giovedì 20 novembre 2014

La Stampa 20.11.14
Femminicidi, il 2013 è l’anno nero. Una donna uccisa ogni due giorni
Il rapporto Eures: in 7 casi su dieci i delitti si sono consumati in ambito familiare

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Oggi è la Giornata dei diritti dell’infanzia
Corriere 20.11.14
Quei bambini senza pasti sostanziosi. Così sta aumentando la povertà
La commissione Infanzia: 3,8 milioni di minori vivono in difficoltà economiche
di Alessio Ribaudo

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Repubblica 20.11.14
Quei bambini abbandonati dallo Stato italiano
di Chiara Saraceno


A VENTICINQUE anni dall’approvazione della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza possiamo valutare se e quanto essa abbia contribuito a migliorare la situazione dei bambini e ragazzi in Italia e a creare una attenzione nei loro confronti da parte dei decisori politici ed economici.
Come capita spesso, ci sono luci e ombre, anche se temo che le seconde prevalgano sulle prime. È sicuramente diminuita la mortalità infantile, che oggi, al 3,4 per cento, è tra le più basse al mondo. Ma rimangono forti differenze regionali, con uno scarto di quasi tre punti percentuali tra il 2,1 per cento del Trentino e il 4,9 per cento della Sicilia. È aumentato il livello di scolarizzazione, in particolare la percentuale di coloro che proseguono gli studi dopo la scuola dell’obbligo. Ma rimangono eleva- ti i fenomeni di elusione e abbandono, anche nella scuola dell’obbligo.
L’Italia è tra i paesi europei con il più alto tasso di interruzione precoce degli studi (prima del completamento della scuola media superiore). Riguarda il 17,6 per cento degli adolescenti (20,6 per cento dei ragazzi, 14,5 delle ragazze), a fronte del 13 per cento medio a livello Ue. Il fenomeno è particolarmente rilevante nel Mezzogiorno, benché non sia esclusivamente un fenomeno meridionale. L’Italia è anche uno dei paesi sviluppati ove sono più elevati i divari nelle competenze cognitive dei bambini e ragazzi in base alle caratteristiche sociali dei loro genitori e della collocazione territoriale: un segnale della incapacità della scuola — per il modo in cui è organizzata, per le risorse su cui può contare — a contrastare le disuguaglianze sociali di partenza. Ne è indiretta testimonianza anche il fatto che l’Italia è uno dei paesi in cui è più alta (50 per cento) la trasmissione intergenerazionale della bassa istruzione. Soprattutto, dalla metà degli anni Novanta, quasi in coin- cidenza con l’approvazione della Convenzione internazionale, la povertà minorile ha cominciato ad aumentare, soprattutto tra le famiglie numerose e nel Mezzogiorno.
Con la crisi le cose sono ulteriormente peggiorate. Il rischio di povertà ed esclusione sociale riguarda oggi oltre il 30 per cento dei minori nel nostro paese (oltre il 50 per cento se sono stranieri), una percentuale maggiore del 5 per cento di quella degli adulti. Un milione e mezzo di bambini e ragazzi si trova in povertà assoluta, cioè appartiene a famiglie che non hanno reddito sufficiente per acquistare un paniere di beni essenziali. Il 4 per cento non può fare neppure un pasto adeguato al giorno. Benché il peggioramento delle condizioni abbia riguardato tutto il Paese, è stato particolarmente grave nel Mezzogiorno, peggiorando ulteriormente quel divario nelle opportunità di vita tra chi nasce in zone diverse del paese per cui, come è stato osservato, un bambino che nasce a Sud del 42esimo parallelo ha un rischio di nascere e crescere in condizioni di povertà superiore del trecento per cento rispetto a chi nasce a Nord di quel parallelo.
A fronte della persistenza e aggravarsi di queste disuguaglianze nelle opportunità di vita e sviluppo dei più piccoli tra i suoi cittadini, la politica ha fatto ben poco. C’è stato poco investimento nelle politiche educative, a partire dai primissimi anni di un bambino, con la positiva eccezione di una scuola dell’infanzia quasi universale. Le politiche di sostegno al costo dei figli sono state scarse, frammentate e spesso fuori bersaglio, come rischia di essere da ultimo anche il bonus di 80 euro per i nuovi nati. Le politiche di contrasto alla povertà pressoché assenti, sperimentali, occasionali. Siamo forse ancora il paese in cui i figli sono «piezz’ e core». Di sicuro, siamo un paese in cui i bambini e adolescenti non sono considerati cittadini con diritti propri, ma neppure come soggetti su cui sarebbe doveroso, oltre che utile, investire.


Repubblica 20.11.14
Roma, via anche dall’Infernetto i giovani profughi
di Mauro Favale


ROMA . Da Tor Sapienza all’Infernetto, dall’Infernetto a chissà dove. È questione di ore prima che i 24 minorenni egiziani che fino alla scorsa settimana vivevano nel centro di via Morandi, periferia est della capitale, vengano nuovamente trasferiti. Allora furono le proteste e gli assalti dei residenti con bottiglie e bombe carta a convincere il Campidoglio allo spostamento «per motivi di sicurezza». Questa volta la molla è stata una rissa, la seconda da sabato, scoppiata due notti fa nel centro “Le Betulle” di via Salorno.
Protagonisti due gruppi di minorenni, i 24 arrivati appena cinque giorni fa, e i 14, anche loro nordafricani, che all’Infernetto ci abitano da marzo. Sei feriti (tra cui anche un operatore della cooperativa Domus Caritatis) il bilancio della rissa, con tavoli e sedie rovesciate per terra, bastoni branditi come armi, urla tra la paura dei residenti che hanno chiamato la polizia. Cinque ragazzi sono stati denunciati al tribunale dei minori: saranno loro i primi a essere trasferiti, seguiti a ruota anche dagli altri 19. Non è durata nemmeno una settimana, dunque, la permanenza nella nuova struttura (che ospita anche alcuni malati di Alzheimer) prima che il Comune decidesse di accelerare le operazioni e intraprendere «percorsi individuali» per gli ex ragazzi di Tor Sapienza.
Gli uffici del dipartimento dei servizi sociali del Campidoglio stanno studiando i trasferimenti «in tempi brevi» ma, stavolta, non ci sarà uno spostamento «in blocco». Il gruppo che si era creato nel centro di via Morandi verrà smembrato per fare posto a nuclei di due, massimo tre ragazzi, da collocare in case famiglia e struttura più piccole. Una decisione che serve ad abbassare la tensione e a evitare che si alimentino nuove proteste dei residenti.
Ieri davanti alla struttura di via Salorno si sono radunate una ventina di persone, con un blindato della polizia a impedire l’ingresso al centro. Tra i presenti militanti di CasaPound e di Fratelli d’Italia e un paio di comitati che si professano «né di destra né di sinistra». I residenti di questa periferia residenziale a due passi dal mare, con tanto verde pubblico, sono rimasti chiusi in casa. L’unica a parlare è Alessandra, una vicina del centro “Le Betulle”: «Questi ragazzi hanno diritto a una casa e ad avere una famiglia. La nostra accoglienza qui è stata pessima».

il Fatto 20.11.14
La soluzione? Cacciare i migranti
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, chiedo a lei una spiegazione che so darmi da sola: perché i gravi problemi delle nostre periferie si risolvono dando la caccia ai migranti, specialmente se bambini e ragazzi non accompagnati? Perché nessuno ha dimostrato in che senso e per quali ragioni quella presenza è un problema che non può più essere tollerato?
Milena

HO NOTATO ANCHE IO, che non esiste una casistica, governativa o comunale, sui danni dell’ingombro. Ma non si è ascoltato alcun racconto di gruppo o di persone che potrebbe testimoniare il disagio di certi arrivi, e dimostrare che sono troppi. Per esempio la famosa goccia che ha fatto traboccare il vaso nella vicenda di Tor Sapienza era uno stupro mai avvenuto, i due morti di coltello non erano italiani (ma probabilmente uccisi da italiani) e la criminalità locale, che a Roma sta riprendendo fiato un po' dovunque, era ed è tutta italiana. Le nostre periferie hanno moltissime ragioni per protestare, ma siamo sicuri che una di quelle ragioni, e anzi la più drammatica – sia stata l'arrivo di una quarantina di ragazzi e bambini, ospiti di una cooperativa, così soli e così legati alle volontarie che li hanno assistiti per prime da voler ritornare (benché abbiano visto una folla minacciosa per due notti, contro i cancelli dell'edificio che li ospitava) sfidando l'ordine della polizia e abbracciandosi a chi si era preso cura di loro, nonostante l'evidente pericolo di restare sul posto? Poi è arrivato l'Infernetto, e quasi certamente ci saranno altri episodi, perché sono organizzati. È vero che i cittadini di certi quartieri giustamente si domandano: perché da noi e non ai Parioli? Ma è la stessa ragione per cui case editrici, centri studi, nuove facoltà universitarie, studi di architettura, uffici di tutti i tipi si spostano fuori dalle mura per abbattere il fattore affitto. Quanto al centro storico, ci sono decine e decine di edifici abbandonati che nessuna forma di volontariato avrebbe la forza di rendere abitabili. Marciscono vuoti non perché qualcuno non voglia “negri” in certi quartieri (nessuno interpella nessuno né all'Infernetto né ai Parioli, quando cambia anche solo il senso di traffico di una strada, vedi la vicenda penosa e mal condotta della pedonalizzazione). Il fatto è che manca una gestione complessiva del vuoto e del pieno della città, e nelle pagine di pubblicità dei giornali romani si nota che interi nuovi pezzi di città (brutti, vuoti e che restano vuoti) sono in offerta speciale molto al di là di Tor Sapienza e dell'Infernetto. Resta il dubbio che la rivolta sia frutto del lavoro associato di Lega & Casa Pound, da un lato, e di controllo locale delle strade da parte dei cittadini non proprio integerrimi che non amano vedere polizia in strada e stanno più tranquilli senza controlli. Ma fa luce su tutto il caso dei rom. Non c'è alcun affollamento, non c'è alcun arrivo, sono parte di questo Paese da secoli, e dall'utimo censimento erano (e sono) 150 mila, metà donne, metà bambini. È uno scandalo se restano nei campi, e bisogna abbatterle i campi con le ruspe. È uno scandalo se viene assegnata a una sola famiglia rom una casa popolare. Dalle Nazioni Unite di New York hanno visto giusto quando hanno rimproverato l'Italia di non saper accogliere. Alcuni italiani “brava gente” sono molto intolleranti, e il problema comincia in quel punto, il pregiudizio e nei promotori di odio e paura. Proprio quel pregiudizio, quella paura e quella ossessione dei confini che ci ha portato, lo scorso secolo, a due guerre spaventose e a persecuzioni che non dimenticheremo mai.

il Fatto 20.11.14
Cgil e Uil isolano Cisl: Sciopero il 12, lite col governo
di Salvatore Cannavò


IL MINISTRO POLETTI DÀ FORFAIT AL CONGRESSO DEL SINDACATO DEL NEO SEGRETARIO BARBAGALLO: “AVETE DECISO L’ASTENSIONE? ALLORA NON PARLO”. FISCHI E PROTESTE IN SALA

Fate lo sciopero? E io non parlo”. Quando il ministro Giuliano Poletti comunica questa decisione ai dirigenti della Uil e quando questi la rigirano alla platea, i fischi non si contano. La distanza tra governo e sindacati non potrebbe essere raccontata meglio. Se fino a qualche giorno fa la contesa sembrava tutta interna alla sinistra, con uno scontro all’ultimo sangue tra Matteo Renzi e la Cgil, la decisione della Uil di proclamare lo sciopero generale il 12 dicembre, insieme a Susanna Camus-so, rappresenta una novità. Non solo perché mette improvvisamente il sindacato che da domani sarà guidato da Carmelo Barbagallo sotto i riflettori. Non solo perché a essere isolata, ora, è la Cisl, divenuta la più moderata delle tre centrali sindacali. Ma perché il sindacato decide di mettersi maggiormente in sintonia con un disagio sociale ormai percepibile a occhio nudo. E anche perché i rapporti con i governi non sono più quelli di prima. Un fossato è stato scavato.
LA DECISIONE di fissare la nuova data viene presa al mattino, prima che il congresso della Uil, al palazzo dei Congressi di Roma, abbia inizio. Susanna Camusso, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo si incontrano velocemente. La posizione della Cisl è chiara, gli altri l’hanno potuta leggere nell’intervista a Repubblica: “Noi non scioperiamo, non è lo strumento adeguato, siamo disponibili solo a scioperare nel pubblico impiego”. “È stato molto scortese leggere le dichiarazioni prima del nostro incontro”, chiosa Camusso che, nella veloce chiacchierata a tre, rinsalda l’asse con Barbagallo e la Uil. Il rapporto verrà ribadito poi, nel pomeriggio, quando la leader Cgil parla all’assemblea congressuale: “Con Barba-gallo faremo una lunga strada”, promette tra gli applausi. La novità nel congresso del sindacato diretto fino a ieri da Luigi Angeletti, che da segretario uscente terrà la relazione introduttiva - tutta contro il premier, accusato di favorire i licenziamenti e di voler governare il paese “con i tweet” - si percepisce nella sala eccitata da tanta attenzione.
Barbagallo è sommerso da camera-men e fotografi e rilascia dichiarazioni una dietro l’altra. Accetta di parlare anche con Il Fatto: “Lo avevamo già stabilito alla conferenza di organizzazione che dobbiamo fare più sindacato, stare di più a contatto con i lavoratori e sui posti di lavoro. Oggi diamo un segnale”. Il leader Uil non pensa di aver tradito il solido asse con la Cisl: “Abbiamo già fatto iniziative con la Cgil e anche da soli, non è una novità. Stiamo al merito. Il governo ha avuto tre mesi per darci una risposta e non ce l’ha data”. Quindi sciopero. Anche per difendere le prerogative sindacali: “Se il governo non discute coi corpi intermedi e le parti sociali nel paese si genera una fuga in avanti che non fa bene a nessuno”.
LA QUESTIONE della mediazione sociale è molto presente in questa nuova fase della vita del sindacato. Le piazze in fermento fanno smuovere organizzazioni che si erano abituate all’andamento tranquillo della concertazione. Quella relazione non esiste più, ne sono tutti consapevoli. Tranne, forse, la Cisl. Furlan, al Fatto, conferma che nel Jobs Act (andrà venerdì in Aula) “ci sono novità positive” e che il sindacato “può ancora trattare degli avanzamenti”. Ribadisce che sul pubblico impiego la Cisl sciopererà. Però, come conferma la proclamazione dello sciopero decisa per il 1 dicembre, lo farà da sola. Nonostante la mobilitazione unitaria con Cgil e Uil, alla fine l’incastro tra esigenze e scelte diverse, ha prodotto una duplicazione degli appuntamenti. Il 12 dicembre, lo sciopero sarà generale con manifestazioni territoriali e riguarderà gli iscritti a Cgil e Uil. Il 1 dicembre, sarà riferito al solo pubblico impiego, e riguarda la sola Cisl. Un bel risiko. Per il governo, in ogni caso, si tratta di una sconfessione. La reazione di Poletti conferma la difficoltà: “Questa mattina - ha scritto in una nota qualche ora dopo il rifiuto di parlare dal palco - ero presente al congresso per rispetto verso un’importante sindacato. Mi aspetterei analogo rispetto dai suoi dirigenti”. Divaricazione pesante, tanto più che la platea Uil non è certo un ritrovo di estremisti. Il riferimento politico resta ancorato alla tradizione socialista come dimostra la presenza, in prima fila, dell’ex segretario Giorgio Benvenuto, del segretario Psi Riccardo Nencini ma anche l’arrivo del Ncd, ma ex socialista, Maurizio Sacconi. Filippo Taddei, a nome della segreteria Pd non può che ribadire “rispetto” per lo sciopero anche se non lo condivide. Ma la Uil, come sottolinea il segretario di Roma, PierpaoloBombardieri, nel saluto iniziale, polemizzando con il Fatto, non è più un sindacato “compassato”. Di fronte all’attacco subìto, ha deciso di reagire.

La Stampa 20.11.14
Renzi attacca i sindacati: “Loro s’inventano gli scioperi, io creo lavoro”
Il premier commenta così la decisione di Cgil e Uil di dichiarare lo sciopero generale. «La Camusso? È come Salvini»
di D. L.

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Corriere 20.11.14
Renzi e la scelta di affrontare le contestazioni
di Maria Teresa Meli


ROMA «Questo giochetto mi ha rotto le scatole»: Matteo Renzi è un tipo che va per le spicce, e quando affida ai collaboratori i suoi pensieri, è ancora più esplicito. Al ritorno dall’Australia, il premier ha trovato una situazione immutata, sotto un certo punto di vista. Il sindacato, secondo lui, «continua ad avere un atteggiamento pregiudiziale: dice solo dei no». E nel frattempo vengono organizzate — o minacciate — manifestazioni di protesta contro di lui un po’ in tutta Italia. Anche oggi in Emilia, dove il premier si appresta a chiudere la campagna elettorale. Centri sociali o sindacati che siano, la pressione su Renzi è forte. E al premier si imputa anche il fatto di non essere accorso nelle zone d’Italia travolte dal maltempo. Tutto questo a una manciata di giorni da una tornata elettorale in Emilia e in Calabria. Renzi è convinto che non sia un caso. E testardo com’è è pronto a prendersi fischi e insulti, ma oggi visiterà lo stesso le imprese dell’Emilia e gli amministratori dei comuni alluvionati di quella ragione. Accetta la sfida e rilancia: «Non ho paura delle contestazioni. Se qualcuno spera di tenermi rinchiuso a Palazzo Chigi si sbaglia di grosso. Io non rinuncio a girare per l’Italia». E poi Renzi non rinuncerebbe per nulla al mondo a questo giro elettorale, anche perché la prima tappa del suo tour sarà Parma, dove sarà ospite del sindaco Pizzarotti, cinque stelle in odore di scomunica. È un’occasione più che ghiotta, per chi intende impostare la campagna elettorale esattamente come quella delle europee: «Noi siamo la speranza contro la rabbia». Allora quella fu la carta vincente: di fronte al Grillo urlante, gli italiani preferirono il Renzi che prefigurava un Paese diverso. Ora i focolai della rabbia si sono estesi. C’è la Lega, che cresce, c’è la Cgil, che si è schierata contro il premier e alla quale il premier continua a non concedere niente.
Riuscirà Renzi a fare il bis delle europee? Sulle percentuali del Pd è più che tranquillo. Il problema è un altro: si allargherà o no il fenomeno dell’astensionismo? Lo stesso problema si presenterà nelle regionali 2015, con la differenza che lì bisognerà anche sedare i litigi nel Pd. Tant’è vero che si pensa di offrire la candidatura alla leadership della Campania a un esponente Ncd e di presentare in quella regione una coalizione identica a quella che attualmente regge il governo nazionale.

La Stampa 20.11.14
Lo scontro più duro
di Federico Geremicca


Ora che il quadro è quasi del tutto definito, si può dire - senza timore di smentita - che quella che attende il Paese è una stagione di mobilitazione senza precedenti.
Infatti, nonostante la presa di distanze della Cisl, l’articolazione di iniziative sindacali e di scioperi già annunciati, delinea una resistenza - e anzi un contrattacco - di una durezza mai riservata, in epoca recente, a nessun altro governo prima: non a quelli di Silvio Berlusconi, non all’esecutivo «rigorista» di Mario Monti e nemmeno al breve governo presieduto da Enrico Letta. 
Se l’obiettivo di Matteo Renzi, insomma, era mostrare al mondo - plasticamente - l’indipendenza del suo governo dalle «pretese concertatrici» del sindacato, ebbene lo ha centrato. Le conseguenze di un conflitto che già sembra fuori controllo, appaiono imprevedibili sui tempi medi. Ma la durezza dello scontro avviato sottintende due verità tra loro solo apparentemente contraddittorie. La prima: che conviene archiviare l’accusa di «annuncite» solitamente rivolta a Renzi (un governo che si fosse limitato ad annunci, non avrebbe scatenato una così possente risposta sindacale). La seconda: la parabola del premier sembra - essa sì - aver cambiato verso, e dopo mesi di ottimismo di fronte al presidente del Consiglio si profila una salita ripida e densa di rischi imprevedibili.
La circostanza che la Cisl abbia deciso di non aderire allo sciopero generale che Cgil e Uil hanno annunciato ieri per il 12 dicembre, cambia non di molto la sostanza delle cose. Certo, sembra prefigurare un rapporto bellicoso tra due «prime donne» (Susanna Camusso e Anna Maria Furlan) poco inclini a porgere l’altra guancia, ma non sposta di una virgola la questione: una manifestazione nazionale già alle spalle (quella della Cgil a piazza San Giovanni); lo sciopero Cisl della pubblica amministrazione, il primo dicembre; le iniziative già messe in campo dalla Fiom (dopo Milano, ecco Napoli, Palermo e Cagliari...); il 12, infine, lo sciopero generale annunciato ieri. Un «bollettino di guerra», insomma, che dovrebbe preoccupare (e molto) chi siede a Palazzo Chigi.
E non è detto che, al di là dei toni sempre ottimisti e dell’annunciata volontà di tener duro tanto sull’essenza del Jobs Act quanto sulla filosofia della legge di stabilità, Matteo Renzi non cominci davvero a preoccuparsi, di fronte ad una situazione che - al di là del braccio di ferro con le organizzazioni sindacali - pare deteriorarsi rapidamente. Gli ultimi sondaggi, del resto, danno il Pd in leggero calo di consensi, il governo in deficit di fiducia e lo stesso premier un po’ declinante in quanto a popolarità e affidabilità.
Per di più, domenica sera potrebbero arrivare gocce capaci, se non di far traboccare, certamente di colmare il vaso. Dal voto regionale in Emilia Romagna e Calabria, infatti, non è più detto che giungano - a differenza di quanto poteva apparire scontato ancora un paio di mesi fa - notizie incoraggianti per il segretario-presidente: e il primo stop elettorale (e magari perfino una troppo bassa affluenza alle urne) potrebbe spingere Renzi a fare un punto per decidere se modificare percorso e strategie immaginate, e soprattutto in che modo e in quale direzione.
E’ anche per questo che il sordo tam tam sul rischio di elezioni anticipate ancora non cessa. Certo, la conferma che Giorgio Napolitano sia ad un passo dal lasciare l’incarico (come annunciato fin dalla primavera 2013) e che non intenda procedere all’ennesimo scioglimento delle Camere, ha sicuramente cambiato il quadro: ma non fino al punto da zittire quelle voci. E la situazione non deve essere affatto in sicurezza, come si dice, se ieri due voci autorevolissime (quella di Gaetano Silvestri, ex presidente della Corte Costituzionale, e di Anna Finocchiaro, presidente della Commissione Affari costituzionali del Senato) hanno chiesto una norma che renda applicabile la nuova legge elettorale - l’Italicum - anche in caso di non ancora definitiva riforma del Senato. E’ una sollecitazione che somiglia molto all’antico fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio. Perché se i mille giorni chiesti da Renzi diventassero cento... ecco, meglio esser attrezzati e preparati a fronteggiare anche l’inedita situazione.

Corriere 20.11.14
Una democrazia da rifondare
Tante speranze (quasi) tradite
di Ernesto Galli della Loggia

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La Stampa 20.11.14
La sorpresa potrebbe essere Salvini
di Marcello Sorgi


Per il clima in cui si svolgeranno - Cgil e Uil hanno annunciato ieri sera una giornata di sciopero generale per il 12 dicembre - le prossime elezioni regionali in Emilia e Calabria rappresentano un test innanzitutto per Renzi e per il governo: questo spiega perché il premier ha deciso di impegnarsi in prima persona sul territorio, mettendoci la faccia, come suol dire. Ma mentre Renzi parte favorito e la vittoria del centrosinistra appare scontata nei pronostici della vigilia, con l’incognita di una massiccia astensione che potrebbe ridimensionarla, le sorprese maggiori potrebbero riguardare il centrodestra, che si presenta al voto in ordine sparso.
La sorpresa di questa tornata, se lo aspettano tutti, sarà Salvini. Il leader della Lega che ha ridisegnato l’identità del suo partito in senso radicale, ellenista e nazionalista, supera ormai stabilmente il dieci per cento in tutti i sondaggi. E cosa succederebbe se lunedì, a urne aperte, venisse fuori che in Emilia il Carroccio è diventato il primo partito del centrodestra, davanti a Forza Italia? È un’ipotesi assolutamente plausibile, considerato che il leader leghista è secondo solo a Renzi, quanto a fiducia e popolarità, e sopravanza da un pezzo l’ex-Cavaliere, che soffre per le limitazioni impostegli dall’affidamento ai servizi sociali e ieri, all’ultima ora, è tornato a farsi vivo annunciando un «no tax day» e un inasprimento dell’opposizione fin qui morbida al governo. Per Salvini il primato, sia pure parziale, nel centrodestra è un obiettivo a portata di mano, così come la possibilità che nella nuova tornata di regionali in primavera il Veneto a guida leghista sia l’unica regione a resistere all’avanzata renziana. Inoltre, sempre nell’ambito limitato del voto di due regioni, «l’altro Matteo» potrebbe superare in voti anche Grillo, che vanta una roccaforte elettorale a Parma, ma potrebbe scontare una certa stanchezza del suo elettorato.
Le conseguenze di una simile svolta - ammesso che si realizzi, tutta o in parte - non riguarderebbero solo il centrodestra. È ovvio che Salvini, dopo aver preso le distanze da una ricomposizione dell’alleanza a guida berlusconiana a cui Bossi e Maroni si erano adattati per vent’anni, sarebbe sempre più portato a marcare la propria autonomia, presentandosi da solo in tutte le prossime scadenze e misurando così il suo potenziale di crescita, con la prospettiva di rafforzarsi,ma di restare all’opposizione. Tuttavia un’eventuale vittoria su Grillo, con cui il leader della Lega ha già incrociato le lame su temi sensibili per gli elettori limitrofi dei due movimenti, come ad esempio la battaglia contro l’euro, accrescerebbe le ambizioni elettorali della Lega. Renzi a quel punto si ritroverebbe con un alleato insperato nel tentativo - eventuale quanto si vuole - di rompere il passo all’inizio del prossimo anno e provare ad andare ad elezioni anticipate.

il Fatto 20.11.14
Landini, il liberatore solo e il tradimento dei giovani
di Luigi Galella


È un’immagine che ritorna: la figura mitica dell’eroe vicino al “popolo” – di un Risorgimento tanto ideale quanto fallimentare – che dal popolo stesso anziché accolto viene aggredito e insultato. Già evocata e sublimata fantasiosamente nel 1974 in Allonsanfan dei fratelli Taviani, si ripropone nell’attualità politica e mediatica, i cui termini sono sempre più stretti e interconnessi.
Nel 1857 la spedizione di Carlo Pisacane – cui i Taviani parzialmente si ispirarono per il loro film – si concluse in un eccidio, perché i contadini che i mazziniani e i rivoluzionari volevano liberare dall’oppressione borbonica, anziché attendere a braccia spalancate il manipolo di liberatori, li infilzarono con falci e forconi. Non c’è nulla di più labile e fluttuante della categoria “popolo”. Oggi come ieri. Ne fa le spese talvolta chi a esso si sente contiguo, chi ne prende le parti e ne brandisce idealmente le ragioni, chi vorrebbe lottare per la sua causa, ma viene proditoriamente ricacciato indietro dal popolo stesso. È il caso di Maurizio Landini, (Anno Uno, La7, giovedì, 21.15) – che ha le stimmate dell’eroe ottocentesco – indotto a dialogare con una realtà, scivolata via via su una china incerta – al centro di un parterre di giovani, che lo incalzano quasi con astio pretestuoso, come fosse un qualsiasi Tony Blair, costretto a giustificarsi di aver sostenuto la guerra in Iraq.
LE ACCUSE sono quelle generiche e rivendicative, di chi ritiene che i “sindacati” non abbiano fatto gli interessi dei “non garantiti”. Il leader della Fiom sembra colpito da tanta vis polemica, anche se cerca di parare i colpi e ribattere. Ma ciò che emerge nella dialettica del talk è la solitudine del “liberatore”, quasi il suo sgomento, non perché non abbia argomenti, anzi, ma perché gli appare curioso e doloroso che debba utilizzarli – da sindacalista “politico”, che non si occupa solo di contratti, ma a cui sta a cuore che non vengano lesi i diritti dei lavoratori – contro coloro cui la sua battaglia si rivolge. Come un insegnante, che avesse dedicato la vita intera alla causa dei giovani, votato alle sue finalità educative e professionali, che dagli alunni infine, anziché un grazie, ricevesse indifferenza, incomprensione e ostilità. O come chi si trovasse in Pakistan, in una di quelle regioni in cui i piccoli già a quattro anni tessono tappeti per poche rupie, e pensasse di lottare per liberarli dalla schiavitù, scoprendosi solo nella sua battaglia, perché sono gli stessi genitori che li vendono o affittano, quei bambini, e l’intero sistema economico del Paese che ci prospera. La solitudine del liberatore è un paradosso straniante.
Il diritto allo studio, la politica industriale, l’articolo 18, la tutela dei principi costituzionali: gli argomenti di Landini, che rappresentano la sua piattaforma di richieste al governo, si infrangono contro la diffidenza di coloro che non vogliono ascoltare ragioni, che percepiscono superate dalla realtà, ma che fino a poco tempo fa a tutti sembravano incontestabili. Nulla sembra smuovere quei giovani animosi, che navigano nel mare dell’oggettività, senza orizzonti né orientamento, incantati dall’unico refrain: meno diritti, più lavoro.
Come se l’equazione e l’approdo, peraltro, fossero scontati e non tutti ancora da dimostrare.

Repubblica 20.11.14
Il rischio del cortocircuito tra bicameralismo e legge elettorale
Pensato per il monocameralismo il nuovo sistema di voto dovrà essere applicabile anche per la Camera Alta
di Stefano Folli


COME nella favola di Andersen, qualcuno ha detto che “il re è nudo”. In questo caso è nudo il progetto di riforma elettorale, dal momento che l’ex presidente della Corte Costituzionale, Silvestri, ha ricordato come la nuova legge, quando sarà approvata, dovrà essere applicabile anche al Senato. Ovvia la ragione: siamo tuttora in un regime bicamerale.
La materia è astrusa, ma siamo arrivati al punto in cui la propaganda deve lasciare il campo al realismo. Altrimenti, a furia di approssimazioni successive, si finisce nel classico vicolo cieco. Ed è merito di Anna Finocchiaro, presidente della commissione Affari Costituzionali di Palazzo Madama e relatrice della legge di riforma, avere subito accolto il rilievo di Silvestri, ammettendo che si tratta di un aspetto che il Parlamento non può ignorare.
In sintesi, l’ipotesi di modello elettorale già approvato dalla Camera e ora in istruttoria al Senato (l’Italicum) è immaginato per un sistema monocamerale. Presuppone cioè che il Senato sia trasformato, perdendo il potere costituzionale di votare la fiducia ai governi e di approvare le leggi su un piede di parità con Montecitorio. Tuttavia questo è solo l’obiettivo del processo in corso: al momento il sistema resta saldamente bicamerale. Se, per esempio, si ponesse l’urgenza di sciogliere le Camere fra tre mesi, l’assemblea di Palazzo Madama dovrebbe essere rieletta tale e quale, poiché l’iter del disegno di legge costituzionale è lungi dall’essere concluso. Nel frattempo però potrebbe essere in vigore il nuovo Italicum monocamerale, come è nei voti di Renzi e di tutti coloro che premono per fare in fretta (peraltro la legge è stata a sua volta modificata con il premio di maggioranza al singolo partito e non più alla coalizione).
Cosa accadrebbe in quel caso? Un discreto pasticcio, fa sapere Silvestri. E Anna Finocchiaro riconosce che il problema esiste. Tant’è che occorre prevedere una leggina o un comma per estendere l’Italicum anche al Senato, finché quest’ultimo resta in piedi. Vero è che in tanti, compreso il presidente del Consiglio, hanno usato l’argomento dell’asimmetria fra Camera e Senato per rassicurare i dubbiosi e quanti temono le elezioni anticipate: vedete, non si può andare a votare perché la legge è fatta per un’Italia monocamerale e invece abbiamo ancora il Senato (almeno per un altro anno, forse un anno e mezzo).
Ma non è così. Lo scioglimento delle assemblee, tipica prerogativa del capo dello Stato, deve poter avvenire in ogni momento, se le circostanze lo consigliano. Quindi è la legge elettorale che si adeguerà alla Costituzione e non viceversa. Chi vuole un sistema monocamerale, ha solo da attendere con pazienza la riforma del Senato. Prima di allora la legge elettorale deve applicarsi immediatamente a entrambe le Camere. Ne derivano almeno due conseguenze.
La prima: non possono esistere ostacoli tecnici che frenano il ricorso alle elezioni. Se il Parlamento votasse una legge elettorale incongrua, è plausibile che il capo dello Stato (Napolitano o il suo successore) non la firmerebbe per manifesta incostituzionalità. In tal caso resterebbe in vigore il modello attuale, figlio della pronuncia della Consulta, che pure ha bisogno di un passaggio legislativo. D’altra parte, chi desiderasse votare in fretta, diciamo nel primo semestre del 2015, dovrà spiegare agli italiani come mai, dopo tanta retorica, il Senato è sempre lì, pronto per essere riconfermato. Seconda conseguenza: estendere l’Italicum a Palazzo Madama non è del tutto agevole. Ci sono differenze nelle due Camere che si rispecchiano anche nel metodo dell’elezione. Anche per questo i tempi della nuova legge sono destinati ad allungarsi, proiettandosi nel nuovo anno. «Occorre riflettere» dice la Finocchiaro e in tanti la pensano come lei.

il Fatto 20.11.14
Il cambio al Colle fa paura
Renzi vuole rinviare le urne
di Carlo Tecce


IL GOVERNO SAREBBE PRONTO A UN DECRETO PER SPOSTARE DA MARZO A MAGGIO LE ELEZIONI REGIONALI, TROPPO VICINE AI GIOCHI PER IL QUIRINALE

Non conviene votare, non sempre. E allora il governo di Matteo Renzi vuole rinviare le elezioni previste in sette Regioni per domenica 1° marzo 2015, e non sono Regioni minuscole o ininfluenti per la politica nazionale, e dunque per il Pd che sta a Palazzo Chigi: Campania, Liguria, Toscana, Veneto, Puglia, Umbria e Marche. I tagliandi popolari in mezzo a un mandato sono pericolosi e non ci sono gli 80 euro per attirare gli indecisi (leggi scorse Europee), ancora di più se la scadenza coincide con due appuntamenti diversi e ugualmente pesanti: la nomina del capo dello Stato, pronosticata per febbraio se Giorgio Napolitano dovesse lasciare a metà gennaio (Renato Brunetta, invece, fa sapere che slitta) e le previsioni di crescita per l’Italia dei tecnici europei di Bruxelles.
LA FINESTRA elettorale di marzo, poi, esclude qualsiasi ricorso all’urna anticipata per Renzi: chi potrebbe sciogliere le Camere? E ancora: non sarebbe semplice fare accordi con Silvio Berlusconi o con Angelino Alfano per il Colle e, a distanza di pochi giorni o addirittura in simultanea, combattere per la presa di Napoli, di Firenze o di Bari. Non ci sono i tempi tecnici e non ci sono le volontà politiche: la paura è un sentimento che tiene insieme molti partiti. Per spingere più in là lo scrutinio nelle sette Regioni è sufficiente un decreto, un provvedimento da adottare nei prossimi Consigli dei ministri per accorpare il voto di marzo con le Comunali di maggio (il giorno esatto non è ancora fissato). Quel mese, se fosse necessario, potrebbe ospitare anche le Politiche. Che i responsi elettorali siano un fastidio lo s’intuisce già dalle complicate campagne per la Calabria, dove si fa mucchio a sinistra e si collabora con la destra e per l’Emilia Romagna, dove l’astensione è data per favorita: lunedì ci saranno i risultati, si temono delusioni un po’ per tutti, tranne per la Lega. Il calendario è condizionato, ovvio, dal destino di Napolitano. Renzi ha chiesto (supplicato?) al presidente di aspettare l’inaugurazione dei padiglioni dell’Expo di Milano (cioè maggio): non soltanto per celebrare l’Esposizione universale, ma per guadagnare settimane preziose per le riforme costituzionali e la legge elettorale. La ridda di voci su Napolitano non s’è scatenata per indiscrezioni del Quirinale, ma di certo la discussione pubblica sul Colle con i più svariati appelli (“resti”, “vada”, “un dramma”, “una manna”) ha corroborato le esigenze di Renzi: il problemone successione non è ancora risolto.
Il governo ripete che l’Italicum sarà confezionato entro quest’anno: la scommessa ha quotazioni altissime, pare perdente. A Montecitorio, in commissione Affari istituzionali, i renziani sono in netta minoranza rispetto ai bersaniani e oppositori vari. E intorno ai dem si agita la riscossa degli ex comunisti e diessini sconfitti. Questi sono i motivi che suggeriscono a Renzi di spostare il voto regionale a maggio, potrà dire che l’ha deciso per risparmiare milioni di euro e per non stancare gli italiani col doppio impegno elettorale. Oltre a Napolitano, alla finestra per le Politiche, alle alleanze trasversali e al calvario costituzionale, ci sono ulteriori esigenze: ci sono candidati che potrebbero fallire come Alessandra Moretti in Veneto e candidati che non si trovano.
ESEMPLARE il caso in Campania. Renzi vuole una donna da contrapporre a Stefano Caldoro. Pina Picierno, per le origini campane, esattamente casertane (Teano), si sentiva la donna più adatta. Ha organizzato una manifestazione, un mese fa, per lanciare se stessa e Gennaro Migliore a sindaco di Napoli. L’invidiabile produzione di gaffe televisive ha reso impervia la strada di Pina e in Campania i più attivi, pronti a gareggiare alle primarie, sono Vincenzo De Luca e Andrea Cozzolino. Il duello sarebbe dannoso per i dem. Ma il sindaco di Salerno e l’ex uomo di Antonio Bassolino non si fanno manovrare con leggerezza, in cambio di nulla. A De Luca, che ha i suoi guai giudiziari, potrebbe andare bene il salto all’Autorità portuale di Napoli e Salerno. Per stare sereni, meglio far traslocare le Regionali a fine maggio. A quel punto, va bene un grande election day. Con pronuncia renziana, chiaro.

il Fatto 20.11.14
Volti democratici Moretti e le altre
Le tre europarlamentari Pd Alessandra Moretti, Pina Picierno e Simona Bonafè. A Strasburgo combinano poco ma sono sempre in tv
C’è grossa crisi al front office del Nazareno
di Paola Zanca


Accessori indispensabili per una serata sul divano: telecomando, cuscino anticervicale e dosi massicce di Maalox. Ogni volta che accendono la tv, quelli del back office, aumentano di un punto il loro rischio di bruciori di stomaco. Sono le truppe nelle retrovie del Renzi I, i parlamentari del Pd lasciati in panchina, costretti al quotidiano confronto con il front office del Nazareno. E Matteo volle che quel ruolo - di certo complesso, ma di garantita carriera - fosse riservato quasi in esclusiva alla pattuglia femminile della sua squadra. Lungi da noi, quindi, mettersi a costruire categorie di genere sulla efficacia comunicativa del renzismo: è che - tolti i Gozi, i Nardella, i Carbone e la new entry Andrea Orlando - è di donne che ci tocca discutere quando parliamo delle relazioni pubbliche del Pd. Otto ne ha messe al governo e una è diventata Lady Pesc. Ma mai, quando Federica Mogherini saliva a capo della politica estera europea, avremmo immaginato di ritrovarci con Lady Like. Copyright di Alessandra Moretti, europarlamentare (ieri vivisezionata da Libero insieme alle colleghe di cui parleremo più avanti: zero interrogazioni, zero mozioni, zero report, si piazza 670esima su 749 quanto a produttività) ora in corsa alle primarie per il candidato governatore del Veneto: “Si dice che sono quella che può mettere più in difficoltà Zaia”, confessa. Ma si fosse limitata a non peccare di modestia, sarebbe il meno. No, la Moretti, al Corriere.it   ha snocciolato il nuovo impegno per la cittadinanza tutta: “Ho deciso di andare dall’estetista ogni settimana”. È lo stile “Lady Like” e se non vi piace peggio per voi. “Sappiano che non ci intimidiscono”, tuona la Moretti a chi dovesse osare criticare la tinta ogni sette giorni. Ieri ha chiesto a Twitter di “verificare” il suo account: guai a scambiarla per un fake, vuole che si sappia che è tutta farina del suo sacco. Poi, chiude ogni messaggio con #Alè: è il diminutivo del suo nome, ma sa tanto di overdose da Floris. E proprio lì, martedì sera, Pina Picierno (all’europarlamento lei è 394esima, a metà classifica) ha subìto “la prova della piazza”, come profeticamente recitava il titolo della trasmissione. Già temprata dai cori di scherno quando sostenne che con 80 euro ci si fa la spesa per due settimane, non paga di aver accusato la Camusso di essere leader di un sindacato che si regge su tessere false e pullman pagati, l’altra sera ha tentato di parare i colpi di Fuksas e Costamagna ripetendo ossessivamente la parola “cambiamento”. Stile di squadra. Ecco la replica di Simona Bonafè (due interrogazioni e quattro discorsi, 414esima a Strasburgo) al dibattito aperto dal collega M5S Piernicola Pedicini su idrocarburi, estrazioni petrolifere e altre questioni ambientali: “Mi sembrano questioni talmente tecniche che in questa sede che è più politica forse varrebbe la pena concentrarci su altre tematiche e soprattutto evidenziare lo sforzo tutti insieme, perché di questo si tratta, veramente per portare dei cambiamenti fin da ora alle politiche di cambiamento climatico”. O le domande sono troppo tecniche o non sono abbastanza “di rinnovamento”. Così spiegò il ministro Marianna Madia ai giornalisti che volevano sapere se per lei la Pubblica amministrazione “si può chiamare unfardello”. In attesa della risposta, perfino la Cisl ha deciso di scioperare.
Ciò che non poté il Jobs Act, poté la Madia. Lei sì che è “di rinnovamento”.

il Fatto 20.11.14
Destra e sinistra?
Moretti-Minetti, trova le differenze
di Daniela Ranieri


Bei tempi di indignazione collettiva e profluvio di sani valori comuni, quando Nicole Minetti (condannata a 3 anni in appello al processo Ruby Bis e in odore di Isola dei Famosi) venne catapultata sulla scena politica dall’impresario più spregiudicato del mondo. Anche i più ingenui tra noi fecero una faccia perplessa e maliziosa. Da igienista dentale personale di B., faceva il suo ingresso nel panorama pubblico come consigliera regionale e, pagata da noi, stracciava col fisico del ruolo da pupa-del-boss il famoso “merito” femminile, rovello dei maschi di potere. Il menu politico si ampliava con un ingrediente sfiziosissimo, consegnato al mondo con la metonimia di “patonza”. Il manifesto di questa svolta, vergato nel 2011 dalla Minetti nel suo blog su Affariitaliani.it   “Il favoloso mondo di Nicole”, destò sdegno e sorrisini, e fece della sua autrice l’incarnazione dell’archetipo sempre rinnovantesi della cortigiana dotata che accede al potere immeritatamente o, peggio, per meriti indicibili.
Oggi il vento rosa renziano riapre quelle pagine e le sciorina a nostra edificazione. Nessuno può dire, se non a occhio, che le ministre del governo-WhatsApp di Renzi siano delle belle senza cervello miracolate dalla confidenza col capo; e tantomeno che, insieme alle loro funzioni pubbliche, siano deputate al trasferimento di minorenni straniere arrestate e implicate in giri poco chiari col presidente del Consiglio. Ma sono loro, con le continue puntualizzazioni circa i propri meriti oltre a quello di essere belle, a imporci un confronto tra la rivendicazione minettiana della bellezza come componente del talento personale e quindi del potere, e il loro orgoglio di belle signore impegnate a cambiare l’Italia. Alla diatriba sul tema “politica e bellezza” tra la caruccissima ministra Maria Elena Boschi e una politica di lungo corso come Rosy Bindi, risponde in modo diretto la neo-europarlamentare (ma già candidata a governatrice del Veneto) Alessandra Moretti con una intervista al Corriere tv. I due interventi (li trovate di seguito), letti insieme, si somigliano molto; ma in confronto a quello della Moretti, che pare un’intervista di una meteorina a Diva e Donna, quello della Mi-netti pare scritto da Simone Weil.
C’è dell’altro. La Moretti parte da una strana capriola logica: rivendicando la possibilità della concomitanza nella stessa persona di doti quali l’intelligenza, la bravura e la bellezza (rimarcata, quest’ultima, dalla sottolineatura di andare dall’estetista, come se le brutte non ci andassero o fossero brutte perché non ci vanno), associa tanta fortuna alla certezza di essere giudicata da non precisati interlocutori poco seria e preparata. In sostanza, è lei che pensa male di noi, e forse pure di se stessa. L’operazione della Minetti era onesta e raffinata: affermando che essere belle è un potere di per sé, non si proclamava bella (e dunque “facilitata”), ma pronta ad assumere il potere in un mondo che considerasse finalmente la bellezza femminile una “energia” e non un difetto da annientare. Invece nella rivendicazione della Moretti l’elemento politico è relegato sullo sfondo, come contesto: la bellezza è usata come uno scudo logico (se mi attaccate, è perché sono bella e intelligente), di modo che ogni volta che la sua performance politica viene criticata, lei e le sue colleghe sono già pronte ad attribuire a chi le disapprova il vizio di usare il sillogismo “bella quindi scema”.
È un modo astuto di neutralizzare le critiche, molto più furbo di quello di accusare di misoginia chiunque si azzardi a criticare una donna, anche perché le critiche le anticipa, inibendole. Così la Moretti ci fa un numero sotto il naso: io non posso essere incompetente perché chi mi accusa di ciò è un miserabile abituato a considerare sceme le donne belle. E realizza un piccolo capolavoro: sottintendendo che essere belle e consapevoli (ladylike, come dice con un orribile neologismo), vuol dire appartenere al presente, rottama la vecchia guardia su un fronte inedito della guerra renziana. In realtà, trattando di fatto Rosy Bindi come la trattava B., rivela che il modo berlusconiano, primitivo e misogino, di usare le donne in politica, non è stato affatto abolito da Renzi, che l’ha solo verniciato di furbissimo rosa.
Voglio avere il mio stile femminile, la cura di me stessa, la voglia di essere sempre a posto. Questo è un quid in più. La bellezza fa notizia e quindi la donna bella deve essere sempre incorniciata, diciamo così, in un recinto negativo, quindi sei bella ma scema, mentre la bellezza non è affatto incompatibile con l’intelligenza. Rosy Bindi ha avuto il suo stile, diciamo che il nostro è uno stile diverso, ma per fortuna che è diverso; è cambiato il mondo, è cambiata la politica, non possiamo avere lo stesso stile delle donne di trent’anni fa. Era uno stile più austero, più rigido, uno stile anche che mortificava in qualche caso la bellezza, la capacità di mostrare invece un volto piacente. Io per esempio ho bisogno di andare dall’estetista ogni settimana. Cosa faccio dall’estetista? Qualsiasi cosa, mi prendo cura di me. Mi faccio le méches, mi faccio la tinta, poi non entriamo in altri particolari. Mi potranno criticare, perché come devo venire, con i peli, i capelli bianchi? Perché io che ho un ruolo pubblico, che rappresento tante persone, tante donne, voglio rappresentarle al meglio. Sappiano che non ci intimidiscono, anzi che più fanno così più continueremo a essere più belle, più eleganti, più curate, più brave, più pronte, più tenaci, più coraggiose. Ma che c’hai, che t’ho fatto? Ma perché c’ho gli occhi blu? Perché sono anche bella oltre che brava? Ti dà così fastidio? La gente mica è scema, capisce: sei brava e intelligente, allora ti attaccano. Sei brava, intelligente e bella, ti attaccano ancora di più. (…). Perché il nostro stile di fare politica è uno stile ladylike, uno stile che deve piacere.
(Alessandra Moretti)
A parte i giochi di parole, mi piacerebbe “provocare” un pensiero, suggerendo una riflessione: perché urlare che “le donne sono diverse” se abbiamo lottato per la parità dei sessi? Suona come un’incoerenza. È visibile il fraintendimento: vogliamo affermare il potere delle donne dimenticando la nostra femminilità? La bellezza non è una qualità minore, ma un punto di forza. Non è un dettaglio estetico, ma un potere che viene da dentro. Si dice “quello che seduce spaventa”, vero, ma non cadiamo nella trappola di chi se ne è accorto e ha cercato di annientare questa energia, facendola addirittura diventare un difetto, mortificandola. Non cediamo alla banale uniformità bella/stupida, è un risultato parziale. Consideriamo nella somma tutti i fattori, e dimostriamo che il risultato cambia ogni volta. Prendiamo l’esempio di una donna, oggi, che lavora: se nell’operazione aggiungiamo i doveri professionali, il ruolo di madre e lo stato di moglie, non possiamo escludere i fattori suoi più personali: l’amore per se stessa e per la sua immagine, la sua intimità.
(Nicole Minetti)

il Fatto 20.11.14
L’aereo blu della Pinotti vola verso il tribunale dei politici
Quirinale addio
di Marco Lillo e Valeria Pacelli


LA CANDIDATA AL QUIRINALE POTREBBE ESSERE INDAGATA PER IL FALCON SU MISURA CHE L’HA PORTATA A CASA NONOSTANTE FOSSE IN MISSIONE DI ADDESTRAMENTO

Roma, i pm stanno per trasmettere gli atti su “Lady Difesa” (che sarà iscritta nel registro degli indagati) per l’uso “ad personam” di un aereo militare. Si complica l’operazione per paracadutarla al posto di Napolitano. Oggi il M5S, autore dell’esposto, l’attende al varco in Parlamento
Il caso del volo “di addestramento” su misura del ministro Roberta Pinotti potrebbe arrivare al Tribunale dei ministri entro fine novembre, intralciando la sua corsa al Quirinale. Il procedimento nato dall’esposto dei deputati M5S Luca Frusone e Alessandro Di Battista potrebbe subire questo destino: entro la fine di questa settimana il ministro potrebbe essere iscritto sul registro degli indagati dal pm Roberto Felici. Ed entro fine novembre il procuratore capo Giuseppe Pignatone potrebbe trasmettere il fascicolo al Tribunale dei ministri. Le conseguenze politiche sarebbero pesanti: le eventuali indagini entrerebbero nel vivo proprio alla vigilia della corsa per il Quirinale che vede Roberta Pinotti in buona posizione.
PER ORA si indaga contro “ignoti” ma l’iscrizione del fascicolo per il peculato d’uso (e non per abuso d’ufficio) sembra indirizzare le possibili investigazioni proprio sul soggetto che, per i parlamentari grillini, è stato il beneficiario del volo Roma-Genova del 5 settembre. Il fascicolo dovrebbe arrivare al Tribunale dei ministri entro il 28 novembre perché quel giorno scadono i 15 giorni dalla presentazione dell’esposto e la legge prevede che “il procuratore della Repubblica, omessa ogni indagine, entro il termine di 15 giorni, trasmette con le sue richieste gli atti relativi al collegio dei reati ministeriali”. Il procuratore dopo l’iscrizione potrebbe suggerire al Tribunale dei ministri di acquisire tutta la documentazione sul volo “incriminato” compresi i piani di volo pubblicati ieri dal Tg7, e la “nota del giorno” del 31° stormo pubblicata dal Fatto il 26 settembre, dalla quale risulta che il Falcon 50 che ha portato il ministro a casa quella sera, pur se classificato come volo di addestramento, sarebbe partito solo dopo l’arrivo del passeggero Roberta Pinotti di ritorno dal vertice Nato di Cardiff. Inoltre Pignatone potrebbe chiedere l’audizione dei militari per capire se il volo di addestramento sul quale Roberta Pinotti è salita il 5 settembre fosse stato programmato prima e a prescindere dalle esigenze del ministro. Dal punto di vista politico sarebbe imbarazzante per il Pd un candidato al Quirinale indagato e sottoposto ad attacco dai grillini che non mollano la presa: già stasera il M5S potrebbe porre il tema durante l’audizione del ministro sull’Isis alle commissioni Difesa di Camera e Senato. Pinotti intanto si è portata avanti con il lavoro presentando in Procura una dettagliata relazione scritta dall’avvocato del ministero della Difesa. La linea è la stessa enunciata al Fatto il 25 settembre scorso: “Il ministro aveva prenotato il 2 settembre, due giorni prima di partire per Cardiff, un volo di linea da Roma a Genova per il sabato 6 settembre alle 10 e 20 di mattina. Nei giorni successivi il ministro ha scoperto che c’era un volo addestrativo programmato dal 31esimo stormo dell’Aeronautica da Roma a Genova in notturna con istruttore e due piloti”. Pertanto, secondo il Ministero: “Il volo di addestramento ci sarebbe stato comunque e quindi abbiamo risparmiato tre biglietti, comprendendo la scorta”.
IL PUNTO da accertare è se quel volo di addestramento per Genova alle 21 del sabato si sarebbe tenuto comunque o se sia stato organizzato su misura per evitare uno scomodo pernottamento e un volo di linea. Il 31esimo stormo gestisce i voli di Stato autorizzati dalla Presidenza del Consiglio ma può usare gli stessi aerei, senza chiedere autorizzazioni a Palazzo Chigi, per l’addestramento dei piloti. Il tesoretto delle ore di volo di addestramento può essere usato discrezionalmente per far volare un politico o un generale invece di un altro. E la questione politica è questa: il ministro della Difesa dovrebbe vigilare su questa discrezionalità invece di approfittarne. Anche perché Pinotti presto dovrà scegliere il nuovo capo di Stato Maggiore della Difesa e tra i nomi più quotati c’è proprio Pasquale Preziosa: il capo di Stato Maggiore di quell’Aeronautica così attenta alle sue esigenze.

La Stampa 20.11.14
Bonus bebè, spiragli per un’intesa M5S-minoranza Pd
Toninelli: speriamo che dialoghino per aiutare le famiglie in difficoltà
di Francesco Maesano


La trappola scatta a metà della mattinata. Nell’aula del Mappamondo si palesa l’emendamento che prevede di rimodulare il bonus Irpef di 80 euro in favore delle famiglie più disagiate. Stefano Fassina contro il governo. I membri della maggioranza Pd vorrebbero che sulla questione si arrivasse a un rinvio. Il presidente della commissione bilancio Boccia tira dritto e si arriva a una sospensione. 
Mentre a palazzo Chigi inizia il vertice tra Renzi e il suo ministro dell’Economia i membri Pd della commissione si misurano tra loro. Sulla rimodulazione del bonus Irpef sono tutti contro Fassina, o quasi. «25 contro 2», riporta impietosa una voce dall’interno.
Ma sul bonus bebè le posizioni sono più sfumate e l’eco dei ragionamenti arriva fino al viceministro all’economia Morando. «Il governo ha un orientamento favorevole a prendere in considerazione la modifica della struttura del bonus bebè per aiutare i minori in situazione di povertà assoluta», concederà nel pomeriggio. Ma la tensione nel gruppo non si smorza. «Questi non hanno capito che qui si tratta di ridurre la tassazione sul lavoro, non di fornire una prestazione assistenziale», sbotta infilando l’ascensore un deputato Pd, renziano di strettissima osservanza. Dopo la pausa si arriva al voto e l’emendamento viene bocciato. Fassina, pur sconfitto, porta a casa un risultato sul bonus bebè.
Scene dal Vietnam parlamentare che dovrà attraversare la legge di Stabilità da qui al suo approdo in Aula. Il prossimo fronte, spiegano i veterani della finanziaria, è quello della decontribuzione per gli assunti a tempo indeterminato, altra proposta sulla quale maggioranza e minoranza Pd dovranno confrontarsi. Su quella il governo è poco propenso a concedere modifiche mentre sugli ammortizzatori sociali è più disponibile a trattare.
Nella terra di nessuno tra maggioranza e minoranza democratica hanno provato a infilarsi i Cinque Stelle. «Bene la conferenza stampa delle minoranze Pd sulla Stabilità. Speriamo che ora dialoghino col M5S per aiutare famiglie e imprese in difficoltà», twittava martedì sera Danilo Toninelli, che responsabile delle materie istituzionali si sta trasformando nell’uomo buono per tutte le mediazioni.
E in effetti i Cinque Stelle hanno presentato al relatore del Pd Mauro Guerra una lista della spesa con gli emendamenti ai quali i Cinque Stelle tengono davvero. Sono 37. Si va dai 200 milioni sul fondo per il trasporto pubblico all’abolizione del contributo minimale Inps per i soci di start up innovative fino a una detrazione fiscale del 72 per cento sulle spese di ristrutturazione dei capannoni agricoli e delle strutture montane. C’è anche un emendamento a prima firma Di Maio che vieta alle amministrazioni pubbliche di acquistare nuove auto blu.
Dal Movimento lamentano l’assenza di risposta da parte della maggioranza e il fronte, aperto da Toninelli, che vorrebbe provare a portare a casa qualcuno di quei punti facendo sponda con la sinistra Pd, si fa sempre più largo e convinto.

La Stampa 20.11.14
Maurizio Martina: “Non siamo dei signor no. Ma la legge di stabilità va cambiata”
“Una scissione della sinistra? Il Paese non la capirebbe”
intervista di Francesca Schianchi


Roma «Noi non siamo dei signor no. Siamo quelli che, gelosi delle proprie idee, vogliono lavorare testardamente per rafforzare sempre più i provvedimenti del governo e vincere, insieme, la sfida del cambiamento: lo abbiamo fatto con il Jobs Act e lo faremo con la legge di stabilità». Quando dice «noi», il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina parla di Area riformista, quella parte della minoranza Pd guidata dal capogruppo Speranza che si è riunita sabato scorso a Milano.
Quindi siete soddisfatti del Jobs Act?
«Il mio è un giudizio positivo: l’ho sempre considerato un’opportunità, e ora, con il lavoro fatto in Commissione Lavoro alla Camera, è ulteriormente migliorato. È la prova che i provvedimenti del governo con il contributo del Parlamento possono uscire rafforzati».
Il suo collega Fassina dice invece che verrà data libertà di licenziamento…
«Non condivido il giudizio di Fassina. Grazie al lavoro fatto alla Camera si precisa meglio la nuova disciplina dell’articolo 18 che, ricordo, era già stato cambiato dalla Fornero».
Ma come può piacere a voi sinistra del Pd un testo che soddisfa Sacconi e, parole sue, supera l’articolo 18?
«Il Jobs Act uscito dal Senato andava migliorato, e la Camera lo sta facendo anche sull’articolo 18. Noi abbiamo chiesto e ottenuto che le disposizioni finali della direzione Pd fossero accolte pienamente, con una tipizzazione delle fattispecie, che verrà fatta nei decreti attuativi. L’art. 18 è già stato cambiato dal governo Monti, ora si trattava di risolvere nodi interpretativi rimasti aperti, e lo stiamo facendo con equilibrio. Io credo che come minoranza dobbiamo dibattere e portare avanti le nostre idee: poi, quando si ottengono risultati, dobbiamo riconoscerli e valorizzarli».
Sul Jobs Act avete portato a casa risultati?
«Assolutamente sì. Il Jobs Act è la prova che anche chi si riconosce in un’area di minoranza nel Pd può dare il proprio contributo per migliorare i provvedimenti. E così andremo avanti anche sulla legge di stabilità».
Cosa bisogna cambiare della stabilità?
«Direi che si possono rafforzare alcuni obiettivi nel solco delle scelte fatte. Ad esempio, vorremmo ampliare le misure di sostegno agli investimenti delle piccole e medie imprese. Abbiamo posto il tema di una revisione del bonus bebè, e bene ha fatto il governo ad aprire a una sua riorganizzazione. Ancora, è importante avere più risorse per gli ammortizzatori sociali».
Una parte della minoranza Pd è molto più critica verso i provvedimenti del governo. Torna l’ipotesi di una scissione?
«Lo escludo. E se guardo agli interessi dell’Italia e del Pd, penso che uno scenario del genere non verrebbe proprio capito».
Giudizi severi arrivano dai sindacati: si allarga alla Uil il fronte dello sciopero generale.
«Ho il massimo rispetto per ogni mobilitazione sindacale. Quando sei davanti a scelte importanti come queste, ciascuno si prende le proprie responsabilità. La dialettica ci sta, purché non si ecceda nei toni e non si chiuda il confronto».
Apre un nuovo fronte di critica al governo anche il ricorso del Cda Rai…
«Un bel boomerang per la Rai: in un momento come questo, mi sembra giusto che anche una realtà importante come la Tv pubblica concorra agli obiettivi di risparmio. Credo che questo ricorso sia un errore e rischi di non essere proprio capito dai cittadini».[f. sch.]

il Fatto 20.11.14
Giustizia, tutto fermo: Orlando inchiodato dal patto col Caimano
di Wanda Marra


PRESCRIZIONE, FALSO IN BILANCIO, PROCESSO CIVILE: COSÌ IL GOVERNO HA MESSO LA RETROMARCIA SULLE RIFORME

Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, assicura che molti provvedimenti sono già pronti. E nel Cdm di oggi sarebbe dovuto entrare il decreto sull’“improcedibilità per tenuità del danno arrecato”. Quello che stabilisce che vengano archiviati automaticamente, senza processo (a meno che la parte offesa non presenti ricorso entro 10 giorni) i cosiddetti reati “bagatellari”: caso di scuola, gli anziani che in tempo di crisi rubano una scatoletta di tonno al supermercato. A condizione che il comportamento non sia abituale. Un modo per snellire e semplificare i tempi della giustizia. Il decreto dovrà attendere: Renzi stasera sarà a Bologna a chiudere la campagna di Stefano Bonaccini, che corre per la presidenza dell’Emilia Romagna. Prima va a Parma. Visita alla “Pizzarotti Costruzioni”, alla “Dallara Automobili” di Varano dè Melegari, poi al Comune con il sindaco Federico Pizzarotti e con gli amministratori dei Comuni delle zone alluvionate. Un tour pre-elettorale in piena regola: l’affluenza in Emilia fa paura. E, dulcis in fundo, la Barilla. Dove c’è azienda, c’è premier (per parafrasare il più famoso degli slogan pubblicitari “dove c’è Barilla, c’è casa”). Proprio al centenario dei signori della pasta il premier, nel pieno della partita che portò alla rielezione di Napolitano al Colle, nel 2013, parlò per mezz’ora da solo con Berlusconi.
Oggi il Cdm non c’è. E su questi temi il governo più che il turbo sembra aver messo la retromarcia. La riforma della prescrizione? Ferma. Il falso in bilancio? Pronto ad andare in Senato. Dove si sa come entrano i procedimenti (soprattutto quelli relativi alla giustizia) e non si sa come e soprattutto quando escono. La riforma del processo civile? Rimandata.
ERA IL 30 GIUGNO quando Matteo Renzi annunciava 12 punti programmatici sulla giustizia. Dopo che per settimane si era parlato di provvedimenti pronti, anche importanti, in materia penale. La realtà, come rivelavano allora fonti ufficiali e ufficiose, era che la giustizia era materia di scambio col centrodestra e dunque andava barattata con le riforme costituzionali. La “dead line” veniva spostata dallo stesso premier a fine agosto. Ma anche in quel caso, l’esecutivo varava poco e niente: il decreto sulla giustizia civile (appena convertito dalle Camere) e otto ddl di vario genere. Ancora tutti (o quasi) in alto mare.
Stamattina il Senato dovrebbe approvare il disegno di legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Via il filtro ai ricorsi, ma la responsabilità resta indiretta. Sarà lo Stato a rispondere per poi rifarsi eventualmente sul giudice: nel caso, la percentuale dello stipendio pignorabile passa dal 30 al 50 %. Ieri a Palazzo Madama, Pietro Grasso ha accolto 3 voti segreti, uno presentato dalla Lega, particolarmente insidioso: faceva rientrare nei casi di colpa grave il non aver tenuto conto dell’interpretazione della legge espressa dalle sezioni unite della Cassazione senza adeguata motivazione. Bocciato. Orlando ha espresso “soddisfazione per un’impostazione equilibrata ma efficace”. Aveva minacciato un decreto alla Camera. Se resta tutto così non ne avrà bisogno. “Si tratta di un testo all’acqua di rose”, commenta con soddisfazione un senatore Dem. Era nato come un contentino all’Ncd e come tale è stato trattato.
Le cose pesanti sono tutte di là da venire. Ieri sul Sole 24 Ore la presidente della Commissione Giustizia di Montecitorio, Donatella Ferranti ci andava giù pesante, sulla prescrizione: “Noi stiamo andando avanti, mi auguro che il governo non faccia il convitato di pietra e intervenga”. Nel ddl del 29 agosto si stabiliva che sarebbe stata congelata dopo la sentenza di primo grado, ma non se l’appello non sarà iniziato entro i successivi due anni. Norma sulla quale ancora non c’è accordo definitivo. Da via Arenula assicurano che dovrebbe essere calendarizzato in Commissione Giustizia a Palazzo Madama la settimana prossima un testo su criminalità economica e mafia, che contiene la riforma del falso in bilancio (portandolo da contravvenzione a delitto). Presidente Nitto Palma (FI) e numeri ballerini, difficile credere in un risultato rapido. E se il tema è lo scambio, Italicum e riforma del Senato ancora non ci sono.
Rimandato anche il provvedimento sulla semplificazione del processo civile. Quello che dovrebbe ridurre la durata dei processi a un anno, nelle intenzioni del premier. Quello che tira fuori nei comizi. C’è stato uno stop per questioni “tecniche” relative al Tribunale dei Minori. Ora dovrebbe essere pronto. Condizionale d’obbligo.

il Fatto 20.11.14
Micromega: “Orlando non vuole incontrare Gratteri”


LA RIVISTA Micromega ha invitato il ministro della Giustizia Orlando e il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gratteri a presentare in un pubblico confronto, lunedì 24 novembre a Roma, il numero monografico dedicato ai problemi della riforma della giustizia. Mentre Gratteri ha dato la sua disponibilità, il ministro Orlando, dopo alcuni rinvii da parte dei suoi più stretti collaboratori, ha fatto sapere che declina l’invito perché “impossibilitato a inserire l’incontro in agenda dati gli impegni pregressi”. Lo ha riferito in una nota il direttore della rivista Paolo Flores d’Arcais che sottolinea: “Avanziamo l’ipotesi che in realtà il ministro abbia preferito evitare il confronto col dottor Gratteri poiché le proposte di riforma che il magistrato anti ‘ndrangheta ha avanzato dalle colonne della nostra rivista, costituiscono per il ministro Orlando una grave fonte diimbarazzo”. Micromega ha invitato ieri il ministro a ripensarci, “a fare uno sforzo per trovare il tempo per un confronto che aiuterebbe gli italiani a capire le intenzioni del governo sul tema che da oltre vent’anni costituisce la pietra d’inciampo di ogni politica riformatrice”.

Corriere 19.11.14
La resa del ministro davanti ai burocrati
Matteo Renzi definiva quella contro gli apparati e il loro linguaggio «la madre di tutte
le battaglie»
Ma al di là dei proclami andiamo avanti senza un segnale di rottura
di Gian Antonio Stella

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Corriere 20.11.14
I soldi all’estero, freno sulla legge
Rischia di slittare all’anno nuovo il provvedimento per il rientro volontario dei capitali detenuti illecitamente all’estero
Un ritardo che rischia di trasformare la misura in un clamoroso flop
di Mario Sensini


Rientro dei capitali a rischio Ai conti mancano 4 miliardi Il testo tornerà alla Camera, possibile slittamento oltre gennaio ROMA Il rientro volontario dei capitali detenuti illecitamente all’estero rischia seriamente di slittare all’anno nuovo. E di perdere mordente, visto che dal primo gennaio, tra tutti i Paesi europei, compreso il Lussemburgo, e la Svizzera, scatta lo scambio automatico di informazioni tra le autorità fiscali. La speranza del governo di fare il «pieno» di capitali rimpatriati entro la fine dell’anno, prima che scatti il nuovo regime europeo, nonostante le banche abbiano già predisposto moltissime pratiche e l’attesa sia altissima, è sempre più remota. Il progetto, partorito dal governo due anni fa e dal quale si attendono forti entrate una tantum (almeno 3-4 miliardi) e in seguito strutturali, procede con forte ritardo.
Il provvedimento è stato approvato dalla Camera il 16 ottobre e ora è in discussione al Senato, sia in commissione Finanze che in commissione Giustizia. Nonostante il difficile compromesso raggiunto a Montecitorio si prospettano modifiche, per cui il ritorno del disegno di legge alla Camera appare inevitabile. Il cammino del provvedimento, per giunta, si intreccia con quello della legge di Stabilità 2015, che ha ovviamente la precedenza. Rendendo ancora più difficile l’approvazione della legge in tempo utile per far scattare la «voluntary disclosure» entro fine anno.
Da gennaio 2015, poi, il rientro agevolato dei capitali dall’estero, con il pagamento delle tasse arretrate ma con sanzioni molto ridotte, avrà anche un «concorrente» nel nuovo ravvedimento operoso previsto dalla legge di Stabilità. Per i casi più semplici, per riportare i capitali in Italia, potrebbe convenire fare una dichiarazione integrativa con i redditi maturati all’estero in tutti i periodi d’imposta che possono essere ancora soggetti ad accertamenti da parte del Fisco.
La «voluntary disclosure» resta l’unica alternativa quando i beni esteri da rimpatriare sono proventi di reati penali, come quelli tributari o l’autoriciclaggio, il reato che viene introdotto dallo stesso provvedimento, che diventano non punibili se il meccanismo di autodenuncia viene attivato, se-condo il testo attuale, entro il 15 settembre 2015. Ma sulla non punibilità di alcuni reati, il funzionamento dei meccanismi di garanzia, e sulla stessa definizione di autoriciclaggio, che molti non ritengono chiara a sufficienza, il Senato potrebbe intervenire ancora.
I problemi aperti sono ancora molti. C’è quello dell’insanabilità dell’evasione Iva, che è un tributo comunitario, ed i relativi profili penali. C’è un problema sulla regolarizzazione delle società italiane che potrebbe non procedere parallelamente all’eventuale regolarizzazione dei beni dei suoi soci. C’è anche il rischio che l’operazione diventi un massacro fiscale per i contribuenti, perché allo stato attuale il Fisco non riconosce la detraibilità di eventuali tasse pagate all’estero sui capitali nascosti. E la definizione stessa dell’autoriciclaggio come reato non convince tutti: secondo alcuni la formula attuale, definita dopo una lunga trattativa tra Economia, Giustizia e Presidenza del Consiglio, rischia di essere inapplicabile, o quanto meno di prestarsi ad interpretazioni soggettive.
«Valuteremo emendamenti migliorativi sull’autoriciclaggio, su cui la commissione Giustizia ha condotto un lavoro più avanzato» ha detto ieri Claudio Moscardelli, Pd, relatore del provvedimento in commissione Finanze al Senato. Il governo, ha precisato, è d’accordo. C’è apertura anche ad alcune modifiche su aspetti «di carattere procedurale», si ragiona «sulla possibilità di far valere le tasse pagate all’estero», ma anche su aspetti che riguardano il versamento dei contributi sociali. Il termine per gli emendamenti è stato fissato per il primo dicembre ed il via libera del Senato dovrebbe arrivare prima del 9 dicembre, quando a Palazzo Madama arriverà la legge di Stabilità. In caso di modifiche, che potrebbero esser definite in Commissione per abbreviare i tempi, il provvedimento dovrebbe comunque passare alla Camera. E prima di avviare l’operazione «rimpatrio» bisognerà aspettare il provvedimento dell’Agenzia delle Entrate sulle modalità applicative, di presentazione dell’istanza e di pagamento dei relativi debiti fiscali.

Corriere 20.11.14
Forte frizione. Malumori anche nel Pd
Senato, ok al divorzio immediato
Ma la maggioranza si spacca
Via libera dalla Commissione giustizia: non si dovrà più passare per la separazione
I senatori Ncd, per protesta, abbandonano i lavori

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il Fatto 20.11.14
Messina Denaro e l’autobomba
“Di Matteo ancora a rischio”
di Giuseppe Pipitone e Sandra Rizza


IL PENTITO GALATOLO E I DETTAGLI DEL PIANO “MAI RITIRATO” PER UCCIDERE IL PM COSÌ ALFANO SI È CONVINTO A RAFFORZARE LA SCORTA. CAPACI BIS, DUE ERGASTOLI

Palermo Con una lettera, scritta alla fine del 2012, il boss Matteo Messina Denaro ordina ai capi di Cosa Nostra di “preparare un attentato contro Nino Di Matteo”: il pm della trattativa Stato-mafia va eliminato perché qualcuno ha riferito al superlatitante che “sta andando troppo oltre”. Ai capi del gotha mafioso non serve nessun’altra informazione: nel dicembre del 2012 convocano un summit e iniziano a pianificare l’attentato contro il magistrato. Tra gli uomini che partecipano a quella riunione c’è anche Vito Galatolo, “u picciriddu”, il rampollo dell’Acquasanta, incaricato di procurarsi parte dell’esplosivo: il boss esegue gli ordini e acquista un quantitativo di tritolo, pagandolo con fondi personali. Poi arriva la fase operativa, e Galatolo partecipa ad altri incontri convocati per discutere di come uccidere il magistrato: la prima ipotesi, quella che i boss prediligono, è l’utilizzo di un’autobomba, come in via D’Amelio, la modalità considerata “più efficace”.
TRE MESI DOPO, nel marzo del 2013, l’anonimo recapitato alla Procura di Palermo racconta di come “amici romani” di Messina Denaro abbiano già dato l’ordine di assassinare Di Matteo, perché non vogliono un governo fatto di “comici e froci”. Il periodo è quelle delle ultime elezioni politiche, con l’exploit del Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo, in quel momento interlocutore del governatore siciliano Rosario Crocetta.
Ecco il piano di morte svelato nelle ultime ore da Galatolo, con rivelazioni che dopo due anni di minacce e di torpore degli apparati hanno di colpo “svegliato” l’antimafia istituzionale. Ecco perché il ministro dell’Interno Angelino Alfano lunedì ha convocato al Viminale una riunione straordinaria per discutere della sicurezza di Di Matteo. L’allarme non è mai stato preso sul serio come ora: le rivelazioni del neopentito dell’Acquasanta, infatti, s’incrociano a perfezione con il contenuto degli anonimi giunti in Procura: missive che nei mesi scorsi hanno riferito come Totò Riina in persona avesse dato il suo assenso all’attentato, in un colloquio in carcere con il figlio.
Gli analisti dell’intelligence antimafia hanno immediatamente messo in relazione la “soffiata” di Galatolo con le conversazioni del boss corleonese, intercettato nel carcere di Opera mentre parla con Alberto Lorusso: se Riina in quei colloqui ce l’ha con Messina Denaro, colpevole di occuparsi solo di affari e di non dedicare tempo ed energie all’attentato contro Di Matteo, è perché probabilmente sa già che l’attentato è in fase operativa e non si spiega il ritardo.
Galatolo dice ancora di più: l'ordine di morte per il pm della trattativa, ancora oggi, “non è stato ritirato”. Per questo motivo, venerdì scorso, dopo aver incontrato il capo dei pm nisseni Sergio Lari, il prefetto di Palermo Francesca Cannizzo è volata a Roma, per informare direttamente Alfano delle rivelazioni top secret del collaboratore, utilizzando per la seconda volta in un anno la prassi prevista dall’articolo 118 del codice di procedura penale.
ALLA RIUNIONE al Viminale sono arrivati il ministro della Giustizia Andrea Orlando, il sottosegretario con delega all’intelligence Marco Minniti, tutti i vertici delle forze dell'ordine e i capi dei servizi segreti. Lo stesso pm Di Matteo, che per ragioni di sicurezza non ha accompagnato a Johannesburg i suoi colleghi del pool trattativa (per l’interrogatorio dell’ex 007 Gianadelio Maletti) ha partecipato alla riunione romana nella quale Lari, affiancato dal procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, ha rappresentato il quadro di pericolo che a Palermo nelle ultime 48 ore è salito ulteriormente di livello, col risultato che l’atteggiamento istituzionale nei confronti dei pm minacciati è cambiato di colpo. E se un anno fa Alfano aveva annunciato la pronta disponibilità del bomb jammer per la scorta di Di Matteo, senza poi mantenere la promessa, questa volta il ministro sembra non avere scelta: al pm ha assicurato che arriverà un congegno elettronico studiato appositamente per neutralizzare i detonatori degli esplosivi, senza danneggiare i civili nelle aree urbane. Ieri, infine, è arrivata la sentenza del rito abbreviato nel processo Capaci Bis: dopo le rivelazioni di Gaspare Spatuzza, il gup di Caltanissetta ha condannato all’ergastolo Fifetto Cannella e Giuseppe Barranca e a 30 anni Cosimo D’Amato. Dodici anni a Spatuzza, riconosciuto collaboratore di giustizia.

Corriere 20.11.14
Latina
Manifesto funebre affisso a scuola delle figlie: minacce al magistrato
«Il giudice è deceduto: le esequie si terranno il 28»: la falsa epigrafe contro Licia Aielli, impegnata in importanti processi contro la criminalità organizzata del Pontino
di Michele Marangon

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il Fatto 20.11.14
Genova, blocca il cemento: trasferita all’ufficio animali
La denuncia della funzionaria della Regione Liguria silurata da Burlando
di Ferruccio Sansa


Il 21 ottobre boccia il progetto per un centro commerciale delle Coop con annesso grattacielo da 35 piani da costruire a due passi dal Bisagno. Il 6 novembre la Giunta della Regione Liguria, su proposta di Claudio Burlando, la trasferisce all’ufficio che si occupa di cani e gatti.
PROTAGONISTA della storia è Nicoletta Faraldi, 62 anni, dirigente della Regione Liguria. I suoi colleghi la definiscono così: “Una donna tutta d'un pezzo”, “Il rigore fatto persona”. Faraldi racconta: “Sono in Regione dal 1981, mai avuto problemi. Amavo il mio lavoro, finché si basava sulle leggi, sulla tecnica. Ma poi... ”. Poi sono cominciati i guai. Sulla scrivania di Faraldi passano carte che valgono decine di milioni: le procedure di Via, Valutazione di Impatto Ambientale. Un “sì” o un “no” decidono la sorte di operazioni immobiliari enormi. Proprio come è successo nell'ottobre scorso: “Faraldi – spiega la consigliera regionale Raffaella Della Bianca, gruppo misto – doveva dare il suo parere a un megacentro commerciale realizzato da società legate alle Coop. Più l'immancabile area residenziale. Un grattacielo di 35 piani”. La pratica, ha raccontato Libero, giunge sul tavolo di Faraldi nei giorni della prima alluvione genovese del 2014, quella che il 9 ottobre provocò un morto in Val Bisagno. A pochi passi dovrebbe sorgere il centro commerciale nei 4 ettari dell’ex Officina Guglielmetti. Faraldi esordisce: “È stato acquisito il parere della struttura regionale Assetto del territorio che, nel confermare gli aspetti di criticità idrogeologica nell'area di interesse, insistendo il progetto in area caratterizzata... da suscettività al dissesto elevata e da pericolosità idraulica elevata... ”. Quindi le conclusioni: “Si dichiara inammissibile la variante relativa al centro funzionale in esame”. Addio centro commerciale, addio grattacielo. Sono in una zona a rischio.
E COMINCIA la guerra. All’una di notte del 31 ottobre, dieci giorni dopo la bocciatura, Faraldi riceve una email da Gian Poggi. Ne abbiamo già parlato: è il braccio destro cui Burlando affida le questioni delicate in materia di cemento. L’uomo (finora non indagato) che, secondo i pm, avrebbe avuto contatti con gli imprenditori arrestati per aver pagato mazzette e prostitute a dirigenti pubblici per ottenere 10 milioni di appalti post alluvione. I toni del messaggio di Poggi sono sprezzanti: “Anziché porvi in un rapporto di collaborazione con il nostro ufficio, continuate a giudicare senza mai interloquire... e a svolgere imperterriti i vostri rituali, francamente di scarsa o nulla utilità. Preso atto della assoluta refrattarietà alla collaborazione, annuncio che sono stufo di questo andazzo... vi guarderò andare alla deriva... a sollecitarvi ci penseranno i diretti interessati”. A chi allude Poggi parlando di intervento dei “diretti interessati”? Non basta. L’email di Poggi contiene una definizione folgorante di come il centrosinistra ligure percepisce l’ambiente: “Il settore edilizio è morto, in gran parte in conseguenza delle politiche ambientali nazionali e regionali (ma forse è più opportuno definirle vessazioni) ”. Testuale. Sei giorni dopo quel messaggio notturno, ecco che la giunta regionale, “su proposta di Burlando”... “ritiene di adottare immediatamente” una deliberazione che trasferisce Faraldi. Addio all’ufficio Via, dove blocca i progetti, andrà a occuparsi di “Sicurezza alimentare e sanità animale”. Della Bianca nota: “È incredibile, non c’erano posti da dirigenti liberi e pare ne abbiano creato uno apposta”. Fino alla ciliegina sulla torta. Il giorno dopo aver appreso del proprio trasferimento, Faraldi riceve una lettera dell’assessore alle Infrastrutture, Renzo Guccinelli. Che dice: “È assolutamente falso che la sua sostituzione sia imputabile a una mia decisione... e che avrei agito a seguito di un parere su una pratica”. Qualcuno in Regione parla di excusatio non petita. Una cosa è certa: ora Faraldi non romperà più le scatole a progetti che stanno a cuore a molti. Come l’Aurelia bis di Savona o il depuratore sul fiume Entella. Un colosso da 80 milioni da realizzare dove una settimana fa il fiume è esondato. In Regione tanti vogliono che si faccia. Come il centro commerciale della Coop sul Bisagno.

il Fatto 20.11.14
Eternit: 2154 morti, tutto prescritto
La Corte cancella pure i risarcimenti
di Andrea Giambartolomei


La Cassazione annulla la condanna del magnate svizzero Schmidheiny
Lo sdegno dei parenti delle vittime dell’amianto. Le parti civili dovranno pagare le spese. Il pm Guariniello: “Già pronto il processo-bis per tutti gli omicidi fino ai casi più recenti, che nessuno potrà estinguere”

Torino Tutto prescritto. Il disastro ambientale di Casale Monferrato, Cavagnolo, Bagnoli e Rubiera è finito da un pezzo, ma i suoi abitanti si ostinano ad ammalarsi e morire. Così ieri sera i magistrati della prima sezione penale della Corte di cassazione, presieduti dal giudice Arturo Cortese, hanno annullato la condanna a 18 anni di carcere a Stephan Schmidheiny, il manager svizzero che dal 1976 in poi ha diretto la multinazionale del cemento-amianto Eternit in Italia. Hanno accolto così la richiesta del sostituto procuratore generale Francesco Mauro Iacoviello che sorprendentemente aveva chiesto l’annullamento delle sentenze torinesi, gettando nello sconforto i tanti familiari delle vittime arrivati da Casale Monferrato a Roma per vedere l’ultima parte di questo processo. A differenza di quanto visto in passato, l’udienza di ieri al “Palazzaccio” dev’essere sembrata paradossale, dove i ruoli si sono invertiti. L’imputato è diventato la parte offesa, mentre l’accusa sembrava la difesa. Ora anche i risarcimenti alle vittime salteranno. L’Inail non potrà chiedere i 280 milioni erogati per prestazioni sanitarie ai lavoratori malati.
GLI AVVOCATI di Schmidheiny, Franco Coppi e Astolfo D’Amato, lo hanno definito “la vittima di un pregiudizio della magistratura italiana che ha voluto nei processi di primo e secondo grado a tutti i costi individuare in lui il responsabile di una strage”. La colpa - sostengono i legali - sarebbe invece di chi ha gestito l’azienda prima di lui. Forse del barone belga Louis De Cartier De Marchienne morto pochi giorni prima della sentenza d’appello del 3 giugno 2013. Quel giorno lo svizzero venne condannato a 18 anni di carcere per “disastro ambientale doloso continuato” commesso nelle città in cui l’Eternit aveva i suoi stabilimenti e in cui la fibra killer si era diffusa nell’aria provocando malattie e decessi, che colpiscono ancora oggi gli abitanti. Questa era la situazione arrivata alla Cassazione per essere vagliata nei suoi elementi di diritto e questo è quello che il pg Iacoviello ha fatto con un’impostazione nuova. Dopo aver criticato l’approccio della procura, del tribunale e della Corte d’appello di Torino, ma anche quello stabilito da alcune sentenze della Cassazione, il pubblico ministero ha affermato che “di fronte al dilemma tra giustizia e diritto, il giudice deve scegliere il diritto”. Quindi ha detto che Schmidheiny è sì responsabile, ma che i reati sono prescritti perché il reato di “disastro ambientale” è terminato con la chiusura degli stabilimenti dell’Eternit nel 1986. Per questo la prescrizione sarebbe già scattata e la condanna della Corte d’appello di Torino andrebbe annullata, senza nessun rinvio e senza nessun nuovo processo.
Quando il pubblico ministero ha parlato di “prescrizione” e di “annullamento senza rinvio” tra i parenti delle vittime e dei malati si è diffuso un senso di sconforto. Prima di ieri ha sempre retto l’accusa ideata dai pm torinesi Gianfranco Colace, Raffaele Guariniello e Sara Panelli e poi accolta dai giudici del tribunale e della Corte d’appello. Guariniello ha così commentato: “I parenti non devono sentirsi abbandonati e non devono disperarsi. Devono avere fiducia, siamo pronti con la chiusura indagine sulle morti più recenti. Presto saprete se sarà omicidio colposo o volontario. La Procura non vi abbandona”.
Questo reato - il disastro ambientale doloso - sembrava non avere limiti temporali. Anzi, secondo le motivazioni della condanna di secondo grado “il particolare evento di disastro verificatosi anche in quei siti ha preso la forma di un fenomeno epidemico”, un fenomeno che “si è esteso lungo l'asse cronologico con durata pluridecennale”. Insomma, gli abitanti di questi paesi continuano ad ammalarsi di tumore - asbestosi o mesoteliomi pleurici - e il numero dei morti sale sopra le tremila vittime perché le città in cui c’erano gli stabilimenti dell’Eternit sono ancora contaminate dalle fibre killer e questo significherebbe che il disastro è in corso. Basta dare poi un’occhiata ai necrologi dei giornali locali che riportano nuovi decessi quasi ogni settimana, con il ritmo di una cinquantina all’anno solo a Casale. Nel Monferrato una delle ultime vittime è stato Danilo Aceto, 60 anni, viticoltore e campione internazionale di tiro al piattello morto Rosignano il 5 ottobre scorso per colpa del mesotelioma, mentre più di recente è morto un ragazzo di 28 anni. Tutto questo però non ha importanza per Iacoviello, secondo il quale il rispetto delle regole prevale sul valore della giustizia e sulla situazione vissuta. Ha provato a porre un argine a questa tesi Sergio Bonetto, avvocato che rappresenta l’Associazione dei familiari delle vittime dell’amianto (Afeva). Ha fatto notare che chi ha scritto il codice penale non conosceva l’esistenza di agenti cancerogeni capaci di manifestarsi dopo anni di latenza, se non addirittura decenni: “Il diritto non può ignorarne gli effetti e rinunciare a fare i processi che riguardano i danni alla salute che ne derivano”. Evidentemente al Palazzaccio non l’hanno pensata così.

il Fatto 20.11.14
Le urla dopo la sentenza: “Vergogna”


Torino Una vergogna”. Solo così possono commentare la decisione dei giudici che ha posto fine alla loro lotta per la giustizia. I cittadini di Casale Monferrato, parenti di alcune delle duemila persone decedute per i tumori provocati dall’amianto, non hanno altre parole. La loro battaglia continuerà per altre strade, quelle per incentivare la ricerca e le bonifiche, e quella per arrivare all’abolizione dell’amianto. Ma per ora c’è un grande sconforto.
DURANTE LA GIORNATA le parole che hanno usato per commentare a caldo la richiesta del procuratore generale rimandano alla violenza fisica. “Un pugno nello stomaco”, dice Nicola Pondrano. Bruno Pesce, coordinatore dell’Associazione dei familiari delle vittime dell’amianto, spiega che sono “un po' frastornati” perché la richiesta del pg è “un calcio dentro”. “Uno schiaffo ai familiari e alle vittime dell’amianto”, lo definisce Fabio Lavagno, deputato del Partito democratico ma soprattutto cittadino di Casale Monferrato.
Alle parole di Pesce e Pondrano si aggiungono quelle di Romana Blasotti Pavesi, con la quale formano il terzetto che ha trascinato la popolazione casalese nelle battaglie sociali, ambientali e legali. Lei, che per colpa dell’Eternit e dell’amianto ha perso il marito Mario, la sorella Libera, il nipote Giorgio, sua cugina Anna e la figlia Maria Rosa, se la prende con l’imputato, che non si è mai fatto vedere nelle aule dei tribunali: “Vorrei incontrare Stephan Schmidheiny - ha dichiarato ieri mattina a Il Monferrato - visto che lui continua a dire che è innocente e che si sente sereno. Noi dopo tanti anni dalla morte dei nostri cari non siamo sereni. Vorrei che Stephan Schmidheiny avesse il coraggio di guardare una moglie che ha perso il marito negli occhi, o una mamma il figlio o dei bimbi piccoli che hanno perso il padre. Abbia il coraggio di guardaci negli occhi e di sentirsi innocente”. La loro difficile lotta è cominciata nelle fabbriche, quando alcuni operai hanno iniziato a rendersi conto che qualcosa non andava con quella polvere bianca e sottilissima che respiravano continuamente, che portavano a casa, sia nelle loro tute blu, sia nei sacchi di “polverino” che potevano riutilizzare per i lavori privati. C’è voluto molto tempo prima che qualcuno desse il via a un’indagine così corposa e penetrante: Raffaele Guariniello, affiancato da Sara Panelli e Gianfranco Colace. Nel 2009 ottengono il rinvio a giudizio, nel 2012 la prima condanna, nel 2013 la conferma. “Il procuratore generale dice che non è possibile giudicare un disastro provocato dall’amianto perché lo si è cessato di lavorare tanti anni fa, ma si dimentica che l’amianto è una bomba a orologeria di lungo periodo: non è possibile che coloro che l'hanno innescata siano trattati come dei gran signori”, afferma Pesce, a cui si aggiunge Pondrano: “Siamo allibiti, nel diritto deve esserci anche la sostanza. Se si continua a morire è evidente che il reato continua”. Il rischio maggiore, racconta quest’ultimo, è che “se la Corte confermerà la richiesta, coloro che perderanno la vita non solo per mesoteliomi e asbestosi, ma anche per altri tumori professionali, negli anni a venire non avranno più giustizia”.
Alle loro preoccupazioni in giornata si sono unite quelle dei rappresentanti di associazioni ambientalistiche, sindacati e partiti politici. Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente, afferma: “Ci lascia sgomenti l’idea che vengano considerati prescritti reati legati a fatti che ancora oggi continuano e mietere vittime innocenti”. Pure l’eurodeputato leghista Gianluca Buonanno si indigna: “Qual è la giustizia che riserva lo Stato italiano alle vittime dell’Eternit e ai loro cari? ”.

Repubblica 20.11.14
Il leader di Podemos “Piegheremo la Bce e usciremo dalla Nato”
Pablo Iglesias: “Così diventeremo il primo partito in Spagna Diversi dai 5Stelle, ma oggi la parola sinistra è inadeguata”
intervista di Matteo Pucciarelli


In Grecia con Tsipras e in Spagna con noi il potere di condizionamento sulla Bce sarà molto forte. Dobbiamo costruire un’alleanza dei paesi del sud perché il cambiamento in un solo Stato è impensabile. La nostra
Se in Grecia vincerà Tsipras, possiamo iniziare a costruire un’alleanza del Meridione per fermare l’austerity

FIRENZE Un anno fa era un noto opinionista televisivo, giovane professore universitario alla “Complutense” di Madrid soprannominato el coleta, per via del codino. Oggi Pablo Iglesias, 36 anni, è il segretario generale, appena eletto, di quello che secondo i sondaggi è il primo partito spagnolo: Podemos, cioè “possiamo”. Un movimento che alle europee di maggio ha eletto cinque deputati presentandosi con un programma di sinistra radicale, ma allo stesso tempo rifiutando l’etichetta e sovvertendo gli schemi classici, «perché la parola “sinistra” è una metafora inadeguata ai tempi».
Podemos è nata solo dieci mesi fa, ora popolari e socialisti vi rincorrono. Com’è stato possibile?
«In Spagna viviamo una situazione eccezionale, con la crisi economica che è diventata crisi politica e di sistema. Noi in qualche modo rappresentiamo una soluzione al problema. Il movimento degli indignados ha dimostrato che esisteva un consenso sociale: il rifiuto verso la casta e la rabbia per la corruzione erano forti ma non si erano ancora tradotti in una risposta elettorale. Infatti i grandi partiti prendevano in giro il movimento: “Siete indignati? E allora presentatevi alle elezioni”. Ora non scherzano più».
Siete contrari a priori ad una eventuale collaborazione di governo con le altre forze politiche tradizionali?
«Intanto siamo un movimento aperto, dove tutti possono candidarsi, anche se di altri partiti. Non sono d’accordo con la costituzione di un fronte della sinistra, sarebbe un errore. Noi puntiamo ad una unità popolare che vada oltre alle identità. Conterà il programma: i socialisti sono disposti a cambiare se stessi, non piegando la testa di fronte ai diktat della Germania? E alla ristrutturazione del debito pubblico, ad esempio? Dipende da quello, non siamo settari».
E dell’indipendenza richiesta dai paesi baschi e dalla Catalogna cosa pensa?
«Siamo per il principio di autodeterminazione, ogni cittadino deve poter decidere su ogni questione della propria vita. Detto questo, in Spagna occorre un nuovo processo costituente dove si affronti il tema della sovranità e dei diritti. Personalmente, sono per un Paese plurinazionale, non vorrei una Catalogna fuori dalla Spagna. Ma chi sono io per decidere al loro posto?».
Se vincerete alle elezioni, la Spagna uscirà dalla Nato?
«Assolutamente sì, non è un passo facile, ma se vogliamo recuperare la sovranità, compresa quella militare, tocca dire no ai soldati stranieri sul nostro suolo».
E l’euro invece? Siete per uscire?
«Non è possibile uscire dell’euro adesso. Per cambiare la situazione attuale serve ripartire da Maastricht; allora si fecero numerosi errori che hanno portato a questa Europa delle disuguaglianze, dove ci ritroviamo coloni di Berlino senza diritti sociali. Ma con un governo popolare in Gre- strategia è continentale».
Né destra né sinistra, lotta alla Casta e ai suoi privilegi, uso massiccio delle rete. Siete i grillini spagnoli?
«Io sono un uomo di sinistra. Però già Bobbio rifletteva sulla difficoltà dell’utilizzo di queste parole. Noi proponiamo un governo di emergenza che ridia centralità a questioni molto semplici: la scuola, la salute, la casa per tutti. Con i 5Stelle abbiamo delle affinità, a Bruxelles facciamo delle cose assieme, ma no, non siamo il M5S iberico».
Matteo Renzi le piace?
«È un grande comunicatore, ma all’atto pratico fa la stessa politica dei suoi predecessori. Non mette davvero in discussione l’austerità e i paradisi fiscali. È un esponente del partito di Wall Street e fa le riforme con Berlusconi. Che infatti è il più felice di tutti».
Sarà lei il candidato premier a novembre 2015?
«Faremo delle primarie online, come sempre. Sono disponibile, ma come dice el Cholo Diego Simeone dell’Atletico Madrid, si vedrà partita dopo partita».
Un’ultima domanda: quali sono i suoi punti di riferimento culturali?
«Sicuramente Gramsci e Marx. Dopo la morte di Eric Hobsbawm invece mi sto appassionando a Perry Anderson, l’ex direttore della rivista New Left Review ».

Corriere 20.11.14
Nello Utah
Il pastafarianesimo colpisce ancora: carta d’identità con scolapasta
Sale a 4 il numero di seguaci della finta religione che si oppone al creazionismo
Una donna si è fatta fotografare così per un documento ufficiale
di Simona Marchetti

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La Stampa 20.11.14
Arabi senza Dio, la sfida dell’ateismo nel mondo musulmano
Un libro racconta che cosa significhi non credere nei Paesi dove l’essere “infedele” si paga anche con la vita
di Francesca Paci

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Il Sole 20.11.14
La polveriera Medio Oriente e l'assenza dell'Europa
Alberto Negri


All'indomani della seconda guerra mondiale l'Europa contava per il 50% del Pil mondiale, oggi per il venti. Se non vuole essere condannata all'irrilevanza politica ed economica deve puntare sull'unico patrimonio che non si è ancora del tutto svalutato: i princìpi di libertà, democrazia, laicità e giustizia sociale. Questo vale anche per l'atteggiamento da assumere sulla questione mediorientale: perché di questo si tratta quando si affronta la crisi più profonda alle nostre porte insieme all'Ucraina, che promette tragici sviluppi come l'ex Jugoslavia. Possiamo spingere Putin a restituire la Crimea quando non osiamo chiedere a Israele di liberare i territori occupati nel '67 e acconsentire a uno stato palestinese? Evidentemente no. Se non lo faremo lasceremo sempre più spazio al terrore, alla propaganda dell'Islam radicale di Hamas e della Jihad, abbandonando all'insicurezza perpetua arabi ed ebrei.
«Se non ci muoveremo a rianimare il negoziato israelo-palestinese torneremo alla violenza», aveva pronosticato qualche giorno fa Federica Mogherini, Lady Pesc, dopo gli incontri con Lieberman e Netanyahu. Non possiamo dire di non essere stati informati. Adesso chiediamo ad Assad di andarsene, come vorrebbero Arabia Saudita, Turchia e Qatar, appoggiati da una Casa Bianca sempre più altalenante e insicura: ma abbiamo oggi in Siria un'alternativa migliore al Califfato o a Jabat al Nusra? Gli esempi dell'Iraq e della Libia, sprofondati nel caos, sono sotto i nostri occhi. Dobbiamo fare scelte dure ma realistiche. Prima la Svezia ufficialmente e poi i parlamenti britannico, irlandese e spagnolo hanno appoggiato la soluzione dei due stati in Palestina. E noi che abbiamo Lady Pesc cosa aspettiamo? L'Unione deve farsi carico di una questione che la riguarda direttamente per ragioni storiche, morali ma anche economiche. Lo stesso presidente della Bce, Mario Draghi, ha imputato le previsioni al ribasso della crescita ai «rischi geopolitici» in Medio Oriente e Ucraina.
Anche i curdi, 40 milioni divisi in quattro Stati, attendono da oltre 80 anni un riconoscimento dei loro diritti. Nell'assedio di Kobane combattono strenuamente le donne curde: al loro coraggio indomito inneggiano i nostri giornali. Ma la verità è che le abbiamo lasciate sole in prima linea, con i loro uomini, contro il Califfato.
Come pure dovremo affrontare il caso della Turchia, dove tra un paio di settimane andrà il presidente del Consiglio. Anche con i turchi bisogna essere onesti. La Turchia ha dato addio da un pezzo a Bruxelles. I leader europei per anni hanno spinto i turchi a fare riforme convinti che Ankara non ce l'avrebbe mai fatta. E quando il Paese con il miracolo economico dell'era Erdogan è arrivato non lontano dal traguardo, la Francia e la Germania si sono messe di traverso perché non hanno mai avuto intenzione di far sedere la Turchia nel club europeo. E adesso si raccolgono i cocci di una politica europea ipocrita, con un Erdogan sempre meno moderato e sempre più islamico.
Se l'Europa vuole vivere meglio deve darsi una scossa con la presidenza italiana e la guida della politica estera. Ovviamente non dipende soltanto da noi ma dobbiamo almeno provare a contare di più: può un Paese di 60 milioni di abitanti, tra le prime 10 economie mondiali, che spende un patrimonio in difesa e missioni all'estero, alzare le braccia aspettando le decisioni altrui nel Mediterraneo?
Se vogliamo davvero combattere il Califfato, il terrorismo, l'islamismo più radicale, puntiamo sui nostri valori. Anche se vendere armi alle monarchie assolutistiche ci piace tanto, come ha ammesso il ministro francese Laurent Fabius a proposito di un possibile accordo sul nucleare iraniano: «Sono i Paesi del Golfo con i petrodollari che danno una spinta alla nostra economia e all'occupazione, non l'Iran». Ma se questi sono i princìpi che ci guidano siamo perduti.
Il generale egiziano Abdel Fattah al-Sisi verrà ricevuto la prossima settimana da Matteo Renzi. Si discuterà di questioni scottanti come la Libia: il Cairo sostiene il governo di Tobruk, esiliato in Cireanica, l'Italia ha i suoi interessi più rilevaanti in Tripolitania. Ci sarà anche un forum con le maggiori aziende per mettere a punto promettenti contratti: l'Egitto rimane uno dei nostri maggori partner sulla sponda Sud.
Ma in queste ore la procura generale egiziana ha chiesto la condanna a morte per l'ex presidente Mohammed Morsi e altri 35 membri dei Fratelli Musulmani. L'accusa è di spionaggio in favore di Hamas e Hezbollah. Non dobbiamo entrare nelle questioni interne egiziane ma l'Italia è tra i Paesi che più si sono battuti contro la pena di capitale messa al bando da Cesare Beccaria. La pena di morte fu abolita per la prima volta nel Granducato di Toscana il 30 novembre 1786. Il nostro premier Renzi, toscano Doc, dovrebbe ricordarlo anche all'esimio generale egiziano. L'Italia conosce sulla sua pelle l'inutile stupidità della vendetta. Come diceva un vecchio slogan, non c'è pace senza giustizia.

La Stampa 20.11.14
Così Gerusalemme impara a convivere con i “lupi solitari”
Le regole base: conoscere la mappa della città ed evitare la folla
di Maurizio Molinari


Non sporgersi alle fermate degli autobus, stare il più lontano possibile dagli sconosciuti, avere sempre sottomano un oggetto da gettare contro l’aggressore, andare a piedi nelle zone a rischio e soprattutto muoversi in città tenendo bene in mente la mappa dei confini che non sono indicati da nessuna parte. Così vivono gli abitanti di Gerusalemme, dove oltre cinquecentomila ebrei e 250mila arabi risiedono in quartieri che combaciano e a volte si intersecano, portando a una convivenza che espone ai pericoli dell’Intifada 3.0.
Già colpita dagli attentati suicidi della Seconda Intifada, dalle violenze della Prima Intifada e dagli attacchi che iniziarono con la nascita dello Stato di Israele, la popolazione ebraica di Gerusalemme è rapida ad adattare i propri comportamenti ai nuovi pericoli. In questo caso, gli attacchi dei «lupi solitari» arabi sono iniziati, in agosto, con vetture e coltelli. Da qui le prime contromisure, adottate da singoli e famiglie con una sorta di tam-tam informale attraverso telefonate, incontri al supermercato o a scuola accompagnando i figli. Sebbene la presenza di militari e polizia sia ovunque in aumento, i civili adottano precauzioni proprie per limitare quanto possibile i rischi. Proteggersi dalle vetture ad alta velocità significa fare attenzione alle fermate dei bus, dove i capannelli di persone sono invitanti obiettivi. I suggerimenti dei genitori ai figli sono di «non sporgersi verso la strada», «stare dentro le fermate» (quasi tutte coperte) e sostare «lontano dai gruppi» per non entrare nel mirino della «Car Intifada».
Il secondo pericolo sono i coltelli e qui i gerosolomitani applicano metodi testati nel 1994, quando Hamas lanciò una campagna analoga dopo l’arrivo di Yasser Arafat a Gaza in seguito agli accordi di Oslo. Ciò significa non avvicinarsi troppo a persone sconosciute, evitare contatti gomito-a-gomito sui mezzi pubblici ed essere pronti a reagire in caso di aggressione con coltelli. Come? A rispondere è Miriam Grunwald, 80enne residente di German Colony con la memoria di ferro: «Gettare un oggetto qualsiasi contro il terrorista per poter fuggire, dargli un calcio all’inguine o spruzzargli negli occhi qualcosa, dal profumo agli spray nocivi, sempre ammesso di averli».
Alcuni ufficiali dell’esercito consentono ai soldati, soprattutto se reclute, di girare in città in abiti civili, senza divisa, per confondere aggressori alla ricerca di militari come nel caso dell’attacco alla stazione di Tel Aviv. Ma non è tutto perché i maggiori pericoli vengono dalla topografia, ovvero da strade che iniziano in quartieri ebraici e finiscono in zone arabe - e viceversa - esponendo al rischio di trovarsi in pochi attimi in situazioni indesiderate. L’antidoto è conoscere la mappa dei confini dei quartieri, sebbene non siano indicati essendo la città unificata.
I più a loro agio con questa mappa memorizzata sono i tassisti: quelli ebrei evitano i quartieri arabi con precisione millimetrica e spesso avviene anche il contrario. Come nel caso di Mahmud, della società «David Citadel», che esita a prendere i clienti che vogliono andare «troppo a Ovest» nella zona ebraica. D’altra parte, davanti alla Porta di Damasco, cuore della Gerusalemme Est, fra i taxi in sosta di ebrei non ve ne sono. Per chi gira con la propria auto, la preoccupazione è girare all’angolo sbagliato, subendo danni: gli ebrei temono lanci di sassi, gli arabi calci alla carrozzeria. La soluzione sono i mezzi pubblici o anche andare a piedi, visto che le distanze spesso sono ridotte: dalla Saladin Street araba alla Yafo Street ebraica è una passeggiata di 10 minuti, così come dalla casa dei terroristi di Jabel Mukaber - autori dell’attacco alla sinagoga - si arriva a piedi all’ebraica Armon Hanatziv in 5 minuti.
L’area confinante fra i due mondi è un grande prato, attorno a una sede Onu, dove nel fine settimana famiglie ebraiche e arabe portavano i figli a giocare. Mentre adesso è disertato da entrambe. [M. Mo.]

Corriere 20.11.14
Quei due popoli «nemici intimi» che amano gli stessi film
di Khaled Diab

Scrittore arabo, vive a Gerusalemme

Per accompagnare mio figlio a scuola preferisco la bici. Se questo è normale in una qualsiasi città europea amica delle due ruote, qui a Gerusalemme è tutta un’altra storia, e non solo per il traffico disordinato e il saliscendi delle colline. Mentre la situazione nella Città Santa si aggrava di ora in ora e scivola verso il baratro, lentamente anch’io mi sento contagiare dal terrore che attanaglia sia arabi che ebrei quando sono con mio figlio. E se qualche estremista israeliano ci sente parlare in arabo? E se qualche estremista palestinese ci prende per ebrei, un uomo di carnagione scura con un figlio biondo?
Il vile attentato alla sinagoga di Gerusalemme ha pressoché azzerato il senso di sicurezza e quel residuo di fiducia reciproca che resistevano in questa città così aspramente contesa. Dall’estate di odio appena trascorsa, molti miei conoscenti palestinesi di Gerusalemme non osano più avventurarsi nei quartieri Ovest e alcuni di loro, che lavorano per aziende israeliane, si sono dimessi o si accingono a farlo. Allo stesso modo, tanti ebrei di Gerusalemme che avevano l’abitudine di recarsi nei quartieri Est della città, i quartieri arabi, ora li evitano. Difficile immaginare che la popolazione di questa città dilaniata un tempo vivesse diversamente, quando non esistevano muri e le barriere psicologiche erano meno radicate. Gli anziani ricordano un tempo quando arabi ed ebrei si muovevano liberamente tra i vari quartieri e persino la Cisgiordania e Gaza erano accessibili. A quei tempi tanto i palestinesi che gli israeliani amavano recarsi a Gaza, per godersi le spiagge, i mercati e l’ottima cucina. Andiamo ancora di più a ritroso nel tempo, e i vecchi di Gerusalemme ricordano i giorni in cui arabi ed ebrei vivevano fianco a fianco, quando ciascuna comunità religiosa partecipava alle festività dell’altra, e tutti restavano incantati dalla magia del cinema egiziano durante la sua epoca di massimo splendore, come racconta ancora oggi con nostalgia il mio vicino palestinese ultranovantenne. Israeliani e palestinesi sono più simili di quanto si rendano conto o siano disposti ad ammettere. Due gerosolimitani incarnano questa simmetria in modo simbolico, e direi anche poetico. Lo scomparso studioso americano-palestinese, musicista e attivista Edward Said, e lo scrittore e attivista israeliano Amos Oz condividono quella straordinaria fantasia capace di raccontare «un destino che mi appariva serenamente sgombro da cambiamenti sgraditi», nell’immaginazione di Said, e che «ci avrebbe assicurato una migliore probabilità di sopravvivenza», nelle parole di Oz. Palestinesi e israeliani condividono la medesima mentalità mediterranea, caratterizzata, tra le altre cose, dal ruolo centrale della famiglia, dall’amore per i bambini e dallo scarso rispetto delle regole, dal fumo alla guida. In ambito culinario, ciò si riflette nella passione degli israeliani per l’hummus e l’infatuazione dei palestinesi per le cotolette. Purtroppo, collettivamente, le due società sono profondamente traumatizzate. Gli israeliani vivono con il ricordo dell’Olocausto e la pressoché totale estinzione delle comunità ebraiche in gran parte dell’Europa e del Medio Oriente, mentre i palestinesi vivono nell’ombra della Nakba, la perdita della Palestina e l’occupazione militare. Anche sotto il profilo politico, le due società hanno visto uno spostamento dal nazionalismo secolare e di sinistra verso il populismo di destra, con forti connotazioni religiose. Tutte queste analogie mi spingono a definire israeliani e palestinesi «nemici intimi». Pace e coesistenza sono possibili, ma occorre uno sforzo concreto, da una parte e dall’altra, per ripensare priorità, aspirazioni e narrative.
(Traduzione di Rita Baldassarre)

Repubblica 20.11.14
Lo scrittore Keret
“Più il conflitto diventa religioso più si allontana una soluzione”
intervista di Rosalba Castelletti


«IL conflitto ha assunto da tempo una dimensione religiosa. E più si parla di religione, più si allontana una soluzione», Etgar Keret, lo scrittore israeliano autore di libri tradotti in 35 Paesi e 31 lingue, è pessimista all’indomani dell’attacco a Gerusalemme.
È stato il primo attentato in una sinagoga. Pensa che possa portare una dimensione religiosa nel conflitto politico?
«È così da tempo, da entrambe le parti. Storicamente il conflitto israelo-palestinese è stato un conflitto nazionale: si parlava di Stati, non di jihad. Ma ora sono stati introdotti argomenti che potrebbero innescare in qualsiasi momento un ciclo di violenze religiose e che quindi rendono il conflitto non più risolvibile. Perché un conflitto nazionale ha anche un carattere pragmatico: le parti cercano la soluzione che le accontenti di più. Ma quando è in gioco la religione, non ci sono più limiti perché si pensa che tutto faccia parte di un progetto più grande».
Come si è arrivati a questo punto?
«Approvando nuovi insediamenti israeliani a Gerusalemme Est, tradizionalmente un’area araba. Chiedendo di riconoscere agli ebrei il diritto di pregare sulla Spianata del Tempio. Presentando leggi controverse come la recente “legge sulla nazionalità” che mira a designare Israele come Stato ebraico e a togliere all’arabo lo status di lingua ufficiale. Sembra che il governo israeliano faccia di tutto per offrire una scusa per un’altra azione aggressiva che provochi un’ escalation in una profezia auto-avverante ».
In risposta all’attacco alla sinagoga, il governo ha già annunciato demolizioni e restrizioni al movimento dei palestinesi...
«Le loro condizioni diventeranno ancora più dure, quindi ci saranno nuovi attacchi terroristici e di conseguenza verranno prese misure più severe. È un circolo vizioso in cui siamo da tempo. Questo perché il governo insiste nell’andare nella stessa direzione: rispondere con la forza alle azioni dei palestinesi e, finché non ci sarà dialogo, le azioni dei palestinesi saranno improntate alla violenza ».
Colpisce che a compiere i recenti attentati siano stati palestinesi residenti a Gerusalemme Est: il “nemico” non è più oltre il Muro, ma è il vicino di quartiere. Il conflitto diventerà una “guerra tra vicini”?
«Non mi sorprende che, quando la gente non vede dialogo né una prospettiva diplomatica, ci sia qualcuno abbastanza frustrato o estremista da ricorrere alla violenza. Temo davvero che la direzione verso cui sta andando questo governo sia non solo un futuro in cui la nostra vita sarà costantemente minacciata, ma che vedrà i nostri figli crescere in un Paese in cui ci sono persone a cui vengono negati diritti e libertà fondamentali, persone che devono sottostare alle regole d’Israele, ma senza esserne cittadini. Non è accettabile. Non ha senso neppure da un punto di vista pragmatico».
Che cosa potrebbe cambiare questo scenario?
«Non sono così ingenuo da pensare che domani palestinesi e israeliani vivranno insieme come fratelli — per questo ci vuole ancora molto tempo — ma credo che si possano creare le condizioni per instaurare quel genere di coesistenza dove si possa vivere in pace e prosperità. Ora come ora i palestinesi pensano di non avere altra alternativa che la violenza, se vuoi fermare la violenza devi dare loro delle alternative».

Corriere 20.11.14
La doppia sfida di Obama con il Congresso
Oggi il decreto per legalizzare cinque milioni di clandestini. I repubblicani promettono battaglia
L’annuncio poche ore dopo la sconfitta subita in Aula sulla riforma delle intercettazioni della Nsa
di Massimo Gaggi


NEW YORK Non è la sanatoria definitiva che aveva promesso per risolvere, una volta per tutte, il problema degli 11 milioni di immigrati clandestini che vivono negli Usa. Per una riforma del genere era necessario un accordo col Parlamento che non è mai arrivato. Ma, benché temporanea e di portata assai più limitata, la misura che Barack Obama annuncerà stasera con un messaggio televisivo alla nazione segnerà una svolta nelle politiche seguite nei confronti dei lavoratori stranieri privi di documenti. E, inevitabilmente, alimenterà un nuovo, durissimo scontro tra la Casa Bianca e un Congresso che è ormai a maggioranza repubblicana. E che ieri, con un voto a sorpresa al Senato, ha bocciato anche il provvedimento sulla limitazione della sorveglianza della Nsa, l’agenzia di «intelligence» federale, sul traffico telefonico e su Internet: una norma che aveva raccolto anche il consenso di alcuni senatori della destra.
I leader conservatori già accusano Obama di abuso di potere per la decisione sugli immigrati, ma il presidente ha preso le sue precauzioni: il provvedimento, basato sui poteri esecutivi presidenziali, è stato concepito dai legali della Casa Bianca in modo da non ledere le prerogative parlamentari. Non è, quindi, una riforma generale e permanente della materia, ma solo una sospensione temporanea delle deportazioni dei clandestini. Dunque un intervento limitato all’applicazione delle sanzioni previste dalla legge: un campo nel quale le Corti riconoscono al governo un’ampia discrezionalità.
La misura amministrativa che sta per essere emanata non avrà, poi, portata generale, ma dovrebbe applicarsi solo a circa 5 milioni di immigrati, 4 milioni dei quali individuati con criteri basati sulla durata della presenza negli Stati Uniti e sui legami familiari con persone legalmente residenti nel Paese. Non ci sarà, invece, un trattamento preferenziale per i lavoratori agricoli.
Per ridurre ulteriormente i rischi di contestazioni giudiziarie, il provvedimento dovrebbe essere presentato come una semplice estensione dell’atto amministrativo varato nel 2012 dallo stesso Obama per mettere al riparo dal rischio di arresto e rimpatrio nei Paesi d’origine i giovani figli di clandestini che sono cresciuti e hanno studiato negli Usa. Un precedente che ha un rilevante valore legale e anche politico è quello dei presidenti repubblicani, da Reagan a George Bush padre, che a suo tempo hanno varato minisanatorie simili a quella di Obama, anche se di portata più limitata.
Politicamente, insomma, il presidente dovrebbe muoversi su un terreno abbastanza solido anche perché ha dato al Parlamento tutto il tempo per agire. Domani, dopo l’annuncio alla nazione, Obama andrà a spiegare nei dettagli il suo intervento ai ragazzi del liceo Del Sol di Las Vegas. Una scelta non casuale: il Nevada è lo Stato con la più alta percentuale di lavoratori clandestini e questa è la scuola dalla quale, nel gennaio del 2013, Obama lanciò un appello al Parlamento per il varo della riforma. Per un po’ era parso che quello dell’immigrazione fosse uno dei pochi terreni sui quali democratici e repubblicani potevano mettersi d’accordo, visto che anche la destra ha interesse a recuperare il voto degli ispanici. Ma poi tutto si è bloccato per le spaccature emerse nel Partito repubblicano.
Obama dovrebbe quindi avere le spalle abbastanza coperte. L’unico problema di vulnerabilità se lo è procurato da solo quando in passato, davanti ai «latinos» che lo accusavano per la sua inerzia, si è difeso dicendo che la legge gli impediva di fare di più senza l’avallo parlamentare: «Sono un presidente, non un imperatore» disse allora. Lo slogan sulla prepotenza dell’«imperatore Obama» i repubblicani se lo trovano già fatto.

Corriere 20.11.14
Le tensioni con il Congresso
Lo strappo «imperiale» sugli immigrati di un Obama azzoppato
di Massimo Gaggi


Presidente o imperatore? Furibondi perché Barack Obama, rifiutando il suo destino di «anatra zoppa» (per di più pesantemente sconfitta alle elezioni di due settimane fa), cerca di riprendere l’iniziativa su vari fronti, dall’ambiente all’immigrazione, i repubblicani attaccano il presidente accusandolo di abuso di potere. Ieri nel giro di poche ore la Casa Bianca ha incassato una cocente sconfitta con lo stop al Senato al provvedimento che limita i poteri di spionaggio telefonico e su Internet della Nsa, l’agenzia federale di intelligence , e poi è passato all’offensiva sull’immigrazione: stasera Obama annuncerà con un discorso alla nazione il varo di una sanatoria parziale e provvisoria che metterà una parte dei lavoratori clandestini (circa 5 milioni su un totale di 11 milioni di residenti privi di documenti) al riparo dal rischio di deportazione rimpatrio nel Paese d’origine.
Due casi molti diversi fra loro che provocano in America un dibattito politico infuocato, col presidente accusato addirittura di comportarsi da dittatore, ma che avranno sbocchi diversi: nel caso dello spionaggio, il mancato varo di un provvedimento restrittivo sul quale si erano detti d’accordo anche diversi parlamentari repubblicani che temono un’eccessiva invadenza dello Stato nella vita dei cittadini, mette Obama in imbarazzo soprattutto a livello internazionale. Quando dai documenti trafugati da Edward Snowden era emersa l’estensione della sorveglianza della Nsa, il presidente aveva promesso una correzione di rotta ad alleati come Angela Merkel, che aveva reagito in modo rabbioso alla scoperta che anche il suo cellulare era spiato.
Obama un primo intervento lo ha fatto in via amministrativa. Nel clima che si era creato dopo le rivelazioni di Snowden sembrava fosse possibile anche un intervento legislativo più penetrante, ma il ritorno di un’atmosfera da «guerra fredda» con Mosca e, soprattutto, la nuova minaccia terroristica dell’Isis, un’organizzazione che ha già imparato a criptare le sue comunicazioni, hanno cambiato la percezione del problema. In ogni caso la questione si riproporrà nei prossimi mesi perché a giugno scadranno le norme di sorveglianza che erano state introdotte in via straordinaria col «Patriot act» dopo l’attentato dell’11 settembre del 2001.
Toccherà, quindi, al Parlamento Usa decidere se rinnovare o meno questi vincoli stringenti di sorveglianza sui cittadini. E stavolta la responsabilità sarà tutta dei repubblicani che dal primo gennaio avranno il controllo anche del Senato, oltre che della Camera. Il fronte conservatore, fin qui unito sotto la bandiera dell’ostilità nei confronti di Obama, ora dovrà cominciare a fare delle scelte che faranno emergere le distanze abissali che dividono i repubblicani del vecchio establishment moderato dai radicali e dalla destra del Tea Party. E la spaccatura potrebbe emergere già sulla questione dello spionaggio, visto che ieri il provvedimento del governo è stato bocciato da alcuni repubblicani perché pone troppi limiti all’ intelligence mentre altri, come Rand Paul, hanno detto «no» per motivi opposti: chiedono restrizioni molto più severe.
Sull’immigrazione in teoria Obama dovrebbe essere in una botte di ferro: i giuristi della Casa Bianca hanno costruito un provvedimento che agisce solo sull’applicazione delle sanzioni (deportazioni e rimpatrio forzato), un’area che i tribunali, in caso di controversie, hanno sempre riconosciuto come di pertinenza del governo. Ci sono poi i precedenti di presidenti repubblicani — Reagan e Bush padre — che a suo tempo hanno adottato provvedimenti simili, anche se di portata più limitata. Obama, infine, ha buon gioco nel far notare che lui, dopo aver spiegato nel gennaio del 2013 come intendeva riformare le norme sull’immigrazione, ha dato al Congresso tutto il tempo per legiferare: interviene ora perché alla Camera sono falliti tutti i tentativi di accordo su un testo legislativo.
Insomma, il presidente si sta muovendo su un terreno relativamente solido, ma, come altre volte in passato, la sua vulnerabilità se l’è provocata da solo con alcune incaute dichiarazioni. Nel caso della Siria, un anno fa, la decisione di non attaccare il regime di Assad per non fornire un aiuto indiretto ai ribelli sunniti radicali confluiti nell’Isis — una scelta probabilmente fondata — è apparsa un cedimento catastrofico alla luce del precedente impegno della Casa Bianca a intervenire in caso di uso di armi chimiche.
E anche sull’immigrazione è stato lo stesso Obama a regalare munizioni a i suoi avversari: per ben 22 volte negli ultimi quattro anni si è difeso dalle accuse d’inerzia degli ispanici che invocavano la sanatoria sostenendo di non avere i poteri legali per fare di più: «Sono un presidente, non un imperatore». Così adesso i repubblicani non devono nemmeno affaticarsi ad escogitare uno slogan contro il presidente.

Corriere 20.11.14
La disperata fuga di Isabel e Maria verso l’eterno sogno americano
di Guido Olimpio


WASHINGTON Isabel e Maria. Spinte dal sogno americano sono entrate in un incubo e solo all’ultimo istante hanno evitato il peggio. Le hanno arrestate in Texas, contea di Brooks, quando ormai erano senza forze. Un’esperienza vissuta dalle migliaia di clandestini che ogni anno provano a entrare negli Stati Uniti dal confine meridionale. Isabel e Maria — i nomi veri sono altri — sono partite dal Salvador, con pochi spiccioli e molta paura. Gli immigrati non solo devono pagare il «biglietto» ai «coyotes», i trafficanti che garantiscono il passaggio oltre il muro, ma spesso sono spogliati d’ogni cosa da banditi e da poliziotti corrotti che chiedono il «pizzo». Chi non si piega può pagare con la vita.
In questi mesi in tanti hanno lasciato il Centro America, costretti dalla povertà e ingannati dall’idea che Obama avrebbe concesso l’amnistia a chi era «dentro». Una voce messa in giro dai contrabbandieri di persone per incassare più dollari. I registi del traffico, da buoni manager, hanno modificato i corridoi. Per anni il punto preferito è stata l’Arizona. Un percorso pericoloso attraverso il deserto per evitare i controlli della Border Patrol.
A centinaia sono morti, portati via dalla sete, dal calore terribile, dalla fatica che ti impedisce di fare un passo, dalla pallottola dei briganti. Se sei stanco e chiedi di fermarti, i «coyotes» ti abbandonano in qualche canyon sperduto. A volte una slogatura equivale ad una condanna capitale: non puoi stare al passo degli altri e li vedi andare via. Al clandestino non rimane che stendersi sotto un cespuglio e aspettare la fine. Le associazioni umanitarie, con le quali siamo stati più volte a sud di Tucson (Arizona), hanno contato oltre 100 resti umani solo nel 2014. Ma chissà quanti sono quelli mai recuperati lungo «il cammino del diavolo». Non va meglio in Texas, nuovo punto critico, dove nello stesso periodo sono deceduti 155 immigrati. Due scheletri non erano lontani da dove hanno trovato Isabel e Maria. Vittime senza nome di un viaggio dove non sono ammessi errori.

Corriere 20.11.14
Anonymous toglie i cappucci agli adepti del Ku Klux Klan
Diffusi i nomi dei razzisti alla vigilia della sentenza di Ferguson
di Guido Olimpio


WASHINGTON I cyber guerrieri mascherati contro i razzisti con il cappuccio. Anonymous contro il Ku Klux Klan. Una battaglia sul web attorno a quella che si potrebbe accendere nelle vie di Ferguson, Missouri.
I militanti hacker hanno smascherato le identità di molti adepti xenofobi ed hanno postato su Internet le informazioni sulla loro vita privata. Nomi, familiari, figli, indirizzi, professione, contatti. In alcuni casi hanno anche assunto il controllo degli account Twitter o lasciato foto per ridicolizzare gli avversari. Un attacco profondo in vista della decisione del Gran Giurì su Darren Wilson, il poliziotto che uccise in agosto un ragazzo afro-americano nel sobborgo di St Louis.
Gli attivisti di Anonymous si sono presentati sul web con un messaggio: «Non perdoniamo, non dimentichiamo. Ku Klux Klan, preparati che arriviamo». E poi hanno lanciato l’assalto cercando di dare nome e cognome ai loro avversari. I razzisti hanno risposto: «Leggiamo divertiti le vostre minacce. Pensavamo che voi foste per la libertà di espressione. Ma siete solo dei codardi». Controreplica: «Non vi attacchiamo per quello in cui credete ma per quanto volete fare contro chi protesta a Ferguson... Siete un gruppo terrorista, avete le mani sporche di sangue».
Gli hacker hanno presentato la loro azione come una rappresaglia. Qualche giorno fa gli incappucciati avevano annunciato il ricorso alla forza nei confronti dei manifestanti di Ferguson. La sortita del Ku Klux Klan è stata seguita da un’altra non meno preoccupante. Un’organizzazione, definitasi «Resistenza militante», ha offerto 5 mila dollari a chi svelerà il luogo segreto dove vive l’agente Wilson, una richiesta legata ad una possibile ritorsione. Dunque, nulla di buono in una zona dove la tensione cresce di ora in ora.
L’incursione di Anonymous è certamente ad effetto, toglie letteralmente la maschera agli estremisti «in bianco». Ma è davvero efficace? Alcuni esperti dubitano e sostengono che ai membri del KKK in realtà importi poco di mantenere segreta l’identità. Il cappuccio è solo un simbolo e molti non nascondono la loro appartenenza. Forse solo chi abita in zone razziali miste o svolge un lavoro insieme ad altri potrebbe avere qualche problema.
Un rilievo diverso arriva invece da Mark Potok, esponente dello SPLC, il noto istituto che conduce ricerca su formazioni estremiste e xenofobe. A suo giudizio i figli dei membri del KKK dovrebbero essere lasciati fuori dalla contesa, non c’entrano nulla con le scelte dei padri.
L’esperto poi aggiunge che il movimento non è compatto e spesso è più impegnato nelle diatribe interne che lo distolgono dalle vere campagne. Quando dicono di voler usare la «forza letale» a Ferguson è perché cercano di recuperare terreno proponendosi come i paladini dei bianchi. La minaccia non va sottovalutata ma neppure ingigantita.
Ora molti si attendono eventuali contromosse da parte degli ultrà di destra. Qualche colpo che catturi l’attenzione e contrasti Anonymous. Una partita infinita su Internet, il fronte senza confini.

il Fatto 20.11.14
Scotland Yard e i casi insabbiati degli orchi pedofili
Bambini abusati e uccisi tra gli anni settanta e novanta
di Caterina Soffici


Londra Ancora pedofili, ancora un ragazzino scomparso. Ancora politici e alti papaveri coperti dalla casta di Westminster e dalla polizia. E ancora quella casa degli orrori, la Elm Guest House, a Londra, che torna in una nuova testimonianza. Lo scoop è del Daily Telegraph, che ha intervistato il padre di Vishal, 8 anni, scomparso nel 1980.
Il padre è Vishambar Mehrota, oggi 69enne, giudice di pace in pensione, che accusa pesantemente Scotland Yard di aver insabbiato il caso della sparizione di suo figlio e di aver ignorato la sua denuncia.
Vishambar aveva ricevuto la telefonata di un marchettaro ventenne, frequentatore della casa per appuntamenti e delle orge per maschi di alto bordo e aveva detto che il bambino era stato rapito e portato lì. Dice il padre: “Avevo registrato i 15 i minuti della telefonata del giovane e l’avevo portata alla polizia. Parlava del bambino e della casa per appuntamenti. Diceva che era frequentata da giudici e politici, che abusavano di bambini. Invece di indagare se ne sono fregati e hanno insabbiato tutto”. Nello sfogo al Telegraph, Mr Mehrota racconta che anche il giovane prostituto aveva denunciato alla polizia le attività che avvenivano in quel luogo, ma senza ottenere risposta. “All’epoca credevo nella polizia – dice Vishambar Mehrota – Adesso mi è chiaro che hanno coperto tutto”.
VISHAL ERA SCOMPARSO
il 29 luglio 1980, il giorno del matrimonio del principe Carlo e di Lady Diana, quando la famiglia era andata a Putney a vedere il passaggio della carrozza reale. Sulla via verso casa, il bambino era andato avanti a piedi di qualche centinaio di metri ed era svanito nel nulla.
Solo due anni dopo, nel 1982, il corpo fu ritrovato nel West Sussex, orrendamente mutilato. Era solo una parte dello scheletro, senza vestiti, monco: mancavano le gambe, il pube e la parte inferiore della schiena. Nel referto, il coroner scrisse che erano plausibili “giochi osceni”. “Questa Elm Guest House era vicino al luogo dove è scomparso Vishal – raccona il padre – Lì dentro c’erano dei predatori potenti, che rapivano bambini e ne abusavano. Adesso tutto torna. E capisco anche perché la polizia non ha mai dato seguito alle mie denunce e non ha mai indagato. Penso che le rivelazioni uscite dopo il caso di Savile abbiano aperto il vaso di Pandora”.
Probabile che abbia ragione. Jimmy Savile, famoso dj e presentatore della Bbc ormai morto, è accusato di decine di violenze. Anche lui coperto dai vertici delle Bbc e da un cerchio magico di amici di merende. Abusi e coperture che ha attraversato la Gran Bretagna per due decenni, come minimo.
SI PARLA DEGLI ANNI Settanta, Ottanta e Novanta. Difficile tenere il conto di tutte le schifezze. Ogni giorno c’è una rivelazione nuova. La settimana scorsa per la prima volta si era parlato di omicidi. E adesso arrivano altre accuse.
Delle varie inchieste la più scottante è ora quella che ruota intorno a Westminster, che ha molte connessioni con la Elm Guest House. C’è un fascicolo, il Dickens Dossier, che è misteriosamente scomparso proprio dalle stanze del parlamento. Chi doveva indagare ha coperto, chi sapeva ha taciuto e tace ancora. Dal palazzo escono dichiarazioni indignate e imbarazzate. Nick Clegg (vice capo del governo) tuonava ieri: “Bisogna fare chiarezza”. Le solite chiacchiere.
Da Scotland Yard invece, per il momento, silenzio assoluto. Proprio nel giorno in cui a Rotheram, altra città dello scandalo, dove si indaga su 1.400 casi di violenze su minori, sono stati indagati 10 poliziotti per aver insabbiato le denunce per coprire politici e amici.
In uno dei casi si cita la violenza su una bambina di 12 anni, archiviata perché “consenziente al 100%”. Evidente lo sconcio, dove tra l'altro la legge inglese dice che il sesso di adulti con minori di 16 anni è sempre violenza.

Corriere 20.11.14
Troppi divorzi in Inghilterra e lo Stato insegna cos’è il vero amore
di Fabio Cavalera


LONDRA E se lo Stato si occupasse di amore? O meglio di «instillare nelle giovani coppie i valori di amore e fiducia»? Le virgolette non sono a caso perché la prospettiva ravvicinata (il prossimo anno) di vedere le istituzioni del Regno Unito impegnate nel predicare ai neo sposi «l’amore corretto», quello platonico, quello sentimentale, quello romantico, non è mica una barzelletta, visto che il ministro del Lavoro britannico, il conservatore Ian Duncan Smith, usando proprio le citate parole, ha preannunciato una nuova mansione per gli health visitor , assistenti sanitari e sociali del servizio pubblico (il National Health Service). Impegnatissimo nel tagliare il welfare, il governo Cameron vuole inventarsi una politica a sostegno della famiglia molto interventista, quasi da Stato socialista. Partendo dal dato incontestabile che le favole
e i matrimoni d’amore tragicamente finiti in baruffe sono aumentati in maniera esponenziale, intende spedire gli health visitor nella case di chi si è appena unito in matrimonio per «instillare» appunto «i valori» più alti della catarsi
e per prevenire il flop della dolorosa rottura. Nessuno sa ancora quali saranno le linea guida del «vero amore» promosso, inculcato, divulgato dallo Stato: il ministro è rimasto sul vago ma, se mai tale trovata avrà seguito, sarà interessante scoprire e leggere la «Bibbia laica» per le nuove coppie che gli assistenti sociali insegneranno a domicilio. Magari è un’idea geniale e avrà effetti straordinari. Ma che sia lo Stato a decidere che cosa è l’amore suona un po’ strano. La verità, ovviamente non confessata pubblicamente dal ministro, è che i divorzi costano indirettamente al bilancio statale un sacco di soldi (in termini di supporto alle donne e agli uomini che si lasciano e ai loro figli). Hanno calcolato che un contribuente mediamente paga ogni anno la bellezza di 1.546 sterline per il welfare da post divorzio. L’obiettivo vero, dunque, è tagliare. Come? Sbarrando il più possibile le porte alle cause e curando i litiganti potenziali, tramite gli health visitors , con i comandamenti (di Stato) dell’amore. Bizzarro.

La Stampa 20.11.14
Quei 50 giorni di Hong Kong, tra studenti, mafia e illusioni
Iniziati gli sgomberi in alcune zone, la rivolta sembra segnare il passo
Un membro delle Triadi: ci offrivano solo 80 euro per creare il caos
di Federico Varese


Sono passati cinquanta giorni da quando, il 28 settembre, un gruppo di studenti ha occupato alcune strade del centro di Hong Kong. Il movimento degli Ombrelli mostra adesso segni di smarrimento. Mentre la questione ucraina è stata al centro dell’agenda dell’ultimo G20, nessuno vuole irritare il presidente della Cina Xi Jinping con domande scomode su Hong Kong. I ragazzi e le ragazze di questa città affrontano da quasi due mesi la seconda potenza mondiale, le botte della polizia e le incursioni della mafia locale con la sola forza delle loro convinzioni.
Ma possono essere fieri di se stessi: sono l’ultimo anello di una catena che inizia con la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti e comprende tutti coloro che hanno combattuto per un principio semplice e universale, la democrazia rappresentativa.
Nonviolenza 
A differenza di altri protagonisti di una storia benemerita iniziata tre secoli fa, gli studenti di Hong Kong hanno adottato il metodo della nonviolenza e tra i loro leader vi sono donne coraggiose. 
Yvonne Leung è la presidente dell’associazione degli studenti dell’Università di Hong Kong, dove si sta laureando in giurisprudenza, e ha partecipato agli inconcludenti incontri col governo. Porta i capelli lunghi sciolti e un paio di occhiali neri che inquadrano uno sguardo insieme attento e timido. Indossa jeans cortissimi e una maglietta nera con stampato il nastro giallo simbolo del movimento. La incontro a Mong Kok, uno dei tre punti della città occupati dalle proteste. Mong Kok è un quartiere molto diverso dall’elegante zona di Admiralty, di fronte agli uffici del governo, dove è accampato il grosso degli studenti. Qui gli occupanti non arrivano al centinaio, guardati a vista da decine di poliziotti. Le tende di notte non sono più di venti. A Mong Kok la mafia locale gestisce centinaia di bordelli e i mercati degli ambulanti. Controlla anche i minibus privati che, per pochi dollari, scorrazzano tra la penisola di Kowloon e l’isola di Hong Kong. 
La battaglia di Mong Kok 
Una delle ultime iniziative dell’amministrazione inglese è stata quella di riqualificare alcune strade della zona, promuovendo la costruzione di grandi magazzini e hotel di lusso. Ma le principali attività criminali si sono solo spostate di qualche centinaio di metri e le Triadi continuano a riscuotere il pizzo sulla maggior parte delle attività economiche. 
Appena può, Yvonne viene a Mong Kok e si siede nella tenda che serve come quartiere generale della Federazione degli Studenti. «Ero proprio su questo incrocio anche il 3 ottobre, quando centinaia di energumeni coperti di tatuaggi ci hanno attaccato». Quel giorno la polizia lasciò che studenti e cittadini venissero malmenati da bande organizzate. Molte ragazze erano nella prima fila del cordone che proteggeva lo spazio occupato e sono state aggredite, palpeggiate e picchiate. «Non abbiamo reagito con altra violenza, siamo rimaste a braccia conserte per proteggere il seno e abbiamo cercato di sorridere, e di parlare». La battaglia di Mon Kok è durata diverse ore, senza che nessuno degli aggressori venisse fermato. «In quei momenti ho visto cose terribili e ho avuto paura».
Pochi giorni dopo l’incontro con Yvonne, un esponente delle Triadi di Mong Kok ha accettato di farsi intervistare. Il mio contatto passa attraverso l’industria cinematografica, che notoriamente ha legami con la criminalità organizzata. Tak - questo il nome di fantasia - riscuote il pizzo nella zona. Ci tiene a far sapere che non è affatto contrario al movimento per la democrazia, anzi spesso si ferma di notte nelle aree occupate per dare una mano agli studenti. «Nelle Triadi ci sono persone di tutti i tipi, alcuni hanno una coscienza, altri pensano solo a fare soldi». 
Pagati per picchiare 
In ogni caso conferma di aver ricevuto, la mattina del 3 ottobre, un sms da un boss molto importante. «Ci offriva dagli 800 ai 1.200 dollari di Hong Kong (80-120 euro) per partecipare agli scontri». Poiché la cifra era irrisoria, nessuno del suo gruppo si è mobilitato. «Solo dei teppisti che risiedono vicino al confine con la Cina - nei cosiddetti Nuovi Territori - hanno accettato. Sono certo che erano tutti originari di Hong Kong, ma nessuno è venuto di sua spontanea volontà. Era un attacco organizzato e pagato dai grossi boss».
Wing Chung, professore di scienze sociali alla City University di Hong Kong ed esperto di movimenti collettivi, mi spiega che una tattica delle autorità cinesi consiste nell’utilizzare piccoli delinquenti per aggredire manifestazioni pacifiche. «Invece di usare la polizia, preferiscono mobilitare le gang, e lo stesso è accaduto a Mong Kok». I soldi per l’attacco furono offerti dai boss, ma molti sospettano che dietro vi fossero dei ricchi imprenditori con favori da restituire al governo. Osservatori come Ho Wing Chung puntano il dito contro i costruttori che hanno di recente ottenuto il permesso di edificare su terreni espropriati ai residenti dei Nuovi Territori, una vicenda scandalosa narrata in maniera molto efficace nel film «Overheard 3» (Tak sostiene che il film è accurato in ogni particolare). 
Eppure l’aggressione mafiosa a Mong Kok non ha avuto l’effetto sperato. Tak conferma che le Triadi sono rimaste stupite dalla reazione degli studenti. «La violenza contro i ragazzi non ha funzionato. Si sono stretti tra loro, hanno preso le botte e il cordone di difesa non si è rotto. Alla fine gli attaccanti si sono dovuti ritirare. La polizia era molto arrabbiata perché hanno fatto una figuraccia e ci hanno fatto sapere di non fare più cose simili, altrimenti ci chiudono i locali di Mong Kok».
Il «villaggio» 
Dopo la visita a Mong Kok sono tornato ad Admilarty, di fronte al palazzo del governo, dove per una settimana ho incontrato gli studenti. Lì, hanno costruito un vero e proprio villaggio con centinaia di abitanti. Ogni tenda ha un numero che permette a un rudimentale sistema postale di distribuire lettere e messaggi. Di giorno ragazzini con il vestito della cerimonia di laurea si fanno fotografare sotto lo scalone dedicato a John Lennon. Verso le sei di ogni sera, un leader del movimento racconta gli eventi della giornata, poi ognuno fa qualcosa di utile.
C’è chi fa lezione, chi organizza discussioni sui classici della filosofia politica, chi si prende cura di un piccolo orto creato su un marciapiede. Un falegname ripara le barricate e costruisce dei piccoli mobili, mentre uno studente della mia Università distribuisce un sondaggio. Il movimento non accetta donazioni in denaro ma solo beni materiali, come coperte, batterie elettriche e cibo. Di notte i ragazzi fanno i compiti nella zona studio, rifocillati dai pasticcini offerti da una signora di mezza età. Piccoli cartelli gialli, in decine di lingue, recitano: «Sostieni la democrazia a Hong Kong», di fianco a testi di Nelson Mandela e Gandhi.
Nonostante le molte banalità che si leggono sui giovani nati con l’Ipad, assorbiti da chiacchiere virtuali, questa generazione non conosce alcuna contraddizione tra impegno diretto e presenza sul web. Tutti hanno un cellulare o un computer dove scrivono, leggono, ascoltano musica, riprendono se stessi e il mondo che li circonda. Di notte un proiettore rilancia sul muro di un palazzo governativo i messaggi Twitter indirizzati ad #OccupyCentral. 
I rischi non mancano. Una sera un gruppo di giovani che indossano la maschera degli hacker Anonymous fa irruzione nel villaggio della democrazia e cerca di forzare il cordone di sicurezza. La polizia carica colpendo anche chi si trova in mezzo. 
L’impasse 
Vi sono anche rischi strategici e di lungo periodo. Il movimento ha raggiunto un’impasse e non sembra sapere come affrontare il futuro. Nel frattempo le strade vengono sgomberate dalla polizia. Ma qualunque sarà l’epilogo, un obiettivo è stato raggiunto. Da cinquanta giorni mafia, malaffare e una superpotenza sono impotenti di fronte alla richiesta ferma e gentile di Yvonne e delle sue compagne: una persona, un voto.

Repubblica 20.11.14
Sergej Magnitksij, 37 anni, avvocato. Denunciò la corruzione intorno al presidente russo. Morì misteriosamente in prigione. La “Novaja Gazeta” ha trovato i suoi diari
I quaderni del carcere di chi sfidò lo zar Putin
di Nicola Lombardozzi


“Hanno deciso che devo dimenticarmi della mia vita e che sarò dimenticato per sempre”
Dopo aver denunciato casi di corruzione, Sergej Magnitskij morì nel 2009 in carcere

MOSCA C’È un buco nella gavetta di plastica, la broda di latte e farina finisce per terra, si sentono già i topi che corrono festanti per le condutture: ormai la cena è tutta per loro. L’avvocato Sergej Magnitskij scrive al buio, accovacciato in un angolo della sua cella a pochi chilometri dalle luci della Piazza Rossa e dal frastuono del traffico di Mosca: «Hanno deciso che devo dimenticarmi della mia vita e che sarò dimenticato per sempre». Sono righe del diario disperato di un uomo che in effetti ben pochi ricordano, almeno in Russia, a cinque anni esatti dalla sua morte ancora tutta da chiarire in una delle più tenebrose prigioni del Paese.
Aveva 37 anni, un’accusa molto generica per appropriazione indebita, ma soprattutto il peso di una rivelazione urlata agli investigatori che lo interrogavano: «Ho le prove della corruzione degli uomini più vicini al Presidente e anche dello stesso Putin in persona». Il testo integrale delle 44 pagine del diario è stato pubblicato ieri dall’unico giornale di opposizione sopravvissuto, quel Novaja Gazeta che ospitava i reportage della giornalista Anna Politkovskaja assassinata nel 2006, nel giorno del compleanno di Putin. Un racconto minuzioso, fatto di piccole pedanterie da avvocato alternate a momenti di sconforto e di rabbia. E della paura di sparire del tutto dalla memoria dei russi e degli altri. Eppure Magnitskij ha avuto un ruolo più importante di quanto aveva creduto. Nel 2009, la sua morte, che perfino la commissione dei diritti umani del Cremlino definì «causata probabilmente da percosse e maltrattamenti», rappresentò il primo segno di una frattura nei rapporti tra Stati Uniti e Russia, via via scivolati attraverso la crisi ucraina verso l’attuale situazione da nuova guerra fredda. L’avvocato lavorava infatti per l’americana Firestone Duncan e il suo arresto, secondo gli Usa, sarebbe stato un tentativo di fare pressione sull’azienda per estorcere tangenti con un metodo ricattatorio già denunciato da molti oppositori del governo Putin. In suo nome furono stabilite da Washington le prime sanzioni contro Mosca con la cosiddetta “Lista Magnitskij” che vietava l’ingresso negli Usa a una lista di funzionari russi sospettati di avere avuto a che fare con la vicenda. E, pur di mantenere il punto e bollarlo definitivamente come un malfattore poco credibile, la magistratura russa ha dovuto esibirsi in una delle più clamorose operazioni giudiziarie della sua storia: un processo a un morto, condotto come fosse stato possibile, con tanto di testimoni, difensori d’ufficio e giuria. Nel diario non ci sono racconti di torture e di pestaggi più volte raccontati dalla stampa americana. Ma forse c’è di peggio: la cronaca di un metodico svilimento del detenuto e delle sue condizioni psicologiche nel carcere della Butyrka, una fortezza del Settecento talmente inespugnabile che il grande illusionista Houdini più di un secolo fa la scelse come scenario per una delle sue più spettacolari evasioni. L’incubo è raccontato in ogni aspetto. Dal luogo: «Siamo in sei in una stanza di sette metri quadrati. I vetri sono rotti. Qualcuno ha volutamente rotto la valvola dell’acqua calda. Il buco per terra che fa da cesso è vicino all’unica presa di corrente dove è possibile cucinare qualcosa». Al trattamento: «Ho fatto vedere al medico gli esami che mi avevano fatto nell’altro carcere. Ho calcoli biliari e una pancreatite grave. Gli ho chiesto medicine e una dieta specifica. Mi ha detto: cosa crede di essere in una clinica? ». Passando per le umiliazioni: «Ieri notte un rivolo di acqua maleodorante ha cominciato a uscire dal gabinetto. La cella si è allagata, il livello è arrivato alle caviglie. Saltiamo da un letto all’altro come delle scimmie». Oppure: «Alle sei del mattino mi hanno prelevato per portarmi in tribunale. Eravamo 15, tutti in piedi, in un piccolo furgone fatto per cinque, sei persone. Non mi avevano avvisato. Avrei voluto prepararmi, studiare le carte. Ma ormai sono cose superate. Quello che conta è che questo era il giorno previsto per la doccia settimanale. Dovrò aspettare altre sette giorni per potermi lavare».
Oppresso da una malattia degenerata con il tempo Magnitskij perde il piglio combattivo dei primi giorni: «Prima scrivevo esposti, denunce sulle condizioni di vita, per il cibo. Ma le guardie che le ricevevano ridevano. Non credo che le abbiano mai consegnate a qualcuno. Adesso chiedo almeno di poter vedere mia madre, qualche mio amico. Nemmeno quello». E come in tutte “le mie prigioni” vengono fuori i diversi comportamenti umani. C’è il giudice che se ne lava le mani: «Un pasto caldo? Il vitto non è di mia competenza». L’operaio pietoso: «L’idraulico venuto a salvarci dopo cinque giorni in una cella allagata di liquami ci ha guardato con compassione. Era stravolto. Le guardie lo hanno spinto via mentre continuava a fissarci ». E il secondino crudele: «Diciotto ore in cella al tribunale senza neanche un bicchiere d’acqua mentre le guardie bevevano un tè dopo l’altro. Ho chiesto una tazza anche per me. Mi hanno risposto: “Purtroppo non abbiamo teiere”».
Dopo anni di indagini e polemiche la corte russa ha ammesso che «le condizioni di salute del detenuto furono forse sottovalutate dallo staff medico» limitandosi a una censura della dottoressa responsabile. Commissioni indipendenti finanziate dagli Stati Uniti sostengono invece la tesi dell’omicidio volontario. I russi che ieri leggevano le pagine di Novaja Gazeta registrano in ogni caso come certe carceri possono spezzare per sempre la vita di una persona.

Repubblica 20.11.14
Le momerie di Gorbaciov “Il mio ultimo giorno al Cremlino”


MOSCA L’ultimo Presidente dell’Unione Sovietica cerca ancora le agende, le fotografie, gli effetti personali che teneva al Cremlino: «Mi dissero che li avevano portati via su un carrellino di servizio. C’era fretta di sgomberare la stanza dalle mie cose, Eltsin era già dentro al mio ufficio, che brindava con whisky di malto». Era la sera del 26 dicembre 1991, Mikhail Gorbaciov aveva appena firmato le dimissioni: la dissoluzione formale dell’Urss era questione di ore. Ma quello che ancora Gorbaciov non riesce a digerire è la fretta poco gentile del suo predecessore. Lo scrive adesso, 23 anni dopo, in un libro presentato ieri a Mosca e intitolato Dopo il Cremlino . Il racconto dell’ultimo giorno comincia dalla tarda mattinata.
«Avevo appena firmato le mie dimissioni. Avevo tempo, credevo, fino al 30 del mese.
Entrai in ufficio come fosse un giorno qualunque. Guardai i giornali, ma soprattutto i telegrammi dei cittadini. Molti erano affettuosi ma già si era scatenata la macchina delle calunnie. Qualcuno farneticava di “ricchi conti nelle banche svizzere”. Ricordo che mi dissi: “Questa gente non ha capito che è arrivata a un passo dal perdere il proprio Paese”». È l’inizio di una campagna che non creerà una bella immagine di Gorbaciov. E lo sfratto accelerato è solo l’inizio: «Mentre stavo scrivendo qualche dedica, mi interruppe una telefonata di mia moglie Raissa. Era tristissima, l’avevano chiamata dall’amministrazione per chiederle di sgomberare l’appartamento e che non ci avrebbero aiutato per il trasloco». «Subito dopo mi arrivò un biglietto che diceva che io e mia moglie diventavamo proprietari di un appartamento di 65 metri quadri in via Kossighin». Poi nel pomeriggio l’ultima spinta: «Ero in macchina per tornare in ufficio. Mi telefonarono per dirmi che non avrei potuto entrare. Che dentro Eltsin aveva fatto stappare un paio di bottiglie insieme a quelli del suo staff. Compresi quelli che due anni dopo avrebbero tentato di prendere la Casa Bianca e che lui fece prendere a cannonate.
Sapevo che non vedeva l’ora, sapevo che il mio ufficio, nel suo giro, lo chiamavano “la vetta da conquistare”. Ma mi sarei aspetto almeno un po’ più di tatto». Chiese al funzionario al telefono: «E la mia roba?». Gli fu risposto che era stata portata via. «Da allora non ho mai più messo piede in quella stanza».
(N. L.)

BLOCCO 18

Rodotà
Repubblica 20.11.14
Solidarietà la più fragile e necessaria delle utopie
Nel nuovo saggio Stefano Rodotà illustra il destino di un principio nobile ma debole che ritorna nell’era della disuguaglianza
di Roberto Esposito


NEL Gargantua e Pantagruel Rabelais racconta che, pronunciate nel freddo dell’inverno, alcune parole gelano e non vengono più udite, per poi, quando cambia la stagione, tornare a parlarci. È quanto sembra accadere alla categoria di solidarietà, cui Stefano Rodotà dedica il suo ultimo saggio, edito da Laterza col titolo Solidarietà. Un’utopia necessaria. Dopo essere stata a lungo esiliata dalla sfera del discorso pubblico, essa torna a riaffiorare con rinnovata attualità in una fase in cui il lessico freddo della scienza politica sembra insufficiente a raccontare la nostra vita.
Con la consueta competenza, congiunta a una straordinaria passione civile, Rodotà ne percorre la genealogia, analizzandone la storia complessa, fatta di slanci e ripiegamenti, di arresti ed espansioni.
Teorizzata all’origine della stagione moderna da La Boétie, Locke, Montesquieu come compenso al dispiegamento dell’individualismo, essa è espressa dal principio di fraternità nella triade rivoluzionaria, insieme a quelli di eguaglianza e di libertà. Già da allora, tuttavia, la solidarietà appare più fragile delle altre due nozioni, perché situata in un orizzonte più morale che politico. Segnata dall’esperienza cristiana, piuttosto che alla giustizia, essa è spesso ricondotta a un atteggiamento di carità nei confronti del prossimo. Così nel proclama del 18 brumaio Napoleone la sostituisce con il paradigma di proprietà. Rappresentata dalle rivendicazioni operaie nell’età della rivoluzione industriale, la solidarietà assume un rilievo politico nel primo dopoguerra, con la costituzione di Weimar. Ma è solamente dopo la seconda guerra mondiale, alla creazione del Welfare, che essa viene istituzionalizzata. Nella costituzione italiana in particolare il principio di solidarietà, menzionato nel secondo articolo, acquista consistenza nel rapporto con il doppio criterio del carattere fondante del lavoro e della dignità del lavoratore.
Tuttavia ciò non basta a consolidare stabilmente l’idea, e la pratica, di solidarietà. Rodotà non perde mai di vista il nesso costitutivo tra concetti e storia, il modo in cui la mutazione dei contesti, e anche dei rapporti di potere, modifica la prospettiva dei soggetti individuali e collettivi. La reale forza di un concetto non sta nella sua fissità, ma nella sua capacità di trasformarsi in base al mutamento dell’orizzonte in cui è situato. Collocato nel punto di incrocio, e di tensione, tra i piani dell’etica, del diritto e della politica, il criterio di solidarietà deve continuamente allargare i propri confini per riempire le forme sempre nuove che assume la politica. Se fino agli anni Settanta essa riguarda essenzialmente la sfera dello Stato – definito perciò, con un termine inadeguato e restrittivo, “assistenziale” – già dopo un decennio deve misurarsi con i processi di globalizzazione.
Ma proprio qui sta la difficoltà. È possibile trasferire la solidarietà dall’ambito nazionale a quello globale? Come superare le differenze che la globalizzazione non riduce, ma intensifica? Cosa può significare una solidarietà di tipo cosmopolitico? Come Rodotà ben dimostra con una fitta serie di rimandi ai Trattati e alle Carte costituzionali, in politica i processi di allargamento della cittadinanza non sono mai lineari. Anzi spesso subiscono intoppi e strappi che li mettono radicalmente in questione. A partire dall’Europa, vincolata a politiche di austerità che tendono inevitabilmente a schiacciare i membri più deboli sulla parete di un debito impossibile da scalare.
Quella che oggi è in corso è una vera battaglia che attraversa i confini degli Stati lungo faglie transnazionali. Da un lato coloro che rivendicano una costituzionalizzazione della solidarietà mediante politiche capaci di ridurre lo scarto tra privilegi degli uni e sacrifici degli altri; dall’altro le grandi centrali finanziarie che cercano di neutralizzare lo stesso principio di solidarietà, limitandone gli effetti, riducendone la portata, spoliticizzandone gli strumenti.
Un punto di resistenza a tale riduzione è costituito, per Rodotà, dalla categoria di “persona”, valida per ciascuno e chiunque, al di là della sua specifica condizione. E perciò paradossalmente coincidente con il principio di impersonalità. Il fatto che, ad esempio, nelle donazioni di organi o del seme, il donatario non debba conoscere l’identità del donatore, costituisce il culmine dell’atto di solidarietà. Se a donare è sempre una persona ad un’altra persona, a proteggere quel dono da qualsiasi tipo di interesse personale è la sua modalità anonima ed impersonale. Come ricorda Rodotà, all’origine della nostra storia il mistero di questo eccesso è narrato nella parabola del samaritano: la vera solidarietà non sta nell’amore del prossimo e del conosciuto, ma dello straniero e dello sconosciuto.
Il ilibro: Solidaretà di Stefano Rodotà (Laterza pagg. 142, euro 14)

Repubblica 20.11.14
Il naufragio senza onore della Regia Marina
Le sconfitte, gli errori, le inesperienze e la fine della flotta italiana Torna in libreria “Fucilate gli ammiragli” di Gianni Rocca
di Stefano Malatesta


ALL’INIZIO della Seconda guerra mondiale la Regia Marina era la più elegante e la più ricercata arma italiana. Nel quadrato ufficiali di ogni nave si era serviti da camerieri che avevano l’obbligo di portare i guanti bianchi. Durante la Prima guerra mondiale gli episodi più clamorosi, come la Beffa di Buccari e l’affondamento della Viribus Unitis, erano state operazioni di grande audacia ma di modesta entità che non avevano influito sull’andamento della guerra. Per ritrovare la vera tradizione italiana bisogna risalire indietro negli anni: come gli inglesi hanno avuto Nelson e Trafalgar, gli italiani hanno avuto Lissa e l’ammiraglio Persano. Eppure alla fine degli anni Trenta, erano in molti a credere, dopo il via dato da Mussolini alla costruzione di imponenti navi da battaglia, che l’Italia potesse rivaleggiare finalmente nel Mediterraneo con le navi della prima potenza navale del mondo, la Perfida Albione.
Questo convincimento si dissolse in poche settimane, quando si passò dai minacciosi discorsi lanciati dal balcone di Palazzo Venezia alla la guerra combattuta. Gli inglesi avevano a disposizione una flotta obsoleta ma più potente di quella italiana e numerose navi erano già dotate di un radar. La Marina era favorita anche da un servizio di informazione migliore di quello italiano che decrittava i messaggi tedeschi. Ma non era solo il superiore tonnellaggio della flotta inglese o le informazioni ottenute attraverso la decrittazione dei messaggi che facevano la differenza. La Marina inglese poteva essere sconfitta casualmente in uno scontro con i giapponesi che all’inizio della guerra avevano affondato le uniche due navi da battaglia britanniche nel Pacifico “The Repulse” e “Prince of Wales”. Ma la differenza tra la Marina italiana e quella inglese era ancora troppo grande in quella che viene chiamata “ the seamanship”, un vocabolo intraducibile che riassume tutte le capacità marinare. Gli italiani si muovevano con estrema prudenza in manovre del tipo “Avanti tutta, quasi indietro” e i comandanti sul posto avevano una autonomia limitata: ogni mossa doveva essere approvata da Supermarina, un supremo comando che stava a Roma e che era gestito da modesti uomini di mare che passavano il tempo a farsi le scarpe tra loro.
Questo quadro non molto allegro era aggravato dalla assoluta non cooperazione dell’Aereonautica che doveva essere l’arma del regime e che invece fu abbandonata a se stessa dopo i trionfi delle trasvolate atlantiche. I marinai della Royal Navy avevano diritto a un boccale di rum cotto al giorno e il loro training era duro e continuo: le navi erano sempre in navigazione anche con il mare più tempestoso. Mentre, come diceva Kesserling, «la Marina Italiana era la Marina della bella giornata» e le navi rimanevano per settimane immobili dopo aver dato alla fonda nei porti con i marinai impegnati ad ottenere il maggior numero delle licenze possibili. E l’eccesso di autarchia aveva portato a ignorare le innovazioni tecniche e i modi di combattimento che si facevano all’estero. Le corazzate italiane erano al vertice della tecnologia di allora e mostravano cannoni immensi ma i cannonieri italiani non avevano fatto sufficiente pratica per la paura del comando di sprecare le munizioni. Durante l’attacco a Taranto la contraerea italiana sparò dodicimila colpi: riuscirono ad abbattere solo uno o due aerosiluranti. Ci furono casi in cui le navi italiane, che avevano sorpreso la flotta nemica più per caso che per abilità, la lasciarono sfuggire con una manovra di accostamento sbagliato.
Ora è stato ripubblicato un bellissimo libro di Gianni Rocca, condirettore di Repubblica per molti anni, Fucilate gli ammiragli. È un testo allo stesso tempo eccitante e deprimente. Se non ci fossero stati due o tre episodi come l’impresa di Durand de la Penne e Bianchi che fanno saltare la Valiant e la Queen Elisabeth nel porto di Alessandria, come l’attacco a Suda con i barchini esplosivi o le incursioni del capitano di corvetta Carlo Fecia di Cossato, leggendario comandante del sommergibile Tazzoli, l’onore della Marina italiana sarebbe stato irrecuperabile. Una delle clausole dell’armistizio prevedeva la consegna di tutta la flotta italiana al nemico. La maggioranza degli ufficiali, guidati da Bergamini, il più stimato tra gli alti ufficiali della Marina, era per l’auto affondamento. Ma l’ammiraglio saltò in aria con il “Roma”, centrato da una bomba siluro lanciata da uno stuka. E la flotta italiana seguendo le istruzioni del governo si consegnò a Malta.
IL LIBRO Fucilate gli ammiragli, di Gianni Rocca (Castelvecchi pagg. 315, euro 18,50)

Corriere 20.11.14
«Umberto D.» e quel retroscena svelato da Sanguineti
di Aldo Grasso

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Corriere 20.11.14
Il Bosco Verticale di Boeri vince il premio di edificio alto più bello del mondo
Il complesso milanese si è aggiudicato l’International Highrise Award 2014 ed è stato scelto tra 800 grattacieli di tutti i continenti

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il Fatto 20.11.14
Merini: La pazzia insita nell’uomo (e nell’arte)

Con una distribuzione coraggiosa (Mariposa Cinematografica) tra blockbuster USA e big comedies tricolore, è ancora in sala La pazza della porta accanto, toccante ritratto della grande Alda Merini realizzato da Antonietta De Lillo. Si tratta del montaggio del prezioso materiale “avanzato” e dunque inedito del precedente lavoro sulla poetessa Ogni sedia ha il suo rumore, che la cineasta napoletana aveva girato e mostrato 20 anni fa. La Merini, qui protagonista assoluta in prima persona, si spoglia di tutte le sovrastrutture di cui il mondo l’aveva appesantita, mostrandosi qual era: un portento artistico ed umano. E soprattutto una persona che considerava la “pazzia” qualcosa di assolutamente naturale, giacché insita nell’umanità, fragile ma resistente. Da vedere.
AM Pas

Repubblica 20.11.14
Il “coraggio” di rispettare una legge
risponde Corrado Augias

Caro Augias, contrariamente a quanto affermato dal Papa di fronte a 7mila medici italiani cattolici, nel nostro Paese l’obiezione di coscienza in tema di interruzione di gravidanza e di fecondazione assistita non può definirsi né controcorrente né coraggiosa. Basta pensare alle altissime percentuali di medici che obiettano in Italia, superando anche il 90% in regioni come il Molise e attestandosi mediamente sul 70%. Non coraggiosa, in quanto prevista e tutelata dalle leggi nn.194/78 e 40/2004, cioè da quelle stesse norme che garantiscono e che dovrebbero tutelare le donne nella loro scelta di interrompere una gravidanza o di iniziarne una con l’aiuto della scienza. Per essere davvero coraggiosi e controcorrente i medici italiani che optano per l’obiezione di coscienza dovrebbero palesarsi, non solo in una affollata udienza papale, ma anche pubblicamente e in anticipo rispetto alla scelta delle donne di farne i «loro» medici e rispetto allo Stato, che è tenuto a riequilibrare la loro presenza nel servizio sanitario pubblico, in modo da garantire anche per le donne, se non dispiace a Dio, l’applicazione delle leggi nn. 194/78 e 40/04.
Paolo Izzo, Roma

Mi sono chiesto anche io come mai papa Bergoglio sia uscito con una frase così forte e che è molto lontana dalla prevalente — di gran lunga prevalente — situazione italiana. Invocare il coraggio e il saper andare “controcorrente” in un Paese dove ci sono ospedali o reparti con punte del cento per cento di obiettori di coscienza sia per l’aborto sia per la fecondazione assistita, è offensivo verso quei pochi medici dotati di sufficiente coraggio per andare davvero controcorrente e continuare a rispettare una legge dello Stato quando ci siano i requisiti previsti. Mi ha scritto il signor Roberto Martina (robertomartina@ yahoo.it): «Ho compassione per i poveri medici cattolici obiettori. Da una parte denunciati, processati e poi, giustamente, condannati in Cassazione; dall’altra istigati dal Papa a violare ripetutamente la Legge». Fiamma Abrami : «Sono nata donna e italiana. Se solo il Papa sapesse che il 70% dei ginecologi è obiettore!». Ovviamente le parole della signora Abrami sono ironiche. Il Papa è certamente informato della situazione. Allora, perché ha usato parole così inappropriate? Ho fatto due ipotesi che sono, sia chiaro, opinabili. La prima è che le abbia usate a fini di politica interna. Dovendo contrastare numerosi avversari della sua linea, ha creduto di dover rinforzare il messaggio per chiudere almeno uno dei possibili fronti di scontro. La seconda è che si sia trattato di un espediente retorico: dare un significato “coraggioso” a un gesto che di coraggio, in Italia, ne chiede assai poco. A parte la possibile elusione di una legge.