venerdì 21 novembre 2014

il Fatto 21.11.14
Obama da Nobel: in 5 milioni da invisibili a americani
Decreto del presidente Usa per regolarizzare i clandestini in gran parte latino-americani
In tutto gli irregolari sono oltre 11 milioni
di Angela Vitaliano


New York Lo aveva detto all'indomani delle elezioni di medio termine del 5 novembre, che avevano regalato la maggioranza al senato ai repubblicani, che avrebbe smesso di essere “Mr nice guy”, il presidente “gentile” alla continua ricerca di accordi bipartisan. Barack Obama, prima della scadenza di gennaio, in cui il Congresso diventerà dominio esclusivo del Gop, deve agire e farlo in fretta per sbloccare almeno alcune delle questioni che gli stanno più a cuore. Come l'immigrazione, con quel progetto di riforma che da troppi mesi, anzi anni ormai, giace al Congresso senza, ormai, nessuna speranza che su di esso si raggiunga un accordo.
PER QUESTO, ieri sera, in un attesissimo messaggio alla nazione, andato in onda su tutti i principali network, nella fascia di prima serata, il presidente ha annunciato che, utilizzando il suo potere esecutivo, come la costituzione gli garantisce di fare, agirà da solo autorizzando personalmente delle modifiche che consentiranno a circa cinque milioni di immigrati senza documenti di restare negli Stati Uniti e regolamentare la propria posizione.
La metà circa rispetto a quei quasi undici milioni di illegali ai quali, la sua riforma, avrebbe consentito finalmente una vita dignitosa e alla luce del sole; una metà che, però, in un paese sempre più in preda alla solita vena anti-migratoria dei conservatori, ha il sapore di una grande vittoria.
I primi che potranno tirare un sospiro di sollievo sono i clandestini i cui figli sono nati in America o hanno una green card per altri motivi; sicuramente potranno aspirare alla cittadinanza tutti i “dreamers”, vale a dire i giovani arrivati qui clandestinamente da piccoli e che, però, hanno sempre studiato arrivando addirittura al college.
INUTILE DIRE che a beneficiare dei cambiamenti introdotti dal presidente saranno coloro che, negli anni, non hanno mai infranto la legge e contribuito con il proprio lavoro al benessere delle proprie comunità.
Dovrebbero essere esclusi, sfortunatamente, da questa prima grande sanatoria, i clandestini che non hanno legami con minori in possesso di carta verde o dei requisiti per averla.
E se Bill Clinton - da ex presidente e marito del prossimo probabile candidato democratico alla Casa Bianca nel 2016, Hillary - ha salutato positivamente la decisione di Barack Obama come un suo diritto indiscutibile, i repubblicani hanno dichiarato guerra (di nuovo) a colui che hanno definito “l'Imperatore degli Stati Uniti”. Un “imperatore” che, giusto in tempo per il Ringraziamento, cambierà, finalmente, la vita a cinque milioni di esseri umani.

il Fatto 21.11.14
L’infanzia trascurata ogni giorno
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, tutti i Gr e i Tg ci dicono (le sto scrivendo il 19 novembre) che le Nazioni Unite hanno dichiarato il 20 novembre “Giornata dei diritti del bambino”. Le risulta che l’Italia faccia o abbia fatto qualcosa in proposito?
Emilia

MI RISULTA che i media ne parlano molto. Non ieri, non domani, solo oggi. Ho visto persino una fotografia della ex leader politica berlusconiana Brambilla a colori (foto con cane in braccio) che, da un governo o dall’altro, deve essere stata nominata in qualche “commissione per l’infanzia” di cui altrimenti non si hanno notizie (certo non l’infanzia). Ma vediamo di riassumere in che modo e in che senso questo nostro Paese, di cui Renzi dice un gran bene, ha potuto, o potrebbe essere utile.
1) Ogni giorno le culle degli ospedali italiani sono affollate di nuovi bambini, di varie culture e vario colore. Una superstizione italiana, legata a non si sa quali sacri confini, vuole che questi bambini vengano al mondo e crescano senza cittadinanza, senza diritti, senza protezione giuridica o politica, diventando italiani in tutto (lingua, dialetti, cultura, scherzi, gestualità, espressioni facciali) ma non nei diritti civili. Quei bambini e adolescenti restano nessuno fino a quando, “compiuto il ciclo di studi obbligatori” (cioè dopo i 16 anni), potranno chiedere e ottenere (se Salvini non è andato al governo, se i Cinque stelle si sono rasserenati sull’argomento, e se la burocrazia se ne ricorda) i documenti italiani. Ecco un annuncio memorabile per il giorno dell’infanzia proclamato dall’Onu: chi nasce in Italia è cittadino italiano.
2) L’Italia non sa di avere almeno ventimila bambini rom. Spesso sono italiani e vengono trattati da stranieri. Quando non lo sono, sono due volte stranieri. Altro annuncio memorabile: uno statuto per i diritti dei rom - e dunque per la protezione dei figli dei rom - che il Parlamento emana in forma di legge.
3) L’inferno delle periferie urbane di Roma (Tor Sapienza, Infernetto) ha riguardato quasi esclusivamente l’infanzia, nella sua versione inferiore di “bambini e ragazzi migranti, che vuol dire salvati in mare o comunque non annegati. Il loro arrivo in un quartiere e poi il trasferimento nell’altro quartiere ha riguardato esclusivamente persone che la polizia definisce “minori”. Non saranno bambini piccoli, a causa delle cure di cui persino i bambini migranti hanno bisogno, ma di bambini, ragazzi e adolescenti giunti (o salvati) da soli, e per i quali un Paese civile dovrebbe fare qualcosa. Noi, popolo di navigatori, marinai, artisti, e altre cose descritte enfaticamente dall’ispiratore di Casa Pound (una delle due ditte di aspra opposizione ai bambini profughi, l’altra è la Lega, ma gruppi di romani del luogo hanno fatto la loro parte) abbiamo prontamente respinto questi bambini e giovani fino al punto da terrorizzarli. Eppure c’era un ampio spazio per accoglierli. A Tor Sapienza abbiamo visto un immobile in buono stato e volontari e volontarie pronti e disponibili, a cui è stato impedito di rappresentare ciò che resta della civiltà italiana. Nel giorno Onu dedicato alla protezione dei bambini l’Italia ha fatto e detto il suo peggio. Affermava il conduttore del servizio Tg3 del 19 novembre, sull’argomento: “È nella difesa dell’infanzia che si garantisce il nostro futuro”. Senza dubbio il futuro, nonostante il coraggio isolato del volontariato, questo Paese, al momento, non ha garanzie. Non di civiltà.

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La Stampa 21.11.14
Legge elettorale
Gli ex presidenti della Consulta bocciano l’Italicum
di Ugo Magri


Uno dopo l’altro sfilano in commissione al Senato i presidenti emeriti della Consulta. Vengono interpellati immaginando che siano in grado di anticipare come si regolerebbe la Corte, se il testo della riforma elettorale restasse com’è oggi. Ieri è stato il turno di Tesauro e dell’ex giudice Mazzella. Ne è venuto fuori (ma per il democratico Giachetti è solo un «come volevasi dimostrare») che nella versione attuale l’«Italicum» molto a fatica supererebbe un vaglio di costituzionalità.
Anzitutto la Consulta obietterebbe che non ha senso varare la legge solo per la Camera e non anche per il Senato, sul presupposto che tanto quest’ultimo chiuderà i battenti. Infatti può succedere che si debba tornare alle urne quando ancora il bicameralismo non sarà stato abolito. E in quel caso ci troveremmo con una legge elettorale maggioritaria alla Camera e un’altra legge proporzionale (il «Consultello») al Senato: sarebbe un grosso pasticcio. Renzi privatamente alza le spalle, garantisce che perfino in quel frangente non ci vorrebbe nulla a varare in 10 giorni una leggina per estendere a Palazzo Madama l’applicazione dell’«Italicum». Forse il premier è troppo ottimista, o magari no, lo vedremo. Ma le riserve degli esperti in Commissione non si fermano qui. Tesauro, per esempio,segnala altre tre «criticità». Una riguarda la distribuzione nazionale dei seggi, nel senso che l’elettore potrebbe mandare in Parlamento con il suo voto qualcuno di cui mai aveva neppure sentito parlare. Secondo, dare la maggioranza assoluta dei seggi a chi supera il 37 per cento significa di fatto che il 27 per cento degli elettori (al netto delle schede bianche e delle astensioni) sarebbe sufficiente per impossessarsi dell’Italia. Alzare al 40 per cento la soglia del premio non risolverebbe, ma già sarebbe un pochino meglio. Terza «criticità»: il ballottaggio eventuale permetterebbe di accaparrarsi il premio con una percentuale perfino inferiore...
Tutte obiezioni che sono taniche di benzina per il partito degli incendiari, cioè di quei senatori che verrebbero mandati a casa dall’«Italicum» e già si preparano alle barricate. Come osserva Minzolini (Fi), «lo spirito di sopravvivenza può trasformare in eroi perfino i codardi». A questo partito si è iscritta nelle ultime ore Forza Italia, nonostante i toni sopra le righe con cui Renzi e Berlusconi avevano rinverdito una settimana fa le loro intese. Proprio l’ex Cavaliere adesso risulta «in fredda» col premier, niente affatto propenso a dare via libera. Al punto da consentire che Fitto organizzi per la prima metà di dicembre un convegno dove, da destra a sinistra, si daranno appuntamento tutti i «resistenti» contro l’«Italicum». Se Matteo vorrà procedere, dovrà farlo camminando sulle gambe corte e traballanti della propria maggioranza in Senato.

Repubblica 21.11.14
Massimo Luciani, costituzionalista della Sapienza
“Così com’è quella legge è incostituzionale”
intervista di Liana Milella


ROMA . «Così com’è non può funzionare e rischia un nuovo stop alla Consulta». Massimo Luciani, costituzionalista della Sapienza ed esperto di sistemi elettorali, si lascia alle spalle il Senato dove è stato sentito sull’Italicum dalla prima commissione. Il suo giudizio è netto: «Sono urgenti modifiche significative, se si vuole salvare il lavoro fatto finora».
Incostituzionale? Ma in che punto?
«Se Camera e Senato restassero come sono e il governo continuasse ad avere bisogno della fiducia di entrambe, è chiaro che il premio di maggioranza alla Camera non avrebbe senso, perché non garantirebbe in alcun modo un governo certo e stabile. Sarebbe irragionevole e dunque incostituzionale».
Quindi, come l’ex presidente della Consulta Silvestri, lei propone di estendere l’Italicum anche al Senato?
«Per la verità no. Estenderlo anche lì significherebbe avere due premi di maggioranza, ma nessuno garantisce che chi lo vince alla Camera lo prenda poi anche al Senato. Con la conseguenza che avremmo un risultato assolutamente illeggibile».
Quale sarebbe la sua idea?
«La soluzione migliore sarebbe condizionare l’applicazione della nuova legge elettorale alla modifica del bicameralismo: non sarebbe semplice scriverla, ma una norma del genere è perfettamente concepibile».
Lei ipotizza una norma di salvaguardia che lega l’Italicun al destino della riforma costituzionale? Ma se alla fine quella riforma salta?
«La nuova legge elettorale sarebbe inapplicabile».
E che accadrebbe se si dovesse andare a votare? Rivivrebbe il Consultellum?
«Ovviamente, ma con un grosso problema. Dubito che il sistema elettorale uscito dalla Consulta sia davvero auto-applicativo e che si possa votare con quelle regole senza una legge-ponte che risolva tutte le difficoltà operative. Italicum o no è molto urgente che il Parlamento approvi una legge che intanto renda pienamente funzionante il modello uscito dalla Consulta, altrimenti il Paese avrebbe una legge elettorale zoppa».
Vede altre forzature al limite della costituzionalità? Per esempio su preferenze e premi di maggioranza?
«Troppi parlamentari non sarebbero scelti direttamente dai cittadini e soprattutto gli elettori delle liste più piccole non avrebbero alcuna chance di scegliere qualcuno diverso dal capolista indicato dal partito. Su questo è necessario intervenire, come sulla soglia di sbarramento, che dev’essere una sola e di altezza non eccessiva (il 5% sembra il massimo costituzionalmente consentito, come dimostra l’esperienza tedesca)».

Repubblica 21.11.14
L’Italicum in alto mare “Il nuovo sistema di voto non può essere applicato ad una sola Camera”
Ma Renzi vuole tirare dritto e punta sul sì al Senato a dicembre
Berlusconi vede le elezioni e sabato seleziona 25 “giovani volti” di FI
di Carmelo Lopapa

ROMA  La legge elettorale che a fatica sta salpando dalla commissione al Senato — e che dovrebbe puntare all’approdo in aula entro fine anno — rischia invece di incagliarsi subito sugli scogli fuori porto. Uno in particolare, enorme: la mancanza di un sistema elettorale valido proprio per Palazzo Madama, in caso di voto anticipato. Italicum o Consultellum, bisognerà pur prevederlo. E ci vorrà altro tempo. Tanto che anche tra gli uomini più vicini al premier Renzi si sta diffondendo la poco piacevole convinzione che il testo arriverà in aula non prima di gennaio. Il capo del governo non vuole sentire ragioni, «lo si approva entro dicembre».
Il caos che si è aperto è una boccata d’ossigeno non da poco per Berlusconi e Alfano, per Forza Italia e Ncd, per i quali l’elezione in primavera è uno spauracchio. Per non dire del partito trasversale dei parlamentari che farebbero di tutto pur di allontanare lo spettro elettorale nel 2015. Il fatto è che dopo l’ex presidente della Consulta, Gaetano Silvestri, ieri anche il suo collega Giuseppe Tesauro, ascoltato in commissione Affari costituzionali, ha ribadito il concetto: «Serve una norma per il Senato, altrimenti, meglio rinviare a dopo che sarà stata approvata la riforma costituzionale». Di più, l’estensore della sentenza che a gennaio ha cassato il Porcellum, ha parlato di «troppe criticità», di «dubbi sulla compatibilità costituzionale» dell’Italicum, anche nella seconda versione. E ora? Ecco, appunto, è quello che si sono chieste il ministro Maria Elena Boschi e la presidente Anna Finocchiaro. «La soluzione potrebbe stare nell’adozione dell’Italicum anche per il Senato, ma con lo scorporo dei seggi su base regionale, come vuole una sentenza della Consulta» è l’ipotesi avanzata dal deputato renziano Ernesto Carbone. Ipotesi, questa della scialuppa Italicum, che sembra convincere poco la presidente Finocchiaro, più propensa a lasciare in vigore semmai il Consultellum (proporzionale con preferenza). Ma anche questo andrà specificato nella legge con una clausola di salvaguardia. Storce il muso, a dir poco, Roberto Giachetti, renziano anche lui, pronto a riprendere lo sciopero della fame se a dicembre la riforma si impantana di nuovo. «Italicum solo per la Camera incostituzionale? Potrei dire Cvd ma preferisco no comment» scrive su Twitter. Che succede? «Che bisognerà provvedere per il Senato — ragiona in un Transatlantico deserto — col risultato che tutti accuseranno Renzi di farlo per andare al voto». E infatti, puntuali, le accuse. «Renzi ci dica senza ipocrisie se vuole completare il percorso delle riforme o portarci al voto» dice Saverio Romano. «Noi intanto l’Italicum così com’è non glielo votiamo» avverte un pasdaran ex An come Francesco Aracri, anche perché, insiste Augusto Minzolini, «è un miraggio questa storia che se approviamo l’Italicum partecipiamo all’elezione del Quirinale». Lui, come gli altri 32 vicini a Fitto, si sono ritrovati mercoledì sera alla sala Cosmopolitan di Roma per pianificare con l’euroeputato la campagna di mobilitazione anti-Italicum. Se passa questa riforma «salta il Nazareno, addio patto» minaccia il “Mattinale” di Brunetta. Berlusconi tiene una linea più moderata. «Spero sia una legge elettorale democratica, stiamo lavorando per una buona legge» si limita a dire al Tg4. Anche se poi attacca: «Non siamo in democrazia, la maggioranza di Renzi è artificiale e non può durare». Ma è campagna elettorale in vista delle regionali calabresi e emiliane, che avranno «ricaduta nazionale» ammette. Fi sta per essere «rifondata» annuncia, e infatti domani pomeriggio a Villa Gernetto andrà in scena la passerella finale del talent scouting condotto in questi mesi da Giovanni Toti, Deborah Bergamini e Alessandro Cattaneo. Venticinque giovani selezionati tra cento saranno presentati a Berlusconi per essere lanciati sui media e, magari, alle Regionali 2015. Tra gli altri, la pugliese (candidata alle Europee) Federica De Benedetto, la consigliera di Brescia Mariachiara Fornasari, il sindaco di Perugia Andrea Romizi. Svolta under 35 che getta già nel panico i parlamentari.

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Corriere 21.11.14
Troppe leggi che restano solo annunci
L’attuazione non arriva mai
di Sabino Cassese

qui

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il Fatto 21.11.14
Renzi va all’attacco: “Camusso come Salvini, sa solo protestare
Il premier chiude la campagna elettorale in Emilia. Nuove contestazioni
Lui: “Non saranno mai contenti”
Ma alla festa finale il Paladozza è pieno solo a metà
di Wanda Marra


“Renzi carogna, fuori da Bologna”. Ad aspettare il presidente del Consiglio, nonché segretario del Pd, per la chiusura della campagna elettorale dell’Emilia Romagna ci sono le sigle antagoniste (da Rossa, movimento fondato da Giorgio Cremaschi, Asia Usb, il Collettivo Obo. E poi, con un loro manifesto a parte i precari della giustizia di Fp Cgil). Non più di poche decine di manifestanti. Con la polizia in schieramento compatto. Dentro, il Paladozza è pieno solo a metà. In Emilia Romagna (come in Calabria) si vota domenica e il clima è tutt’altro che festoso. Tutt’altro che carico. Matteo Renzi lo sa e mette la quinta dalla mattina.
PARLA ininterrottamente per tutto il giorno, mentre passa da un’intervista radiofonica a un tour in piena regola tra Parma e dintorni. Destinazione non casuale: nel giorno in cui la Commissione Lavoro della Camera approva il jobs act, Renzi decide di andare in visita a tre aziende importanti dell’Emilia. E poi di incontrare Pizzarotti, sindaco di Parma, dissidente Cinque Stelle. “Salvini e Camusso sono due facce della stessa medaglia: ho grandissimo rispetto per loro perché fanno il loro lavoro. Sono dei leader della protesta: chapeau. Ma io non posso permettermi la protesta, sono quello che ci prova non quello che protesta”. Sono due i fili conduttori e sono due i nemici che si crea Renzi nella tre giorni finale di campagna elettorale. In Emilia i sondaggi danno vincente Bonaccini, ma registrano il candidato leghista, Alan Fabbri, in crescita costante. Mentre Matteo Salvini ogni giorno che passa aggrega quella protesta che i grillini non incarnano più. Ma anche quella richiesta di rinnovamento di tutti quelli che non si riconoscono col tradizionale “potere rosso”. Avanza il partito dell’astensione. E il premier lo sa. Non a caso ci mette la faccia. “I sindacati che non hanno fatto sciopero contro la Fornero e la riforma di Monti, oggi hanno fatto più scioperi che negli anni precedenti. Siamo sicuri che sia protesta contro i contenuti o è soltanto una posizione politica? ”, si chiede Renzi. “Se poi chi non ha mai scioperato in passato non trova di meglio che scioperare, contenti loro contenti tutti”, ma “io mi preoccupo di creare posti di lavoro”, rimarca il premier. Fedele a questa linea, Renzi segue un programma preciso. Prima va alla Pizzarotti costruzioni, grande gruppo industriale della zona, poi alla Dallara automobili, marchio famoso. Infine alla Barilla. Azienda amica da sempre, almeno da quando in occasione della festa per il suo centocinquantesimo anniversario parlò per mezz’ora buona con Berlusconi, nella settimana decisiva che portò alla rielezione di Napolitano. In mezzo va in Comune a Parma. Incontro con i sindaci dei Comuni alluvionati: occasione molto ghiotta la photo opportunity. Anche qui lo aspetta la protesta. Prima che arrivi la polizia carica. Anche qui, poche decine di manifestanti (Cobas e sigle sindacali di base), ma non c’è nessuno che lo accolga con bandiere del Pd o incoraggiamenti. La tensione è molta, e lui entra da dietro. Prima dell’incontro ufficiale, due chiacchiere con Pizzarotti. A parte le questioni locali, c’è in ballo una trattativa: Renzi vorrebbe qualche voto dei dissidenti grillini già alla Camera sulla riforma del lavoro. E un asse emiliano diventa importante in assoluto.
“Se fosse stato facile cambiare l'Italia l’avrebbe fatto quelli che negli anni precedenti hanno rinunciato, lo avrebbe fatto chiunque: io sono per fare le cose, non ne posso più di chi continua a rimandare. Ed è naturale che ci sia chi cerca di bloccare e tirare indietro sia nel mio partito che fuori: è fisiologico”.
MENTRE il Paladozza lo aspetta, i manifestanti fuori spaccano la vetrina di una sede del Pd. Dentro, un format in piena regola. Presenta Zacchiroli: consigliere comunale di Bologna, nelle vesti di conduttore radiofonico. Interventi di Nicoletta Mantovani e Enrico Panini. L’innovazione si ferma lì. In prima fila c’è Vasco Errani, che ha quasi completato tre mandati da governatore, e che rappresenta la vera continuità con ex Ds e potere rosso delle cooperative. “Tanto se va bene diranno che c’è troppa astensione. Loro non sono mai contenti”, dice Renzi arrivando (anche qui, passa da dietro). In mattinata aveva messo le mani avanti: “Non darei una lettura nazionale” al voto.

Il Sole 21.11.14
«Dai sindacati scuse per scioperare»
Renzi: «In piazza più ora di quando c'era Monti»
La replica: parla solo con chi gli dà ragione
di Emilia Patta


PARMA «Non mi preoccupo di far scioperare le persone ma farle lavorare. Anziché passare il tempo a inventarsi ragioni per fare scioperi, mi preoccupo di creare posti di lavoro perché c'è ancora tantissimo da fare». E ancora: «Ci sono stati più scioperi in queste settimane che contro tutti gli altri governi, compreso il governo Monti. Ma noi stiamo cercando di mettere in piedi tutte le azioni necessarie per far ripartire il lavoro. A coloro i quali non hanno mai scioperato in passato, e oggi scioperano sempre, faccio i miei auguri. Il Paese è diviso in due: tra chi si rassegna e chi va avanti. Ma chi oggi in Italia continua a tener duro sta ottenendo risultati. Non mi preoccupo: possono far scioperi ma noi abbiamo promesso che cambieremo e, piazza o non piazza, le cose le cambiamo».
Piazza o non piazza si va avanti. La giornata del premier Matteo Renzi inizia di buona mattina, con un'intervista radiofonica che risponde in modo durissimo alla proclamazione dello sciopero generale da parte di Cisl e Uil. E prosegue con il giro della realtà produttiva parmense, che ha visto anche l'incontro con il sindaco Federico Pizzarotti e con i primi cittadini dei Comuni alluvionati: prima la visita allo stabilimento Pizzarotti Costruzioni a Ponte Taro, poi alla Dallara Automobili di Varano de' Melegari e infine alla Barilla di Pedrignano. Visite in cui Renzi ha dovuto fare i conti con alcune proteste (a Parma ci sono state anche cariche della Polizia contro i manifestanti). In serata l'evento di chiusura della campagna elettorale per la guida dell'Emilia Romagna con il sostengo al candidato del Pd Stefano Boncaccini: e c'è anche la paura dell'astensionismo, dato in crescita in tutti i sondaggi, dietro i toni contro il sindacato usati da Renzi. Chiaro che la zona grigia è al centro, tra l'elettorato moderato deluso dall'ex Cavaliere.
Stizzita, naturalmente, la reazione della leader della Cgil Susanna Camusso con la quale il solco è ormai profondo: «Vorremmo che il dibattito tornasse a essere rispettoso. Credo che il presidente del Consiglio, che sta dicendo in queste ore che i lavoratori sciopereranno così i sindacalisti avranno modo di passare il tempo, sia vagamente irrispettoso del lavoro e del sacrificio dei lavoratori». Ma non c'è solo la Cgil nel mirino del premier. Ci sono anche e soprattutto i suoi oppositori interni. Quelli che anche dopo l'accordo raggiunto alla Camera tra il governo e l'area guidata da Roberto Speranza e Cesare Damiano sul Jobs act continuano a dire che non basta. Ossia Pippo Civati, che ha già annunciato il suo voto contrario sul provvedimento anche se al momento della fiducia uscirà dall'Aula, Stefano Fassina e Gianni Cuperlo. «Se fosse stato facile cambiare l'Italia l'avrebbero fatto quelli che negli anni precedenti hanno rinunciato, lo avrebbe fatto chiunque: io sono per fare le cose, non ne posso più di chi continua a rimandare – avverte Renzi –. Ed è naturale che ci sia chi cerca di bloccare e tirare indietro sia nel mio partito che fuori: è fisiologico. Eppure si va avanti».
Da Parma, infine, un auspicio-promessa ai Comuni colpiti dalle alluvioni: «Il punto centrale sui finanziamenti europei è che i finanziamenti che definiremo con l'Europa non vadano ad incidere sui vincoli», ha detto riferendosi al piano di investimenti di 300 miliardi promesso da Jean Claude Juncker. E quei soldi protranno essere spesi soprattutto dai Comuni per il dissesto idrogeologico.

La Stampa 21.11.14
Matteo a caccia di voti ha trovato i suoi nuovi “nemici”
di Marcello Sorgi


Non s’è svolto in un clima sereno il viaggio di Renzi in Emilia, alla vigilia delle elezioni regionali di domenica. A Parma, dove ha incontrato il sindaco 5 stelle Pizzarotti prima di andare alla Barilla, e successivamente a Bologna, il premier è stato contestato da gruppetti di antagonisti dei collettivi e dei centri sociali, che lo hanno accolto con fischi e cori di «buffone» e «vergogna». Nulla di particolarmente drammatico. E per Renzi un occasione in più per alzare il tono.
In ogni campagna elettorale infatti Renzi s’è scelto un avversario diretto da sfidare sul campo. Nelle primarie in cui conquistò la segreteria del Pd furono Bersani e il vecchio gruppo dirigente da rottamare del partito. Alle europee di maggio sono stati Beppe Grillo e il Movimento 5 stelle, che non si aspettavano di essere battuti con un distacco così grande. In questa piccola tornata di regionali, che giorno dopo giorno sta assumendo il valore di una prova d’appello rispetto al clamoroso risultato del 40,8 per cento delle urne di primavera, il premier s’è posizionato contro la Cgil, e segnatamente contro la segretaria del maggior sindacato Susanna Camusso, e contro Salvini, che in Emilia corre per arrivare primo nella classifica del centrodestra, davanti a Berlusconi e Forza Italia, e se possibile anche davanti a Grillo, che proprio in questa regione in passato aveva mietuto i suoi primi successi elettorali.
Camusso e Salvini, tra l’altro, sono alleati nella raccolta delle firme per il referendum abrogativo della riforma Fornero: ed è anche per questo che Renzi li ha attaccati in tweet in cui, senza demonizzarli, accomunandoli in una sorta di partito della protesta, che con la Cgil cerca «pretesti» per scioperare, da contrapporre, appunto, al governo impegnato a cambiare le cose. Una descrizione che non è piaciuta affatto alla Camusso, che gli ha risposto per le rime.
La drammatizzazione dello scontro, in una regione in cui il Pd si sente già la vittoria in tasca, nei piani di Renzi serve a mobilitare un elettorato stanco, ancora disorientato per gli effetti dello scandalo delle «spese pazze» in regione e pertanto portato all’astensionismo, ancora molto alto in tutte le previsioni della vigilia. Il premier non vuole un risultato dimezzato dalla scarsa partecipazione, e per questo ha scelto di spendersi in prima persona e sfidare le contestazioni organizzate. Renzi scommette così su una conferma del consenso incassato la volta scorsa, e si prepara a spenderla nel difficile confronto parlamentare che di qui a fine anno dovrebbe portare all’approvazione del Jobs Act e della legge di stabilità.

Corriere 21.11.14
Parole sbagliate

Un conflitto sull’articolo 18 è comprensibile, ed era anche prevedibile. Il linguaggio con cui il presidente del Consiglio tratta la Cgil è invece molto meno comprensibile.
È vero che Susanna Camusso lo considera un personaggio dell’Ottocento, subalterno ai padroni, abusivo a sinistra. Ma il premier — mentre annuncia a parole rispetto per chi dissente — dileggia il sindacato, banalizza le ragioni della protesta, svaluta insieme con lo sciopero una storia legata alla conquista e alla difesa di diritti che tutelando i più deboli contribuiscono alla cifra complessiva della democrazia di cui tutti usufruiamo.
La domanda è sempre la stessa: che idea ha il segretario del Pd della sinistra che guida? Un partito che voglia parlare all’intera nazione deve ospitare culture diverse al suo interno e tocca al leader — mentre decide — garantire loro spazio e legittimità. Sapendo che prima o poi si voterà, e i suoi avversari non saranno Camusso e Landini, ma Berlusconi e Verdini. Quando se ne accorgerà?

La Stampa 21.11.14
Ma per il premier solo un Paladozza tiepido e dimezzato
Arrivano 2300 persone ma sugli spalti spazi vuoti
Solo verso la fine Renzi riesce a scaldare il pubblico
di Fabio Martini


I resti di quel che fu il più potente partito comunista d’Occidente accolgono Matteo Renzi con un applauso rispettoso: appena il premier si affaccia nel catino dello storico PalaDozza di Bologna, dai duemilia sugli spalti si alza un battimani che dura venti secondi. Metà sala scatta in piedi a lanciare una standing ovation, che parte a metà. Mezza sala resta seduta senza applaudire, chi per farsi un selfie, chi per curiosare e basta. Qualcuno isolato dal loggione urla «Matteoooo», ma neppure il coretto decolla. Calore, simpatia, ammirazione per Renzi, ma a volume basso, senza grande pathos. Almeno nella accoglienza iniziale.
Per non parlare dell’applauso di cortesia, freddino che accoglie il candidato governatore dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, mentre l’uscente Vasco Errani è accolto come un eroe, per lui un lunghissimo battimani. Sono le 21,50 e il premier-segretario, appena entrato nel parterre del Palasport di Bologna, per partecipare alla chiusura della campagna elettorale di Bonaccini, riscalda l’atmosfera: «Ho la sensazione strana di tornare a casa, quella che ti accompagna anche quando sei lontano». Ma c’è subito la battutina: «Non saranno mai contenti, loro, diranno che c’è stata troppo astensione... L’importante sarà essere contenti noi...». E più tardi, quando fa il suo discorso, Renzi da affabulatore, riscalda il Palasport
Nel giorno in cui Matteo Renzi ha sferrato il più sferzante attacco mai indirizzato verso i sindacati - si inventano gli scioperi mentre io creo posti di lavoro - era davvero interessante misurare l’impatto emotivo tra il premier-segretario del Pd e la sua base più “rossa”, quella più vicina alle grandi organizzazioni della sinistra, la Cgil, ma anche Lega delle cooperative e Cna. Certo, per l’arrivo di Renzi, i quadri del partito hanno stressato la macchina organizzativa, tutti i circoli della Regione, da Piacenza a Rimini, sono stati invitati a dare il massimo. Sugli spalti sono arrivate duemilatrecento persone, con spazi vuoti anche rispetto ad una capienza che è stata dimezzata, da seimila a tremila posti.
Domenica in Emilia la posta in gioco non è la vittoria, che il Pd è sicuro di portare a casa. Tengono banco domande che sembrano da “anime belle” ma potrebbero preludere a risposte preoccupanti per il futuro prossimo: quanti emiliani di sinistra decideranno che non vale la pena andare a votare per “questi” politici? Il candidato governatore della sinistra riuscirà anche stavolta a superare il milione di voti o per la prima volta resterà sotto questa soglia politicamente critica? Gara minore alle elezioni di domenica in Emilia-Romagna, è quella per il secondo posto con la Lega, con Matteo Salvini si è quasi trasferito da queste parti, con la scritta “Emilia” sulla felpa a sostegno del suo candidato, il sindaco di Bondeno, il trentacinquenne Alan Fabbri.
In una campagna elettorale a volume bassissimo, con pochi manifesti, poche manifestazioni, la sinistra si è affidata al quarantasettenne Stefano Bonaccini, per anni campione del Pd bersaniano, il “Bruce Willis di Campogalliano” (come lo chiama Renzi in persona), che dopo aver tanto esitato a candidarsi, ha dovuto fare fronte al disastro dell’inchiesta sulle “spese pazze” dei consiglieri regionali, circa due milioni di euro pubblici da giustificare.
La “fortuna” per i candidati governatori è che nello scandalo sono finiti dentro quasi tutti, compresi grillini e leghisti e perciò sulla questione morale è calata una cortina di silenzio che ha vieppiù allontanato da tutta la politica una opinione pubblica disgustata. In una campagna elettorale segnata da clamorosi abbandoni, con Francesco Guccini che ha annunciato che voterà un candidato di Sel («Scelgo la persona») con Romano Prodi (la nipote candidata a Reggio Emilia), che ha fatto sapere: «Andrò a votare senz’altro», ma con una chiosa manzoniana: «Il buon senso restava nascosto per paura del senso comune».

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Repubblica 21.11.14
Le Olimpiadi anti-sfiga nell’Italia delle cricche
Renzi ci riprova con le Olimpiadi
Se Machiavelli consigliava il Principe di “tenere occupati i populi con feste e spettaculi” non risulta che i sogni abbiano il potere di smuoverli
di Filippo Ceccarelli


IL GOVERNO Renzi ci riprova con le Olimpiadi e tanto per cambiare le presenta come «un sogno». Per l’esattezza: «Non c’è sogno troppo grande per l’Italia» ha spiegato il presidente del Consiglio aggiungendo che una volta «sistemate un po’ di cose», tra cui la riforma fiscale e quella della Pubblica Amministrazione, «le Olimpiadi le facciamo sotto gamba». A Roma (dove l’altro giorno si è pure dimesso l’assessore allo Sport), tra dieci anni, nel 2024.
L’ANNUNCIO ufficiale verrà reiterato sotto Natale, ma nel frattempo il presidente del Coni Malagò si è già portato avanti convinto com’è che «il rilancio dell’Italia passa anche dai sogni degli italiani che altrimenti rimarrebbero affogati in un cassetto buio». È plausibile che la dimensione onirico-olimpionica, per quanto non proprio fresca e originale, sia parte di una strategia di annuncio e comunicazione da mettersi in rapporto con i disastri, di varia natura, verificatisi negli ultimi tempi. Secondo Renzi, che ieri è intervenuto alla premiazione dei «digital champions», bisognerebbe smetterla con il «cliché» che porta tanti a raccontare l’Italia come «un insieme di sfighe».
D’altra parte, in una intervista a Panorama Malagò, di cui il settimanale ricorda lo scherzoso, ma sintomatico soprannome di «Megalò», osservava che «dopo le immagini terribili delle alluvioni naturali e finanziarie diamo alle nuove generazioni la possibilità di sperare. Un’Olimpiade a Roma può essere uno tsunami positivo che aiuta l’Italia a far capolino dal pozzo nero». E più sotto, di nuovo, confermando segrete rilevazioni secondo cui il 73 per cento degli italiani sarebbe favorevole: «L’Italia ha bisogno di sognare!».
Ora, anche a costo di trascurare per un attimo una così pronta, ampia e diffusa quantità di consensi, e nella piena consapevolezza di svolgere un’opinione poco simpatica, per non dire gufesca, si fa presente che pure l’altra volta, ossia quando fu messo in scena il proposito di ospitare le olimpiadi (allora quelle del 2020) venne fuori che cosa? Il sogno, indovinato.
Il Pdl aveva appena vinto le elezioni, ma pure il centrosinistra — la «ditta» — in qualche misura puntava ai giochi. E la «cricca», allora già alacremente al lavoro per i mondiali di nuoto, non ne parliamo. Mentre il valente Bertolaso, con la sua immancabile felpa (di cui non si privò nemmeno per darla a Obama che tanto la desiderava), era sul punto di proporre l’Aquila terremotata a sede delle Olimpiadi della neve. Sogni e circenses, dal Quiri- nale in giù, si conformarono dunque in una sorta di idolatria pre-olimpica dagli esiti però già in partenza abbastanza contrastati perché la Lega si era messa subito di traverso e i giochi li voleva — figurarseli! — a Venezia.
È un vero peccato che si dimentichi tutto in così poco tempo, anche perché quel che sarebbe dovuto accadere, ma poi non accadde, di solito è abbastanza spassoso, a cominciare dal sindaco Alemanno che, nel caso avesse vinto la lotteria dei cinque anelli, rese noto che si sarebbe recato in pellegrinaggio alla Madonna del Divino Amore — ma sul serio. Nell’attesa progettò di trasformare la capitale in un disperato luna park ad alta densità di stadi, luminarie, isole galleggianti, casinò, parchi tematici disneyani e altre baracconate tra cui una pista per lo sci di fondo da insediare al Circo Massimo e uno skydome da donare, pure lui, agli sfortunati aquilani. Dopo una sfilza di rifiuti, l’ecumenico Gianni Letta fu fatto presidente del Comitato; ma siccome al grottesco non c’è mai fine, un bel giorno fece la sua comparsa — nel senso che venne concepita, costruita e naturalmente pagata — addirittura la mascotte del futuro e grande evento, un enorme pupazzo di pezza blu con le fatture — ebbene sì! — di un gufo. Da questo punto di vista il giovane premier ha ragione e torto al tempo stesso. Perché se i gufi gufano, è anche vero che in Italia la sfiga, al tempo del Mose e dell’Expo e di tante altre graziose e costose iniziative, suona un po’ come un alibi. Fatto sta che al momento della verità, febbraio 2012, dopo aver fatto attendere Letta e gli altri per più di due ore nella stanza del sottosegretario Catricalà, il tecnocrate Monti disse no, niente Olimpiadi, non ce le possiamo permettere.
Mai diniego fu così gelido, doppio e crudele. Il Professore si disse «personalmente» dispiaciuto, ma si vedeva benissimo che era ben lieto di fare il guastafeste bloccando quella prevedibile fonte di sprechi e mazzette. A distanza di qualche anno non fu il peggiore dei suoi atti.
Adesso si riparte con le Olimpiadi. Ma se Machiavelli consigliava il Principe di «tenere occupati i populi con le feste e spettaculi», non risulta che attribuisse ai sogni il potere di smuoverli al meglio, come Renzi e Malagò-Megalò forse sperano, forse no.

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Repubblica 21.11.14
L’inedita sfida tra il premier e Salvini fa scomparire Berlusconi e Grillo
Ma al leader leghista serve un detonatore come la caduta dell’euro per diventare centrale nel sistema politico
di Stefano Folli

ENTRO certi limiti le contestazioni sono utili a Renzi, come peraltro al suo antagonista Salvini. Fanno parte delle regole dello «show» politico, rimbalzano nei telegiornali e sul web, servono a rafforzare il profilo del personaggio. A Parma il premier ha assorbito ieri la sua dose di fischi, come accade spesso, ma ne ha approfittato per rincarare i toni contro i sindacati.
Il messaggio è sempre lo stesso: mi criticano perché incarno il cambiamento, viceversa guardate Susanna Camusso e il capo della Lega come sono in sintonia, emblema della conservazione. È un argomento che a breve termine può risultare efficace, nel clima di campagna elettorale perenne in cui vive il paese. Del resto, domenica si vota davvero in Emilia Romagna e Calabria e lo sforzo mediatico a tutto campo si giustifica. Semmai va notato che i due leader presenti nelle piazze, forse gli unici due, sono proprio Renzi e Salvini. Gli altri o sono assenti o sono ignorati dai «media»: e anche questo vuol dire qualcosa.
È singolare, ad esempio, l’abdicazione di Beppe Grillo che prevede il peggio per domenica e preferisce non impegnarsi, mentre lo storico dissidente dei Cinque Stelle, il sindaco Pizzarotti, accoglie il presidente del Consiglio a Parma. Né va dimenticato, a proposito di contestazioni, il brutto quarto d’ora passato da Silvia Taverna, fedele collaboratrice di Grillo, nelle strade di Tor Sapienza. Se una rappresentante dell’anti-politica viene vituperata, il segnale deve far riflettere. Viceversa, se si tratta di Salvini che cerca l’incidente con i centri sociali di Bologna, l’episodio può aiutarlo a guadagnare consensi in certi ambienti. La differenza è essenziale.
Anche per questo Grillo è ancora alto nei sondaggi nazionali e tuttavia la sua spinta propulsiva sembra esaurita. Al contrario, il ragazzo in felpa un po’ stazzonata, il neo-leghista che non parla più di secessione e ha scoperto il Sud, è accreditato di una percentuale per ora al di sotto dei Cinque Stelle, ma sembra essere in ascesa. A sua volta Renzi deve correre di qui e di là perché non può permettersi di dormire sugli allori, specie quando gli allori sono scarsi. E dunque qualche tensione provocata dai soliti centri sociali, va bene; purché non si saldi con il malessere silenzioso che si respira nel paese, turbando il racconto ottimistico di ciò che è stato fatto fino a oggi e di ciò che si farà domani.
Va detto, peraltro, che il confronto quasi esclusivo fra il Matteo di Firenze e il Matteo di Milano è nell’interesse di entrambi. Il primo anela ad avere un competitore di quel tipo, burbero ed estremista, così da assorbire pian piano i voti moderati che ancora girano intorno a Berlusconi. Il secondo vuole ovviamente una cosa diversa e ben chiara: diventare la sola opposizione o quasi, sottrarre suffragi sia a Grillo sia a Berlusconi, ma dal versante iper-populista che a Renzi è precluso. Date le premesse, è possibile che il voto di domenica offra qualche sorpresa. Non in Calabria ma in Emilia Romagna, dove il candidato di Salvini non scavalcherà l’esponente del Pd, ma potrebbe battere la lista di Forza Italia. Così la nuova Lega post-Bossi e anche post-Maroni diventerebbe un caso.
Si dice che l’espansionismo di Salvini è comunque limitato. Si afferma con qualche ragione che senza l’accordo e il via libera di Berlusconi oggi non può radicarsi un vero centrodestra. Eppure è evidente che il nuovo leader gioca a rompere gli schemi, un po’ come ha fatto Renzi a sinistra. Ha già costretto Berlusconi a frenare il suo progressivo dissolvimento nel «renzismo». E ha fatto di Marine Le Pen il suo faro, così come Renzi ha adottato lo stile di Tony Blair. Due operazioni mai tentate nell’Italia politica. Tuttavia a Salvini non basterà certo un buon risultato in Emilia Romagna per fare il salto sulla scena nazionale. Ha bisogno di un detonatore che oggi può essere solo la crisi verticale dell’euro. Con tutte le sue drammatiche conseguenze.

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La Stampa 21.11.14
Caos Rai, il governo pensa ad azzerare il cda di viale Mazzini
Dopo la decisione di ricorrere contro il prelievo di 150 milioni
di Paolo Festuccia


Brindisi e complotti. Non è il titolo di una fiction ma il “paradosso” in casa Rai, che strappa applausi e capitali in borsa per Raiway ma si spacca in cda. «Però, a quelli che ci accusano di aver oscurato la quotazione delle antenne rispondiamo che se ne faranno una ragione…». Parla come il premier Renzi ma è Antonio Verro il consigliere più berlusconiano che ci sia alla Rai. Per lui, quel che è fatto è fatto. «Il mio ordine del giorno contro il prelievo all’azienda di 150 milioni di euro era fermo in cda dai primi di luglio. Poi, sempre rinviato. Altro che complotto», tuona. «Se 6 consiglieri su 9, con storie, competenze e culture diverse avviano un’azione contro un provvedimento così invasivo del governo, ci sarà una ragione». E già. La prima è chiara e articolata: «quella di interpretare l’umore e il sentimento dei dipendenti e dei sindacati tutti che non hanno condiviso “l’azione” del governo». Anzi, secondo alcuni pareri legali il prelievo-Rai sarebbe incostituzionale. E da qui, l’azione dei consiglieri per mettersi al riparo anche da eventuali richieste risarcitorie della Corte dei Conti; la seconda meno “istituzionale” ma ugualmente efficace. Esce dal cilindro di un assai navigato ex consigliere Rai – per il quale l’alzata di scudi segnerebbe l’inizio non solo «del si salvi chi può» ma anche del «ricicliamoci un po’». Segno, spiegano a viale Mazzini, che «nel palazzo della Tv pubblica la rottamazione ancora non s’è vista». Anzi, non è mai cominciata. Tant’è che il cda resta saldamente ancorato - fa notare un manager - «all’era Monti», quando arrivarono «gli alieni» (così la politica bollò il nuovo corso di viale Mazzini) .
E da allora, sottolinea Michele Anzaldi del Pd, è trascorsa «un’era geologica». Tanto è vero che «i tre montiani hanno assunto tre posizioni diverse», insiste Anzaldi: «Gubitosi contro il cda, il consigliere Pinto a favore, la presidente Tarantola astenuta. E questa scelta lascia basiti perché la figura del presidente di garanzia, alla quale si richiama la numero uno di viale Mazzini, nella legge attuale non c’è, non esiste; ma di che cosa parla Anna Tarantola?».
Scontri a parte, la sintesi del caos arriva da una autorevole fonte di viale Mazzini: «Il problema è che tutte le forme di solidarietà politica in cda sono saltate. Il risultato è che la Rai è al collasso». In cerca non solo di una governance migliore ma anche di una nuova missione. «Non mi preoccupo del mandato in scadenza ma della scadenza del contratto del servizio pubblico. Cosa sarà della Rai nel 2016?», conclude Verro. E poi, come si muoverà il governo dopo l’ennesimo scontro con i vertici aziendali? A viale Mazzini raccontano che l’esecutivo è a un bivio: far finta di niente per quanto accaduto, e lasciare che la consiliatura si esaurisca con l’approvazione dell’esercizio di bilancio la prossima primavera, oppure agganciare alla riforma del canone anche quella della governance, come fa capire il sottosegretario alle Comunicazioni Antonello Giacomelli. Ma tra il dire e il fare ci sono di mezzo i tempi: troppo stretti anche per un dibattito di riforma Rai. Così ora si fa largo l’ipotesi di cambiare viale Mazzini con un decreto legge ad hoc. Si dirà, «non è mai stato fatto per la Rai». Vero, chiosa una fonte del Cda: «Ma vista la crisi che coinvolge la Tv pubblica e l’intero sistema audiovisivo, la Rai può permettersi il lusso di gettare via altri quattro-cinque mesi?».

Repubblica 21.11.14
Tobagi contrattacca “Dal Pd un diktat ma io non mi piego. Tarantola pavida”
“I dem chiedono le dimissioni mie e di Colombo, ma noi non abbiamo doveri verso il governo, solo verso l’azienda”
“È chiaro che chi è al potere vuole una tv assoggettata, così si torna alla Rai com’era prima della riforma del ’75”
intervista di Annalisca Cuzzocrea


ROMA Tira fuori un documento dopo l’altro, Benedetta Tobagi. Il lancio di agenzia attraverso cui il Pd di Bersani le prometteva totale autonomia. La lettera a Napolitano dell’Unione europea delle radiotelevisioni in cui si protestava per il prelievo forzoso di parte del canone. L’articolo del codice civile secondo cui gli amministratori sono responsabili verso la società, «non verso i soci», aggiunge lei. I tweet in cui la attaccano, le proposte di dialogo che aveva fatto al Pd «senza ottenere risposta». Critica il direttore generale Luigi Gubitosi, «ha dato un chiaro segnale di fedeltà a questo governo», e la presidente Anna Maria Tarantola: «La sua pavidità ha permesso al centrodestra di cavalcare questa vicenda».
Lei e Gherardo Colombo avete avallato un’operazione contro il governo organizzata dal centrodestra.
«Non è così».
Ma avete appoggiato i berlusconiani. Questo non è in contraddizione con il suo ruolo nel cda Rai, e con la sua nomina?
«Veramente Verro ha riproposto un tema in discussione da maggio. Il consiglio aveva già deciso informalmente di approfondire la modalità del prelievo per verificarne la costituzionalità. Per massimo rigore abbiamo chiesto il parere di 4 giuristi. Poi, con grande dispiacere, abbiamo notato una forte inerzia da parte della persona che fissa l’ordine del giorno, la presidente Tarantola. A furia di rimandare alle calende greche, un consigliere, com’è nel suo diritto, ha posto la cosa all’ordine del giorno. È stata la pavidità, non la prudenza, di Anna Maria Tarantola, a consentire ad Antonio Verro di mettere il cappello su questa vicenda».
Il Pd ha chiesto le vostre dimissioni. Come risponde?
«Con la dichiarazione di Bersani del 18 giugno 2012, in cui il segretario Pd diceva di essere orgoglioso di sostenerci e prometteva di rispettare la nostra indipendenza. I tempi cambiano, adesso dalla responsabile cultura del partito ci arriva una richiesta di obbedienza. È chiaro che chi è al potere vuole una Rai assoggettata al governo, ma il mio dovere non è verso l’esecutivo, è verso il servizio pubblico».
Anche secondo Luigi Gubitosi chi vota contro l’azionista ha il dovere di dimettersi. Lo farà?
«No, ma spiego perché. Questo dg ha mostrato grandi capacità manageriali per come ha gestito la privatizzazione di Rai Way, e per farlo ha dovuto rispettare tutti gli adempimenti previsti per garantirne l’indipendenza, tra cui la nomina di “consiglieri indipendenti”. Ora, però, si fa paladino di una concezione padronale (il padrùn) secondo cui il consigliere deve obbedire all’azionista. È molto grave, così si torna alla Rai com’era prima della riforma del ’75, controllata dall’esecutivo, dalla Dc, da Ettore Bernabei. Gubitosi è in scadenza, come il consiglio: ha voluto dare un segnale di fedeltà a Renzi».
La richiesta di risparmi da parte dell’azionista non è illegittima, in un momento in cui tutti sono costretti a tagliare, non crede?
«Sono stata una partita Iva, ho visto cose che voi umani...non c’è un mio atto che vada contro i risparmi dell’azienda. Cosa sarebbe successo se al governo ci fosse stato Berlusconi? Non stiamo vivendo i tempi dell’editto bulgaro, per fortuna. Proprio per questo però rimane da tutelare il principio cardine della certezza delle risorse della Rai, che deriva dal canone, e che le consente una fondamentale indipendenza dall’esecutivo. In tutta Europa, nei Paesi più avanzati, funziona così. Vogliamo andare verso il modello di autonomia del trust Bbc, o tornare indietro? Non bisogna approfittare di un momento di grande malessere del Paese per far passare l’idea che bisogna solo obbedire all’azionista».
Quindi cosa risponde a chi dice che non volete tagliare gli sprechi?
«Chiarisco una cosa: i soldi sono già stati sottratti, il governo ha dato gli 80 euro agli italiani, e noi abbiamo preso tutte le misure necessarie per non mandare l’azienda in rosso. Abbiamo considerato prioritaria l’assunzione di responsabilità verso il Paese, varando la riforma delle news che porterà notevoli risparmi - e la privatizzazione di Rai Way. Restava un nodo che non si scioglieva, il modo con cui il prelievo è stato fatto: modificando una tassa di scopo in corso di esercizio, ledendo l’autonomia della Rai dal governo».

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il Fatto 21.11.14
Volo-taxi, Pinotti vaga: “Attendo la magistratura”
di Marco Lillo


La Procura di Roma ieri ha fatto filtrare il suo orientamento sul caso del volo preso dal ministro Pinotti per tornare a Genova il 5 settembre. Il sostituto procuratore Roberto Felici con tutta probabilità iscriverà tra pochi giorni sul registro degli indagati il ministro della difesa per peculato d’uso. Però il passaggio ricevuto dal Falcon 50 dell’Aeronautica decollato quella sera da Ciampino secondo i pm romani non è un reato. L’iscrizione è solo formale, fanno filtrare dalla Procura, perché quel Falcon non è un volo di Stato (soggetto a autorizzazione, che nel caso di specie mancava) ma un volo in missione di addestramento.
Il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone quindi subito dopo l’iscrizione invierà tutti gli atti al Collegio dei reati ministeriali con la richiesta di archiviare il tutto. Il ministro Pinotti ha gradito l’indiscrezione filtrata dalla Procura e ieri in Parlamento ha potuto rispondere così al deputato Alessandro Di Battista del M5S che, dopo averla denunciata, l’ha stuzzicata con una battuta durante l’audizione sulla minaccia del’ISIS: “C’è una denuncia e si è aperta un’indagine - ha detto la Pinotti facendosi scudo della Procura - si aspetta che la magistratura faccia il suo lavoro, quando si sarà concluso ciascuno trarrà le conseguenze”. In realtà, anche se il procuratore Pignatone optasse per l’archiviazione la sua richiesta sarà solo un suggerimento al Tribunale dei ministri, unico vero dominus del fascicolo. La richiesta infatti non arriva all’esito delle indagini come nei reati comuni ma a monte. In questo procedimento speciale il ruolo del pm è sostanzialmente quello di ‘consulente’ del collegio dei reati ministeriali. Il pm deve trasmettere le carte ‘omessa ogni indagine’ al collegio con una richiesta che può essere di due tipi: l’archiviazione o l’indicazione di alcuni accertamenti da svolgere.
Ieri ipotizzavamo che il procuratore Giuseppe Pignatone suggerisse questa seconda via. Sembrava possibile e anche probabile che proponesse almeno di acquisire i documenti pubblicati dal Fatto e dal Tg7 sul volo incriminato. In particolare la ‘nota del giorno del 306esimo gruppo’ di stanza a Ciampino pubblicata dal Fatto il 26 settembre scorso. Quella nota infatti rivela che quel volo del 5 settembre, oltre alla missione dell’addestramento dei piloti, ne prevedeva una seconda: il Falcon doveva aspettare l’atterraggio dell’Airbus di ritorno da Cardiff con a bordo il ministro prima di decollare per Genova. Ovviamente con il soldato Pinotti a bordo.
L’USO DEI VOLI di addestramento per trasportare i politici al di fuori dei casi previsti dallo stringente decreto legge del 2011 (che limita l’uso ai presidenti della repubblica, della Consulta e di Camera e Senato) era stato svelato in tempi non sospetti nel febbraio scorso da un’intervista trasmessa nel programma tv ‘La Gabbia’. La giornalista Monica Raucci aveva intervistato un pilota militare sotto garanzia di anonimato che le aveva raccontato: “ci si mette addestramento e con quella parola si dice che quell’aereo e quell’equipaggio non è stato distratto dai suoi compiti istituzionali. I voli di addestramento li ho fatti io e li hanno fatti i miei colleghi”.
Ieri mattina sul sito del Giornale è apparso un commento di tale ‘onurb’: “Sono stato ufficiale pilota dell’Aeronautica Militare e in più circostanze sono stato comandato a eseguire voli addestrativi in concomitanza con l'esigenza di trasporto di qualche papavero”. Il Falcon 50 del 31esimo stormo che ha riportato a casa il ministro è un jet executive militare nell’appartenenza ma non nell’apparenza. Con i suoi 9 comodi posti in pelle piace ai politici ma costa un paio di milioni di euro all’anno più 3 mila euro circa per ogni ora di volo. I ministri del centrodestra Roberto Calderoli e Michela Brambilla, sono finiti davanti al Tribunale dei ministri (e poi sono stati salvati dal diniego dell’autorizzazione a procedere del Parlamento) perché avevano chiesto e ottenuto l’autorizzazione di Palazzo Chigi senza che, secondo il Tribunale dei Ministri, ricorressero i presupposti del volo di Stato.
Il ministro Pinotti non ha chiesto nulla alla Presidenza del Consiglio e ha approfittato del volo di addestramento. Secondo l’impostazione del procuratore Pignatone, a leggere i giornali almeno, la forma prevale sulla sostanza. Pinotti può volare a casa con lo stesso aereo dei voli di Stato senza rischiare nulla perché l’Aeronautica gentilmente pone il timbro ‘addestramento’ su quel Falcon e lo pone fuori dai radar della presidenza del consiglio. Se passasse questa linea si legittimerebbe la prassi descritta dai piloti anonimi che la Procura potrebbe facilmente identificare, se volesse. Così non sarebbe più la Presidenza del Consiglio a decidere quale politico vola sul Falcon ma l’Aeronautica. Il collegio dei reati ministeriali che deciderà il caso è così composto: il presidente è Luigi Nocella, giudice penale di Frosinone poi ci sono il gip di Roma Flavia Costantini e il giudice penale di Roma Aurora Cantillo. L’ultima parola sul ministro Pinotti e sul volo di addestramento spetterà a loro.

Il Sole 21.11.14
Il caso del Falcon. Dopo la denuncia del M5S
Sul «volo» della Pinotti in campo la Corte conti Lei: è stato risparmio
di Marco Ludovico


ROMA «C'è una denuncia e si è aperta un'indagine, si aspetta che la magistratura faccia il suo lavoro, quando si sarà concluso ciascuno trarrà le conseguenze». Roberta Pinotti, ministro della Difesa, risponde davanti alle commissioni riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato ad Alessandro Di Battista (M5S). Dice Di Battista: «Gradiremmo che lei ministro ci rispondesse in questa occasione anche dell'utilizzo di un Falcon per farla accompagnare a casa». M5S ha chiesto le dimissioni del ministro della Difesa ma la reazione di Roberta Pinotti - lo dimostra la risposta di ieri - è serena.
L'esito del giudizio di tre procure coinvolte - ordinaria, contabile e militare - è particolarmente atteso, visto il valore politico della decisione. La procura guidata da Giuseppe Pignatone - il fascicolo è in mano al pm Roberto Felici - ha tempo 15 giorni per trasmettere gli atti al Tribunale del ministri ipotizzando un'archiviazione o una richiesta a indagare. Quella regionale del Lazio della Corte dei conti deve decidere l'assegnazione del fascicolo e valutare le eventuali implicazioni contabili. In entrambi i casi i fascicoli sono aperti, per ora, contro ignoti. Nei giorni scorsi la Difesa ha spiegato in una nota che il volo non era di Stato ma addestrativo e l'utilizzo, da parte del ministro, era pienamente legittimo. E infatti non mancano le previsioni - forse ancora premature, ma non improbabili - di chi sostiene che la procura di Roma archivierà.
La questione potrebbe essere più complessa davanti alla Corte dei Conti. L'Aeronautica militare, peraltro, ricorda che ha «già provveduto ad adire le autorità giudiziarie competenti a tutela delle proprie ragioni ed immagine. Si evidenzia nuovamente che su queste tipologie di voli addestrativi è previsto l'imbarco di personalità istituzionali al di fuori dell'equipaggio anche al fine di consentire un risparmio di risorse per la Pubblica Amministrazione».

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il Fatto 21.11.14
La maxi-autobomba pronta per Di Matteo
Per uccidere il Pm di Palermo il mafioso Galatolo si era procurato 150 chili di tritolo
Quasi il doppio di quello usato per Borsellino in via D’Amelio
di Giuseppe Pipitone e Sandra Rizza


Palermo. Quasi il doppio rispetto a quello utilizzato per imbottire l’autobomba di via D’Amelio. Un po’ meno della metà di quello agganciato agli skateboard e piazzato sotto l’autostrada di Capaci. Per far saltare in aria il pm della trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, il mafioso dell’Acquasanta Vito Galatolo aveva procurato 150 chili di tritolo. L’esplosivo, nascosto in un bidone, sarebbe stato sotterrato in una delle campagne della zona di Monreale, sopra Palermo, che da alcuni giorni vengono battute metro per metro dagli uomini della Dia sguinzagliati con cani artificieri, metal detector e geo-radar all’interno di fondi agricoli e casolari ritenuti nella disponibilità di Cosa Nostra.
A RACCONTARE nei dettagli la fase dell’acquisto e della raccolta dell’esplosivo è sempre Galatolo che da cinque giorni è ufficialmente un collaboratore di giustizia dopo aver confidato prima a Di Matteo e poi al procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, il primo a verbalizzare le dichiarazioni del neo-pentito, il piano di morte che avrebbe dovuto rilanciare lo stragismo a Palermo. E se i 400 chili di esplosivo utilizzati per l’attentatuni di Capaci sventrarono l’asfalto dell’autostrada sulla quale viaggiava la macchina blindata di Giovanni Falcone, uccidendo il giudice, sua moglie e tre uomini della scorta, in via D’Amelio bastarono 90 chili di Semtex, detonante al plastico, nascosti nel cofano di una Fiat 126, per massacrare PaoloBorsellino e cinque agenti di scorta, per ferire 24 persone, squarciando la facciata del palazzo dove abitava la madre del magistrato. Antonino Vullo, l’unico agente sopravvissuto perché rimasto all’interno della macchina blindata, ricorda così la scena: “Improvvisamente è stato l’inferno, ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L’onda d’urto mi ha sbalzato dal sellino e non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto”.
ORA, A SENTIRE GALATOLO, Cosa Nostra con “entità esterne che sono interessate all’attentato” sarebbe pronta a fare il bis con un quantitativo di tritolo che è quasi il doppio rispetto a quello usato il 19 luglio del 1992. E proprio come in via D’Amelio, il pentito ha raccontato che a vent’anni di distanza, per eliminare Di Matteo, i boss avrebbero intenzione di utilizzare ancora una volta lo stesso piano di morte: un’autobomba piazzata su un punto cruciale del percorso che il pm compie tutti i giorni a bordo della jeep blindata per spostarsi dalla sua residenza al lavoro.
È anche per questo motivo che lunedì scorso il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha convocato urgentemente una riunione straordinaria del comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica alla presenza dei capi delle forze dell’ordine e dei servizi: le modalità della strage annunciata nel racconto di Galatolo hanno mandato in fibrillazione gli apparati di intelligence per una situazione ad alto rischio che minaccia la vita del magistrato ma anche la sicurezza pubblica.
Ora si indaga sulla provenienza dei 150 chili di tritolo che probabilmente, dopo l’arresto di Galatolo (nel giugno scorso) qualcuno ha provveduto a spostare e a occultare in un nascondiglio più sicuro. Il boss dell’Acquasanta ha spiegato di essersi occupato in prima persona dell’acquisto dell’esplosivo e ha fornito ai pm dettagli sull’origine e le fonti dell’approvvigionamento. Le sue rivelazioni, ovviamente, sono top secret, ma è un fatto che Galatolo da due anni viveva a Mestre, vicino Venezia, dove aveva preso la residenza dopo l’applicazione del divieto di soggiorno a Palermo. Storicamente la zona del Nord-Est italico è sempre stata crocevia del traffico d’armi e di esplosivo militare proveniente dagli armamenti dell’ex Jugoslavia.
NEI SUOI FREQUENTI spostamenti a Palermo, dove aveva il permesso di recarsi per assistere ai suoi processi, il mafioso dell’Acquasanta incontrava i boss delle altre famiglie cittadine. Nelle carte del blitz denominato “Apocalisse”, che il 23 giugno scorso fece scattare l’arresto di Galatolo e di altri 90 uomini d’onore, è emerso che il neo-pentito incontrava i boss emergenti del clan di Resuttana e San Lorenzo. Dopo aver deciso di “togliersi un peso dalla coscienza”, il mafioso ha spiegato che alla fine del 2012, partecipò a Palermo a una serie di summit per verificare lo stato di avanzamento del piano di morte per Di Matteo.

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Corriere 21.11.14
Report e la misteriosa morte dentro a Montepaschi
Anticipazione dell'inchiesta che andrà in onda a Report domenica alle 21.45 su Rai3
di Paolo Mondani

qui

il Fatto 21.11.14
Mps, video sulla morte di Rossi
“Quella sera lui non era solo”
Nella perizia di parte, novità sul manager deceduto a marzo del 2013
di Davide Vecchi


Per la Procura di Siena la morte di David Rossi è un suicidio. Eppure le perizie di parte hanno rivelato numerose incongruenze e lacune nelle indagini. A partire dalle analisi degli hard disk dei computer dell’ex manager del Monte dei Paschi di Siena, in cui molto materiale, tra cui lo scambio di email tra Rossi e Fabrizio Viola, amministratore delegato di Rocca Salimbeni, era sfuggito agli inquirenti ed è stato individuato solo grazie alle perizie svolte per volontà dei familiari; fino ai video delle telecamere di sorveglianza che mostrano come sia palesemente errata, sempre secondo i tecnici della difesa, la dinamica della caduta ipotizzata dalla procura. Ancora: la perizia dell’ingegnere Luca Scarselli solleva numerosi dubbi anche sulle testimonianze fornite da quanti erano nella sede di Mps la sera del 6 marzo 2013, quando Rossi ha perso la vita. E soprattutto individua nei filmati la presenza di persone nelle vicinanze del cadavere del manager sin dai minuti immediatamente successivi alla caduta. Persone, secondo la perizia, mai individuate dagli inquirenti. Infine, l’esame autoptico: il corpo di Rossi ha lesioni e lividi ritenuti non compatibili con la dinamica della caduta come ipotizzata dai magistrati.
Eppure la Procura di Siena ha archiviato l’indagine nel marzo 2014 e lo scorso 10 novembre anche la Procura generale, a cui si erano rivolti i familiari di Rossi per chiedere la riapertura dell'inchiesta, ha ribadito il diniego dei magistrati toscani.
Solamente ieri ad Antonella Tognazzi, vedova di Rossi, la procura ha notificato la risposta alla istanza di avocazione presentata lo scorso maggio. Tognazzi non ha mai creduto all’ipotesi del suicidio, tanto da aver più volte chiesto ai pm di svolgere indagini approfondite in diverse direzioni, in particolare considerando le forti pressioni a cui Rossi era sottoposto nella banca a seguito dell’avvio dell’inchiesta e dovute al profondo legame con Giuseppe Mussari, ex presidente del Monte e poi dell’Abi, travolto dall'inchiesta sull'acquisto di Antonveneta da parte di Rocca Salimbeni. Il fascicolo sulla morte di David, inizialmente aperto come istigazione al suicidio, è stato rapidamente archiviato.
LA MOGLIE di David Rossi non ha mai creduto alla volontarietà del gesto e ne ha parlato con Paolo Mondani, che per Report ha svolto un'inchiesta che sarà trasmessa domenica prossima, in cui passa in rassegna i dubbi e le incongruenze dell'inchiesta, dalla dinamica della caduta alle forti pressioni che stava vivendo il marito, sino ai particolari della perizia legale e alle “stranezze” accadute nei minuti successivi alla morte di Rossi.
Nelle relazioni di parte, la più sconcertante è proprio la ricostruzione di quanto avvenuto immediatamente dopo la morte e ricostruito attraverso le immagini delle videocamere di sorveglianza. In particolare, il perito individua la presenza di un uomo con un cappuccio in testa nei pressi del cadavere. La prima “ombra ferma visibile in via dei Rossi” appare dopo appena otto secondi dall’avvio della registrazione. Rossi cade al secondo “20” e la sequenza scandita nella perizia, se fosse confermata, è inquietante: a un minuto dall’impatto al suolo nel vicolo riappare l’ombra di un uomo. Poi “una luce”. Al minuto 4 si vede “una presenza di un mezzo” seguito pochi secondi dopo da una “persona che entra nel vicolo con un puntatore”. Al minuto “04:33” “persona più mezzo all’ingresso del vicolo”, al minuto 6 “persona dentro il vicolo”, poi un susseguirsi di ombre, luci in movimento, presenze: David Rossi muore dopo “tredici minuti”. Nel video, inoltre, si vede chiaramente un uomo, con piumino e cappuccio, intento a parlare al telefonino e avvicinarsi al cadavere di Rossi, guardandolo: la perizia ricostruisce che ciò avviene alle ore 20:27. Gli inquirenti hanno ritenuto fosse la persona che ha avvisato il 118, ma dalle verifiche compiute dai periti la telefonata alla sala operativa e alla Questura è arrivata “fra le 20:40 e le 20:45”. I video delle telecamere di sorveglianza, di cui il Fatto è in possesso, confermano la ricostruzione temporale svolta dai periti. I tecnici hanno inoltre individuato altri dettagli attraverso analisi approfondite sui singoli frame. I particolari su un puntatore laser che illumina dall’alto la zona dove si trova il cadavere, ad esempio. O l’orologio di Rossi che cade solamente mezz’ora dopo il corpo. E la cassa metallica cade distante dal cinturino in pelle. Ma i dettagli individuati sono davvero molti.
LE CONCLUSIONI della perizia sono semplici: qualcuno ha aiutato Rossi a suicidarsi. Basta leggere l’esito dello studio scientifico svolto sulla dinamica della caduta: “La posizione iniziale da cui si è originato il moto, l’assenza di segni lasciati dalla vittima sulla finestra dalla quale si sarebbe lanciato, i segni di sfregamento sulle scarpe (...) non si spiegano con il mero presunto suicidio della vittima”.

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il Fatto 21.11.14
La farsa di Medicina: laureati e disoccupati
di Bruno Tinti


LA STORIA dei test per essere ammessi alle specializzazioni mediche si è risolta nel peggiore dei modi: i due test invertiti, quelli destinati ai cosiddetti servizi (radiologia, anestesia, medicina del lavoro etc) finiti ai medici e viceversa, sono stati aboliti; dovevate rispondere a 30 domande, vanno bene 28; tutto regolare. Regolare un accidente. Immaginiamo due esaminandi; il primo ha sbagliato le risposte ai due test aboliti, quindi ha punteggio pieno, 28; il secondo ne ha sbagliate altre 2 ma ha risposto bene ai test aboliti; anche lui avrebbe 28; invece ha solo 26. Risultato: il primo è ammesso alla specialità e il secondo no. Ovvio che i ricorsi al TAR si sprecheranno.
Al di là della soluzione sbagliata, la vicenda bene evidenzia l'incapacità della Pubblica amministrazione: in questo caso quella sanitaria; ma inefficienza e insipienza analoghe sono riscontrabili in ogni settore: mi mettessi a raccontare della Giustizia, riempirei tutte le pagine del giornale. Motivo per cui torniamo ai test per l'ammissione alle specializzazioni.
Bisogna sapere che il laureato in Medicina non può fare a meno di una qualsiasi specializzazione: se non ne ha una può solo fare le guardie e le sostituzioni dei medici della mutua; insomma non può lavorare. Va bene, si specializzi. Solo che non può, almeno non è detto che possa. Alla facoltà di Medicina c'è il numero chiuso: bisogna superare i test, troppi medici non vanno bene; e sarà anche giusto. Ma a questo punto basterebbe calcolare questo numero chiuso in funzione dei medici specializzati, gli unici che faranno davvero il medico, non in funzione dei laureati. In altri termini, perché ammettere all'Università 20.000 (numero di fantasia) studenti con prevedibili 15.000 laureati per poi ammetterne alle specializzazioni solo 5.000? E gli altri 10.000 (che non solo hanno speso tempo e danaro per laurearsi ma hanno utilizzato risorse della collettività per la loro formazione - Università e professori li paga lo Stato) che cosa faranno? Se non servono più di 5.000medici “veri” si limiti l'accesso all'università in funzione di questo numero, non si creino disoccupati dopo aver speso capitali per formarli. Tanto più in quanto i non ammessi alle specializzazioni vanno a lavorare in altri Paesi (i medici italiani sono molto apprezzati, hanno un'ottima preparazione) che non hanno speso una lira per farli studiare.
QUESTA storia induce a pensare, ancora una volta, che si stava meglio quando si stava peggio. Prima della ennesima riforma, le specializzazioni venivano svolte presso le varie Università; i medici non erano pagati (borse di studio, guardie, sostituzioni, sbarcavano il lunario alla meno peggio) però intanto imparavano e si specializzavano. Alla fine potevano lavorare, sempre nel rispetto del numero chiuso per l’accesso a Medicina. Poi qualcuno ha cominciato a sollevare il problema: non è giusto che lo specializzando lavori in ospedale e non venga pagato! Dobbiamo dargli uno stipendio. Sì, ma i soldi dove li prendiamo? Eccoli qui, bastano per tre specializzandi. Va bene, e gli altri? Fateli entrare in soprannumero, lavorano gratis (un po' incoerente, ma si salvano capra e cavoli). Poi i baroni, i favoritismi veri o presunti, la "razionalizzazione" (ottima cosa se la sapete fare): concorso in sede nazionale, chi passa si specializza, gli altri si arrangino. Ma io ho studiato, sono medico! Peggio per te, vai a lavorare in Inghilterra. Ma ci sarà un limite all’imbecillità?

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Repubblica 21.11.14
Quando le violenze erano “il lato cattivo dell’amore”
Il cambiamento delle donne le ha rese irritanti
E per i loro partner sono diventate un’ossessione da soffocare
di Natalia Aspesi


CHISSÀ se i picchiatori o assassini della loro donna placheranno la loro rabbia nella giornata dedicata alla violenza contro le donne: tanto per onorare la festa o per prendersi un giorno di riposo. Ma anche se fosse, cosa serve questo tipo di cerimonia, certo non a far rinsavire gli uomini che manifestano la loro debolezza maschile usando ciò che hanno in più delle signore, a meno che queste non siano campionesse di sollevamento pesi, cioè la forza o meglio la forza bruta. Già donne e ragazze ammazzate non sono più una gran notizia, a meno che le circostanze siano profondamente efferate o eccitanti, e infatti gli articoli sono raramente in prima pagina, talvolta anche solo poche righe, tanto la storia è sempre quella e quindi sempre meno interessante, ben lontana da uno scoop: a meno che trattasi di una celebrità, lei o lui. Su questa violenza maschile si è già detto tutto, l’han fatto medici, criminologi, vescovi, associazioni femminili, sociologi, psichiatri ecc. e tanti violenti sono finiti in galera, ma la certezza di certi uomini che la loro donna è cosa loro resiste ancora. In certi casi si è resa ancor più amara di prima: perché prima, mettiamo sino a una cinquantina di anni fa, le mogli erano mogli quasi sempre casalinghe, dipendevano economicamente dal marito e in più non esisteva il divorzio: e sposandosi avevano promesso ubbidienza. Le botte facevano parte del lato negativo dell’amore, anche per la pasta scotta, ma essendo abbastanza diffuse, certo ci si lamentava, ma si faceva di tutto per non “meritarle”, vendicandosi poi con corna che il picchiatore non riusciva a scoprire.
Non so se la giornata contro la violenza alle donne comprenda anche i casi di stupro, ma penso che siano l’espressione più crudele e stupida della rabbia maschile. Talvolta anche coniugali, più diffusi da parte di sconosciuti o di finti amici. Come cronista ho assistito forse ai primi processi per stupro negli anni ‘70: le donne avevano osato denunciare il violentatore, e sempre le madri difendevano il loro buon figliolo, che o non aveva fatto quella brutta cosa lì oppure erano stati costretti dalla ragazza: ma spesso anche avvocati e giudici erano dalla parte del maschio. Perché la stuprata portava gonne troppo corte, o non teneva gli occhi bassi, o era troppo carina, o addirittura aveva già avuto un fidanzato quindi non essendo più vergine, unico tesoro delle giovani donne, lo stupro non esisteva. Il primo processo a cui assistetti in cui l’uomo fu condannato, fu quello, celebre, tra una bellissima studentessa che secondo i difensori aveva osato seguire il professore in casa sua, e per forza quindi lui aveva dovuto approfittarne, anche perché le sue difese non gli erano apparse così strenue. Erano i tempi dell’esplosione del femminismo, gli uomini cominciavano a temere le donne, e il professore fu condannato.
Ciò che ancora non è chiaro, è cosa avviene nel cervello di un uomo che “per amore”, picchia, stupra, uccide. Pareva ovvio che non dovesse più succedere, con l’avvento della parità, della diffusione del lavoro e delle professioni femminili, dei mutamenti sociali e legislativi, della diffusione della cultura e persino di una religione sempre meno spaventata dalle donne. In questo senso gli uomini sono cambiati poco, per lo meno non quanto le donne che hanno persino capito che essere sole può in certi casi essere meno pericoloso o noioso che essere in due. Certo il loro cambiamento può averle rese antipatiche, disubbidienti, sprezzanti, litigiose, pretenziose: e libere, e molte volte, orrore, superiori. Irritando anche ossessivamente gli uomini che pensano che le donne abbiano il dovere di amarlo incondizionatamente come la loro mamma. Bisognerebbe forse far capire ai maschi sin da bambini, a scuola, il meglio, non il peggio, della differenza.

Repubblica 21.11.14
Quello che ci dicono le donne
Il 25 novembre è la giornata contro la violenza sulle donne: non servono leggi, bisogna cambiare le teste
Ci vuole una rieducazione sentimentale che modifichi l’assegnazione dei ruoli
La paura delle bambine di non somigliare a un ideale
La pretesa degli uomini di avere compagne conformi ai propri desideri
di Concita De Gregorio


SCRIVERE o leggere di abusi non è un compito facile né un passatempo gradevole. Sia chi scrive che chi legge preferirebbe occuparsi d’altro: nei dieci minuti di tempo che la lettura di questo articolo occupa si potrebbero fare molte altre cose più piacevoli, è sicuro, anche riposare e non fare nulla. Ma il silenzio produce effetti persino più “sgradevoli” del fastidio di occuparsi ancora, di nuovo e in una ricorrenza, per giunta, di violenza sulle donne. Il silenzio uccide quanto un coltello o una pistola. È più nocivo del fastidio di parlare.
Comincia così, più o meno con queste parole, l’ultimo libro della scrittrice e giornalista messicana Lydia Cacho: una bellissima donna di 50 anni, bella della forza che sprigiona, molte volte minacciata di morte, almeno due volte scampata ad attentati, rapita e sequestrata per aver raccontato e scritto con ostinazione per decenni di come le donne e i bambini, nel suo paese, siano vittime di abusi sessuali, violenza di ogni tipo, umiliazioni segregazioni torture infine morte, la morte spesso un sollievo. Con la complicità delle istituzioni politiche ed economiche, perché i “potenti” sono coinvolti nei traffici di prostituzione e pedofilia, nel silenzio delle tv e dei giornali che a quei potenti appartengono. Qualche settimana fa Lydia Cacho è stata in Italia, abbiamo parlato a lungo di che cosa si possa fare di davvero utile, ciascuno con le sue modeste forze, per fare in modo che le donne non abbiano paura. Qualcosa di utile oltre alla parola, alla scrittura. Perché i centri antiviolenza sono fondamentali, certo, ma moltissime donne non ne conoscono neppure l’esistenza. Dentro certe povertà Internet — l’informazione in rete — non arriva. Denunciare è sempre possibile, è vero, ma spesso inutile. Hai paura che dopo la denuncia sia anche peggio, spesso lo è. Le leggi servono ma non bastano. Gli uomini picchiano e uccidono le donne perché non fanno quello che vogliono loro: perché li lasciano, perché non assecondano i loro desideri, perché si scambiano un messaggio con altri, perché escono di casa quando gli è stato detto di non farlo. Non è un raptus, non è mai un raptus. La follia non c’entra. È piuttosto una convinzione profonda, arcaica, un’idea primitiva del possesso della donna, della “tua” donna, che in una zona remota della coscienza dice che questo è lo stato di natura delle cose: sei mia e fai come dico io. Non esci, non mi lasci. Non puoi. Una convinzione arcaica che attraversa i generi: è degli uomini carnefici come, in moltissimi casi, delle donne vittime. Da qualche parte in fondo al corpo e all’anima anche le donne, tante di loro, pensano che tutto è inutile perché tanto le cose stanno così, nessuno potrà davvero aiutarle. Alle bambine da piccole si insegna, ad ogni latitudine del globo, che devono — dovranno, per piacere a qualcuno — essere non solo belle e brave ma discrete, miti, umili. Disporsi in modalità passiva, avere pazienza, assecondare i desideri per eventualmente far valere i propri. Fare come vogliono senza tuttavia dare nell’occhio, farlo di risacca. Nell’onda di ritorno. In casa, al lavoro, per strada. Non spaventare gli uomini ma sedurli. Anche l’esibizione dei troppi meriti è un demerito: loro amano le bionde ma sposano le brune. Se vuoi farti sposare sii metaforicamente bruna, dunque, cioè sobria, timida, silenziosa. Meglio fragile che forte. Meglio dipendente che indipendente. Meglio coperta che scoperta. Si diceva dunque, con Lydia, che quello che servirebbe davvero è una specie di rieducazione sentimentale. Una pedagogia rivoluzionaria fin dai primi mesi di vita, all’asilo poi a scuola ma prima ancora in famiglia: una nuova educazione che sia capace di modificare l’assegnazione arcaica dei ruoli nelle coscienze. Un compito ciclopico, ma da qualche parte bisogna pur cominciare. Perché le leggi non servono, se non cambiano le teste. Aiutano, ma non bastano. Abbiamo anche riso: quando gli uomini sparecchiano la tavola capita che lo scrivano su un blog: sono bravissimo, sono per la parità, sparecchio. Poi abbiamo aperto Google, abbiamo digitato “uccisa dal fidanzato motivo”, “uccisa dal marito motivo”. Ho davanti il foglio su cui abbiamo segnato i primi sette risultati su due milioni e ottocentomila. Daniela Puddu, 37 anni, Iglesias, buttata dalla finestra perché sentiva il suo ex su Facebook. Veronica Valenti, 30 anni, Catania, lo aveva lasciato e non voleva tornare con lui. Fabiana Luzzi, 16 anni, Corigliano, lui voleva fare l’amore lei no. Ofelia Bontaiu, 28, Gualdo Tadino, non voleva partire per Londra con lui. Tiziana Falbo, 37, strangolata, voleva interrompere la relazione. Assunta Sicignano, 43, Vigevano, non voleva tornare con lui. Sonia Trimboli, 42, Milano, non voleva più vederlo. Non facevano quel che volevano loro, insomma: se ne andavano, non tornavano, parlavano con altri. Sonia aveva denunciato alla polizia il suo convivente il 28 agosto. Lui l’ha uccisa a ottobre, strangolata con l’elastico che usavano per tenere uniti i letti. Un gesto simbolico, diciamo. Nel mondo, solo negli ultimi giorni. Reyaneh Jebbari è stata impiccata in Iran per aver accoltellato l’uomo che la violentava. Maria Josè Alvaredo, 19 anni, eletta Miss Honduras e in procinto di volare a Londra per Miss Mondo è stata uccisa con sua sorella Sofia dal fidanzato di lei: Plutarco. Motivo: Sofia aveva ballato con un altro alla festa, Maria Josè aveva visto. Non stavano composte: reagivano alla violenza, decidevano con chi ballare.
Nelle foto di Guia Besana, italiana che vive a Parigi, ci sono immagini magnifiche di donne “Under Pressure”, così si chiama il suo progetto. Rotte, come bambole, sotto la pressione di quello che ci si aspetta da loro. Sotto il peso del non corrispondere all’attesa altrui che diventa infine anche propria. “Bella, brava, fedele”, dice lo spot che Eva Riccobono ha appena girato per la Onlus “Fare x bene” sotto lo slogan: Educhiamo i giovani al vero amore. Il video illustra in modo provocatorio cosa serve per non essere picchiate, per non essere uccise: essere come vogliono che tu sia. Allora alla fine è questo il meccanismo da scardinare, così difficile da trovare, così in fondo nella mente e nell’anima di ciascuno. Non è vero, bambina, che devi essere come vogliono che tu sia. Non è vero, ragazzo, che puoi pretendere che le donne siano come tu le vuoi. Si può anche cominciare dall’estetica. È appena uscita una bambola normale, sul mercato dei giocattoli. Un’anti-Barbie. Non è una bambola “coi difetti”, come scrivono i giornali. L’idea di difetto suppone un’attesa di bellezza ideale. È normale, simile alle donne come sono davvero. Anche un giocattolo serve, in questa battaglia contro la paura di non essere “giuste”, di non somigliare a quello che dovresti essere. Per arrivare a dirsi, da grandi, che c’è un solo modo per cambiare un fidanzato violento: cambiare fidanzato. Anche una bambola, molte bambole servono ad accettarsi per come si è, imparare a non dipendere dall’approvazione dell’altro. Piacersi e dunque proteggersi. Solo dai bambini, diceva Lydia, si può davvero ripartire. Conservarli liberi, non guastarli, farli forti. Ad esserne capaci: fare della scuola il più bel centro antiviolenza del mondo.

Repubblica 21.11.14
Laura Boldrini, Presidente della Camera
“Lavoro e autonomia, ribellarsi è giusto”
La vittima non produce, richiede cure mediche e assistenza legale.
Sono costi enormi per la società
intervista di Alix Van Buren


«NON chiamatela, per favore, “emergenza”: la violenza contro le donne non è frutto di un raptus. È un fenomeno radicato, strutturale. In breve: culturale. Perciò faremmo meglio a parlare di “urgenza”». È fermissima Laura Boldrini, terza donna in Italia a dirigere la Camera dei deputati, fiera d’essere definita “la presidente”. Nel suo studio al Parlamento, dice: «La convenzione di Istanbul parla chiaro: la violenza di genere viola i diritti umani e le libertà fondamentali. Quel trattato è una pietra miliare. Ratificarlo è stato il primissimo atto di questo Parlamento, nel giugno 2013. Ora si tratta di applicarne le raccomandazioni».
Signora presidente, i risultati di un’indagine che lei ha presentato in Parlamento sembrano contraddire le attese. Dipingono un’Italia in ritardo rispetto alle richieste europee?
«L’Italia sembra pensarla diversamente riguardo ai principi enunciati dalla Convenzione di Istanbul. I dati della ricerca Intervita sono allarmanti: un italiano su tre tende a minimizzare la violenza domestica e ritiene che gli abusi debbano essere risolti in famiglia. Uno su dieci crede ancora che la donna vestita diversamente non subirebbe violenza. Uno su cinque non considera violenza le battute a sfondo sessuale. Se s’aggiunge la difficoltà d’inserimento della donna nel mondo del lavoro, si capisce come tutto questo si ripercuota sul tema della violenza».
L’indipendenza economica è un’arma efficace?
«È alla base dell’autonomia; come può, infatti, una donna allontanarsi da una famiglia violenta se non ne ha i mezzi? Nel nostro Paese c’è un problema fondamentale di pari opportunità. Eliminare le differenze di genere è uno degli obiettivi-chiave dell’Europa, che ci richiama a incentivare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro anche attraverso la creazione di più asili e strutture per anziani. Eppure dal rapporto del Forum economico mondiale affiora un’immagine disarmante: in tema di pari opportunità siamo all’ultimo posto nella Ue. La partecipazione al mercato del lavoro è modesta — 46,5% contro il 58,7 — e il divario di genere è fra i più preoccupanti».
Però, siamo promossi a pieni voti nel gap salariale fra uomo e donna: con appena il 6,7% figuriamo meglio della Svezia al 16%?
«Macché, bisogna leggere quei dati in controluce, considerare il lavoro nero, la bassa occupazione, le ore di lavoro non retribuito nella giornata di una donna, e sono i due terzi secondo l’Ocse. Arrivo a dire questo: la scarsa presenza femminile nel lavoro è alla base di tutte le disfunzioni: ne risente l’economia, infatti le donne producono di più e questo influenza il Pil secondo la Banca d’Italia; ne soffre l’innovazione perché sono più creative. E così ritorniamo al punto iniziale, perché tutto questo ha riverberi, ancora una volta, sul tema della violenza, con un costo inaccettabile sia etico sia economico: la vittima non può lavorare, non produce; richiede cure mediche, psicologiche, assistenza legale. Sono costi enormi per la società».
In America si parla, nientemeno, di “guerra”: la violenza contro le donne lì in un anno ha fatto più morti che i soldati caduti in Iraq e Afghanistan. È così?
«Proprio così, il problema va affrontato a ogni latitudine e direttamente con gli uomini. Servono la sensibilizzazione attraverso associazioni di uomini che parlino ad altri uomini; l’educazione di genere nelle scuole, già avviata; centri di recupero per i violenti. E poi, il Trattato di Istanbul impone la fine degli stereotipi in tutto quel che crea la percezione del femminile, compresi i media, la pubblicità».
Vogliamo parlare della pubblicità?
«Parliamone. Siamo un caso unico. Prenda la ricerca di Intervita: si spendono circa 30 milioni di euro al mese in pubblicità per presentare una donna stereotipata, ammiccante o in cucina a lavare piatti, e promuovere ogni prodotto dai cibi alle auto. Gli spot riproducono famiglie e uomini da Anni Sessanta, non corrispondono a quelli che conosco io».
Lei s’è data anche il compito di svecchiare l’arcaico vocabolario parlamentare: è un passo indispensabile verso la parità di genere?
«Il linguaggio è uno strumento potente. Rispecchia l’evolversi della nostra società, il modo di concepire le cose e gli eventi. Condiziona la nostra interpretazione e la nostra percezione del mondo. Guardi, ad esempio, la Francia: il rispetto di genere è tutelato nel regolamento dell’Assemblea nazionale. Sa cos’è successo a un deputato che insisteva nell’indirizzarsi alla vicepresidente Mazetier con la formula del “Monsieur le President”?»
Cos’è successo?
«Che lei gli ha applicato una sanzione di 1.378 euro. Io le ho scritto esprimendole la mia vicinanza. E invece da noi, nonostante l’Accademia della Crusca raccomandi di usare negli atti amministrativi la forma femminile per i nomi di mestiere, di professione e di ruolo, molti sono declinati ancora al maschile. Quasi che noi donne presidenti, giudici, fossimo meteore passeggere. Tutte le lingue latine stanno adeguandosi a un linguaggio non discriminatorio».
Lei è stata bersaglio di aggressioni verbali sessiste. Come l’ha presa?
«Meglio di quanto s’immagini: gli attacchi hanno fatto molto più clamore che le valanghe di messaggi, fiori e pegni di solidarietà. Si sono rivelati un boomerang per chi li ha orchestrati. Come vede, l’Italia ha più anticorpi di quanto si pensi».

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Repubblica 21.11.14
La polizia sgombera il Teatro Eliseo ora Barbareschi vuole la storica sala
Roma, battaglia fra proprietari e gestori
Sfrattato lo spettacolo di Emma Dante
di Mauro Favale


ROMA LA prima mossa è stata cambiare le serrature e allestire un servizio di sorveglianza all’entrata per bloccare tutti gli ingressi «non autorizzati». Quello che era stato, a fatica, evitato per il Teatro Valle tre mesi fa, si è realizzato ieri mattina per un altro dei teatri storici di Roma, l’Eliseo, stabile privato di interesse pubblico: sfratto esecutivo, con tanto di ufficiale giudiziario e blindati della polizia su via Nazionale.
Dopo mesi di annunci e di tira e molla e dopo undici rinvii, alla fine si abbassa un altro sipario nella città dei 42 cinema chiusi, con i teatri che non se la passano tanto bene. La storia dell’Eliseo (114 anni di età, palcoscenico calcato da Petrolini, Totò, Anna Magnani ma anche da Umberto Orsini, Glauco Mauri, Rossella Falk) nell’ultimo periodo era stata caratterizzata più che dagli spettacoli da una profonda spaccatura tra la società immobiliare proprietaria dell’edificio e i gestori del teatro. Un contenzioso che vede da una parte Carlo Eleuteri e Stefania Corsi e dall’altro la famiglia di Vincenzo e Massimo Monaci che da due anni non versava l’affitto. «Per un valore di un milione di euro — sottolineano Eleuteri e Corsi — e anche lo Stato ha perso 220 mila euro di Iva. Quindi è stato causato anche un danno all’erario».
Sembra l’antipasto di una battaglia legale che potrebbe rallentare (e di molto) la riapertura del teatro. E questo, nonostante ieri a “coordinare” lo sfratto ci fosse Luca Barbareschi, attore, regista, ex deputato che ha assicurato di aver stretto un accordo con i soci Eleuteri e Corsi per la gestione artistica del teatro «per 12 anni». «Salverò l’Eliseo e salverò i lavoratori», assicura Barbareschi che ieri ha incontrato anche il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini. «Sono convinto che vi siano le condizioni per far tornare l’Eliseo ad essere quello che è stato nel passato: una grande eccellenza del teatro italiano», le parole del ministro.
A rovinare la festa, però, c’è la promessa di Monaci senior: «Ci vendicheremo, sarà guerra totale in tutte le sedi. Il fascismo ha vinto ancora nel breve periodo». Duro anche il figlio Massimo: «Lo sfratto, seppure legittimo è stato un atto di una violenza spropositata. Siamo stati trattati come una qualsiasi occupazione. L’Eliseo meritava altro. L’accordo di Barbareschi? È illegittimo, i due terzi non bastano, ci vuole l’unanimità». E mentre i 17 lavoratori assunti a tempo indeterminato annunciano l’intenzione di impugnare i licenziamenti, c’è da capire in fretta quale sarà il destino della “Operetta burlesca”, lo spettacolo di Emma Dante che ha debuttato due sere fa nell’ambito del RomaEuropa Festival proprio all’Eliseo. La pluripremiata regista palermitana si dice «infuriata, delusa e sconfortata». E rilancia con una provocazione: «Ora siamo in strada e quindi dico: perché non fare lo spettacolo in una piazza o una via qui a Roma?».

VIDEO DI REPUBBLICA:
QUI
http://quotidiano.repubblica.it/edizionerepubblica/pw/flipperweb/flipperweb.html?testata=REP&issue=20141121&edizione=nazionale&startpage=1&displaypages=2

Repubblica 21.11.14
“Un’eccellenza cittadina snobbata dalle istituzioni che non l’hanno sostenuta”
di Umberto Orsini


SONO l’attore che forse più ha vissuto la storia dell’Eliseo dagli anni 50 — quando andavo a vedere gli spettacoli di Visconti — a oggi e anche per questo da tempo avevo capito che qualcosa non andava più. E non perché i camerini erano disadorni o perché da cinque anni non c’era un bagno che funzionasse. No, questi sono aneddoti. Non era più l’Eliseo. Una volta ospitava il grande teatro borghese, “esaurito” per mesi. Ora tutto appare mortificato, ma non penso che la responsabilità sia solo della famiglia Monaci che lo ha gestito negli ultimi anni. Era il luogo dell’eccellenza della città, culturale e civile —Berlinguer salì su quel palco per il discorso sull’austerità nel ’77 — è stato snobbato dalle istituzioni che non hanno mai dato un soldo. Poi si sono aggiunte le nuove programmazioni, gli scambi con le compagnie, che hanno annacquato tutto, abbassando qualità e introiti. Eppure con Il gioco delle parti, esaurito per 4 settimane, l’anno scorso io stesso ho dimostrato che si può cambiare. Ecco perché do fiducia a Barbareschi. Se all’Eliseo entra un teatrante e non per farne una pizzeria non lo trovo negativo. Mi pare che abbia un progetto e non di nani e ballerine. Almeno proviamoci.

Repubblica Roma 21.11.14
Dramma Eliseo, polizia in teatro “Ma dopo lo sfratto riaprirà presto”
Il blitz preceduto da undici rinvii
Monaci, attuale gestore: un colpo di Stato
Salta lo spettacolo di Emma Dante, è polemica
Barbareschi: salverò la storica struttura e i lavoratori
di Giulia Cerasi e Mauro Favale


Ore 7, sfratto all’Eliseo Il teatro nella bufera salta anche Emma Dante
Il blitz degli agenti dopo undici rinvii
L’allarme dei lavoratori: “Siamo da mesi senza stipendio né contributi”

È MANCATO l’ultimo rinvio, il dodicesimo. Questa volta la data è stata rispettata in pieno. Dopo la chiusura del Valle e lo sgombero del cinema America, ieri mattina è toccato all’Eliseo, sfrattato dopo un contenzioso che durava da mesi tra la proprietà di Carlo Eleuteri e Stefania Corsi e la gestione di Vincenzo e Massimo Monaci: due anni di affitti non pagati da questi ultimi («Un milione di euro persi e 220 mila euro di Iva non versata allo Stato», denunciano Eleuteri e Corsi) e una frattura ormai impossibile da sanare.
ORA a rilevare il teatro è pronto Luca Barbareschi, attore e regista, che avrebbe stretto un accordo coi proprietari per 12 anni di gestione. «È carta straccia — precisa però Monaci jr. — perché sia valido bisogna convocare l’assemblea del teatro e ottenere l’unanimità». L’ex gestore grida al «colpo di Stato» e ammette «qualche errore» negli ultimi anni, poi mette in fila i motivi di una crisi che definisce «strutturale»: «Nel 2005 il contributo dello Stato era di 1 milione e 770 mila euro, nel 2013 si è ridotto a 1.350.000. Abbiamo subito un crollo dei ricavi al botteghino: negli ultimi 4 anni sono calati del 30%. E ci sono mancati gli sponsor che nel 2010 ci aiutavano con 3-400 mila euro e che quest’anno ci hanno assicurato solo 70.000». Numeri che raccontano le difficoltà dell’Eliseo che da ieri ha le saracinesche abbassate. Se si rialzeranno presto dipenderà da cosa accadrà all’interno della proprietà. Con un problema in più: il destino della “Operetta burlesca” di Emma Dante, in proall’Eliseo gramma fino al 30 novembre e attualmente sospeso fino a nuove comunicazioni.
Barbareschi vorrebbe fare le cose in fretta: «Salverò il teatro e salverò i lavoratori — dice il regista — purtroppo si dovranno licenziare dalla gestione Monaci ma poi intendo riassumere quelli a tempo indeterminato». Per adesso, però, resta incerto il destino dei 17 assunti più un’altra quarantina di stagionali. Ieri mattina alla notizia dello sfratto in corso si sono tutti ritrovati all’ingresso della sala su via Nazionale. Poca voglia di parlare, nessuno dice il suo nome. «Barbareschi — racconta una dipendente — ci ha detto che ci chiamerà uno alla volta e valuterà chi gli potrà continuare a lavorare in teatro. Siamo appesi a un filo». Un elettricista racconta: «Non ci hanno ancora pagato gli stipendi di ottobre e novembre. E non so se riusciremo a recuperarli. Non solo. Da un anno non ci pagano neanche i contributi dell’Inps». Un altro precisa: «L’intenzione di Monaci era pagarci arretrati e Tfr coi soldi del Fus che sarebbero dovuti arrivare a dicembre. Ma se non verrà garantita la continuità, il mini- stero probabilmente non erogherà il Fus. Siamo ko».
Poi, nel pomeriggio, riunione con sindacalisti e avvocati: «Dobbiamo capire il percorso da affrontare per i lavoratori», spiega Davide Mori, Uilcom. «Aspettiamo le lettere di licenziamento che di sicuro impugneremo — assicura Nadia Stefanelli della Cgil — ma a oggi ancora non sappiamo chi è l’interlocutore per far riassumere tutti i lavoratori». A pagare il prezzo più alto sarà un dipendente che, oltre a lavorare all’Eliseo come custode, nel teatro viveva anche: insieme a una nuova occupazione, adesso sarà costretto a cercarsi una nuova casa.
Nel frattempo potrebbe finire in tribunale il botta e risposta tra Vincenzo Monaci e Barbareschi.
Tra i due non corre buon sangue, da quando il primo chiamò nel 2003 l’attore a occuparsi della direzione artistica e poi lo licenziò con un risarcimento deciso da un giudice da 200mila euro. Oggi, il primo denuncia che «il fascismo ha vinto nel breve periodo. ci vendicheremo come possiamo». Ribatte il secondo: «È un insulto, lo querelo». Poi assicura che è pronto a mettere sull’Eliseo, 4 milioni di euro: «È il progetto della mia vita».

Corriere 21.11.14
Sfratto eseguito all’Eliseo
Cacciato il proprietario ora tocca a Barbareschi
di Laura Martellini


ROMA La polizia s’è affacciata già alle cinque del mattino. Alle sette la serratura è stata forzata e l’ufficiale giudiziario ha fatto il suo ingresso. Uno dei teatri storici della Capitale, l’Eliseo in via Nazionale, nato ai primi del Novecento e casa di celebri compagnie, dai fratelli De Filippo a Luchino Visconti, Proclemer-Albertazzi, alla Compagnia dei Giovani e tanta altra storia da manuale, ha vissuto uno sfratto ieri dopo ripetuti rinvii. Via la famiglia Monaci, che aveva mantenuto alta la tradizione; dentro Luca Barbareschi, attore e produttore che della sala fu già direttore artistico, con finale al veleno, nel 2001.
E una vera e propria guerra s’è scatenata attorno all’avvicendamento. «Nessun passaggio di proprietà può avvenire senza il mio assenso» ha ribadito ancora ieri Vincenzo Monaci, con il trust di famiglia presente per un terzo nella società immobiliare che possiede le mura. Sua fino all’altro ieri anche la gestione della sala, affidata alla direzione artistica del figlio Massimo. «Io sono il nuovo proprietario e direttore artistico del teatro Eliseo: abbiamo cacciato una gestione morosa — esultava ieri Luca Barbareschi —. Voglio per l’Eliseo una compagnia stabile. Solo per quest’anno investirò 4 milioni di euro. Mi auguro che riapriremo a breve, anche 24-48 ore». E a Vincenzo Monaci che in una conferenza stampa improvvisata aveva inveito «purtroppo i fascisti, nel breve periodo, vincono ancora» replicava a Radio 24: «Monaci fa tenerezza, ha già perso una causa con me dodici anni fa, la perderà ancora».
Luca Barbareschi ha presentato al ministro dei Beni culturali Dario Franceschini il suo piano di rilancio. Ma nonostante le certezze del ministro («Vi sono le condizioni per far tornare l’Eliseo ad essere un’eccellenza»), la pace pare lontana. In agitazione i lavoratori, sotto la scure dei licenziamenti, e sdegnata la reazione di Emma Dante costretta a sospendere le repliche della sua «Operetta burlesca» per il RomaEuropa Festival: «Com’è possibile vivere questo disagio vergognoso? Finiremo per portare lo spettacolo per strada. Sono delusa e sconfortata».

Corriere Roma 21.11.14
Una sconfitta per tutti
di Paolo Fallai


Non c’è un vincitore in questa storia triste dell’Eliseo. Basterebbero le foto della forza pubblica davanti a uno dei più importanti teatri di Roma e d’Italia, per sancire una sconfitta che riguarda tutti. E per primi i protagonisti di una vicenda che nelle ultime settimane ha visto scontrarsi due «privati» dalle visioni opposte. Non è bastato a Massimo Monaci, direttore artistico uscente, l’appoggio del padre Vincenzo - titolare di un terzo della proprietà, gli altri sono Carlo Eleuteri e Francesco Corsi - per superare la montagna di debiti e non solo sul versante dell’affitto. Non è chiaro l’obiettivo culturale di Luca Barbareschi - «ne parlerò in una conferenza stampa» ha detto ieri - mentre proclamava una gestione che «durerà 12 anni» parlando da «nuovo proprietario», ma senza chiarire con quali quote, acquistate da chi e in quale misura. E, infine, non si capisce a che titolo Luca Barbareschi fosse presente alle 7 di mattina al momento dell’ingresso in teatro della forza pubblica. Quella di ieri era l’undicesima visita dell’ufficiale giudiziario, orribile e inutile statistica che serve solo a ricordarci da quanto tempo la situazione dell’Eliseo correva sul limitare del baratro. Sì, il ministro Dario Franceschini si è speso contro ogni sciagurata ipotesi di cambio di destinazione d’uso, ma è davvero successo poco altro. E se è ingeneroso accomunare al disinteresse generale, Giovanna Marinelli, assessore alla cultura da appena quattro mesi, è del tutto legittimo chiedere conto al Campidoglio sull’assenza di una politica culturale nei confronti del teatro privato a Roma. Un «vuoto» che dura ormai da anni, come se questa parte dell’offerta culturale non riguardasse la comunità.
Ha ragione Emma Dante a dirsi «sconfortata, arrabbiata e delusa» e certo non solo per la sospensione delle repliche del suo spettacolo, in scena all’Eliseo per Romaeuropa. Ma per il clima di indifferenza e incertezza che coinvolge anche questo Festival senza una sede propria e per l’ennesima figuraccia internazionale. È la seconda emergenza che questa vicenda ci consegna senza soluzione. La prima riguarda il destino dei lavoratori dell’Eliseo. Immersa in quella più generale che morde tutto il teatro romano: senza un sostegno chiaro allo stabile pubblico (il Teatro di Roma ha bisogno di risorse ora, non di altri tagli), senza un quadro che comprenda e riconosca il ruolo delle sale private grandi e piccole, non avremo nuovi, tristi, «casi Eliseo». Avremo una serie di chiusure, in una città drammaticamente più povera.
pfallai

Corriere Roma 21.11.14
Sfrattati i Monaci, entra Barbareschi, sospesa Emma Dante
di Laura Martellini


Lo sfratto stavolta c’è stato. La famiglia Monaci ha dovuto lasciare ieri il Teatro Eliseo. Violenta la polemica: «Sono io il nuovo proprietario. L’Eliseo tornerà ad essere un teatro d’eccellenza» ha annunciato Luca Barbareschi presentandosi la mattina, in contemporanea con gli agenti. Vincenzo e Massimo Monaci non si danno per vinti: «Nessuna vendita senza il nostro assenso; agiremo nelle sedi legali». Un duro botta e risposta a distanza si è consumato fra i due, mentre i sindacati lanciavano l’allarme: «Le istituzioni si facciano mediatrici perché siano mantenuti i posti di lavoro». Sospesa la replica per il Romaeuropa Festival dell’«Operetta burlesca» di Emma Dante, che ha definito «vergognoso dover mendicare uno spazio».

Eliseo, sfratto con la polizia Emma Dante, repliche sospese Luca Barbareschi: «Sono proprietario e lo gestirò per 12 anni» S ono le sette del mattino di ieri quando la polizia scorta l’ufficiale giudiziario negli uffici del Teatro Eliseo. Lo sfratto stavolta è esecutivo. Viene forzata la porta d’ingresso, gli agenti prendono possesso della sala di via Nazionale. E alla famiglia Monaci, arrivata ad operazione già cominciata, il padre Vincenzo proprietario e il figlio Massimo direttore artistico, non resta che stare a guardare. Da fuori, insieme con spettatori ed attori come Andrea Giordana arrivati al primo diffondersi della notizia.
Un provvedimento atteso ma accompagnato dalle polemiche: perché, racconta chi c’era, al seguito della polizia era presente Luca Barbareschi. L’attore il 25 ottobre ha annunciato di essere subentrato con la sua Casanova Multimedia come proprietario e responsabile della sala. E la mattina presto è lì, a rassicurare i lavoratori: «Apriremo un tavolo per salvare le maestranze: purtroppo si dovrà attraversare la fase del licenziamento, ma poi intendo riassumere i dipendenti a tempo indeterminato, una quindicina». Nel corso della giornata l’attore e produttore aggiunge di aver ricevuto «messaggi di congratulazioni e auguri da tutta Italia. È tornata la legalità. Solo per quest’anno investirò 4 milioni di euro. Immagino l’Eliseo come un centro di eccellenza e di produzione internazionale».
«Barbareschi riesce a entrare, quando a noi è proibito» protesta Massimo Monaci. E se il padre Vincenzo durante una conferenza stampa improvvisata va giù pesante evocando i fantasmi politici del fascismo («Fa tenerezza; ha già perso una causa con me dodici anni fa, la perderà ancora» la replica di Barbareschi), Massimo smussa i toni. Ma la sostanza non cambia: «C’è un disegno politico - dice -. Sono profondamente incazz...to per la maniera violenta in cui siamo stati trattati nonostante la disponibilità ad ascoltare tutte le proposte sul tavolo. Ad offenderci è il silenzio di Comune e Regione». Diana Palomba, avvocato, ribadisce: «Il 34% dell’immobiliare è in mano a un trust riconoscibile e italiano, quello della famiglia Monaci, che quindi non può essere estromessa. Ogni operazione di compra-vendita per statuto societario deve passare attraverso la sua approvazione». È sicuro invece Barbareschi: «È in corso una moratoria di 48 ore per poi dare la possibilità di iniziare questa nuova avventura che prevede un accordo tra la Casanova Teatro e la proprietà per dodici anni di gestione». E incassa la «solidarietà» del direttore artistico della Pergola di Firenze, Gabriele Lavia.
Temporaneamente sospesa l’«Operetta burlesca» di Emma Dante: «Sono infuriata, ma anche delusa e sconfortata che in un Paese come il nostro, in una città come Roma, nessuno garantisca il prosieguo di un festival come il Romaeuropa. Porterò lo spettacolo in strada». Fabrizio Grifasi, direttore della Fondazione, ha prospettato una via d’uscita: «Abbiamo chiesto alla Eliseo Immobiliare l’autorizzazione per tenere aperto il teatro per la durata delle repliche, nel pieno rispetto dei lavoratori». S’attende risposta.

La Stampa 21.11.14
Telenovela Eliseo, dopo lo sfratto arriva Barbareschi
L’attore e i Monaci, lite per il possesso del teatro
di Simonetta Robiony


Se non fosse l’ennesima prova dello sfascio italiano sarebbe la trama perfetta per una farsa all’antica maniera: così si presenta infatti la lotta senza risparmio di colpi tra Luca Barbareschi e la famiglia Monaci per il possesso del teatro romano Eliseo, un tempo casa elegante e pacifica della compagnia dei Giovani, da anni terreno di scontro tra i due contendenti. Ieri l’ultimo atto: ma sarà davvero l’ultimo?L’Eliseo è stato sgombrato. Fuori tutti, i Monaci padre e figlio, i dipendenti, i collaboratori e all’alba l’asino che pare fosse stato introdotto in teatro perché, essendo gli animali tutelati in caso di sfratto, avrebbe dovuto bloccare le forze dell’ordine. Barbareschi inneggia al trionfo: «Sono io il nuovo proprietario e sarò anche il direttore artistico. Finalmente possiamo dire che gli asini sono usciti dall’Eliseo. Certo - aggiunge col sorriso sarcastico che l’ha reso famoso - alludo all’animale che vi era rinchiuso».
La vicenda è nota. La famiglia Monaci riuscì alcuni anni fa a strappare l’Eliseo a Barbareschi che dovette cedere di fronte al fatto che Vincenzo Monaci, il padre, avesse comprato il 34% del teatro mentre il figlio Massimo ne diventava il direttore artistico. Tutto bene all’inizio ma poi, un po’ per la crisi del settore dello spettacolo, un po’ perché i conti non riuscivano più a quadrarli, i Monaci cominciarono a non pagare la loro quota di affitto agli altri soci. E qui scattò lo sfratto per morosità: annunciato, negato, rinviato, posposto, temuto, invocato fino alla fatale esecuzione di ieri. «Sto salvando il teatro - dice Barbareschi, uomo intelligente e capace ma certo non modesto - . Voglio una compagnia stabile, voglio farne un luogo di formazione, voglio investire 4 milioni di euro il primo anno, e riaprire l’Eliseo subito, entro uno o al massimo due giorni. La stagione va salvata. Gli impegni presi vanno rispettati. Ho quasi 60 anni: potrò far qualcosa per questa città che amo tanto?».
La risposta della famiglia Monaci non si fa aspettare ed è aspra: sarebbe da querela se Barbareschi non anticipasse che la querela non vuol farla. «I fascisti nel breve periodo vincono ancora - dicono alludendo all’antica amicizia tra Barbareschi e Fini -. Abbiamo subito una violenza inaccettabile malgrado la nostra disponibilità. La nostra posizione è sempre stata aperta all’ospitalità. Ci vendicheremo. Riusciremo a dimostrare che non abbiamo fatto mai alcunché per interesse». Sarà. Ma i debiti ci sono e la decisione di non pagare l’affitto è presa consapevolmente: «Sapevamo che era un atto grave, ma le istituzioni non hanno reagito: il loro silenzio è stato assordante». Per di più pare che a richieder soldi indietro non siano solo gli altri proprietari dello stabile ma anche attori, produttori, registi che hanno lavorato all’Eliseo ma non sono stati pagati. Debiti alti, dunque. Debiti che avrebbero spinto gli altri due soci a intimare ai Monaci di pagare o andar via e di fronte a tre possibili proposte di acquisto, avrebberofirmato un contratto con Barbareschi, ignorando la volontà della famiglia Monaci che per andare avanti ha temporaneamente concesso il palcoscenico al festival RomaEuropa tant’è che continua a essere annunciato, in questi giorni, lo spettacolo di Emma Dante Operetta burlesca, nonostante RomaEuropa, vista la malaparata, avesse comunicato che si sarebbe trasferita altrove. Restano in sospeso i 60 lavoratori del teatro, di cui 16 fissi, ormai senza più lavoro anche se Barbareschi ha promesso che esaminerà la posizione di ciascuno di loro, e soprattutto resta in sospeso il pubblico.

il Fatto 21.11.14
Roma Capitale?
All’Eliseo va in scena solo la chiusura
di Tommaso Rodano


Da Eduardo De Filippo a Luca Barbareschi. La triste fine del Teatro Eliseo si consuma tra milioni di debiti, querele e appuntamenti in tribunale. Alla fine la serranda è stata abbassata. Il palco romano che ha fatto la storia del teatro nazionale è chiuso da ieri mattina, dopo 114 anni di spettacoli. L'ufficiale giudiziario aveva rimandato lo sfratto, minacciato da quest’estate, già quattro o cinque volte. Il tempo in più non è bastato. Il fallimento dell'Eliseo è una questione di famiglia. Il responsabile della gestione economica e artistica – fino a ieri – era Massimo Monaci. La società proprietaria dell’immobile, invece, ha tre quote, una delle quali appartiene al padre di Massimo, Vincenzo Monaci. Due dei tre soci hanno accettato l’offerta di Luca Barbareschi, attore ed ex deputato finiano, poi rinnegato. Ma non basta: per statuto serve una maggioranza di quattro quinti. In pratica, l’unanimità. Il terzo socio, Vincenzo Monaci, non vuole darla vinta a Barbareschi: il teatro rimane chiuso a tempo indeterminato; 17 lavoratori assunti e altri 63 scritturati restano a casa.
L’AFFARE di famiglia va in scena qualche ora dopo l’apposizione dei sigilli. Massimo Monaci convoca una conferenza stampa. Quando conclude la sua memoria difensiva, entra in sala il padre Vincenzo. Il figlio prova a dissuaderlo (“Papà ti prego, non devi farlo”), ma l’altro si prende le telecamere: “Abbiamo subito una violenza micidiale. I fascisti purtroppo esisto ancora. E nel breve periodo vincono”. Il fascista in questione sarebbe Barbareschi. Nel braccio di ferro con la famiglia Monaci, l’attore è andato giù pesante: “L’attuale gestione – ha scritto su Facebook – ha creato voragini finanziarie stornando risorse pubbliche a beneficio di attività diverse (come una cantina di vini in Toscana). Ha devastato il teatro italiano”. I Monaci hanno risposto querelando. Ieri Massimo se l’è sono presa un po’ con tutta la politica del Lazio, dall'assessore comunale Marinelli fino a Nicola Zingaretti. Eppure l’Eliseo è un teatro privato, che ha goduto per anni di cospicui finanziamenti pubblici. “Avrò pure sbagliato qualcosa, magari due o tre spettacoli – replica l’ex direttore – ma qui la crisi è strutturale. Il pubblico non c’è più: dal 2011 in poi il botteghino è calato di circa il 20, 25 per cento. Gli sponsor privati idem. Lo Stato ha diminuito i fondi da 1.700.000 euro a 1.350.000. Abbiamo provato a governare in perdita, ma non siamo né Berlusconi, né Della Valle. Ora basta”. Tocca a Luca Barbareschi, sempre che i Monaci si facciano da parte. Il teatro che ha ascoltato le parole di Enrico Berlinguer in mano a un ex deputato post-fascista. “Mi spiace sia andata così – sussurra Monaci – ma non possiamo farci niente. Il modo in cui siamo stati estromessi, quello sì, è stato violento e fascista”. Le serrande sono chiuse. Emma Dante, che si stava esibendo all’Eliseo in questi giorni, ha cancellato il suo spettacolo: “È allucinante – ha detto la regista –, chiudono in corsa Roma Europa Fest, una manifestazione di fama internazionale. L’ennesima pessima figura davanti al mondo”.

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Repubblica Roma 21.11.14
“Il cinema America lo compriamo noi” Registi e produttori a caccia di fondi
Da Verdone a Virzì e Salvatores sono già pronti in cinquanta Obiettivo: 2 milioni per rilevarlo
di Corrado Zunino


ATTORNO al cinema abbandonato per tredici anni, occupato, quindi sgombrato, sta nascendo un grande progetto per Roma. È ancora l’America di via Natale del Grande, cuore di Trastevere, al centro dell’attenzione della città. Dopo essere stati allontanati dalla polizia, i cinquanta ragazzi che con l’occupazione restituirono ossigeno alla sala — universitari, alcuni liceali, alcuni residenti nei palazzi attorno al quadrante di Cosimato — hanno iniziato a imbastire la più anomala cordata di imprenditori che si potesse immaginare nel tentativo di trasformare un cinema glorioso e malconcio in un punto di riferimento per tutta la cinematografia italiana.
Si stanno unendo, e presto si consorzieranno, i più importanti produttori, registi, sceneggiatori, attori del paese e insieme — sotto la regia dei ragazzi ex occupanti — sono pronti a fare un’offerta economica per rilevare il Cinema America. A ieri gli aderenti al progetto erano cinquanta, e cioè, in ordine sparso: i produttori Degli Esposti (Palomar) e Tozzi (Cattleya, quindi presidente dell’Anica), i registi Sorrentino, Salvatores, Virzì, Comencini, Scola, lo stesso Carlo Verdone. E Toni Servillo, che da quasi tre anni possiede un appartamento in zona. Cinquanta firme del cinema, e l’elenco non è ancora chiuso. Il progetto è concreto, ambizioso. Prevede, grazie a un fundraising attivato tra i singoli soggetti del cinema italiano, i firmatari dell’accordo appunto, la preparazione di un’offerta d’acquisto da portare al Comune di Roma affinché decida come intervenire su un “bene privato” che ha come destinazione urbanistica possibile quella di “residenziale” (appartamenti). Il gruppo cineasti-ex occupanti ha valutato il valore della struttura in 2,1 milioni di euro: significherebbe un assegno di 40 mila euro staccato da ciascuno dei singoli interessati. L’attuale proprietario, Massimo Paganini, considerate le potenzialità immobiliari (cinque piani, poi ridotti a tre, di mini-appartamenti nel centro di Roma), in un primo momento aveva fissato il valore dell’immobile in 8 milioni di euro. Tuttavia, sono annunciati in arrivo due vincoli della soprintendenza statale: il cinema potrebbe diventare “bene storico” (non architettonico) e potrebbe esserne vietato il cambio di destinazione d’uso.
«Questa sfida non sarà solo simbolica», dice Riccardo Tozzi, fondatore e Ceo di Cattleya, «il progetto dovrà essere economicamente sostenibile e il Cinema America dovrà irradiare cultura cinematografica nel paese». Carlo Degli Esposti (Palomar) aggiunge: «Noi sosteniamo i ragazzi di Trastevere. Sono intelligenti, capiscono il pubblico come pochi, hanno idee e capacità di farle circolare. Pochi giorni fa hanno fermato l’ultima speculazione sul Metropolitan di via del Corso, che il Comune vuole trasformare in centro commerciale senza una ragione economica né urbanistica. A Roma sono state chiuse quarantadue sale e il Cinema America, oggi, ha tutte le potenzialità per diventare un centro di anteprime nazionali».

Corriere Roma 21.11.14
Casa del Jazz, ultima chiamata per il rilancio
di Raffaele Roselli


Impegno di Comune, Mibact, «Libera» e musicisti. Primo concerto il 6 dicembre Casa del Jazz, ultima chiamata. Dopo mesi di sostanziale inattività, mancanza di risorse e di progetto, voci di chiusura, si tenterà il rilancio di villa Osio, splendida struttura, in viale di Porta Ardeatina, confiscata alla mafia, che l’allora sindaco Veltroni volle destinare alla musica di matrice afroamericana. Una scommessa che non poteva fallire così. Di necessità, virtù: per navigare in acque di crisi, l’idea è quella di mettere, tutti insieme, istituzioni, artisti, addetti ai lavori, mani ai remi, sulla stessa rotta. Nasce un nuovo comitato direttivo, coordinato da Luciano Linzi, che è stato il primo direttore della Casa e da Filippo Bianchi (Associazione Europe Jazz Network). Coinvolti Palaexpo, l’associazione Libera, Paolo Damiani (Santa Cecilia), Danilo Rea (in veste di rappresentante della Siae), Giampiero Rubei (altro ex direttore della Casa) e musicisti come Ada Montellanico e Francesco Ponticelli, con il sostegno di Comune e Mibact e una presidenza onoraria affidata a Renzo Arbore.
Di una fase di «start up positiva» parla l’assessore alla Cultura Giovanna Marinelli, sottolineando il ruolo plurale che dovrà svolgere la Casa, come punto di incontro, scambio, formazione. Pure, in sede di presentazione dell’iniziativa, non sono mancati momenti polemici, con esponenti del collettivo R-Esistenza Jazz, in questi mesi attivi per rilanciare la musica improvvisata in città, critici sul progetto. Di ultima chiamata parla esplicitamente Luciano Linzi, consapevole di avere poco tempo per restituire ruolo e identità alla struttura. Obiettivo più ambizioso: costruire nuovo pubblico coinvolgendo in particolare le giovani generazioni. Didattica e divulgazione tra i primi impegni. Riparte anche la programmazione live. In arrivo il trio del trombettista Avishai Cohen «Triveni» (6 dicembre), «Il grande Abarasse», in nove sul palco con il cofondatore dei Quintorigo John De Leo (11 e 12 dicembre), il duo di marca Ecm formato da Jean-Louis Matinier e Marco Ambrosini e ancora due serate (20 e 21 dicembre) con artisti selezionati e presentati dall’Associazione musicisti italiani di jazz.

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Corriere 21.11.14
Il gran pasticcio del metrò più caro e lento del mondo
Il rapporto di Raffaele Cantone sui lavori della linea C sotterranea di Roma
Ritardi e costi lievitati di 700 milioni
di Sergio Rizzo


Non si salva nessuno. Non si salva il Comune di Roma. Né la sua società, Roma Metropolitane, alla quale era stato affidato il compito di gestire quello che poi si è rivelato l’enorme pasticcio della nuova linea C della metropolitana. Ma non si salva neppure il consorzio di costruttori che sta materialmente lavorando all’opera ormai da 7 anni fra un delirio di 45 varianti e di carte bollate. Il rapporto dell’Autorità anticorruzione presieduta dal magistrato Raffaele Cantone è un florilegio di inefficienze, errori e negligenze: nella migliore delle ipotesi.
Trentotto pagine ustionanti, per spiegare come sia stato possibile per la Capitale, per giunta in un Paese nel quale non ci sono mai i soldi per le infrastrutture, conquistare il record del metrò più caro (e forse più lento) del mondo. I soldi, appunto. La metro C doveva costare 3 miliardi 47 milioni? Siamo arrivati già a 3 miliardi 739 milioni. Ovvero, 692 milioni in più del prezzo di aggiudicazione dell’appalto. E senza che sia stata ancora messa mano al tratto che attraversa il cuore antico di Roma.
Veniamo poi ai tempi. L’intera linea sarebbe dovuta entrare in esercizio a metà del 2015. Campa cavallo... Ancora non siamo in grado di dire quando verrà costruito il pezzo più delicato, quello che dal Colosseo dovrebbe portare gli ipotetici passeggeri a piazza Venezia e poi via, sotto Corso Vittorio Emanuele, verso San Pietro. E nessuno sa non soltanto «quando», ma nemmeno «se» verrà mai realizzato. Senza quel tratto, oppure con quel tratto ma senza le fermate previste, la metro C non servirà a nulla.
Da qui bisogna partire. L’Autorità anticorruzione rimprovera innanzitutto al Comune «la carenza di adeguate indagini per assicurare la fattibilità dell’intervento nel rispetto dei tempi e dei costi preventivati». Senza risparmiare all’amministrazione comunale, che per seguire l’operazione si avvale di una società con 189 dipendenti, giudizi al vetriolo. Come quando sostiene che non si sarebbe tenuto conto di certo pareri della Soprintendenza già sulle tratte più periferiche: «La stazione appaltante si è avventurata nell’appalto dell’opera rinviando, è da ritenersi in modo consapevole, la risoluzione della questione archeologica a una fase successiva». E pur ricordando che la Soprintendenza aveva avvertito che non si sarebbe dovuto tener conto dei tempi e dei costi (!), la circostanza sarebbe comunque assai singolare.
Ma anche il consorzio di imprese, composto da Astaldi, dalla Vianini del gruppo di Francesco Gaetano Caltagirone, dalla Ccc della Lega coop e dall’Ansaldo della holding pubblica Finmeccanica, ha secondo Cantone pesanti responsabilità. Il rapporto, innescato dalle denunce e dagli esposti presentati dall’ingegnere Antonio Tamburrino e dal consigliere comunale radicale Riccardo Magi, sottolinea che il General contractor aveva per accordi contrattuali il compito della progettazione, della direzione dei lavori nonché dell’esecuzione degli scavi e delle indagini archeologiche.
E le cose non sono andate affatto per il verso giusto, come testimoniano le 45 (quarantacinque) varianti: 33 delle quali, ha accertato l’authority, hanno dato un contributo alla lievitazione dei costi pari a quasi 316 milioni di euro. Per non parlare del contenzioso, letteralmente spaventoso, che ha avuto un culmine surreale nel confronto a colpi di decreti ingiuntivi fra l’amministrazione comunale e Roma metropolitane, società controllata al 100 per cento dal Comune.
Il rapporto di Cantone spiega come le richieste di risarcimento più consistenti presentate dal consorzio Metro C si riferiscono «allo slittamento delle tempistiche contrattuali di esecuzione delle prestazioni dovuto a eventi non imputabili al General contractor». Intoppi di che genere? Ritardi nell’approvazione dei progetti, problemi di natura archeologica e nella disponibilità delle aree, mancata concessione di deroghe: prevalentemente ordinaria burocrazia, insomma. Eppure, afferma il rapporto, proprio il meccanismo del General contractor previsto dalla legge obiettivo del 2001, in base alla quale è stata messa in cantiere anche quest’opera, dovrebbe garantire «minori criticità sotto tale aspetto, stante la più ampia libertà e responsabilità organizzativa posta in capo al soggetto affidatario».
Pensata nel 1990, ripensata dieci anni dopo, la metro C è partita quando sindaco di Roma era Walter Veltroni, è poi proseguita con Gianni Alemanno, e la rogna è adesso di Ignazio Marino. Una rogna tale che il rapporto non risparmia neppure la sua amministrazione. Nel mirino di Cantone è finito un accordo stipulato il 9 settembre del 2013 con il quale è stata riconosciuta al consorzio una somma aggiuntiva di 90 milioni per le «funzioni di contraente generale». Riconoscimento, afferma la relazione, che «suscita qualche perplessità». Perplessità che erano state sollevate anche dall’ex assessore comunale al bilancio Daniela Morgante, che poi ha lasciato l’incarico. La ragione? Semplice, afferma l’authority: le funzioni di contraente generale erano già previste negli atti di gara.
Queste trentotto pagine, possiamo scommetterci, finiranno sul tavolo della Procura.

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il Fatto 21.11.14
Scappare dal processo. Specialità tutta italiana
Solo da noi le leggi consentono di allungare i tempi per farla franca
di Piercamillo Davigo


Il sistema vigente in Italia di prescrizione del reato è a dir poco singolare e la sua scarsa ragionevolezza è stata accentuata dalla riforma di cui alla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (cosiddetta ex Cirielli), sicché anziché contribuire alla ragionevole durata del procedimento ne determina l’allungamento. La legge fissa un termine, superato il quale il reato si prescrive. Tale termine è di 6 anni dalla data del commesso reato per i delitti puniti con pena fino a 6 anni (minore per le contravvenzioni) e pari alla pena massima prevista per il delitto per le pene superiori (i delitti puniti con la pena dell’ergastolo sono imprescrittibili).
Il compimento di determinati atti (ad esempio l’interrogatorio dell’indagato, le sentenze di condanna in primo o secondo grado) interrompe il decorso del termine di prescrizione, che ricomincia a decorrere dall’inizio. Però, tranne che per determinati reati o per i recidivi, “in nessun caso l’interruzione della prescrizione può comportare l’aumento di più di un quarto del tempo necessario a prescrivere” (in precedenza il tetto era della metà).
(...) Il pubblico ministero, allorché riceve notizia di un reato il cui termine di prescrizione è ad esempio di 6 anni, commesso 5 anni prima, dovrà procedere interrompendo il decorso della prescrizione, ma gli resteranno 2 anni e 6 mesi per procedere alle indagini preliminari, all’eventuale udienza preliminare e ai giudizi di primo grado, appello e Cassazione.
(...) Un simile sistema di prescrizione diviene infatti un potente incentivo per condotte dilatorie e per la presentazione di impugnazioni pretestuose da parte degli imputati o dei loro difensori, perché, se si riesce a far passare il tempo previsto dalla legge, si evita la condanna.
Una diversa normativa, basata sul principio che, una volta iniziato il procedimento (rinvio a giudizio, o se proprio si vuole, almeno dopo la condanna in primo grado) la prescrizione cessa di decorrere (come avviene nel procedimento civile), o che, quantomeno, preveda limiti più elevati conseguenti all’interruzione e alla sospensione, farebbe venir meno l’interesse dell’imputato a prolungare il procedimento e quindi, in definitiva, concorrerebbe a ridurre la durata dei processi. Tanto più che la prescrizione è ambita più dagli imputati colpevoli che da quelli innocenti.
ln altri paesi (ad esempio Usa a livello federale) la prescrizione (tranne che per i reali imprescrittibili) è di 5 anni, ma cessa di decorrere dopo la richiesta di rinvio a giudizio. È questa l’ovvia via maestra. Infine, pur essendo la prescrizione rinunciabile da parte dell’imputato, non vi sono apprezzabili conseguenze (neppure di biasimo morale) per chi, ricoprendo cariche elettive, se ne avvalga in spregio all’articolo 54 della Costituzione, che impone ai cittadini che ricoprono cariche pubbliche il dovere di adempierle “con disciplina e onore”. Vi è disciplina e onore nel ricercare la prescrizione e nell’avvalersene?
La cosa che più sorprende è che la prescrizione continua a decorrere anche quando l’impugnazione sia proposta dal solo imputato condannato (che spera che prima della nuova sentenza scadano i termini, con relativo proscioglimento). Non è facile spiegare agli stranieri perché, se è l’imputato a dolersi della decisione, può godere anche del vantaggio del decorrere della prescrizione, con cui sperare di farla franca prima della nuova sentenza.
Le possibilità dilatorie (Come scappare)
Il vigente codice di procedura penale si fonda sul principio (successivamente inserito nell’art. 111 della Costituzione) della formazione della prova innanzi al giudice nel contraddittorio delle parti, salvo che per gli atti irripetibili e per quelli di cui le parti consentano l’acquisizione al fascicolo del dibattimento. Stante la disciplina della prescrizione, è raro che la difesa consenta l’acquisizione di atti, anche quando non vi è alcuna concreta esigenza di ripetere l’assunzione della prova. Ad esempio, in un processo per ricettazione di assegni, di solito non potrà essere acquisita la denunzia di furto o di smarrimento del libretto degli assegni, ma il denunciante dovrà essere citato come testimone, per dichiarare che ha presentato tale denunzia.
Un altro esempio è l’esame testimoniale degli appartenenti alle forze di polizia, i quali sono di solito i testi d’accusa. La loro attività ordinaria (quella dei processi comuni) è ripetitiva e raramente costoro, a distanza di mesi o di anni, sono in grado di ricordare i particolari relativi a uno scippo o a un borseggio. Peraltro essi documentano il loro operato in annotazioni di servizio, delle quali non è consentita l’acquisizione al fascicolo del dibattimento se non con il consenso delle parti.
Pertanto è necessario citarli (mancando normalmente il consenso della difesa all’acquisizione delle annotazioni di servizio) per poi vederli consultare gli atti da loro redatti in aiuto alla memoria (...).
Le impugnazioni non pagano dazio
In Italia nel processo penale impugnare conviene perché non si corrono rischi, in quanto vi è il divieto di peggiorare laposizione dell’imputato se è solo lui appellante, e non anche il pubblico ministero. La Corte d’appello non può aumentare la pena inflitta in precedenza, pertanto non vi sono rischi a proporre appelli infondati e dilatori. Attualmente perché in Italia l’imputato condannato a una pena da eseguire non dovrebbe appellare? Se è detenuto, può uscire per decorrenza termini; se è invece libero, non andrà in carcere fino a sentenza definitiva. Dopo l’appello, ci si può
rivolgere alla Corte di Cassazione. Alla fine di questa lunga corsa a tappe, dopo aver scalato tutti i gradi, si può sempre sperare nella prescrizione (...). La soluzione va trovata nell’autoregolamentazione, introducendo dei rischi a carico di ch i propone impugnazioni infondate e meramente dilatorie. In pratica, si deve consentire la reformatio in peius in appello, in modo da introdurre una qualche deterrenza e ricondurre il numero di impugnazioni a livello di quello di altri paesi .
Come funziona nel resto del mondo
Il confronto con altri Stati è infatti impietoso per l’Italia. Sono poco più di 37 mila gli appelli pendenti in Francia (dove non vi è il divieto di reformatio in peius) a fine 2009, contro i “nostri” 169 mila. La Corte di Cassazione francese è investita di circa 8 mila ricorsi all’anno, con un centinaio di avvocati abilitati alle giurisdizioni superiori (meno che nella sola città di Rieti). In Italia i ricorsi in Cassazione penali sono circa 50 mila l’anno, quasi altrettanti nel civile e gli avvocati iscritti all’albo delle giurisdizioni superiori sono circa 50 mila (...).
Negli Usa vi sono gli ordinamenti di 50 Stati, quello federale ordinario e quello federale militare (...) Nel 2010, sono stati appena 12.797 gli appelli che, provenienti dalle Us District Courts, sono stati giudicati dalle US Courts of Appeals, con una riduzione del 7 % rispetto al 2009. Per quel che riguarda la Corte suprema degli Stati Uniti, nel 2009 solo 8.159 casi (civili e penali) sono approdati all’esame della più alta istanza giudiziaria americana con un aumento del 5,4 % rispetto all’anno precedente. Di questi, peraltro, solo una piccolissima parte vieneesaminata, essendonecessarioche almeno 4 dei 9 giudici chiedano di esaminare il ricorso.
In Italia il ricorso è sempre possibile
(In Italia) il ricorso per Cassazione, secondo l’articolo 111 della Costituzione, è sempre ammesso contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale. Ne l 2013, a fronte di quasi 53 mila ricorsi in materia penale, il 15,9 % dei procedimenti è stato definito con decisione di rigetto e il 17,7 % con annullamento (con rinvio nel 9,9 % dei casi, senza rinvio nel 7,8 %). Il 64,3 % dei definiti è stato dichiarato inammissibile .
In caso di inammissibilità viene di solito inflitta una sanzione pecuniaria (normalmente mille euro a favore della Cassadelle ammende), ma una percentuale ridicolmente bassa delle relative somme viene effettivamente riscossa, posto che la maggior parte degli imputati non risulta intestataria di beni su cui eseguire coattivamente la sanzione (...). Una peculiarità italiana è l’elevato numero di ricorsi per Cassazione proposti contro le sentenze di applicazione pena (patteggiamento). Infatti il 14,9 % dei ricorsi riguarda sentenze di patteggiamento, rispetto alle quali la funzione quasi esclusivamente dilatoria del ricorso è evidente.
Amnistie e indulti ad alta frequenza
In Italia fra il 1942 e il 1986 vi erano stati circa 35 provvedimenti di amnistia (che estingue il reato) e indulto (che estingue la pena). (...) Nel 1990, dopo l’entrata in vigore del codice di procedura penale vi fu un’amnistia. Successivamente vi è stato un indulto nel 2006 e recentemente si è tornati a proporre un provvedimento di indulto a fronte del problema del sovraffollamento delle carceri. In altri paesi l’amnistia è un provvedimento di carattere eccezionale e piuttosto raro.
Qualche tempo dopo l’entrata in vigore del codice accusatorio, alcuni giudici della California vennero in Italia e parteciparono a un incontro organizzato dall’Associazione nazionale magistrati a Milano. Erano interessati a comprendere perché in Italia fosse così ridotta la percentuale di patteggiamenti e furono loro indicate le varie cause. Costoro, che avevano compreso benissimo anche questioni complesse, quando si indicò il frequente ricorso all’amnistia, chiesero più volte all’interprete di ritradurre. Dopo una consultazione fra loro chiesero se fosse qualcosa di analogo al perdono presidenziale, ma fu risposto che quello corrisponde in Italia alla grazia, mentre l’amnistia è una legge che perdona tutti. Vi fu una nuova consultazione fra loro seguita da ampi sorrisi e dissero che avevano capito: stavamo facendo loro uno scherzo.
Il solo parlare di amnistia o indulto, come avvenuto ancora di recente, riduce le richieste di riti alternativi e incentiva ulteriormente i comportamenti dilatori e le impugnazioni. Infatti se la sentenza diviene definitiva il condannato deve scontare la pena, ma se riesce a differire il passaggio in giudicato della sentenza potrebbe arrivare un provvedimento di clemenza (...). Sotto questo profilo la modifica del sistema di prescrizione e l’introduzione di adeguati rischi alla proposizione di impugnazioni dilatorie è indispensabile per cercare di dare efficienza e dignità al processo penale.
(da Micromega n. 7/2014)

Repubblica 21.11.14
Non si può morire d’ingiustizia
In questi anni sulle prescrizioni si è data tutta la colpa alle Procure
Ma sarebbe troppo facile. Il problema invece è un intero sistema al collasso
Ora il governo annuncia riforme Ma quanti giorni passeranno prima che arrivi un altro dramma e con esso nuove promesse?
di Roberto Saviano


IN ITALIA non esiste la normalità perché tutto è emergenza, e non esiste l’ordinaria gestione politica delle cose perché si è sempre in campagna elettorale. Cosa comporta questo? Da un lato che si affrontano dibattiti importanti solo sull’onda dell’indignazione, e dall’altro che la politica, sull’onda di quella stessa indignazione, è portata a intervenire, a fare dichiarazioni e, nella peggiore delle ipotesi, a mettere mano al complesso delle nostre leggi per modificarle sull’onda di necessità.
NECESSITÀ che certo esistono, ma che andrebbero affrontate con serietà, competenza e non per racimolare consenso.
Dopo aver saputo che il processo all’Eternit si è concluso sostanzialmente con un nulla di fatto, nonostante le due condanne per disastro ambientale a 16 e 18 anni in primo e secondo grado per il magnate svizzero Stephan Schmidheiny (colpevole di sapere dei danni dell’amianto e di tacere), ho pensato che l’Italia è una Repubblica fondata sull’istituto della prescrizione. Eppure, se si vuole parlare di prescrizione, bisogna farlo nel tentativo costruttivo di individuare una soluzione accettabile, che concili diritto ed esigenza di giustizia.
Non possiamo parlare di prescrizione, dei danni che produce e di quanto sia iniqua, se non teniamo conto che la maggior parte delle prescrizioni arriva già durante le indagini. Solo una percentuale minore avviene durante la celebrazione del processo. Ciò significa che la prescrizione che ha riguardato il caso Eternit è parte di quella percentuale minore. Questa premessa è utile perché se vogliamo avviare un dibattito serio sulla prescrizione dobbiamo comprendere come sia possibile che da istituto di garanzia per l’imputato si sia trasformata in un modo per bloccare i processi, per rendere inoffensiva la giustizia. Scopriremmo che la prescrizione non è una causa, ma un sintomo. Scopriremmo che le cause dobbiamo cercarle altrove.
Noi immaginiamo o ci troviamo a valutare sempre e soltanto casi in cui la prescrizione giunge sostanzialmente a bloccare il giudizio nei riguardi di soggetti che riteniamo colpevoli: è inevitabile che in alcuni casi di maggiore rilievo l’opinione pubblica si schieri, poiché anche questa è una manifestazione del controllo sociale. Ma la prescrizione tutela il presunto innocente da una durata infinita del processo e quindi dalla possibilità di poter rimanere per un lasso di tempo insostenibile, ostaggio, preda o vittima di un sistema che ha il dovere di dire in tempi brevi se un reato lo hai commesso oppure no. Di valutare la tua condotta, assolverti o condannarti. La prescrizione tutela inoltre un altro principio fondamentale, il principio di economia processuale: un accertamento non può durare in eterno perché i costi per la società sarebbero insostenibili. Contrariamente a quanto si è portati a credere, il processo penale assolve una funzione di garanzia per l’imputato. Le indagini hanno una funzione di tutela della collettività, ma quando le indagini finiscono e viene formalizzata l’accusa, inizia una fase nuova, che è posta a garanzia dell’imputato.
Quindi un discorso sulla prescrizione che abbia senso non può concentrarsi solo sul giudizio ma deve tenere presente anche la durata delle indagini. In questi anni sulle prescrizioni si è data tutta la responsabilità agli Uffici di Procura, ma sarebbe troppo facile e assolutorio per i responsabili del disastro. Responsabile è un sistema, e mi riferisco al sistema giudiziario, che non funziona, ma non da oggi, non funziona da anni. Un sistema che è al collasso ma al quale nessuno ha mai messo mano in maniera coerente. Inutile elencare tutte le leggi idiote, assurde, inique, che nel corso degli anni hanno ingolfato gli ingranaggi (due esempi su tutti: la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi), leggi che rispondevano solo a esigenze elettorali e non certo a rendere più efficiente e giusta la macchina giudiziaria. Leggi che dimostrano come in Italia esista un eccesso di pervasività del diritto penale nella realtà. Come se tutto davvero si potesse risolvere attraverso i processi.
Voglio fare un esempio per spiegare che cosa intendo. Se uno facesse una statistica di tutti i processi per corruzione celebrati e in corso in Italia, del loro clamore mediatico e poi valutasse quanta parte del profitto di quei reati venga realmente recuperata, si renderebbe conto del fatto che alla fine questi processi costituiscono solo un costo insostenibile per la collettività: quanti patteggiamenti vengono sentenziati senza nessuna restituzione di denaro? L’evasore, il corruttore, il corrotto mettono in conto come rischio d’impresa il carcere, soprattutto se riescono a mettere in salvo il maltolto o parte di esso. Ma quanto sono costate le indagini? E in caso di condanna, chi ha sottratto milioni di euro, chi viene indagato, processato e condannato, se non restituisce nulla, cos’è se non unicamente un costo per lo Stato? Si potrebbe obiettare: ma allora dobbiamo accettare l’impunità? No, semplicemente bisogna fare in modo che una condanna abbia una reale efficacia deterrente, perché altrimenti potremo avere cicliche Tangentopoli senza che il livello di corruzione torni in un ambito fisiologico.
È evidente che in Italia la logica è quella di risolvere tutto con il diritto penale, ma non è pensabile che un pubblico ministero abbia sulla sua scrivania fascicoli relativi a gravi delitti e poi altre centinaia relativi al reato di guida senza patente. Questo è lo scotto che paga la giustizia di un Paese che vive in eterna emergenza e in eterna campagna elettorale.
Il premier Matteo Renzi, parlando del processo Eternit, critica l’istituto della prescrizione ma afferma: «Non entro nel merito della sentenza», perché, dice, le sentenze non si criticano, terrorizzato di somigliare troppo al polo berlusconiano. La sua prudenza è fuori luogo perché in questo caso non c’è nessuna sentenza da criticare: la Cassazione non ha assolto, ha solo applicato la legge. Ciò detto, non sono d’accordo con Renzi e non sono d’accordo con chiunque dica che le sentenze vadano accettate e non criticate. Non si deve morire di giustizia o di ingiustizia, come è successo a Enzo Tortora, per poter dire «d’accordo, le sentenze si possono commentare e anche nel caso criticare». Perché non criticare una sentenza vuol dire non individuare mai le responsabilità, abdicare al ruolo stesso di controllo che ogni cittadino deve esercitare sull’amministrazione della giustizia, dato che le sentenze sono emesse in nome del popolo italiano, quindi anche nel mio nome e nel vostro.
Perché non criticare la sentenza Cucchi? Capisco le questioni di diritto, ma parlarne potrebbe — e dovrebbe — aprire un fronte importante, quello della necessità dell’introduzione del reato di tortura. Ma finora quanti hanno sollevato la questione? Il dibattito sterile sulla opportunità di criticare o meno le sentenze è il lascito peggiore di Berlusconi, di colui che per venti anni ha minacciato la magistratura e la sua indipendenza. Ma quando il dibattito, in assenza di emergenze, sia chiaro, ci concentra sulle ferie dei magistrati, su chi vuole toccarle e chi non vuole che si tocchino, è evidente che ci si azzufferà per un po’, per poi non risolvere nulla: la solita “ammuina”. Intanto sfido chiunque ad ascoltare la sigla di Portobello senza sentire un nodo alla gola. Senza provare vergogna per essere parte di uno Stato in cui di giustizia si muore. Allora basta con le logiche emergenziali, l’Italia ha bisogno di governanti seri, che facciano leggi giuste con i tempi necessari, che le facciano nell’interesse della collettività e non facciano dichiarazione in vista delle regionali in Emilia-Romagna o dichiarazioni di intenti per le elezioni politiche di quando sarà. E che soprattutto la smettano di avere una linea politica che sembra un’infinita sequela di lanci d’agenzia. Ora il governo promette una riforma della giustizia, ora che l’indignazione popolare è massima. Ma quanti giorni passeranno prima che arrivi la prossima emergenza e questa nuova promessa sia dimenticata per lasciare spazio a una nuova?

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Repubblica 21.11.14
L’Italia dei misteri
“Patti tra Servizi e mafia già negli anni Settanta”
Nelle carte top secret anche il nome di Mori
Da documenti sequestrati rivelazioni inedite. E i pm di Palermo volano in Sudafrica
Hanno sentito il generale Maletti, allora ai vertici del Sid
“Sapevo di ufficiali con simpatie per l’estrema destra”
di Daniele Mastrogiacomo


ROMA C’era un patto segreto, organico, diretto tra i Servizi segreti italiani degli Anni 70 e Cosa nostra. Due rapporti stesi da un collaboratore di quello che all’epoca si chiamava Sid confermano per la prima volta, sebbene in modo ufficioso, l’intreccio di interessi e di finalità tra un piccolo gruppo di alti ufficiali incaricati di tutelare la sicurezza dello Stato e le cosche che agivano a Palermo. I documenti sono spuntati fuori due giorni fa a Johannesburg dove tre pm della Procura del capoluogo siciliano si sono recati per interrogare l’ex generale Gianadelio Maletti, dal 1971 al 1979 capo del reparto D del Servizio, dedicato al controspionaggio.
Fuggito in Sudafrica nel 1980, l’alto dirigente dei nostri Servizi era stato condannato nel 1996 a 14 anni per aver sottratto un fascicolo riservato, intitolato Mi. Fo. Biali, e legato ad uno scandalo di contrabbando di petroli che coinvolgeva politici e vertici della Guardia di Finanza. Sebbene ancora oggi sia inseguito da un ordine di cattura spiccato dalla Procura di Roma nel marzo del 2013, e quindi latitante, Maletti ha accettato di rispondere alle domande dei magistrati. La rogatoria richiesta dal governo italiano si è svolta nella casa del generale: una modesta abitazione in un quartiere elegante della capitale commerciale del paese. Maletti, sebbene solo testimone, è stato assistito dal suo legale di fiducia Michele Gentiloni Silverj.
I pm Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia volevano capire se Maletti sapesse dell’esistenza di questo piccolo e segreto gruppo all’interno del Sid. L’interesse nasceva non tanto dai retroscena che hanno scandito la lunga serie di attentati e di stragi che insanguinarono l’Italia negli anni 70, compresi i tentativi di golpe (Rosa dei Venti, Borghese, Staybehind) quanto dal fatto che del gruppo faceva parte anche l’allora capitano Mario Mori, oggi imputato nel processo d’appello per la trattativa Stato-mafia durante la stagione stragista dei Corleonesi. Il vecchio capo del Sid, 92 anni ma una memoria ancora freschissima, ha ribadito di aver già spiegato in diverse occasioni ciò che sapeva di quei tentativi golpisti ma di non essere in grado di fornire altri dettagli. Il generale ha sempre sostenuto che dietro le bombe degli anni 70 c’era la regia della Cia e l’azione diretta di Ordine nuovo, «scelto dall’intelligence americana perché più affidabile sul piano militare e più motivato dal punto di vista politico». Una circostanza smentita dalla Cia. La sorpresa è giunta quando i tre pm gli hanno mostrato due rapporti confidenziali redatti dalla fonte Gian Sorrentino e spediti al Centro di coordinamento delle stazioni del Servizio. Facevano parte dei documenti sequestrati dal sostituto della Procura di Roma Domenico Sica al generale poco prima della sua fuga. Maletti è cascato dalle nuvole e ha sostenuto di non averli mai visti. Ha spiegato di aver sempre sospettato che all’interno del Reparto D da lui diretto ci fossero molti ufficiali con simpatie per l’estrema destra. Ma di non aver mai avuto prove certe dell’esistenza di un gruppo organico e attivo con forti legami con Cosa nostra. Secondo la fonte Sorrentino, del gruppo facevano parte il colonnello Federico Marzollo, capo raggruppamento dei Centri, il capitano Mario Mori, il colonnello Andrea Pace e tre civili: i fratelli Giorgio e Gianfranco Ghiron e l’avvocato Emilio Taddei. I sei, stando ai due rapporti, facevano del tutto per rallentare e spesso deviare le indagini che il Servizio avviava nei confronti della destra eversiva. Tramite i fratelli Ghiron, sosteneva la fonte, il gruppo era legato a Vito Ciancimino, all’epoca potente sindaco di Palermo poi condannato per mafia.
Maletti ha ricordato una serie di episodi nei quali aveva avuto la sensazione di essere ostacolato nelle indagini. È chiaro che il generale spera di vedere attenuate le sue responsabilità. Sull’allora capitano Mario Mori, oggi generale, Maletti ha ricordato di non essere stato lui a chiamarlo al Sid ma il suo collega Marzollo, capo centro di Roma. Il quale provvide poi ad attribuirgli anche una qualifica. Nel 1974 i sospetti di un forte legame tra Mori e la destra estrema, spinsero Maletti ad esonerarlo dal suo incarico e un anno a chiedere il suo allontanamento. «Le sue inclinazioni politiche erano chiare», ha spiegato il generale ai pm palermitani, «ma posso escludere che la mia richiesta sia stata legata al sospetto che Mori fosse legato alla mafia». Erano invece certi i legami tra il colonnello Umberto Bonaventura, allora capo del Centro Sid di Palermo. «Sapevamo che era affiliato, organico, punciuto come si dice», ha precisato Maletti.
Non è mai chiaro quanto il generale Gianadelio Maletti sappia. A 93 anni conserva ancora la sua aurea di 007. Dice e non dice. Nasconde e svela. Ma il nuovo tassello aggiunto al suo tumultuoso periodo svela per la prima volta quanto fossero inquinati i nostri Servizi segreti. Non solo per i contatti operativi con la destra bombarola ma per i legami diretti con le cosche, poi diventate stragiste e protagoniste di quella trattativa con lo Stato che si profila sempre più sullo sfondo.

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Repubblica 21.11.14
La gauche italienne
di Alessandra Longo

Ha un che di involontariamente carbonaro il dibattito di oggi a Parigi alla Fondazione Jean Jaurès. Fabrizio Barca, già ministro per la Coesione territoriale con Monti, attualmente dirigente generale al ministero dell’Economia e delle Finanze, discuterà con Nicola Fratoianni, coordinatore nazionale di Sel, de «La Gauche italienne face aux crises», la sinistra italiana di fronte alla crisi. Ci saranno anche Ludovica Ioppolo, sociologa, e Alessandro Gilioli dell’Espresso. In Italia l’incontro tra i due esponenti della sinistra sarebbe stato derubricato alla voce “gufi”. Invece a Parigi Sel, sponsor dell’iniziativa, collabora serenamente con il locale circolo del Pd. Fabrizio Barca è molto sotto traccia ma operativo. Va in giro per l’Italia con un gruppo di lavoro e un progetto: costruire una «forma moderna di partito». Non ha fretta. «Finiremo la nostra esplorazione a marzo», dice.

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il Fatto 21.11.14
Tra coloni e Intifada assedio generale a Gerusalemme
La città torna ai tempi delle guerre arabo-israeliane
Trincea e confine tra due popolazioni, e due religioni
di Cosimo Caridi


Gerusalemme. I palloni aerostatici sorvolano le colline dalla città santa. Sono gli occhi, molto più tecnologici di quanto si possa pensare, della polizia cittadina sui quartieri arabi. Dopo l'attentato di tre giorni fa alla sinagoga di Har Nof, le forze dell'ordine hanno alzato il livello di allerta e la pressione sulla popolazione araba. Strade chiuse, perquisizioni, demolizioni di case e arresti. Sono riapparsi, dopo anni, i posti di blocco all’ingresso delle periferie arabe della città. La tecnica è chiara: far soffocare i palestinesi, e la loro fragile economia, impedendone i movimenti. Questo non è che un assaggio di quel che Israele metterà in campo se continueranno gli attentati.
DAL SEQUESTRO, lo scorso 3 luglio, del 13enne Mohammed Abu Khdeir, trovato morto carbonizzato per opera di tre coloni ebrei, il livello dello scontro in città non ha fatto che alzarsi. Solo nelle ultime quattro settimane ci sono state 12 vittime a causa degli attacchi palestinesi. Gli attentatori hanno sempre lo stesso profilo: ventenni o poco più, nati e cresciuti nei sobborghi arabi e senza una forte affiliazione politica. Sono gli esclusi dal benessere cittadino.
“Questa è un’Intifada. L’Intifada di Gerusalemme”. Meir Margalit è uno dei politici cittadini più in vista della sinistra sionista. Nato in Argentina è passato attraverso la prima (a cavallo tra gli anni ’80 e ’90) e la seconda (dal 2000 al 2005) sollevazione popolare palestinese. “Siamo davanti al fallimento dell’unificazione di Gerusalemme. Questa è una ‘non-città’. Non c’è un denominatore comune della popolazione. Non solo tra israeliani e palestinesi, ma anche tra quella laici e religiosi”. Qui vivono oltre 800mila persone, 300mila sono palestinesi, di cui 20mila cristiani. “Il 38% dei gerosolimitani non sono ebrei – continua Margalit - ma a essi sono destinate solo l’11% delle risorse. È una discriminazione ed è sistematica. Il comune vuole che rimangano poveri e marginalizzati, quindi poco integrati e ancor meno istruiti. Le giuste condizioni per tenerli sotto controllo”.
Ogni anno decine di case, di palestinesi residenti a Gerusalemme, vengono distrutte dall’esercito e gli abitanti cacciati. In alcuni casi si tratta di azioni contro le famiglie di chi ha compiuto atti terroristici.
MENTRE GLI ARABI vengono mandati via arrivano i coloni israeliani. Sono oltre 200mila gli ebrei che vivono negli insediamenti a Gerusalemme est, in quella che, secondo la comunità internazionale, dovrebbe essere la capitale dello Stato palestinese. “Penso che sia mio diritto vivere ovunque a Gerusalemme e questo non ha alcun legame con gli attacchi jihadisti degli arabi contro noi ebrei” Yashai Fleisher, voce nota di una delle radio più seguite del paese ‘Voice of Israel’ vive sul Monte degli Ulivi, nella zona orientale di Gerusalemme. “Questi attentati hanno una matrice religiosa – continua Fleisher – fanno parte di un piano contro Israele. Sono rivolti contro di noi che viviamo a Gerusalemme perché siamo gli obbiettivi più facili a colpire”.

La Stampa 21.11.14
Rabbo, braccio destro di Abu Mazen: sì a un forum permanente
“L’Ue torni protagonista. Porti Israele e Palestina a una conferenza di pace”
“Agire subito, rischiamo la guerra religiosa invocata dall’Isis”
di Maurizio Molinari


«Serve un’iniziativa di pace dell’Ue per rimettere in moto il negoziato e impedirci di scivolare in una guerra religiosa nelle braccia di Isis». Yasser Abed Rabbo, stretto consigliere di Abu Mazen, manda questo messaggio «all’Italia presidente di turno Ue e a Federica Mogherini, ministro degli Esteri Ue». Rabbo parla nel suo ufficio, nei pressi della Muqata, nelle vesti di segretario generale del comitato esecutivo dell’Olp: la stessa carica che ricopriva Abu Mazen quando sostituì Yasser Arafat.
Perché guardate all’Europa?
«I Paesi europei stanno riconoscendo la Palestina con i Parlamenti, sono contro gli insediamenti, sanzionano alcuni prodotti delle colonie israeliane e vogliono i due Stati. L’Europa può tornare protagonista politica, come lo fu negli Anni 70 quando iniziò il dialogo con noi prima degli Usa. E ora, con il passo indietro compiuto da Kerry, c’è lo spazio affinché l’Ue prenda l’iniziativa per arrivare alla soluzione del conflitto».
A che tipo di iniziativa pensa?
«Serve qualcosa di più di un incontro di poche ore o giorni. Serve una conferenza di pace, in un luogo specifico e in seduta permanente. Convocata dall’Ue, nel quadro del Quartetto, mettendo assieme le parti e i Paesi arabi dell’iniziativa di pace della Lega Araba come sauditi ed Emirati. Per avere un quadro regionale, andando incontro a Israele. E poi Usa, Russia, Cina. Anche singoli europei in quanto tali. In una cornice pratica, non cerimoniosa. Credetemi, non c’è tempo da perdere».
A cosa fa riferimento?
«Al fatto che questa regione è in ebollizione. Rischiamo di scivolare nella guerra di religione desiderata dai fanatici di Isis. È un pericolo reale perché le violazioni israeliane dello status quo della Spianata delle Moschee di Gerusalemme e il prolungamento dell’occupazione hanno trasformato Al Asqa nella miccia di una sollevazione che monta. Conosco i palestinesi perché mi batto per loro da quando ero 18enne. So capire quando cova qualcosa e vi dico che il nostro governo fa fatica a tenere la situazione sotto controllo nei territori. Ci accusano di cooperare con l’occupante. Potremmo non farcela a evitare il peggio».
Come giudica le violenze a Gerusalemme, dal rapimento dei 3 ragazzi ebrei all’uccisione del giovane palestinese di Shuafat, all’attentato alla sinagoga di Har Nof. È una terza Intifada?
«Non credo alle espressioni del passato per descrivere il presente. Ma c’è una violenza che cresce, di matrice religiosa, e può incendiare tutto. Ogni volta che si pensava che il peggio non potesse avvenire, si è verificato. Chi avrebbe mai immaginato che un gruppo come Isis potesse controllare ampi territori in Siria o Iraq, con aree perfino in Libia e Sinai? Il pericolo è qui».
Dove dovrebbe portare la conferenza di pace che auspica?
«A un accordo in gran parte già scritto con due Stati divisi dai confini del 1967, senza gli insediamenti, intese sulla sicurezza e la composizione del contenzioso sui rifugiati del 1948».
Se vi fosse la conferenza di pace, che sorte avrebbe l’iniziativa palestinese all’Onu per il riconoscimento della sovranità?
«L’iniziativa all’Onu è stata intrapresa perché tutte le altre strade si sono chiuse. Se ve ne fossero di nuove, la situazione muterebbe. Ciò che conta è riuscire a spingere Israele ad accettare davvero i due Stati perché, da Oslo in poi, non hanno fatto altro che creare sul terreno fatti che li allontanano».
Come immagina il futuro di Gerusalemme in caso di pace?
«Potrà essere una città aperta, senza barriere, con libertà di accesso ai luoghi santi ma dovrà essere chiaro dov’è il confine».
Perché il governo palestinese non riesce ancora ad assumere il controllo di Gaza. Quale sono gli ostacoli con Hamas?
«Il problema è che non c’è un governo di unità nazionale Fatah-Hamas, ma un governo tecnico. Hamas ha gioco facile: da un lato lo sostiene, ma dall’altro lo ostacola. Serve un maggiore coinvolgimento di Hamas, un esecutivo con suoi ministri, così la cooperazione sarebbe reale, consentendo la ricostruzione».
Come impedire nuovi conflitti fra Hamas e Israele?
«Siglando una tregua di 10-15 anni a nome del governo Fatah-Hamas».
Lei si batte per i due Stati ma negli opposti campi c’è chi parla di uno Stato binazionale. È una prospettiva possibile?
«Per fare un matrimonio bisogna essere in due. Prima la Palestina deve diventare uno Stato, poi potrà unirsi con Israele in una federazione o confederazione sul modello dell’Ue che potrebbe includere anche altri Stati arabi, come la Giordania o, perché no?, anche la Siria del prossimo futuro».

Corriere 21.11.14
La storia di Arafat e di un’occasione perduta
risponde Sergio Romano


Sono passati 10 anni dalla scomparsa di Yasser Arafat, personaggio senz’altro intrigante, ma moderato e carismatico. Con Mr. Palestina vivente sarebbe migliorato il clima politico nella sua terra in questi anni? Nell’anno 2000 vi fu una trattativa, con mediazione americana, tra il ministro israeliano Barak e Arafat avente lo scopo di creare uno Stato palestinese in Cisgiordania e Striscia di Gaza. Questa lodevole iniziativa naufragò quando sembrava quasi conclusa. Quale fu l’intoppo?
Umberto Gaburro

Caro Gaburro,
Arafat non fu più «intrigante» di altri leader medio-orientali nel corso degli ultimi decenni e fu «moderato» soltanto in alcune circostanze. Ma fu certamente «carismatico». In una raccolta di interviste recentemente apparsa nelle edizioni di Jaca Book ( L’Altalena ), Antonio Ferrari, che ebbe molte occasioni d’incontrarlo, descrive un personaggio camaleontico, ora euforico e convinto di avere il successo a portata di mano, ora deluso e frustrato, ma sempre pronto a tornare in campo con la vecchia energia. A Camp David, durante il vertice ricordato nella sua lettera, Arafat, tuttavia, fu soprattutto sospettoso e reticente.
L’occasione sembrava politicamente perfetta. Il presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, era alla fine del secondo mandato e voleva che la sua presidenza venisse incoronata dalla conclusione di un conflitto che era giù durato poco meno di 45 anni. Il premier israeliano Ehud Barak era animato dagli stessi sentimenti. Le proposte di Barak e quelle ancora più attraenti avanzate da Clinton nell’ultima fase del negoziato facevano ai palestinesi concessioni migliori dei «pacchetti» discussi in trattative precedenti. Ma presentavano, agli occhi di Arafat, alcuni rischi. Limitavano fortemente la sovranità dello Stato palestinese a cui non sarebbe stata consentita, tra l’altro, la formazione di un esercito. Non davano completa soddisfazione ai palestinesi sulla questione di Gerusalemme. E Barak, infine, non aveva mai messo formalmente su carta tutto ciò che era stato offerto o promesso. A molti osservatori sembrò che Arafat avrebbe dovuto accontentarsi del risultato raggiunto e lasciare al futuro il compito di correggere e migliorare. Ma temeva di perdere il suo prestigio di grande leader nazionale e, forse soprattutto, di essere sconfessato dagli Stati arabi, come l’Arabia Saudita, che non erano disposti ad alcun compromesso sulla questione di Gerusalemme. Disse di no, alla fine, perché la posta in gioco non era soltanto la pace: era anche la sua leadership.
Ma il leader era anche capace di gesti nobili e generosi. Nel suo libro Ferrari racconta che l’assassinio del primo ministro israeliano Ytzhak Rabin a Gerusalemme, nel novembre 1995, lo aveva fortemente addolorato. Quando apprese la notizia, «il leader palestinese uscì dalla sua villa di Gaza e, con l’aiuto di un suo fedelissimo, raggiunse segretamente Tel Aviv nel cuore della notte. Camuffato e irriconoscibile, ovviamente in abiti borghesi e senza keffiah, andò a casa del premier martire per portare di persona le sue condoglianze a Leah, la vedova».

Repubblica 21.11.14
Gentiloni
“Riconoscere la Palestina ma al momento opportuno”


ROMA «C’è sul tavolo il riconoscimento dello Stato di Palestina, ma non può essere una petizione di principio usata in un momento che non è quello più opportuno». Lo ha detto il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, a margine dell’audizione in commissione Esteri del Senato. «È giusto discuterne — ha aggiunto il titolare della Farnesina — ma bisognerà utilizzarla nel momento in cui ci serve di più per sbloccare il negoziato». In Medio Oriente, inoltre «non dobbiamo cadere nella trappola dell’incitamento della violenza — ha ammesso — Il governo è fermamente convinto che l’unica soluzione del conflitto possa essere la coesistenza in pace di due Stati. Le parti devono astenersi a comportamenti che ostacolano questa soluzione. Non dobbiamo ignorare il rischio di un’escalation di tipo religioso in quel conflitto. La degenerazione potrebbe a mio parere avere conseguenze davvero gravi».
Sui marò, ha invece precisato il ministro degli Esteri, «siamo tutti consapevoli di quanto sia in gioco in questa vicenda, credo che ci sia stato un significativo cambio di passo nella trattazione di questo fatto e credo che entrambi i governi intendano superarlo positivamente, coniugando una rapida soluzione del caso con la tutela dei principi, che per noi sono irrinunciabili. La via del dialogo rispettoso — ha aggiunto il titolare della Farnesina — sia la strada da seguire».

Repubblica 21.11.14
L’amaca
di Michele Serra


Più si parla di religione, più si allontana una soluzione» dice lo scrittore israeliano Etgar Keret a proposito dell’incrudelirsi del conflitto in Palestina. Triste verità. Triste e paradossale: “religione” vorrebbe dire, etimologicamente, “ciò che lega insieme”. Gli uomini ne hanno fatto un obbrobrioso veicolo di esclusione, discriminazione e ostilità reciproca. I nobili sforzi ecumenici di una minoranza di saggi di tutte le confessioni religiose è sopraffatto in ogni angolo del mondo dal fanatismo idiota e sadico di masse indottrinate da sacerdoti criminali, che usano il loro presunto Verbo come arma di supremazia politica e di sopraffazione razziale. Il concetto di “infedeli” è violento, violento quello di “popolo eletto”, violento il suprematismo cristiano che ha sottomesso nei secoli i tre quarti del pianeta. Le tre religioni di Abramo grondano sangue. Lo spirito degli uomini, la loro ricerca di un collegamento (“religio”) con la natura e con il mondo, il loro bisogno di concordia e di armonia non solo non trovano risposta nel dogma, ma ne sono costantemente impediti. Dove c’è dogma, non c’è ricerca. Guerra e religione sono sorelle, e il flebile lumino della coscienza laica, in quel falò, sparisce.

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Repubblica 21.11.14
Nucleare, è conto alla rovescia
Tre giorni per l’intesa con l’Iran che fa tremare il Medio Oriente
Lunedì la scadenza. Il presidente Usa frenato dai repubblicani e da Israele e Arabia Rouhani osteggiato dai conservatori
Ma tra Washington e Teheran è già disgelo: contro l’Is
di Bernardo Valli


C’È una scadenza per i negoziati sul nucleare iraniano in corso dall’inizio della settimana a Vienna, ma già in preparazione da un anno. Entro lunedì prossimo, 24 novembre, si dovrebbero concludere. Con un accordo o con un fallimento? La questione è aperta. Per il Medio Oriente è cruciale ma lo è anche sul piano planetario perché implica il problema della proliferazione. Sul tappeto c’è la limitazione del programma iraniano per impedire che possa condurre alla bomba atomica. In cambio l’Iran non subirebbe più le sanzioni che strozzano la sua economia. L’eventualità che Teheran disponga un giorno di armi nucleari è vista come una seria minaccia dalla comunità internazionale fin dal 2002 quando gli esperti cominciarono a prenderla in considerazione, basandosi su ele- menti concreti. E da allora diffidenze e sospetti non sono mai scomparsi del tutto in entrambe le parti.
Dieci anni di trattative fallite, i lunghi periodi senza dialogo, le insistenti reciproche minacce, con la possibilità di interventi militari, e il retroscena di azioni di spionaggio ritmate da omicidi, rendono eccezionali i negoziati di Vienna. Si afferma che siano «senza precedenti negli annali della diplomazia». Lo sarebbero anzitutto per le conseguenze strategiche. L’Arabia Saudita, principale potenza sunnita, propone di dotarsi a sua volta di una capacità nucleare, per controbilanciare quella dell’Iran, principale potenza sciita. E tanti altri paesi della regione musulmana e petrolifera, in preda a sanguinose convulsioni, non nascondono le stesse intenzioni. Israele, già dotata di armi atomiche non dichiarate, si oppone agli Stati Uniti, suoi principali alleati — protettori, quando essi non nascondono il desiderio di riammettere l’Iran in società grazie a un buon esito del negoziato viennese. Per lo Stato ebraico il paese degli ayatollah, nonostante il suo attuale ed essenziale ruolo contro i tagliagole del Califfato, resta un nemico irriducibile. Gli equilibri mediorientali sarebbero insomma ancor più sconvolti dalla nascita di una super nazione sciita con armi nucleari.
La complessità tecnica dei negoziati e il numero e il peso dei partecipanti fanno il resto. Ma proprio per questo, per la sua rilevanza e per le sue implicazioni, l’appuntamento viennese riuscirà difficilmente a chiudere l’intricato capitolo del nucleare iraniano. Un vero accordo appare improbabile, ma è altrettanto improbabile un vero fallimento. L’uno e l’altro non appaiono realistici. Nonostante gli ostacoli un’intesa non è mai apparsa tanto vicina. Ma un’intesa incompleta. Non al punto da provocare una rottura, ma sufficiente per lasciare aperta la porta a un ulteriore negoziato. Rinunciare definitivamente a un dialogo sarebbe una tragedia perché Teheran potrebbe un giorno dotarsi di un’arma atomica e i negoziatori dovrebbero allora rimproverarsi di non avere valutato bene rischi e vantaggi.
Da un lato ci sono i Sei (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Russia e Cina), i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza più la Repubblica federale, che nel novembre 2013 hanno raggiunto a Ginevra un’intesa interinale di sei mesi con l’Iran, poi rinnovata. Con quella decisione sono state alleggerite le sanzioni internazionali. L’economia iraniana ha così dato segni di ripresa e l’inflazione, salita durante la recessione al 40 per cento, è scesa al 14 per cento, alimentando anche una certa disponibilità politica. Ma i conservatori iraniani non hanno attenuato le accuse ai negoziatori, definendoli ingenui amatori o peggio ancora traditori. L’accordo interinale di Ginevra e stato definito umiliante, e il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, giudicato troppo conciliante con gli interlocutori occidentali, è stato convocato per rendere conto del suo comportamento a un forte gruppo di deputati conservatori. Più di cento.
In campo occidentale l’arrivo al potere di Barack Obama ha favorito il dialogo. Il nuovo presidente ha scritto alla Guida suprema, Ali Khamenei, dichiarandosi pronto a un rilancio del processo diplomatico. Il messaggio conteneva proposte allettanti. Ad esempio la disponibilità a fornire uranio arricchito al venti per cento, di cui gli iraniani non disponevano per far avanzare le dichiarate ricerche in campo farmaceutico, in cambio dello stoccaggio in un paese terzo della tonnellata di uranio arricchito al cinque per cento, di cui gli iraniani invece disponevano ed era sufficiente per lanciarsi nella fabbricazione dell’arma nucleare. Questo accadeva nel 2009 quando il presidente della repubblica era l’instabile e intransigente Ahmadinejad, il quale fece fallire l’operazione. Ad essa furono poi contrari americani influenti come Hillary Clinton.
Dopo tanti tentativi mancati, l’elezione inattesa a Teheran del moderato Hassan Rouhani, nell’estate 2013, ha dischiuso gli orizzonti. Ma il nuovo presidente deve fronteggiare i conservatori, che non riesce a convincere dei vantaggi di un accordo nucleare destinato a ridurre ancor più le sanzioni e stimolare l’economia agonizzante. Nonostante queste difficoltà e anzitutto incomprensioni, l’accordo provvisorio del novembre 2013, e il successivo prolungamento di un semestre si sono rivelati promettenti passi avanti. Non sono mancati gli inciampi, come durante i difficili recenti incontri nell’Oman. Ma si è via via affermata la convinzione che l’aspêtto nucleare debba essere accompagnato da un’iniziativa politica ed economica.
Sul piano tecnico si è presentata più volte l’opportunità di trasferire l’uranio arricchito destinato all’arma nucleare prima in Turchia e poi in Russia, da dove Teheran avrebbe potuto recuperarlo nel caso i negoziati fossero falliti. Prima gli iraniani, poi gli occidentali non si sono fidati. Resta ancora in piedi la possibilità di mettere in deposito l’uranio utile all’uso militare in Russia. Ma nel frattempo negli Stati Uniti i repubblicani controllano l’intero Congresso ed essi condividono la diffidenza israeliana nei confronti degli ayatollah, oppure essi stessi dubitano dell’affidabilità iraniana. I duri dei due campi pesano in queste ore sui negoziati di Vienna. Eppure il clima politico è cambiato in Medio Oriente. Non è certo migliorato ma è stato rivoluzionato dall’inasprimento dello scontro sciiti-sunniti, e soprattutto dall’emergere del Califfato, insediatosi a cavallo dell’Iran e dell’Iraq. Nel complicato gioco delle alleanze, che cambiano secondo le situazioni e i luoghi di scontro, le milizie sciite di obbedienza iraniana o influenzate da Teheran sono diventate la fanteria dell’aviazione americana che bombarda il Califfato. Il cedimento iniziale dell’esercito iracheno addestrato dagli americani di fronte all’offensiva jihadista è stato in parte tamponato dai gruppi armati sciiti, sostenuti dall’Iran. Di fatto si è cosi creata un’alleanza tra americani e iraniani.
Se questa alleanza ufficiosa, realizzatasi sul terreno, in un momento di emergenza, fosse confortata da quello che alcuni esperti chiamano un piano Marshall di dieci miliardi di dollari, vale a dire un grande mercato capace di risollevare sul serio l’economia iraniana, gli ostacoli nucleari potrebbero essere superati. Le incognite sono tuttavia tante. Sui due versanti. Sugli americani premono gli israeliani che diffidano dell’Iran e non credono in una loro possibile rinuncia al nucleare militare. E premono anche i sauditi, e i loro alleati, immersi in quanto sunniti nella millenaria tenzone con gli sciiti, di cui l’Iran è la massima concreta espressione. I più fiduciosi appaiono gli europei.

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La Stampa 21.11.14
La scrittrice Xiaolu Guo
“I giovani cinesi si sono imborghesiti
Tienanmen è irripetibile”
di Alberto Simoni


Parla la scrittrice Xiaolu Guo che ha appena pubblicatoLa Cina sono io “I ricchi studiano a Harvard, al ritorno non hanno voglia di cambiare”

Sgomberiamo subito il campo: Xiaolu Guo non è una dissidente. Non è, oggi, una di quelle intellettuali braccate da Pechino, anche se gli screzi con il regime li ha avuti per via di un suo documentario del 2004, The Concrete Revolution. Fu tirata fuori dai guai da un avvocato per i diritti degli immigrati che riuscì a riportarla a Londra dove viveva dal 2002.
Ma non pochi mugugni Guo se li è attirati fra gli alfieri in esilio della democrazia. Nel 2012, quando Mo Yan vinse il Nobel per la letteratura, lei lo difese. Lo dipinsero come timido contro il regime, per qualcuno «lo scrittore del Partito». Lei replicò: «Rispetto chi non vuole fare il martire politico». Poi se la prese con gli «snob dei diritti umani». E oggi, quando la raggiungiamo fra una presentazione e l’altra in Italia del suo ultimo libro La Cina sono io (ed. Metropoli d’Asia), sull’eterna lamentela occidentale dei diritti violati dal governo cinese, punge: «A forza di chiedere il rispetto dei diritti umani e trattare la Cina come fosse Cuba, il risultato è l’effetto contrario, un irrigidimento ulteriore». E poi su Xi Jinping, il «nuovo imperatore» cinese come lo esalta il Time in copertina questa settimana: «Vi ricordate come morivano di fame i nostri nonni 50 anni fa? Ora non è così, il livello di vita è dignitoso, abbiamo una classe media, un buon livello di istruzione», ci dice. Eppure i diritti, la lotta spietata, sin brutale, alla corruzione... «In Occidente c’è voglia di giudicare il leader, certo è normale ma sono ottimista e il mio giudizio è positivo».
L’autrice credeva nella democrazia e in libere elezioni 25 anni fa mentre il fratello faceva lo sciopero della fame in piazza Tienanmen, sfuggendo al massacro dei tank. Xiaolu Guo ci crede ancora oggi. Del suo Paese che osserva (ma ci torna ogni anno) da una casetta a East London ha un ricordo «romantico, nostalgico». Anche se la Cina di oggi misura la felicità dei suoi cittadini in Pil pro capite, si è votata al business, sa stare al mondo e dialogare - sempre più spesso - da posizioni di superiorità, economica s’intende, con gli altri Grandi inquilini del pianeta.
Eppure la dissidenza è parte integrante della vita e dell’opera di Guo. Suo padre trascorse 15 anni in un campo di lavoro solo perché amava dipingere e la Rivoluzione culturale non gradiva divagazioni dal tema. I personaggi della Cina di Guo sono artisti. Come la stessa autrice («scrittrice e regista», ci tiene a sottolineare quest’ultima caratteristica) che dalla sua vita ha attinto per tratteggiare lineamenti e comportamenti di Kublai Jian e Deng Mu. Il primo è uno storico e musicista punk figlio ribelle di un papavero, il più alto, del regime; Mu è una poetessa.
La Cina di Xiaolu Guo sono loro, innamorati lontani: lui vagabondo «sans papier» in Europa rifiutato dal Paese dopo un periodo di detenzione per aver diffuso durante uno show un manifesto che inneggiava alla perpetua rivoluzione; lei in cerca di identità in America ma incapace di staccarsi dalla patria e dagli affetti famigliari. Li separa la «Rivolta dei gelsomini» del 2011, tentativo di importare a Pechino la primavera araba, stroncato sul nascere dal governo. I giovani si radunavano nelle vie del lusso nel cuore della capitale, la polizia apriva gli idranti, allagava tutto (negozi compresi) e la forza della rivoluzione annegò in quel trucchetto tanto astuto quanto banale. Nel suo vagabondare tra Londra, Svizzera, Parigi, Marsiglia, Creta, Jian scrive a Mu. Lei risponde. Immortala i suoi pensieri sul diario. E sarà un plico di lettere recapitato a casa di Iona, scozzese traduttrice di cinese, che consentirà al lettore di ricostruire la storia dell’amore interrotto, di vedere mischiarsi vite sempre al confine tra la realtà e la finzione, di appassionarsi all’intreccio tra più livelli narrativi che alla fine cambiano (e migliorano) la stessa Iona.
Questo il romanzo d’amore. «Non è un testo politico», quasi si giustifica Guo. Ma è difficile non scorgere altro dietro l’«io» che comprime Jian e Mu, politica e apolitica, ribellione e tradizione. La Cina che ripudia il passato e vuole un altro futuro, e quella romantica. In fondo Guo scrive un inno al suo Paese non nascondendone le contraddizioni. Sullo sfondo Tienanmen, quasi mai citata ma eterno spartiacque della Cina moderna, esperienza tragica e formativa. E «irripetibile», aggiunge Guo. Perché? «Ci siamo imborghesiti, c’è una classe media sempre più forte e numerosa, siamo tutti più conservatori». E se a Hong Kong sono stati i giovani e gli studenti, come Mu e Jian nel 2011, a sfidare il regime, lo spegnersi o forse l’affievolirsi del moto di ribellione della città, Guo lo coglie al volo: «Certo i giovani sono un motore che cambia la società, ma non è solo da loro che possono venire le mutazioni; in fondo sono anch’essi élite, serve la base». L’élite ricca che studia a Harvard, «con i soldi di papà, intrisa di nazionalismo, perché mai dovrebbe riportare in Cina la voglia del cambiamento?».
E la gente? Sta meglio. Grazie a Deng, Jiang, Hu e ora Xi. Quasi due decenni di boom economico e nuovi soldi da distribuire. «Siamo sempre più come gli americani....», scherza Guo. Sogniamo il benessere, il business. Tienanmen, addio.

Il Sole 21.11.14
La riforma cinese dei dirigenti
Insieme impegno per l'interesse pubblico e vasta strategia dei cambiamenti
di Michael Spence

La massiccia campagna anti-corruzione del presidente cinese Xi Jinping ha fatto avanzare verso obiettivi fondamentali: si sono compiuti progressi verso il ripristino della fiducia nell'impegno del Partito comunista per un sistema basato sul merito; si è contrastato il modello di dominio del settore pubblico; è stato ridotto il potere degli interessi costituiti a bloccare le riforme; si è rafforzata la popolarità di Xi tra gli attori del settore privato, molto meno tra gli apparati burocratici. Lo sforzo di Xi nello sradicare la corruzione ha rafforzato il partito e i riformatori. Quanto verranno portate avanti le loro ambizioni di riforma?
Xi non ha finito, considerato che, al quarto Plenum del partito del mese scorso, ha delineato riforme giuridiche, per creare parità di condizioni tra il settore pubblico e privato. Se attuate correttamente, le riforme potrebbero produrre un sistema più efficiente per la creazione e l'esecuzione dei contratti, spianare la strada agli operatori di mercato, e rafforzare l'applicazione della legislazione cinese sulla concorrenza.
Un maggiore rispetto dello stato di diritto porterebbe alla creazione di un quadro normativo e finanziario per ridurre le frodi nel settore privato, anche nei protocolli finanziari. Questo, con una maggiore possibilità di accesso al capitale, contribuirà ad accelerare lo sviluppo del settore dei servizi, necessario a creare posti di lavoro urbani.
Una migliore gestione dei beni pubblici cinesi – che includono 3,5-4mila miliardi di dollari di riserve valutarie, consistenti proprietà fondiarie, e una partecipazione di maggioranza nelle imprese di proprietà statale, che dominano l'economia – andrebbe a completare questi sforzi. Contribuirebbero allo scopo il rafforzamento della concorrenza, la promozione dell'innovazione, il rafforzamento del sistema finanziario e l'allargamento dell'accesso al capitale.
Come la Cina potrà realizzare tutto ciò? Oggi, l'economia cinese segue il vecchio modello leninista delle "Alture dominanti", con il partito che detiene il potere politico e il controllo delle imprese e dei settori più importanti, anche se il settore privato guida crescita e occupazione. In questo contesto, è fondamentale il tipo di "professionalità meritocratica" che la Cina persegue; ma questa non può sostituire la concorrenza nel settore pubblico o privato – se non altro, per quanto riguarda gli obiettivi di innovazione e cambiamento strutturale.
Xi potrebbe dichiarare che la versione cinese del capitalismo di Stato ha funzionato in passato, e continuerà a farlo. Ma l'esperienza delle dinamiche nelle economie avanzate (Cina in testa) rende debole questa posizione ed è improbabile che Xi la assuma. L'alternativa sarebbe intraprendere un piano di privatizzazioni per ridurre la componente attiva dell'enorme bilancio statale. Ma il bilancio si è dimostrato valido, permettendo tassi di investimento elevati che hanno alimentato la crescita.
Data una distribuzione sempre più ineguale del reddito tra capitale e lavoro, una più ampia accumulazione di beni pubblici presenta aspetti positivi, in quanto equipara la distribuzione del capitale e della ricchezza, anche se indirettamente. Non solo si possono utilizzare i beni pubblici per attutire shock e contrastare tendenze negative; possono aiutare a finanziare l'espansione delle assicurazioni sociali.
Il problema in Cina non è il volume dei beni di proprietà dello Stato, ma la concentrazione in alcune aziende e industrie – situazione che presenta rischi per la performance economica. La soluzione logica non è quella di smaltire attività detenute dello Stato, ma di diversificarle nel tempo.
Tale approccio avrebbe vari vantaggi. Potrebbe coniugare un grande bilancio statale con un ruolo crescente dei mercati, rafforzare l'occupazione, stimolare l'innovazione e portare avanti le trasformazioni dell'economia. Restano cruciali gli investimenti pubblici in infrastrutture, capitale umano, conoscenza e tecnologia di base dell'economia.
Inoltre, la diversificazione delle attività detenute dalla Cina potrebbe contribuire a sviluppare i suoi mercati finanziari. Poiché la quota negoziata o negoziabile della capitalizzazione di mercato del settore statale è in aumento rispetto al dato attuale (10-15%), gli investitori più istituzionali, come fondi pensione e compagnie di assicurazione, potrebbero essere coinvolti nel trading azionario cinese, dominato da investitori privati. Questo accrescerebbe le opzioni di risparmio per una popolazione sempre più ricca e rafforzerebbe il sostegno agli investimenti a lungo termine e allo sviluppo.
Anche i mercati del debito potrebbero beneficiare di tale iniziativa. Rendendo più labile il confine tra il settore privato e quello statale si potrebbe avere una riduzione dell'accesso privilegiato – e dell' abuso – di quest'ultimo ai finanziamenti bancari, comportando l'espansione dei mercati delle obbligazioni societarie.
Con soggetti pubblici, come il sistema di previdenza sociale e i fondi sovrani di ricchezza, in possesso di portafogli di attività più diversificate, si potrebbero ridurre gli incentivi per gli interventi sul mercato, favorendo gli operatori storici di cui lo Stato possedeva ampie quote. Questo, con più applicazione del diritto di concorrenza, farebbe compiere passi avanti verso la parità di condizioni sui mercati.
Responsabilità fiduciarie definite e governance dovrebbero garantire che le attività detenute dal pubblico riescano a massimizzare i rendimenti corretti per il rischio a lungo termine, con Stato e cittadini come beneficiari e il mercato come arbitro.
La gestione patrimoniale del settore pubblico potrebbe essere esternalizzata, con i gestori privati che competono per il lavoro. Ciò potrebbe accelerare lo sviluppo del settore, con benefici per risparmiatori e investitori.
La Cina non deve abbandonare la rete di sicurezza fornita dalle sue ingenti partecipazioni statali per consentire ai mercati di svolgere un determinante ruolo microeconomico. Può abbandonare il modello delle "alture dominanti" e sviluppare la sua versione di "capitalismo di Stato" per sostenere il meglio dei due mondi. Tutto ciò che serve è un persistente forte impegno del governo verso l'interesse pubblico e una strategia di riforma abilmente eseguita.

Il Sole 21.11.14
Petrolio, la Cina alza il velo sulle riserve strategiche
Il dato diffuso da Pechino attesta scorte per soli 9 giorni, ma è parziale
L'Iran: tolte le sanzioni raddoppieremo l'export
di Sissi Bellomo


Il presidente cinese Xi Jinping è stato di parola. Nel fine settimana aveva promesso al G-20 maggiore trasparenza sulle statistiche relative al petrolio e ieri – per la prima volta nella storia – Pechino ha alzato il velo sulle riserve strategiche del paese. Il dato è purtroppo parziale, perché riguarda soltanto la prima fase di costituzione delle riserve, conclusa nel 2009. Inoltre, dalla Cina non arriva tuttora nessuna informazione sulle scorte commerciali, molto più utili in quanto consentono di valutare l'andamento dei consumi. Tuttavia si tratta di un primo passo importante, considerato che la Cina ha ormai acquistato un peso determinante per le sorti dei mercati petroliferi. E in ogni caso le informazioni trasmesse – che fino a poco tempo fa erano difese come un segreto di Stato – non sono del tutto irrilevanti.
Al contrario, danno corpo alla prospettiva di un'accelerazione degli acquisti cinesi di greggio, soprattutto ora che le quotazioni del sono crollate sotto 80 dollari, ai minimi da quattro anni.
Nei quattro depositi della prima fase di stoccaggio, ha fatto sapere l'istituto nazionale di statistica, ci sono oggi 91 milioni di barili di greggio (a fronte di una capacità di stoccaggio complessiva di 103 milioni): una quantità inferiore a quella che molti analisti avevano stimato e che è sufficiente a soddisfare appena nove giorni di consumi. La Strategic Petroleum Reserve (Spr) degli Stati Uniti – paese che ormai la Cina ha superato nelle importazioni petrolifere – contiene 695,9 mb e ha una capacità di 727 mb.
Se la Cina aspirasse ad accantonare greggio sufficiente a compensare 90 giorni di importazioni nette – il criterio adottato dai paesi Ocse, nell'ambito dell'Agenzia internazionale per l'energia (Aie) – dovrebbe accumulare 540-600 mb, fanno notare gli analisti di Energy Aspects, aggiungendo che comunque Pechino si è già portata avanti nell'opera, rispetto alle cifre comunicate ieri: solo nel 2014, grazie anche alla discesa dei prezzi, dovrebbe aver stoccato altri 87 mb di greggio.
Il governo ha infatti programmato altre due fasi di accumulazione di riserve e la seconda è già in costruzione. Su queste l'istituto di statistica ha taciuto, ma Pechino negli obiettivi energetici per il 2020, aggiornati proprio in questi giorni, ha detto che entro quella data punta a completare la seconda fase – con stoccaggi che gli analisti ritengono intorno a 170 mb - e ad avviare la terza.
Molto di quel greggio potrebbe arrivare dall'Iran, che invia in Cina un numero crescente di barili: nei primi nove mesi dell'anno vi ha esportato 573mila barili al giorno, il 33,7% in più rispetto allo stesso periodo del 2013. E la quantità potrebbe aumentare. Teheran, si è saputo in questi giorni, ha noleggiato depositi di stoccaggio a Dalian, per servire meglio i mercati asiatici. E quando le sanzioni internazionali verranno revocate promette di raddoppiare nel giro di due mesi le sue esportazioni, in Cina e altrove, che attualmente sono ridotte secondo le stime a circa 1,3 milioni di barili al giorno. La promessa – che costituisce prima di tutto una sfida ai colleghi dell'Opec – è arrivata dal ministro del Petrolio Bijan Zanganeh, a pochi giorni dalla scadenza dei negoziati sul nucleare con le potenze internazionali: in teoria sarebbe lunedì, anche se l'esito più probabile sarà un'ulteriore proroga delle trattative.

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Repubblica 21.11.14
Così ora sono diventato cittadino americano con la “macchia” del Pci
Sull’iscrizione al partito negli Anni ’70-’80 un lungo interrogatorio Un anacronismo mentre Obama rivoluziona la politica migratoria
di Federico Rampini


NEW YORK Pochi giorni prima che Barack Obama annunciasse la nuova, storica apertura all’immigrazione, ho ricevuto la cittadinanza americana. A differenza dei cinque milioni di immigrati senza documenti, a cui Obama ieri sera ha annunciato che non potranno più essere espulsi, io sono diventato americano entrando dalla porta principale. Avevo avuto la Green Card, residenza permanente, nel 2006. In base alla legge, automaticamente dopo cinque anni maturavo il diritto a chiedere la naturalizzazione (che non implica l’addio alla cittadinanza italiana: Italia e Usa consentono la “doppia cittadinanza”). Cinque anni di Green Card, e questa fabbrica di nuovi cittadini che è l’America, ti spalanca le porte per sempre.
Con una piccola complicazione, nel mio caso. La mia procedura è durata il doppio rispetto a quella dei miei figli. L’iter per ottenere la cittadinanza è semplice. La documentazione sul tuo status d’immigrato legale la spedisci per posta ordinaria. Lo U.S. Citizenship and Immigration Service ti convoca entro poche settimane per le impronte digitali e la fotoscansione dell’iride. Altra breve attesa, e arriva il momento dell’“ interview”, il colloquio. Nel 99% dei casi è una formalità di cinque minuti: un test elementare di lingua inglese, alcune domande sulla Costituzione e lo Stato di diritto. Prima di arrivare al colloquio, però, bisogna riempire un questionario. Come tutti i candidati, ho dichiarato «di non avere evaso le imposte, non avere commesso reati, non avere praticato la poligamia, il gioco d’azzardo illegale, non essere un prostituto né uno sfruttatore di prostitute, non essere un narco-trafficante». Né di essermi reso colpevole di «genocidio, tortura, persecuzione religiosa, guerriglia armata». Poi la domanda fatidica, per me. Sono mai stato iscritto a un partito comunista? Dopo tanti “No”, una croce sul “Sì”.
Da quel momento la pratica ha avuto un iter diverso. I tempi si sono fatti più lunghi. Ho superato l’esamino di inglese, Costituzione, diritti-doveri del cittadino. Ma a quel colloquio ne è seguito un altro, ben più approfondito. Stavolta non davanti a un semplice impiegato ma a un dirigente, in una stanza separata. Il funzionario Hernandez, di origine ispanica, trentenne. Molto cortese, ha cominciato a interrogarmi sul mio passato comunista. Facile ricordare le date della mia iscrizione al Pci: dal mio arrivo in Italia per l’Università (1974) alla morte di Enrico Berlinguer (1984). Più difficile condensare la storia di quegli anni e di quel partito. Spiegare che non eravamo bulgari, non prendevamo ordini da Leonid Breznev. Che nelle contrapposizioni della guerra fredda ci fu un “eurocomunismo”, uno scisma dalla Chiesa sovietica. Che l’attuale presidente della Repubblica italiana apparteneva a quel partito là, e tuttavia venne invitato a Washington dal Dipartimento di Stato. Che Berlinguer disse di «sentirsi più al sicuro da questa parte dell’Alleanza atlantica» (tra i mal di pancia della base).
Tutto questo ho dovuto riassumerlo in modo comprensibile a un funzionario pubblico trentenne, nell’America del 2014. Non tutto sulla difensiva, sia chiaro. Alla domanda su cosa mi avesse «spinto a diventare comunista», ho potuto spiegare: grosso modo le stesse aspirazioni di giustizia sociale per cui Obama ventenne faceva il militante di quartiere a Chicago. Hernandez prendeva appunti, faceva domande, chiedeva precisazioni sulle date. Quando ho creduto di avere finito, ha detto: «Lei è disposto a ripetere tutto questo sotto giuramento? Significa che, in caso di falso, avrà commesso un reato». Ho alzato la mano destra per il giuramento. Ho ricominciato daccapo. Lui ha trascritto tutto. Ha stampato la mia deposizione, me l’ha fatta rileggere e firmare. L’ha aggiunta ordinatamente a un grosso faldone sul mio “caso”, che mi è apparso solo a quel punto nella sua dimensione: chili di incartamenti.
Il 7 novembre alle 10 del mattino sono stato convocato per la Oath Ceremony. Se ne svolgono in tutte le città d’America, ogni mese, affollatissime. Nell’aula di tribunale della U.S. District Court, al numero 500 della Pearl Street, Downtown Manhattan, eravamo in duemila per il giuramento finale. Tanti ispanici, asiatici, africani. Accompagnati dai familiari, coi vestiti della festa. La giudice ha fatto un bel discorso: «Siamo una nazione di immigrati, mio marito ha acquisito la cittadinanza da adulto come voi. Da oggi avete tutti i diritti e tutti i doveri degli americani. Vi ricordo il più importante: il diritto di voto, per far pesare la vostra volontà in questa democrazia». In coro abbiamo pronunciato il giuramento. Applausi e qualche lacrima.
Ho ripensato al mio iter un po’ più lungo, al suo anacronismo. Burocrazie e tecno-strutture hanno le loro pesantezze, tendono a combattere ancora la penultima o terzultima guerra. Oggi i pericoli più seri per la sicurezza degli Stati Uniti non vengono da ex iscritti a partiti comunisti scomparsi. Neppure, credo, da quello cinese: l’indomani del mio giuramento partivo al seguito di Obama per Pechino. Dove con la Cina ha raggiunto un accordo importante per la riduzione dei gas carbonici. Un collega inglese, corrispondente dell’ Independent, ha scherzato: «Ti hanno dato il passaporto Usa giusto in tempo, ora da americano puoi chiedere l’asilo politico in Cina». No, da italianoamericano, come adesso vengo definito, resto in ammirazione verso questa fabbrica di cittadini unica al mondo. In cui Obama annuncia un nuovo livello di apertura, cancellando l’incubo dell’espulsione dalle vite di cinque milioni di onesti lavoratori.

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La Stampa 21.11.14
Togliattigrad, l’epopea dell’auto nella steppa
Un film documentario racconta la costruzione dello stabilimento, frutto dell’accordo Fiat-Urss, che avviò la storia russa delle quattro ruote
di Alberto Papuzzi


Il più grande affare del secolo. Così venne definito l’accordo Fiat-Russia che il 4 maggio 1966 firmarono a Torino il ministro sovietico per l’Industria automobilistica e Vittorio Valletta, che proprio quell’anno lasciava la presidenza dell’azienda a Giovanni Agnelli.
L’accordo prevedeva la costruzione chiavi in mano di uno stabilimento per la produzione di duemila automobili al giorno, sul modello della «124», entro tre anni. Per l’insediamento del nuovo complesso si scelse la località di Stavropol sul corso del Volga, che venne ribattezzata Togliattigrad, in memoria del leader del Pci. La prima vettura uscì dalle officine il 19 aprile 1970. Si trattava del più grande progetto che vedeva protagonista l’industria italiana nel secondo dopoguerra. Una manifestazione sia di potenza sia di sapienza tattica. L’azienda italiana ottenne carta bianca in materia di tecnologie produttive e di rete distributiva, destreggiandosi al meglio nella competizione con marchi che avevano medesimi interessi e ambizioni, più di tutti Volkswagen e Renault.
Quasi mezzo secolo dopo, la gigantesca opera rivive in un film documentario che si presenta al Torino Film Festival: Togliatti(grad) di Federico Schiavi e Gian Piero Palombini, con una raffinata fotografia di soggetto industriale, prodotto da Nacne Sas in collaborazione con Rai Cinema. Cinquantasei minuti, che offrono una visione articolata e suggestiva, sorprendente e brillante, ricca di spunti storiografici e carica di annotazioni di costume, per un episodio che allora scosse il mondo. I punti chiave attorno ai quali ruota il racconto sono due: il lampante confronto tra comunismo sovietico e capitalismo occidentale, largamente a favore di quest’ultimo, quasi una appendice della guerra fredda, e il conflitto più generale che venne messo a nudo, innanzi tutto in campo sovietico, tra due culture, che interessavano e coinvolgevano ideologie, fedi, tradizioni, provocazioni, per una generazione di uomini e donne vissuti con o per il lavoro. Per girare il documentario ci sono voluti quasi quattro anni, e si sono incontrate centinaia di persone.
Per i sovietici Togliattigrad fu una sfida senza esitazioni. «Eravamo sicuri che, come i nostri padri e madri avevano vinto la guerra, così noi avremmo potuto vincere anche questa competizione», dichiara Vladimir Mirisakov, allora caposquadra dell’Officina Motori. Con Togliattigrad comincia la storia russa dell’automobile. Prima si producevano soprattutto se non esclusivamente automezzi pesanti: i camion e gli autobus prodotti nel 1938 erano, per esempio, 185 mila su un totale di 200 mila autoveicoli; nel 1960 passano a 344 mila su 500 mila. Nel maggio del 1966, quando si firma l’accordo, circolava un’automobile privata ogni 240 persone.
«Era un programma semplicemente terrificante - dice nel film Carlo Mangiarino, che era stato ingegnere capo nell’edificazione della fabbrica -. Dove c’era soltanto la steppa, senza traccia di tessuto industriale, ma freddo a trenta gradi sotto zero d’inverno, e caldo rovente al sole d’estate, dovevamo far sorgere uno stabilimento che aveva in sé un know how globale». Le immagini proposte dal documentario sono sbalorditive: prima la steppa verde e arida, poi fuoco e fumi degli impianti, infine le automobili immerse nel traffico. Come una stregoneria, dal deserto stepposo dovevano prendere vita le officine che avrebbero sfornato duemila vetture.
Se sul piano macroscopico c‘era da restare a bocca aperta, un’avventura straordinaria fu corsa al livello delle microstorie che interessarono i rapporti sociali, tra la comunità dei lavoratori italiani tutti dipendenti dalla Fiat e la collettività che stava nascendo e organizzandosi sulle rive del Volga (anche con la presenza di volontari, soprattutto donne e studenti, affascinati dal progetto). Notevole scalpore, ascoltando gli ex, venne creato naturalmente dall’incontro tra maschi italiani capaci di esercitare l’arte del corteggiamento e bionde ragazze russe di cui si magnificavano le lunghe cosce. Il problema era che gli uomini italiani andavano in caccia di un tradizionale divertimento, mentre le russe puntavano a stabilire relazioni stabili. Nel 1972 si contavano già trenta matrimoni di russe con italiani.
Ma non era solo una questione di rapporti personali. Era la scoperta della realtà italiana, allora non molto conosciuta dai sovietici. «Cosa sapevamo noi dell’Italia? - si domanda Nelly Sumina, una delle numerose interpreti -. Io conoscevo soltanto Marcello Mastroianni, Sofia Loren e Adriano Celentanto». Spesso si organizzavano feste negli alberghi e le russe facevano la fila per andarci: «Guardate, sono arrivati gli italiani! Infatti erano come una apparizione». Le diciottenni di allora (e non solo le diciottenni!) ricordano anche belle macchine e vestiti formidabili. Una vita fatta di sogni e entusiasmi, «mentre da noi era molto, molto più grigia», dice ancora Nelly Sumina. I russi non vedevano di buon occhio quei rapporti e sottoponevano le loro ragazze a insistenti interrogatori.
Nel nostro paese non mancarono le polemiche, come sempre di fronte a una novità. A Tribuna sindacale, programma televisivo, si chiese conto a Agnelli di dubbi finanziamenti collegati all’impresa che la sua azienda portava a termine. L’Avvocato diede una risposta delle sue: «Per fare la sua domanda - disse al suo interlocutore - lei ha impiegato due minuti. Per la mia risposta mi basta un secondo: non è vero».

Repubblica 21.11.14
Orbán fa strappare le bandiere Ue
Nuovo gesto di sfida del governo di destra e la gente va in piazza contro il premier Lo scrittore Konrád: “Non ne possiamo più”
di Andrea Tarquini


BERLINO “Orbán, vattene!”, gridano in piazza a decine di migliaia. A Budapest e in altre venti città. Giovani e borghesi, non solo i poveri puniti dal darwinismo nazionalsociale del regime. La nuova onda di protesta monta, domani scendono in piazza gli insegnanti. Perché per scolari e studenti poveri affamati a scuola, le collette tra professori per dar loro da mangiare, come i care-packs del Piano Marshall, non bastano più. Fine 2014, l’Ungheria non è ancora morta. Il potere risponde duro: in Parlamento il presidente dell’Assemblea, Làszlo Kover, uomo del premier, ha ordinato ai commessi in uniforme di strappare la bandiera europea che la deputata socialista (opposizione) Ildikò Bangoné Borbely, aveva in mano. Budapest da qualche mese, per ordine di Kover, è l’unica capitale Ue dove il vessillo blu con le stelle dorate non sventola più, dichiarato “sgradito”, accanto alla bandiera nazionale. Negli anni Trenta c’erano i roghi dei libri, oggi il no alla bandiera europea, e i neonazi la bruciano in piazza.
«È una nuova opposizione, volti che non avevo visto in piazza prima: giovani ben vestiti, colti e urbani, decisi ma non violenti», spiega Gyorgy Konràd, massimo scrittore ungherese. «E vanno in piazza anche gli insegnanti: non ne possono più, perché mentre Orbán va a visitare i nuovi miliardari suoi amici a Felcsùt sua città natale, i prof vedono ogni mattina i bimbi poveri addormentarsi per fame sui banchi». Mentre a Varsavia liberal crescita ed entrate tributarie volano, mentre la Romania dell’uomo nuovo Klaus Iohannis punta tutto su computer e web nelle scuole, a Budapest è fame in classe.
Orbán fa muro, il potere ha disertato la celebrazione della “rivoluzione di velluto” di Havel a Praga. Ma ora è più difficile. Putin lo loda come partner, il dittatore azero Alijev lo elogia. «Autocrazie convergenti, aliene ai valori d’Europa», dice da Vienna Pàl Lendvai, decano dell’emigrazione anticomunista e senior correspondent del Financial Times nella guerra fredda, calunniato da Orbán come «agente comunista». Un colpo alla volta alla democrazia, è la tattica: presto il 60 per cento delle banche dovranno essere ungheresi, ha annunciato Orbán contro i trattati della Ue senza i cui aiuti Budapest sarebbe al default.
«Occorrono istituzioni illiberali, il libe- ralismo non ha mai servito la nazione», aveva detto Orbán in estate. Ma lo sfida l’amministrazione Obama: leader magiari persone non grata negli Usa per corruzione, denunce quotidiane di Washington contro i colpi alla libertà, «non sono alleati Nato credibili». «Accuse false», replica Budapest chiamando i diplomatici usa “agenti Cia sobillatori”, come negli anni Cinquanta. E rifiuta alla nordcoreana di pubblicare i nomi degli indagati negli Usa: «Non è d’interesse pubblico».
Tutto è possibile, avvertono fonti diplomatiche Ue. Konràd aggiunge: «Orbán continuerà la sua danza del pavone tra corteggiamento a Putin di cui ama idee autoritarie, e segnali ai partner occidentali, ma come al poker prima o poi i bluff si scoprono». Poi aggiunge: «Gli americani si muovono, la Ue potrebbe fare di più. In nome della libertà, e chiedendo conto con rigore finanziario di chi gestisce come i suoi aiuti in un paese diviso tra miliardari amici del premier e scolari che crollano sui banchi per fame».

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Repubblica 21.11.14
Hanif Kureishi, il grande scrittore anglo-pachistano
“Chi si arruola nell’Is fa una scelta mostruosa ma la colpa è nostra”
Lo scrittore: “Sono giovani che vivono ghettizzati nella miseria Cercano un modello alternativo al consumismo occidentale”
“Hanno bisogno di valori diversi dalla ricchezza e dalla fama da reality”
di Enrico Franceschini


LONDRA «I GIOVANI occidentali che si arruolano nella jihad fanno una scelta mostruosa, ma siamo noi che abbiamo generato quei mostri». È l’opinione di Hanif Kureishi, il grande scrittore anglo-pachistano, autore di tanti romanzi, da Il budda delle periferie a L’ultima parola ( tutti pubblicati in Italia da Bompiani), che trattano il tema dell’identità, del conflitto inter-etnico, dell’integrazione delle minoranze nella società occidentale al tempo della globalizzazione.
Come è possibile, signor Kureishi, che ragazzi cresciuti a Londra, in Inghilterra, in altri Paesi occidentali, diventino dei jihadisti pronti a sgozzare ostaggi inglesi e americani?
«È possibile per due ragioni. La prima è che l’Islam radicale è nato come forma di liberazione, contro il colonialismo e contro le dittature sostenute dall’Occidente, come abbiamo visto con la rivoluzione khomeinista in Iran e con le rivolte della Primavera Araba, non tutte fondamentaliste queste ultime, ma almeno in parte sì. E la seconda ragione è che i giovani sono spesso idealisti. Molti dei miei amici, quando ero ragazzo a Londra, erano maoisti, trotzkisti, leninisti. Ma poi sappiamo come finiscono tante volte le rivoluzione e l’idealismo: con la violenza, il terrore, la tirannia».
Intende dire che in un certo senso la scelta di quei giovani è comprensibile?
«Non è giustificabile, perlomeno da me, io ho altri idee e altri ideali. Ma se vogliamo comprendere le loro ragioni dobbiamo chiederci da dove nascono. Questi giovani credono in qualcosa, qualcosa che a essi sembra un ideale nobile e puro. Ebbene, i giovani hanno di questi bisogni, il desiderio di avere puri ideali e di combattere per realizzarsi. Il Ventesimo Secolo è pieno di giovani così».
Ma perché odiano tanto l’Occidente, pur essendo nati e cresciuti in mezzo a noi? Cosa gli abbiamo fatto che li disgusta così tanto?
«Forse bisognerebbe chiedersi che cosa “non” gli abbiamo fatto e che cosa non siamo stati capaci di dirgli, di insegnarli. Certo, sono cresciuti in mezzo a noi. O più precisamente, di fianco a noi: in genere in quartieri, famiglie, ambienti più poveri rispetto all’establishment nazionale. Quali modelli e quali ideali offre loro la società occidentale? Il consumismo, la commercializzazione, la ricchezza come valore in sé, la fama da conquistare a colpi di reality show. È così sorprendente se un giovane povero trova nella religione islamica un modello alternativo a questi valori e a questi ideali?».
Non ci sono tuttavia solo il consumismo e la fama da reality nei valori occidentali. Perché non riusciamo a insegnare loro l’importanza anzi la bellezza della libertà di pensiero, della democrazia, della tolleranza?
«Mi chiedo quanti sforzi facciamo veramente per spiegare la bellezza degli ideali democratici. La verità è che vengono dati spesso per scontati. E che il più delle volte vengono coperti da altre presunte “bellezze”, che sono invece valori deteriori, quali il consumismo esasperato. E poi: dovremmo dire ai giovani musulmani britannici, francesi, italiani, che la nostra democrazia è bella e va difesa. Prendiamo il caso del vostro paese, l’Italia: avete avuto per vent’anni un leader come Berlusconi, un uomo vergognoso, la cui immagine ha infangato i principi democratici. È più difficile esaltare la politica, quando quella politica esibisce un fallimento».
Ha mai incontrato, personalmente, giovani di questo genere?
«Ho scritto saggi e romanzi su questo tema, e molti di quei personaggi li ho conosciuti davvero. I giovani che crescendo sono diventati seguaci di Al Qaeda, del fanatismo distruttivo dell’11 settembre, e che sono poi i fratelli maggiori dei jihadisti odierni. Vivono in mezzo a noi, poi un giorno fanno una scelta radicale e mostruosa nel nome dell’Islam. Ma siamo noi che abbiamo partorito quei mostri».
In nome dell’Islam, dice: ma l’Islam non dovrebbe fare di più per condannare chi lo invoca per uccidere?
«Le grandi religioni impiegano tempo a redimersi. Pensiamo alla Chiesa cattolica, a quanto ci è voluto prima che denunciasse la pedofilia al proprio interno. Certo, l’Islam dovrebbe fare di più per condannare chi infanga il suo nome. Ma non è semplice. Auguri a chi cercherà di trasformare un fanatico in un liberale».
L’altra faccia dei giovani occidentali arruolati nella jihad è che ora ogni occidentale dalla pelle scura viene visto come un potenziale jihadista?
«Il rischio è quello e talvolta lo sento anche sulla mia pelle. Ma non darei la colpa soltanto alla guerra santa islamica. L’Europa oggi è attraversata da un’ondata di razzismo, di odio verso gli immigrati e i diversi, che si può chiamare soltanto con un nome: fascismo. E dire che pensavamo di averlo estirpato per sempre, invece ritorna».

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Corriere 21.11.14
Le emozioni provengono dal corpo
di Chiara Lalli


Che cosa sono le emozioni e a che servono? Perché ci comportiamo in determinati modi? Il libro di Livio Della Seta Vivere le emozioni (Sonzogno, pp. 160, e 15) parte da queste domande. Le risposte non possono ovviamente non tener conto della rivoluzione neuroscientifica — tuttora in corso — che ci costringe a rivedere concetti come responsabilità, libero arbitrio, volontà.
Il filo conduttore sono le emozioni, strettamente connesse al pensiero e intese come potente strumento cognitivo. Ma pure come sintomo di qualcosa di inceppato e come modulatori dei nostri comportamenti (si pensi agli effetti della mancanza di empatia). Il dominio è il mondo fisico, ovvero non esiste una mente separata dal cervello, e lo sfondo è l’evoluzione per selezione naturale di Charles Darwin (la «più geniale singola idea che la mente umana abbia potuto concepire»).
«Ogni attività mentale (pensieri, emozioni, immagini, sentimenti) è un’attività cerebrale, quindi fisica», scrive Della Seta. D’altra parte, come aveva scritto William James, «quale genere di emozione rimarrebbe se non fosse presente il sentire un’accelerazione del battito cardiaco, o una contrazione del respiro»?
Il dualismo è un errore difficile da correggere e ha molte implicazioni, anche terapeutiche. Della Seta è psichiatra e la sua attività clinica è una parte fondamentale della sua riflessione: «Ciò che noi ancora chiamiamo “psichico” nasce in realtà dal corpo». Accettare questa incontrovertibile premessa ha effetti benefici per i pazienti, perché il miglioramento «passa per la consapevolezza del proprio modo di funzionare» e in molti casi per la rinuncia a cambiare la realtà esterna, concentrandosi sulla lente che usiamo per osservarla.
Della Seta è anche convinto che rendersi conto di come il libero arbitrio non esista potrebbe essere utile dal punto di vista terapeutico. L’affermazione è controversa, difficile da digerire e per alcuni addirittura offensiva, ma la questione della sovradeterminazione causale non può essere ignorata e il risvolto terapeutico è affascinante. I processi che intentiamo a noi stessi — che possono diventare ossessivi e claustrofobici — si radicano nella convinzione che sia colpa nostra, che siamo responsabili delle fini e dei disastri. Se invece il nostro comportamento non poteva che essere quello, la spirale di rimproveri nemmeno comincia. O, almeno, potrebbe essere alleggerita. Autoassoluzione? Forse, ma è indubbio che i sensi di colpa e gli «avrei dovuto» sono meccanismi diabolici e inutili. «Siamo sempre più innocenti di quanto pensiamo».
Della Seta poi dedica una riflessione critica al Dsm ( Manuale diagnostico e statistico ), la bibbia dei disturbi mentali: dal conflitto di interesse (quanti redattori hanno rapporti economici con le case farmaceutiche?) all’eccesso diagnostico. Dubbi sul Dsm sono stati espressi anche dal direttore del National Institute of Mental Health l’anno scorso.
Illuminante — anche al di fuori di un setting terapeutico — la demolizione dei luoghi comuni sull’anoressia e sui disturbi alimentari: prendersela con le modelle è un errore. Sostenere che «è colpa della moda», scrive Della Seta, «è come affermare che si sviluppa il diabete perché in televisione si fa la pubblicità della cioccolata». Pensare che siano patologie moderne significa ignorare l’evoluzione dei mezzi conoscitivi e diagnostici.
Nella parte finale del libro ci sono alcuni spunti per bonificare molte discussioni: la mania di pensare che oggi dilaghi il degrado morale, o che le relazioni non siano più «vere» come in passato. Un processo di rimozione che dimentica, solo per fare un esempio, com’era angusta la società per le donne solo qualche decennio fa. Per quanto il processo sia incompiuto, il passato è ben poco desiderabile. Altro che malattia della modernità.

Repubblica 21.11.14
Biblioteche la storia vera di una sconfitta
Spazi inadeguati e tagli al budget ecco perché le “case dei libri” hanno un futuro incerto
di Adriano Prosperi


ANNI fa la discussione sul futuro del libro conobbe i fasti salottieri di tutte le questioni di aria fritta. Sulla futura, imminente morte del libro per effetto della rivoluzione elettronica si parlò e si scrisse molto. Ne nacque una profluvie di convegni accademici, di esplorazioni arditamente sommarie della galassia Gutenberg. Intanto, zitti zitti i libri cominciavano una silenziosa migrazione dalle antiche stanze costruite per loro, dove si pensava che avrebbero dormito nei secoli. Stanze splendide: chi ne vuole avere un’idea può fare un viaggio attraverso le bellissime fotografie di Will Pryce che illustrano la grande sintesi storica di James W. P. Campbell, La biblioteca. Una storia mondiale, edita in traduzione da Einaudi. Dove andavano? In alcuni casi migrarono verso sedi ipertecnologiche, di dimensioni gigantesche, veri trionfi della monumentalità della memoria culturale. Si pensi agli edifici dove trovarono accoglienza i milioni di libri della Bibliothèque Nationale di rue Richelieu a Parigi, della British Library a Londra, della Biblioteca statale di Berlino: grandi imprese architettoniche, monumenti eretti all’orgoglio nazionale delle grandi culture europee. Il messaggio affidato a queste realizzazioni è quello di un potere fondato sulla capacità di raccogliere e tutelare la memoria culturale per utilità di tutti. Da Assurbanipal a Filippo II di Spagna, dalla Biblioteca alessandrina di Tolomeo a quella di San Lorenzo a El Escorial, il libro è stato l’ospite necessario di monumenti destinati a legittimare simbolicamente un potere sugli altri. La verifica di questa funzione la danno gli innumerevoli casi di civiltà che hanno pagato la sconfitta con la distruzione della loro memoria scritta. Oggi, nelle culture europee reduci dall’apocalisse del XX secolo, le grandi biblioteche nazionali si misurano con la sfida della crescita esponenziale della stampa di libri.
È una sfida che si affronta con la quasi certezza della sconfitta. Si pensi a che cosa significhi far fronte al compito sempre più oneroso del deposito legale. Un compito concepito per garantire la conservazione della memoria culturale delle nazioni: ma è evidente l’inadeguatezza dello spazio, anche quando assume le dimensioni galattiche della Bibliothèque di Parigi, a fronte della crescita inesorabile di una produzione che nemmeno l’invenzione della stampa digitale ha frenato. La selezione tra il libro da conservare e quello da abbandonare è di fatto ammessa anche laddove vige l’obbligo del deposito legale delle pubblicazioni. L’umanità deve rassegnarsi: la storia del libro e della memoria culturale in generale è la storia di periodiche cancellazioni. La storia delle biblioteche è una storia di sconfitte e di laboriose, casuali vittorie: dov’è la Biblioteca di Alessandria e che cosa si è salvato di quel progetto grandioso? Che ne è stato delle biblioteche della Roma imperiale? La sapienza costruttrice dei romani antichi ha lasciato suggestive tracce su tutto il vasto territorio dell’impero, come documentano le belle foto di Will Pryce. Ma per sapere che cosa leggevano a Roma al tempo degli imperatori dobbiamo guardare ai frammenti di testi decifrati dai rotoli carbonizzati di una biblioteca privata di Ercolano.
E l’Italia che cosa ha da dire in materia di biblioteche? La biblioteca come edificio creato al servizio del libro e del lettore ha conosciuto nell’età umanistica il momento più alto della sua storia. Basti evocare i casi della Laurenziana, della Marciana, della Vaticana, della Malatestiana. Ma se guardiamo al presente il bilancio è penosamente negativo: quando piove, alla Nazionale Centrale di Firenze i lettori debbono aprire gli ombrelli. Alla Nazionale di Roma il personale in pensione non viene sostituito e i servizi sono affidati a volontari non pagati. E si fa avvertire qua e là la tendenza a sciogliere i vincoli tra i libri e gli edifici che li ospitano, relegando i fondi sfrattati in depositi più o meno occasionali. Eppure ci sono qui da noi tesori inestimabili, come ben sanno i ladri di libri – ai quali capita che sia il ministro stesso della cultura a dare le chiavi, come si è visto nel caso della Biblioteca dei Gerolomini. È nello stato di abbandono delle biblioteche e degli archivi del sapere scritto che si rivela uno dei sintomi più gravi e inavvertiti della crisi italiana: l’annebbiarsi fino a svanire della memoria culturale del paese.