non ne ha, se li crea. Il conflitto è il sale della vita politica”, osserva. E qui fa parlare Frank Underwood, il terribile protagonista della serie: “Se al tuo avversario puoi strappare entrambe le braccia, fallo. Non lasciargliene una”.
Dobbs è entusiasta del successo della serie tv. “Quando vendi i diritti a Hollywood è come vendere casa, devi sloggiare. Invece loro mi hanno coinvolto a pieno della scrittura. La serie americana è meno ironica e più cattiva di quella inglese”, racconta. Infine una parola su Obama. “Ha deluso perché ha messo l’asticella delle aspettative troppo in alto. Penso che verrà ricordato più per quello che ha rappresentato che per la sua azione di governo”.

il Fatto 19.11.14
Le avventure del giovane Renzi
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, posso confessare che non ho capito? Renzi ha fatto qualcosa, ha detto qualcosa, ha lasciato un segno, ha ottenuto un risultato, dal viaggio a Brisbane, o se n’è stato solo solo ad aspettare che tutto finisse?
Marcelo

RENZI NON ERA SOLO, come sembrava in molte inquadrature dei Tg, salutato alla svelta o ignorato. La signora Agnese si è sobbarcata un faticoso viaggio, e ne è valsa la pena, se non altro per la bella fotografia con il piccolo koala. A lei si abbraccia con fiducia (le zampe intorno al collo). Fra le mani di Putin si vede invece il piccolo animale con le zampe puntate, il muso in atteggiamento di panico. Non ho visto il koala in braccio alla cancelliera. Ma da lei nessuno ha ottenuto niente, Renzi compreso. Se parliamo del G20 di Brisbane, non possiamo dire che la luce di Renzi non si è accesa. Infatti, nessun’altra luce si è accesa. Non Obama, non Putin e neppure il presidente della Commissione europea che, per le ragioni che tutti sappiamo, è in posizione instabile e oscillante. Perciò forse oggi non avrei scelto questa lettera se non mi avesse incoraggiato e quasi obbligato a farlo Alan Friedman (Corriere della Sera, 17 novembre). Friedman fa sapere ai lettori che mancava una pagina al suo ultimo lavoro, “Ammazziamo il gattopardo”. Un’altra è stata ospitata dal “Fatto” lo stesso giorno. A lui sembrava indispensabile. I lettori potranno eventualmente ritagliare e incollare al punto giusto. Il punto giusto è questo: “Nel weekend del 25-26 ottobre 2014, Matteo Renzi ha zittito Susanna Camusso e ha sfidato i dissidenti della sinistra radicale del Pd con un’alternativa secca: mettetevi in fila o andatevene (...) Renzi, alla Leopolda, ha lanciato una versione italiana del New Labour. Si è mostrato un Tony Blair redux. O forse qualcosa di più complesso (...) Perché in questo momento Renzi, in effetti, gioca il ruolo sia di Blair che di Thatcher . E la Camusso sembra il capo sconfitto dei minatori. (...) Oggi, alla fine del 2014, prosegue la guerra dei gattopardi. La rabbia fredda di D'Alema sui muri del Nazareno, Bersani che si aggira come un pugile suonato, e poi Fassina, Civati, Vendola. (...) Renzi sta vincendo, in questo momento di recessione cronica e alta disoccupazione... Ora, in Italia, c'è un forte bisogno di cambiamenti radicali e urgenti. (...) A patto che non diventino riforme finte o mezze misure o riforme gattopardesche. Bisogna andare fino in fondo. Bisogna ammazzare il gattopardo. Nell'Italia di oggi non c'è alternativa”. Spero che Alan Friedman mi perdonerà la lunghezza della citazione. Era indispensabile per far capire ai lettori in che Italia stiamo vivendo. C'è qualcosa di più di un commento in questo commento così efficace e di netta presa di posizione politica. C'è la mappa del percorso politico di Renzi e la risposta alle due domande sul presidente del Consiglio che restano sempre in sospeso. Da dove viene Renzi? Da destra. Dove va Renzi? A destra. Non è un delitto, è una posizione politica che, senza i reati e il conflitto di interessi di B., è perfettamente rispettabile. Solo che per farlo ha dirottato il Pd, ha costretto l'equipaggio a ritirarsi in coda, definisce (fa definire) Ci-vati e Cuperlo “sinistra radicale”, incoraggia il disprezzo per l'unico sindacato rimasto in piazza. E la metafora del “gattopardo da ammazzare” acquista adesso il senso pieno, che la prima uscita del libro non aveva rivelato, o almeno non agli addetti a certi lavori. Dice, alla fine la pagina aggiunta, che non sono ammessi scherzi: bisogna proprio ammazzare il gattopardo. Il messaggio che adesso ci mandano non ha più niente di equivoco e niente resta in ombra. Ci stanno dicendo: “O mangi questa minestra o salti della finestra”.

Il Sole 18.11.14
Le regionali di domenica
Tra rimborsopoli e frammentazione politica
L'Emilia rossa ora teme un'astensione record
Pesano i 41 consiglieri indagati. Giovedì arriva il premier
di Mariano Maugeri


BOLOGNA Sono elezioni sotto traccia, nascoste, quasi clandestine, tutte incentrate sulle avvelenatissime 160 pagine di verbali che riportano i dialoghi tra i capigruppo regionali alla vigilia dell'inchiesta sui rimborsi spese.
Un esercizio di autolesionismo («i rendiconti sono le nostre mutande»; «il Pd è un partito pieno di idioti»; «i giornalisti sono servi della gleba», dice in una sorta di bulimica esternazione l'ex capogruppo del Pd in consiglio regionale Marco Monari) dal quale è scaturita l'iscrizione nel registro degli indagati di 41 dei 50 ex consiglieri regionali con l'accusa di peculato. Un florilegio, quello di Monari, registrato a sua insaputa dall'ex capogruppo grillino Andrea De Franceschi. I politologi fanno coincidere la degenerazione della classe dirigente con il monopolio della rappresentanza politica che perdura da oltre sessant'anni. Il Pd ha provato a modo suo a rinnovarsi, ma anche in Emilia le primarie hanno tradotto in percentuali i rapporti di forza all'interno del partito.
I «pesi» dentro il Pd
Nella trincea bersaniana, l'ha spuntata il renziano della seconda ora Stefano Bonaccini, cursus honorum tutto all'interno delle segrete stanze del partito ed ex assessore alla Cultura del Comune di Campogalliano. Dietro di lui, con il 40% dei consensi, l'ex sindaco di Forlì e ordinario di Storia contemporanea Roberto Balzani, uno che su due piedi ha chiuso l'aeroporto della sua città, in passivo cronico, ed è uscito dal patto di sindacato della multiutilities Hera, la vera camera di compensazione dei poteri forti piddini, proponendo il dimezzamento degli inceneritori. Balzani, in sole due mosse, ha messo in mora i totem della politica emiliano-romagnola di cui garante è stato l'ex governatore Vasco Errani. Una battaglia, quella di Balzani, per nulla solitaria.
Rifondare l'istituzione
Giovedì scorso i vertici emiliani di Confindustria hanno reso pubbliche 18 paginette di crudo realismo condite da una parola d'ordine: rifondare l'istituzione regionale. Tra le proposte c'è la riduzione a sette dei 348 sportelli "unici" per le attività produttive; sfrondare le procedure barocche e le procedure parcellizzate. Esempio: servono 499 società partecipate da Regione (che ne controlla direttamente 28) e Comuni che immobilizzano 5,3 miliardi di capitale? Roberto Magarò, segretario regionale dei dirigenti regionali, usa parole forti: «In Calabria uccidono con la lupara, qui con la delibera». Magarò si riferisce ai 155 dirigenti regionali in servizio, 63 di loro cooptati attraverso la chiamata diretta dei politici. «Ne basterebbero la metà» assicura. Dalle dimissioni di Errani del 24 luglio dopo la condanna per falso ideologico, il consiglio regionale, malgrado abbia poteri attenuati, è regolarmente insediato. Il funzionamento annuale dell'assemblea costa 34 milioni. Undici dunque i milioni bruciati in quattro mesi nell'attesa delle elezioni.
Il «postificio»
Tutti parlano di sistema incrostato, consociativo, di un "postificio" a uso e consumo dell'apparato di governo. Filippo Cavazzuti, ordinario di Scienza delle finanze e sottosegretario al Tesoro di Carlo Azeglio Ciampi, fa un'analisi impietosa: «Il partito dominante si è infiltrato dappertutto. La Regione non è semplicemente il potere, ma il potere supremo». Per questo non ci saranno grandi colpi di scena domenica prossima, a meno che l'astensionismo non diventi il protagonista della consultazione. C'è chi paventa un crollo sotto il 50% dei votanti, con una contrazione di oltre 18 punti sul 2010. La vittoria del Pd è quasi una formalità: centro-destra e M5s sono spaccati. Il gruppo dei dissidenti espulso da Grillo sostiene il movimento civico regionale guidato dall'ex consigliere comunale di Budrio Maurizio Mazzanti. La sorpresa potrebbe essere l'altro Matteo, quel Salvini che spalleggiato dal sindaco di Bondeno Alan Fabbri, codino, orecchino e barba che non sono piaciuti a Silvio Berlusconi, battono paesi e città mai così livorose nei confronti della politica.
Giovedì a rianimare in extremis una campagna elettorale solo mediatica ci penserà Matteo Renzi, convocato al Paladozza da un sempre più ombroso Bonaccini. Ad applaudirlo ci sarà la sorella maggiore Benedetta, da maggio alla sua prima esperienza politica come assessore al welfare del Comune di Castenaso, alle porte di Bologna. Il consiglio di Renzi alla sorella nel giorno del debutto in politica? «Stai attenta». Domenica sera, a urne capovolte, a stare attenti dovranno essere almeno in tre: il premier, Benedetta e l'aspirante governatore.

Il Sole 18.11.14
In Emilia un test per Renzi
Tra recessione e alluvioni - e scandali giudiziari locali - il voto in Emilia diventa un test anche per Renzi
Il rischio si chiama astensionismo
di Lina Palmerini


La flessione di Renzi registrata dai sondaggi troverà un banco di prova imminente, le elezioni in Emilia-Romagna di domenica prossima. Gli emiliani hanno sempre garantito una grande partecipazione al voto, tra le più alte. Se si prendono come riferimento le ultime regionali del 2010, l'affluenza è andata sopra al 68% e prima ancora – nel 2005 – ha sfiorato il 77 per cento. Anche a maggio, nonostante fossero europee, il 69% è andato a votare con un risultato per il Pd renziano sopra al 52%. Adesso, come racconta il sociologo Fausto Anderlini, «i sondaggi danno la partecipazione ben sotto al 50%, più vicina al 40%. E visto che la vittoria del Pd è scontata, l'unico elemento nuovo può diventare l'astensionismo». Pesano le inchieste giudiziarie – è vero – ma la novità di una mobilitazione che si raffredda ha radici anche politiche. E nella terra della "ditta" l'astensionismo diventa una spia.
Matteo Renzi andrà a Bologna giovedì prossimo e non sarà un comizio per prendere voti ma piuttosto per portare la gente alle urne. Come sostiene Anderlini la vittoria è scontata ma rischia di essere annacquata nel disinteresse degli emiliani, nella distanza per la politica e per il partito che è tipica di molti luoghi ma non di questo. L'Emilia ha abbracciato il nuovo corso renziano ma il voto di domenica cade in una congiuntura sfavorevole, tra le alluvioni e la recessione. E peserà la riforma dell'articolo 18: qui il voto di sinistra pesa e poi è la terra dell'impresa metalmeccanica e del leader Fiom. Dunque, la prima spia che si accende è su Renzi.
Ed è una spia non solo sulle scelte di Governo ma segnala anche cosa manca – adesso – al premier per mobilitare l'elettorato, sia quello tradizionale che i nuovi voti. Gli manca un avversario forte, come è stato per le europee. L'onda di maggio è stata gonfiata da Grillo, dalla paura del sorpasso sul Pd, dalla possibile vittoria di un Movimento che declinava anche tutto un repertorio di destra. La presenza di un avversario temibile ha spazzato l'apatia che invece sembra la malattia di questo appuntamento emiliano. L'unico competitore è Matteo Salvini ma non è ancora un insidia. Il risultato della Lega sarà tutto tradotto nel campo del centro-destra, sui pesi con Forza Italia, sulla sfida per la leadership ma non è un rischio concreto per il candidato Pd, Stefano Bonaccini.
L'altra spia sta in una nota stonata di questa vicenda emiliana: le primarie. Se il Pd perde iscritti da un lato e dall'altro mette sabbia negli ingranaggi di selezione dei candidati, l'indifferenza diventa un'opzione. E qui è andata un po' così, con Renzi che non ha scommesso su primarie competitive. E infatti ha lasciato la pratica ad altri, ha puntato sulla mediazione con la "ditta" ma gli è sfuggita di mano con la candidatura a sorpresa di Matteo Richetti. Erano i giorni della festa dell'Unità a Bologna e durante un comizio disse ai due contendenti: «Avete fatto un bel casino!». Non proprio un incoraggiamento a primarie aperte. Poi Richetti si è ritirato e a competere con Bonaccini rimase Balzani. Sono state "primarie flop" con un esito già scritto: solo 58mila votanti su 71mila iscritti al Pd. E l'effetto di trascinamento-flop sull'affluenza di domenica già si sente. «Un bel casino» davvero.

Corriere 19.11.14
Quell’appello al voto del leader pd che per la prima volta teme le urne
La minaccia astensionismo in Emilia
Le sfide (difficili) di Veneto e Campania
di Maria Teresa Meli


ROMA Da quando ha preso nelle sue mani le redini del Partito democratico, prima, e del governo, poi, Matteo Renzi non ha perso un’elezione. Ha vinto in Basilicata, Sardegna, Abruzzo e Piemonte. Ha ottenuto un successo clamoroso alle Europee, sfiorando il 41 per cento. Un trionfo tale che ha fatto passare in secondo piano l’alto numero delle astensioni. Ma questa volta non sarà così. E lui lo sa bene.
Ora gli occhi sono puntati sull’affluenza elettorale in Emilia-Romagna, che andrà al voto, insieme alla Calabria, domenica prossima. La vittoria del Pd di Renzi è scontata e in entrambi i casi dovrebbe essere consistente, ma è previsto un aumento dell’astensionismo in Emilia, dove esponenti del Partito democratico sono stati coinvolti nella vicenda delle spese pazze della Regione, e anche in Calabria.
E l’appuntamento elettorale della primavera del 2015 non si presenta più facile. Nei sondaggi la percentuale degli indecisi e di chi ritiene di non andare a votare oscilla tra il 50 e il 60%. In Liguria l’«emergenza fango» non favorisce certo il Pd che da anni governa la Regione e Genova. Tant’è vero che si torna a parlare della candidatura del ministro della Giustizia Andrea Orlando e dell’opportunità di saltare le primarie per non dividere un partito che, certamente non è messo bene. In Campania nessuno degli esponenti del Pd che si vuole candidare convince veramente Renzi. I nomi sono quelli di Cozzolino, Picierno e, se avrà risolto i suoi problemi con la giustizia, De Luca. In Veneto, dove alle Europee Renzi era andato benissimo, la partita è più che difficile. La Regione va molto bene, il suo governatore Luca Zaia è difficilmente attaccabile in campagna elettorale e Alessandra Moretti viene giudicata non fortissima anche a largo del Nazareno.
Questi sono tutti elementi ben presenti nella mente del premier. Il quale, non a caso, ieri ha inviato una e-News con uno spiccato tono da propaganda elettorale per fare un bilancio delle cose fatte finora e ricordare l’appuntamento con le urne di domenica.
Nella sua missiva Renzi sottolinea innanzitutto che la «stragrande maggioranza dei partecipanti» del G20 di Brisbane considera «miope l’esclusiva attenzione all’austerità e al rigore» e ritiene che sia giunto «il momento di scommettere sulla crescita e sugli investimenti»: «È un grande passo in avanti che noi italiani abbiamo proposto e imposto all’Europa».
Secondo punto, il Jobs act: «È un provvedimento che non toglie diritti, ma alibi. Ai sindacati, alle imprese, ai politici». Quindi la legge di Stabilità, che, per Renzi, garantisce più assunzioni e meno tasse. Poi, la scuola. La «grande consultazione» indetta dal governo «ha visto una partecipazione molto positiva», «gli strumenti legislativi sono pronti, adesso si può provare a partire anche in Parlamento».
Nella sua e-News il presidente del Consiglio non rinuncia a una stoccata all’indirizzo di chi lo ha criticato per le cene di autofinanziamento: «Abbiamo incassato un milione e mezzo di euro e con questi soldi possiamo evitare di mettere i dipendenti del Pd in cassa integrazione». Il resto, dunque, è «demagogia». Dopodiché una difesa dell’azione del suo esecutivo durante l’emergenza maltempo: «Uno dei primi atti del governo è stata la nomina di una specifica unità di missione contro il dissesto idro-geologico. Che in Italia è il frutto di «anni di cattiva urbanistica». Ma per questo bisogna sbloccare «le opere pubbliche» paralizzate dalla burocrazia e dalla cattiva politica.
Il cuore della lettera però sta in un avvertimento con tanto di punto esclamativo: «Attenzione! Domenica 23 novembre si vota per due importanti regioni e io sarò impegnato a chiudere la campagna elettorale in Calabria e in Emilia-Romagna». Nella speranza di Palazzo Chigi che i titoli dei giornali siano dedicati all’«ennesima vittoria del Pd» di Renzi e non al fenomeno astensionismo...

Repubblica 19.11.14
Il voto in Emilia
Lo shock “spese pazze” spinge i non votanti a far propaganda e Bonaccini rischia una vittoria “debole”
A destra Salvini sperimenta l’opa su Fi
Il partito dell’astensione avversario unico del Pd la Lega sogna il podio davanti ai Cinque Stelle
di Michele Smargiassi


BOLOGNA I primi due posti sul podio sembrano già prenotati. Vincitore assoluto il partito stavoltanon- voto. Secondo, un governatore del Pd indebolito. La vera gara, alle elezioni regionali di domenica in Emilia-Romagna, è semmai per il terzo classificato, in una sorta di test su quale sia il più promettente anti-renzismo prossimo venturo, con la Lega che mira alla sua prima riscossa nell’era post-bossiana. Non è un caso che gli unici leader nazionali scesi finora in campo per questo mini-macro-test di medio mandato siano i due Mattei, il premier Renzi e il sempre più sfidante Salvini. «Non basta vincere, bisogna vincere bene», ripete come un mantra nelle soste del suo pellegrinaggio in camper Stefano Bonaccini, quarantasettenne bersaniano- turnedrenziano, il «Bruce Willis di Campogalliano» (questa è di Renzi in persona), già candidato riluttante, sapendo di dover fare gli scongiuri per la prima speranza («ai comizi mi chiamano già presidente, ma non ho ancora vinto...») e di avere problemi con la seconda. La prospettiva al momento più gettonata è un’affluenza che farà fatica a non scendere sotto la metà degli aventi diritto. Un collasso democratico nella regione che da sempre primeggia per voglia di urne, 68% nel 2010 e 77% nel 2005. Se anche il Pd riuscisse a replicare le sue tradizionali percentuali di consenso, un po’ sopra il 50%, per la prima volta governerà la “sua” regione con la metà dei voti della metà dei cittadini.
Domani dunque arriva Renzi, il Pd punta a riempire d’orgoglio lo storico PalaDozza, la coscrizione dei militanti delle Feste dell’Unità è pressante e probabilmente sortirà il suo effetto. Ma l’aiuto fraterno del Partito della Nazione rischia di servire poco a un Partito della Regione logorato, giunto ai seggi con un affanno mai visto. Tutto è andato storto, da quando Vasco Errani ha dovuto lasciare le alte torri di Kenzo Tange per guai giudiziari, e il quindicennio della pax erraniana è andato in frantumi. Primarie nel caos, candidature e scandidature, da far perdere la pazienza proprio a Renzi che venne su a settembre con un diavolo per capello: «avete fatto un gran casino!». E dire che, con la sua bacchetta magica di grande narratore, il premier era quasi riuscito a sanare la ferita originaria, riabilitando Errani come eroe del buongoverno a furor di popolo della Festa dell’Unità; ma poco ha potuto fare di fronte alla catastrofe dell’inchiesta sulle “spese pazze” dei consiglieri regionali, due milioni e passa di euro pubblici da giustificare, inclusi ostriche e sextoys . L’unica fortuna per i candidati è che ci son finiti dentro praticamente tutti, grillini e leghisti compresi (su 50 consiglieri uscenti sono 41 gli indagati, dodici dei quali si erano intanto ricandidati in varie liste), e dunque la questione morale è miracolosamente evaporata dalla campagna elettorale, non la tira fuori quasi nessuno, tranne i giornali, e gli elettori disgustati. Certo, quei pastrocchi con le notule sono forse meno eclatanti che in altre regioni, ma come dice la politologa Nadia Urbinati, nella terra del buongoverno sono proprio le «piccinerie fastidiose» come il mezzo euro del wc della stazione messo a carico dei contribuenti «a dare l’idea di un uso abituale e privatistico dei soldi di tutti».
Ci mancavano solo i fuori-onda e sono arrivati: con un registratore nel taschino il consigliere exgrillino Defranceschi (espulso proprio perché indagato anche lui) ha carpito le contumelie riservate dei suoi colleghi contro i giornalisti «servi della gleba», e i loro goffi tentativi di nascondere i panni sporchi, sicché il capogruppo uscente del Pd Marco Monari, fra i più loquaci, ha dovuto sospendersi dal partito, con scuse, una settimana prima del voto, niente male come viatico.
E dunque tira un’aria che nessuno avrebbe mai detto. In questa parte d’Italia dove si masticava la politica come a Bisanzio la teologia, la disaffezione si dà voce: assieme a clamorosi abbandoni (Francesco Guccini voterà un candidato di Sel, «scelgo la persona »), inviti ad acrobatici voti disgiunti, sfide da sinistra (una versione emiliana della lista Tsipras guidata dalla storica pasionaria parmense Cristina Quintavalla), serpeggiano sui social network pubbliche confessioni di non-voto, e non suona assurda la domanda del cronista a Romano Prodi (una sua nipote è candidata a Reggio Emilia), professore lei ci va a votare? Risposta, «Ci andrò senz’altro», ma allegata a una pessimista citazione manzoniana: «il buon senso restava nascosto per paura del senso comune».
Come su un altro campo di gioco, la Lega nazionale tenta la sua terza storica calata sotto il decaduto dio Po. Matteo Salvini pare aver cambiato residenza, in un mese già sei giornate di incursioni, inclusa quella finita a mattonate sul lunotto dell’auto al campo nomadi di Bologna; tornerà ancora domani e venerdì per concludere nel capoluogo, nel frattempo va in tivù con la scritta “Emilia” sulla felpa e pesta come un martello pneumatico sui temi della sua nuova destra xenofoba, omofoba ed eurofoba. Il suo campione è il sindaco di Bondeno, il trentacinquenne Alan Fabbri, ma sui poster “vota Fabbri” c’è solo la faccia di Salvini; e dire che sembra anche un tipo simpatico, questo Fabbri, spendibile anche a sinistra, con quei capelli lunghi raccolti in un codino un po’ freak che ha resistito anche al diktat di Berlusconi: «Se lo tagli!».
Già, perché qui, in quel che resta della destra d’Emilia, non è più l’uomo di Arcore che comanda. Sfibrata, muta e senza uomini, Forza Italia s’è rassegnata ad attaccarsi al Carroccio pur di non scomparire, le resta solo il diritto al mugugno («Salvini nei campi rom? Solo uno spot»). Ed è chiaro che se i voti all’alleanza arriveranno copiosi, sarà solo la Lega a intestarseli. La speranza, non così folle: scavalcare, magari doppiare, addirittura umiliare i Cinquestelle, diretti rivali nell’imprenditoria della rabbia. Che in Emilia ebbero la loro alba, dal Vaffa-Day di Bologna al trionfo di Parma, ma ora hanno solo tramonti, il sindaco Pizzarotti eretico in odor di scomunica, e presentano agli elettori il magro rendiconto di due consiglieri regionali eletti nel 2010 e poi entrambi cacciati dal partito (il dissidente Favia e l’indagato Defranceschi). Forse per questo il grande capo di Genova da queste parti non si è ancora visto. Lui, che due anni fa venne ben due volte in dieci giorni a Budrio, paesino di poche migliaia di anime, per sostenere il suo candidato sindaco, salvo possibili ripensamenti dell’ultimora lascerà sola la modenese Giulia Gibertoni, poco urlante trentacinquenne ricercatrice, diventata capolista con la bellezza di 266 voti dalle primarie online, nel compito di trattenere un impegnativo 20% di voti.
In fondo, non è che una nuova incarnazione del perpetuo laboratorio politico emiliano. A sud del Po, in questi giorni irato con gli uomini, gonfio come una vena varicosa e tenuto a freno da decine di migliaia di sacchetti di sabbia, si sperimenta con quali sacchetti di rabbia sia più efficace costruire la prossima rampa d’assalto al governo Renzi.

il Fatto 19.11.14
Così il ministro è tornato a casa
Quell’aereo-taxi di Stato inguaia la Pinotti
I tabulati dell’Ente nazionale assistenza al volo confermano: il piano del Falcon 50, partito da Ciampino e diretto a Genova, cambiato “su misura” per il ministro della Difesa
Il procuratore capo di Roma: “Se è indagata? Non commento la vicenda”
di Marco Lillo


Nuovi documenti mettono in serio imbarazzo Roberta Pinotti per il volo militare del 5 settembre del 2014 sulla rotta Roma-Genova, dove il ministro della Difesa risiede. Il Tg de La7 ieri sera ha mostrato i documenti inediti dei piani di volo presenti nel cervellone dell’Ente Nazionale Assistenza al Volo dal quale risulta che il piano del Falcon 50 che quella sera ha riportato il ministro a casa da Ciampino è stato cancellato alle 18 e 04 e riscritto alle 18 e 06 in concomitanza dell’orario del decollo stimato dell’Airbus del premier Renzi da Firenze, sul quale c’era Roberta Pinotti. In pratica il piano di volo del Falcon 50, che teoricamente doveva essere in missione di addestramento, non sembrava ritagliato su misura delle esigenze dei piloti bensì su quelle dell’unico passeggero civile: Roberta Pinotti.
Al ministero della Difesa preferiscono non commentare i documenti mostrati nel servizio tv di ieri. Il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, su specifica richiesta dei giornalisti (‘Il ministro Pinotti è indagato? ’) ieri ha replicato: “Su questa vicenda non commento”.
EPPURE la vicenda del volo di addestramento usato dalla Pinotti per tornare a casa la sera del 5 settembre al ritorno dal vertice Nato in Galles, al quale Pinotti aveva partecipato insieme all’allora collega degli esteri Federica Mogherini e a Renzi, meriterebbe maggiore attenzione.
Il primo a scriverne, in seguito a un’interrogazione parlamentare dei M5S Luca Frusone e Alessandro Di Battista, era stato Il Fatto Quotidiano. I due documenti che avevamo pubblicato a corredo degli articoli del 25 e 26 settembre scorsi dimostravano già che quel volo Roma-Genova ancorché trattato dal punto di vista dei permessi come un normale volo di addestramento aveva caratteristiche particolari.
Se Roberta Pinotti avesse voluto usufruire dello stesso aereo la stessa sera seguendo le regole previste per tutti i ministri dalle norme e direttive introdotte prima da Berlusconi e poi da Monti e Letta sarebbe dovuta passare dalla Presidenza del Consiglio. Il volo però le sarebbe stato negato. Infatti: “I voli di Stato devono essere limitati al presidente della Repubblica, ai presidenti di Camera e Senato, al presidente del Consiglio dei ministri, al presidente della Corte costituzionale” e “eccezioni rispetto a questa regola devono essere specificamente autorizzate” inoltre, “una volta autorizzato il volo si procede alla pubblicazione, con cadenza mensile, sul sito internet della Presidenza del Consiglio dei ministri”.
Quella sera il ministro della Difesa aveva evitato lo stop della normativa, la noia della richiesta e della pubblicazione del volo-taxi grazie a una gentilezza dell’Aeronautica che le aveva offerto un passaggio su uno dei suoi voli di addestramento. Effettivamente l’Aeronautica dispone di una sorta di ‘tesoretto’ di ore di volo di addestramento perché i piloti, per mantenere i brevetti, devono volare un tot all’anno. Si dice che non solo i politici ma anche i generali usufruiscano di questo benefit.
Il volo del 5 settembre aveva una missione prioritaria: aspettare il rientro della Pinotti da Cardiff per poterla portare a casa. Il 26 settembre avevamo pubblicato la ‘nota del giorno’ del 31° stormo dell’Aeronautica, che si occupa dei voli di Stato, dal quale risultava che il Falcon 50 quella sera stava a Ciampino fermo sulla piazzola come un taxi. C’era scritto: “Decollo successivo all’atterraggio del volo Iam 9002 - Equipaggio in tuta da volo”.
In pratica il Falcon 50 non sarebbe dovuto partire prima dell’atterraggio dell’Airbus 319 che, dopo avere scaricato Renzi a Firenze, sarebbe atterrato a Ciampino di ritorno dal Galles. Ieri il Tg7 ha aggiunto un ulteriore tassello alla ricostruzione di quello che è accaduto quella sera: il piano di volo del Falcon 50 è stato cambiato in funzione delle esigenze di rientro a casa del ministro Pinotti quella sera.
I piani di volo sono compilati dagli operatori a terra del 31° stormo sulla base delle indicazioni dei piloti. Possono essere aggiornati più volte prima del decollo e tutte le modifiche sono presenti nei terminali dell’Enav.
Alle 15 e 09 l’operatore inserisce il piano di volo dell’Airbus presidenziale con a bordo Renzi e i ministri Pinotti e Mogherini. È un vero volo di stato e si prevede la partenza alle 15 e 30. Alle 15 e 41 viene inserito anche il piano di volo del Falcon, teoricamente non è un volo di stato ma è un volo di addestramento però si prevede il decollo alle 19 e 30 da Ciampino. Come risulta dalla nota del giorno pubblicata dal Fatto a settembre ‘dopo l’atterraggio’ dell’Airbus. Poi l’ Airbus ritarda. Il piano di volo dell’Airbus in partenza da Cardiff viene cambiato alle 15 e 44. Il decollo previsto slitta alle 15 e 50. Tre minuti dopo l’inserimento del cambiamento del volo da Cardiff a Firenze, cambia ovviamente anche il piano di volo dello stesso aereo Airbus A319 presidenziale per la tratta Firenze-Roma Ciampino.
IL VOLO che a quel punto ospiterà solo i ministri Pinotti e Mogherini è previsto in partenza alle 18 e 5 minuti, non più alle 17 e 45. In realtà l’Airbus tarda un po’ a Firenze, quando scende Renzi. Il decollo reale sarà alle 18 e 23 con atterraggio a Roma alle 18 e 46 minuti. Quando l’aereo è pronto a decollare e si può stimare bene l’orario, l’operatore cambia il piano di volo del Falcon che aspetta il ministro Pinotti. Alle 18 e 4 minuti il vecchio piano di volo è cancellato del tutto. E alle 18 e 6 minuti (17 minuti prima del decollo reale da Firenze dell’Airbus e solo un minuto dopo quello stimato inizialmente) l’operatore inserisce finalmente il piano di volo definitivo del Falcon con partenza non più alle 19 e 30 ma alle 19.
In pratica il volo è anticipato di una mezzora in modo che, se il ministro arriva prima da Firenze, non bisogna farla aspettare sulla piazzola di Ciampino. Alla fine il volo ‘di addestramento’ con il ministro Pinotti parte alle 19 e 22 e arriva alle 20 e 05. Gli orari dei tabulati sono tutti riferiti al meridiano di Greenwich. Quindi, calcolando il fuso e l’ora legale, devono essere posticipati di due ore per avere gli orari reali. Il ministro Pinotti quella sera è arrivata a Genova alle 22 e 5 minuti. Grazie all’Aeronautica che ora ha querelato i paramentari M5S che hanno osato presentare un esposto alla Procura dopo l’interrogazione parlamentare su questa vicenda.

il Fatto 19.11.14
Immigrati a Roma, tregua a Tor Sapienza
E Casa Pound accende i fuochi sul litorale
di Alessio Schiesari


Da Tor Sapienza a Ostia, dall’Esqulino all’Eur. La destra radicale romana, con Casa Pound al timone, sente aria di elezioni e si mobilita per riconquistare spazi e visibilità perduti dopo l’uscita dal Campidoglio di Gianni Alemanno. I temi da cavalcare sono gli stessi di sempre: sicurezza, immigrazione, prostituzione, degrado. Gli slogan pure: “prima gli italiani”, “via gli immigrati”. A cambiare è la strategia: come dimostrato sabato alla manifestazione dell’Esquilino, quartiere multietnico accanto alla stazione Termini, i vessilli riconducibili alle sigle più note restano nascosti, mentre si esibiscono tricolori e sigle di neonati comitati di quartiere che si definiscono apolitici, apartitici, ma in realtà sono guidati dai volti noti della destra radicale romana.
DOPO GLI INSULTI, tregua a Tor Sapienza. Calma militarizzata nella periferia est. Ieri i rappresentanti dei cittadini che l’avevano contestato hanno incontrato il sindaco Ignazio Marino. Ne è uscito un accordo che prevede la riconversione del centro di accoglienza in struttura dedicata a madri e famiglie; contrasto alla prostituzione; pattugliamento del campo nomadi di via Salviati e di altri insediamenti rom; e un più generico “censimento” degli abusivi di viale Morandi, molti dei quali italiani e organici alla protesta. L’accordo verrà sottoposto domani al giudizio dei residenti. Dopo il banchetto di Casa Pound organizzato il sabato precedente all’inizio degli scontri e la scorta dei militanti a Borghezio, la destra continua a monitorare l’area. I rappresentanti dei cittadini saliti ieri in Campidoglio raccontano che lunedì alcuni “esterni al quartiere evidentemente di destra” hanno provato a intrufolarsi nell’assemblea di preparazione all’incontro con Marino. Intanto la Questura sta eseguendo accertamenti su eventuali infiltrazioni di estrema destra negli scontri della settimana scorsa.
IL NUOVO FRONTE è l’Infernetto, sul litorale a due passi da Ostia, dove si prepara un corteo anti-profughi. Insieme ai 30 minori non accompagnati evacuati da Tor Sapienza, anche lì sono arrivate anche le tensioni. Ieri l’assessore alle politiche sociali del Municipio X, Emanuela Droghei, ha incontrato circa 200 cittadini per discutere dell’arrivo dei profughi. I cittadini sono divisi: alcuni sono pronti ad ospitare i minori nelle loro case a Natale, altri hanno protestato vivacemente. L’incontro è stato attaccato dal rappresentante di zona di Casa Pound, Luca Marsella. L’obiettivo della formazione è cavalcare i malumori di parte dei residenti e coalizzarli nel corteo che transiterà sabato davanti al centro profughi di via Salorno. La comunicazione dell’evento è un manuale di come agisce la nuova destra: a chi chiede informazioni sui social network, i responsabili di Casa Pound Litorale Romano rispondono di consultare la pagina Facebook del Comitato difesa Municipio X. Qui nessun simbolo rimanda a Casa Pound, solo appelli ai “cittadini” e tricolori: la stessa tecnica utilizzata sabato scorso all’Esquilino. Nel caso dell’Infernetto, però, tutta la destra “istituzionale”, da Fratelli d’Italia a Forza Italia, ha preso le distanze.
ALL’EUR SIGLE NUOVE, stesse facce. Venerdì è in programma un altro corteo contro “degrado, prostituzione abusivismo e e spaccio”. All’Eur, un tempo feudo dell’ex Avanguardia Nazionale Riccardo Mancini potentissimo sotto Alemanno, la protesta è affidata a tre sigle. Tra queste anche il Fronte Romano Riscatto Popolare, una piccola formazione spesso apparentata a Casa Pound che sul proprio sito pubblica immagini di militanti impegnati nel saluto romano. Sono attesi anche i militanti di Popolo di Roma, storica costola di Casa Pound nel quartiere. “Credo che la scelta dell’Eur non sia casuale – commenta il presidente del IX Municipio, Andrea Santoro –. I movimenti che sembravano spariti dopo la fine della giunta Alemanno qui stanno riguadagnando spazio”.
DI SPRANGA E DI GOVERNO.
Quattro su nove: tanti sono i candidati alle ultime Comunali di Viterbo nelle liste di Casa Pound arrestati per avere pestato a sangue un gruppo di tifosi di sinistra dell’Ardita, una squadra di Terza categoria, domenica a Magliano Romano. Tra loro anche Diego Gaglini, candidato sindaco che, al secondo turno, ha sostenuto il centrodestra. Nome noto anche quello di Ervin Di Maulo, militante di Casa Pound famoso per la prestanza come picchiatore. Non sono ancora chiari i motivi del feroce raid, c’è il rischio di reazioni da sinistra in una vera e propria escalation.

il Fatto 19.11.14
Potenza, “No alle trivelle”
Sesto giorno di proteste


La pioggia non ferma la protesta in Basilicata contro lo Sblocca Italia. Anche ieri circa un migliaio tra studenti e cittadini, secondo i dati diffusi dagli organizzatori, hanno manifestato a Potenza, arrivando in corteo fino al palazzo della Regione, per continuare a dire no alle ricerche petrolifere e alle trivellazioni autorizzate dallo Sblocca Italia e che minacciano la regione. Al corteo del capoluogo ieri si è unita anche la protesta di circa un paio di migliaia di cittadini e studenti a Venosa. Il consiglio comunale del centro lucano ha chiesto alla Regione di impugnare anche gli articoli 35, 36 e 37 del decreto Sblocca Italia, per non favorire lobby dei rifiuti oltre a quella del petrolio. È proseguita così anche ieri la protesta, arrivata al sesto giorno consecutivo, che vede gli studenti protagonisti e motore propulsivo. Intanto alla mobilitazione in strada si uniscono i consigli comunali che continuano a pronunciarsi contro lo Sblocca Italia e chiedono al governatore della Basilicata, Marcello Pittella del Pd, fratello di Gianni, capogruppo dei socialdemocratici all’Europarlamento, di impugnare l’articolo 38 e salvare Regione e cittadini dai rischi ambientali e sanitari che comporterebbero le trivellazioni. Il presidente avrebbe rassicurato i cittadini dicendo di non avere intenzione di impugnare l’articolo 38. Ricerche e perforazioni, ha detto Pittella, avverranno nel pieno rispetto della salute dei cittadini e dell’ambiente.

il Fatto 19.11.14
Territorio
I politici colpevoli legge per legge
di Vittorio Emiliani


Caro direttore, è di nuovo tragedia in Liguria, il Po fa paura, i fiumi veneti allarmano... Tutto ciò conferma che questa è la vera, urgentissima priorità nazionale: salvare l’Italia e gli italiani dallo sfascio del territorio.
E invece, dopo anni (gestione Bertolaso) di espansionismo fino a coprire i centenari dei Santi, oggi la Protezione civile difetta di risorse pure per le urgenze più drammatiche; il governo in carica dirotta i fondi su nuovo cemento e asfalto a tappeto, mentre si limita a promettere che cercherà di raschiare 2 miliardi di euro per la difesa del suolo.
Ma soprattutto manca un quadro legislativo – e quindi operativo – che connetta strettamente l’azione nazionale e quella regionale e locale oggi disarticolata. Perché? Anzitutto per il mai risolto rapporto Stato-Regioni fra il decentramento più spinto e il ritorno a una catena di comando che ridia un senso “nazionale” ai problemi.
COMINCIAMO dall’abusivismo edilizio, fin dentro le golene e gli alvei, solo ora sottolineato dal ministro Galletti. Si possono indennizzare gli abusivi che l’hanno potenziata costruendovi? Si possono continuare a sanare, invece di abbatterli, quei fabbricati? Una demenza diffusa che ha investito, a livello politico, a monte di tutto, anche i grandi Istituti nazionali.
Il nostro Paese disponeva di un efficiente Servizio Idrografico Nazionale, poi smantellato con la regionalizzazione (per anni la Regione Lazio ha interrotto la secolare preziosa statistica dei livelli di un fiume “pazzo” quale il Tevere). Il Servizio Geologico ha realizzato “solo per il 40%” la Carta d’Italia, e non sta bene. Ancora peggio il Servizio Meteorologico civile “mai istituito con legge nazionale”.
Con Berlusconi, la Protezione civile è straripata dai suoi già gravosi compiti, inglobando il Servizio Sismico Nazionale da cui era stato cacciato, (ottobre 2002) per ragioni politiche il suo valido direttore Roberto De Marco.
Dissennata la vicenda della legge nazionale sulla difesa del suolo del 1989, la numero 183, che un gruppo di idraulici e di amministrati rimpiange al punto da aver costituito un “Gruppo 183” per studi e convegni: istituiva alcune Autorità di Bacino nazionali (dal Po al Volturno), altre Autorità regionali e locali.
Dovevano redigere i piani idrogeologici su cui fondare dettagliati piani di graduale “ricostruzione”, dalla montagna e dalla collina abbandonate al dissesto fino alla pianura invasa dal cemento abusivo, a Olbia, nel Gargano, alla foce del Tevere. Sul modello della Authority del Tamigi che riunisce i poteri di ben 11 mila enti. Essa traeva origine dal piano De Marchi (1970), successivo al tragico 1966, che chiedeva 10 mila miliardi di lire in un decennio.
Inascoltato: così, per inseguire le continue emergenze, abbiamo speso almeno 6-7 volte tanto. Approvati i primi piani di bacino, è cominciata la lotta di Comuni e Regioni “contro” di essi. E la legge n. 183 è stata di fatto svuotata dai particolarismi.
IL COLPO di grazia è venuto dal Testo Unico sull’ambiente (2006). Storia parallela a quella della legge Galasso (1985) per i piani paesaggistici ignorati in alcune regioni (Sicilia), tardivi e debolissimi in altre (Lombardia). Risuccede coi piani previsti dal Codice per il Paesaggio: sinora la sola Toscana vi ha ottemperato fra bordate furibonde di cavatori di marmo e costruttori. Il Titolo V della Costituzione varato nel 2001 per “catturare” la Lega ha messo alla pari Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e infine Stato. Il caos.
Lo Sblocca Italia allenta o cancella controlli sul cemento e l’asfalto in un Paese dissestato, franoso, sismico. Dovremmo, da anni, istituire le Autorità di Distretto secondo le direttive Ue e “nutrirle” con un vero Salva Italia (spesa prevista, 40 miliardi in quindici anni), fonte oltretutto di migliaia di posti di lavoro certi, ma chi ci pensa?

il Fatto 19.11.14
L’estrema unzione sul Palazzo d’Italia
di Oliviero Beha


DUE GIORNI FA, mentre il presidente di Confindustria Squinzi notava con indiscutibile acume che “le tensioni sociali sono un segnale d’allarme da affrontare”, contemporaneamente la senatrice del M5S Paola Taverna veniva respinta con perdite dal Bounty di Tor Sapienza contro il centro per i rifugiati. La cosa più stupefacente di tale respingimento era però lo stupore stesso della Taverna. “Non ti vogliamo, sei politica”, le facevano, e lei rispondeva “Ma come, sono dalla parte vostra sono del Quarticciolo…”. Con qualche differenza per lo spessore degli accadimenti, si è ripetuta la scena con Grillo a Genova tra gli alluvionati, ricacciato indietro con perdite e clamori mediatici. Per queste reazioni, alla perdita di consensi del M5S, alla oggettiva difficoltà politica e sociale in cui si dibatte, in un Paese che sembra andato a valle con la piena meteorologica e umana, ci sono credo due metri di valutazione. Il primo è quello strettamente politologico, adoperato da tutti gli addetti ai lavori: Renzi ha tolto il terreno sotto i piedi di Grillo accreditandosi la protesta popolare e trasformandola in consenso elettorale macroscopico nelle Europee di maggio, poi tutto è andato di conseguenza e addirittura il terreno di coltura dei grillini è adesso risucchiato dai leghisti di Salvini, con o senza il supporto di Casa Pound e altre diramazioni di estrema destra.
È un quadro che sembra un ritratto abbastanza fedele della realtà, e di solito non dissimula neppure la soddisfazione di chi lo dipinge, che si sente molto più a suo agio, old style, in una con la politica di sempre che ci ha ridotti così. Il secondo metro esce dai recinti politologici per occuparsi della realtà e dei suoi principi, al di là o al di qua dei vantaggi elettorali del singolo partito o schieramento, cioè di chi traffica all’ombra del Nazareno o alla luce dei contrasti parlamentari su una nuova legge elettorale che gli convenga. La realtà dell’Italia travolta dal maltempo certo per effetto dei cambiamenti climatici ma soprattutto a causa della cementificazione selvaggia cui tutti hanno contribuito nell’ultimo mezzo secolo, oppure la realtà di una questione immigrazione trattata con i piedi, sempre e solo guardando ai risvolti politici opportunistici, che sia la legge Bossi-Fini, o prima quella Turco-Napolitano, che hanno creato le condizioni per la situazione attuale in cui c’è sempre e solo una “guerra tra poveri”.
n QUELLA CHE si svolge nei quartieri di Milano assaltati dagli occupanti abusivi come quella di Tor Sapienza dove il sindaco Marino contratta un centro “solo per donne e bambini” dopo aver passato un anno e mezzo di amministrazione mirato sulla pedonalizzazione dei Fori Imperiali. Ebbene, dov’è la politica in questo contesto? Nelle aule pubbliche e nelle segrete stanze dei Palazzi, o invece nelle strade sommerse dalle esondazioni e nelle case dove si combatte palmo a palmo “come a Beirut”? E se fino ad ora il Movimento di Grillo provava a rappresentare politicamente questa realtà e ora, nelle contraddizioni di lotta e di governo insieme, ci riesce sempre meno, adesso questo buco, questo vuoto, questa voragine ormai antropologica tra il Palazzo e la Piazza chi la riempirà? È davvero così difficile registrare una sorta di de profundis (tradotto volgarmente in anti-politica) per la politica delle cose, delle idee, degli ideali, di fronte a pezzi di Italia che si sfaldano sempre più velocemente in ogni senso e sotto gli occhi di tutti? Che se ne fanno, a Genova piuttosto che a Tor Sapienza, della “politica” intesa come tweet e selfie e “annuncite” ma anche solo come etichetta parlamentare, vedi la Taverna? Davvero si pensa che basti un Renzi a ricucire ciò che si è forse irrimediabilmente strappato?

il Fatto 19.11.14
‘Ndrangheta. I più forti
Quel sistema di potere che è già parte dello Stato
di Enrico Fierro


In un mondo dove la politica fa a gara a rottamare le ideologie passate, c’è una organizzazione criminale, la ‘ndrangheta, che proprio sulla conservazione e la valorizzazione dell’ideologia fonda la sua terribile forza. “La musica può cambiare, ma per il resto siamo sempre noi. Noi non possiamo mai cambiare”, così parlò un boss arrestato non in un bunker dell’Aspromonte, ma nella civilissima Lombardia. Mai cambiare, conquistare il mondo ma sempre sapendo quello che ci si è lasciati alle spalle.
QUESTA è la regola di una organizzazione che dalla regione più povera d’Italia si è allargata in tutto il Globo conquistando posizioni di monopolio assoluto nei mercati criminali che contano. Per questo si evocano i tre cavalieri venuti dalla Spagna e si brucia l’immagine di San Michele in un catojo di Platì, come nel retro di un ristorante alla moda al centro di Roma. Quello che vale a San Luca vale a Perth, Australia. Le regole che si devono rispettare a Siderno, sono le stesse che vanno rispettate in Canada. La venerazione della famiglia e dei legami di sangue è dogma da onorare da Medellin, Colombia, e ad Africo. Solo così la ‘ndrangheta potrà continuare a crescere, espandersi, conquistare porzioni importanti dell’economia criminale e sedersi nei salotti che contano della finanza . Solo riproponendo rituali arcaici potrà continuare a contaminarsi con mondi estranei, la Chiesa, la massoneria, lo Stato e la politica, senza perdere la sua granitica integrità. È dagli anni Settanta del secolo passato, con don Paolino Di Stefano, che la ‘ndrangheta conquista la Costa Azzurra, è dai Novanta, quando la pace tra le famiglie in guerra fu decretata al Duomo di Reggio Calabria, con vedove e mogli dei mamma-santissima e il vescovo officiante, che la Chiesa si genuflette ai voleri dei boss.
ORGANIZZAZIONE ricchissima e potentissima, la ‘ndrangheta non ha partiti di riferimento. I politici se li sceglie, in Calabria come in Lombardia, senza steccati ideologici. Organizzazione diretta da menti raffinatissime, è già borghesia mafiosa. Un avvocato della Piana di Gioia Tauro, arrestato, sta vuotando il sacco, e sta parlando di interi “uffici legali” a disposizione dei boss. Ma ora siamo già oltre, da qualche anno la ‘ndrangheta più evoluta e moderna ha capito che per tutelarsi deve anche influenzare il mondo dei media. Giornali, libri e fiction televisive. Sempre l’avvocato ha raccontato di come, nel caso della morte della testimone di giustizia di Maria Concetta Cacciola, “suicidata” con l’acido muriatico, i legali della “famiglia” organizzarono anche una campagna mediatica facendo circolare, in esclusiva, finte ritrattazioni della donna. Se poi nelle fiction si esalta il vecchio boss buono che rispetta le regole dell’onore ed è contro la droga, e nei film ci si ferma all’introspezione della famiglia e delle sue regole arcaiche, allora il gioco è fatto. Un po’ di folk, una capra sgozzata, un santo, sono la ricetta migliore per non parlare mai del livello oscuro e di potere della ‘ndrangheta, quello che la rende ormai parte dello Stato.

il Fatto 19.11.14
Grembiulini al comando
“Il mio album segreto con i grandi massoni d’Italia e del mondo”
Lo sconcertante libro di Gioele Magaldi sulle superlogge che governano il pianeta: sarebbero stati iniziati anche molti vip della nostra politica
Il capo dello Stato sarebbe stato iniziato nel 1978 alla Ur-Lodge conservatrice Three Eyes, potentissima
Mario Draghi invece vanta l’affiliazione a ben 5 superlogge
di Gianni Barbacetto e Fabrizio d’Esposito


Esistono i massoni e i supermassoni, le logge e le superlogge. Gioele Magaldi, quarantenne libero muratore di matrice progressista, ha consegnato all’editore Chiarelettere (che figura tra gli azionisti di questo giornale) un manoscritto sconcertante e che sarà presentato domani sera alle 21 a Roma, a Fandango Incontro. Il libro, anticipato ieri dal sito af faritaliani.it , è intitolato Massoni società a responsabilità illimitata, ma è nel sottotitolo la chiave di tutto: La scoperta delle Ur-Lodges. Magaldi, che anni fa ha fondato in Italia il Grande Oriente Democratico, in polemica con il Grande Oriente d’Italia, la più grande obbedienza massonica del nostro Paese, in 656 pagine apre ai profani un mondo segreto e invisibile: tutto quello che accade di importante e decisivo nel potere è da ricondurre a una cupola di superlogge sovranazionali, le Ur-Lodges, appunto, che vantano l’affiliazione di presidenti, banchieri, industriali. Non sfugge nessuno a questi cenacoli. Le Ur-Lodges citate sono 36 e si dividono tra progressiste e conservatrici e da loro dipendono le associazioni paramassoniche tipo la Trilateral Commission o il Bilderberg Group. Altra cosa infine sono le varie gran logge nazionali, ma queste nel racconto del libro occupano un ruolo marginalissimo. Tranne in un caso, quello della P2 del Venerabile Licio Gelli.
I documenti che mancano sono a Londra, Parigi e New York
Prima però di addentrarci nelle rivelazioni clamorose di Massoni è d’obbligo precisare, come fa Laura Maragnani, giornalista di Panorama che ha collaborato con Magaldi e ha scritto una lunga prefazione, che l’autore non inserisce alcuna prova o documento a sostegno del suo libro, frutto di un lavoro durato quattro anni, nei quali ha consultato gli archivi di varie Ur-Lodges. Tuttavia, come scrive l’editore nella nota iniziale, in caso di “contestazioni” Magaldi si impegna a rendere pubblici gli atti segreti depositati in studi legali a Londra, Parigi e New York. Detto questo, andiamo al dunque non senza aver specificato che tra le superlogge progressiste la più antica e prestigiosa è la Thomas Paine (cui è stato iniziato lo stesso Magaldi) mentre tra le neoaristocratiche e oligarchiche, vero fulcro del volume, si segnalano la Edmund Burke, la Compass Star-Rose, la Leviathan, la Three Eyes, la White Eagle, la Hathor Pentalpha. Tutto il potere del mondo sarebbe contenuto in queste Ur-Lodges e finanche i vertici della fu Unione Sovietica, a partire da Lenin per terminare a Breznev, sarebbero stati superfratelli di una loggia conservatrice, la Joseph de Maistre, creata in Svizzera proprio da Lenin. Può sembrare una contraddizione, un paradosso, ma nella commedia delle apparenze e dei doppi e tripli giochi dei grembiulini può finire che il più grande rivoluzionario comunista della storia fondi un cenacolo in onore di un caposaldo del pensiero reazionario. In questo filone, secondo Magaldi, s’inserisce pure l’iniziazione alla Three Eyes, a lungo la più potente Ur-Lodges conservatrice, di Giorgio Napolitano, attuale presidente della Repubblica e per mezzo secolo esponente di punta della destra del Pci: “Tale affiliazione avvenne nello stesso anno il 1978, nel quale divenne apprendista muratore Silvio Berlusconi. E mentre Berlusconi venne iniziato a Roma in seno alla P2 guidata da Licio Gelli nel gennaio, Napolitano fu cooptato dalla prestigiosa Ur-Lodge sovranazionale denominata Three Architects o Three Eyes appunto nell’aprile del 1978, nel corso del suo primo viaggio negli Stati Uniti”.
Altri affiliati: Papa Giovanni XXIII, Bin Laden e l’Isis, Martin Luther King e i Kennedy
C’è da aggiungere, dettaglio fondamentale, che nel libro di Magaldi la P2 gelliana è figlia dei progetti della stessa Three Eyes, quando dopo il ‘68 e il doppio assassinio di Martin Luther King e Robert Kennedy, le superlogge conservatrici vanno all’attacco con una strategia universale di destabilizzazione per favorire svolte autoritarie e un controllo più generale delle democrazie. “Il vero potere è massone”. E descritto nelle pagine di Magaldi spaventa e fa rizzare i capelli in testa. Dal fascismo al nazismo, dai colonnelli in Grecia alla tecnocrazia dell’Ue, tutto sarebbe venuto fuori dagli esperimenti di questi superlaboratori massonici, persino Giovanni XXIII (“il primo papa massone”), Osama bin Laden e il più recente fenomeno dell’Isis. In Italia, se abbiamo evitato tre colpi di Stato avallati da Kissinger lo dobbiamo a Schlesinger jr., massone progressista.
L’elenco di tutti gli italiani attuali spiccano D’Alema, Passera e Padoan
Il capitolo finale è un colloquio tra Magaldi e altri confratelli collaboratori con quattro supermassoni delle Ur-Lodges. Racconta uno di loro, a proposito del patto unitario tra grembiulini per la globalizzazione: “Ma per far inghiottire simili riforme idiote e antipopolari alla cittadinanza, la devi spaventare come si fa con i bambini. Altrimenti gli italiani, se non fossero stati dei bambinoni deficienti, non avrebbero accolto con le fanfare i tre commissari dissimulati che abbiamo inviato loro in successione: il fratello Mario Monti, il parafratello Enrico Letta, l’aspirante fratello Matteo Renzi”. Per non parlare del “venerabilissimo” Mario Draghi, governatore della Bce, affiliato a ben cinque superlogge. Ecco l’elenco degli italiani nelle Ur-Lodges: Mario Draghi, Giorgio Napolitano, Mario Monti, Fabrizio Saccomanni, Pier Carlo Padoan, Massimo D’Alema, Gianfelice Rocca, Domenico Siniscalco, Giuseppe Recchi, Marta Dassù, Corrado Passera, Ignazio Visco, Enrico Tommaso Cucchiani, Alfredo Ambrosetti, Carlo Secchi, Emma Marcegaglia, Matteo Arpe, Vittorio Grilli, Giampaolo Di Paola, Federica Guidi. Berlusconi, invece, avrebbe creato una Ur-Lodge personale, la Loggia del Drago. Bisognerà aspettare le “contestazioni”, per vedere le carte di Magaldi.
MASSONI Gioele Magaldi Chiarelettere pagg. 656, € 19

Repubblica 19.11.14
L’ora di buddismo
di Alessandra Longo


LA SCELTA di avvalersi o meno dell’ora di religione a scuola va fatta a febbraio quando ci si iscrive. E dopo? Se un genitore ha un ripensamento per nome e per conto del figlio? Dopo non si può (e anche la Curia non gradisce). O meglio si può con un italico trucco escogitato da una mamma di Ravenna. La signora, non cattolica come il marito, ha dichiarato che si era improvvisamente convertita al buddismo. Detto fatto: il figlioletto di 9 anni è stato immediatamente escluso dalle lezioni di religione che non voleva più seguire. Possibile che occorra diventare buddisti per interrompere l’insegnamento della religione in corso d’opera? Per Sel una storia così (apparsa su Romagna-mamma.it) lede il diritto fondamentale di libertà garantito dalla Costituzione, e merita un’interrogazione al ministro Giannini (a firma Paglia, Giordano, Fratoianni). Intanto, grazie a Buddha, tutto a posto.

La Stampa 19.11.14
Il bluff del Teatro dell’Opera
Niente licenziamenti ma addio agli scioperi
di Sandro Cappelletto


È stato un grande bluff. Ma per bluffare così bene bisogna essere giocatori molto esperti. Il Teatro dell’Opera ritira il licenziamento dei 182 componenti dell’orchestra e del coro annunciato a ottobre; dopo nove estenuanti incontri, i sette sindacati firmano tutti insieme le sei pagine di un accordo dettagliato e innovativo.
All’Opera dunque scoppia la pace. I licenziamenti collettivi - un provvedimento senza precedenti nella storia dei nostri teatri d’opera e di difficile attuazione normativa - sarebbero scattati dall’1 gennaio, ma il tempo a disposizione era più breve: bisognava concludere prima del 7 dicembre, per evitare pericolosi cortocircuiti in occasione della prima della Scala. «È il segno di una grande assunzione di responsabilità da parte dei lavoratori e di tutte le sigle sindacali. L’accordo permette alla Fondazione di superare i gravi problemi economici e organizzativi attuali e getta le basi per una maggiore produttività», dice il sovrintendente Carlo Fuortes, che ha sempre tenuto il punto: o sottoscriviamo nuove regole, o il teatro affonda.
L’accordo consente un risparmio sul costo di orchestra e coro di tre milioni di euro; sospende il premio di produzione e lo lega in futuro al raggiungimento dell’equilibrio di bilancio, regola la disciplina degli straordinari, riduce indennità e retribuzioni aggiuntive, consente una maggiore flessibilità permettendo - finalmente! - di aumentare la produttività. Era questo il punto centrale: non tanto l’ammontare degli stipendi, ma la selva di regole che rendeva impossibile lavorare senza che scattassero aggravi di spesa. Parole pesanti sono quelle scritte a pagina 2 dell’accordo: «Nel rispetto del piano di risanamento approvato, anche gli esercizi 2015 e 2016 dovranno essere in pareggio... La presente intesa è finalizzata alla tutela dei livelli occupazionali e a garantire la stabilità economica di bilancio». Vince il teatro, vincono i lavoratori e magari vincerà anche il pubblico, spesso penalizzato da scioperi annunciati all’ultimo momento, proclamati da una minoranza.
Le Organizzazioni Sindacali, inoltre, «si impegnano a non ricorrere ad alcuna azione di conflittualità sui punti stabiliti dall’accordo». Fonti vicine alla Cgil sottolineano che «questo impegno, frutto di un lavoro di concertazione» è stato voluto dagli stessi lavoratori. Non sfuggirà, in tempi di forte contrapposizione tra la Cgil e il governo Renzi, il significato politico dell’intesa, che presenta aspetti innovativi per tutto il comparto dei cinquemila lavoratori della fondazioni lirico-sinfoniche. Recentemente, il ministro Franceschini ha dichiarato che «quattordici teatri d’opera in Italia sono troppi», senza specificare quale fosse il numero sostenibile. Questo accordo può aprire una strada nuova, che responsabilizza tutte le parti in gioco, facendo uscire i nostri teatri dalla condizione di perenni deficit e conflittualità che li governa da mezzo secolo. Ieri all’Opera, mentre il regista Denis Krief provava «Rusalka», che la settimana prossima inaugurerà la nuova stagione del teatro, si respirava un’aria di normalità. Incredibile.

Repubblica 19.11.14
Dopo la pace all’Opera di Roma sarebbe bello Muti sul podio
di Francesco Merlo


HANNO siglato l’accordo, ma la sirenetta Rusalka al posto dell’Aida di Verdi e di Muti rimane una ciofeca al posto del caffè. E va bene che il Patriota Riluttante, che ci commosse col Nabucco, è un testardo di Molfetta.
MAORAs olo lui potrebbe trasformare in un capolavoro questa pace ritrovata. Gaetano Salvemini, che era anche lui un grandissimo italiano di Molfetta, non riprese più la cittadinanza e, anche dopo il 25 aprile, rimase fedele all’America «mia nuova patria». Ma era fuggito dal fascismo e non da quattro suonatori di trombone sindacalese.
Il contratto che ha messo fine al tormentato conflitto tra l’Opera di Roma e la sua Orchestra sarà pure una bella novità civile, ma sicuramente non risarcisce l’Italia della fuga di Riccardo Muti che anzi rende ancora più bruciante. A che serve aver rimosso l’orrendo mobbing sindacale e avere smascherato la clientela e il comparaggio spacciati per cultura dei diritti se ora ci ritroviamo con un teatro di serie B, con gli abbonamenti in crisi e «con gli sponsor fuggiti» come aveva detto, nel momento più caldo, il sovrintendente Carlo Fuortes?
È vero che sull’Opera di Roma sono stati versati quintali di facile “senno di poi”, ma certo se era possibile mettersi d’accordo forse lo si poteva fare prima. «Ma prima quando?» ironizzava Enzo Iannacci in quella bella canzone che si intitola appunto “Se me lo dicevi prima”. Ecco: prima che la paura del licenziamento di massa riportasse la Cgil al suo ruolo di intelligenza collettiva. E prima che il sovrintendente di sinistra, il sindaco di sinistra e il ministro di sinistra gettassero, con un ricatto, solo sul coro e sull’orchestra tutti i guai delle tante dissennate gestioni.
Muti ha studiato in quel liceo “Leonardo da Vinci” di Molfetta che lo ha pure immortalato, unico vivo, nella lapide degli studenti illustri accanto al nodoso Gaetano con il quale dice di condividere «la ruvida onestà popolaresca » e al quale si ispira per l’amore patrio. Inutile dire che non è stato costretto, come il suo Salvemini, a rinunziare alla Patria di cui anzi rimane l’ambasciatore nel mondo. Dopo la morte di Abbado, Muti è da solo la Musica italiana. Ma in Italia si concede soltanto ai ragazzi della Luigi Cherubini (Piacenza e Ravenna) che, nell’estate del 2015, dirigerà a Salisburgo. Sarebbe dovuto andare con quell’Opera che rimane il suo posto naturale, e non solo perché in sei anni l’ha riportata sino a Salisburgo e a Tokyo, ma anche perché è Roma — l’Italia — ad avere bisogno di lui. A Roma Muti ha fatto del “Va’ Pensiero”, eseguito dai coristi della Cgil e della Fials in lacrime da sindrome di Stoccolma, la colonna sonora del web: «Non voglio — disse — che la cultura nostra sia bella e perduta». Ebbene, oggi non c’è “totoquirinale” che non inserisca il suo nome. E Pereira lo vorrebbe di nuovo alla Scala, da cui era fuggito nel 2005, perché Muti è un artista con il diavolo in corpo, ed è un uomo dal quale tutti si aspettano qualcosa che puntualmente non arriva. Ha detto: «Alcune persone mi hanno attribuito ambizioni che non avevo e quelle stesse persone mi hanno poi criticato quando quelle ambizioni non si sono realizzate». Sappiamo dunque che l’Indomabile non farà il gesto nobile di fissare una data di ritorno, magari in marzo per rispettare l’impegno di dirigere le “Nozze di Figaro”. Ma non è facile rassegnarsi anche a questo declino di Roma e dell’Italia.
È vero che il Maestro — come ogni Maestro — dovrebbe, prima di cominciare, stringere la mano al primo violino, quello che guidava gli assalti in camerino e gli agguati in assemblea e minacciava di sciopero sino alla mezzanotte della vigilia del debutto (“Manon Lescaut”); lo stesso che si ammalò, insieme a trenta colleghi, per evitare la tournée. Ma Muti sa che questo nuovo contratto non cambia solo il modo di fare sciopero. È cambiato il clima perché tutto cambia in politica, un po’ come la parola Patria che nessuno, tranne lui e pochi altri, pronunziavano: si preferiva Paese. E un po’ come l’inno di Mameli che nessuno cantava e che il 7 dicembre del 1999 persino Muti rifiutò di suonare alla Scala. Dieci anni dopo, il 7 febbraio del 2009, lo stesso Muti sarà fiero di inaugurare il San Carlo di Napoli finalmente restaurato con l’inno, anch’esso restaurato, che Benigni porterà a Sanremo nel 2011 a riprova che il vecchio Carlo Azeglio Ciampi ce l’ha fatta: oggi, caro Patriota Riluttante, quanto più ci costa e quanto più va male, tanto più all’Italia si vuol bene.

Repubblica 19.11.14
Svolta al Teatro dopo oltre un mese di tensioni. Siglate la moratoria sugli scioperi e più flessibilità. Azzerate le indennità. L’azienda aumenta la produttività
L’Opera si accorda
Stipendi autoridotti e licenziamenti ritirati
di Anna Bandettini


ROMA «UN accordo storico », dice il sovrintendente Carlo Fuortes. «Abbiamo salvato i lavoratori di tutti i teatri lirici italiani», dicono i sindacati. All’italiana hanno vinto tutti, ma quel che è certo è che il patto firmato ieri al Teatro dell’Opera di Roma segna una svolta: l’autoriduzione degli stipendi da parte dei lavoratori, la moratoria sugli scioperi, la maggiore flessibilità sono tutti punti che aprono nuovi scenari sul costo del lavoro e nelle relazioni sindacali, anche fuori dal mondo della lirica.
In sostanza l’accordo firmato ieri mattina all’una, dopo oltre un mese di tensione e trattative, dai delegati delle sette sigle sindacali (anche la ritrosissima Fials) e la dirigenza dell’Opera di Roma, sancisce che il teatro ritiri i 182 licenziamenti, l’intera orchestra e coro, ma i lavoratori rinunciano a parte dello stipendio, limitando le indennità, circa 200-300 euro netti al mese per ognuno. In pratica: viene ridotta l’indennità sinfonica, cioè il compenso per le esecuzioni concertistiche, con un risparmio totale di 250mila euro; altri 250mila si recuperano dall’indennità “Caracalla”: la maggiorazione economica per gli spettacoli all’aperto; gli straordinari verranno regolati arrivando a un taglio di 450mila euro, cui si aggiungono 800mila euro per il minor utilizzo degli “aggiunti” a tempo determinato grazie a una maggiore flessibilità: il martedì si lavora anche prima delle 18, cosa finora off limits per uno scellerato accordo, e gli orchestrali potranno suonare anche in ruoli diversi dal proprio. Ciliegina sulla torta: i sindacati si impegnano «a non ricorrere ad alcuna azione di conflittualità sui punti stabiliti dall’accordo» e a costituire entro febbraio una rappresentanza sindacale unitaria.
Il risparmio totale è di quasi 3milioni di euro, cifra che assicura il futuro dell’Opera («per cui ci auguriamo che il ministro scelga manager competenti», chiosa polemicamente Silvano Conti coordinatore della Cgil). La sovrintendenza si impegna a regole nuove nell’organizzazione: produrre di più (138 recite nel 2014-2015, più 28%, e per l’anno prossimo più 10%) e in modo più intelligente con coproduzioni, repertorio, pianificazione prove... per garantire più introiti al botteghino.
«L’accordo è il segno di una grande assunzione di responsabilità di lavoratori e teatro» dice Carlo Fuortes, il sovrintendente che ha governato questa difficile fase e che il 24 presenterà i risultati al Cda. «Sì, un accordo storico che indica una strada nuova per i teatri lirici», ha commentato Salvo Nastasi direttore generale del Mibact, il ministero della Cultura. Roma potrebbe infatti diventare un “modello”: qualcosa del genere ha fatto giorni fa il Massimo di Palermo, ma in crisi sono il Carlo Felice di Genova, il San Carlo di Napoli, il Maggio di Firenze, il Comunale di Bologna. Meno entusiasti i musicisti: «Meglio feriti che morti», dice un artista del coro, «perderò circa 2500 euro l’anno». «Sì, c’è amarezza anche perché — gli fa eco Francesco Melis sindacalista della Uil — questo accordo è peggiorativo rispetto a quello di luglio. Se non ci fossero stati gli scioperi di alcune sigle... Allora il teatro risparmiava con i pensionamenti e guadagnava con la presenza di Muti».
L’addio del maestro è un fronte amaro ancora aperto. «Ora che la situazione si è tranquillizzata, auspico che possa tornare », dice Fuortes, e così il sindaco Marino, interpretando il sentimento della città. «Ma con noi il feeling si è rotto», lamenta un musicista. «L’importante è aver messo il teatro in sicurezza. Muti ha la carica di direttore onorario a vita — dice Melis — Se vorrà tornare siamo qui».

Corriere 19.11.14
Conservatori off limits per le star della musica
Le nuove regole per le graduatorie dei docenti fanno scomparire i meriti artistici e professionali
di Valentina Avon

qui

La Stampa 19.11.14
800mila pagine degli archivi degli ospedali psichiatrici britannici online
La Wellcome Library di Londra digitalizzerà tutto il materiale, un piccolo tesoro per i ricercatori
di Nadia Ferrigo

qui

Corriere 19.11.14
Spagna, la sinistra messa all’angolo da «Podemos»

Podemos, il movimento populista spagnolo, costringe il Partito socialista a pensare a nuove strategie. L’analisi politica di El País, diretto da Javier Moreno, sottolinea come il nuovo soggetto politico possa diventare uno tsunami per la sinistra. Un’onda che potrebbe portare a una mutazione genetica di tutta l’area progressista cambiando la tradizionale contrapposizione tra sinistra e destra in quella tra popolo e caste. Un rivolgimento che avviene proprio quando il Partito popolare, al governo, mostra segnali di erosione e crisi al suo interno.

La Stampa 19.11.14
Palestina, ok della Spagna al riconoscimento
Il Parlamento approva all’unanimità una risoluzione:

«L’unica soluzione possibile per il conflitto è la coesistenza di due Stati»
qui

La Stampa 19.11.14
Yehoshua: “Riparta il dialogo. Il conflitto da nazionale non deve diventare religioso”
Lo scrittore: convivenza possibile, il re di Giordania ci aiuti
intervista di Maurizio Molinari


«Non bisogna arrendersi alle violenze, parlare di coesistenza fra arabi ed ebrei in questa terra è ancora possibile e a rilanciarla potrebbe essere un gesto di re Abdallah di Giordania». Ad affermarlo è A. B. Yehoshua, lo scrittore israeliano strenuo difensore della soluzione dei due Stati.
Perché guarda verso Amman? 
«Perché la catena di violenze fra israeliani e palestinesi è in corso da giugno e non accenna a rallentare. Il rapimento dei tre ragazzi ebrei, il conflitto a Gaza, gli attacchi seguiti a Gerusalemme e Tel Aviv, la battaglia sui luoghi santi del Monte del Tempio. La genesi è nell’assenza di un dialogo fra Israele e palestinesi da quando, la scorsa primavera, si interruppero i negoziati promossi dagli Usa fra Netanyahu ed Abu Mazen. Abbiamo avuto anche la provocazione di quei deputati israeliani dell’estrema destra che sono saliti sul Monte del Tempio violando il divieto ebraico di farlo. Il dialogo deve ricominciare e affinché ciò avvenga non credo vi siano alternative: dobbiamo guardare alla Giordania. È uno Stato arabo con cui Israele parla da 65 anni ed è anche l’unico Stato arabo che in questo momento sembra voler davvero ascoltare i palestinesi che non hanno più interlocutori in Siria e hanno rapporti freddi con l’Egitto».
Cosa dovrebbe fare re Abdallah II? 
«Netanyahu dovrebbe invitarlo a mandare a Gerusalemme una delegazione del regno di Giordania per evidenziare che sono loro i garanti dello status quo dei luoghi santi nella Città Vecchia. D’altra parte questo status quo fu voluto da Moshe Dayan dopo la guerra dei Sei Giorni, Israele e palestinesi riconoscono ad Amman tale ruolo ed è per questo che Netanyahu e Abu Mazen sono andati di recente in Giordania a parlare con il re per disinnescare le tensioni su Gerusalemme. Se una delegazione ufficiale giordana arrivasse nella Città Vecchia per sottolineare il ruolo di garante potrebbe avere subito effetti positivi, riaprendo un orizzonte di coesistenza».  
Procedendo in quale direzione? 
«Bisogna impedire che il conflitto israelo-palestinese da nazionale diventi religioso. In passato Israele ha subito attentati terroristici sanguinosi, tremendi, più di quello compiuto ad Har Nof, ma è la prima volta che dei singoli palestinesi entrano sparando dentro una nostra sinagoga. In un’azione personale di terrore. Bisogna smantellare le sovrastrutture della mitologia religiosa, che da quanto avviene in Siria ed Iraq all’attacco Har Nof, costituiscono la più temibile minaccia alla convivenza fra persone di fede diversa».
Cosa prevede per l’immediato futuro? 
«La mia speranza è che il dialogo fra Re Abdallah II, Abu Mazen e Netanyahu inizi e porti ai due Stati oppure anche a una confederazione fra tre Stati. È l’unica possibilità che abbiamo di andare avanti. Il mio timore invece è di un contrattacco da parte di fanatici israeliani, capaci di entrare in una moschea e fare fuoco come fece Baruch Goldstein a Hebron nel 1994».

Repubblica 19.11.14
Mustafà Barghouti
«Questa violenza una trappola per i palestinesi»
«Sarebbeun errore catastrofico se ci lasciassimo trascinare nella guerra religiosa voluta da Netanyahu. È quel che lui spera»
intervista di Alix Van Buren


«SAREBBE un errore catastrofico se ci lasciassimo trascinare nella guerra religiosa voluta da Netanyahu. È quel che lui spera». Mustafa Barghouti, leader del movimento laico non violento e dell’Iniziativa nazionale palestinese, la “terza via democratica” alternativa a Fatah e Hamas, denuncia «la trappola» in cui cade chi «risponde con la violenza alle provocazioni sulla Spianata delle Moschee». S’aspettava un attacco a un luogo di culto dopo l’escalation nei singoli atti di violenza fra israeliani e palestinesi?
«Speravo che non accadesse. Infatti, le provocazioni incendiarie del governo Netanyahu nei luoghi santi di Gerusalemme hanno questo obiettivo: spostare l’attenzione internazionale dall’espansione delle colonie che strangolano la città, e dal rifiuto di ogni soluzione politica in base alla formula dei due Stati. Però, l’attentato di ieri è segno del fallimento della comunità internazionale».
Vale a dire?
«La Ue e l’America condannano a parole le azioni di Netanyahu, però fanno niente per fermarlo. Basterebbero sanzioni punitive a fargli invertire la rotta. Io sono un medico e perciò studio le cause del male: la violenza, che condanno, germina e prolifera sull’occupazione di cui non si vede la fine, sul sistema di apartheid. Quest’anno Israele ha ucciso 2260 palestinesi di cui 600 bambini. Kerry condanna l’attentato e fa bene, ma mi sarebbe piaciuto che avesse speso una parola anche per quei bambini».
L’escalation proseguirà, secondo lei?
«La soluzione è soltanto politica ed è nell’interesse sia degli israeliani sia dei palestinesi. Senza sicurezza per i palestinesi, non ne avranno nemmeno gli israeliani».

Repubblica 19.11.14
David Grossman
Parla lo scrittore israeliano “È un salto indietro nel tempo, siamo sfociati nel fondamentalismo”
“La contrapposizione politica si è trasformata in una guerra di religione primordiale” “Innocenti uccisi con l’accetta: l’estremismo barbaro dell’Is è arrivato anche qui”
“Siamo sull’orlo del precipizio. Ormai il conflitto è diventato tribale”
intervista di Fabio Scuto


GERUSALEMME «STIAMO precipitando nella dimensione del fanatismo e dell’irrazionalità, siamo ormai sull’orlo dell’abisso». Il dolore è palpabile nelle parole di David Grossman, lo scrittore israeliano voce di una generazione che al sogno della pace in Terrasanta non ha mai smesso credere, oggi non più riesce vedere quella speranza. «Il conflitto che stiamo vivendo ha fatto un salto indietro nel tempo, è sempre più brutale e più selvaggio. Le stesse armi usate per la strage, coltelli e accette, testimoniano il ritorno a una guerra tribale».
Mai finora il terrore sanguinario aveva passato le porte sacre di una sinagoga. Una strage che lascia sgomenti...
«Un profondo dolore e rabbia si mescolano per l’assassinio di persone innocenti, nel momento della preghiera del mattino, colpiti a casaccio, alla cieca, solo perché erano israeliani ed ebrei. Ma sento anche una grande frustrazione nel vedere, giorno dopo giorno, nuove vittime dalle due parti. Uccisi, feriti, investiti o rapiti in questo circolo vizioso di violenza e di odio, che coinvolge nella sua spirale sempre più gente e che si sta trasformando da conflitto politico, che forse ha ancora una qualche piccola possibilità di venir risolto, in conflitto religioso, fondamentalista e di conseguenza irrazionale e primordiale. Conflitti di questo tipo, per la loro stessa natura, continuano a lungo e sono di difficilissima soluzione. Nel corso degli anni varie persone ed organizzazioni, sia israeliane che palestinesi, hanno tentato in modo quasi disperato di arrivare ad una soluzione del conflitto, mentre era ancora nella sua fase politica: l’idea che stava dietro questo sforzo immane era appunto che non si poteva consentire che sfociasse nell’irrazionalità e nel fondamentalismo ».
La Città Santa per le tre religioni è il simbolo di questa tempesta?
«Ciò che oggi vediamo a Gerusalemme, giorno per giorno e quasi ora per ora, è un pericolosissimo precipitare nella dimensione del fanatismo e dell’irrazionalità. Sarà quindi molto più difficile adesso che in precedenza cercare una soluzione del conflitto e forse ciò dovrebbe essere il motivo e la spinta per i leader dei due popoli di agire subito e con la massima potenza, iniziando un processo di dialogo fra loro, invece di insultarsi e incolparsi a vicenda, incitando ancora di più all’odio».
C’è il pericolo di un contagio con le altre crisi della regione?
«Certo, e si vede anche come l’estremismo barbaro venuto dall’Is, che ha introdotto dei modi di operare del tipo di quello di cui oggi siamo stati testimoni — persone che vengono uccise a colpi di accetta, in modo davvero bestiale — sta infiltrandosi nel conflitto israelo-palestinese. Era quasi possibile prevedere che sarebbe successo, poiché la nostra è una situazione così irrisolta, così carica di emozioni, che quando si concretizza un determinato modus operandi nelle nostre immediate vicinanze, i fanatici locali lo adottano immediatamente. Posso quindi dirle che provo la stessa repulsione e lo stesso sgomento che provai 20 anni fa, quando nel febbraio del 1994, Baruch Goldstein assassinò a Hebron 29 fedeli musulmani nella moschea della Tomba dei patriarchi».
Oltre alla evidente responsabilità dei due attentatori, lei ritiene che ci siano anche responsabilità politiche nell’accaduto?
«Sì, ritengo che una grande responsabilità di questi assassinii, da una parte e dall’altra, pesi sulle spalle di coloro che non hanno fatto praticamente nulla per cambiare la situazione, o, nel migliore dei casi, hanno fatto molto poco: coloro che parlano solo e soltanto con il linguaggio della forza, coloro che non fanno altro che far crescere la piena dell’odio fra i due popoli, coloro che, in definitiva, disperano a priori e portano alla disperazione il proprio popolo, negando ogni possibilità di arrivare ad un accordo. Costoro condannano i loro compatrioti ad azioni dettate dalla disperazione e dall’odio. Né Abu Mazen né Netanyahu sono responsabili della catena di assassini degli ultimi tempi e certamente nessuno dei due li ha voluti, ma la loro inazione e la loro mancanza di sforzi porta a questa situazione. Il fatto stesso che già da molti mesi, per non parlare degli ultimi 47 anni, non sono stati fatti seri tentativi di risoluzione della situazione, porta ad una escalation della stessa».
È l’immobilismo il primo nemico per la soluzione della crisi israelo-palestinese?
«Sì, invece di andare avanti, di cercare nuove vie di dialogo, di rimuovere ogni ostacolo per raggiungere punti di accordo possibili e di questi ce ne sono parecchi, vediamo specie in questi giorni, come il conflitto in cui ci troviamo precipita indietro nel tempo, diventa sempre più brutale, sempre più selvaggio. Le stesse armi usate, coltelli e accette, testimoniano il ritorno ad una guerra tribale. I leader dei due popoli, quando ancora era possibile evitare tutto ciò, non hanno fatto nulla. Anzi hanno commesso ogni errore possibile, usato ogni scusa possibile per non parlare e per non arrivare ad un compromesso. E perciò temo che ora, tutti noi dovremo affrontare un periodo molto difficile».
È in arrivo una Terza Intifada?
«Da persona che è nata qui e vive qui già da molti anni, conosco molto bene i meccanismi della violenza, come sia facile scatenarla e quanto sia difficile quietarla. La tradizione ebraica, come ha ripetuto il rabbino capo di Israele, vieta agli ebrei l’ascesa al Monte del Tempio, dove oggi sorgono le Moschee. Nel rispetto di questa tradizione, che non è una legge dello Stato, ma un precetto religioso accettato dagli ebrei di ogni generazione sin dalla distruzione del Tempio nel 70 d.C., si è venuto a creare uno status quo che è stato rispettato anche dai governi dello Stato d’Israele. Ariel Sharon, con la sua “passeggiata” provocatoria nel 2000, ha scatenato la seconda Intifada. Oggi vediamo che nuovamente esponenti politici di destra salire sulla Spianata, nel preciso intento di creare una provocazione. Si tratta di un atteggiamento bellicoso, irresponsabile e pericoloso, che può soltanto aggravare una situazione già di per sé esplosiva e portarci sull’orlo del precipizio».
Dovremmo dialogare subito e con forza, e invece sarà tutto più difficile

Repubblica  19.11.14
La strage nel tempio
di Bernardo Valli


I MOMENTI peggiori del conflitto tra israeliani e palestinesi sono quelli in cui l’impronta nazionale, dunque politica, diventa religiosa. È quel che è accaduto ieri a Gerusalemme, dove quattro rabbini sono stati uccisi da due giovani palestinesi.
E QUESTO è avvenuto, per la prima volta, in una sinagoga di Gerusalemme. Gli autori e le vittime (avvolte nel tallit, lo scialle frangiato, e con i filatteri, gli astucci quadrati contenenti quattro passaggi biblici, appesi alle braccia e alla testa, e cioè con i paramenti della preghiera mattutina) per il luogo e il movente del massacro, erano dunque al momento musulmani ed ebrei. Molto più che palestinesi e israeliani. È come se in quei minuti il sanguinoso dramma di una terra contesa nella valle del Giordano fosse stato investito dalla tempesta di fanatismo abbattutasi sul Medio Oriente. Là, tra il Tigri e l’Eufrate, in Siria e in Iraq, cadono le teste mozzate dai seguaci di un sanguinario e abusivo califfo. E quasi in simultanea nell’angolo di mondo considerato santo dai tre monoteismi, dove non riescono a convivere Israele e Palestina, diventa micidiale un odio vissuto come una fede. La sacralità, la dimensione spirituale, si materializza nei luoghi contesi, confondendo politica e religione. È una tragedia che ci ferisce. Che ci offende.
Ci sono state moschee demolite dai coloni israeliani e dai soldati e dagli aerei di Tsahal; c’è stato il massacro dei visitatori palestinesi nella Tomba di Abramo, a Hebron; ci sono stati gesti di sfida, di provocazione, sulla Spianata delle moschee, sacra ai musulmani, da parte di soldatacci come il generale Sharon. In quasi mezzo secolo tante offese e violenze sono state inflitte. Le stesse restrizioni imposte per accedere alle preghiere del venerdì santo alla moschea di Al Aqsa e a quella di Omar sono state frustranti, offensive. Ma non c’è mai stata una reazione tanto mirata.
Le ventate religiose, mosse da un sinistro misticismo, non sono certo nuove nel conflitto israelo-palestinese. Fino ai primi anni Settanta il confronto, da entrambe le parti, era vissuto attraverso un prisma politicamente laico e i riferimenti alla religione erano poco sollecitati. La guerra del ’67 (dei Sei giorni) ha accresciuto il peso del sionismo religioso fino allora pragmatico e all’improvviso, di fronte alle terre conquistate, lanciato in un fondamentalismo messianico che imponeva il dovere irrevocabile di sviluppare la presenza ebraica su tutta la Terra di Israele. La destra politica, pur non condividendo questa ideologia teologica, le ha affiancato un nazionalismo integrale, che ha portato alla moltiplicazione delle colonie nei territori occupati. Un’usurpazione continua. Molti dirigenti palestinesi hanno detto nelle ultime ore che la strage dei rabbini era la conseguenza di decenni di occupazione e, incoscienti, hanno esultato a Gaza e a Ramallah. Dalle viscere della Terra Santa emerge l’odio religioso, promosso da un dio immaginario, creato ad hoc.
Un dinamismo religioso abbastanza simile si è sviluppato in campo palestinese. Fondando Hamas nel 1987, ai tempi della prima Intifada, si è impiantato solidamente a Gaza un islamismo fino allora contenuto dai movimenti laici come Al Fatah, o addirittura marxisti come il Fronte popolare di George Habbache. Per eliminare questi ultimi gli israeliani hanno appoggiato allora Hamas. Il quale usufruiva dell’aiuto dei Fratelli musulmani, di cui era un affiliato. La scelta israeliana non fu indovinata, anche se portò alla scissione della Palestina. Da un lato Ramallah, capitale del laico Olp, dall’altro Gaza, dov’è annidata Hamas, incalzata dalla sua ala militare intransigente e dagli estremisti della concorrente Jihad islamica. Così come Netanyahu, in Israele, è incalzato dal più intransigente Bennet, alle prossime, imminenti elezioni.
Ieri a Gerusalemme è esploso, dopo tanti tragici intermezzi, il fenomeno religioso. A memoria d’uomo non si ricorda di un altro massacro in una sinagoga. Non si ricorda di altri rabbini trucidati, mentre pregavano. Ma non è soltanto il luogo a ricordare il carattere religioso della strage. C’è anche il movente. I due cugini assassini, uccisi dai poliziotti dopo che loro avevano ucciso i rabbini in preghiera, consideravano l’azione a Har Nof , uno dei più rispettati quartieri ortodossi di Gerusalemme, come una risposta alle dichiarazioni di Benjamin Netanyahu circa le nuove regole da adottare sulla Spianata delle Moschee. Sebbene il primo ministro avesse in seguito promesso che lo statuto del luogo santo musulmano non avrebbe subito modifiche, e cioé che gli ebrei non avrebbero potuto recitarvi le loro preghiere come era apparso in un primo momento, i due autori della strage avevano considerato una seria minaccia i propositi di Netanyahu. Così sostengono i loro amici cercando di spiegare il massacro di Har Nof.
È cominciata la terza Intifada, un’altra insurrezione? Questa volta con uno spiccato carattere religioso, e soprattutto affidata agli individui, non inquadrati dai movimenti estremisti ma spinti dalla collera collettiva, abilmente sobillata? Har Nof è forse l’inizio. Gli automobilisti palestinesi che investono i passanti israeliani; il palestinese anonimo che accoltella un soldato israeliano a Tel Aviv. Al tempo stesso i coloni nei territori occupati che fanno esplodere una moschea. Questi episodi si moltiplicano e si concludono con morti e feriti. Si annuncia una protesta diffusa e imprevedibile e da parte degli israeliani una reazione difficile da disciplinare. Il governo pensa di concedere numerosi porti d’arma per consentire ai cittadini di difendersi. Si annuncia qualcosa di simile a un corpo a corpo tra due popolazioni.

La Stampa 19.11.14
Una ferita antica che chiama tutti
di Franco Venturini


Servono il terrore e l’orrore per ricordare al mondo che la più antica delle sue ferite continua a seminare odio e a spargere sangue. Mannaie da macellaio, coltelli da cucina e una pistola: è con questi strumenti di morte che ieri, all’ora della preghiera del mattino, due cugini palestinesi provenienti da Gerusalemme Est hanno attaccato una sinagoga, ucciso quattro rabbini e un poliziotto e ferito altri sette israeliani primadi essere abbattuti. Erano anni che a Gerusalemme non accadeva un episodio tanto grave, ma per misurare la sua vera portata occorre soffermarsi sui dettagli. Obiettivo una sinagoga, all’ora della preghiera. Assassinati quattro rabbini, macchiando di sangue le loro vesti rituali. E a pretesto della strage la presunta (e smentita) intenzione israeliana di cambiare le regole per pregare sulla Spianata delle Moschee. Come non vedere nello scontro religioso la motivazione principale di quanto è accaduto? E soprattutto, come non individuare nell’ombra in espansione dell’Isis e del suo fanatismo religioso la mano sciagurata che ha guidato i due cugini palestinesi, che li ha incitati a colpire in quella sinagoga gremita?
È evidente che tra ebrei e musulmani il contrasto religioso è sempre esistito e si è spesso confuso con guerre aventi altre motivazioni, territoriali ed economiche. La recente guerra di Gaza e il persistente rifiuto di Hamas di riconoscere Israele sono un triste esempio di queste sovrapposizioni. Ma lo scempio della sinagoga disegna un diverso scenario, assai più pericoloso per Israele.
Da settembre a oggi Gerusalemme ha visto moltiplicarsi i «piccoli» atti terroristici, gli investimenti con le automobili, gli attacchi per strada con i coltelli. Qualcuno ha parlato di una imminente intifada alimentata dai residenti palestinesi di Gerusalemme Est che sono muniti di carte d’identità israeliane e hanno libertà di movimento in tutto il Paese. Una intifada rappresenterebbe certo un pericolo per Israele, ma non siamo piuttosto al cospetto dell’opera di «lupi solitari» che hanno ben studiato la felpata espansione dell’Isis in Libia, in Egitto, nello Yemen e chi sa in quanti altri fertili angoli del mondo (gioventù occidentale compresa)? La strage della sinagoga è stata rivendicata dalle poco note Brigate Abu Ali Mustafa, adottate a loro volta dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina che è una organizzazione debole con una base non si sa quanto autonoma a Gaza. In Cisgiordania Mahmoud Abbas ha condannato l’attentato. Hamas non ha rivendicato la strage ma ha detto di «comprenderla» e in qualche caso l’ha elogiata, mentre manifestazioni di gioia e spari festanti risuonavano a Gaza. Netanyahu ha promesso una dura risposta e dovrà darla, ma si ha l’impressione che essa difficilmente colpirà la nuova, temuta minaccia: quella di un terrorismo diffuso, privo di vere e credibili etichette.
Del resto anche Israele attraversa una fase di confusione. Mentre Netanyahu smentiva, la minoranza «religiosa» reclamava effettivamente un cambio delle regole per pregare sulla Spianata delle Moschee. Il primo ministro (che da oggi deve tenere un occhio anche sulle trattative nucleari con l’Iran a Vienna) ha ripetutamente ceduto alle pressioni del suo ministro Naftali Bennet annunciando nuovi insediamenti anche a Gerusalemme Est, e irritando americani ed europei. L’eroe dei nazionalisti Naftali Bennet ha avuto un ruolo chiave nella bocciatura delle proposte americane portate da John Kerry, sostiene l’annessione del 60% della Cisgiordania, e potrebbe anche battere Netanyahu alle prossime elezioni se continuerà a conquistare nuovi adepti gridando che il mondo è cambiato, che la regione è cambiata e che dunque bisogna pensare a soluzioni nuove.
In questo, e solo in questo, ci sentiamo di dargli ragione (e qui l’Isis torna tra i protagonisti). Ha poco senso insistere sulla «soluzione dei due Stati» a cui non credono né Abbas né gli israeliani, per mancanza delle condizioni minime. Americani ed europei, invece, lo fanno per assenza di alternative. Ma forse è proprio su una alternativa che bisognerebbe concentrarsi, prima che i «lupi solitari» diventino tanti e che Naftali Bennet si impadronisca del malessere della società israeliana.

Il Sole 19.11.14
Se la città santa è campo di guerra
di Ugo Tramballi

Già il Codice di Hammurabi del secondo millennio avanti Cristo aveva dato un nome a quello che sta accadendo oggi a Gerusalemme: legge del taglione. Cioè occhio per occhio. La strage nella sinagoga della parte occidentale, ebraica, della città è solo l'ultimo episodio e il più sanguinoso in ordine di tempo, di uno scontro che gli esperti sono incerti se chiamare o no terza Intifada.
Comunque la si definisca, è un'escalation estremamente pericolosa di violenza nazionalistica fra israeliani e palestinesi, etnica fra ebrei israeliani e arabi palestinesi, religiosa fra ebrei e musulmani: nella sua potenzialità distruttiva e per le conseguenze possibili, perfino peggiore della lunga guerra estiva nella striscia di Gaza. Soprattutto perché il campo di battaglia è Gerusalemme, considerata capitale e città santa per troppi popoli e troppe fedi.
E ancor più perché, prima di essere uno scontro fra Stato d'Israele e Autorità Palestinese o fra Israele e Hamas, è un conflitto combattuto dalla gente. Prima del soldato e del miliziano, soggetti tradizionali dei conflitti, il nemico è il passante, l'automobilista, la gente del quartiere accanto, gli studenti che escono dalle scuole nelle quali si demonizza la Storia dell'altro.
I prodromi dell'aggressione terroristica di ieri alla sinagoga si perdono nella memoria della breve cronaca dell'ultimo mese: il rabbino che senza consultarsi con le autorità era provocatoriamente andato fra le moschee della spianata, nella città vecchia; il palestinese salito sulla sua auto che ha investito cittadini israeliani a una fermata del tram; il poliziotto israeliano che col fucile di precisione spara senza motivo in testa al ragazzino palestinese; il padre di famiglia palestinese che accoltella una ragazza israeliana.
Lunedì, il giorno prima del massacro alla sinagoga, nell'autorimessa dei mezzi pubblici di Gerusalemme Ovest, ebraica, un autista palestinese è stato trovato impiccato sul suo autobus. Gli israeliani dicono suicidio, gli arabi dicono linciaggio. Non è un tentativo di giustificare l'aggressione di ieri. È solo un'aggiunta alla cronologia che sta portando Gerusalemme alla catastrofe. Il giorno prima Hamas invita gli arabi di Gerusalemme a vendicarsi, e il giorno dopo la ritorsione accade. Forse dietro gli attentati esistono una direzione occulta e una logistica. Ma non sono più così necessarie per accendere questi robot del terrorismo fai da te, o terrorismo della porta accanto: le definizioni giornalisticamente "sexy" non mancano.
Non c'è nulla che li possa fermare a meno che non si presìdi ogni angolo di Gerusalemme; e lo Shin Bet, i servizi segreti interni, non mettano un agente in ogni casa palestinese e in ogni colonia ebraica. Per quanto si odino e vivano divisi, in un territorio così piccolo israeliani e palestinesi comunque condividono una buona parte della loro quotidianità. Per quanti muri si elevino e leggi sullo "Stato-Nazione degli Ebrei" si vogliano fare per snaturare l'essenza democratica del Paese, il 20% della popolazione d'Israele è composto da arabi: arabi, cioè palestinesi d'Israele, in aggiunta ai palestinesi dei Territori occupati.
Il governo israeliano che annuncia nuove colonie nella parte araba della città e Hamas che esorta gli arabi di Gerusalemme alla vendetta permanente, sono solo i facili istigatori della vicenda. È penoso leggere i commenti dei leader politici israeliani e palestinesi, di destra e di sinistra, laici e religiosi: nessuno che tenti di ergersi al di sopra della mischia, preoccupato di compiacere le viscere dei loro elettori.
Pensate al comportamento di Hamas che continua a buttare vite palestinesi nel calderone della sua guerra senza possibilità di vittoria; o a quello di Israele che ogni volta rade al suolo le case delle famiglie dei terroristi: sa che non serve a nulla, che rende solo l'odio più forte, ma continua a farlo ugualmente, per spirito di faida e povertà di idee più originali del consueto uso della forza.
Come ha detto una volta a questo giornale il filosofo israeliano Avishai Margalit, che qualche anno fa è andato a insegnare a Princeton e da lì non è più tornato a Gerusalemme, in questa storia la politica è scomparsa da tempo. C'è solo lo scontro etnico e religioso, la lotta fra due tribù nazionali che a oltre cento anni dal loro manifestarsi non hanno ancora trovato la soluzione per una modica convivenza.

Repubblica 19.11.14
“Mostra ostile a Israele” È polemica a Torino
L’esposizione sui palestinesi dell’Unrwa al Museo della Resistenza spacca la Comunità
di Vera Schiavazzi


TORINO POLEMICHE, proteste, retromarce e no comment imbarazzati. La causa è una mostra sul “Lungo viaggio della popolazione palestinese rifugiata”, ospitata al Museo della Resistenza di Torino. La Comunità ebraica della città già ieri ha espresso la sua più “ferma condanna” per l’iniziativa e per la sua “propaganda politica ostile a Israele” e ora sta scrivendo una lettera nella quale potrebbe chiedere la chiusura della momasta stra, patrocinata tra l’altro anche dalla Regione e dal Comune di Torino che non rilasciano dichiarazioni. La mostra è curata dall’Unrwa, l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa esclusivamente dei rifugiati palestinesi. Non appena aperta, conteneva anche un errore grave e offensivo: una didascalia che parlando dei massacri di Sabra e Shatila del 1982 ne attribuiva la paternità all’esercito israeliano, quando invece a compierlo furono le Falangi maronite. L’errore è stato corretto, ma l’imbarazzo resta. Con tutte le sue immagini discutibili, come il video che a flusso continuo proietta il muro tra Israele e Cisgiordania nelle più grandi capitali occidentali, da Parigi a Ottawa, spiegando che «il muro danneggia gli ecosistemi, interrompe la continuità territoriale, distrugge l’economia», o le foto dei carri armati israeliani impegnati nella «demolizione di abitazioni », senza specificare se fossero o meno case di terroristi. Beppe Segre, presidente della Comunità ebraica e autore del primo comunicato di ieri, ammette che nei mesi scorsi il presidente del museo Pietro Marcenaro gli aveva parlato della mostra, assicurandogli che la massima attenzione sarebbe stata prestata ai suoi contenuti. E aggiunge di aver pensato «che ci si poteva fidare di quelle parole ». Ora quella “fiducia” è diventata argomento di scontro nella stessa Comunità ebraica dove si discute sui contenuti da dare alla lettera. La Comunità è tra i soci del Museo della Resistenza e Marcenaro ora precisa che «sono e continueranno a essere a casa loro» aggiungendo di essere ben consapevole che sull’Unrwa, oggi diretta in Italia da Tana de Zulueta, possano esistere opinioni diverse, come del resto sull’intera questione israelo-palestinese, ma che «non ci sarebbe stato alcun motivo per rifiutare una mostra che era già stata esposta a Roma». Ma a Roma l’esposizione era ri- confinata in un centro periferico e nessuno se ne era lamentato. Ora invece la questione è esplosa in una città che pure ha molti vincoli di amicizia con Israele (gemellata con Haifa, ha proprio in questi giorni i rettori di Università e Politecnico laggiù, per trattare accordi di ricerca). Ma anche una città che aveva scelto Israele come ospite d’onore del Salone del libro resistendo a polemiche e boicottaggi. Il 2 dicembre, un incontro sulla mostra avrà tra i relatori Claudio Vercelli, indicato dalla Comunità ebraica. Nel frattempo però la stessa Comunità potrebbe aver chiesto e ottenuto di chiudere l’esposizione.

La Stampa 19.11.14
Quei 50 giorni di Hong Kong tra studenti, mafia e illusioni
Iniziati gli sgomberi in alcune zone, la rivolta sembra segnare il passo
Un membro delle Triadi: ci offrivano solo 80 euro per creare il caos
di Federico Varese


Sono passati cinquanta giorni da quando, il 28 settembre, un gruppo di studenti ha occupato alcune strade del centro di Hong Kong. Il movimento degli Ombrelli mostra adesso segni di smarrimento. Mentre la questione ucraina è stata al centro dell’agenda dell’ultimo G20, nessuno vuole irritare il presidente della Cina Xi Jinping con domande scomode su Hong Kong. I ragazzi e le ragazze di questa città affrontano da quasi due mesi la seconda potenza mondiale, le botte della polizia e le incursioni della mafia locale con la sola forza delle loro convinzioni.
Ma possono essere fieri di se stessi: sono l’ultimo anello di una catena che inizia con la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti e comprende tutti coloro che hanno combattuto per un principio semplice e universale, la democrazia rappresentativa.
Nonviolenza
A differenza di altri protagonisti di una storia benemerita iniziata tre secoli fa, gli studenti di Hong Kong hanno adottato il metodo della nonviolenza e tra i loro leader vi sono donne coraggiose.
Yvonne Leung è la presidente dell’associazione degli studenti dell’Università di Hong Kong, dove si sta laureando in giurisprudenza, e ha partecipato agli inconcludenti incontri col governo. Porta i capelli lunghi sciolti e un paio di occhiali neri che inquadrano uno sguardo insieme attento e timido. Indossa jeans cortissimi e una maglietta nera con stampato il nastro giallo simbolo del movimento. La incontro a Mong Kok, uno dei tre punti della città occupati dalle proteste. Mong Kok è un quartiere molto diverso dall’elegante zona di Admiralty, di fronte agli uffici del governo, dove è accampato il grosso degli studenti. Qui gli occupanti non arrivano al centinaio, guardati a vista da decine di poliziotti. Le tende di notte non sono più di venti. A Mong Kok la mafia locale gestisce centinaia di bordelli e i mercati degli ambulanti. Controlla anche i minibus privati che, per pochi dollari, scorrazzano tra la penisola di Kowloon e l’isola di Hong Kong.
La battaglia di Mong Kok
Una delle ultime iniziative dell’amministrazione inglese è stata quella di riqualificare alcune strade della zona, promuovendo la costruzione di grandi magazzini e hotel di lusso. Ma le principali attività criminali si sono solo spostate di qualche centinaio di metri e le Triadi continuano a riscuotere il pizzo sulla maggior parte delle attività economiche.
Appena può, Yvonne viene a Mong Kok e si siede nella tenda che serve come quartiere generale della Federazione degli Studenti. «Ero proprio su questo incrocio anche il 3 ottobre, quando centinaia di energumeni coperti di tatuaggi ci hanno attaccato». Quel giorno la polizia lasciò che studenti e cittadini venissero malmenati da bande organizzate. Molte ragazze erano nella prima fila del cordone che proteggeva lo spazio occupato e sono state aggredite, palpeggiate e picchiate. «Non abbiamo reagito con altra violenza, siamo rimaste a braccia conserte per proteggere il seno e abbiamo cercato di sorridere, e di parlare». La battaglia di Mon Kok è durata diverse ore, senza che nessuno degli aggressori venisse fermato. «In quei momenti ho visto cose terribili e ho avuto paura».
Pochi giorni dopo l’incontro con Yvonne, un esponente delle Triadi di Mong Kok ha accettato di farsi intervistare. Il mio contatto passa attraverso l’industria cinematografica, che notoriamente ha legami con la criminalità organizzata. Tak - questo il nome di fantasia - riscuote il pizzo nella zona. Ci tiene a far sapere che non è affatto contrario al movimento per la democrazia, anzi spesso si ferma di notte nelle aree occupate per dare una mano agli studenti. «Nelle Triadi ci sono persone di tutti i tipi, alcuni hanno una coscienza, altri pensano solo a fare soldi».
Pagati per picchiare
In ogni caso conferma di aver ricevuto, la mattina del 3 ottobre, un sms da un boss molto importante. «Ci offriva dagli 800 ai 1.200 dollari di Hong Kong (80-120 euro) per partecipare agli scontri». Poiché la cifra era irrisoria, nessuno del suo gruppo si è mobilitato. «Solo dei teppisti che risiedono vicino al confine con la Cina - nei cosiddetti Nuovi Territori - hanno accettato. Sono certo che erano tutti originari di Hong Kong, ma nessuno è venuto di sua spontanea volontà. Era un attacco organizzato e pagato dai grossi boss».
Wing Chung, professore di scienze sociali alla City University di Hong Kong ed esperto di movimenti collettivi, mi spiega che una tattica delle autorità cinesi consiste nell’utilizzare piccoli delinquenti per aggredire manifestazioni pacifiche. «Invece di usare la polizia, preferiscono mobilitare le gang, e lo stesso è accaduto a Mong Kok». I soldi per l’attacco furono offerti dai boss, ma molti sospettano che dietro vi fossero dei ricchi imprenditori con favori da restituire al governo. Osservatori come Ho Wing Chung puntano il dito contro i costruttori che hanno di recente ottenuto il permesso di edificare su terreni espropriati ai residenti dei Nuovi Territori, una vicenda scandalosa narrata in maniera molto efficace nel film «Overheard 3» (Tak sostiene che il film è accurato in ogni particolare).
Eppure l’aggressione mafiosa a Mong Kok non ha avuto l’effetto sperato. Tak conferma che le Triadi sono rimaste stupite dalla reazione degli studenti. «La violenza contro i ragazzi non ha funzionato. Si sono stretti tra loro, hanno preso le botte e il cordone di difesa non si è rotto. Alla fine gli attaccanti si sono dovuti ritirare. La polizia era molto arrabbiata perché hanno fatto una figuraccia e ci hanno fatto sapere di non fare più cose simili, altrimenti ci chiudono i locali di Mong Kok».
Il «villaggio»
Dopo la visita a Mong Kok sono tornato ad Admiralty, di fronte al palazzo del governo, dove per una settimana ho incontrato gli studenti. Lì, hanno costruito un vero e proprio villaggio con centinaia di abitanti. Ogni tenda ha un numero che permette a un rudimentale sistema postale di distribuire lettere e messaggi. Di giorno ragazzini con il vestito della cerimonia di laurea si fanno fotografare sotto lo scalone dedicato a John Lennon. Verso le sei di ogni sera, un leader del movimento racconta gli eventi della giornata, poi ognuno fa qualcosa di utile.
C’è chi fa lezione, chi organizza discussioni sui classici della filosofia politica, chi si prende cura di un piccolo orto creato su un marciapiede. Un falegname ripara le barricate e costruisce dei piccoli mobili, mentre uno studente della mia Università distribuisce un sondaggio. Il movimento non accetta donazioni in denaro ma solo beni materiali, come coperte, batterie elettriche e cibo. Di notte i ragazzi fanno i compiti nella zona studio, rifocillati dai pasticcini offerti da una signora di mezza età. Piccoli cartelli gialli, in decine di lingue, recitano: «Sostieni la democrazia a Hong Kong», di fianco a testi di Nelson Mandela e Gandhi.
Nonostante le molte banalità che si leggono sui giovani nati con l’Ipad, assorbiti da chiacchiere virtuali, questa generazione non conosce alcuna contraddizione tra impegno diretto e presenza sul web. Tutti hanno un cellulare o un computer dove scrivono, leggono, ascoltano musica, riprendono se stessi e il mondo che li circonda. Di notte un proiettore rilancia sul muro di un palazzo governativo i messaggi Twitter indirizzati ad #OccupyCentral.
I rischi non mancano. Una sera un gruppo di giovani che indossano la maschera degli hacker Anonymous fa irruzione nel villaggio della democrazia e cerca di forzare il cordone di sicurezza. La polizia carica colpendo anche chi si trova in mezzo.
L’impasse
Vi sono anche rischi strategici e di lungo periodo. Il movimento ha raggiunto un’impasse e non sembra sapere come affrontare il futuro. Nel frattempo le strade vengono sgomberate dalla polizia. Ma qualunque sarà l’epilogo, un obiettivo è stato raggiunto. Da cinquanta giorni mafia, malaffare e una superpotenza sono impotenti di fronte alla richiesta ferma e gentile di Yvonne e delle sue compagne: una persona, un voto.

La Stampa 19.11.14
Ecco perché Pechino resta dietro gli Usa
Joseph S. Nye


L’autore è professore all’università di Harvard University, Presidente del World Economic Forum’s Global Agenda Council on the Future of Government, e autore di The Future of Power. www.project-syndicate.org

La Banca Mondiale ha recentemente annunciato che l’economia cinese quest’anno supererà quella degli Stati Uniti a parità di potere d’acquisto (Ppp). Ma questa è ben lungi dall’essere una rappresentazione olistica della capacità economica globale della Cina.
Anche se la Ppp può essere utile nel confronto sociale tra i vari paesi, è influenzata in modo significativo dalle dimensioni della popolazione. L’India, che è la decima economia mondiale in base al tasso di cambio tra il dollaro Usa e la rupia indiana, in termini di Ppp risulta la terza. Inoltre, le risorse energetiche, come ad esempio il costo del petrolio importato o di un motore di aereo da caccia avanzato, sono indicatori più significativi in base ai tassi di cambio delle valute che devono essere utilizzate per pagarli.
In realtà la dimensione globale è un aspetto importante del potere economico. La Cina ha un mercato interessante ed è il più grande partner commerciale di molti paesi.
Ma, anche se il Pil complessivo della Cina supera quello degli Stati Uniti (in base a qualsiasi parametro), le due economie mantengono strutture e livelli di raffinatezza molto diversi. E il reddito pro capite della Cina – una misura più accurata della complessità economica – è pari solo al 20% di quello dell’America e ci vorranno decenni, come minimo, per recuperare il ritardo (se mai accadrà).
Inoltre, come hanno riconosciuto i funzionari e i ricercatori cinesi, anche se nel 2009 la Cina ha superato la Germania affermandosi come il più grande esportatore mondiale in termini di volume di merci, deve ancora trasformarsi in un paese commerciale «forte», a causa degli scambi ancora fiacchi nei servizi e delle produzioni a basso valore aggiunto. E la Cina non ha il genere di grandi marchi internazionali che sono il vanto di potenze commerciali come gli Stati Uniti e la Germania: ben 17 dei 25 marchi globali sono americani.
Il ritardo nell’evoluzione economica della Cina si riflette anche nei suoi mercati finanziari, che hanno un ottavo delle dimensioni di quelli americani, con gli stranieri autorizzati a detenere solo una piccola parte del debito cinese. Anche se la Cina ha cercato di aumentare la sua forza finanziaria incoraggiando l’uso internazionale della sua moneta, lo scambio del renmimbi rappresenta appena il 9% del totale mondiale, rispetto alla quota del dollaro, che ne detiene l’81%.
Nemmeno le enormi riserve in valuta estera della Cina – le più grandi del mondo, quasi 4.000 miliardi di dollari – basteranno ad aumentare la sua leva finanziaria, a meno che le autorità creino un mercato obbligazionario profondo e aperto con tassi di interesse liberalizzati e una moneta facilmente convertibile. Queste riserve non danno alla Cina un grande potere contrattuale diretto sugli Stati Uniti, dato che le relazioni interdipendenti appoggiano sulle asimmetrie.
La Cina possiede i dollari che riceve grazie alle sue esportazioni verso l’America, mentre gli Stati Uniti, mantenendo il loro mercato aperto ai prodotti cinesi, aiutano a generare crescita, occupazione e stabilità in Cina. Sì, la Cina potrebbe mettere in ginocchio l’economia statunitense svendendo i suoi dollari, ma non senza risentirne seriamente essa stessa.
Le differenze tra la Cina e gli Stati Uniti in termini di raffinatezza economica si estendono anche alla tecnologia. Nonostante alcuni importanti risultati, per il suo progresso tecnologico la Cina conta di più sulla copia di invenzioni straniere che sull’innovazione nazionale. Anche se la Cina sta moltiplicando l’emissione di brevetti, pochi rappresentano invenzioni veramente innovative. I cinesi spesso lamentano di riuscire a produrre posti di lavoro per l’iPhone, ma nessun Steve Jobs.
Nei prossimi decenni la crescita del Pil della Cina rallenterà, come avviene in tutte le economie, una volta raggiunto un certo livello di sviluppo – di solito il livello di reddito pro-capite, in termini di Ppp a cui la Cina si sta avvicinando. Dopo tutto, la Cina non può fare affidamento su tecnologie importate e manodopera a basso costo per sostenere la crescita per sempre. Gli economisti di Harvard Lant Pritchett e Lawrence Summers hanno concluso che la regressione alla media collocherebbe la crescita cinese per i prossimi due decenni al 3,9%.
Ma questa semplice stima statistica non tiene conto dei gravi problemi che la Cina dovrà affrontare nei prossimi anni, come la crescente disuguaglianza tra le aree rurali e quelle urbane e tra le regioni costiere e quelle interne. Altre sfide importanti includono un settore statale ipertrofico e inefficiente, il degrado ambientale, la massiccia migrazione interna, una inadeguata rete di sicurezza sociale, la corruzione, e uno stato di diritto debole.
Inoltre, la Cina dovrà affrontare condizioni demografiche sempre più avverse. Dopo aver imposto la politica del figlio unico per oltre tre decenni, la forza lavoro della Cina inizierà a declinare nel 2016 ed entro il 2030 gli anziani non autosufficienti supereranno di numero i bambini. Questo suscita la preoccupazione che la popolazione possa diventare vecchia prima di diventare ricca.
Il sistema politico autoritario della Cina ha dimostrato un’impressionante capacità di raggiungere obiettivi specifici, dalla costruzione di linee ferroviarie ad alta velocità alla creazione di intere nuove città. Ciò che il governo cinese non è ancora pronto a fare è rispondere in modo efficace alle esigenze sempre più pressanti di partecipazione politica – se non di democrazia – che tendono ad accompagnare l’aumento del Pil pro capite. Ci sarà una svolta politica quando il Pil nominale pro capite, che ora è a circa 7000 dollari, si avvicinerà ai 10.000 dollari, come è avvenuto nella vicina Corea del Sud e a Taiwan?
Resta da vedere se la Cina saprà sviluppare una formula adatta a gestire una classe media urbana in espansione, le disparità regionali, e, in molti luoghi, minoranze etniche ribelli. La sua carente specializzazione economica può complicare ulteriormente le cose. In ogni caso, questo significa che il Pil aggregato, comunque lo si misuri, è insufficiente per determinare quando – e se – la Cina supererà gli Stati Uniti come potenza economica.
traduzione di Carla Reschia

La Stampa TuttoScienze 19.11.14
“Tra vita e non vita, la mia caccia alle firme della coscienza”
Quando è arrivato il momento di staccare la spina? E quali sono le prove?
A Torino la lezione di un grande studioso, vincitore del “Premio Mente e Cervello”
di Marco Pivato


È un problema antichissimo e tutt’oggi, più di un tempo, al centro di veri e propri scontri medico-scientifici, filosofici e anche ideologici, se pensiamo infatti ai temi controversi di fine vita: come si manifesta la coscienza e come possiamo rivelarne traccia in un paziente in coma per sapere se è il momento di staccare la spina o appurare che è ancora vivo e in qualche modo consapevole di sé?
Si tratta di ricerche di confine ma la strada sembra avviata. Per questi studi d’avanguardia il neuroscienziato francese di fama internazionale Stanislas Dehaene, autore di numerosi lavori sulle basi neurali della cognizione e nel campo della psicologia cognitiva, docente al Collège de France, ha vinto l’edizione 2014 del «Premio Mente e Cervello», organizzato dal Centro di Scienza Cognitiva dell’Università e del Politecnico di Torino, in collaborazione con l’Associazione Mente e Cervello. La cerimonia di assegnazione del Premio si terrà oggi nell’Aula Magna del Rettorato dell’Università di Torino alle 15.00.
Da dove provengono e come si governano i nostri pensieri, le nostre emozioni e i nostri sogni? Dehaene sostiene che oggi sia possibile analizzare le basi biologiche della coscienza per risolvere, prima o poi, questioni millenarie di carattere filosofico, ma adesso, soprattutto, per fondare una vera e propria - come la chiama il professore - «scienza della consapevolezza». Dehaene ci porta allora idealmente nel suo laboratorio a mostrarci lo stato dell’arte di questa ambizione scientifica. «Rispetto a 20 anni fa - spiega - possiamo avere conferma di marcatori fisiologici che diano indicazione di quando un soggetto diviene consapevole, per esempio, di un’immagine, di un suono o di una parola, anche durante il coma: siamo all’inizio, ma stiamo procedendo speditamente e - tiene molto a sottolineare - su solide basi empiriche».
Le neurotecnologie come la risonanza magnetica funzionale e nel complesso le tecniche di brain imaging - sostiene il professore - ci consentono di intravedere le «firme della coscienza» nel chirurgicamente inviolabile tempio dell’anima, ovvero il cervello: «Queste “firme”, da cui ricostruiamo la presenza di un’attività cerebrale consapevole, e non meramente basale, potrebbero fare la differenza nella diagnosi di un paziente paralizzato e in stato vegetativo». Dehaene, che ha raccontato le prove sperimentali delle sue affermazioni in «Coscienza e cervello. Come i neuroni codificano il pensiero» (Raffaello Cortina) e in più di 200 pubblicazioni scientifiche, spiegherà, durante la «lectio magistralis» che seguirà la premiazione di oggi, le metodiche da applicare per distinguere, in pazienti o in volontari, tra l’essere consapevole e l’essere non consapevole di una certa condizione o di un certo evento.
«Darò una dimostrazione - anticipa a “Tuttoscienze” - di come possiamo inviare una figura su uno schermo, renderla invisibile e poi farla tornare alla coscienza, provando empiricamente se una persona ha visto di fatto o no una certa figura». Insiste il neuroscienziato: «Rispetto a passate speculazioni più o meno affidabili sulla “registrazione” della coscienza oggi possiamo contare su prove sperimentali». Dehaene parla di tecnologie più fini rispetto a tomografi e strumenti per imaging cerebrale tradizionali che, sempre più in futuro, saranno in grado di distinguere attività fisiologiche dal vago significato, come il flusso sanguigno o altre quantità metaboliche, da segnali che, invece, indichino percezioni, sensazione e, infine, pensiero. «Analisi possono essere fatte sia su pazienti con patologie serie sia su persone sane, adulti e anziani - continua -. Se però vogliamo letture ad alta definizione- dobbiamo lavorare su pazienti malati, che possiamo monitorare attraverso elettrodi impiantati nel cervello. Si tratta di casi rari e molto speciali, ma grazie a questi esperimenti abbiamo accesso a dati che ci permettono di analizzare i raffinati meccanismi della consapevolezza».
A precedere i test c’è però una riflessione sui complessi concetti di «consapevolezza» e «coscienza», che hanno necessariamente bisogno di un senso, senza il quale ogni approccio scientifico non ha validità. «Dal momento che il cervello è il risultato di una lenta e lunga evoluzione biologica in termini darwiniani - argomenta Dehaene - penso che la nostra abilità di rappresentare informazioni provenienti dall’esterno grazie ai sensi, ovvero la coscienza, sia comparsa in quanto utile all’organismo per fare sintesi e riassunto della miriade di informazioni generiche a cui siamo sottoposti, arrivando così a dare identità soggettive alle cose del mondo, attraverso anche l’educazione. Proprio quest’ultimo e ulteriore passo lo possiamo chiamare consapevolezza».
Di fatto, secondo il professore, ormai «la scatola nera della coscienza è stata violata»: quelle che chiama «firme» della sua esistenza sono sufficienti e solide da essere utilizzate, oggi ma sempre più in futuro, nella pratica clinica. Obiettivo: sondarne i residui in pazienti con lesioni cerebrali e valutare, sempre meglio, caso per caso, la prognosi.

La Stampa 19.11.14
Il mio Montale nella bottiglia
“Così giocava per confondere i critici”: Annalisa Cima, l’ultima musa del poeta e depositaria dei suoi versi postumi, risponde alle accuse di chi li giudica falsi
di Bruno Quaranta


«Sarebbe stato sufficiente chiedermeli. Avrebbero evitato di faticare sul nulla». Annalisa Cima, l’estremo femminino montaliano, dopo Esterina, Gerti, Clizia, la Mosca, la Volpe, neanche un po’ sussulta di fronte al saggio che dimostrerebbe l’inautenticità del Diario postumo, a lei affidato (Federico Condello, I filologi e gli angeli. È di Eugenio Montale il Diario postumo?, Bononia University Press).
Gli originali... «Sei liriche, le prime pubblicate, e le autentiche delle lettere-testamento, sono custodite negli archivi Mondadori. Le rimanenti a Lugano, nella banca ideata dall’architetto Mario Botta. A disposizione degli studiosi, non dei dilettanti, in cerca, chissà, di una cattedra», distingue Annalisa Cima (conobbe Montale nel ’68, galeotta una fotografia che la ritraeva accanto a Luchino Visconti. La didascalia annunciava che si sarebbero fidanzati. Innescando la curiosità, in Montale, di conoscerla, il che avvenne auspice Vanni Scheiwiller).
Un tesoretto, il Diario postumo, della Fondazione Schlesinger di Lugano (sorta nel ’78, per volontà di Annalisa Cima, Eugenio Montale e Cesare Segre), accanto a ulteriori, auree carte: da Carlo Emilio Gadda a Giuseppe Ungaretti. La signora - pure lei poetessa - è l’ultima diretta testimone dei versi a futura memoria di «Eusebio», via via scomparsi gli antagonisti, da Dante Isella, lancia in resta contro la loro genuinità (ma non subito), a coloro che fornirono l’imprimatur: Contini, la Bettarini, la Corti e, va da sé, Segre.
Come le giunsero le poesie, fin da quella che la incorona: «Se la mosca ti avesse vista / anche una sola volta / quanto amore ti avrebbe / accordato»? «Dodici, tredici mi furono donate direttamente da Montale, quando andavo a fargli visita in via Bigli. Scritte in bagno (dov’era solito, anche, dipingere) su foglietti versicolori fornitigli da Vanni Scheiwiller e da me depositate in una cassetta di sicurezza. Quindi suggerii a Montale, per le successive, di provvedere lui stesso a porle sotto sigillo, Era il ’79 (le liriche vennero composte fra il ’69 e quell’anno), allorché, di fronte a un notaio italiano e a un notaio svizzero le distribuì in undici buste, che esistono, eccome. A caso. Richiesto di una spiegazione, il Nobel motteggiò: “Così, per confondere i critici...”».
Dall’86 al ’91, ogni anno, sei poesie vedranno la luce (nell’ultima busta, una sorpresa: un’appendice di diciotto testi). Nel ’91, il primo Diario, con trenta liriche, nel ’96 il Diario postumo. «Il contratto relativo tra la Mondadori e me sarà controfirmato da Bianca Montale, nipote di Eusebio, a suggello di una verifica che impegnò avvocati e notai della casa di Segrate fra il 1986 e il 1988 - puntualizza Annalisa Cima -. Le bozze dell’uno e dell’altro Diario avranno l’approvazione di Marco Forti e, soprattutto, di Dante Isella, che successivamente bollerà l’opera come apocrifa».
Perché il dietrofront di Isella? «Mirava a curare l’intero Diario, nonché comporne la prefazione. Se non che Montale, nelle lettere-testamento, indicava perentoriamente Gianfranco Contini. Gravemente malato, impossibilitato a onorare la volontà del poeta, il filologo princeps mi chiese, in un biglietto accorato, di rivolgermi a Rosanna Bettarini, la sua prediletta allieva» (Contini-Bettarini curarono per Einaudi L’opera in versi di Montale).
Su che cosa lavorò la Bettarini? «Sugli originali, visionati a Lugano, naturalmente», si stupisce della domanda Annalisa Cima. A Dante Isella che definiva il Diario «tanto “apocrifo”, cioè falso, quanto fisicamente inconsistente, per la ragione che “si tratta, molto probabilmente [...] di frasi colte al volo nella conversazione orale col poeta”», sul Sole 24 Ore, il 27 luglio 1997, Rosanna Bettarini replicava: «Eppure ho fornito in due tempi diversi (1991 e 1996) una descrizione, prolissa fino alla nausea, di decine e decine di documenti, dove si dice se sono a penna, a lapis o a biro; se su carta bianca, azzurra o paglierina; se corretti o scorretti, a pulito e sudicio; se datati o senza data, se in una o più redazioni, se sani o strapazzati, se su cartolina illustrata o postale con o senza francobollo più o meno annullato».
Il ’97, l’anno in cui gli originali del Diario postumo apparvero in mostra Lugano: «Falsi autografi, e non di una sola mano» li incenerisce Maria Antonietta Grignani, succeduta a Maria Corti alla direzione del Centro Manoscritti di Pavia, in un ricordo di Gina Tiossi, la governante di Montale. «Smentendosi - incalza Annalisa Cima - rispetto alla relazione che tenne durante il convegno del ’97. Là dove le saltò agli occhi un Montale che “si è comportato graficamente, psicograficamente, in un modo diverso; diverso proprio come volontà, che qui sembrerebbe quasi postuma, di chiarezza, di trasparenza, di leggibilità, perfino di monumentalità, tra virgolette, se si può dire”. A un certo punto la Grignani prenderà le distanze da Isella: “È evidente che Isella non ha ragione quando prende l’autocitazione come prova di falso. Evidentemente chi conosce l’ultimo Montale, da Satura in avanti, ma anche prima, sa che non è così”».
A proposito di grafia. I detrattori del Diario postumo si appellano alla perizia di Armando Petrucci per conto di Isella sulla base di qualche facsimile. Obietta Annalisa Cima: «Petrucci, paleografo e non grafologo, telefonò sia a me sia a Rosanna Bettarini scusandosi, dicendo di non aver emesso alcun giudizio, di non essersi mai occupato di autori contemporanei, di essersi offeso perché nominato a sproposito da Isella».
Indicata da Montale «erede universale», ad Annalisa Cima toccherebbe la cura dell’Opera omnia del Nobel, ovviamente con l’aggiunta del Diario postumo. «Quando Mondadori, già uscito il Diario, ripubblicò i Meridiani secondo Giorgio Zampa, sollecitai Isella e Gian Arturo Ferrari, allora direttore editoriale della Mondadori, a non presentare i volumi come Omnia. Ferrari, alla presentazione, riconobbe l’importanza del Diario, affermando che non si era fatto in tempo a includerlo. Beninteso non rinuncio a vederlo accolto».
La Bufera e altre bufere... Compiendosi sommamente la volontà di Montale: «Ed ora che s’approssima la fine getto / la mia bottiglia che forse darà luogo / a un vero parapiglia...».

La Stampa 19.11.14
Vero suicidio? Si colora di giallo la fine di Van Gogh
Un esperto: ucciso per errore da un amico
di Vittorio Sabadin


Se il 27 luglio 1890 un esperto forense fosse stato presente a Auvers-sur-Oise, quando Vincent Van Gogh tornò nella locanda dei coniugi Ravoux, sanguinando dal lato sinistro dell’addome, nessuno crederebbe oggi che il grande pittore sia morto suicida. Vincent Di Maio, noto in tutti i tribunali d’America per la sua competenza sui colpi di arma da fuoco, ha svolto 124 anni dopo l’esame che la polizia della cittadina a 30 chilometri da Parigi avrebbe dovuto compiere quella sera. Leggendo i resoconti dell’epoca si è convinto che l’unica ipotesi da escludere è proprio quella più accreditata: Van Gogh non si è sparato un colpo di pistola, ma qualcuno lo ha sparato a lui.
Di Maio, che è stato il teste chiave nel processo contro George Zimmerman per l’uccisione del diciassettenne Trayvon Martin nel 2012, pensa che se qualcuno volesse spararsi, sarebbe impossibile farlo nel punto in cui Van Gogh è stato colpito. «Bisognerebbe tenere la pistola al contrario con le dita della mano sinistra sul calcio e il pollice sul grilletto. Ancora più complicato sarebbe sparare con la mano destra, e bisognerebbe farlo sempre con il pollice: nessuna persona che si vuole uccidere lo farebbe in un modo così assurdo». Per Di Maio, nemmeno l’alone rosso e marrone notato intorno alla ferita è significativo: «Non serve a indicare un colpo sparato da vicino. È un semplice sanguinamento sottocutaneo, che avviene ogni volta che qualcosa entra in un corpo umano».
Che cosa è dunque accaduto quel giorno nelle campagne intorno a Auverse, dove Van Gogh era andato con colori e pennelli? La tesi avanzata da due premi Pulitzer storici dell’arte, Steven Naifeh e Gregory White Smith, nel libro
Van Gogh: the life
diventa sempre più credibile. A sparare sarebbe stato un ragazzo, René Secretan, che accompagnava spesso nei campi il pittore con il fratello Gaston, quasi sempre dopo avere bevuto qualche bicchiere di vino. René aveva una vecchia pistola, dalla quale sarebbe partito un colpo durante un qualche stupido gioco. Van Gogh non lo denunciò, avvalorando la tesi del suicidio. Certo è che si lasciò morire dissanguato fumando la pipa, il rimedio che diceva di avere imparato da Charles Dickens contro la depressione.

Corriere 19.11.14
Quel nesso tra tecnica e idea che fu anticipato da Gentile
Il suo attualismo mostra l’impossibilità di porre limiti al divenire
di Emanuele Severino


Il «realismo» è la prospettiva all’interno della quale scienza e tecnica anche oggi procedono. Non senza alcune spinte in direzione opposta, ad esempio la fisica quantistica di Heisenberg. Per il realismo il mondo esiste indipendentemente dalla conoscenza umana. È una prospettiva filosofica (in certo senso ereditata da alcune configurazioni storiche del senso comune). Adottando la quale, la tecno-scienza è oggi capace di trasformare radicalmente il mondo: più di qualsiasi altra forza che abbia tentato e tenti di farlo. Anche per questo motivo la filosofia del nostro tempo ha sempre più emarginato la prospettiva «idealistica» — per la quale, invece, il mondo, la natura, Dio stesso non sono indipendenti e separabili dalla conoscenza umana. Inoltre, per «idealismo» si è inteso soprattutto l’idealismo assoluto di Hegel, sì che il generale atteggiamento, divenuto preminente, di rifiuto della tradizione metafisica ha inteso la propria presa di distanza da Hegel, in cui la metafisica giunge al proprio culmine, come la definitiva chiusura dei conti con l’idealismo in quanto tale.
Eppure realismo e idealismo hanno in comune un tratto fondamentale: la convinzione che la realtà includa la realtà che diviene . Alle culture che precedono la filosofia non è certamente ignota la trasformazione continua e variegata del mondo: teogonie e cosmogonie e, in generale, le metamorfosi costantemente presenti nel mito, la attestano nel modo più esplicito. Ma è loro ignoto il senso che la filosofia, sin dal proprio inizio, assegna al divenire — e che rimane alla base dell’intero sviluppo della civiltà occidentale, ossia della dimensione i cui tratti essenziali si son posti ormai alla base di ogni altra civiltà.
Sin dall’inizio la filosofia intende il divenire come «unità di essere e di non essere». Ciò che diviene, infatti, «è» sin tanto che è, ma nel proprio passato e nel proprio futuro «non è», e quindi, come dice Platone, di esso non si può dire, separando il suo essere dal suo non essere, né soltanto che «è», né soltanto che «non è» ( Civitas , 479 e), ma è necessario dire che «insieme è e non è» ( hama on te kai me on , ibid., 478 d), ossia è appunto «unità di essere e di non essere». Anche Hegel definisce così il divenire — ma ormai è il senso comune a esser convinto che le cose del mondo che ora «sono», prima «non erano» ancora e poi «non saranno» più, e cioè, insieme, sono e non sono.
D’altra parte, la filosofia porta alla luce un senso inaudito del divenire perché indica un senso inaudito dell’«essere» e del «non essere», dei quali il divenire è l’unità. Ossia porta alla luce l’opposizione infinita che sussiste tra l’ essere e il nulla (che è appunto la forma più radicale del non essere), intendendo l’essere come ciò che ogni cosa (e si intenda questa parola nel senso più ampio) ha in comune con ogni altra, e che pertanto costituisce e configura la totalità della realtà; e intendendo il nulla come la totale assenza di ogni forma di essere.
Orbene, per lo più non si comprende come sia proprio il senso greco del divenire, che realismo e idealismo condividono, a far sì che il realismo, nonostante il suo attuale predominio sociale, sia destinato a mostrare la propria debolezza concettuale rispetto all’idealismo; ma non rispetto all’idealismo genericamente inteso, bensì rispetto a quella forma specifica di idealismo che è l’«attualismo» di Giovanni Gentile.
Questa affermazione riesce sorprendente già nella cultura italiana; in quella internazionale, poi, può suonare come un’esagerazione fuori luogo. Ma se si riesce a raggiungere il sottosuolo essenziale del nostro tempo, al di là cioè di quanto il nostro tempo crede di sapere di sé, ci si imbatte in qualcosa di estremamente più sorprendente e sconcertante. Innanzitutto, l’essenziale solidarietà tra attualismo e tecno-scienza. La quale scaturisce da un fondamento ancora più sorprendente. Se ne richiamerà qui il senso generale (che altrove ho determinatamente analizzato), lasciando parlare i testi di Gentile.
Per indicare il senso complessivo di queste affermazioni, va detto innanzitutto che il sottosuolo essenziale del nostro tempo, come di ogni tempo dell’Occidente, ha carattere filosofico . Ciò significa che il sottosuolo della civiltà della tecnica ha questo carattere. Per e in forza del quale essa è destinata a spingere al tramonto l’intera tradizione dell’Occidente: non soltanto, dunque, la tradizione culturale e i suoi valori, ma le stesse opere e istituzioni della tradizione occidentale.
La tecnica è di diritto l’ultimo Dio dell’Occidente — dove Dio è stato il primo Tecnico, il Demiurgo che fa passare le cose del mondo dal non essere all’essere e viceversa. La tecnica è di diritto l’ultimo Dio — nella misura cioè in cui la volontà tecnica di oltrepassare ogni limite, producendo e annientando ciò che, rispettivamente, è ritenuto un valore e un disvalore, è garantita dall’ impossibilità dell’esistenza di ogni Limite inoltrepassabile, che le si opponga, cioè di ogni Essere immutabile, eterno, divino. Il Limite supremo è appunto Dio (soprattutto il Dio della tradizione dell’Occidente). Questa impossibilità può esser mostrata non dal sapere scientifico, ma soltanto da quello filosofico; e di fatto si mostra in ciò che chiamiamo sottosuolo filosofico del nostro tempo — ovvero nel luogo in cui cresce, insieme a pochi altri, il pensiero di Giovanni Gentile.

Corriere 19.11.14
L’analisi di Tocqueville oltre il «made in Usa»
Per Salvadori non comprese l’America, ma la sua lezione è universale
di Marco Gervasoni


Pochi autori dell’Ottocento sono, come Alexis de Tocqueville, fondamentali per capire il Novecento e, in realtà, anche gli anni che stiamo vivendo: il visconte francese è infatti una delle pietre miliari della filosofia politica di ogni tempo. Eppure, anche lui fu per molti anni, se non dimenticato, messo ai margini: solo dagli anni Settanta, non a caso con la fine delle ideologie e con la crisi del sistema sovietico, è cominciata una Tocqueville Renaissance che ne ha fatto un autore globale, studiato e letto ovunque nel mondo (compresa la Cina).
Lo stesso Massimo L. Salvadori, nel recente volume Le stelle, le strisce, la democrazia. Tocqueville ha veramente capito l’America? (Donzelli, pp. XII-148, e 18,50), confessa di avere scoperto Tocqueville proprio in quegli anni. Pur riconoscendo, come ovvio, la grandezza del teorico francese, Salvadori è piuttosto critico. Egli infatti ritiene che l’autore della Democrazia in America il «nuovo mondo» non lo abbia capito a fondo, limitato dalle sue impressioni di viaggio (compiuto nel 1831) e dalle conversazioni con interlocutori americani.
Tocqueville non avrebbe soprattutto compreso l’evoluzione degli Usa verso un capitalismo di tipo plutocratico e verso il regime di partito sul piano politico, consapevolezza invece meglio presente in un autore da Salvadori ben studiato, John Calhoun. È una tesi che l’autore argomenta con la solita encomiabile scrittura cristallina, ma che muove qualche perplessità, soprattutto là dove egli confronta le analisi di Tocqueville con quelle di Bryce, Veblen e Ostrogorski, che scrissero diversi decenni dopo l’autore francese.
Tuttavia, anche se fosse verosimile quel che sostiene Salvadori, che ricadute vi sarebbero sul pensiero di Tocqueville? Nessuna: egli usò l’America solo come esempio concreto per riflettere su un modello astratto, quello di democrazia. In tal senso le categorie di Tocqueville sono universali, e come tali valide sia per le democrazie europee che per quelle dei Paesi extraeuropei ed extra occidentali. Sarebbe come dire che le pagine della Repubblica di Platone perdono validità perché il suo autore non avrebbe compreso appieno l‘evoluzione delle istituzioni politiche della Grecia del suo tempo.

Corriere 19.11.14
Esce il Miró di Yves Bonnefoy
Rileggere Mirò, sensualità e vecchi incubi
di Sebastiano Grasso


Un grande poeta legge un grande pittore. Nel 1964, a Parigi (Bibliothèque des artes), esce il Miró di Yves Bonnefoy, subito tradotto in italiano (Silvana editoriale). Mezzo secolo dopo, Abscondita ripubblica il saggio nella collana «Miniature», nell’ottima traduzione di Diana Grange Fiori, e con un’appendice iconografica di notevole interesse (pp. 104, € 13). Ecco Miró con la compagnia dei Balletti russi e Max Ernst alla stazione di Montecarlo nel ’32; ancora, visto da Man Ray nel 1930, da Irving Penn nel ’47, da Brassai nel ’55 o da Cartier-Bresson nel ’67, ed eccolo, ancora, con André Breton alla Galleria Maeght nel ’61 e con Picasso nel ’69.
Un libro fondamentale, questo di Bonnefoy; un viaggio introspettivo nella pittura e nelle sue contraddizioni («L’arte di Miró è bifronte»): lo scandaglio della tradizione, le intuizioni, il rapporto con la natura, la tristezza, la sensualità, gli incubi, l’attrazione della morte. Il poeta francese «rivive» e «interpreta» la storia «di uno spirito inquieto che lotta contro il turbamento che è in lui e che chiede all’arte di soccorrerlo». Insomma, l’arte diventa una sorta di catarsi. Miró è nato nel 1893. Bonnefoy parte dal 1915, da quello che egli considera il Miró «espressionista» sui generis : amante dei fauves e di Van Gogh («pittori del sole e della terra») e piuttosto lontano da Munch o da Beckman, cresciuti in una «società protestante». Così come, nel momento in cui affronta il cubismo, è a Picasso che guarda, a ciò che «esprime il dinamismo della natura e la geometria delle apparenze», anche se rifiuta una «cultura cittadina» perché la sente estranea. Ecco, Miró torna sempre alla natura, alla terra («Bisogna dipingere calcando la terra: la forza entra dai piedi»). Da qui, dubbi, incertezze che, naturalmente, creano tensioni, ma che alla fine, egli affronta e risolve «nell’atto stesso di dipingere». Come? Bonnefoy adopera due parole: coraggio e genio.
C’è di più. Miró si guarda continuamente intorno. Graffiti, arti primitive, forme irrazionali, apparenza delle cose. Europa, ma anche Africa e Oceania. E, d’un tratto, il dadaismo, capace di comunicargli un grande senso di libertà. Dipingere con i colori, ma anche con corde, foto, legnetti. «Miró era la grande libertà (…) In un certo senso, assolutamente perfetto — osservava Giacometti —. Era così profondamente pittore che gli bastava lasciar cadere tre macchie di colore sulla tela perché questa esistesse e costituisse un quadro». La natura si libera di ogni costrizione. Riappare il danzatore primitivo. E l’arte «s’imparenta» con la musica («La musica non è forse conseguenza della danza, proprio perché libera i ritmi del nostro corpo?» si chiede Bonnefoy). E musica e sogno non sono vicini di casa? Da qui fughe , evasioni, suggestioni che porteranno Miró alle Pitture selvagge , «ai miti della follia», ad un certo astrattismo.
Il saggio di Bonnefoy si ferma al 1964 (l’artista catalano muore nell’83), ma il mirómondo continua. Soave e drammatico, misterioso e dolcissimo, favolistico e rituale, Accompagnato da Mozart e Bach da una lato; Van Gogh e Cézanne, dall’altro. I suoi segni navigano, germinano, cantano con un ritmo frenetico, scanditi dal flusso della memoria dell’infanzia, ricca di pesci volanti, di matasse di lana colorata a mo’ di occhi di uccelli. Nel giardino incantato delle favole, l’illusionista Miró offre la Grande rappresentazione per adulti e ragazzi. Ma non ci si lasci incantare. L’indole del pittore è tragica, come ricorda Yves Bonnefoy. La vera strada gliel’avevano indicata i poeti della Parigi anni-Venti, una Parigi «dove si veniva per lottare, non per essere spettatori della lotta» e dove egli aveva cominciato, in un giardino incantato, la girandola delle invenzioni che lo avrebbero portato ad un ineffabile gioco senza fine.

Corriere 19.11.14
Renato Barilli
Proust, Joyce, Musil: maestri di scrittura nel segno di Freud
di Pierluigi Panza


Renato Barilli è l’«ultimo» grande comparativista d’arte. Il critico bolognese è tra i più indefessi estetologi nel cercare connessioni tra le arti e tra esse e il mondo circostante che le determina o condiziona. Resta fedele a questo metodo anche nel nuovo libro, La narrativa europea in età contemporanea (Mursia, pp.344 e 24) dedicato a scrittori come Cechov, Joyce, Proust, Woolf e Musil. Qual è il nesso che consente a Barilli una lettura per progressivi avvicinamenti di questi scrittori? È la nuova presa di coscienza dell’io verso se stesso avvenuta in conseguenza a una rivoluzione scientifica. Verso la fine dell’Ottocento, sostiene Barilli, si afferma una rivoluzione tecnologica che apre la strada al nuovo «homo epistemologicus» il quale, grazie ai maestri del sospetto, viene posto sotto una lente d’ingrandimento. Se scienziati come Einstein relativizzano le sue sicurezze sul mondo, Freud spazza via le sue certezze di «libero arbitrio» costringendolo a ragionare su se stesso. Ecco: tutta la letteratura degli autori analizzati appare a Barilli come una grande elaborazione di questa interrogazione richiesta all’individuo, che si ritrova anche in Pirandello e Svevo. La «madeleine» di Proust, il «flusso di coscienza» di Joyce o «i granelli di sabbia che l’uomo senza qualità di Musil insinua nell’ingranaggio del potere» sono le conseguenze di questa presa di coscienza, che porterà a quella che Michel Foucault avrebbe definito «la morte dell’uomo».

Repubblica 19.11.14
Veronesi e il male chr fa perdere la fede
di Vito Mancuso


UMBERTO Veronesi ha spiegato perché non crede in Dio: la perdita della fede a causa della presenza del male di cui ha parlato su questo giornale è un’esperienza comune a molti, descritta in numerose opere filosofiche e letterarie del passato e sorgente di perenne inquietudine per i cristiani.
SI TRATTA infatti di un’esperienza peculiare del mondo occidentale formato dal cristianesimo, perché nei termini raccontati da Veronesi essa non potrebbe avvenire né nell’islam, né nell’hinduismo e in nessun’altra tradizione religiosa. Per negare Dio tale ateismo si nutre dell’argomento del bene, nel senso che la presenza del male nel mondo è per esso in aperto contrasto con un Dio la cui essenza è pensata come interamente buona, come amore, oltre che come onnipotenza. Se Dio è del tutto buono e ci ama, e se è al contempo onnipotente, il male nel mondo non dovrebbe esistere; ma visto che il male esiste, a non esistere è il Dio buono e onnipotente di cui parla il cristianesimo: ecco la conclusione di Veronesi e di molti occidentali prima di lui. Invece per le prospettive nelle quali Dio, oltre a essere bene, è anche capacità di male, la presenza del male non contraddice in alcun modo la sua esistenza: è semmai solo una delle molteplici manifestazioni di una somma e imperscrutabile onnipotenza a cui occorre conformarsi. Non è quindi un caso che l’ateismo come fenomeno di massa sia sorto in occidente e non altrove.
Scriveva Simone Weil, una delle più acute intelligenze mistiche del nostro tempo, alla fine del ‘42: “Sento una lacerazione, sia nell’intelligenza che al centro del cuore, che si va aggravando senza sosta a causa dell’incapacità di pensare insieme, nella verità, la sventura degli uomini, la perfezione di Dio e il legame tra l’una e l’altra cosa”. Questa è la vera e propria aporia di cui soffre il cristianesimo. Il che, peraltro, non dimostra che il cristianesimo sia falso, perché a essere aporetica e contraddittoria è l’esistenza stessa, così che ogni credo religioso o filosofico che attesta la contraddizione serve la vita, mentre quei sistemi che perseguono in primo luogo la coerenza logica sono solo dottrine e ideologie artificiose. Ha scritto il giovane Hegel: “Contradictio est regula veri, non contradictio falsi”, la contraddizione è la regola del vero, la non contraddizione del falso.
Il punto è che vi sono due dati di fatto, entrambi veri, ma inconciliabili allo stato attuale della mente umana (un po’ come la teoria della relatività e la meccanica quantistica, entrambe sperimentate innumerevoli volte, ma inconciliabili teoreticamente l’una con l’altra): l’esistenza effettiva del male, sia fisico sia morale; e l’esistenza effettiva del bene, sia fisico sia morale.
Si tratta di pensare insieme i due dati, non uno solo di essi. Era quanto faceva Boezio nella sua cella di Pavia prima che Teodorico lo facesse giustiziare: “Se c’è Dio, da dove vengono i mali? E da dove vengono i mali, se Dio non c’è?” ( Consolazione della filosofia I, 4). Se Dio c’è ed è quell’amore onnipotente di cui parla il cristianesimo, perché, citando Veronesi, “un bambino viene invaso da cellule maligne che lo consumano giorno dopo giorno?”. Ma se Dio non c’è, da dove vengono le mani del medico che lo curano, la scienza che guida la sua mente e la passione morale che lo porta a operare? Qualcuno potrebbe rispondere dall’uomo e dalla sua ragione e direbbe bene, ma non sarebbe un argomento conclusivo, perché rimane da spiegare da dove vengono l’uomo e la sua ragione. Se consideriamo il punto di partenza del percorso cosmico 13,82 miliardi di anni fa, e il punto cui oggi siamo arrivati in termini di accumulo di organizzazione e complessità, è ben difficile attribuire tutto a un mero susseguirsi di casualità fortunate, tanto enormi sono le probabilità contrarie al darsi della vita e dell’intelligenza nel cosmo: tale attribuzione richiede un investimento di energia mentale almeno pari a quello che ipotizza Dio.
La realtà è che di fronte al dato della vita (che è: cancro + mani che lo curano, caos + logos) appaiono insostenibili entrambi i dogmatismi: quello di chi nega ogni forma di logica al governo del mondo e quello di chi vede tale logica in ogni evento, come fa l’attuale Catechismo cattolico dicendo che “Dio permette che ci siano i mali per trarre da essi un bene più grande” (art. 412), presentando un sofisma dal punto di vista teoretico e un’indegnità dal punto di vista morale.
La prospettiva più plausibile con cui rispondere alla domanda sull’origine del male esclude che la risposta possa essere Dio, nel senso che Dio voglia direttamente o permetta indirettamente i singoli eventi negativi; esclude che possa essere l’uomo in quanto autore del cosiddetto peccato originale, perché l’uomo è la prima vittima dell’indeterminazione dell’essere che produce il male, non l’autore; ed esclude infine che possa essere una natura del tutto priva di un fine (come vorrebbe il materialismo ateo) perché la natura, oltre al cancro, produce anche la mente e le mani che tendono al bene.
La prospettiva più plausibile con cui rispondere alla domanda sull’origine del male è la medesima che sa rispondere all’origine del bene, cioè quella che rimanda all’impasto originario di logos + caos che costituisce il mondo nella sua concreta effettualità e che impone un modo nuovo di pensare Dio. In base a esso occorre superare le secche della dogmatica tradizionale destinate inevitabilmente a condurre molti all’ateismo, senza con ciò cadere nel nichilismo che vede la natura solo come forza cieca priva di ogni direzione, e che quindi si ritrova incapace di fondare l’etica della cura alla base della medicina e in genere del vivere sociale.

Repubblica 19.11.14
Tutti i John della jihad
Ragazzi partiti per una festa e riapparsi su YouTube con proclami di morte, adescati con scene prese dal “Signore degli Anelli” o con filmati di propaganda
Vengono dalla classe media, hanno tra i 15 e i 21 anni. Ecco chi sono i nostri figli andati a combattere per il Califfato
di Anais Ginori


PARIGI LA LINEA d’ombra si assottiglia sempre di più. Le vecchie griglie di comprensione — la fragilità psicologica, le condizioni sociali disagiate, la rabbia che cova — non bastano più a spiegare, né a prevedere. «Il profilo tipo dell’occidentale che si arruola nella jihad è rapidamente cambiato », racconta Dounia Bouzar che ha appena pubblicato un rapporto commissionato dal ministero dell’Interno per smentire alcuni cliché sui giovani combattenti partiti per la Siria, e analizzare le tecniche di indottrinamento usate dai gruppi islamici radicali. Titolo dello studio, quasi cento pagine di dati ed esempi: La Metamorfosi . È l’impercettibile ma drastica mutazione culturale e ideologica di ragazzi insospettabili come Maxime Hauchard, il normanno ventiduenne diventato boia dell’Is, cresciuto ateo in una villetta a schiera di provincia, con una madre che lavora alla Asl e un padre impiegato in un’impresa edilizia.
L’antropologa snocciola nel rapporto, realizzato insieme a Christophe Caupenne, ex capo dei negoziatori delle forze speciali antiterrorismo, oltre 160 casi di famiglie francesi che hanno scoperto di avere in casa un aspirante jihadista. Ragazzi che sono partiti per andare a scuola o a una festa, e sono riapparsi in un video su YouTube con proclami di morte. La maggioranza dei casi (67%) proviene dalla classe media e solo il 16% da ambienti sociali disagiati. Il 63% ha tra 15 e 21 anni e il 44% sono donne. Anche lo stereotipo dei “soggetti fragili” appare superato. Come Hauchard che aveva frecesi.
medie e liceo con ottimi voti, era amico del figlio del sindaco, aiutava ad organizzare le feste di paese, aveva fatto il cameriere da “Delice Pizza”. La religione non è il principale motore: l’80% delle nuove leve proviene da famiglie atee e nel 91% dei casi non hanno mai frequentato una moschea, ma sono stati arruolati solo attraverso Internet. Persino i discorsi sulle prime o seconde generazioni di immigrati sembrano superati: solo il 10% dei casi ha genitori non fran- Per chi vuole cercare di capire è un salto nell’ignoto. «Il nuovo discorso dei terroristi punta a persone che stanno bene e vivono in famiglie agiate», sintetizza Bouzar che da anni studia l’integralismo islamico, a cui ha dedicato diversi saggi. L’ultimo s’intitola Ils cherchent le paradis, ils ont trouvé l’enfer . Giovani che confondono paradiso e inferno. «Uno studente in medicina può diventare uno jihadista », ha scritto nel libro l’antroquentato pologa. E ora sembra una profezia vedendo le immagini di Nassim Muthana, studente in medicina a Cardiff arruolato nel plotone dei boia dell’Is. «Nessuna famiglia — conclude Bouzar — può sentirsi al riparo».
Ogni percorso fa storia a sé, ma ci sono alcune inquietanti analogie. Molti partono con un ideale umanitario o romantico. I messaggi di Al Nusra, la cellula in Siria di Al Qaeda, puntano sull’impegno per salvare le popolazioni, il soc- corso ai più deboli. Quelli dell’Is propongono un ideale guerriero, con simboli cavallereschi come il leone o immagini del film Il Signore degli Anelli per difendere il nuovo fantomatico Stato tra Iraq e Siria. Viene spesso citata una frase di Khalid Ibn Al Walid, l’invincibile guerriero del primo califfato, il compagno di Maometto che vinse tutte le guerre, cambiando la mappa del Medio Oriente: «Porto uomini che desiderano la morte come voi desiderate la vita».
Le poche, scarne notizie alle famiglie arrivano via Skype. Nella prima telefonata, nota il rapporto, le nuove leve dicono ai genitori le stesse frasi: «Abito in una bella villa, non ho bisogno di niente. Sono nelle braccia di Allah, Allah mi protegge, sono protetto». Secondo Bouzar molti partono senza sapere davvero a cosa vanno incontro. E quando se ne accorgono è troppo tardi. «È una sorta di vacanza», ha raccontato nel luglio scorso Maxime Hauchard parlando da Raqqa con un’emittente francese.
I ragazzi cadono nella rete anche senza volerlo. I gruppi islamici disseminano esche online. «Riescono a stabilire link a partire da video su YouTube che guardiamo tutti, con parole chiave neutre, dalla storia dei vaccini al commercio equo e solidale». A quel punto la Jihad 2.0 inizia a diventare realtà. Il rapporto consegnato al ministero dell’Interno analizza tre categorie di video. Ci sono filmati che tendono ad accreditare la teoria del complotto in cui viene descritto un Occidente bugiardo, corrotto. Una seconda tappa dell’indottrinamento punta su presunte “società segrete” che governerebbero il mondo, dalla massoneria agli Illuminati. Lentamente si instaura un dubbio, una sfiducia rispetto alla propria cultura. I giovani si allontanano dalla famiglia, dagli amici. Incominciano ad avere una doppia vita finché l’identità del gruppo islamico sostituisce l’identità individuale. La tappa finale, continua lo studio, è il meccanismo di disumanizzazione. Bouzar cita alcuni video dell’Is che mischiano immagini vere a popolari videogiochi, come Assassin’s Creed o Call of Duty . «Gli ostaggi decapitati — conclude l’antropologa — non sono più uomini, ma sagome virtuali da annientare». Il rapporto finisce senza offrire soluzioni. Solo alcune chiavi di lettura per comprendere, o almeno tentare.

Repubblica 19.11.14
Web, rabbia e videogame così sprofondano nell’incubo
di Roger Cohen


IN COSA consiste l’incubo della decapitazione di un altro americano, Peter Kassig, da parte dell’Isis? Nell’immagine in sé, ovviamente. Nel caso di Kassig, si vede una testa mozza insanguinata, ai piedi di un assassino incappucciato. Nelle altre esecuzioni abbiamo visto il coltello serrato alla gola, le vittime ferite che si accasciavano, la mano sinistra che li sgozzava; e abbiamo sentito la voce cupa e monocorde del boia tronfio. Non abbiamo quindi bisogno di immaginare come sia morto questo giovane americano idealista, un volontario appena convertitosi all’Islam.
Ma l’immaginazione non si placa; è in balia del vortice della sofferenza dei prigionieri, li rappresenta nei particolari mentre subiscono la tortura della testa costretta sott’acqua o altre torture; è afflitta dall’immagine evocativa delle tute arancioni e dal modo in cui questi perfidi carnefici medioevali reclutano proseliti nelle tenebre del grande disorientamento dell’America post 11 settembre. Il male dello Stato islamico si palesa soprattutto nella sua astuzia. Così come abbiamo concentrato in tre cifre la strage del settembre 2001 per renderla più familiare, ora subiamo la banalità Monty-pitonesca del soprannominare il boia dell’Isis “Jihadi John”, una piccola allitterazione volta ad alleviare l’angoscia. Dobbiamo dunque immaginare questo “Jihadi John”, prima, mentre fa fatica a tirare avanti e a integrarsi nell’Inghilterra piovigginosa, disoccupato, con un mutuo da pagare e arrabbiato con tutto il mondo, e poi, sotto lo splendido sole levantino, dove tutto è chiaro e luminoso, nelle prime fila di qualche movimento di Risorgimento sunnita impegnato a sottomettere il mondo al suo marchio sanguinario dell’Islam wahhabita. È diventato parte di qualcosa di più grande. Ha una missione. Ha la licenza di uccidere gli infedeli (anche quelli convertiti all’Islam come Kassig) in nome del suo credo religioso. È un rivoluzionario molto certo di questa missione.
Quanti altri ce ne sono in giro come lui, in attesa di essere adescati in un pub di Bradford, o nei ghetti periferici di una qualunque città francese o in una Libia a pezzi?
Forse questa domanda comincia a toccare la vera essenza dell’incubo. Per quanto orrende siano state le immagini delle cinque esecuzioni, non spiegano in sé l’entità della reazione in Occidente. Tutto sommato, film e videogame hanno reso le nostre società avvezze alla violenza brutale. Questa non desta scalpore.
In realtà, insopportabile è la sensazione che l’America, a 13 anni dall’11/9, si sia morsa la coda; che, come nel gioco della caccia alla talpa, l’eliminazione di una tana non fa altro che generarne una nuova altrove; che l’ideologia di Al Qaeda si rifletta ancora in un mondo arabo paralizzato, in cui l’equilibrio tra sunniti e sciiti sia stato rotto dall’invasione americana dell’Iraq.
Di più: che la perdita in Iraq di 4500 soldati americani e più di 100 mila iracheni non abbia portato ad alcuna vittoria o chiarezza, ma solo a una società e a un Paese frammentato; che la Primavera araba (al di fuori della Tunisia), che aveva promesso una via d’uscita dal confronto alimentato dalla dittatura pseudo-militare e dai politici dell’Islam per rafforzarsi, sia degenerata nella frustrazione e nella rabbia degli estremisti; che “Jihadi John”, per ora, prevalga sul “Maometto moderato”.
L’incubo, insomma, non ha tanto a che fare con l’immagine barbara in sé, quanto con la sensazione di umiliazione, impotenza, déjà vu e della conseguente esasperazione.
Il presidente Obama ha giurato di «distruggere » lo Stato Islamico. Ma anche se ci riuscisse, e per ora i mezzi impiegati non sembrano essere adeguati all’obiettivo, con quale forma cancerogena riaffiorerebbero le idee del califfato? Dati i tentativi falliti di stabilire un nuovo tipo di cittadinanza post-settaria nelle società della regione, non c’è motivo di credere che l’incubatore arabo del violento estremismo islamico sarà meno fertile. La gioventù abbinata alla frustrazione e a un decennio di conflitti, alimenta un istinto suicida.
Daniel Bolger, un generale americano reduce dalle guerre in Iraq e Afghanistan, ha scritto un libro intitolato Perché abbiamo perso, in cui dice senza mezzi termini: «Sono un generale dell’esercito degli Stati Uniti e ho perso la guerra globale contro il terrorismo ». Tutto quel sangue e valore americano non si esaurisce in un mugolio ma in una affermazione forte.
Ma qual era il fine di questa guerra? Se era la sicurezza dell’America, non può essere considerato un fallimento. Se era la ricostruzione della società in Iraq e Afghanistan e l’eliminazione della minaccia terrorista contro gli Stati Uniti, l’obiettivo è stato mancato di molto. Le esecuzioni dello Stato islamico, nell’inconscio americano provocano la sensazione disperata di essere stati convinti con l’inganno a spingersi troppo oltre.
L’incubo ha molti strati. Le parole di Kurtz in punto di morte — “Che orrore! Che orrore!” — nel Cuore di tenebra di Joseph Conrad possono essere interpretate in molti modi, ma nessuno di questi può negare la sua percezione finale delle forze immani fuori dal suo controllo e dalla sua capacità di comprensione.
© 2-014 The New York Times Traduzione Ettore Claudio Iannelli