domenica 23 novembre 2014

Corriere 23.11.14
I 3,9 miliardi che i migranti
danno all’economia italiana
La differenza tra tasse contributi in rapporto alla spesa pubblica
di Gian Antonio Stella

qui

il Fatto 23.11.14
Landini:  “Sì, Renzi non fa nulla contro i disonesti”
“Non ho mai parlato di chi lo vota, ma di questione morale: non combatte evasori e corrotti”.
intervista di Salvatore Cannavò


Ha chiesto scusa, sulle dichiarazioni riferite agli “onesti che non stanno con Renzi” ha ammesso di aver detto una “cavolata”. Però non si rimangia l’essenziale: “Volevo porre la questione morale. I lavoratori sono nella parte onesta di questo paese e c’è una parte disonesta contro cui non si interviene”. Maurizio Landini, accusato di urlare troppo, continua a tenere il punto e a non fare sconti a Matteo Renzi.
Nel pronunciare la parola “onestà”, al di là delle polemiche e delle scuse, c’era un riferimento alla questione morale?
Certo. L’onestà è un problema vero. L’Italia ha 60 miliardi di euro di corruzione, 180 di evasione, il falso in bilancio che non è reato, nessuna legge sul rientro dei capitali. Ma questo è il punto che non si vuole affrontare. Perché il governo su questo non fa i decreti? Perché non ha la stessa forza che ha messo sull’articolo 18? Sì, volevo porre la questione morale. I lavoratori sono la parte onesta e c’è una parte disonesta del Paese contro cui non si interviene. Chi è onesto non conta nulla e si fanno leggi che continuano a garantire ai disonesti di fare i disonesti.
Matteo Renzi ha illustrato a Repubblica la sua idea di sinistra, “dalla parte dei deboli”. Cosa ne pensa?
Che è un tentativo per non discutere di quello che si sta concretamente facendo. Siamo di fronte a un provvedimento che rende liberi i licenziamenti e cancella lo Statuto dei lavoratori e questa cosa viene completamente rimossa. Dall’altra parte si rimuove il fatto che in queste settimane nelle piazze, in varie forme, sta emergendo un dissenso esplicito.
Non si riconosce in questa sinistra?
Si fa fatica a dire che siamo in presenza di un governo di sinistra. Sia per le politiche che fa sia per la presenza del Ncd. Il vero ministro del lavoro, in realtà, è Maurizio Sacconi. Le politiche che sta facendo Renzi sono quelle della Confindustria, dei poteri forti.
Renzi vi accusa di fare uno “sciopero politico” ricordando che contro la legge-Fornero non avete scioperato.
Questa è una cavolata doppia. All’epoca, lo sciopero i metalmeccanici lo hanno fatto e la Fiom è stato l’unico sindacato a manifestare contro il governo Monti. Se poi la critica è che il sindacato ha fatto poco, sono d’accordo. Ma se un errore è stato fatto, perché ripeterlo?
Cavolata contro cavolata?
Io la cavolata l’ho detta e l’ho riconosciuto. Ma le cose che sono state dette contro lo sciopero-ponte e contro i sindacati, non pretendono delle scuse? Chi sciopera perde 80-90 euro, è gente che merita rispetto. Anche loro hanno detto una cavolata. Chiedano scusa.
Lasciamo stare il Landini in politica. Siamo alla chiusura di una fase storica nel rapporto tra politica e sindacato?
Sì, c’è un fatto nuovo. Gli scioperi pongono il tema di un’autonomia dalle forze politiche. Aprono una fase nuova. Questo crea timore nelle forze politiche.
Perché?
Perché se il sindacato ha autonomia non risponde più a logiche di appartenenza e si confronta alla pari. Infatti c’è il tentativo di delegittimare il sindacato e di ridurlo a una dimensione aziendale e corporativa. Il sindacato solo nei luoghi di lavoro vuole dire cancellare un pensiero generale dei lavoratori in quanto lavoratori. Perché in quel caso il lavoratore non delega solo alla politica la rappresentanza generale. Questo è il tema nuovo. E se oggi si riconosce credibilità al sindacato è perché stiamo dimostrando di essere indipendenti.
Lei vorrebbe fare il segretario della Cgil?
C’è una cosa che viene prima, una riforma democratica dell’organizzazione e contrattuale: 280 contratti diversi non hanno più senso. Questa domanda di cambiamento pone l’esigenza di un ricambio e di un rinnovamento. Sono interessato a stare dentro questo processo, al di là del mio ruolo.
Sul Jobs Act Renzi non si fermerà. Che farà il sindacato?
Che il governo non intendesse fermarsi ci è stato chiaro fin dall’inizio. Ma anche noi non ci fermeremo.
Che significa?
Che impediremo che vengano applicate certe norme nelle aziende e nei territori. Se le imprese pensano che non succeda nulla, se lo scordino.
Quindi, una maggiore conflittualità?
Certamente. Ma non escludiamo nulla neanche sul piano giuridico. Non pensino che ci possono licenziare tranquillamente. Il lavoro deve avere dei diritti.
Non rimarrà soltanto un fuoco di paglia?
Vedo un livello di crisi sociale ed economica senza precedenti e un inedito livello di determinazione da parte delle persone e dei lavoratori. Erano anni che non si vedeva una cosa così.

Repubblica 23.11.14
La Camusso boccia Matteo “Non esiste una sinistra che elimina l’articolo 18”
Siamo stati paragonati a Salvini, una frase offensiva verso milioni di nostri iscritti e verso chi si batte per i diritti di milioni di lavoratori
Penso ai poveri conservatori inglesi dell’Ottocento che si rigirano nella tomba all’idea di essere paragonati alla Cgil
colloquio di Paolo Griseri


ROMA Matteo Renzi scrive a Repubblica che «ci sono due modi per cambiare l’Italia: farlo noi da sinistra o farlo fare dai mercati, da fuori ». Il giorno dopo Susanna Camusso riflette: «Chi c’è in quel “noi”?. Il “noi” di Renzi comprende solo il partito o anche il sindacato, le organizzazioni dei lavoratori? ». Nella crisi e nello scontro a sinistra sul jobs act non sono solo in gioco i provvedimenti: «C’è piuttosto un’idea a mio parere sbagliata che delega alle imprese, sciolte da ogni vincolo, lo sviluppo del paese come se la politica dovesse essere spettatrice e non protagonista. Uno scambio del tipo: io governo ti libero dalle leggi che tutelano i diritti minimi dei lavoratori e tu ti occupi di produrre, fare profitti e, se riesci, a dare lavoro». Una politica di stampo liberista..: «Sì ma all’italiana, un liberismo finanziato dallo Stato: il governo toglie tasse alle imprese e tutele ai dipendenti».
Il giorno dopo l’intervento del premier la segretaria della Cgil rivendica di non aver mai trasceso nei toni della polemica con il governo. «Nemmeno quando siamo stati paragonati a Salvini. Una frase offensiva verso milioni di nostri iscritti ma soprattutto verso chi si batte a Ragusa contro lo sfruttamento dei migranti nelle campagne o contro il nuovo schiavismo diffuso al sud come al nord, verso i tanti che operano per battere il caporalato». La ragione del paragone di Renzi era nel fatto che la Cgil aveva annunciato di appoggiare il referenudm contro la legge Fornero proposto dalle Lega: «Solo una visione autocentrata della politica può far leggere quel nostro annuncio come una dichiarazione di guerra alla sinistra. Al contrario il tentativo di non regalare alla Lega una battaglia contro la riforma Fornero che noi, all’epoca, abbiamo combattuto anche con lo sciopero. Perché il segretario del Pd oggi ci accusa di non aver fato abbastanza? Il Pd all’epoca votò a favore della legge Fornero e anzi, alcuni sindaci addirittura la sostennero. Noi lottammo, forse troppo poco».
Il gioco delle recriminazioni potrebbe portare lontano ma, riconosce Camusso, «rischia di essere sterile». Conta invece «l’impostazione che emerge dalla lettera di Renzi. Parte da un giusto presupposto, la libertà dei singoli. Ma su- bito si contraddice sostenendo l’abolizione dell’articolo 18. Arriva addirittura a sostenere che la libertà di licenziare crei occupazione. Come se la sterilizzazione dell’articolo 18 operata dal governo Monti avesse creato milioni di posti di lavoro. Ma soprattutto come se la possibilità di scambiare un diritto con una manciata di soldi potesse aumentare i diritti di chi è precario. Che questa possa essere l’impostazione di una parte delle imprese è comprensibile. Ma deve essere quella di un partito che si richiama ai valori della sinistra?». Si dice che a difendere l’articolo 18 sia rimasta la parte conservatrice della sinistra. Camusso sorride: «I conservatori dell’Ottocento che si rigirano nella tomba all’idea di essere paragonati alla Cgil».
Ci sono due sinistre? Una sinistra conservatrice e una innovatrice e rottamatrice? «Rottamare il bambino con l’acqua sporca non è mai stata una grande idea». Anche perché «lo sforzo della sinistra è sempre stato quello di estendere i diritti e le tutele. Si conquistano in un luogo di lavoro e si prova ad applicare negli altri. Così è avvenuto non solo nella storia del sindacato ma anche in quella di movimenti per i diritti civili, a partire dal movimento delle donne. Oggi invece siamo di fronte a una sinistra che trasforma una tutela in denaro, come hanno sempre tentato di fare i conservatori nei momenti a loro favorevoli. Da questo nasce lo spaesamento e la mobilitazione dei lavoratori di queste settimane». Sono stata tra le prime ad auspicare un grande partito plurale della sinistra che avesse come riferimento il lavoro, capace di trasformare il paese, ridurre le differenze aumentare le opportunità. Vedo invece che si va in direzione opposta, si divide e si separa e aumenta la diseguaglianza».
Come si esce da questo scontro, da questa contrapposizione? «Ascoltando le ragioni del lavoro », dice Camusso. Che osserva: «Non sono particolarmente appassionata ai Pantheon. Ognuno ha quelli che preferisce. Tanto più in una sinistra plurale, punto di incontro di tante esperienze e tante radici culturali. Però colpisce il fatto che nel Pantheon proposto da Renzi nella sua lettera non ci sia un esponente del lavoro». Una difficoltà che nasce forse dagli scontri di queste settimane.. «Sì, è possibile. Ma arriva anche da una delle contraddizioni del “renzismo”: dall’idea che nella teoria si vorrebbe una sinistra plurale e nella pratica si sostiene lo schema classico amico-nemico, chi non è con me è contro di me. Ebbene, di quella sinistra plurale fa parte anche l’organizzazione autonoma del movimento dei lavoratori, la possibilità per il sindacato di essere un interlocutore e non una semplice pedina del gioco tra buoni e cattivi». In questo periodo finite spesso nella seconda categoria: «E’ vero ma mi pare che dopo il successo della manifestazione del 25 ottobre, qualcosa anche stia cambiando. Anche solo perché si sente la necessità di sottolineare che si sta a difendere i più deboli». E non è vero? «Ci vorrebbero dei fatti concreti. Perché Renzi nel job’s act non abolisce quei contratti di precariato che dice di combattere? Perché se difende i deboli vara norme che puniscono i patronati? Basterebbe che trascorresse una mattinata in quei patronati a vedere i precari e i pensionati che si rivolgono allo sportello. Io lo faccio. E lì incontro i deboli».

La Stampa 23.11.14
E se avesse ragione la Camusso?
Sul lavoro il governo rischia il flop
di Luca Ricolfi


E se avesse ragione la Camusso?
Nel sollevare il dubbio, lo dico subito, non mi riferisco alle proposte economiche della Cgil, e tantomeno alla baruffa sull’articolo 18. No, il sospetto che abbia ragione la Camusso, e torto il governo, mi è venuto su un’unica questione, che però ai miei occhi è anche la più importante: la situazione del mercato del lavoro e i mezzi per creare nuova occupazione.
Cominciamo dal mercato del lavoro. Secondo Renzi negli ultimi sei mesi sono stati creati 153 mila posti di lavoro, che certo non bastano ma segnalano finalmente un’inversione di tendenza. Secondo i sindacati, invece, bisogna guardare anche alla qualità dei posti di lavoro, all’andamento della disoccupazione, alle ore di cassa integrazione.
Chi ha ragione? Difficile dirlo con sicurezza, ma il pessimismo sindacale appare più fondato dell’ottimismo governativo. Secondo l’Istat negli ultimi sei mesi l’occupazione è aumentata, ma di sole 70 mila unità. L’aumento di 153 mila posti di lavoro proclamato da Renzi è solo frutto di un ingenuo trucco statistico, che gli anglosassoni chiamano cherry picking (scegliersi le ciliegie), ovvero presentare solo i dati che ci danno ragione: in questo caso confrontare i dati di settembre non con quelli di 6 mesi prima (marzo), ma con quelli del mese più basso dell’anno (aprile, in questo caso).
Si potrebbe obiettare che, se consideriamo solo le ultime due rilevazioni, ossia agosto e settembre, l’aumento è di 83 mila posti di lavoro, un risultato decisamente positivo.
Ma qui intervengono ben tre contro-obiezioni dei sindacati. Primo, in attesa dei dati Istat più analitici, nulla sappiamo della qualità dei nuovi posti di lavoro, e tutto lascia pensare che l’aumento possa essere dovuto soprattutto alla sostituzione di posti di lavoro full-time con posti di lavoro part-time, una tendenza che non si è mai interrotta negli ultimi 10 anni. Secondo, fra agosto e settembre la disoccupazione non è affatto diminuita, bensì è aumentata di 48 mila unità. Terzo: sempre fra agosto e settembre sono esplose le ore di cassa integrazione, e questa tendenza è proseguita fra settembre e ottobre. Se si convertono le ore di cassa integrazione in posti di lavoro, e si correggono i posti di lavoro nominali con i posti di lavoro congelati dalla cassa integrazione, si scopre che l’occupazione reale (fatta di posti di lavoro in cui si lavora) non è aumentata di 83 mila unità ma è diminuita di 145 mila. Il che, forse, spiega l’aumento dei disoccupati registrato dall’Istat, un dato che ad alcuni è parso in contrasto con l’aumento dell’occupazione.
Primo round: Camusso 1, Renzi 0.
Ma passiamo al secondo round. Dice Renzi che «i sindacati passano il tempo a inventarsi ragioni per fare scioperi, mentre io mi preoccupo di creare posti di lavoro». Susanna Camusso gli risponde che «se fosse vero che il governo ha intenzione di creare posti di lavoro, le norme che ci sono nella legge di stabilità rispetto ai precari sarebbero tutte diverse». Sono convinto anch’io che talora i sindacati scioperino per scioperare, e naturalmente non nutro alcun dubbio sul fatto che Renzi desideri creare posti di lavoro. Però il punto sollevato dalla Camusso è di sostanza, non di buona o cattiva volontà. La domanda cruciale non è che cosa sogna Renzi, ma è se le norme varate dal governo, in particolare la riduzione dei contributi a carico del datore di lavoro prevista dalla Legge di stabilità, siano idonee a creare nuovi posti di lavoro, dove per «nuovi» si deve intendere posti che senza quelle norme non sarebbero mai nati.
Secondo la Cgil no: se Renzi puntasse davvero a massimizzare i nuovi posti di lavoro, «non distribuirebbe fondi a pioggia alle imprese, ma li vincolerebbe alle assunzioni». Qui le obiezioni della Cgil collimano perfettamente con le perplessità degli studiosi, che si possono riassumere in almeno cinque osservazioni.
Primo: la decontribuzione riguarda solo gli assunti nel 2015, quindi non potrà fornire una spinta permanente all’economia. Secondo: la decontribuzione non richiede all’impresa beneficiaria di aumentare l’occupazione e quindi, nella maggior parte dei casi, si risolverà in un regalo alle imprese. Terzo: è molto improbabile che i pochi fondi stanziati per il 2015 (1,9 miliardi) bastino a coprire le richieste, che saranno tantissime proprio perché nulla si pretende dalle imprese. Quarto: la previsione governativa che i lavoratori assunti con la nuova formula siano 1 milione implica che i relativi posti di lavoro siano quasi tutti part-time, un po’ come i mini-job alla tedesca (lo sgravio medio preventivato dal governo è di soli 5000 euro per addetto, più o meno quel che paga un datore di lavoro per un assunto part-time). Quinto: proprio perché non può creare un numero apprezzabile di posti di lavoro addizionali, la decontribuzione governativa non si finanzia da sé (attraverso l’aumento del Pil generato dai nuovi posti di lavoro), ma richiede ogni anno di essere rifinanziata, cosa per cui il governo non ha le risorse.
Fine del secondo round: Camusso 1, Renzi 0.
Arrivati a questo punto, qualche lettore potrebbe obiettare che è tutto da dimostrare che la decontribuzione prevista dal governo non produrrà molti posti di lavoro. E allora lasciamo parlare il governo. Nella Legge di stabilità (che è scritta dal governo, non da me) si prevede che l’impatto complessivo delle decine e decine di misure della legge stessa sia di appena 40 mila nuovi posti di lavoro. Anche assumendo che tutte le altre misure non creino un solo posto di lavoro, e che l’intero merito vada alla sola decontribuzione, si tratta di un risultato davvero modesto. Un risultato che è reso ancora più deludente dalla lettura di quel che la Legge di stabilità prevede per il lontano 2018: un tasso di occupazione e un tasso di disoccupazione quasi identici a quelli attuali, con circa 3 milioni di disoccupati.
Se queste sono le prospettive, forse non sarebbe male che il governo, fra un tweet e l’altro, trovasse cinque-minuti-cinque per ascoltare non solo la Cgil ma le tante voci che, in queste settimane, hanno posto il medesimo problema: la norma prevista dal governo non pare lo strumento più incisivo per creare veri nuovi posti di lavoro. Ne ha scritto Tito Boeri sul sito lavoce.info, ne abbiamo parlato noi, come Fondazione Hume e come Stampa, con la proposta del job-Italia, ne ha discusso Confartigianato pochi giorni fa a Torino, ne ha parlato più volte in pubblico Giorgia Meloni, che sul nodo fondamentale della «addizionalità» dei posti di lavoro ha anche depositato un emendamento al Jobs Act.
Su una questione come questa, il presidente del Consiglio non può cavarsela con una battuta. Perché, è vero, la Cgil troppo spesso ha lo sguardo rivolto al passato, ma in questo caso è vero precisamente il contrario: la battaglia per creare nuovi posti di lavoro è la battaglia cruciale del nostro futuro.

Corriere 23.11.14
Il Jobs act percepito come «svantaggioso»
E un italiano su due ne ignora i contenuti
Prevale l’idea che favorisca le imprese e non aiuti la ripresa dell’occupazione
di Nando Pagnoncelli


A pochi giorni dal voto finale sul Jobs act meno di un italiano su due dichiara di conoscere i contenuti della riforma del lavoro, in particolare il 9% la conosce in dettaglio e 36% nei suoi aspetti principali.
L’attenzione è stata in larga misura monopolizzata dalle modifiche all’articolo 18 e le opinioni sulla riforma sembrano influenzate dal clima surriscaldato che ha accompagnato il dibattito e dalla forte contrapposizione tra il presidente del Consiglio Renzi e i sindacati, gli avversari politici e la minoranza del suo partito.
Un intervistato su due non crede che il Jobs act favorirà l’aumento dell’occupazione e la ripresa economica, mentre il 18% si dichiara fiducioso. Il pessimismo prevale tra gli elettori di tutti i partiti e soprattutto tra i laureati e i ceti dirigenti che più di altri sono consapevoli del fatto che in assenza di crescita economica la riforma del lavoro rappresenti una condizione necessaria ma non sufficiente a migliorare significativamente la situazione occupazionale.
I pareri sui possibili effetti della riforma del lavoro sono abbastanza variegati. Spicca l’idea che saranno avvantaggiate le imprese ma non i lavoratori: è di questo avviso il 28% degli italiani, con punte decisamente più elevate tra i lavoratori (impiegati, insegnanti, operai e lavoratori esecutivi), in particolare quelli del settore privato, e tra i disoccupati; il 20% è fortemente critico e ritiene che saranno svantaggiati tutti, imprese e lavoratori. A costoro si contrappone il 16% di ottimisti (prevalentemente anziani e pensionati) che prefigurano vantaggi sia per le imprese sia per i lavoratori. Infine, solo il 3% prevede vantaggi per i lavoratori ma non per le imprese. La bilancia sembra quindi pendere più a favore degli imprenditori che dei loro dipendenti.
Non stupisce dunque che prevalgano gli atteggiamenti difensivi, anche nel caso di licenziamento per motivi disciplinari: il 63 per cento si dichiara favorevole al mantenimento dell’obbligo di reintegro in assenza di giusta causa (in particolare gli operai, i dipendenti del settore pubblico, gli elettori del Movimento 5 Stelle e del Partito democratico) mentre il 26% concorda con l’indennizzo economico.
In definitiva, sebbene prevalga il pessimismo sui suoi effetti, il 57% degli italiani prevede che la riforma del lavoro andrà in porto nei prossimi giorni, mentre il 27% pensa che si arenerà. Le reazioni dell’opinione pubblica al Jobs act suggeriscono alcune considerazioni.
La prima riguarda la comunicazione, che risulta cruciale soprattutto in presenza di un modesto livello di informazione dei cittadini. Nonostante le sue indiscusse capacità comunicative, Renzi con il Jobs act non sembra aver centrato l’obiettivo: infatti, il messaggio prevalente percepito dai cittadini nell’acceso dibattito di queste settimane è quello della perdita della sicurezza del posto di lavoro, complice un contesto economico estremamente critico. Inoltre non si è colto il nesso tra la riduzione delle tutele, che pure riguardano una parte limitata dei lavoratori interessati dall’articolo 18, e la maggiore facilità di ingresso nel mondo del lavoro. Infine è mancata la rassicurazione di una rete di protezione compensativa, in termini di sussidi e di possibilità di un rapido reinserimento, nel caso di perdita del posto di lavoro. Insomma, l’incertezza e la paura sembrano prevalere sulla fiducia che le opportunità occupazionali aumentino e il mercato del lavoro possa diventare più dinamico.
La seconda riguarda il calo di consenso nei confronti del governo e del premier registrato nelle ultime settimane, probabilmente da attribuire anche ai giudizi critici sulla riforma del lavoro. Oggi assistiamo a una minore popolarità del governo che si aggiunge alla crescente perdita di fiducia nei sindacati, screditati sia dal basso (per la crisi di rappresentanza) che dall’alto (per il conflitto con Renzi). La svalutazione dei corpi intermedi pone un problema di mediazione sociale perché si stanno riducendo le possibilità di rappresentare il dissenso e di negoziare soluzioni e si apre la strada a forme di protesta «fai da te».
Da ultimo il rapporto tra i cittadini e le riforme del lavoro. Quelle adottate negli ultimi anni (legge Biagi, riforma Fornero) sono risultate molto impopolari, peraltro non diversamente dalla maggior parte delle riforme attuate nel nostro Paese. È noto che la stragrande maggioranza degli italiani rivendica riforme, ma si tratta sempre delle riforme che non li riguardano in prima persona, sono quelle degli altri. Non a caso anche il Jobs act viene maggiormente apprezzato da anziani e pensionati, cioè dai cittadini che non sono toccati direttamente dalla questione occupazionale.

Repubblica 23.11.14
Le nuove povertà che bussano alla nostra porta
Siamo già entrati in una fase in cui le migrazioni di massa non saranno pacifiche ma scateneranno scontri violenti e mutamenti politici rilevanti
di Eugenio Scalfari

IL TEMA che oggi desidero trattare è quello quanto mai attuale della povertà. C’è sempre stata da che esiste il mondo, ma oggi la società globale nella quale viviamo l’ha reso diverso da precedenti epoche ed è appunto questa diversità che dev’essere approfondita.
Prima però, come talvolta accade in questo nostro appuntamento domenicale, dedicherò una premessa alla lettera che il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha indirizzato ieri al direttore del nostro giornale. Non spetta a me rispondergli ma una breve considerazione personale ritengo debba esser fatta.
Quella lettera mi è piaciuta. Spiega che la sua è una politica di sinistra e lo spiega con dovizia di persuasivi argomenti. Sostiene che la sinistra va cambiata per essere adeguata al mondo moderno ma mantenendo fermi i suoi principi che riassume identificandoli con la difesa dei deboli e degli esclusi. Afferma anche che il Pd non è un suo partito personale e che hanno torto quelli che dicono che lui comanda da solo. Questo lo avevo scritto io domenica scorsa e lui se ne era già pubblicamente risentito. Mi spiace rispondere che io continuo ad esserne convinto, come sono convinto che non basta sostenere d’essere per il cambiamento perché si può cambiar bene ma anche cambiar male.
A parte queste due osservazioni critiche confermo che la sua lettera mi è piaciuta e ne condivido il contenuto. Purtroppo però essa corrisponde assai poco alla realtà che il nostro Paese sta vivendo e che la politica del governo non è ancora riuscita a modificare. Renzi fa annunci ai quali finora non sono seguiti fatti.
ILsolo intervento concreto è stato il bonus degli 80 euro, dieci miliardi purtroppo buttati al vento che graveranno sul bilancio dello Stato fino al 2016 e forse oltre. Avrebbe dovuto utilizzarli per creare nuova domanda e nuova offerta di investimenti. Per il resto nulla abbiamo visto finora.
Ora il confronto si sposta in Europa. Molti auguri, caro Matteo, a te e a tutti noi, sperando di non uscirne con le ossa rotte ma anzi con un netto miglioramento delle nostre condizioni.
* * *
Che cos’è la povertà e come si può combattere? Esistono molte ricette, per giudicare la povertà bisogna rivisitare il passato. Papa Francesco ne ha parlato infinite volte e proprio in questi giorni ne ha parlato ancora. Cito una sua frase che risponde con molta chiarezza alla domanda che ho qui posta: «Che cos’è la povertà? Di questo solitamente si tace, si sottolineano molto i soldi che mancano per creare lavoro, per investire in conoscenza, in formazione, per progettare un nuovo welfare e per salvaguardare l’ambiente. È giusto, ma il vero problema non sono i soldi che da soli non creano sviluppo. La loro mancanza è diventata una scusa per non sentire il grido dei poveri e la sofferenza di chi ha perso la dignità di portare a casa il pane perché ha perso il lavoro. Il rischio è che l’indifferenza ci renda ciechi, sordi e muti, presenti solo a noi stessi con lo specchio davanti. Uomini e donne chiusi in se stessi. C’era qualcuno così che si chiamava Narciso. Quella strada no. Noi siamo chiamati ad andare oltre, il che vuol dire allargare, non restringere, creare nuovi spazi e non limitarsi al loro controllo. Andare oltre significa liberare il bene e goderne i frutti». Così papa Francesco e “L’Osservatore Romano” che pubblica interamente il suo messaggio e lo intitola appunto “La trappola di Narciso”.
Aggiungo a questa del Papa un’altra citazione che traggo da una poesia d’amore di Pablo Neruda. S’intitola “La povertà” e alcuni versi, rivolti alla donna amata, suonano così: «Amore, non amiamo / come vogliono i ricchi / la miseria. Noi / la estirperemo come dente maligno / che finora ha morso il cuore dell’uomo».
«Se non puoi pagare l’affitto / esci al lavoro con passo orgoglioso / e pensa, amore, che ti sto guardando / e uniti siamo la maggior ricchezza / che mai s’è riunita sulla terra».
La “caritas” verso il prossimo di Francesco e l’amore verso la sua donna di Neruda: due modi entrambi fondati sull’amore come unica soluzione per sfuggire la miseria e fare dei poveri e degli esclusi il primo obiettivo della nostra vita.
* * *
Le civiltà antiche avevano come fondamento la schiavitù e questa situazione durò molto a lungo, quasi fino ai tempi moderni cambiando di nome ma restando nella sua essenza sempre presente in gran parte del mondo. Ci furono i servi della gleba, le “anime morte” e i poveri.
I ceti dirigenti e possidenti consideravano la povertà come una sorta di schiavitù. I poveri non potevano esprimersi e partecipare alla vita pubblica e alle istituzioni che la guidano. Erano tutt’al più carne da cannone quando c’erano le guerre. I poveri in guerra mettevano a servizio delle classi dirigenti tutta la violenza repressa che gli covava dentro.
Ad un certo momento però nacque in alcune zone del mondo la libertà o meglio il diritto di libertà. Quel diritto reclamava, tra le tante altre cose, la lotta contro la povertà poiché la sua presenza avrebbe di fatto limitato ai ceti abbienti la capacità d’esser liberi. Le persone con scarsi redditi sono giuridicamente libere ma non hanno la capacità di esserlo.
Se guardiamo, tanto per fare un esempio, all’Egitto di oggi e agli altri Paesi della costiera meridionale del Mediterraneo ci rendiamo conto di che cosa sono state le cosiddette primavere arabe: il tentativo d’una gioventù povera che voleva uscire dalla povertà e conquistare i diritti di libertà che in teoria erano legalmente riconosciuti.
Ebbero successo all’inizio, ma poi sono naufragate una dopo l’altra quando la plebe dei poveri è stata chiamata all’appello dal ceto dominante ed ha respinto obbedendo alla consueta e inevitabile servitù.
I poveri insomma sono la palla al piede della democrazia. Lo erano nel mondo antico e lo sono ancora oggi.
***
La società globale però, in cui da almeno trent’anni viviamo con l’affermarsi delle nuove tecnologie, ha introdotto alcune notevoli differenze la prima delle quali è l’emergere di nuovi Stati poveri verso un benessere prima sconosciuto e contemporaneamente l’aumento della miseria in zone del mondo già povere. Le diseguaglianze si sono accresciute in misura sconvolgente.
Questa situazione ha portato le migrazioni ad un livello mai conosciuto prima. Da quando l’uomo è apparso sulla terra il fenomeno delle migrazioni è sempre stato presente e dominante, ma riguardava comunità relativamente piccole. Ora siamo otto miliardi di persone e continueremo ad aumentare secondo tutte le previsioni, ma le enormi diseguaglianze hanno reso le migrazioni un fenomeno che già ora e sempre più in futuro diventerà dominante. Centinaia di milioni di persone vorranno trasferirsi da Paesi in preda alla miseria ed alla barbarie vera e propria verso luoghi più ricchi e più pacifici. L’Europa in particolare è destinata a diventare un paese meticcio, cioè una mescolanza di etnie che in parte già c’è ma il livello del meticciato è destinato a crescere in misura esponenziale.
***
Siamo già entrati in una fase in cui le migrazioni di massa non saranno affatto pacifiche ma scateneranno scontri violenti ed anche mutamenti politici rilevanti. In Italia, in Francia e in altri Paesi d’Europa queste reazioni sono già in atto ma destinate a crescere. Metteranno in discussione la moneta unica e faranno risorgere i nazionalismi come reazione all’ideale dell’unità europea.
Spesso questi mutamenti politici non vengono connessi con l’immigrazione ed è invece proprio quella la loro motivazione profonda.
L’antidoto non è quello di abolire la diseguaglianza, che entro certi limiti è perfino un elemento di stimolo della produttività del sistema, ma di contenerla entro limiti accettabili. E qui entra in gioco, tra i vari fattori, anche quello religioso come elemento di ulteriore scontro tra le etnie migratorie da un lato e come elemento potenzialmente positivo di fraternità dall’altro.
Papa Francesco predica la fraternità tra le religioni perché Dio è ecumenico ed è lo stesso per tutti, non è cristiano, non è musulmano, non è asiatico: è Dio per tutti. «Noi cattolici — ha detto più volte — parliamo tutte le lingue del mondo, cioè cerchiamo di capire gli altri e di amarli perché questo è il solo modo di amare Dio. Si chiama “agape”».
Ecco, “l’agape” è uno dei modi per sconfiggere la povertà e render pacifiche le migrazioni di massa. Concludo con i versi di Neruda dalla poesia che abbiamo già citato: «Ahi, non vuoi, / ti spaventa / la povertà, / non vuoi / andare con scarpe rotte al mercato / e tornare col vecchio vestito (...) se la povertà scaccia / le tue scarpe dorate, / che non scacci il tuo sorriso che è il pane della mia vita».
È questo che tutti vogliamo.

La Stampa 23.11.14
Ora i leader temono la piazza
La protesta dilaga e i leader rischiano addirittura di essere aggrediti
di Mattia Feltri


La piazza è una bestia strana: anche quando è piccola fa rumore. Le contestazioni a cui è stato sottoposto nelle ultime settimane Matteo Renzi sono contestazioni di gruppi scarni, ma ripetute: a Bergamo, a Parma, a Ferrara, a Napoli, a Modena.
Succede perché la piazza è il luogo quasi esclusivo degli arrabbiati e di rado si concede all’applauso, a meno che non si tratti di piazze organizzate. E però questo è il tempo che nemmeno le piazze organizzate vanno bene; nel suo giro elettorale in Emilia Romagna e in Calabria, il premier è rimasto al riparo di disoccupati, sindacalisti e altri rabbiosi: a Parma si è limitato a un incontro col sindaco a cinque stelle Federico Pizzarotti, a Bologna ha parlato a PalaDozza e venerdì, a Cosenza, si è dovuto accontentare del piccolo auditorium Antonio Guarasci (ottocento posti) nel liceo classico Telesio. Lo ha deciso il prefetto poiché c’era pericolo di contestazioni dei centri sociali, e infatti polizia e ragazzi se le sono date nell’attesa che arrivasse l’ospite. Un tour abbastanza deprimente per un leader politico che alle ultime Europee ha raccolto consensi quasi mai visti in Italia, che si spende per guadagnare voti al partito - e il tuffo nella folla sarebbe indispensabile - e che all’inizio dell’incarico a Palazzo Chigi prendeva incoraggiamenti e pacche sulle spalle a ogni passeggiata, soprattutto durante le visite del mercoledì alle scuole. I siti erano colmi di foto di studenti a braccia tese per ricevere il cinque del presidente del consiglio. Anche le visite del mercoledì - forse per troppi impegni - sono terminate e dimenticate.
Non sono guai esclusivi del governo (ha saggiato il saporaccio dei fischi pure il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti). Persino l’europarlamentare leghista Mario Borghezio - uno che in piazza si muove a fiuto come un cane da caccia - ieri è stato maltrattato all’Eur, che pure non è estrema borgata, ma elegante quartiere periferico romano: si sfilava contro il mare di prostitute che animano le notti, e Borghezio è stato invitato a mettersi in coda, il massimo concesso a un politico genericamente accusato di appartenere alla categoria responsabile del degrado. A Tor Sapienza era andata appena meglio, per il motivo che Borghezio s’era limitato a dire due parole di solidarietà in un bar dov’era arrivato con la rassicurante scorta di Casa Pound: in strada non lo si è visto. Non è solamente una questione di trasferta fuori giurisdizione per uno della Lega - problema serio per il segretario Matteo Salvini deciso a raccogliere consensi dove il suo partito non ne ha mai presi - ma piuttosto di insofferenza irrimediabile alla sfilata del giorno dopo. Altrimenti non si capirebbero le ragioni del brutto pomeriggio trascorso proprio a Tor Sapienza dalla senatrice grillina Paola Taverna, una riconoscibile per dirompente romanità popolana. Ma nella non del tutto razionale furia antipolitica - alimentata per nemesi soprattutto dai cinque stelle - non è più tollerato che i signori della casta («io non sono una politica», diceva disperatamente la Taverna, «e che sei, della Caritas?», le ha risposto sarcastico il presidiante) compaiano in favore di telecamera a guasti compiuti.
Il primo, nel mondo fatato della democrazia dal basso, era stato proprio Grillo maltrattato nella sua Genova nei giorni del fango. Non fare passerella, vieni qui a spalare, gli hanno gridato, e a lui non pareva possibile di essere destinatario di una lezione popolare. Praticamente non lo si è più visto. Ogni tanto dice cose così enormi da risultare innocue (per esempio che i morti di Genova stanno sulla coscienza del premier), piuttosto sono manifeste la timida comparsata in Emilia e la diserzione in Calabria, dove si prevedono risultati elettorali scoraggianti. La rinuncia alla piazza - per stanchezza o per timore del declino - fa impressione perché l’avventura politica di Grillo si avviò con lo straripante VaffaDay dell’8 settembre 2007, decine di piazze d’Italia collegate con quella di Bologna aizzata dal comico. E così, in questo autunno nervoso, in piazza non ci va più nessuno, a parte Salvini che infatti rischia il linciaggio a Bologna, e non sarebbe aria nemmeno per calibri più energici. Non ci va Silvio Berlusconi perché non può, ma non ci andava praticamente più da quando si prese la disgraziata miniatura del Duomo in bocca, e non ci vanno per senso della realtà quelli dei partiti a corollario della maggioranza. I forti e i deboli: tutti improvvisamente espulsi dal luogo dove la politica nacque.

il Fatto 23.11.14
Onesto a chi?
di Antonio Padellaro


Maurizio Landini ha sbagliato a dire che Matteo Renzi “in questo Paese non ha il consenso delle persone oneste”, e infatti se n’è scusato.
Non ha invece fatto ammenda per l’errore davvero imperdonabile che ha commesso pronunciando la parola “onestà”, una caduta di stile insopportabile come gli fanno notare illustri editorialisti su autorevoli quotidiani, ma a nostro sommesso avviso senza la necessaria durezza. A questo sindacalista che si ostina ad alzare la voce e a gesticolare ogniqualvolta si parla di lavoratori in esubero o in attesa di nuova collocazione (lui li chiama “disoccupati”, termine dal suono piuttosto volgare) bisognerebbe insegnare oltre alla buona creanza un uso più accorto della lingua italiana.
Onestà è un’espressione intrisa di quel moralismo e di quella morale (ultimo rifugio dei farabutti parafrasando Samuel Johnson quando parlava del patriottismo) che fino dai tempi di Enrico Berlinguer hanno fuorviato intere generazioni con una visione settaria e violenta che non a caso trova le sue radici “nella mistica della ghigliottina tanto cara a Robespierre”, come acutamente ha notato Pierluigi Battista sul Corriere della sera.
Chi siamo noi, per distinguere l’onesto dal disonesto poiché se è opinabile definire qualcuno, per esempio, corrotto (anche se fosse colto mentre intasca una tangente sarebbe colpevole, ricordiamolo, solo dopo il terzo grado di giudizio e sempre che non scatti una legittima prescrizione o qualche benedetto indulto), siamo sicuri caro Landini che i suoi presunti “onesti” lo siano per davvero e non nascondano, per dire, qualche multa non pagata e che al bar richiedano sempre lo scontrino?
E poi, come opportunamente si chiede Cesare Martinetti, sulla Stampa, chi è per Landini “chi lavora? ”. “Gli iscritti alla Fiom? ”. “Tutti? ”. Eh, eh, ci siamo capiti...
Davvero intollerabile, infine, è la discriminazione quasi razzista della dicotomia landiniana tra buoni e cattivi: non siamo forse tra i paesi al mondo dove girano più mazzette (superiamo perfino il Ghana) senza contare il record planetario dell’evasione fiscale e l’impunità assicurata a tutti coloro che possono permettersi un bravo avvocato anche se, per ipotesi, avessero mandato al creatore tremila persone avvelenandole con l’amianto?
E delle mafie che comunque danno lavoro a tante brave persone, che ne vogliamo fare?
Lo sa il virtuoso Landini che l’economia illegale tiene a galla gran parte della nostra meravigliosa penisola? Vuole forse le barricate per le strade in nome di un astratto concetto di etica con cui, diciamolo non si mai sfamato nessuno (caso mai è il contrario)? Quindi caro segretario della Fiom, faccia la cortesia, riponga nel cassetto certe visioni passatiste e demagogiche. Per dirla con il pragmatico Giuliano Ferrara “la smetta di farci perdere tempo”, si rassegni al nuovo che avanza ed eviti di dare spago “a una questione morale, o meglio moralistica che autorizza il rilancio di un’atmosfera girotondina che la difficile situazione sociale sta rendendo sempre più avventuristica e drammatica” (Martinetti). Lasci lavorare in pace il nostro amato premier che sta “rivoluzionando il Paese da sinistra” (Repubblica). E la smetta di usare parole che possono essere delle vere bombe. Dia retta, se anche gli onesti esistessero, per ragioni di alta politica e di ordine pubblico andrebbero chiamati diversamente disonesti. O meglio ancora “cosi”, come ci insegna il compagno Lotito.

il Fatto 23.11.14
Sinistra per caso
Sussidi, acqua e alluvioni: i soldi negati ai più deboli
La pioggia vi ha distrutto la casa? Addio risarcimenti
Nonostante una legge del 2013, i governi non hanno stanziato neanche un euro
I cittadini sono avvisati
di Marco Palombi


Quando qualcuno dirà ancora spending review oppure - nel caso sia un tecnico di fede brussellese - consolidamento fiscale, ricordatevi quanto segue: se per disgrazia un’alluvione o un terremoto distruggerà la vostra casa è assai probabile che lo Stato non vi darà una mano a ricostruirla. Come dimostrano i dati che seguono, infatti, l’Italia ha praticamente abdicato ai doveri di solidarietà verso i suoi cittadini. Solo nel 2013-2014 il governo ha dovuto emanare per 27 volte lo “stato d’emergenza” per eccezionali eventi atmosferici in territori che coinvolgono quasi tutte le regioni italiane: dopo la prima emergenza - quella in cui la Protezione civile si occupa di salvare la vita alle persone, dar loro cibo, un tetto e cure – non resta mai neanche un euro per la seconda fase, quella in cui bisognerebbe ristorare le perdite subìte tanto dai privati che dal pubblico.
IN QUESTO BIENNIO a richieste di danni per complessivi 4,5 miliardi (senza contare la nuova alluvione in Liguria di una settimana fa) i governi Monti, Letta e Renzi hanno risposto con stanziamenti per 315,9 milioni in tutto, soldi che sono stati usati tutti per gestire le emergenze (nell’apposito Fondo nazionale, per dire, in questo momento non c’è neanche un euro). Eppure non si tratta di una cosa di cui la politica non si sia occupata: l’ultimo intervento legislativo sul tema è dell’estate 2013 (governo Letta) e prevede che Protezione civile e Regioni facciano una “ricognizione dei fabbisogni per il ripristino delle strutture e delle infrastrutture, pubbliche e private, danneggiate, nonché dei danni subiti dalle attività economiche e produttive” per poi procedere al ristoro “entro i limiti delle risorse finanziarie disponibili”.
Ecco, il numero dei relativi stanziamenti chiarirà al lettore (o ai commercianti di Genova a cui Matteo Renzi ha promesso risarcimenti via Facebook) cosa aspettarsi in un caso del genere: zero, neanche un euro. Alle regioni, però, durante il governo Monti è stata assegnata una possibilità che aggiunge il danno alla beffa: se proprio gli servono i soldi per rimettere a posto le cose, possono sempre alzare le tasse locali.
Scorrere l’elenco delle 27 emergenze di questi ultimi due anni significa ricordare storie, volti, vittime, territori disastrati apparsi nei telegiornali e presto dimenticati. Tra piogge e trombe d’aria, ad esempio, questa estate pezzi di Lombardia sono stati strapazzati dal maltempo: 87 milioni di danni secondo la ricognizione, ma lo stanziamento è stato di soli 5,5 milioni di euro. In Abruzzo, l’alluvione verificatasi tra il novembre e il dicembre 2013 ha causato 296 milioni di danni: il governo ne ha concessi 13.
LA STESSA STORIA si ripete dovunque: la Basilicata è stata colpita due volte tra gennaio e febbraio per 261 milioni di danni certificati, ne ha avuti in tutto 21,5; due emergenze anche in Calabria (novembre 2013 e febbraio 2014) che comportano risarcimenti per quasi 300 milioni a fronte di uno stanziamento governativo di 2,8 milioni. Ci sono casi peggiori. Guidano la fila le Marche: in due successivi disastri atmosferici (autunno 2013 e primavera 2014) Regione e Protezione civile hanno contato distruzioni per 764 milioni in tutto, da Roma sono arrivati 30 milioni. Oppure l’Emilia Romagna: 4 stati di emergenza (al netto del terremoto del 2012), danni totali per circa 550 milioni, fondi per 62 milioni. E poi ci sono la Toscana - quattro emergenze anche qui tra alluvioni, piogge torrenziali, trombe d’aria e 532 milioni di danni conteggiati a fronte di un contributo di 41,8 milioni - e il Lazio, dove le piogge di inizio anno hanno causato danni per 427 milioni cui il governo ha reagito con uno stanziamento di 22 milioni e mezzo.
Giova ribadirlo: la seconda fase, quella dei risarcimenti, a Roma non è mai partita. Il capo della Protezione civile, Franco Gabrielli, ha sostenuto più volte che – se questo è lo stato della finanza pubblica – allora l’unica soluzione per garantire i risarcimenti è “l’assicurazione obbligatoria contro le calamità” (com’è ora per la Rc auto, per capirci): solo che oltre a essere un ulteriore costo per cittadini e imprese, l’assicurazione obbligatoria andrebbe accompagnata da sgravi fiscali e dunque avrebbe un costo per l’erario in termini di mancati incassi. Il sottosegretario Graziano Delrio, qualche giorno fa a Genova, non s’è sbilanciato: “Vediamo... ”. Sperando che il piano contro il dissesto idrogeologico da 9 miliardi in 7 anni lanciato da Renzi funzioni: niente risarcimenti, ma almeno meno gente da risarcire.

il Fatto 23.11.14
Nuove solidarietà, DDL ambiente
E ora si potrà staccare l’acqua ai morosi
Non c’è più l’articolo che garantiva fornitura minima a chi non riesce a pagare le bollette
di Ma. Pa.


L’acqua, finora, è stata almeno una specie di tabù. La giurisprudenza, d’altronde, l’aveva sempre considerata un bene primario, un servizio connesso anche all’articolo 32 della Costituzione, quello che “tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Eppure qualcuno osava staccarla comunque: qualche inquilino che non aveva pagato le bollette e qualche occupante s'erano svegliati la mattina e dal rubinetto non usciva più niente.
PER EVITARE equivoci, quindi, il governo Letta aveva inserito norme apposite nel cosiddetto “collegato ambientale”, un testo che è da un annetto in Parlamento e scade il prossimo 31 dicembre: l’Autorità per l’energia e i ministeri interessati dovevano individuare il modo di ridurre la morosità, anche attraverso un fondo di garanzia statale che ripagasse i gestori del servizio, e garantire comunque “il quantitativo di acqua necessario al soddisfacimento dei bisogni fondamentali di fornitura di acqua per gli utenti morosi”. L’allora ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, lo aveva spiegato così: “Non si può lasciare all’azienda la facoltà di decidere del distacco dell’acqua. Bisogna garantire procedure adeguate, vista la specificità del bene acqua, che è un bene fondamentale per la vita umana”. Tutto giusto, poi il governo è cambiato e all’Ambiente è arrivato Gian Luca Galletti e alle Infrastrutture Maurizio Lupi, ministro che ha profondamente in spregio occupanti e morosi: come che sia, il 13 novembre la Camera ha finalmente approvato il “collegato ambiente”, solo che l’articolo sui distacchi dell’acqua, il numero 26, è misteriosamente sparito. Dello strano caso - che getta una luce non proprio benevola sul meccanismo con cui si fanno le leggi nel nostro Parlamento - s’è accorta Federica Daga, deputata del Movimento 5 Stelle espertissima del tema acqua.
A quanto sembra dai resoconti è andata così. Il 4 settembre la commissione Ambiente approva finalmente il ddl presentato da Orlando (compreso l'articolo 26) e lo invia alle altre commissioni perché esprimano un parere sulle parti che le riguardano. Passa un mese e tutti rispondono: il 9 ottobre il relatore Alessandro Bratti (Pd) presenta alcuni nuovi emendamenti in cui recepisce “i rilievi recati nei pareri di talune commissioni” e fa “interventi di coordinamento sostanzialedel testo”. È in questo pacchetto che compare l’emendamento 26.100 che sopprime l’articolo interessato, quello che impedisce di staccare l’acqua ai morosi, approvato in blocco con tutto il resto e in tutta fretta (la Ambiente in queste settimane s’è occupata pure del decreto Sblocca-Italia e ora dovrà esaminare la manovra).
C’È UN PROBLEMA: nessuna commissione aveva chiesto di sopprimere l’articolo 26 e difficilmente la cancellazione di una norma di questo genere può essere qualificata come “coordinamento del testo”. In Aula, purtroppo, nessuno ha pensato di sottolineare la cosa e sopprimere la soppressione. Ora il “collegato ambiente” è in Senato e va approvato entro la fine dell’anno, pena la decadenza: sarà difficile, insomma, correggerlo e farlo tornare alla Camera in tempo. Si conferma, in definitiva, il vecchio adagio di Otto von Bismark: “Meno le persone sanno di come vengono fatte le salsicce e le leggi e meglio dormono la notte”.

il Fatto 23.11.14
Non gli dà un euro
La supercazzola sui sussidi ai precari
La sinistra Pd contro il Jobs Act “Niente soldi ai nuovi ammortizzatori sociali, Matteo voleva solo la libertà di licenziare”
di   Marco Palombi


L’ufficialità è arrivata nella tarda serata di venerdì. Il governo ha messo in votazione il suo emendamento sui fondi da assegnare ai nuovi ammortizzatori sociali previsti dal Jobs Act: quelli che dovrebbero essere universali e permettere a “Marta, 28 anni, che è incinta ma non ha il diritto alla maternità a differenza delle sue amiche dipendenti pubbliche” - il personaggio che Matteo Renzi chiama in ballo per spiegare quant’è di sinistra - di partorire senza stare troppo a preoccuparsi (ammesso che non abbia perso il lavoro proprio perché è incinta). Ebbene, da venerdì sera quella del premier è ufficialmente una bugia.
ELENCHIAMO I FATTI. La legge delega sul lavoro - noto come Jobs Act - sostiene che verrà creato un sistema di sussidi universali: non più solo i garantiti, ma anche i precari potranno avere l’assegno di disoccupazione o la maternità e in più la formazione e l’accompagnamento verso un nuovo posto di lavoro. In cambio, viene abolita la Cassa integrazione in deroga: il sostegno al reddito è legato alla persona, questa la filosofia di base, non al posto di lavoro. Diciamo pure che sia una buona idea, ma ovviamente è più costosa rispetto agli attuali ammortizzatori sociali appannaggio dei soli “garantiti”. E qui i conti cominciano a non tornare: di sola Cassa in deroga, infatti, nel 2014 spenderemo un po’ di più di due miliardi di euro (erano tre l’anno prima). E quanto ha messo da parte il governo per i fantomatici (e mai definiti nel dettaglio a tutt’oggi) nuovi ammortizzatori sociali universali? Un miliardo e 700 milioni in tutto, cioè meno di quanto si è speso quest’anno per la Cig in deroga. Cosa si paga con una cifra del genere? Niente che possa definirsi “universale”, né che renda più di una bugia la frase “nella legge di stabilità 2015 avremo le risorse per ampliare la gamma degli ammortizzatori sociali riducendone il numero” (Renzi lo annunciò alle Camere a settembre).
La supercazzola del presidente del Consiglio sugli ammortizzatori sociali disegnati dal Jobs Act non è peraltro senza effetti politici: estenderli anche a chi non li ha era l’ultima frontiera dietro cui s’era asserragliata la minoranza del Pd. Ieri Gianni Cuperlo, sfidante di Renzi alle primarie, è stato insolitamente netto. “Così come è, il Jobs Act non lo posso votare, ha scandito ieri all’assemblea costitutiva di “Sinistra-Dem” a Milano: “In quel ddl delega ci sono rischi gravi e seri di incostituzionalità”, ad esempio “sugli aspetti di disuguaglianza che si creano tra lavoratori” (chi è già assunto avrà l’articolo 18, chi lo sarà in futuro no). E ancora: “Il partito non è una caserma, ma una comunità. Non vogliamo far cadere il governo, ma nemmeno accettare tutto”. Il problema si porrà nel caso di voto di fiducia, ma il ministro del Lavoro Poletti ieri lo ha escluso (“per ora non è prevista”).
SPIEGA STEFANO FASSINA al Fatto Quotidiano: “Sono due mesi che Renzi fa propaganda contro la precarietà e su questi generici ammortizzatori sociali universali, ora però per finanziarli nella manovra mette meno soldi di quello che spendiamo oggi in cassa integrazione in deroga. Un piatto di lenticchie. Allora, visto che nemmeno si riducono le decine di contratti precari esistenti, il risultato vero di questo Jobs Act è quello che resta: la libertà di licenziare”. Perfida la conclusione: “Della serie: La sinistra dalla parte dei più deboli e Le parole che producono fatti” (due citazioni testuali della lettera che Renzi ha inviato a Repubblica per spiegare pure a Ezio Mauro che lui è di sinistra). L’ex viceministro esclude comunque scissioni: “Il nostro impegno è all’interno del Pd per correggere la rotta: d’altronde è il nuovo Pd ad averla cambiata. Certo sono preoccupato rispetto al riposizionamento del partito rispetto agli interessi economici che un movimento di sinistra dovrebbe rappresentare... ”.

Repubblica 23.11.14
Emendamento ritirato
Scuola, saltano i finanziamenti per i lavori in 5 mila superiori


ROMA È saltato l’emendamento che prevede l’esclusione dal patto di Stabilità delle Province per gli interventi a favore della sicurezza delle scuole. La norma, già prevista per i Comuni, era stata aggiunta alla legge di Stabilità con un emendamento che aveva già superato l’esame di ammissibilità sulle coperture finanziarie. La notizia del ritiro dell’emendamento è stata data dal deputato Pd, Davide Mattiello, che lo aveva messo a punto e presentato. Il ritiro sarebbe stato chiesto dal governo, ma, ha spiegato il sottosegretario all’Economia, Pierpaolo Baretta, solo per riproporlo al Senato: «Nessuna sottovalutazione di questo tema. Abbiamo solo scelto di affrontare il capitolo delle Regioni e delle Province durante l’iter in Senato». Spiegazione che però convince poco le Province: «Ancora una volta — s’indigna il presidente dell’Upi Alessandro Pastacci — il governo ferma un emendamento che estenderebbe anche alle scuole superiori la possibilità di avviare nuovi investimenti in sicurezza e infrastrutture». La norma riguarda oltre 5.000 scuole superiori, frequentate da più di due milioni e mezzo di studenti.
Baretta ha espresso tranquillità nel complesso per l’iter della legge di Stabilità: «Abbiamo fatto il giro di boa del lavoro parlamentare con questa intensa settimana e ci avviamo a concluderlo in commissione Bilancio e poi in Aula».

il Fatto 23.11.14
La denuncia dei consumatori
Il 90% delle tredicesime in tasse


Per l’Adusbef le tredicesime del 2014 sono stabili rispetto al 2013, ma il 90% di queste “sarà mangiato” da tasse, bolli, bollette e mutui. Risultato: la spesa per consumi a Natale calerà del 10%. Un calo che un’altra organizzazione di consumatori il Codacons, più ottimisticamente, vede fermarsi al -5% per una spesa natalizia di 164 euro pro capite. “Le tredicesime - avverte il presidente Adusbef Elio Lannutti - saranno più che falcidiate dagli aumenti iniziati a gennaio 2014: dalle tariffe autostradali, alla benzina, ai bolli, alle tasse, alla Tasi, all’Imu per la seconda casa, alle accise e un’altra serie di ordinari balzelli che mangiano i redditi non ristorati con gli 80 euro”. Nel rincorrersi dei pagamenti da effettuare entro il 31 dicembre, dei 34,20 miliardi di euro di tredicesime soltanto il 9,4 per cento, ossia 3,2 miliardi di euro, meno di un decimo del monte tredicesime, resterà realmente nelle tasche di lavoratori e pensionati.

il Fatto 23.11.14
Astensione e Silvio. I problemi di Renzi
I candidati democratici sono dati per vincenti, ma queste elezioni rappresentano ben più delle europee passate: sono lo spartiacque per i Nazareni e per la Lega ripulita di Salvini
di Fabrizio d’Esposito


Il ministest regionale di questo tardo autunno in Emilia Romagna e Calabria, uno al nord, l’altro al sud, presenta un evidente paradosso. Da un lato ci sono due vincitori annunciati: il renziano Stefano Bonaccini, per quanto riguarda la scontata conferma del modello emiliano, e il bersaniano Mario Oliverio nella regione andata al voto per i guai giudiziari del governatore uscente Giuseppe Scopelliti, ex An poi berlusconiano infine alfaniano di Ncd. Dall’altro, invece, c’è un carico di grosse incognite forse eccessive rispetto alla portata di questo voto. Ma fa parte della tradizione politica italiana allargare allo scacchiere nazionale ogni tipo di voto.
I timori del premier sul “cambiamento di clima”
La prima incognita è tutta per Matteo Renzi, nella sua doppia veste di presidente del Consiglio e di segretario del Partito democratico. A distanza di nove mesi dal suo traumatico arrivo a Palazzo Chigi e di sei dalle trionfali Europee del fatidico 41 per cento, per la prima volta il vento non sembra soffiare più nella direzione del premier. Ed è perquesto che, in mancanza di veri avversari, la sfida, soprattutto in Emilia Romagna, è tra il Partito della nazione di marca renziana e quello dell’astensione. Detto che Bonaccini dovrebbe farcela senza problemi, il dato decisivo sarà quello dell’affluenza. Nella regione rossa per eccellenza, il senso civico è sempre stato esemplare. Alle Europee ha votato quasi il 70 per cento, cioè il 69,9, mentre alle regionali di quattro anni fa, nel 2010, la percentuale fu leggermente più bassa: il 68,07. Adesso la corsa è tutta per superare la soglia del 50 per cento. A parte la delusione per gli scandali locali, è qui che Renzi, che in campagna elettorale ci ha messo la faccia, capirà se c’è un cambiamento di clima nei confronti suoi e dell’intero esecutivo. E una risposta negativa sarebbe un colpo al renzismo.
La spinta centrifuga del Partito della Nazione
La temuta discesa di quasi venti punti nell’affluenza dei votati appannerebbe completamente la vittoria di Bonaccini. E sarebbe un esordio catastrofico per quel Partito della nazione che il premier ha copiato dal pantheon della destra italiana. Un risultato del genere consegnerebbe un Renzi debole e sempre più isolato, in una fase in cui anche i quotidiani amici, tipo la Repubblica e il Giornale filonazareno, cominciano ad avere dubbi sulla sua linea. Ovviamente si aprirebbero crepe anche nella gestione assolutista del partito e nell’intero campo di centrosinistra. In due direzioni. La prima è quella del logoramento interno operato dall’ala bersanian-dalemiana, che punta a riprendersi la Ditta, non a uscire. La seconda porta al consolidamento del progetto di un’area nuova di sinistra, ma senza gli effetti deleteri di una scissione (al massimo andranno via Pippo Civati e Stefano Fassina) e attorno all’asse del lavoro Cgil-Fiom (Landini, poi Camusso).
L’azzardo del voto anticipato e le debolezze di Berlusconi
In un quadro del genere, con il vento cambiato, il 2015 potrebbe non essere più l’anno dell’azzardo del voto anticipato per Renzi. Senza dimenticare che prima ci sarebbe da scalare la montagna impervia della successione a Napolitano, in un Parlamento molto sensibile agli umori del momento e pronto a cavalcare la debolezza del premier. E qui, ecco stagliarsi il profilo dell’altro, possibile sconfitto: Silvio Berlusconi, il socio di minoranza del patto segreto del Nazareno su riforme e Quirinale. Nel campo del centrodestra le conseguenze di una Forza Italia sotto il dieci per cento in Emilia Romagna potrebbero essere devastanti. Soprattutto se la Lega dovesse arrivare sopra il 12-13 per cento e in Calabria, gli alfaniani, che corrono da soli, dovessero superare l’impegnativo sbarramento dell’otto per cento. A quel punto, il Condannato si troverebbe due potenziali alleati in grado di dettare condizioni. In primis, Matteo Salvini, l’altro Matteo di questa campagna elettorale, poi un redivivo Angelino Alfano. Ed è per questo che proprio ieri, alla vigilia del voto, dalle colonne del Foglio, Giuliano Ferrara ha invitato il Pregiudicato a scegliere una volta per tutte da che parte stare. Se abbracciare nuovamente la fede del Nazareno oppure ribaltare il tavolo e rinchiudersi nella ridotta di Arcore con il cerchio magico di Toti e Dudù. In ballo c’è anche l’identità crepuscolare del berlusconismo: rimanere nel Ppe oppure piegarsi al populismo leghista?
La tenuta del patto e la successione al Colle
Attualmente, infatti, Berlusconi è in mezzo al guado, consapevole che il voto di oggi potrebbe pure far esplodere il partito, lacerato dalle faide interne che ruotano appunto sul tormentone “Nazareno sì, Nazareno no”. Al netto delle tattiche sulla legge elettorale (Italicum entro fine dicembre e fantasma del Consultellum, ossia il Porcellum riformato dalla Consulta), il Condannato punta sul patto segreto con Renzi per essere decisivo innanzitutto sul successore di Giorgio Napolitano al Colle. Ma un Nazareno con due leader ridimensionati non sarebbe più uguale a quello di prima.

Repubblica 23.11.14
Il Partito del premier all’esame del voto teme l’usura del modello emiliano
di Ilvo Diamanti


OGGI si vota in due regioni, lontane e diverse, fra loro. Per economia, società, storia. Territorio. Da un lato, l’Emilia Romagna. Il Nord. Secondo l’Istat: il Nord Est. L’economia di piccola impresa, motore dello sviluppo degli ultimi vent’anni. Dall’altro lato, la Calabria. Il Sud, lo sviluppo senza autonomia (come ha scritto Carlo Trigilia). Un’area che fatica a ridurre le distanze – economiche, ma non solo - dalle zone più dinamiche del Paese. Due regioni lontane e diverse anche dal punto di vista politico. Eppure, oggi entrambe vanno al voto con qualche mese di anticipo rispetto ai termini previsti, per ragioni analoghe. Legate a irregolarità e abusi commessi dagli amministratori. E questa co-incidenza è un segno del cambiamento avvenuto, rispetto il passato. Anche se le differenze fra i due contesti restano profonde.
La Calabria raffigura il Sud, esposto ai gruppi di pressione locali. Instabile e differenziato, dal punto di vista elettorale. Come mostrano gli esiti delle elezioni regionali a partire dal 2000. Quando ha esordito il voto diretto al Presidente. Tre elezioni, tre presidenti e tre coalizioni differenti. Nel 2000: Giuseppe Chiaravalloti, di Forza Italia, a capo di una maggioranza di Centro-destra. Nel 2005: Agazio Loiero, Popolare, alla guida di una coalizione di Centro-sinistra. Nel 2010: Giuseppe Scopelliti, Pdl, leader del Centrodestra.
Oggi, il Centrosinistra presenta Mario Oliverio (Pd, vicino a Bersani). Favorito, secondo i sondaggi. Ma anche dalla regola dell’alternanza. Che prevede, appunto, il cambio di maggioranza a ogni voto. Esattamente all’opposto dell’Emilia Romagna. Il “cuore rosso” dell’Italia (come recita il titolo di un noto saggio di Francesco Ramella). Una regione, da sempre, orientata a sinistra. Intorno al Pci, ieri. In seguito, ai post-comunisti: il Pds e i Ds. E, oggi, il Pd. Insieme alla Toscana, all’Umbria e alle Marche: delimita la “zona rossa”. Il perimetro, ma anche il recinto, storico del Centrosinistra. Perché gli ha permesso di resistere, ma gli ha impedito, allo stesso tempo, di volare. D’altronde, la storia politica dell’Italia repubblicana è segnata dall’anticomunismo. Ancora nel 2008, il Centrodestra appariva tanto più debole – e il Centrosinistra tanto più forte - dove era più esteso il voto della sinistra social- comunista. Nel 1948. Nel frattempo era sceso in campo Berlusconi. Che, ha usato il passato a proprio vantaggio riproponendo l’anticomunismo senza il comunismo. E senza i comunisti. Così, l’Emilia Romagna ha continuato ad essere “rossa” e i cittadini hanno continuato a votare allo stesso modo. Ma per “abitudine”, più che per “appartenenza” (come ha osservato Arturo Parisi). Una continuità sostenuta dai governi locali e dalle reti associative, diffuse nella società e sul territorio. Negli ultimi anni, tuttavia, la tela rossa della cultura politica e del voto si è smagliata in diversi punti. (Lo ripete da tempo Mario Caciagli.) Ai confini, in particolare. Nelle province emiliane del Nord, dove è penetrata la Lega. Fra il 2006 e il 2010, in particolare. E poi, di nuovo, nel 2014.
La Lega, d’altronde, è un partito ideologico, simile al vecchio Pci. E procede per prossimità territoriale. Nello spazio padano (Piacenza, Parma, Modena e Ferrara, soprattutto). Ma la tela rossa si è lacerata anche nelle città. A Bologna, dove Grillo ha organizzato il primo V-Day. E, ancor più, a Parma, nel 2012, quando è stato eletto sindaco Pizzarotti.
Il M5s ha messo “in rete” comitati e movimenti locali di rivendicazione su temi specifici. Ma si è affermato, soprattutto, canalizzando l’insoddisfazione politica, nei confronti dei partiti dominanti. In Emilia Romagna: la stanchezza verso le amministrazioni e il sistema di governo locale. Ha, dunque, enfatizzato l’usura del modello emiliano, sottolineata, di recente, dalle dimissioni del governatore Vasco Errani, in seguito a una lunga serie di scandali che hanno coinvolto la giunta e i consiglieri.
Il M5s non ha una geografia politica. Alle elezioni del 2013 si è, infatti, diffuso in modo omogeneo in tutto il territorio nazionale. Dalla Calabria all’Emilia Romagna.
Questa in-differenza geo-politica, peraltro, costituisce una seria minaccia per il “modello emiliano”. Erede di una tradizione che afferma la politica “nel” territorio. Mentre il M5s pratica una politica “senza” il territorio. Un progetto annunciato da Berlusconi e riproposto, oggi, da Matteo Renzi. Il quale ha de-ideologizzato e personalizzato il Pd. L’ha trasformato nel Pdr. Il Partito Democratico di Renzi. Alternativo alla “ditta” di Bersani. Che è emiliano, di Bettola.
Alle europee del 2014, il Pdr, sfidato dal M5s, ne ha riprodotto l’impianto a-territoriale. Ha vinto ovunque. È divenuto Partito della Nazione. Senza confini. Specchio di una geografia elettorale senza “zone rosse”. Ma neppure bianche né verdi. Per questo, le elezioni regionali che si svolgono oggi sono importanti. Perché riguardano due casi esemplari: del passato e, al tempo stesso, del futuro politico in Italia. I sondaggi, per quel che contano, stimano il Centrosinistra in vantaggio non solo in Emilia Romagna (nettamente), ma anche in Calabria. Comunque vada, sarà interessante verificare l’esito e la geografia del voto. In queste due regioni tanto lontane, eppure avvicinate dalle trasformazioni degli ultimi anni.
In particolare, mi pare utile interrogare la geografia elettorale, soprattutto nel “cuore rosso” d’Italia. Per verificare: a) la distribuzione territoriale, oltre che l’ampiezza, del voto a Stefano Bonaccini. Vincitore delle Primarie del Pd. Per capire, anzitutto, se, davvero, (come ha scritto Gianfranco Pasquino) “la via Emilia è al capolinea”. b) La penetrazione della Lega di Salvini. Proiettata “oltre” la Padania. Alla guida di tutto il Centrodestra. Meglio: della Destra. c) La diffusione del M5s, che, alle Europee, ha mantenuto una presenza estesa e omogenea nel Paese. Ma non riesce più a sfondare, in ambito locale. Neppure nelle zone d’origine. Ed è sempre più diviso, scosso da tensioni ed espulsioni. d) Ma, prima di tutto, occorrerà verificare la coerenza – e l’ampiezza del risultato del Pd rispetto alle Europee. Per capire se il Pd, erede del Partito della Sinistra, guidato da un candidato (neo)renziano, accetterà - o almeno sopporterà - il PdR. Il partito di Renzi. Colui che ha il merito e la colpa di aver spezzato il legame del Pd con il passato comunista. E, forse, anche con la (tradizione di) Sinistra.
Ora che la “fede” (politica) si è perduta, infatti, è possibile che si perda anche l’abitudine. A votare per la Sinistra. O, semplicemente, a votare. E si scelga il non-voto come voto. Come alternativa al Pdr.

Il Sole 23.11.14
Il voto di oggi un test utile
Roberto D'Alimonte


Oggi si vota. Sono le prime elezioni dopo le europee di maggio e per quanto siano solo due le regioni coinvolte - Emilia Romagna e Calabria - sarà un test utile per cogliere indizi sulle tendenze del sistema partitico dopo il terremoto delle politiche del 25 febbraio 2013: la tenuta del Pd di Renzi, la crescita della Lega di Salvini, la crisi del M5S, le prospettive della lista Ncd-Udc, il declino di Fi.
In entrambe le regioni si voterà con un sistema elettorale del tipo Porcellum, cioè un sistema proporzionale con premio di maggioranza. Gli elettori sceglieranno direttamente il presidente della giunta che grazie al premio potrà contare su una maggioranza assoluta di seggi nel consiglio regionale. È il modello italiano di governo. La combinazione di elezione diretta e premio di maggioranza rende il sistema di voto decisivo. I partiti scelgono come presentarsi davanti agli elettori. Gli elettori decidono chi governa. E la sera delle elezioni si sa chi ha vinto. Questo vuol dire sistema elettorale decisivo. Si tratta di un buon sistema che da quando è stato introdotto nel 1995 ha garantito nelle regioni un notevole grado di stabilità politica in un contesto di grande frammentazione partitica. Inoltre, grazie al suo impianto proporzionale, ha assicurato anche un sufficiente livello di rappresentatività delle forze politiche minori. Fortunatamente, per ora, i "porcellini" regionali sono sopravvissuti all'attivismo demolitorio di giudici e giuristi.
Tra il sistema di voto in vigore in Emilia-Romagna e quello in Calabria ci sono alcune differenze. Sulle soglie, per esempio. In Emilia-Romagna per avere seggi occorre avere almeno il 3% dei voti se si corre da soli. La soglia scompare se si entra in una coalizione. In Calabria non solo la soglia minima è il 4% ma non esiste sconto. Un'unica soglia per chi sta dentro e chi sta fuori dal gioco coalizionale. Per una volta il Sud è più virtuoso del Nord. L'altra differenza significativa è l'assenza di voto disgiunto in Calabria. Gli elettori di questa regione, a differenza degli emiliani, non potranno votare il candidato-presidente di un colore politico e una lista appartenente ad una altra coalizione.
L'esito del voto nelle due regioni sembra scontato. In entrambe dovrebbe vincere il candidato del Pd. In Emilia-Romagna è sempre stato così. Nell'arco di tutta la Seconda Repubblica il centro-destra non è mai riuscito a scalfire l'egemonia della sinistra. Nonostante le disavventure giudiziarie di Errani e i molti scandali che hanno visto coinvolti diversi personaggi del Pd, Stefano Bonaccini – il candidato presidente del centrosinistra – dovrebbe farcela. Dalla sua ha un Pd che alle Europee è riuscito a conquistare da solo il 52,5% dei consensi, ma soprattutto ha davanti a sé una destra divisa. Infatti, i candidati di questo schieramento sono due. Uno è il sindaco leghista di Bondeno (Ferrara) Alan Fabbri, sostenuto da Lega Nord, Forza Italia e Fdi-An. L'altro è Alessandro Rondoni sostenuto da Ncd e Udc.
Il fatto che la divisione a livello nazionale tra Fi e Ncd si sia riprodotta anche a livello locale è un segnale importante per tanti aspetti. La stessa cosa è successa in Calabria. È molto difficile che in queste condizioni Alan Fabbri, per quanto possa essere una figura popolare, riesca a minacciare la vittoria di Bonaccini. Se così fosse saremmo di fronte a un fatto politico assolutamente clamoroso. Però Fabbri potrebbe trascinare il suo partito a superare i consensi di Fi. E anche questo sarebbe un evento politicamente molto rilevante con conseguenze imprevedibili anche a livello nazionale. Quanto al M5S sarà interessante vedere se riuscirà a mantenere i consensi delle Europee che erano già di cinque punti inferiori a quelli delle politiche del 2013, ma comunque sempre rispettabili (19,2%). Il rischio per il partito di Grillo è che il trend discendente continui anche in questa regione che lo ha visto emergere come forza politica nazionale.
A differenza dell'Emilia-Romagna, la Calabria è sempre stata una regione tendenzialmente di centrodestra. Ma mentre in Emilia-Romagna il predominio del centrosinistra non è mai stato scalfito, in Calabria il centrodestra non è riuscito a vincere sempre. Non ha vinto nelle Regionali del 2005 e nelle Politiche del 2006 e di nuovo alle ultime Europee quando il Pd da solo è arrivato a sfiorare il 36% dei voti. Ed è molto probabile che non vinca neanche questa volta. Infatti l'esito sembra scontato a favore di Mario Oliviero, candidato Pd della coalizione di centrosinistra. Il motivo è lo stesso che abbiamo visto in Emilia-Romagna: la divisione del centrodestra. La Lega Nord non c'è, anche se vorrebbe esserci. La candidata di Fi, Wanda Ferro, non è appoggiata da Ncd e Udc che hanno preferito presentarsi da soli. Visto che in questa regione, come si vede dalla tabella in pagina, il peso della componente neo-democristiana è ancor più rilevante che in Emilia-Romagna, lo svantaggio competitivo del centrodestra è difficilmente recuperabile.
Resta però l'incognita del M5S i cui elettori sembrano essere in libera uscita. Alle Europee aveva ottenuto il 21,5%. Nelle recenti comunali a Reggio Calabria l'elettorato grillino si è semplicemente dissolto. Il candidato a sindaco del M5S ha preso il 2,5%. Un tracollo di queste proporzioni, se si ripetesse a livello regionale, rappresenterebbe certamente un elemento di incertezza ma è difficile che possa cambiare l'esito della competizione.
Un'ultima annotazione riguarda l'uso del voto di preferenza. Nelle Regionali del 2010 solo il 26% di coloro che si sono recati alle urne in Emilia-Romagna lo ha utilizzato. In Calabria nella stessa tornata elettorale la percentuale è stata l'84%. Vedremo come andrà a finire questa volta e dopo commenteremo.

Corriere 23.11.14
Elezioni in Emilia Il Pd teme il non voto
Ma Salvini si gioca la sua corsa nazionale
di Francesco Alberti


BOLOGNA Il sabato di silenzio elettorale, per una volta, non è parso molto diverso dai 30 giorni di propaganda che lo hanno preceduto. Da Piacenza a Rimini, passando per Bologna, non si ricorda una campagna elettorale «così bolsa» (parole dello storico Paolo Pombeni) e «un tale quadro di opacità e crisi della politica» (Pierluigi Corbetta, direttore di ricerca dell’Istituto Cattaneo). Triste dirlo: ma se non fosse stato per lo scontrino del sex toy comparso tra i rimborsi dei 41 consiglieri regionali finiti nell’inchiesta sulle «spese allegre» e per il blitz degli antagonisti contro il leghista Salvini al campo rom di Bologna, le elezioni che oggi sanciranno — nell’ordine — la fine dell’epoca Errani (tre lustri al vertice), la probabile riconferma del Pd nella figura dell’ex bersaniano e ora renziano Stefano Bonaccini e forse un rimescolamento di forze nel centrodestra a vantaggio della Lega così come un ridimensionamento dei 5 Stelle, sarebbero filate via come i titoli di coda di un film di terza classe. Poi è vero, come dice Pombeni, che «qui la partecipazione è un valore e quindi sarei cauto nel prevedere clamorose impennate dell’astensionismo». Però i segnali ci sono tutti e nel Pd hanno messo le mani avanti: «Scordiamoci le passate affluenze (76% alle Regionali 2005, 68% nel 2010): se si arriva al 50%, va bene così…».
A cercare un colpevole si rischia la labirintite. «Le inchieste hanno pesato, ma non sono a mio parere la causa principale della disaffezione», afferma Corbetta. Nessun dubbio che il lavoro della magistratura abbia influito sulla genesi di queste Regionali: dalla condanna in appello per falso ideologico di Errani agli avvisi di garanzia durante le primarie pd ai candidati Bonaccini e Richetti; fino alla valanga di indagati per i rimborsi in Regione. Ma per Corbetta i motivi di un astensionismo «che potrebbe superare il 50%» sono altri due: «Il fatto che si voti solo qui e in Calabria e che quindi manchi un traino nazionale ha spinto le tv, che restano per molti elettori il principale canale di informazione, ad occuparsene poco: tanti non sanno che si vota». E tra coloro che lo sanno, prosegue Corbetta, le motivazioni sono basse: «Non aiuta il fatto che il Pd sia super favorito, che il leghista Fabbri sia poco conosciuto e che Grillo, a parte un’improvvisata, si è tenuto lontano». Aggiunge Pombeni: «Ad aumentare il rigetto è anche la mancata reazione dei partiti alle accuse della Procura: al massimo si è arrivati all’autosospensione dal Pd del capogruppo Monari, decisamente poco…».
La sfida più intrigante è quella per la seconda piazza alle spalle dei dem. Pombeni: «Non pervenuta Forza Italia, la Lega potrebbe fare da catalizzatore di un dissenso che tende a radicalizzarsi». Ma che ciò possa portare a un ribaltamento delle gerarchie nel centrodestra Corbetta lo dubita: «Il Carroccio può anche recuperare voti di protesta da Grillo, ma in prospettiva mi pare tutta in salita la strada di Salvini per fare della Lega un partito nazionale». Da vedere anche se la cura Renzi consentirà al Pd di conquistare nuovi elettori: «Lo zoccolo in Emilia — dice Corbetta — resta il pubblico impiego: ci può essere qualche spostamento da destra che magari compensa le perdite a sinistra a causa del Jobs act».

Corriere 23.11.14
Renzi guarda oltre le riforme: la partita è il Colle
Il premier vuole arrivare alla scelta del successore di Napolitano forte dei risultati su Jobs act e Italicum
di Maria Teresa Meli


ROMA «Domani (oggi per chi legge, ndr ) non è un voto sul governo, il governo vince se fa le cose»: non è una frase di comodo questa di Matteo Renzi. La classica affermazione del presidente del Consiglio che vuole mettersi al riparo da un’eventuale sconfitta. Anche perché tutti sanno che non è questo il problema di oggi per il Partito democratico.
È una questione ben più importante. Riguarda la credibilità del premier e del suo governo («Voglio vedere chi mi accuserà ancora di annuncite»). E non solo. Perché se Renzi porterà a casa i «fatti» entro l’anno, cioè il Jobs act e la riforma elettorale al Senato, sarà più difficile per i suoi avversari, dentro e fuori il Parlamento, dargli del filo da torcere. E giocare contro di lui la partita della successione a Napolitano.
«I gufi erano andati in letargo, ora si sono risvegliati, dovremo rimandarli a dormire», scherza il premier, che ha deciso di passare questo weekend in casa e in — relativa — tranquillità. Il Jobs act lo dà ormai per fatto, nonostante i resistenti del Pd che si oppongono ancora: «Io non sto cercando la prova di forza, ma non mi faccio bloccare dall’ostruzionismo. Per quanto mi riguarda il tempo dei compromessi al ribasso è finito», confida il premier ai collaboratori.
Questo discorso vale per la minoranza del Partito democratico alla Camera, ma anche per Sinistra ecologia e libertà di Nichi Vendola e i grillini. Fuori del Parlamento, però, ci sono i sindacati e le manifestazioni di protesta. Per questa ragione il premier ha invitato i suoi a «non partecipare alla gara degli insulti», tanto più dopo la «gaffe» che Maurizio Landini gli ha «offerto su un piatto d’argento».
Il motivo del richiamo alla prudenza è questo, come ha spiegato lo stesso premier ai parlamentari che gli sono più vicini: «Io non sono preoccupato per le accuse di chi vuole mantenere lo status quo, di chi vuole difendere i patronati e la concertazione di un tempo, ma mi preoccupa il clima che certe persone stanno creando nel Paese. Noi, sia chiaro, non siamo contro i sindacati, anzi, siamo con loro quando creano lavoro, come all’Ast di Terni, dove siamo vicini alla soluzione».
Secondo capitolo, la legge elettorale. Anche quella «deve passare entro dicembre»: «Bisogna comunque chiudere entro l’anno», è il suo ritornello. E su questo Matteo Renzi è irremovibile, anche perché a Palazzo Madama il voto è palese e «tutti dovranno metterci la faccia».
La norma transitoria, quella secondo cui il nuovo sistema elettorale della Camera dovrebbe entrare in vigore solo quando verrà varata la riforma del Senato, può esserci esclusivamente a legge «definitivamente approvata». Perché come hanno spiegato tutti i costituzionalisti vicini al premier, Ceccanti, D’Alimonte e Clementi, allo stesso Renzi, da questo punto di vista non c’è problema. Si potrebbe andare a votare con due sistemi differenti per la Camera e per il Senato, se fosse il caso.
E allora porre questo problema, com’è stato fatto, secondo i renziani è un modo per cercare di rallentare l’iter della riforma elettorale e impedire che il premier porti a casa il risultato entro dicembre: «Avendo capito che non riescono più a fermare il Jobs act alla Camera, adesso provano a frenare il nuovo sistema elettorale». «Ma non ci riusciranno, assicura il vicepresidente dell’assemblea di Montecitorio Roberto Giachetti. E i renziani si stanno preparando anche alla partita finale: quando la riforma arriverà alla Camera per l’approvazione definitiva. «Eventuali emendamenti per ampliare le preferenze a voto segreto non passeranno mai», avvertono.
Se avrà segnato questi due punti, per Renzi sarà più facile affrontare la partitissima del Quirinale. Il presidente del Consiglio sa che c’è un disegno per metterlo sotto tutela, per trovare un successore di Napolitano che lo condizioni e gli leghi le mani. Ma, come ama ripetere spesso lui, «basta tecnocrati, la parola deve tornare alla politica». E Renzi, personalmente, si sta preparando a farla tornare. «Sento fare tanti nomi, soprattutto dai commentatori, ma passeranno mai in Parlamento? E poi aspettiamo rispettosamente le decisioni di Napolitano», ripete insistentemente ai suoi. Lui un nome ce l’avrebbe: Paolo Gentiloni. Ma i giochi sono ancora all’inizio e il premier non vuole bruciare le sue carte.

Repubblica 23.11.14
Cgil e minoranza pd a Renzi:
“La tua sinistra è senza diritti!“
La lettera di Renzi arriva tardi” Minoranza dem attacca e si spacca
Cuperlo: “Ha fatto una buona cosa”
Fassina: “Matteo vicino agli interessi forti”. Mucchetti: “Troppo ovvio”
E sul Jobs act la sinistra torna ad avvertire: “Così non lo votiamo”
di Giovanna Casadio


ROMARenzi non convince la sinistra dem. La lettera del premier a Repubblica sul “suo” Pd approfondisce il solco nel partito. Non è solo Stefano Fassina a replicargli dicendo che non sta dalla parte dei deboli bensì è «vicino agli interessi forti». Anche Massimo Mucchetti, senatore dem, attacca: «Troppo testo e parole per dire troppo poco e troppo ovvio. L’esame del sangue in politica è il sale della democrazia e d’altra parte la sinistra e il suo governo non potranno sfuggire a fare qualche ragionamento con i corpi intermedi della società. Le parole sbagliate di Landini fanno il paio con quelle di Renzi quando dice di rappresentare le persone perbene, come se i critici del governo fossero tutti per male». Reagisce Pippo Civati: «La difesa dei deboli va tradotta in fatti. La lettera arriva tardi; da mesi io, Cuperlo, Fassina,Bersani abbiamo chiesto un atteggiamento diverso. Forse Renzi si è accorto un po’ tardivamente di avere esagerato». Ma anche stavolta la sinistra interna si divide. Cuperlo ad esempio sottolinea: «È una buona lettera. Io ho apprezzato molto quel passaggio sulla rivendicazione orgogliosa dell’appartenenza a sinistra. Siamo parte della famiglia socialista. Su altre cose abbiamo delle divergenze ma questo è un fatto vitale».
Del resto è sul Jobs Act che le promesse e le differenze si infrangono. Martedì il voto nell’aula di Montecitorio sulla riforma del mercato del lavoro sarà la prova del nove anche della tenuta del Pd. Civati è certo che, oltre a lui e ai suoi, voteranno contro Zoggia, D’Attorre, Fassina, Cuperlo e altri. Non pochi, insomma. Bersani potrebbe non partecipare al voto. Cuperlo già lo annuncia in una convention della sinistra dem a Milano: «Così com’è il Jobs Act è insostenibile, non posso votarlo». Fassina parla di «libertà di licenziamento». Irritazione sul fronte renziano. Da Francesco Verducci, portavoce dei “giovani turchi”, arriva la bordata alla sinistra dem: «Cuperlo e Fassina non votano il Jobs Act?
Evidentemente c’è chi lavora per unire il Pd e chi per dividerlo». E Matteo Orfini, presidente del partito, difende la lettera e Jobs Act: «Il complesso della riforma del lavoro estende diritti anche se qualcuno fa finta di non vedere».

Il Sole 23.11.14
Il Pantheon di Sinistra di Renzi
Un puzzle post-moderno
Sembra un po' strano che in una fase post-ideologica come quella in cui viviamo il premier Renzi si senta in obbligo di un auto da fé pubblico sul suo essere "di sinistra"
di Paolo Pombeni


Sembra un po' strano che in una fase post-ideologica come quella in cui viviamo il premier Renzi si senta in obbligo di un auto da fé pubblico sul suo essere "di sinistra". Altrettante perplessità suscita il richiamo di un pantheon che inizialmente aveva affermato di non voler esibire, ma che poi elenca puntualmente: «Berlinguer e Mandela, Dossetti e Langer, La Pira e Kennedy, Calamandrei e Gandhi».
Il puzzle è molto post-moderno, perché, fuori da ogni filologia circa l'apporto dei personaggi citati, evoca delle "maschere" che in tempi diversi, ma recenti, hanno avuto e forse hanno ancora il favore di una certa platea dei media. Chi sa un po' di storia potrebbe chiedersi come mai non si citino, nel quadro di una sinistra plurale, ma interessata a proporre riforme anche contro corrente, Fanfani, Lama, Trentin, tanto per buttare lì tre nomi. Ma questi sono nomi che oggi non si possono citare, come non si può più citare Craxi che pure si era messo in testa anche lui di «cambiare verso» alla politica italiana.
Il fatto è che se Renzi vuole davvero, come dice, «porre il tema di un mondo che cambia» deve evitare di misurarsi con il terreno obsoleto su cui lo invitano allo scontro avversari che, secondo antichi copioni, usano il richiamo alle ortodossie storiche come eccitanti per risvegliare fedeltà di massa che stanno loro sfuggendo di mano.
Ci sono due questioni che stanno dietro la posizione del premier-segretario del nuovo partito nato dalla dissoluzione delle vecchie ideologie. È con queste che val la pena di fare i conti, a prescindere da evocazioni di rito a cui si toglie spessore. La prima è il rapporto fra la sinistra e il "progressismo". La seconda, ancor più scabrosa, fra la sinistra e il liberalismo.
La vecchia ideologia marxista ufficiale e ancor più quella genericamente operaista sono state diffidenti per non dir contrarie al riconoscersi senza problemi nei "partiti del progresso", perché hanno ritenuto quel concetto ambiguo, poco connotabile lungo distinzioni "di classe", nonostante il marxismo sia stato una ideologia inspiegabile senza quella fede nella storia come "progresso" che si impose in Europa a partire dal XVIII secolo.
Ancora oggi una delle difficoltà che Renzi incontra è la sua supposta origine in quella che fu la sinistra cattolica. Essa, diciamo la verità, viene accolta nelle fila della sinistra di derivazione marxista e post-marxista solo nelle vesti del figliol prodigo che si accorge finalmente dove sta la vera casa del padre. Una specificità del suo apporto storico (storico, perché essa in senso proprio non esiste più da parecchi decenni) non viene riconosciuto. Eppure che senso può avere rifarsi a Dossetti e La Pira se non li si storicizza e soprattutto se non si coglie l'eredità della loro attitudine a lasciarsi sfidare dalle difficoltà dei tempi in cui operarono, cioè nell'Italia che doveva ricostruirsi fra fine della seconda guerra mondiale ed avvento del centro-sinistra?
La loro lezione fu appunto quella di accettare che si doveva operare in un contesto che non era più quello immaginato dalla precedente dottrina sociale cattolica. Il loro pronunciarsi per una società solidale che riconosceva la potenzialità degli uomini inclusi nei vari organismi sociali di riferimento non rinviava ai miti del ritorno al corporativismo medievale, ma voleva misurasi con quella che era la nuova società industriale uscita dalla trasformazione postbellica.
La seconda questione è molto spinosa, perché nella nostra tradizione italiana l'idea che il liberalismo sia una dottrina che ha una sua versione "di sinistra" è un tabù storico per i partiti operai e anche per il progressismo cattolico. Eppure quando si dice che "liberal" nel mondo anglosassone vuol dire una cosa diversa da "liberale" come è inteso da noi, non lo si afferma perché sono due parole differenti, ma perché assai differenti sono le tradizioni dei movimenti liberali nei due contesti. Se pensiamo ad un altro punto di riferimento, sorvolato nell'elencazione di Renzi, cioè al laburismo britannico, vediamo subito le sue profonde connessioni con il "nuovo liberalismo" che in quei contesti si affermò ad inizio Novecento e che in Italia quasi non ebbe eco.
In una transizione storica complessa come quella che noi viviamo c'è un gran bisogno di pensiero politico contro la sua riduzione a battute da lanciarsi reciprocamente in faccia sui vari ring televisivi. Renzi sembra avere capito che questo è un terreno su cui deve scendere, ma deve ricordarsi che non lo si espugna alla Craxi che scriveva ai giornali lettere su Proudhon. La fondazione di un partito liberal-socialista che parli ad un paese in cui le vecchie ortodossie sono già confinate nelle suppellettili da abbellimento dei polverosi ricordi di famiglia è un'impresa indubbiamente "progressista", ma richiede tutto il tatto e la cautela con cui si manipolano gli esplosivi per renderli innocui.

Corriere 23.11.14
Nel Pd la trincea di Fassina e Cuperlo
«L’obiettivo è la libertà di licenziare cara al premier». Domani la riforma del lavoro alla Camera
di Antonella Baccaro


ROMA La battaglia finale sul Jobs act alla Camera inizia domani e dovrebbe concludersi mercoledì, giorno previsto per la sua approvazione. «Ho incontrato in maniera informale i gruppi dell’opposizione — ha detto ieri il presidente della Camera, Laura Boldrini — e ho accettato la loro richiesta di aumentare gli emendamenti». Con la motivazione di scongiurare il rischio «di non allargare il dibattito, che è importante che ci sia e sia approfondito, anche perché c’è una data di chiusura: il 26 finiamo. Nessuno rischia alcunché».
«La fiducia sul Jobs act al momento non è prevista. Naturalmente vedremo lo sviluppo dei lavori parlamentari e se sarà necessario il governo è sempre in condizioni di porla» ha detto ieri il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, a margine del convegno «How can we govern Europe?» a Firenze. «Il problema dell’incostituzionalità del Jobs act non c’è» ha aggiunto a scanso di equivoci.
Ma la sinistra dem continua a rumoreggiare: «Questo Pd mi preoccupa perché è sempre più in linea con gli interessi più forti e meno vicino agli interessi delle persone che cercano lavoro e che sono precarie» ha attaccato ieri Stefano Fassina, per il quale «l’obiettivo vero raggiunto» dal governo è «la “libertà di licenziamento” così cara al premier». Sul testo il Pd non presenterà alcun emendamento: «Presentarli, dati i numeri in aula alla Camera, non avrebbe avuto senso — ha spiegato —. Esprimeremo la nostra valutazione negativa nel voto sul provvedimento».
«Così come è, il Jobs act non lo posso votare» ha rincarato Gianni Cuperlo in occasione dell’assemblea costitutiva di Sinistra dem a Milano. «Ci sono anche aspetti critici sui quali il dissenso è profondo. Per queste ragioni questo provvedimento, in questo momento, non si può condividere e quindi votare».
Anche l’opposizione ieri ha fatto sentire la propria voce tramite il consigliere politico di Forza Italia, Giovanni Toti, al quale pare che la riforma «non rende più flessibile il mercato del lavoro, ma i rapporti tra maggioranza e minoranza del Pd». A difendere la riforma c’è il capogruppo al Senato di Ncd, Maurizio Sacconi: «La delega sul lavoro è costruita sull’equilibrio tra le esigenze di flessibilità delle imprese e quelle di sicurezza dei lavoratori. Per questo convergono su di essa le due categorie riformiste della politica italiana, quella socialdemocratica e quella liberalpopolare. E vi si oppongono tanto i pochi liberisti quanto gli ultimi comunisti».
Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ribadisce che «il Jobs act va fatto, va nella direzione giusta» e sottolinea: «Ho fiducia che Renzi mantenga la sua parola. Non temo insidie nei decreti delegati».

Repubblica 23.11.14
Una rottura ad alto rischio
Il Pd e Renzi farebbero bene a riflettere
Uno scontro definitivo con i sostenitori tradizionali della sinistra è un’operazione pericolosa per la politica
di Marc Lazar


IL RINNOVAMENTO della sinistra deve passare necessariamente dalla rottura con i sindacati che fino a un passato recente ne erano gli alleati principali?
LO SI potrebbe pensare, dopo le violente polemiche che contrappongono Matteo Renzi a Susanna Camusso e Maurizio Landini, la maggioranza del Pd alla Cgil e alla Fiom. La domanda non interessa affatto la sola Italia, ma tutta la sinistra socialdemocratica europea. I rapporti tra quest’ultima e i sindacati si declinano infatti secondo tre modelli fondamentali. Quello della stretta dipendenza del partito dai sindacati, caso unico e caratteristico della Gran Bretagna. Quello di una forte sinergia tra partito e sindacati in Germania, Austria, Belgio, Paesi Bassi e paesi scandinavi. Infine, quello dei partiti socialisti dell’Europa meridionale (Francia, Spagna, Portogallo, Grecia e Italia) che collaborano con sindacati più o meno autonomi. Ebbene, da alcuni decenni l’evoluzione generale è quella di una distensione dei rapporti tra organizzazioni politiche e confederazioni sindacali. Con conseguenze non indifferenti.
Il caso della Gran Bretagna è il più interessante se messo in relazione a ciò che sta accadendo in Italia. In effetti, Matteo Renzi si ispira a Tony Blair, proprio colui che ha rimesso in discussione una parte della tradizione del partito laburista. Fondato nel 1900 su iniziativa dei sindacati, questo partito conserva ancora oggi alcune tracce delle sue origini. In un primo tempo, l’adesione al partito avveniva soltanto tramite i sindacati e le “associazioni socialiste”. Le iscrizioni individuali furono autorizzate soltanto nel 1918. I sindacati, in preponderanza operai, controllavano da vicino il partito. Col peso dei loro iscritti, con la loro influenza, la loro capacità di finanziamento, le loro attività, la loro cultura, la loro mitologia. Il periodo di Margaret Thatcher (1979-1990) ha profondamente sconvolto questo rapporto, in particolare con il traumatizzante fallimento dei grandi scioperi dei minatori nel biennio 1984-1985. I sindacati si sono divisi tra posizioni tradizionali e atteggiamenti moderati, soprattutto da parte del settore pubblico e degli impiegati. Nell’insieme, all’inizio degli anni Novanta, hanno accettato di riprendere in considerazione il loro ruolo nel partito. Dal 1993 gli iscritti dei sindacati e delle organizzazioni affiliate designano per conto proprio il leader del partito in un collegio che detiene il 30 per cento dei voti complessivi. Tony Blair ha cercato di affrancarsi dai sindacati prima di conquistare il potere e durante i suoi mandati al governo. Da un lato, così facendo egli ha legittimato le sue riforme invocando l’interesse generale e accusando i sindacati di essere forze conservatrici, ripiegate sulla difesa dei propri interessi particolari. Dall’altro lato, però, ha spesso mobilitato le più grandi federazioni per portare la sua decisione in seno al partito, mentre i dirigenti sindacali sono confluiti nelle sue fila e in seguito in quelle di Gordon Brown. Pur rivolgendosi a individui che si sono allontanati dall’area laburista, Blair non ha mai tagliato del tutto i ponti con i sindacati dei lavoratori. Del resto, nel 2010 Ed Miliband ha conquistato il partito grazie al loro appoggio, e la sua vittoria ha rilanciato il dibattito sul peso dei sindacati. Una nuova tappa nella ridefinizione delle relazioni tra partito e sindacati è stata segnata la primavera scorsa con la Collins Review, che prende il nome dal responsabile laburista Ray Collins, e che mira a ridurre maggiormente l’influenza dei sindacati, nello specifico con l’adozione del criterio “un iscritto, un voto”. Da quel momento in avanti soltanto gli iscritti dei sindacati e delle associazioni affiliate che si dichiaravano simpatizzanti hanno eletto il leader, e il finanziamento proveniente dai sindacati ha dovuto ottenere l’approvazione di ciascuno dei sindacalisti. Allontanandosi dai sindacati, il partito laburista cerca di attirare nuovi elettori, in arrivo da altri orizzonti politici. Nel continente europeo, tutti gli altri partiti di sinistra, a prescindere dalla tipologia di rapporto storico che hanno intrattenuto con i sindacati, fanno altrettanto, giacché per loro è imperativo. Questa necessità strategica, nondimeno, ha alcuni effetti collaterali. Così, per esempio, con la crisi alcuni sindacati si radicalizzano e criticano con sempre maggiore asprezza i partiti riformisti. Del resto, una parte dei ceti popolari duramente colpiti dalla disoccupazione, soggetti all’acuirsi delle disuguaglianze, meno protetti a livello sociale, preoccupati per l’immigrazione, spaventati dalla globalizzazione, ostili all’Europa, si sente tradita dai partiti di sinistra. In altre parole, si sente abbandonata. Sono proprio queste fasce sociali quelle maggiormente tentate dall’astensionismo o dal voto di protesta a favore di formazioni nate nel fronte politico opposto, per esempio l’Ukip in Gran Bretagna e il Front National in Francia, che comincia a fare breccia nel sindacalismo e perfino all’interno della Confédération générale du travail, da tempo legata al partito comunista.
Il Pd e Matteo Renzi farebbero dunque bene a riflettere su questi casi. Una rottura definitiva con i sostenitori tradizionali della sinistra è un’operazione ad alto rischio, che presenta vantaggi indiscutibili, ma ha anche i suoi costi. Per la sinistra, e anche per tutta la politica e quindi per la democrazia .
Traduzione di Anna Bissanti

La Stampa 23.11.14
Barbareschi: l’Eliseo riaprirà il prima possibile
E Emma Dante «trasloca» al Teatro Valle


«Stiamo lavorando assiduamente affinché il Teatro Eliseo riapra il prima possibile». Queste le parole del neodirettore artistico del Teatro Eliseo, Luca Barbareschi, sulla situazione dello stabile di via Nazionale, dal quale due giorni fa è stata sfrattata la passata gestione. «Mi spiace moltissimo per lo spettacolo di Emma Dante - ha aggiunto -, nutro una grande ammirazione per lei e per tutto il RomaEuropa Festival e mi sono subito impegnato in prima persona a cercare una sala alternativa dove potesse proseguire le sue recite e recuperare le sue rappresentazioni». In serata si è saputo che lo spettacolo di Emma Dante, Operetta burlesca, potrà tornare in scena a Roma nel 2015 al Teatro Valle, appena finiranno i restauri dopo la fine dell’occupazione l’estate scorsa. È il frutto di un accordo tra assessorato alla Cultura del Campidoglio, Teatro di Roma - da cui dipende il Valle - e Fondazione RomaEuropa, che organizza il festival omonimo nell’ambito del quale la Dante aveva già debuttato all’Eliseo. Trova così soluzione un caso che negli ultimi giorni aveva portato la regista a gridare «vergogna!» e a ipotizzare di portare lo spettacolo per le strade della capitale con i romani e i turisti come pubblico.

Corriere 23.11.14
Roma «Sfrattata» dall’Eliseo Dante inaugurerà il nuovo Valle nel 2015


Cancellato (da sfratto) dall’Eliseo di Roma, Operetta Burlesca di Emma Dante (foto) inaugurerà nel 2015 il Teatro Valle restaurato. È il risultato dell’intesa raggiunta ieri tra assessorato alla Cultura di Roma Capitale, Teatro di Roma e Fondazione RomaEuropa. Si è così risolto il «caso» che nei giorni scorsi aveva portato la regista e drammaturga palermitana a gridare «vergogna!» e ad appellarsi alle istituzioni. Fino all’ipotesi di portare lo spettacolo per le strade, con i romani e i turisti come pubblico. Dopo vari rinvii, lo sfratto dell’Eliseo per morosità della gestione è stato eseguito tre giorni fa, e la sala è passata sotto il controllo dell’attore e regista Luca Barbareschi.


Il Sole Domenica 23.11.14
Opera, Eliseo
La crisi dei teatri
Proposta alla Swift
di Harvey Sachs


Nonostante l'accordo raggiunto in questi giorni all'Opera di Roma tra sindacati e amministrazione, i teatri lirici italiani sono sempre in crisi. Lo sappiamo anche qui a New York, e da grande amante ed estimatore dell'Italia che sono, sento il bisogno di entrare in lizza con una proposta modesta. Più o meno come tre secoli fa Jonathan Swift, nel saggio A modest proposal, suggerì agli irlandesi poveri di risolvere il doppio problema della carestia e dell'eccesso delle nascite: vendete i vostri bambini e fateli mangiare dai ricchi. Ecco, nello stesso spirito io vi suggerisco di rimediare le vostre crisi culturali seguendo il sistema americano.
Dunque, voi sapete senz'altro che negli Stati Uniti la cultura non sta perdendo il sostegno dei politici, per il semplice motivo che non l'ha mai avuto. Avevo scritto in un precedente articolo per questo giornale che il teatro Metroplitan – la più grande istituzione americana non solo per l'opera ma per tutte le arti dello spettacolo – riceve meno della metà dell'uno per cento del suo budget annuale da tutti gli enti pubblici messi insieme. Ora c'è da aggiungere il fatto che il budget annuale intero della National Endowment for the Arts, una specie di sotto-sotto-sotto-ministero federale per la cultura, è di 146 milioni di dollari (116 milioni di euro), cioè meno di 50 centesimi per ogni cittadino della nazione e molto meno della metà del costo di uno dei jet militari F22 che abbiamo usato per risolvere così brillantemente le varie crisi mediorentali, conquistandoci, come si sa, l'eterna gratitudine e l'amore di tutti i popoli della zona.
Per rimediare, quindi, alla mancanza di sovvenzioni pubbliche alle arti, noi contiamo in gran parte sui nostri mecenati – finanzieri, industriali e via dicendo – che come premio ricevono deduzioni dai loro redditi imponibili. Ma alcuni di loro, soprattutto in questi ultimi anni, pongono inoltre la condizione che la sede dell'istituzione che sostengono prenda il loro nome.
Così, per esempio, l'industriale ultraconservatore David H. Koch ha contribuito con 100 milioni di dollari (80 milioni di euro) al restauro del New York State Theater – sede del glorioso New York City Ballet, fondato da George Balanchine ed ex sede dell'ormai defunto (per mancanza di soldi) New York City Opera; adesso però quel teatro si chiama The David H. Koch Theater.
Dirimpetto a quell'edificio, sulla grande piazza del Lincoln Center, c'era una volta la Philharmonic Hall, sede della Filarmonica di New York; una quarantina di anni fa, Avery Fisher, un pioniere nel campo dell'alta fedeltà acustica, donò oltre dieci milioni di dollari di allora per il rinnovo della sala purché essa fosse ribattezzata come Avery Fisher Hall. Adesso quella stessa sala ha di nuovo bisogno di una ristrutturazione pressoché totale, e la Filarmonica deve cercare uno o più mecenati per pagare i circa 500 milioni di dollari che si calcola sarà il costo dei lavori. In un primo tempo i figli del signor Fisher non volevano che il nome del loro genitore fosse tolto dalla sala, ma la settimana scorsa la Filarmonica ha annunciato di essere disposta ad accettare un pagamento simbolico (!) di 15 milioni di dollari, in cambio del quale battezzare la sala col nome del prossimo grande donatore.
Al Lincoln Center ci sono inoltre la Alice Tully Hall e l'auditorium intitolato a Sybil Harrington nel teatro Metropolitan; all'interno del Metropolitan Museum abbiamo l'auditorium che sfoggia il nome dell'ereditiera Grace Rainey Rogers; e si può assistere a concerti di musica da camera alle bellissime Zankel Hall e Weill Hall, attaccate alla più grande Carnegie Hall (che però Andrew Carnegie fece chiamare soltanto Music Hall – furono gli altri a cominciare a chiamarla con il nome del benefattore). Persino il palcoscenico della Carnegie porta ormai il nome dell'uomo che ha finanziato il suo restauro.
Quindi la mia proposta per l'Italia è ovvia. Il nuovo Teatro del Maggio Musicale fiorentino non stenterà più a decollare quando porterà il nome poetico di Teatro Gucci-Pucci, lo storico Regio di Parma potrà offrire stagioni più lunghe e con cantanti che piaceranno ai melomani più accaniti quando si chiamerà il Teatro Parmalat-Barilla e, manco a dirlo, il Teatro Berlusconi-Mìlan nell'ex piazza della Scala vedrà di nuovo serate gloriose come ai tempi di Rossini, Verdi e Puccini.
Sono sicuro che Jonathan Swift sarebbe d'accordo.

Corriere 23.11.14
Il giovanilismo di «Announo» non riesce a conquistare i ragazzi
di Aldo Grasso


Non c’è nulla di meno giovane del giovanilismo. Se ne deve essere accorta — lo speriamo davvero — Giulia Innocenzi, alla guida dell’ennesimo talk in onda su La7, «Announo», che ha preso il posto dell’«Annozero» di Michele Santoro dalla scorsa settimana.
Un talk come tanti o un talk diverso dagli altri? L’obiettivo ambizioso di avvicinare ragazze e ragazzi ai temi dell’agenda politica è dichiarato, oltre che dal volto fresco e capace della conduttrice, dal pubblico parlante che interloquisce con gli ospiti in studio. Peccato che, fuori dallo studio, i giovani «veri» se la siano data a gambe, e qualcosa deve essere davvero andato storto. La puntata iper-localista col sindaco di Roma Ignazio Marino e con l’incredibile patron della Lazio Claudio Lotito (che coltiva da sempre ambizioni politiche, ma per ora colleziona gaffe sulla filantropia di Carlo Tavecchio che «adotta dei cosi…») è stata la meno vista nella storia del programma: solo 842.000 spettatori, per una share del 3,7% (con picchi del 6%, manco a dirlo, a Roma e dintorni…).
L’esordio, con Matteo Renzi, la scorsa primavera, aveva fatto registrare oltre il 10% di share. Non è tanto il fatto di farsi battere da Nicola Porro (il suo «Virus», su Rai2, tocca il 4,5% di share) a dover impensierire la giovane Giulia, quanto la composizione del suo pubblico: a seguire gli «Amici» della politica ci sono soprattutto ultra 65enni (la metà della platea complessiva della trasmissione, 410mila spettatori, per una share del 6,2%), o comunque persone con più di 55 anni (altre 180mila persone, 4,7% di share).
Gli adolescenti e i ventenni? Siamo fermi a 14mila persone fra 15 e 24 anni, l’1% di share. E sì che, il giorno prima, sullo stesso target «Le Iene» superavano il 21% di share. E anche lì si parlava, fra l’altro, proprio di Marino…
In collaborazione con Massimo Scaglioni, elaborazione Geca Italia su dati Auditel

Corriere Salute 23.11.14
La variabilità di ticket e superticket causa disparità e «fuga» nel privato
di M. G. F.


Se la stessa visita specialistica o il medesimo esame diagnostico possono avere un costo diverso per i Servizi sanitari regionali, a parità di prestazione anche la spesa a carico dei cittadini può cambiare. A incidere, oltre alle compartecipazioni condizionate dalle differenze nei nomenclatori tariffari ( vedi sopra ), sono soprattutto i cosiddetti «superticket».
Lo conferma un recente studio di Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari, che ha analizzato i provvedimenti regionali sulla compartecipazione dei pazienti alla spesa per le prestazioni specialistiche ambulatoriali, aggiornati al primo ottobre. Dove e come si paga il superticket?
Non c’è in Basilicata, Valle d’Aosta, Province autonome di Bolzano e Trento, dove si continuano a pagare solo i ticket fino a un massimo di 36,15 euro.
Abruzzo, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lazio, Molise, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna applicano la quota aggiuntiva per ricetta di 10 euro. Le altre Regioni hanno modulato i superticket in base al reddito familiare degli assistiti o sul valore della ricetta.
«La conseguenza di ticket elevati, come già alcune ricerche dimostrano, — dice Isabella Morandi, esperta di Agenas e coordinatrice dello studio — è la «fuga» dei pazienti dal Servizio sanitario verso strutture private, spesso in grado di offrire prestazioni a prezzi concorrenziali rispetto ai ticket». Aggiunge Carla Collicelli, vicedirettore della Fondazione Censis: «Sempre più cittadini vanno alla ricerca anche su internet di prestazioni a basso costo, magari non certificate o non inserite in percorsi di cura appropriati». E, secondo un’indagine Censis, quasi un italiano su due ritiene i superticket una «tassa iniqua».
«La variabilità nella compartecipazione alla spesa fa aumentare le disparità tra chi può permettersi di pagare per curarsi e chi invece ha difficoltà economiche — sottolinea Collicelli —. Come evidenzia un’altra nostra indagine, realizzata insieme alla Fondazione Farmafactoring, chi non ha i soldi per acquistare la prestazione nel privato spesso rinuncia del tutto alle cure, soprattutto in territori sguarniti di altri servizi sanitari».
Lo confermano le segnalazioni dei cittadini al Pit Salute del Tribunale dei diritti del malato-Cittadinanzattiva. Dice il coordinatore nazionale Tonino Aceti: «Il peso dei ticket, aggiunto alle difficoltà economiche di molte famiglie, sta diventando insostenibile e spinge i cittadini a rimandare o rinunciare alle prestazioni sanitarie, in particolare quelle di specialistica e diagnostica. E rischia di accentuarsi se, come pare, la revisione delle esenzioni avverrà in base al reddito anche per i malati cronici e rari».
Un altro studio, realizzato dal Ceis-Centro di studi economici internazionali presso l’Università Tor Vergata di Roma, evidenzia che i ticket elevati fanno diminuire la soglia di aderenza alle cure.
«È vero soprattutto per i pazienti che soffrono di malattie croniche e asintomatiche e per coloro che prima dell’introduzione dei superticket seguivano maggiormente le indicazioni fornite dai medici — riferisce Vincenzo Atella direttore del Ceis e direttore scientifico della Fondazione Farmafactoring —. Ma se le persone non si curano e non fanno i controlli necessari, le patologie si aggravano o possono insorgere complicanze, quindi con costi più alti a carico del Servizio sanitario».
«Il sistema di compartecipazione alla spesa — conclude Isabella Morandi — dovrebbe essere ridefinito per assicurare i Livelli essenziali di assistenza in tutto il Paese e per tutti i cittadini, favorendo anche l’appropriatezza delle prestazioni, cioè inducendo medici e pazienti a prescrivere e richiedere prestazioni solo se servono».
M. G. F.

Corriere 23.11.14
l presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi:
«Garantiremo la sicurezza di Israele»
«Siamo pronti a inviare forze militari all’interno di uno Stato palestinese: aiuterebbero la polizia locale e rassicurerebbero gli israeliani»
intervista di Franco Venturini


Al Sisi: «Aiuteremo la polizia del futuro Stato E vogliamo garantire la sicurezza di Israele» Il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, 60 anni. Ex generale e comandante in capo delle Forze armate, è presidente democratica-mente eletto dell’Egitto dall’8 giugno scorso. Durante la visita in Italia, incontrerà, tra gli altri, Napolitano, Renzi e papa Francesco Il Cairo Il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, che compie da oggi una visita in Italia e in Vaticano prima di proseguire per Parigi, ha concesso al Corriere della Sera la sua prima intervista a un quotidiano occidentale. L’incontro, al quale ha partecipato il direttore del Corriere Ferruccio de Bortoli, si è svolto nel palazzo presidenziale di Heliopolis, al Cairo. Durante il soggiorno romano il presidente dell’Egitto incontrerà il presidente Giorgio Napolitano, il presidente del Consiglio Matteo Renzi, il presidente del Senato Pietro Grasso, il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e una rappresentanza di imprenditori. Domani sarà ricevuto da papa Francesco.

«Siamo pronti a inviare forze militari all’interno di uno Stato palestinese: aiuterebbero la polizia locale e rassicurerebbero gli israeliani. La sicurezza agli israeliani va garantita». A parlare, nella prima intervista a un quotidiano occidentale, è il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, da oggi in visita in Italia e in Vaticano.
Dopo la creazione di uno Stato, «lo strumento migliore per restituire la speranza ai palestinesi», si aprirebbe per il leader egiziano un «lungo processo per ristabilire la fiducia tra le parti: gli israeliani non possono rischiare la sicurezza, i palestinesi non devono più compiere atti sconsiderati».
Mentre spiega che la lotta al terrorismo deve essere «comune, altrimenti non funzionerà», al Sisi — che incontrerà nel suo viaggio il presidente Napolitano, il premier Renzi e, domani, papa Francesco — spiega che in Libia «si stanno creando basi jihadiste. La comunità internazionale stia al fianco dell’esercito nazionale».
Signor presidente, quale messaggio intende portare ai massimi dirigenti italiani?
«Voglio chiedere all’Italia, anche nel suo attuale ruolo di presidente di turno della Ue, di spiegare a tutta l’Europa quanto sta accadendo in Egitto e quanto sia preziosa per tutti la stabilità egiziana. Naturalmente desideriamo anche un aumento degli investimenti italiani che sono già consistenti ma che potrebbero esserlo molto di più. Stiamo provvedendo ad alcuni aggiustamenti legislativi che dovrebbero aiutare. Speriamo che il turismo, italiano ed europeo, riprenda. Ma il messaggio fondamentale riguarda la sicurezza comune, la lotta comune al terrorismo. Perché se non sarà comune, non funzionerà. Di ciò parlerò anche con il Papa, in particolare per l’aspetto che riguarda la sicurezza delle minoranze religiose, cristiani in testa».
A proposito di terrorismo, l’Egitto ha subito e subisce molti attentati, nel Sinai dove siamo quasi alla guerra ma anche nelle grandi città. Lei pensa che esista un legame tra gli attentati e l’infiltrazione dell’Isis nella regione?
«Il terrorismo è composto da tante facce di una stessa medaglia, l’Isis è soltanto una di queste ma all’origine esistono ideologie comuni tra tutte le formazioni terroristiche. Noi combattiamo anche militarmente contro il terrorismo, certo. Ma siamo nel contempo consapevoli del fatto che nessuno potrà fermare la minaccia senza una vera lotta alla povertà, senza interventi che servano a cambiare una certa cultura che poi porta alla facilità di reclutamento. Anche su questo è essenziale collaborare».
È recente la strage nella sinagoga di Gerusalemme. Lei condivide il timore che lo scontro religioso radicalizzi il confronto tra israeliani e palestinesi? La diplomazia egiziana è riuscita a far cessare le ostilità dopo l’ultima guerra di Gaza, ma anche lì le tensioni stanno montando…
«La guerra di religione è uno spauracchio da evitare a tutti i costi, ma servono componenti che talvolta mancano. Nel caso specifico bisogna garantire la sicurezza agli israeliani ma contemporaneamente restituire la speranza ai palestinesi e la creazione di uno Stato palestinese è lo strumento migliore per alimentare questa speranza. Poi, dopo la creazione di uno Stato palestinese, si aprirà un lungo processo, ci vorrà tempo per ristabilire la fiducia tra le parti, ma non è forse accaduto lo stesso tra Egitto e Israele dopo che abbiamo fatto la pace? Il periodo di transizione iniziale sarà determinante, perché gli israeliani non possono rischiare la loro sicurezza e i palestinesi non devono più compiere atti gravi e sconsiderati che sarebbero, a quel punto, anche autolesionisti. L’Egitto è pronto ad aiutare».
Come?
«Le dirò una cosa: noi siamo pronti a inviare forze militari all’interno di uno Stato palestinese. Aiuterebbero la polizia locale e rassicurerebbero gli israeliani con il loro ruolo di garanzia. Non per sempre, s’intende. Per il tempo necessario a ristabilire la fiducia. Ma prima deve esistere lo Stato palestinese dove inviare le truppe».
Ma lei ha parlato con le parti di questa possibilità?
«Ne ho parlato a lungo con il primo ministro Netanyahu, gli ho detto che va imboccata una via coraggiosa, altrimenti non si risolverà nulla».
E con Abu Mazen?
«Certo, ne ho parlato anche con lui».
Presidente, quanto accade in Libia è molto preoccupante sia per l’Egitto sia per l’Italia. Come se ne può uscire?
«Stabilizzare la Libia è una priorità per tutti, non soltanto per i nostri due Paesi. Lì regna il caos, ma soprattutto lì si stanno creando basi jihadiste di estrema pericolosità. La Nato non ha completato la sua missione. Perché dopo la guerra che ha eliminato Gheddafi la Libia è stata abbandonata? Non credo a nuovi interventi militari e l’Egitto non ne ha compiuti e non ne compie. Invece la Comunità internazionale deve fare una scelta molto chiara e collettiva a favore dell’esercito nazionale libico e di nessun altro. Aiuti, equipaggiamenti, addestramento devono andare esclusivamente all’esercito regolare che nel tempo avrà i mezzi per riportare l’ordine».
Esiste pure il problema dei flussi migratori verso Italia…
«Lo so e le faccio presente che ciò non accade in Egitto e non soltanto per ragioni di distanza. L’Italia non può affrontare il problema da sola, è ovvio. Ma serve una strategia della quale si è molto parlato e che andrebbe realizzata con urgenza: bisogna investire e creare lavoro nei Paesi di origine. I diritti umani si difendono anche così».
A proposito, lei è stato accusato di eccedere in durezza nei confronti dei Fratelli musulmani. Proprio in questi giorni è stata chiesta dall’accusa la pena di morte per il suo predecessore regolarmente eletto Mohammed Morsi, sotto processo come migliaia di Fratelli che vengono equiparati ai terroristi. Ci sono state centinaia di condanne a morte, non eseguite in attesa delle sentenze definitive. E il 14 agosto dello scorso anno a Rabaa el Adaweya l’intervento dei militari ha provocato una strage. Non teme che un simile approccio aumenti le divisioni sociali in Egitto e riduca la sicurezza invece di aumentarla?
«Guardi, è lei che esagera. Noi abbiamo soltanto reagito. Dal 3 luglio del 2013, quando Morsi cadde sotto la spinta di milioni di egiziani, fino al 14 agosto, quando dovemmo riportare la normalità al Cairo usando la forza, i Fratelli musulmani avrebbero potuto collaborare con le Forze armate, nessuno li perseguitava, si muovevano liberamente. Invece si dettero alla violenza e crearono una occupazione illegale permanente nella zona di Rabaa el Adaweya attirando provocatori di ogni genere. Cosa dovevamo fare? Abbiamo agito nell’interesse nazionale dell’Egitto e con il pieno consenso della popolazione. Quanto al processo contro Morsi, si tratta di una richiesta della pubblica accusa e siamo al primo grado, c’è l’appello, c’è una procedura lunga e lo stesso vale per gli altri. Noi non interferiamo nel corso della giustizia».
Questo tipo di rapporto con i Fratelli musulmani potrà cambiare in futuro?
«Le ho già risposto, dipende da loro. E dai giudici».
Poi c’è l’altra questione dei tre giornalisti di al-Jazeera in carcere da oltre trecento giorni perché accusati di aver diffuso notizie false a sostegno dei Fratelli musulmani. Alcuni hanno visto nella pesante condanna un gesto ostile verso il Qatar, con il quale ora i rapporti potrebbero migliorare grazie a una mediazione saudita. Ma soprattutto è in gioco il suo rapporto con i media. C‘è qualcosa di nuovo all’orizzonte, per il canadese Fahmy, l’australiano Greste e l’egiziano Baher Mohamed?
«Se io avessi avuto il potere di decidere non li avrei condannati, li avrei espulsi. Ma ora ci sono le decisioni della magistratura, che noi, lo ripeto, rispettiamo. Comunque sì, qualcosa si muove nel senso che ci poniamo il problema di come risolvere questa situazione».
Forse applicando il decreto sull’estradizione promulgato nei giorni scorsi?
«Posso soltanto dirle che di sicuro la decisione eventualmente presa corrisponderà all’interesse dell’Egitto e di nessun altro».
Così come è stato nell’interesse dell’Egitto il taglio delle sovvenzioni sui prodotti energetici, che il Fondo monetario reclamava da tempo?
«Precisamente. L’eliminazione delle sovvenzioni, non soltanto in campo energetico, è una necessità per l’economia egiziana ed è per questo che l’abbiamo applicata. Stiamo facendo il massimo, ma non sono soddisfatto. Abbiamo molti milioni di giovani senza lavoro, come potrei essere contento? E so benissimo che situazioni di questo genere sono collegate alla sicurezza, alla prevenzione del terrorismo. Questo lo dovete capire anche voi europei, io a Roma e poi a Parigi lo ripeterò senza stancarmi. Matteo Renzi è venuto al Cairo, lo sa già, ma io tornerò a insistere. Per aumentare la sicurezza reciproca, ma anche perché cooperando ci si conosce, si creano legami culturali, si restringe il Mediterraneo. Le do un esempio: il nostro ministero della Cultura sta traducendo un’opera sul viaggio della Sacra Famiglia. Un passo, e molti altri dovrebbero seguire reciprocamente se vogliamo trasformare la collaborazione economica e la sicurezza comune in un vero, profondo avvicinamento. Un avvicinamento che è nell’interesse reciproco».
Un altro passo lo ha compiuto lei con la legge contro le molestie alle donne. Soddisfatto dei risultati?
«Le rispondo nuovamente di no. Certo, i casi sono drasticamente diminuiti. Ma una legge non basta, bisogna modificare il costume sociale, dobbiamo avvicinarci al vostro modello che pure non è perfetto. E dire che in Egitto di donne in posizioni di responsabilità ne abbiamo parecchie».
Lei è stato criticato da più parti, ma ora sembra essere al centro di una rinnovata attenzione internazionale...
«Alle critiche ho risposto e l’importanza dell’Egitto evidentemente viene capita. Con gli Usa i rapporti di grande amicizia sono tornati ai tempi migliori. Con Putin c’è una ottima intesa. A Capodanno sarò in visita in Cina. Benissimo, ma io voglio più Europa».


Corriere 23.11.14
Arresti, censura Il «Nuovo ordine» (e i suoi problemi)
di Cecilia Zecchinelli


IL CAIRO L’ultimo leader in libertà dei Fratelli musulmani, il poco noto Mohammed Bishr, è stato appena arrestato. Gli altri sono in cella e la base del movimento, per un anno al potere e ora vietato, è annientata. Di barbe e di veli integrali se ne vedono pochi. La piazza simbolo di Tahrir è trasformata: un parcheggio, aiole e tanta polizia tengono lontano chiunque.
A un anno e mezzo dalla deposizione del presidente islamico Mohammed Morsi da parte del generale Abdel Fattah al Sisi, a sei mesi dall’elezione di quest’ultimo a raìs, il Nuovo Ordine regna sul Nilo. Solo il Sinai resta in fiamme, con le tribù beduine ribelli e i jihadisti alleatisi all’Isis e autori di sporadici attacchi. È qui che il Cairo concentra la repressione militare. Nel resto dell’Egitto, dopo le stragi dei pro Morsi nel 2013, le violenze sono rare. Ma il clima non è sereno .
«Siamo in un nuovo Stato di polizia, peggio che sotto Mubarak» sostiene la giornalista Sara Khorshid. Giorni fa parlava in un caffè con Alain Gresh, direttore diLe Monde Diplomatique : una cliente li ha accusati di «rovinare il Paese» e li ha fatti arrestare. Solo per poche ore, grazie all’ambasciata francese. A uno studente egiziano è successo lo stesso: fermato, secondo i media, per il possesso di «1984» di Orwell.
Il libro ora è di culto sui social media, accanto all’attore Khaled Abu Naga accusato di «tradimento» per critiche al presidente e al cantante Hamza Nagira bandito dai media per gli stessi motivi. «La censura è totale a parte pochi siti web, i grandi giornali e tv hanno firmato un impegno a evitare critiche al governo. Se all’inizio i nemici erano gli islamisti, ora ogni voce è messa a tacere» dice la giornalista Shahira Amin.
Ma dell’opposizione, delle migliaia in carcere, della politica, agli egiziani importa ormai poco. La crisi economica resta enorme: gli unici argomenti sono l’aumento dei prezzi, la disoccupazione, la drammatica assenza di turisti .

Il Sole 23.11.14
Nucleare, dopo 12 anni di trattative Usa e Iran «obbligati» all'accordo
di Alberto Negri


Too big too fail, troppo grande per fallire, questa sarebbe la logica che guida l'ultima tornata di negoziati sul nucleare iraniano del «5+1» che si dovrebbe concludere, salvo sorprese, domani a Vienna. Con il Medio Oriente in fiamme, la questione, dice il senso comune, è troppo strategica per sprofondare verso un insuccesso.
Più probabile un'ennesima proroga, comunque percepita come un mezzo fallimento. Ma per comprendere questi negoziati in corso da 12 anni la logica non basta e gli scenari sono tutti aperti, senza esclusione di colpi di scena.
L'Iran, con la sua storia millenaria e le origini indoeuropee, non è un nemico implacabile dell'Occidente come viene spesso dipinto ma su Teheran pesano i 35 anni dalla rivoluzione dell'Imam Khomeini del '79, il sostegno ai gruppi radicali islamici come Hezbollah e Hamas e la rottura dei rapporti con gli Usa per il sequestro degli ostaggi nell'ambasciata americana di Teheran.
Per questo un eventuale accordo avrebbe una portata storica nelle relazioni tra americani e iraniani con ricadute importanti sugli equilibri internazionali. Ma dietro i pur importanti dettagli tecnici su centrifughe nucleari, arricchimento dell'uranio e sanzioni, si nasconde il vero problema che è politico e ideologico: la Repubblica islamica si considera la guida dell'"asse della resistenza", l'America il guardiano dell'ordine occidentale.
Ai due massimi decisori, il presidente Barack Obama, e la Guida Suprema Alì Khamenei, l'intesa farebbe comodo per uscire dall'impasse. Tutti e due hanno lo stesso problema: come venderlo all'interno e all'esterno. Il primo non può dare l'impressione di avere concesso troppo, il secondo, insieme al pragmatico presidente Hassan Rohani e al conciliante ministro degli Esteri Javad Zarif, deve sbandierare l'accordo come una vittoria senza cedimenti.
Obama è sotto tiro del Congresso che non controlla più, Khamenei, pur avendo l'ultima parola, non è un dittatore ma un arbitro che deve tener conto di complicati equilibri tra politici, religiosi, militari. La politica interna iraniana, come disse Churchill a proposito di quella russa, «è un indovinello avvolto in un mistero all'interno di un'enigma».
Obama ha bisogno di un successo per riprendere vigore dopo la batosta elettorale, questa è la sua prova del nove in Medio Oriente dove ha già fallito con il negoziato israeliano-palestinese. L'Iran sciita gli serve per fare fronte comune contro la barbarie del Califfato ed è fondamentale per la stabilizzazione dell'Iraq. Non solo. Se c'è un'intesa sul nucleare forse è possibile averne una per la transizione politica nella Siria di Assad, alleato di Teheran. Inoltre l'Iran è protagonista sul quadrante afghano dove Obama in vista del ritiro nel 2015 avrebbe anche dato ordini segreti per continuare la guerra contro i talebani.
Khamenei e il presidente Hassan Rohani puntano su un'intesa che tolga le sanzioni e a fare uscire dall'isolamento un'economia quasi in caduta libera (-5% quest'anno) consentendo all'Iran di tornare da protagonista sul mercato dell'energia: Teheran non ha solo il petrolio ma le seconde riserve al mondo di gas dopo la Russia. È un'alternativa di rifornimento energetico per l'Europa - Italia compresa - che per le sanzioni all'Iran in questi anni ha perso 350 miliardi di dollari di commesse.
Per avere un accordo occorre risolvere due problemi. Il primo sono i limiti da imporre alle capacità nucleari dell'Iran in modo che se Teheran provasse a fare un'atomica servirebbero tempi lunghi (almeno un anno) dando alla comunità internazionale il tempo di reagire. Il secondo punto è la cancellazione delle sanzioni: tutto e subito chiedono gli iraniani, mentre gli occidentali vogliono un calendario graduale e sottoposto a verifiche.
Contro questo accordo c'è chi rema contro, oltre ai falchi del Congresso e all'ala dura dei Pasdaran iraniani.
Il presidente americano deve convincere i suoi due principali alleati in Medio Oriente, Israele e l'Arabia Saudita. Israele considera Teheran una minaccia vitale alla sua esistenza, non si fida degli ayatollah, ritiene che se non ci fosse un accordo potrebbe continuare a tenere la pistola puntata sulla repubblica islamica ed è assai irritato dagli scambi di lettere tra Obama e Khamenei. I sauditi, custodi dell'ortodossia sunnita, vedono nell'Iran un concorrente all'egemonia nel Golfo, un avversario assai pericoloso per la sua influenza religiosa e militare in Medio Oriente.
Ma anche nel famoso Cinque più Uno ci sono potenze che soppesano con diffidenza un'intesa. La Russia è favorevole ma in caso di fallimento Teheran, che ha appena firmato un accordo con Mosca sul nucleare civile, cadrà nelle sue braccia. Mentre la Francia si è votata a sostenere le posizioni saudite: le andrebbe bene un rinvio per continuare a lucrare sui contratti di armamenti nel Golfo.
L'Italia, dove nei prossimi giorni è in visita la vicepresidente iraniana Masumeh Ebtekar, avrebbe potuto dire la sua a Vienna se anni fa avesse accettato l'invito a entrare nel negoziato nucleare che invece fece cadere con inspiegabile imperizia. A noi comunque un accordo farebbe gioco perché il mercato iraniano è sempre stato uno dei più promettenti. Ma sarebbe anche importante politicamente in quanto riaprirebbe spazi di manovra per la diplomazia italiana che ha sempre avuto un canale aperto con l'Iran e i suoi alleati nella regione.

Corriere 23.11.14
Tunisia
Il favorito nelle elezioni di oggi, Beji Caid Essebsi
La primavera araba ha il volto laico (di un ottantottenne)
di Francesco Battistini


Oggi al voto per le prime presidenziali dopo Ben Ali. Grande favorito Essebsi, gli islamici senza candidati Il favorito Beji Caid Essebsi, 88 anni, ha fondato il partito Nidaa Tounes, ora al governo Il futuro delle primavere arabe punta su un signore di 88 anni. Un ministro dei tempi di Bourghiba, fiero oppositore di Ben Ali. Un uomo che gestì l’ingombrante presenza dell’Olp d’Arafat a Tunisi, bombardamenti israeliani compresi. Un intellettuale di radici sarde — i bisnonni erano mamelucchi che emigrarono in Tunisia — e di studi parigini. Oggi Beji Caid Essebsi si candida a diventare il primo, vero presidente dopo il «benalismo». Favoritissimo. Non è detto che ce la faccia al primo turno, anzi è molto probabile che s’andrà a un ballottaggio di fine anno, ma i sondaggi sono tutti per lui: da una parte l’usato sicuro, dall’altra un futuro che un po’ spaventa. Contro Essebsi giocano al momento solo l’età — troppo anziano forse per reggere cinque anni di mandato, con fondamentali scelte di politica estera e di difesa — assieme all’avere imbarcato molti ex del regime. Ma in ottobre i tunisini hanno dimostrato d’infischiarsene e hanno dato la maggioranza al suo partito nuovo di zecca, Nidaa Tounes — letteralmente: chiamata per la Tunisia, quasi un ultimo appello — per dimostrare che almeno una delle rivoluzioni ce la può fare.
Bruciano la Libia e la Siria? Sono zittite le piazze d’Egitto e Bahrein? Barcolla lo Yemen? Prima a rivoltarsi quattro anni fa, la Tunisia lo è stata anche nell’archiviare gli esperimenti islamisti. Il partito dei Fratelli musulmani Ennahda è stato ridimensionato al secondo posto, i salafiti sono all’angolo (anche se è da qui che parte il numero maggiore di jihadisti per il Califfato), il Paese alla fine s’è dato una nuova Costituzione, «la più avanzata del mondo arabo», diritti delle donne e niente sharia. Essebsi punta su questi fattori per sbaragliare il più temibile degli avversari, Moncef Marzouki, il presidente ad interim, un liberalsocialista che strizza l’occhio agli islamici senza esserne troppo ricambiato: Ennahda non ha presentato nemmeno un candidato, puntando forse a una lottizzazione nel futuro governo nominato dal presidente. Gli altri in lizza, una ventina e all’apparenza solo comprimari: Slim Rihahi, il Berlusconi tunisino magnate del calcio, che ha sorpreso all’ultimo voto; l’uomo delle sinistre, Hammami.
E l’unica donna, la più mediatica: Khaltoum Kannou, giudice che fu famosa per la sua opposizione a Ben Ali, una campagna puntata molto sull’immagine e sul sogno d’una Tunisia più laica. «We Kannou», il suo slogan, come il We Can di Obama. Dicono che non può andare al ballottaggio ed è difficile che ci vada. Ma partecipare è già potere.

La Stampa 23.11.14
Casinò, corruzione e mafia. Così la Cina fa ricca Macao
Centro offshore in yuan
Funzionari di partito spendono ai tavoli da gioco i proventi delle tangenti Alcuni s’indebitano per milioni di dollari scatenando la vendetta delle gang
di Federico Varese


Il presidente Xi Jinping si appresta a visitare Macao per celebrare il quindicesimo anniversario del ritorno dell’ex colonia portoghese alla Cina. Non sarà un viaggio facile. Il leader cinese è preoccupato dalla crescente criminalità finanziaria. Secondo una stima recente, 202 miliardi di dollari vengono riciclati ogni anno attraverso i casinò della penisola. Questa massa immensa di denaro proviene della Repubblica Popolare: funzionari di partito e amministratori di aziende pubbliche spendono parte delle tangenti accumulate durante l’anno ai tavoli da gioco e nelle saune-bordello che si trovano in molti hotel, mentre il rimanente viene usato per acquistare immobili, aziende e titoli di stato in Occidente.
La miscela esplosiva di corruzione endemica e riciclaggio su vastissima scala mostra la fragilità del capitalismo di stato inaugurato da Deng Xiaoping.

Per quattrocento anni, Macao è stata una colonia portoghese. Ancora oggi giovani e anziani chiacchierano nella piazza principale a ridosso dell’antica cattedrale cattolica, mentre nei ristoranti il menù è mediterraneo. Il cuore della città moderna sono i 33 casinò costruiti con investimenti cinesi e americani dal 1999 a oggi. Il kitsch è d’obbligo: il Venetian è una replica della nostra città lagunare, con canali e gondolieri che fanno la serenata ai giovani fidanzati. Nondimeno, il modello funziona e Macao oggi vanta quasi il triplo dei profitti di Las Vegas. Ma dietro la facciata di cartapesta di Piazza San Marco e dei negozi di lusso si nasconde un’economia sporca.
Il mio viaggio in questo mondo segreto inizia nelle sale da gioco per Vip, dove la puntata minima è 10mila dollari. Per scovare questi club riservati bisogna salire ai piani alti degli hotel più prestigiosi, come il Lisboa o il Galaxy Hotel, e si entra solo su invito. È in uno di questi club che incontro Xin, un signore sulla sessantina, spalle larghe e capelli nero pece, robusto e con un sorriso disarmante. Si occupa di gioco d’azzardo da più di dieci anni ed è la terza volta che ci vediamo. Parla mandarino, cantonese e inglese. Il suo mestiere è convincere ricchi cinesi a giocare nel club dove lavora, ma il suo compito non è semplice: pubblicizzare i tavoli verdi in Cina è illegale e i cittadini della Repubblica Popolare non possono spendere più di 3.200 dollari al giorno, una cifra che non permette neppure di affacciarsi alla porta della sua sala, senza contare che ai funzionari pubblici è proibito entrare in un casinò.
«“La mia arte consiste nel convincere i mandarini a venire a Macao. Li porto nelle migliori saune della città, dove possono scegliere tra centinaia di prostitute, dalle russe alle thailandesi. Tutto a spese mie». Il passo successivo consiste nel prestare al giocatore non meno di 150mila dollari, denaro virtuale che può essere usato solo nel suo club (lo stesso sistema lo si ritrova nei casinò montenegrini gestiti da «imprenditori» baresi).
Qui non esiste alcuna norma per proteggere i giocatori vulnerabili, i quali finiscono presto sul lastrico. Una volta un cliente rimase al tavolo per sei giorni di fila e alla fine dovettero portarlo via in ambulanza. Le cifre perse sono da capogiro. Il capo del dipartimento propaganda di un’importante città ha perso 15 milioni di dollari, mentre l’ex vice-sindaco di un piccolo centro del Nord Est ne ha buttati un milione e seicentomila in tre giorni. Entrambi sono stati fucilati.
La criminalità organizzata si incarica di riscuotere i debiti una volta che il giocatore è tornato in patria. In un caso, affiliati della 14K - il gruppo mafioso più potente di Macao - sono andati a Canton a recuperare 335mila dollari per conto di Xin e il malcapitato debitore, ormai sul lastrico, è finito all’ospedale. In un altro caso, la stessa cosca ha fatto visita a un manager di stato di Shanghai. Poiché questi si ostinava a non pagare, gli hanno ucciso la fidanzata.
La riscossione dei crediti è un fattore potente di diffusione della mafia sulla terraferma. Le Triadi di Macao e Hong Kong forgiano alleanze con gang radicate in Cina, dando vita a potenti gruppi transnazionali. Come ebbe a scrivere Orazio della Grecia antica sottomessa all’Impero di Roma, la colonia «conquista il selvaggio vincitore».
I giocatori incalliti sono responsabili solo di una frazione dell’economia sporca di Macao. Il resto proviene da affari più o meno leciti condotti in Cina. Chiunque voglia far uscire i soldi dal Paese deve passare per luoghi come Zhuhai, una città con più di un milione di abitanti al confine con Macao. Qui, in uno shopping centre a pochi metri dalle guardie di frontiera, si possono comprare Dvd contraffatti, videogiochi, medicine e telefonini. Ci sono anche una trentina di negozi che all’apparenza non vendono nulla. Una signora di una certa età, con fare spiccio, ci spiega: «Se mi date valuta cinese, vi faccio avere dollari di Hong Kong al di là della frontiera». La donna gestisce una delle «banche» informali che, secondo un’indagine della «Reuters», spostano più di 1 miliardo di yuan (circa 150milioni di dollari) al giorno da Zhuhai a Macao, un flusso di denaro che sfugge interamente ai controlli delle autorità cinesi. Uomini d’affari che non possono attendere i permessi ufficiali per importare o esportare capitali, funzionari corrotti ansiosi di riciclare le tangenti, gruppi criminali che devono spostare i profitti dell’immenso mercato della droga e del traffico di essere umani, tutti usano questo sistema bancario informale interamente fondato sulla fiducia. La signora ci invita in una stanza nel retro del negozio per spiegarci come funziona il sistema. Il cliente consegna il denaro e il numero del suo passaporto. Ottiene in cambio un codice segreto. Con questo e il passaporto può ritirare il giorno stesso la somma in valuta direttamente alla cassa di un casinò di Macao.
L’ex capo del partito di Chongqing, poi accusato insieme alla moglie di aver ucciso un imprenditore inglese, ha trasferito in questo modo 1,2 miliardi di dollari. «Bisogna stare attenti alle truffe – avverte la donna – ma sono rare».
Il modello di capitalismo di stato cinese è giunto a un punto di svolta. Milioni di funzionari pubblici mal pagati sono in grado di estrarre tangenti astronomiche da chi produce ricchezza. La corruzione diffusa genera scelte disastrose, danni ambientali, speculazione edilizia e costruzioni insicure. La vicinanza ai centri del turbo-capitalismo come Hong Kong e Macao permette poi di nascondere i capitali all’estero. La campagna contro tangentopoli e riciclaggio inaugurata dal leader cinese non può limitarsi a esecuzioni esemplari, ma deve promuovere la creazione di uno stato di diritto con istituzioni in grado di controllare se stesse. Altrimenti rimarrà una iniziativa di cartapesta. Come la Piazza San Marco dell’Hotel Venetian.
Los Angeles diventerà uno dei primi centri offshore in yuan nel Nord America. La banca cinese ICBC ha siglato un accordo con la città statunitense per promuovere il trading transnazionale dello yuan, la valuta cinese, e creare una piazza offshore in renminbi in California. L’accordo arriva in un momento in cui gli Stati Uniti sono molto indietro rispetto ad altri Paesi su questo fronte. Nei primi nove mesi del 2014, i pagamenti transnazionali tra Cina e Usa hanno superato i 160 miliardi di yuan. Nello stesso periodo il valore del business transnazionale di ICBC ammontava a circa 28 trilioni di yuan, in aumento dell’80% rispetto allo scorso anno.

Repubblica 23.11.14
Addio al monopolio più antico del mondo. La Cina rinuncia all’esclusiva sul sale
Un passo cruciale di Xi Jinping verso il libero mercato
Per la prima volta Pechino apre il commercio dell’“oro bianco” ai capitali privati, compresi quelli stranieri
di Giampaolo Visetti


PECHINO CI SONO voluti 2600 anni. La Cina ha infine ceduto, annunciando la caduta del monopolio di Stato più antico del mondo. Dal 2016 il sale potrà essere prodotto e commercializzato anche dai privati. Il mercato, all’inizio solo a Shanghai, sarà aperto pure agli stranieri. Sul sale, prima ancora che sul tè, sul tabacco e sulla seta, le dinastie cinesi hanno costruito il solo impero della storia paragonabile a quello romano. Mao Zedong lo sapeva: nel 1950, a pochi mesi dalla fondazione della Repubblica popolare, si affrettò a rinnovare l’esclusiva sul bene che aveva consentito al popolo “han” di conquistare l’Asia, influenzare il Medio Oriente e conoscere l’Europa.
Il tempo delle millenarie rotte commerciali si è però consumato. Non servono più le spezie per fondere popoli e civiltà e anche nella Città Proibita soffia il vento delle riforme liberiste. Il governo ha anche annunciato che il prezzo del sale sarà liberalizzato e che il mercato interno più ricco del pianeta sarà «aperto totalmente ai capitali ».
All’origine della svolta, oltre ad un business sempre meno significativo, c’è la salute dei cinesi. La libera concorrenza favorirà il consumo del sale iodato, di origine marina, completando la dieta di una classe media sempre più vasta ed esigente. In Cina si usa ancora quasi esclusivamente sale gemma, estratto nelle miniere dell’Himalaya. Proprio attraverso le montagne più alte della terra sono transitate le carovane di yak e di cavalli che lo trasportavano verso il Mar cinese meridionale, o verso l’India. Un patrimonio non solo alimentare ed economico. Il sale ha fatto incontrare il Tibet con il Nepal, la Birmania con la Mongolia, lo Xinjiang con la Persia e la Turchia, la Russia con lo Yunnan diffondendo il buddismo, l’islam, l’uso della ceramica e dei metalli. Le statue più sacre del Potala, il monastero- fortezza dei Dalai Lama a Lhasa, venivano pagate con sacchi di sale, usati come moneta.
L’importanza del condimento, all’epoca unico conservante, era tale che attorno al Mille lungo la Via del Sale che attraversava l’Asia e la catena del Tianshan, marciavano ogni anno ventimila cavalli e altrettanti cammelli. Per lo scambio dell’”oro bianco”, accompagnato dal riso e dall’oppio, sorgevano villaggi e città, paragonabili alle attuali capitali della finanza. Un declino consumato da tempo: fino a ieri però non abbastanza da convincere il partito comunista a rinunciare al controllo di un bene che Deng Xiaoping definiva «materia prima del popolo».
Il primo passo nel 2006, quando Hu Jintao ha abbattuto un altro monopolio storico, revocando la tassa sui terreni agricoli. Tocca ora a Xi Jinping chiudere quella che la tv di Stato ha chiamato «l’era del sale», trasformando la data nel simbolo «della Cina che si apre al mercato». Il “nuovo Mao” aveva bisogno di una merce-icona per trasmettere globalmente il messaggio che la seconda economia del mondo «è sempre meno statalista e sempre più capitalista ».
Segnale, oltre che saporito, potente. I cinesi entro due anni potranno scegliere tra ventisei varietà di sale e quaranta aromi diversi. L’Occidente realizza che la Cina, dando l’addio al sale di Stato in cucina, sarà sì un mercato: ma sempre più salato.

Corriere 23.11.14
Il dialogo tra Cina e Vaticano sulle nomine dei vescovi
di Alberto Melloni


Per qualche ora su vari siti di informazione di Hong Kong è apparsa la notizia che un accordo Cina-Vaticano sulla nomina dei vescovi era imminente e che già a gennaio il negoziato in corso potrebbe portare a una accordo epocale sulla nomina dei vescovi. In due ore la polizia cinese ha ripulito quei siti da una notizia che ha fatto intanto il giro del mondo. Ma è proprio questa censura attivata a protezione del dialogo che conferma che la cosa è vera, è seria e che la Cina non ha nessuna intenzione di lasciarla fallire per le indiscrezioni di qualche spiritello maligno e risentito.
Che ci sia in corso da mesi un dialogo diretto sino-vaticano è noto e qualche dettaglio (lo scambio di lettere fra Xi e Francesco, il sorvolo del Paese di Mezzo nel viaggio asiatico dell’estate scorsa) conferma che progredisce.
Il Segretario di Stato è stato scelto anche per questo e due principi che proprio Parolin ha applicato nel negoziato col Vietnam — «vivere il Vangelo all’interno della Nazione» ed «essere buoni cattolici essendo buoni cittadini» — sembrano un abito su misura per la Cina: rimane solo la questione dei vescovi che potrà utilizzare uno dei tanti modelli a disposizione della storia per far sì che si chiuda una divisione e che Francesco possa fare il «grande balzo» e andare a dire la comunione di tutta la chiesa dove essa arrivò con i missionari persiani, con la Bibbia di Marco Polo, con l’amicizia di Matteo Ricci e Xu Guanqi.
Tuttavia la tessitura di una armonia duratura è stata ed è ostacolata con ogni mezzo da tre gruppi. Il primo è quello di un cattolicesimo nobile e ideologicamente antagonista, che vedeva e vede la maturazione di un dialogo come la sconfessione dell’anticomunismo di chi ha sofferto della repressione antireligiosa di mezzo secolo.
Il secondo, paradossalmente sintonizzato col primo, è quello degli ideologi di un comunismo dottrinario che non vogliono concedere libertà che implichino una riduzione della presa del partito sulla società. Terzo e ultimo gruppo, contro quel disegno di amicizia ha agito lo scomposto attivismo di uno stuolo di sedicenti mediatori, non sempre disinteressati, che hanno generato confusione e non hanno mai detto abbastanza chiaro e abbastanza tondo che la password delle relazioni sino-vaticane era semplicissima: 06-6982, il numero del centralino vaticano.
La Santa Sede e l’immensa Cina possono infatti giovarsi di chi fa il suo lavoro culturale o scientifico con purezza: ma non hanno bisogno di negoziatori altri e non si fideranno mai (giustamente) di nessun mediatore.
Perché per entrambe le relazioni diplomatiche sono solo un aspetto — piccolo, decisivo — di un problema rispettivamente tutto teologico e tutto politico. Per la chiesa una nuova «plantatio» in Asia, a colonialismo finito, significa scoprire tesori della rivelazione che per esprimersi hanno bisogno di culture diverse da quella greco-latina che ha disegnato l’attuale forma della vita cristiana. Per la Cina costruire relazioni normali con la chiesa di Roma, senza supporti politici (come accade invece col patriarcato di Mosca grazie al Cremlino), significa dimostrare che il Paese che vuole essere il numero uno al mondo sa misurarsi con una chiesa che a suo modo un numero uno lo è.
A questi obiettivi fra loro asimmetrici serve qualche risultato, che potrebbe giovare a tanti inclusa l’Italia. E il risultato nasce dalla discrezione: quella proverbiale di Parolin non ha bisogno di conferme; il governo cinese, con la sua pronta reazione, ha dimostrato di comprendere la delicatezza di un dialogo che semina un seme di pace in un mondo di orrore sanguinario.

il Fatto 23.11.14
Vittorio Gregotti
“Non ho mai capito perché il Pd non ha votato Stefano Rodotà”
“L’Expo di Milano è una truffa: serve solo a buttar via soldi”
L’architetto si racconta, dall’infanzia nella fabbrica del padre alla scoperta di Parigi: “Quando andavi al Deux Magots ti giravi a chiedere la zuccheriera, dietro c’era Sartre o Camus. E poi ci si metteva a chiacchierare”.
Sull’esposizione universale spiega: “Lavoravo al progetto di Parigi, un giorno chiamò Mitterand: ‘Costa troppo. Non si fa più’. E come aveva ragione”
intervista di Silvia Truzzi


Il bello e il vero
Non solo architetto, ma intellettuale umanista. Ha conosciuto tutti i grandi: da Thomas Mann a Vittorini e Giorgio Bocca, da Lèger a Le Corbusier e Gropius

VITTORIO GREGOTTI è nato a Novara nel 1927. Nel 1974 ha fondato la Gregotti Associati, studio tuttora attivo a Milano. Dal 1978 al 2000 è stato professore ordinario di Composizione architettonica presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia ed è stato visiting professor presso le Università di Tokyo, Buenos Aires, San Paolo, Losanna, Harvard, Filadelfia, Princeton, Cambridge e all’M.I.T. di Cambridge (Usa). Dal 1982 al 1996 è stato direttore di Casabella. Collabora con le pagine culturali del Corriere della Sera. Ha scritto una ventina di libri, tra cui l’ultimo Il possibile necessario (Bompiani).
Le sue opere

Le sue opere più importanti: Il quartiere Zen di Palermo (1969-73), gli edifici nella Lützowstrasse a Berlino (1979-82), il Centro ricerche Montedison a Portici (1977-82), il Centro olimpico di Barcellona (1983-85), la Bicocca di Milano (1986-88), lo stadio di Genova (1986-88), il Centro culturale Belém a Lisbona (1992), la nuova città di Pujiang in Cina, l’università di Cosenza, la rinnovata sede del Corriere della Sera, il teatro di Aix-en-Provence (foto) gregottiassociati.it

Milano Il successo e la fortuna sono in noi. Noi dobbiamo tenerli: con forza, profondamente”, spiega a un certo punto Tom Buddenbrook alla sorella Tony. Il padrone di casa si accomoda in una sala riunioni a due passi da Corso Magenta e dice: “Lo sa che io Thomas Mann l’ho conosciuto? ”. Davanti c’è una grande porta finestra che si spalanca su un giardino, uno di quelli bellissimi che Milano ci tiene molto a nascondere, non si sa mai qualcuno scopra che non è poi così brutta. E a proposito di buona sorte, di borghesia illuminata e destini per nulla segnati, Vittorio Gregotti comincia subito spiegando la genesi del fato: “Una delle fortune della mia esistenza è stata nascere dentro una fabbrica. Mio padre era il direttore, la mia famiglia aveva fondato l’azienda, che produceva tessili, nel 1870. Sono cresciuto con gli operai: andavo in giro con loro, con loro giocavo a pallone. Mio fratello e io, ragazzini, li spiavamo quando andavano in bagno, perché andavano lì a fare l’amore. Quando ho compiuto quattordici anni mio papà mi ha mandato a lavorare come operaio da un suo socio per tre mesi. Questo ha influenzato moltissimo la mia vita: mi sono rifiutato di fare l’industriale perché ho capito subito che non era il mio mestiere. E poi ho capito lì cosa vuol dire il lavoro collettivo nei suoi aspetti positivi, quelli di contrasto: non a caso ho sempre avuto dei soci e dei collaboratori, cui devo moltissimo”.
Altre fortune?
La seconda fortuna della mia vita è stata che quando ho deciso di fare l’architetto, appena dopo la guerra, mio padre mi ha detto: “Ti mando sei mesi fuori Italia, quest’aria qui è troppo provinciale. Allora ho chiesto di andare a Parigi: non solo perché era la capitale di tutto, ma anche perché – avendo avuto una governante francese – sapevo bene la lingua. Così nel ’47 sono stato a Parigi per un po’ di mesi. Parigi è stata una rivelazione, un’epifania. Quando andavi al Deux Magots ti giravi a chiedere la zuccheriera e dietro c’era Sartre o Camus. E la cosa non finiva con lo zucchero, poi ci si metteva a chiacchierare. Ma i rapporti allora erano imparagonabili ad adesso. Avevo una grande stima e ammirazione per Fernand Léger, il pittore. Una volta sono andato a suonare alla sua porta, al 104 di boulevard de Clichy. Lui mi ha aperto, siamo stati un pomeriggio insieme a parlare. E alla fine mi ha regalato un disegno. A Parigi ho avuto anche il grande privilegio di lavorare per un po’ di tempo nello studio di Auguste Perret, l’architetto che ha ricostruito Le Havre: avevo 20 anni.
Ma poi gli studi sono a Milano.
Ho fatto l’Università qui: ci venivo da Novara col treno o con la carrozza. C’era una gran nebbia d’inverno che entrava fin dentro la stazione. Prendevo il tram con operai silenziosi, che andavano al lavoro dopo aver bevuto un “grigioverde”, una grappa con la menta. Era un mondo di fabbriche, quello che i miei i compagni, molti dei quali iscritti al Pci, non sapevano cosa fosse. Il mio primo amico di quei tempi fu Emilio Tadini: lui mi presentò Elio Vittorini, circostanza che aumentò le mie pretese da intellettuale. Ho sempre avuto una grande passione per la musica e per la letteratura. Gli amici della vita sono stati in gran parte scrittori.
Per esempio?
Ne cito alcuni: Montale, Gadda, Moravia, Parise, Tabucchi, Garcìa Marquez. Comunque il vantaggio di essere a Milano alla fine degli Anni Quaranta, era anche poter andare in Piazza Cavour. Davanti al Palazzo dei giornali c'era un edificio che era stato bombardato e sopra era stata aperta un’osteria, dove andavano naturalmente tutti i giornalisti. Ci andavo anch’io: è lì che ho conosciuto per esempio Giorgio Bocca. Era piemontese, come me: anzi, più di me. Siamo stati amici fraterni per tutta la vita, abitava qui vicino e ogni tanto o veniva lui a mangiare o andavo io. L’ultima volta è stato poco prima che se ne andasse.
Il primo impiego?
Al terzo anno di Università – ero compagno di scuola di Gae Aulenti con cui saremmo stati amici tutta la vita – mi sono reso conto che ero un po’ deluso e i professori mi sembravano di scarsa qualità, a parte Muzio. Così ho deciso di andare a lavorare da Belgiojoso, Peressutti e Rogers, il mitico studio BBPR. Ernesto Rogers è stato il mio grande maestro: un uomo interessantissimo, un incontro capitale per me. La generazione prima della mia, quelli nati all’alba del Novecento, era una generazioni di artisti nel senso più tradizionale del termine. Mentre Rogers era nato a Trieste, da una famiglia colta, sapeva, oltre all’italiano, il tedesco, il francese, l’inglese e un po’ di spagnolo. Suo padre era stato amico di Joyce. La passione, oltre che per la teoria dell’architettura, anche per le altre arti mi è venuta da lui. Questa è forse anche una delle ragioni per cui mi sono sempre interessato di pittura e alla fine sono diventato anche direttore della Biennale di Venezia. In quell’occasione ho inventato la “Biennale di Architettura”.
Poi ha ripreso l’Università.
Naturalmente: mi sono laureato nel ’52. Un anno prima ero andato al convegno del Comité International pur l’Architecture moderne, che quell’anno si teneva in Inghilterra, a Hoddesdon. Un episodio importante perché lì ho incontrato tutti i grandi maestri del Moderno: Le Corbusier, Gropius, Wells Coates, Giedion, Over Arup, che suonava meravigliosamente la fisarmonica! Mangiavo con loro, l’ultimo che stava sulla tavola serviva gli altri. Per Le Corbusier ho organizzato poi la prima mostra di tempere nella libreria di Feltrinelli a Milano.
E Giangiacomo lo conosceva?
Come no! Benissimo, andavamo in barca insieme: ho conosciuto tre delle sue mogli, compresa Inge naturalmente. Negli ultimi era diventato un po’ troppo bizzarro. La mattina della sua morte mi ha telefonato Camilla Cederna: era sicura che fosse stato un attentato. Io non lo so, può darsi che sia stato un tentativo maldestro finito male. Aveva delle forme di grande ingenuità: ricordo che qualche mese prima mi aveva mostrato una sua idea di uniformi che voleva fornire agli indipendentisti sardi. Tutto questo non cancella i suoi molti meriti, tra cui la scelta di avviare un’impresa editoriale di prim’ordine. Lui era ricco di famiglia, d’accordo. Ma è stato coraggioso, non era così semplice; a rappresentare la sinistra c’era un editore come Giulio Einaudi. Anche lui era un personaggio piuttosto bizzarro. Con Giulio andavamo in montagna elui pretendeva di spiegare ai maestri di sci come dovevano insegnare. Faceva discorsi sul metodo a questi che lo guardavano sconvolti!
Torniamo a Hoddeston.
Questo convegno aveva come tema il rapporto di compatibilità tra le metodologie del moderno e le questioni poste dalla storia e dai contesti fisici e culturali dei luoghi. L’architettura moderna era nata in contrapposizione con la storia, ma ci si rendeva conto che la storia era il terreno su cui si doveva lavorare ma che ci lasciava liberi di scegliere la direzione da assumere. La mia generazione è stata molto influenzata da questa idea, pur con interpretazioni tra loro diversissime. Il problema della ricostruzione in Europa era legatissimo alla storia, i monumenti erano importanti per la relazione con il passato e la tradizione. Si poneva la questione di come rendere compatibile il nuovo con il passato. Poi nel ’52 cominciò a lavorare con due amici: uno non c’è più e l’altro è in pensione. Come del resto dovrei essere io. Non mi chieda perché non lo faccio, già lo fa spesso mia moglie
Lei ha lavorato moltissimo fuori dall’Italia.
In Cina, Nord Africa, Francia, Spagna, Stati Uniti. Oggi, assai di più che negli anni 60/80 la misura della decadenza italiana, si sente molto. La paralisi, per quanto riguarda l’architettura, non è solo una paralisi pratica, è una paralisi di fondamenti e di intenzionalità.
Abbiamo perso la capacità di elaborare discorsi critici?
Sono convinto che il grosso problema sia il passaggio dall’età dell’industria – con tutte le sue difficoltà e contraddizioni – all’epoca attuale, del globalismo finanziario. Un passaggio non ancora consumato, di difficile comprensione. Oggi ci troviamo in una condizione di assoluta barbarie nei confronti del mito della tecnologia che sembra essere l’unico contenuto di futuro. Anche i media hanno un grosso ruolo: abbiamo reso talmente mitiche le strutture della comunicazione da confondere i mezzi con i fini.
Una volta ha detto: “Oggi ha successo soltanto lo showman: l’artista è più importante delle cose che fa e le opere si sono trasformate in eventi”.
Chi come me ha a che fare con l’arte, si trova continuamente a doversi confrontare con il capitalismo della visibilità e della provvisorietà. Mi sembra che anche le archistar di successo mediatico ne siano convinti.
Il professor Severino dice che la tecnica è l’ultimo Dio occidentale.
Ci vorrà molto tempo prima che i processi di avanzamento della tecnologia non siano più miti, ma esclusivamente mezzi. La globalizzazione è il nuovo colonialismo: sarà banale, ma ne sono convintissimo.
Forse non abbiamo più anticorpi, non abbiamo più strumenti per difenderci.
La formazione, a tutti i livelli, è diventata puramente strumentale alle ragioni dell’economia. In realtà tutti i miei allievi migliori avevano fatto studi umanistici. L’architettura si fonda sul rapporto dialettico tra eteronomia e autonomia. Cioè non può dimenticare a cosa serve, la destinazione che ha, ma ha diritto di esprimersi liberamente nell'interpretare i suoi contenuti. Nella scrittura questo carattere non c’è. Lo dico perché sono da sempre un accanito lettore di libri: ne ho tre sul comodino, sempre. Un romanzo, un saggio e un classico. Una volta mi sembrava un dovere terminare un romanzo: oggi però se non mi piace dopo venti pagine, lo abbandono. E ne chiudo tantissimi ormai.
Perché?
Sembrano quasi tutti scritti per fare dei film.
Non è più tempo per I Buddenbrook... Sa che ho conosciuto Thomas Mann? È venuto in Italia nel 1953. Io ero molto amico di Enzo Paci. Un giorno eravamo insieme a Casabella, rivista con la quale ho a lungo collaborato. A un certo punto mi dice: scusa, ti devo salutare. Ho un appuntamento con Thomas Mann al bar di fianco alla Scala. Io ho fatto finta di niente e dieci minuti dopo sono andato al Biffi. E così gli ho stretto la mano. L’ho trovato molto simile a Walter Gropius: avevano entrambi un interesse vivissimo per il prossimo, ti sembrava di essere l’unica persona al mondo con cui volevano parlare. Conoscere Mann mi ha fatto molto effetto, perché per me I Buddenbrook è stato un libro fondamentale. Se avessi conosciuto Joyce sarebbe stato diverso, nonostante l’importanza dell’Ulisse, che ha rappresentato un capovolgimento radicale da cui dipende tutto quello che viene dopo. Ma con I Buddenbrook scattava un meccanismo d’identificazione molto forte, c’era il mondo dell’industria nel quale mi specchiavo.
Lei è stato anche professore universitario: a Milano prima e a Venezia poi.
E non dimentichiamo Palermo, dove sono andato nel 1967. Ho ringraziato il mio Dio di essere andato a Palermo perché se non si lavora nel Sud non si comprende veramente l’Italia.
Rifarebbe lo Zen sapendo come è finita?
Il progetto dello Zen è stato molto importante nella mia vita. Come disgrazia intanto: peggio di così non poteva andare. E anche perché ho scoperto di avere profonde ingenuità nei confronti del Sud. Non avevo capito cos’era, come si muoveva, quali reti tesseva la mafia. Ricordo le discussioni sul quartiere in Consiglio comunale, quando c’era Vito Ciancimino sindaco. Era straordinario, un attore consumato: si metteva sotto il tavolo, oppure ci saliva sopra. Cantava, faceva cose da matti. Tutto questo perché due fazioni – una era sostenuta da lui – litigavano per gli appalti dello Zen. Non si sono messi d’accordo e questa è stata la sventura: il quartiere si è fermato tutto a un quarto del progetto. Non sono mai stati realizzati i servizi, mai portate le piccole aziende che avrebbero dovuto trovare posto lì. Sono stati vent’anni senza acqua, luce e gas. Ancora oggi un solo isolato è abitato dalle persone che ne avevano diritto, tutti gli altri sono stati cacciati e al loro posto hanno trovato alloggio persone indicate dalla mafia.
E l’Università della Calabria?
Ho progettato Arcavacata di Rende, a metà degli Anni Settanta, e c’erano Nino Andreatta e Paolo Sylos Labini: quando se ne sono andati si è bloccato tutto. C’era un’area di 780 ettari, la decisione era di non superare 12mila studenti. Ora l’area è di 200 ettari, pure un po’ contaminati, e gli studenti sono diventati 30mila. Ma è stata la mia esperienza progettuale più importante per quanto riguarda la relazione tra architettura e antropogeografia.
Cos'è la bellezza?
Il bello è la luce del vero, dicevano i greci. È l’interpretazione che un artista dà delle contraddizioni dentro alle quali vive e del modo di superarle. Il vero è un vero storico, non metafisico.
La fama di Milano città brutta è ingenerosa?
Bè, bella non è. Però a me piace. Milano ha conservato la voglia del fare. Anche se ha perso molto con la disgregazione del mondo industriale: ormai è una città fondata sulle attività finanziarie.
Il nuovo quartiere a Porta Garibaldi è bello?
Non rappresenta certo la luce del vero. È una trasposizione di carattere neocoloniale: l’hanno costruito e finanziato gli americani. Non ce l’ho con gli americani, ma con il loro colonialismo sì. E ancor di più con quelli che lo accettano acriticamente. Quando ho visto il progetto ho detto: tagliate tutti i grattacieli, lasciate quattro piani e la piazza.
Abbiamo perso il sentimento della bellezza?
Non è questione di perdita. È il cambiamento incessante che la caratterizza. Oggi poi la bellezza è provvisoria, è legata alla moda, alla sensibilità del tempo.
Parliamo di politica: cosa pensa della nuova sinistra di Renzi?
Ma quale sinistra? (silenzio) Vabbè loro si definiscono di sinistra. Senta: è giusto che ci siano persone giovani, energiche. È giusta la voglia di cambiamento. Ma è un desiderio velleitario, se non riesce a operare concretamente sulle trasformazioni, e soprattutto non dà prospettive di lungo termine intorno all’idea di società altra. Ho conosciuto a Palermo Enrico Berlinguer. Era un uomo notevole, aveva un rapporto critico e consapevole con la realtà, ma anche con la necessità di ideali durevoli.
Lei si sente ancora di sinistra?
La parola sinistra è diventata davvero sinistra. È comunque necessaria l’attitudine di mettere in discussione le contraddizioni del presente e di pensare che i valori dell’essere siano più durevoli.
Quali valori?
Non mi faccia fare il filosofo, io faccio il muratore.
Muratore no!
Intendo: non guardo mai le questioni dell’architettura in modo astratto. Penso al fare, non al guardare. Ho interesse alla prassi, assai più che al giudizio estetico.
La sua generazione che eredità ha lasciato?
Non posso rispondere senza essere sospettato per questioni anagrafiche: ho 87 anni. Penso che vivere sulla memoria del passato sia un errore che impedisce di comprendere le cose dell’oggi. Al tempo stesso diffido di questa mania. Facciamo il caso della musica: se lei guarda un concerto di musica popolare si rende conto della molteplicità di fattori: luci, folla, coreografie, gridolini, flash. Un’esecuzione di musica classica è molto più semplice: c’è l’orchestra, il pubblico ascolta e alla fine applaude o fischia. Per dire: le messe in scena non mi convincono.
Forse tutto questo serve a distrarre.
Ma l’arte non serve a distrarre, serve a capire il profondo nascosto.
Parlavamo di politica. A proposito: Berlusconi è stato per vent’anni il dominus della politica italiana. Però è anche l’imprenditore che negli Anni Settanta ha progettato un quartiere di Milano con un’dea molto chiara...
... L’idea molto chiara ce l’avevano gli architetti che l’hanno progettato, e lui l’ha tradita. L’idea chiara era un’articolazione diversa del modo di produrre la periferia urbana. La sua idea era fare un recinto nel quale chiudere un ceto sociale e tener fuori tutti gli altri.
Di lui come politico cosa pensa?
Le disgrazie capitano a tutti i popoli. Berlusconi però ha un’enorme responsabilità morale. Il suo odio per la cultura è evidente. E poi uno che dice “le tasse si possono anche non pagare” o che un mafioso è un eroe, è un corruttore di cittadini. Gli italiani hanno il mito dei soldi e del successo. Ma i soldi sono uno strumento non un valore in sé.
Il problema della corruzione sembra irrisolvibile.
È aumentata tantissimo dopo la guerra, prima non era così endemica. Lavorando con le amministrazioni me ne sono accorto, eccome. E ora: guardiamo cos’è successo col Mose a Venezia.
Perché non si percepisce il danno economico della corruzione, specie in un momento di crisi come quello attuale?
Ribadisco: siamo stati guastati da vent’anni di berlusconismo. Lui ha rappresentato l’antipolitica per eccellenza. Politica come la intendeva per esempio Bobbio.
Ecco: la fiducia dei cittadini nella politica è ai minimi storici.
Infatti: il 41 per cento che Renzi sbandiera tanto è il 41 per cento del 50 per cento, per via dell’astensione. Va bene: varrà la realpolitik, ma il tema della rappresentanza esiste.
Chi vede come successore di Napolitano?
Non ho mai capito perché il Pd non ha votato Stefano Rodotà. E nemmeno perché Repubblica era così contraria all’ipotesi. Vedrei lui: credo che le sue “intransigenze costituzionali” siano giustificate dai tempi. Un altro è certamente Walter Veltroni.
L’anno che verrà è quello dell’Expo di Milano.
L’idea stessa di Expo è oggi una truffa culturale, non serve a niente. Può forse servire ai Paesi in via di sviluppo. È una cosa che non ha più storicamente senso. Non c’è nessuna novità da scoprire visti i nuovi mezzi di comunicazione. Milano non è certo una città di grande attrattività turistica. Ho lavorato a quella che avrebbe dovuto essere l’Expo di Parigi nel 1989. A un certo punto Mitterand ha telefonato: “Costa troppo, non se ne fa più nulla”. E ha messo giù il telefono. Ho vinto il progetto generale di Siviglia, poi la realizzazione è stata affidata agli americani: è stata un’esibizione inutile, come tutte le Expo europee recenti. Hanno tutte solo perso soldi. E temo sarà così anche per Milano.

il Fatto 23.11.14
Solidarietà, alla ricerca del legame perduto
di Furio Colombo


Per caso un libro e un film, entrambi con la forza di una rivelazione e di una profezia, sono usciti quasi insieme e raccontano quasi la stessa storia, lo stesso pericolo, lo stesso camminare sul vuoto. Sto citando Solidarietà di Stefano Rodotà, editore Laterza, e Due giorni, una notte dei fratelli Dardenne.
Intanto, per caso, tre richiami si sono sovrapposti nello stesso periodo storico (i nostri giorni) per dirci che ci sono, nella vita intorno a noi, sempre meno tracce di un sentimento che credevamo radicato e profondo e non rinunciabile.
Il primo richiamo viene dal modo di intendere e organizzare il lavoro. In esso la solidarietà è come l’aria condizionata: va bene, aiuta, ma ci saranno provvedimenti immediati se costa troppo.
Poi l’ammonizione è cambiata nel nuovo precetto: ogni cosa si cambia se un’altra cosa, pazienza se è peggiore, costa meno. Ed ecco la “delocalizzazione”, te ne vai con tutta la fabbrica o tutto l’ufficio, dove conviene. Nel nuovo luogo ricomincerai l’avventura di colui che porta lavoro con l’intraprendenza della tua impresa. Non è colpa tua se chi lavora è pagato molto meno, e forse ha un’età sbagliata per quel lavoro. Nel luogo che avrai abbandonato al massimo avrai “dimostrazioni e cortei per futili motivi” (come scrive un lettore a Sergio Romano, Il Corriere della Sera, 22 novembre, dopo i cortei di Roma ). E la “delocalizzazione” come libera scelta dell’impresa avrà il sostegno del governo che ha premiato addirittura con autorevole visita (e portando, mi immagino, la gratitudine del Paese), la delocalizzazione della Fiat da Torino a Detroit, insieme con tutto l’indotto e lasciando tutti gli operai italiani a carico della Cassa integrazione. Ma, al di là degli interessi privati, c’è un secondo richiamo. Chi governa, ci viene detto, non ha sentimenti o progetti umanistici, Chi governa guarda le carte e decide. Se le carte gli dicono che è molto più utile far visita agli imprenditori e respingere a spintoni il sindacato, non facciamo la sciocchezza di domandarci se la decisione è o non è di sinistra. Buona politica è restare vicino al potere. Cos’altro vuoi chiedere a chi governa? Se non ti piace, vai a marciare con i cortei futili e lascia il gioco nelle mani di coloro che sanno giocare.
POI C’È UN TERZO vigoroso richiamo che ci ricorda il nuovo spirito del nostro tempo: la folla grida “non ne possiamo più”. E non intende la perdita del lavoro, i ragazzi che non sono né in fabbrica né a scuola, i disabili a carico esclusivo di chi se li trova in casa, i giovani mantenuti dalle pensioni dei vecchi che sono sempre sul punto di dovere offrire un loro “contributo di solidarietà” ad altri che non sono mai indicati, come se si trattasse di una ruota della fortuna. No, in questo caso si discute con rabbia e furore di quaranta bambini e adolescenti, fuggiti dalla guerra e scampati al deserto e al mare che sono “troppi” in ogni caso perché sono “negri”.
E sono prontamente cacciati, mentre nessuno governa questa vicenda, e la “solidarietà” viene giudicata o dannosa o ridicola. E poiché nessuno sa come eliminare i concetti, i sentimenti o le idee, la trovata, è di eliminare gli esseri umani, cacciandoli di quartiere in quartiere.
Ecco perché dobbiamo essere grati di una coincidenza che però non avviene per caso, ma perché gli autori del libro e del film di cui parlo, sanno in che luoghi e momenti viviamo. Il libro di Rodotà definisce la solidarietà “il modo in cui, nel corso dell’Ottocento, si sono sempre più fortemente intrecciate le lotte operaie, l’organizzazione di massa dei lavoratori, il progressivo riconoscimento dei diritti sociali. Da qui provengono le idee – forze che prima indicano e poi spianano il cammino verso il riconoscimento della solidarietà come riferimento necessario per l’agire pubblico e privato”.
Il film dei Dardenne è basato su un gioco che ricorda Marchionne: in una giovane fabbrica d’avanguardia gli operai di un reparto avranno ciascuno un bonus di mille euro se voteranno il licenziamento di una loro collega che renderà possibile quel premio per gli altri. In questo film la lotta sociale o il confronto politico non divampano mai. Non è questo il tempo di una simile narrazione (come non lo è nei discorsi sarcastici di Renzi contro i sindacati, e della mobilitazione, con torce e grida, delle periferie italiane guidate dai fascisti, contro “i negri”). La giovane donna da licenziare, due bambini e un marito precario, fa il giro di tutti i colleghi (non è il caso di dire “compagni”) che devono votare per o contro di lei. .
C’È CHI L’ABBRACCIA ma non può rinunciare a mille euro, c’è chi fa a botte perché non vuole neppure parlarne, chi voterà per lei anche se non può. Alla fine il risultato è esemplare: i voti sono esattamente divisi a metà, perfetto ritratto del tempo: c’è ancora chi vuole essere solidale, me sempre più spinto ai margini da un gioco che non si ferma, infatti il giovane proprietario propone alla protagonista di restare. In seguito licenzieranno un altro (e fa capire che si tratta dell’unico nero del gruppo). La donna aggiunge il solo voto di solidarietà che mancava: il suo. E lo fa nell’unico modo possibile: si dimette prima che di essere licenziata, liberando dall’incubo – paura – promessa tutti gli altri. Il libro e il film sono dunque la seria, rigorosa e triste narrazione di una notizia che cambia il nostro tempo e che non riguarda né la religione né la politica, ma qualcosa di più vasto e profondo, la solidarietà. Credevamo che fosse l’imprinting non rinunciabile delle nostre vite. Invece sta andando via.

il Fatto 23.11.14
Bombe e misteri
La guerra privata della X Mas contro la Marina bolscevica
di Luca Ribustini


LA CORAZZATA “GIULIO CESARE” ALLA FINE DEL CONFLITTO MONDIALE FU CEDUTA AI RUSSI: AFFONDÒ IN CRIMEA NEL 1955

Questa è una storia poco nota rimasta sepolta per anni nei faldoni degli archivi e nella memoria dei protagonisti. In Italia era meglio non parlarne, in Russia, dopo trent’anni di silenzio, qualcosa cominciò a emergere dopo l’arrivo di Michail Gorbaciov. Il 28 ottobre 1955, nel porto di Sebastopoli in Crimea, la più grande corazzata della flotta sovietica, Novorossiysk, è ormeggiata di fronte all’ospedale della città Ucraina. Alle ore 1.30 del 29 ottobre una spaventosa esplosione squarcia lo scafo della nave a prua, provocando un’onda d’urto talmente forte da essere registrata dalle stazioni sismiche della regione. La possente nave da battaglia batteva bandiera italiana, con il nome di Giulio Cesare, fino al 1949 quando fu ceduta ai sovietici come risarcimento di guerra secondo quanto previsto dal Trattato di Pace. Il comandante non ordina l’abbandono nave ritenendo che la consistenza del fondale e la profondità dell’acqua consentano alla corazzata di non capovolgersi, ma commette un errore fatale. Alle 4.15 il Novorossiysk sprofonda nella sabbia inabissandosi, 604 marinai sovietici perderanno la vita. Dopo la tragedia venne istituita una commissione d’inchiesta che il 17 novembre 1955 presentò le sue conclusioni al Cremlino: ad affondare il Novorossiysk fu una mina magnetica tedesca RMH sfuggita all’opera di bonifica. Furono in pochi a credere che questa fosse la vera causa della tragedia, i marinai sovietici parlarono da subito di un atto di sabotaggio.
ALCUNI MESI DOPO, i rilievi fotografici e le relazioni dei sommozzatori sparirono. La corazzata fu demolita e con essa cancellate per sempre le preziose prove dei fatti accaduti.
Durante la mia inchiesta Viktor Saltykov – uno degli ultimi superstiti ancora in vita – mi raccontava che a tutti loro fu imposto il silenzio assoluto. Dopo la tragedia Viktor e il suo amico Leonid Smoliakov andarono a Leningrado dove riuscirono a sopravvivere tenendo accesa una caldaia per 360 rubli al mese. Avevano grandi speranze, il comunismo prometteva loro un avvenire di benessere ma Viktor già a vent’anni non crede alle “bugie che ci vengono raccontate”. Passa il tempo e lo scenario politico cambia, con Gorbaciov arriva la glasnost. All’inizio degli anni 90 Nikolaj Cerchasin confuta per la prima volta la versione ufficiale del Cremlino. Le voci di un possibile atto di sabotaggio prendono consistenza. Quando la vicenda sembrava sepolta assieme alla nave, una clamorosa rivelazione riapre il caso. A luglio del 2013 incontro per un’intervista un ex incursore dei reparti d’assalto del gruppo Gamma della Xª Flottiglia MAS, radiotelegrafista esperto in codici cifrati, agente dei servizi segreti italiani e, dall’8 settembre del 1943, agente dei servizi segreti tedeschi (SD, Sicherheitsdienst, ndr) agli ordini di Herbert Kappler e Karl Hasse, ottimo amico di Junio Valerio Borghese. Il suo nome è Ugo D’Esposito.
Durante la conversazione rivela senza alcuna esitazione che ad affondare il Novorossiysk fu un commando della Xª MAS. Decido di pubblicare l’intervista e sulla stampa russa e ucraina si scatena il finimondo. La notizia viene battuta dalle principali agenzie russe, la tv di stato della Federazione Russa manda in onda numerosi servizi da agosto a dicembre 2013. I superstiti ancora in vita annunciano l’intenzione di portare la vicenda davanti ad un tribunale internazionale e chiedere i danni all’Italia.
TRA LUGLIO e settembre del 2013, fase iniziale della mia inchiesta, la rivoluzione di Maidan è alle porte – giusto ieri l’altro 21 novembre ricorreva l’anniversario - e il clima che avverto intorno al mio lavoro è inquietante. Sulla stampa online giovani e giovanissimi russi e ucraini postano centinaia di commenti evocando Gulag e Siberia per “gli italiani” colpevoli della tragedia, punizioni esemplari per onorare la memoria degli “eroi” del Novorossiysk, “martiri del popolo della grande terra russa” che combatterono il “nemico americano” e i “fascisti di Mussolini”. Un armamentario lessicale che, accompagnato da stelle rosse, iconografie sovietiche e crest dell’Armata Rossa, mi ha lasciato sgomento. Roba che immaginavo sepolta sotto le macerie del Muro di Berlino, è invece vitale soprattutto tra le giovani generazioni come anche l'opinione diffusa - riportata il 21 novembre scorso dal giornalista russo Andrey Fediašin su La Voce della Russia - che sia in atto un processo di nazificazione dei centri di potere dell’Ucraina. Questo non è folklore ma residuati ideologici dati in pasto a popolazioni piuttosto disperate. Le opinioni raccolte in prima persona durante la diffusione della mia inchiesta, riflettono antichi rancori, storie di sopraffazione e violenza. Per molti cittadini dell’Ucraina, i russi sono quelli dell’Holodomor, il genocidio provocato da Stalin quando mise alla fame milioni di contadini ucraini. Per molti altri i russi sono il piccolo benessere conquistato e, soprattutto, una rassicurante identità collettiva che consente di sopravvivere alla disfatta del comunismo. Occuparsi di un fatto così tragico in questo contesto e dopo quasi sessant’anni significa avere la consapevolezza che la ricerca della verità dei fatti si scontra in primo luogo con la morte di molti dei protagonisti di quella vicenda, ma soprattutto con la reticenza o il silenzio di quelli ancora in vita, con gli insabbiamenti di Stato avvenuti sia da parte italiana che da parte sovietica. Solo alcuni dei sopravvissuti parlano, ma dicono poco e – probabilmente – non solo perché non sanno; forse hanno paura ed alcune cose non possono dirle. In questo contesto complesso è stato tuttavia possibile raccogliere testimonianze e ritrovare numerosi documenti coerenti con l’ipotesi di lavoro.

La Stampa 23.11.14
La peste
Quando Camus ne fece un’allegoria della guerra
di Mario Baudino


«E chi non beve con me peste lo colga», tuonava Amedeo Nazzari nella «Cena delle beffe», il film del ‘42 tratto da un precedente dramma di Sem Benelli e ambientato nella Firenze del ’500.
Oggi la frase suona gonfia e retorica. Ma la peste, scomparsa da tempo in Europa (l’ultima epidemia fu in Russia nel 1889, per l’Italia si deve risalire al 1816), resta presente nel nostro linguaggio e nella nostra immaginazione, tanto che è stato quasi automatico definire l’Aids «la peste del 2000» e vedere in esso, diciamo da parte dei meno avveduti, un apocalittico castigo divino.
Questo, nella tradizione, è la peste, a partire dall’Iliade quando ancora non ha nome se non la generica definizione di «morbo maligno» e viene sparsa nel campo degli Atridi dalle frecce di un vendicativo Apollo, che stermina prima gli animali e poi gli uomini.
È una morte ributtante, che non conosce pietà né pudore. Distrugge il corpo e l’ordine sociale, uccide l’anima e la ragione. «Del pari con la perversità, crebbe la pazzia», commenta Manzoni nei «Promessi Sposi» raccontando la pestilenza che nel 1630 imperversò a Milano (e in tutta l’Italia del Nord). È il male assoluto, in cui Albert Camus vide nel ‘900 la più forte allegoria della guerra e del nazismo, lo sconvolgimento di ogni legge e di ogni morale. Le pesti antiche forse non corrispondevano alla malattia che è stata poi definita clinicamente; potevano essere epidemie diverse, ma tutte sono tenute insieme dal gran numero di morti e dalla sospensione dell’ordine sociale che ne consegue. Il male scompare com’è venuto, e scava un buco nella memoria o nell’inconscio. Gli effetti sono sempre gli stessi.
Il naufragio di una città possente ci viene narrato da Tucidite a proposito della peste di Atene (430 a. C.), quando si spegne ogni forma di pietà per i defunti, si accendono lotte furiose nelle famiglie per l’eredità, si smette di rispettare la legge perché non si è sicuri di sopravvivere fino al processo. La morte spaventevole e improvvisa del bue aggiogato all’aratro e il terrore del contadino ci sono stati raccontati da Ovidio, che isola in modo magistrale il momento esatto in cui cade ogni tentativo di difesa. La virtù di alcuni, che cercano di vivere sobriamente, è contrapposta da Boccaccio, nel prologo del «Decameron» (peste di Firenze, 1348), alla dissolutezza degli altri, che vanno incontro alla morte ormai inevitabile «cantando attorno e sollazzando», rubando e dedicandosi ovviamente a ogni lussuria. È un’Apocalisse irragionevole.
Daniel De Foe racconta quella di Londra (1665-1666) in modo non troppo diverso dal Manzoni: «Ladri e assassini facevano confessione dei loro crimini ad alta voce e non c’era nessuno che tale confessione raccogliesse». Manca nello scrittore britannico la fede nella Provvidenza, così forte nel Gran Lombardo. A Londra non c’è un Cardinal Borromeo. Dio ha distolto lo sguardo. E una nobildonna viene aggredita e baciata da un appestato, che la congeda verso il suo destino con una battuta ormai modernissima: «Ho la peste, bellezza. Perché non dovresti averla anche tu?».

La Stampa 23.11.14
“Il Diario postumo di Montale? Vi spiego perché è falso”
Il filologo Federico Condello risponde a Annalisa Cima: troppe falle nel suo racconto, e una grafia sospetta che non è del poeta
di Franco Giubilei


«Se davvero gli originali del Diario postumo di Montale sono a disposizione degli studiosi per essere analizzati, come la signora Cima ha dichiarato alla Stampa (nell’intervista pubblicata mercoledì scorso, ndr), sicuramente ci sono molti esperti pronti a visionarli: non vediamo l’ora di sapere come e quando, abbiamo già i biglietti per Lugano…».

Federico Condello, professore di Filologia classica all’Università di Bologna, ha scritto un saggio intitolato con la domanda retorica I filologi e gli angeli. È di Eugenio Montale il Diario postumo?, che contiene una risposta netta, avallata anche dal convegno tenutosi a Bologna l’11 novembre scorso: no, non lo è. E ora, dopo che la musa del poeta Annalisa Cima è tornata alla carica rivendicando l’autenticità di quegli scritti, il docente ribatte punto per punto, rivelando anche che «il Sistema bibliotecario nazionale, alla luce di quanto evidenziato durante il convegno bolognese, ha deciso di eliminare il Diario postumo dalle opere di Montale del proprio catalogo».
Ma non è tutto, perché Condello si appresta a pubblicare due frammenti grafici, l’uno di una poesia attribuita a Palazzeschi e l’altro di un componimento di Montale appartenente al Diario, che hanno in comune la provenienza - l’archivio personale della Cima - e una straordinaria somiglianza, tanto da indurre nel filologo il sospetto che siano state vergate dalla stessa mano: «Nel 2009 Annalisa Cima ha fatto pubblicare una poesia di Palazzeschi sulla rivista Nuova Antologia, scritta in lode di lei, in cui era riprodotto anche l’autografo dell’autore. Non solo quella non è la grafia di Palazzeschi, ma è anche sovrapponibile, quasi pixel a pixel, alla grafia di alcune poesie del Diario postumo, oltre che ai testamenti attribuiti sempre a Montale. Ci sono somiglianze inquietanti, per non dire tratti di assoluta identità. È con questi argomenti molto concreti che la Cima deve misurarsi. Intanto Mondadori ha già dichiarato che non ripubblicherà il Diario».
Quanto alla ricostruzione della storia delle poesie contenute nelle famose buste numerate da uno a undici, Condello ne sottolinea le incongruenze: «Non incoraggia il fatto che, per tutta risposta alle ricerche di questi mesi, la Cima pubblichi un nuovo autografo dove si legge “12” (sulla Stampa del 19 novembre, ndr), contraddicendo tutto quel che ha detto finora sulle 11 buste: la numero 12 dunque dovrebbe contenere le famose 18 poesie “sciolte” successive alla 11, ma noi finora sapevamo che queste non erano contenute in una busta, che ora invece compare improvvisamente».
Nel racconto di Annalisa Cima ci sarebbe anche un’altra falla: «Dice che Montale le ha consegnato personalmente solo le prime 12-13 poesie e di avergli suggerito di sigillare in busta le successive. Finora però ha raccontato che tutte le poesie le venivano donate da Montale via via che lo incontrava, anche 3-4 alla volta: come mai la storia cambia in continuazione? Solo ora apprendiamo che, di 84 poesie per 95 manoscritti, solo una piccolissima parte le sarebbe stata donata personalmente da Montale».
E poi c’è la questione di fondo, emersa durante il convegno bolognese, cui la stessa Cima era stata invitata: «La signora non può fingere di ignorare che tutti i principali esperti hanno dichiarato che il Diario non può essere considerato di Montale. La versione più ottimistica è che forse ci sia qualche poesia autentica. Oppure che quel che c’è lì dentro sia frutto della registrazione di un magnetofono che poi sia stato trascritto dalla stessa Cima. La Grignani, direttrice del fondo manoscritti di Pavia, ha ribadito che siamo di fronte a più mani che non sono di Montale». Fra le prove portate al convegno, la perizia grafologica e l’expertise neurologica sulla scrittura che mostra come il poeta, affetto dal morbo di Parkinson, curiosamente sembrasse non soffrirne soltanto quando scriveva per la Cima.
Un modo per fugare dubbi e sospetti c’è, e non è neanche tanto complicato: è l’esame dei documenti. «Il materiale potrebbe essere analizzato sul posto non da parte di un “dilettante” (la definizione è della musa di Montale, ndr) quale io sono, essendo un grecista e non un montalista - dice il professor Condello -, ma di un team di esperti muniti di lenti di ingrandimento e microscopi, che esaminerebbero gli scritti sul posto con tecniche assolutamente non invasive. È un’operazione comunissima e normalissima che può essere compiuta in pochi giorni, semmai c’è da chiedersi perché non sia mai stata fatta. Operazioni come quelle fatte quotidianamente da grafologi per banali esami di testamenti dubbi».

Corriere La Lettura 23.11.14
L’economista fa sgocciolare le tasse
Torna l’idea di un’aliquota fiscale unica che freni l’evasione
La flat tax dovrebbe lasciar filtrare ricchezza verso il basso alleggerendo la pressione sui redditi alti. Ma funziona a metà
In Italia prova a rispondere lo storico e politologo Marco Revelli, con un breve saggio dal titolo militante: La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi, Vero!
di Giuseppe Sarcina


Ristorante «Two Continents», Washington, quattro strade dalla Casa Bianca. Dopo il caffè, due politici, un professore di economia e un giornalista discutono animatamente di tasse e conti pubblici. A un certo punto l’economista stende il tovagliolo e con la stilografica traccia una specie di campana rovesciata su un fianco.
«Vedete? — spiega ai suoi interlocutori — Non è vero che più si aumentano le imposte e più cresce il gettito fiscale. Anzi, esiste una soglia limite, un punto di svolta oltre il quale accade esattamente il contrario: più lo Stato carica il contribuente, meno incassa». Arthur Laffer ripone la penna con accademica condiscendenza guardando i due uomini seduti di fianco a lui, Donald Rumsfeld e Dick Cheney, collaboratori del presidente repubblicano Gerald Ford. Il più pronto è il quarto commensale, l’editorialista del «Wall Street Journal» Jude Wanniski, che lì per lì battezza quel grafico schizzato sulla salvietta la «Curva di Laffer». Così almeno l’ha raccontata sul suo giornale lo stesso Wanniski. Era il 1974. Quarant’anni dopo, archiviate le bellicose carriere di Rumsfeld e Cheney, quel disegnino vive una nuova, controversa, stagione.
Ora che il paradigma del rigore ha mostrato tutti i suoi limiti, il confronto tradizionale tra la famiglia dei liberisti e quella della sinistra keynesiana si sposta su basi politico-culturali diverse. Merito di alcune opere di grande ambizione, anche se a tratti di impervia lettura, tra le quali spicca il lavoro dell’economista francese Thomas Piketty ( Il Capitale nel XXI secolo , Bompiani), e di altri saggi di più ridotta caratura, come gli scritti e le conferenze di Alvin Rabushka. Questo politologo americano sta conducendo un’intensa campagna per la diffusione della flat tax , il prelievo unico sui redditi con una aliquota tra il 15 e il 20%. L’idea di un’imposta secca risale al 1956 e fu avanzata da Milton Friedman, il massimo teorico del neoliberismo, che la sistematizzò nel suo fondamentale Capitalismo e libertà (1962, ultima edizione in Italia, Ibl Libri, 2010).
Nel nostro Paese la flat tax è comparsa su diverse sponde. Nel 1994 la voleva Silvio Berlusconi e nel 2005 il radicale Marco Pannella. Oggi la rilancia Matteo Salvini, segretario della Lega Nord. In Italia, però, la semplificazione fiscale, il passaggio dai cinque scaglioni attuali a uno solo, presuppone la riscrittura dell’articolo 53 della Costituzione, che prevede la progressività della tassazione. Inoltre resta la grande incognita dell’impatto sulle entrate tributarie e dunque sull’equilibrio del bilancio pubblico.
Il ragionamento torna a quel tovagliolo del «Two Continents», alla «Curva di Laffer», con due teoremi da verificare. Il primo lo abbiamo già visto: la mini-imposta unica incoraggia anche gli evasori a onorare i pagamenti. Il secondo si può enunciare così: bisogna sgravare i contribuenti più ricchi, perché potranno mettere più risorse al servizio dello sviluppo. Il sistema, liberato dai balzelli, sarà in grado di riequilibrare la distribuzione del reddito. Cambia il meccanismo: anziché la progressività, introdotta all’inizio del Novecento, entra in funzione il cosiddetto trickle down , letteralmente «sgocciolamento».
Laffer e i suoi ammiratori confidano in un aggiustamento automatico, quasi naturale, prendendo a prestito l’immagine utilizzata dal sociologo Georg Simmel nel 1904 per descrivere la catena di diffusione della moda: le scelte d’abbigliamento delle classi più agiate «sgocciolano», appunto, dall’alto verso il basso.
Ma esistono dati empirici che confermino queste ipotesi? In Italia prova a rispondere lo storico e politologo Marco Revelli, con un breve saggio dal titolo militante: La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi, Vero! (Laterza, pagine 96, e 9). Nelle ultime elezioni europee Revelli è stato il garante della lista della sinistra radicale «L’Altra Europa con Tsipras». Nel libro, però, prevale lo studioso e, soprattutto, pesano i numeri, le statistiche. Oggi la flat tax è applicata in una trentina di Paesi, con una certa densità nell’Europa dell’Est. Ma è evidente che il caso più interessante e più significativo sia proprio quello degli Stati Uniti, la patria di Friedman e di Laffer.
Revelli richiama i risultati ottenuti dal doppio mandato delle amministrazioni repubblicane di Ronald Reagan (1981-1989) e di George W. Bush (2001-2009). Entrambi tagliarono le tasse sui redditi più alti. Il consuntivo di Reagan è alterno. La manovra «lafferiana» sulle imposte, peraltro concordata con il Partito democratico, riattivò l’economia, sollevando la crescita del Pil fino al 4,1% (1988) e creando 16 milioni di posti di lavoro. Le entrate fiscali, però, calarono del 1% del Pil e di conseguenza il debito pubblico si triplicò fino ad arrivare a 2 mila miliardi di dollari. George W. Bush ereditò da Bill Clinton un budget federale in attivo di 236 miliardi di dollari; dopo il taglio delle tasse e in soli tre anni si ritrovò con un passivo di 375 miliardi. Le famiglie e lo Stato centrale cominciarono a indebitarsi, ponendo le premesse della bolla finanziaria esplosa nel 2007-2008. Oggi il debito degli Stati Uniti è pari a 15 mila miliardi di dollari ed è la mina vagante dell’equilibrio mondiale.
Resta da capire se, almeno, si sia prodotto l’effetto «sgocciolamento», se cioè la distanza tra le fasce di reddito sia diminuita. Su questo punto le risposte di Piketty e di Revelli coincidono: no. Negli ultimi trent’anni la disuguaglianza è aumentata a livello mondiale e praticamente in tutti gli Stati, come dimostra la dinamica dell’indice di Gini (il coefficiente che misura il grado di distribuzione delle ricchezze).
Nell’ultimo vertice di Davos, nel gennaio 2014, l’associazione Oxfam ha presentato un rapporto titolato Working for the Few , «Lavorare per i pochi». Una tabella mostra come dal 1980 al 2012 negli Stati Uniti, «lafferiani» per 16 anni, la quota di reddito posseduta dall’1% più benestante della popolazione sia aumentata del 150%. Anche in altri Paesi l’élite economica si è arricchita in modo esponenziale: del 90% in Australia; tra il 50 e l’80% in Irlanda, Norvegia e Svezia. Di fatto nelle 29 nazioni considerate (Italia compresa) non si è visto alcuno «sgocciolamento», se mai una pioggia abbondante. Ma in un’altra direzione.

Corriere La Lettura 23.11.14
Il maschio è diventato inutile? Poco male
Il maschio è inutile è il titolo preoccupante e liberatorio di un libro di Telmo Pievani e Federico Taddia
Un pamphlet scritto per denunciare la definitiva sparizione del cacciatore del Pleistocene e cercare in natura occasioni di riscatto
Ma la storia è più complessa
di Francesco Piccolo


Il maschio è inutile è il titolo preoccupante e liberatorio di un libro di Telmo Pievani e Federico Taddia. Il saggio è scanzonato, e muove da una premessa ardita ma folgorante. Poi, andando avanti, l’accumulo di esempi del mondo animale e di storie di uomini confonde, più che chiarire; anche se rivela un bel po’ di interessanti curiosità scientifiche, e delinea un’umanità bizzarra. In pratica, si parte dall’idea che il maschio, dopo essere stato ingabbiato in una funzione precisa e utile — fin dal Pleistocene, quando aveva il compito di cacciare e procurarsi cibo — si stia sfaldando verso una inutilità irreversibile. Cioè, per semplificare, prima i maschi facevano i maschi, e le femmine facevano le femmine. Adesso i ruoli si confondono, così come si confondono le antiche regole sessuali, e questo è senz’altro positivo, ma deve per forza avere delle controindicazioni.
L’inutilità è una di quelle: l’uomo subisce questo cambiamento, diventa il sesso debole, mentre la donna ha un futuro evolutivo sempre più luminoso. Nel regno della natura, «in alcune specie di pesci i maschi sono diventati nani parassiti. In altri casi, il maschio si è trasformato in una vera e propria appendice, minuscola, penzolante dal corpaccione della femmina: in pratica, uno scroto ambulante. Neanche in un fantahorror femminista ci sarebbero arrivati. In altri casi ancora le femmine decidono, all’occorrenza, se diventare momentaneamente maschi oppure no. Fanno tutto da sole. Il maschio per loro è inutile. Altre volte ancora le femmine restano femmine, ma imitano i maschi e conducono in perfetta autonomia tutti i giochi sociali. Si autofecondano, generano la prole successiva e come amazzoni tramandano le loro società di sole femmine clonate». Tra i mammiferi, il maschio si starebbe biologicamente estinguendo e le femmine di primati dovranno trovare soluzioni alternative per far proseguire l’evoluzione. E lo faranno.
Allora, queste controindicazioni sono davvero terribili? Alla domanda i due autori rispondono con un colpo di reni: l’inutilità è un’occasione di riscatto. «Sappiamo che nella storia l’inutilità si è rivelata spesso come un serbatoio di cambiamento, come una riserva di diversità alla quale attingere nei momenti di crisi, quando le logiche dominanti si sgretolano. Scopri in quel momento che qualcosa era inutile solo perché non avevi capito a che cosa serviva, oppure che era davvero inutile ma da un punto di vista ristretto e temporaneo. Quando il contesto cambia, l’inutile passa al contrattacco». Quindi l’inutilità è un luogo di libertà, di riscatto, di creatività e soprattutto di innovazione: soltanto dalla mancanza di necessità possono arrivare sperimentazioni sorprendenti.
La prima riflessione che viene da fare, quindi, è la seguente: quando è stata la femmina a essere individuata come debole, tendente verso l’inutile (o presunta inutile), questa ipotesi poteva bastare a se stessa. Il sesso debole era debole e basta, non c’era nient’altro da aggiungere. Invece noi maschi, appena ci troviamo di fronte a un processo negativo, cominciamo a muovere armate di pensieri, di esseri pensanti e di cose pensate, e alla fine capovolgiamo il senso negativo in positivo. Anzi, in molto positivo. L’inutilità è una specie di luogo della felicità liberata. E lo scopriamo adesso che riguarda i maschi, non lo abbiamo scoperto quando riguardava le femmine. Già questo è molto interessante. E divertente.
In realtà, a conti fatti, questa storia dell’utilità dell’inutile è sensata. Tutto quello che desidera un essere umano adulto responsabile (uomo o donna che sia) è essere libero da responsabilità. Partire dall’irresponsabilità della fanciullezza, entrare nel periodo della responsabilità, e fare di tutto per uscirne al più presto, e con danni minimi. Questo è il ciclo della vita di un essere umano nell’età contemporanea. Giungere a vagare per il mondo senza una meta o una funzione, o starsene sdraiati su un divano senza lottare con i sensi di colpa. Tutto ciò che vuole un essere umano è il dì di festa, o meglio la sera prima, quando domani non abbiamo niente da fare. È una continua tensione verso le giornate inutili.
Noi maschi, poi, siamo stati molto entusiasti quando abbiamo letto un articolo ormai famoso di Lori Gottlieb sul «New York Times Magazine», in cui viene dimostrato da alcuni studi (in cui noi comunque crediamo, che abbiano carattere scientifico o no) che la conduzione di vita di coppia assolutamente alla pari, come è consuetudine dell’età contemporanea, crea scompensi notevoli alla vita sessuale. Il desiderio della donna cala in proporzione alla capacità collaborativa dell’uomo: «L’aspirapolvere avrebbe ucciso il desiderio suscitato dai muscoli» (l’applicabilità di questa frase a ogni maschio non dipende tanto dal genere di aspirapolvere ma dal genere di muscoli).
A sorpresa questa teoria pone in conflitto il desiderio che si ha del maschio con la sua collaborazione domestica — e cioè dice che la positività della parità è bilanciata con una perdita del desiderio da parte della donna, perché il maschio quotidiano perde molto della sua forza attrattiva. Tutti i maschi che hanno letto questo articolo lo conservano nel portafogli per tirarlo fuori e sventolarlo minacciosamente ogni volta che c’è da sparecchiare la tavola o lavare i piatti. E la delusione più cocente è che le donne, tra la conservazione del desiderio e i piatti puliti, scelgono quasi sempre i piatti puliti. Cioè, a quell’uomo del Pleistocene, al quale volentieri torneremmo, non si può tornare più.
Il mito del sesso è diventato inutile. E anche questa deve essere opera del pensiero dominante maschile: se il sesso debole siamo noi, allora il sesso perde centralità, si svilisce, la varietà sessuale si moltiplica e la complessità serve anche ad allontanare l’attenzione dall’inutilità e dalla debolezza. Ma, come dicono Pievani e Taddia, è anche il contrario: l’inutilità produce diversità. E quindi la varietà è anche figlia della debolezza del maschio. L’uovo e la gallina, come al solito.
In fondo, siamo tutti contenti che il maschio alla Lando Buzzanca o alla Alberto Sordi non esista più; o se esiste, venga indicato subito come patetico. E noi maschi siamo tutti contenti di non avere l’obbligo della seduzione davanti a qualsiasi donna piacevole, che spesso si trasforma in molestie e non ce ne accorgiamo. Se la violenza è aumentata, dicono gli autori, è proprio in relazione a questo processo di debolezza — è la reazione del maschio alla sua perdita di centralità. E non c’è nemmeno da fare un distinguo tra maschi che vestono bene i nuovi ruoli, e maschi che non riescono ad accettarli. Tutt’e due queste cose convivono benissimo in ogni singolo maschio: ognuno è allo stesso tempo fragile e violento, evoluto e involuto, progressista e reazionario, moderno e primitivo. Ma il processo rimane comunque ineluttabile: e anche i maschi che si ribellano e perseguono lo stereotipo sociale, si rivelano inutili. Non c’è possibilità di mettere un freno al processo evolutivo che accelera il suo moto e ingigantisce mentre raccoglie consenso.
Evidentemente l’evoluzione comporta debolezza, fragilità, inutilità — e in più, abbassamento del desiderio. Ma a scavare ancora sotto la verità, si può dire che tutti questi elementi esistevano già, e il tempo è servito semplicemente a un lavoro di eliminazione dell’involucro — come quei regali che sono dentro pacchi complicati e bisogna ingegnarsi molto per riuscire ad aprirli. Tutta la problematicità del maschio pre-esisteva e ribolliva sotto l’armatura di comodo, di potere, (sotto)culturale. Ed è per questo che alcuni maschi un po’ consapevoli si sentono finalmente liberati. L’evoluzione del maschio quindi non è soltanto un processo dall’utile all’inutile, ma anche un cammino verso l’autenticità.

Corriere La Lettura 23.11.14
Macché, le donne sono ancora penalizzate
di Elena Tebano


Nella maggior parte del mondo, nascere femmina significa ancora avere meno possibilità di un maschio. Se in alcuni casi è evidente (in Arabia Saudita le donne non possono guidare), in altri lo è meno — anche se le conseguenze in termini di qualità della vita rimangono pesanti. Per rendere più tracciabile e quindi più facile da «ridurre» la distanza tra uomini e donne, dal 2010 l’Organizzazione della Nazioni Unite elabora un «Gender inequality index» (Gii), un indice delle diseguaglianze di genere che calcola la «perdita di progresso» causata dalla discriminazione, misurando vari indicatori: salute riproduttiva (in base alla mortalità per parto e al tasso di gravidanze tra le adolescenti), accesso al potere politico, educazione, emancipazione, lavoro e reddito. Il quadro che emerge dagli ultimi dati (che pubblichiamo alla vigilia della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, martedì 25) conferma, purtroppo, che le diseguaglianze di genere sono ancora un fardello per la maggior parte dei Paesi.
In cima alla classifica c’è la Slovenia, dove il genere di appartenenza influenza di meno le possibilità di vita. All’ultimo posto lo Yemen.
Ovunque nel mondo il potere è soprattutto maschile: in media solo il 21% dei parlamentari sono donne, che possono così contribuire a scrivere le leggi che condizioneranno le loro vite. E se la percentuale a sorpresa aumenta in America Latina e ai Caraibi, scende moltissimo (sotto il 14%) nei Paesi arabi, fino al Qatar, dove le donne sono escluse dalla vita politica. Solo a Cuba e in Ruanda la percentuale di donne in parlamento corrisponde a quella nella società.
L’educazione è l’ambito dove ci sono meno disparità, eppure restano grandi differenze: nei Paesi più sviluppati ha un’istruzione secondaria l’88% degli uomini e l’86% delle donne, ma nel Sudest asiatico tra i primi e le seconde ci sono 15 punti percentuali di differenza. Che in Togo arriva al 30% (il dato peggiore).
Oltre alla politica, reddito e lavoro rimangono gli ambiti in cui le donne sono più penalizzate. A livello globale lavora solo il 51% di loro (contro il 77% degli uomini), mentre negli Stati arabi o islamici la percentuale scende addirittura al 25%. Ambiti chiave, non a caso: indipendenza economica, potere finanziario e politico sono fondamentali per opporsi allo status quo — o per mantenerlo.

Repubblica 23.11.14
A beautiful mind
In quest’epoca di crisi e scarse certezze le battaglie di personaggi come Alan Turing e Stephen Hawking ci affascinano ancora di più
Forse perché riversiamo su di loro aspettative e desideri di trasgressione
Cinema, letteratura, tv raccontano le vite dei grandi scienziati che diventano così i nuovi, veri eroi dell’immaginario
Tra scoperte epocali drammi privati e inevitabili cliché
di Bruno Arpaia


IRREGOLARE , eccentrico, disadattato, marginale. Oppure colpito da malattie fisiche o psichiche. Però, sia chiaro, immancabilmente, luminosamente geniale. È così che lo scienziato piace al pubblico, specie cinematografico, almeno dai tempi di Will Hunting genio ribelle o da quelli di A beautiful mind , in cui Russell Crowe impersonava John Nash, l’ormai famoso matematico affetto da schizofrenia e vincitore del Nobel. Forse, andata fortunatamente in pensione l’idea romantica del pittore, del poeta, del musicista maledetto, tutto genio e sregolatezza, è sugli uomini di scienza che riversiamo le aspettative e i desideri di trasgressione del nostro immaginario prevalentemente umanistico. E li consacriamo come nuovi eroi.
Qualche anno fa, nel suo bel saggio Cinema e matematica , Michele Emmer notava il grande successo di questo tipo di pellicole e scriveva: «Volete realizzare un film, volete vincere un Oscar? Scrivete una bella storia di matematici!». Be’, gli hanno dato ascolto. Dal prossimo gennaio altre figure di scienziati geniali e problematici promettono di affascinare il pubblico. Sono in arrivo nelle sale italiane, infatti, due nuovi biopic, già acclamati al Festival di Toronto. Il primo film, intitolato La teoria del tutto , diretto da James Marsh e interpretato da Eddie Redmayne, racconta la storia di Stephen Hawking, l’autore di Dal big bang ai buchi neri . La vicenda del grande scienziato inglese è nota: nonostante i voti non eccelsi (le personalità geniali, si sa, non vanno mai bene a scuola), viene soprannominato “Einstein” dai compagni. Essendo, per l’appunto, un genio, Hawking si laurea a Oxford studiando appena un’ora al giorno, poi si trasferisce a Cambridge.
Ed è lì, nel 1963, che Stephen avverte i primi sintomi della malattia: una sclerosi laterale amiotrofica, degenerativa e incurabile. Ha ventun anni, e secondo i medici gliene restano da vivere soltanto altri due. Con quella minaccia sospesa sulla testa, Hawking si lancia nel campo delle ricerche cosmologiche. Oggi, sebbene abbia ormai perso quasi qualunque mobilità e comunichi attraverso un computer che traduce in parole i movimenti del suo occhio, è ancora tra noi, pronto a partecipare ai primi voli privati nello spazio o a recitare in un’altra puntata della serie tv The Big Bang Theory . Nel frattempo, ha fornito contributi scientifici fondamentali sui buchi neri (la famosa “radiazione di Hawking”), sulla possibilità di conciliare la relatività e la meccanica quantistica, sull’espansione dell’universo.
Il secondo scienziato che arriverà sugli schermi è Alan Turing, a cui è dedicato The Imitation Game, diretto dal norvegese Morten Tyldum e interpretato da Benedict Cumberbatch e Keira Knightley. Altra storia davvero romanzesca, quella di Turing: nonostante anche lui non brillasse tra i banchi, nel 1936, a soli ventiquattro anni, riesce a risolvere uno dei venti quesiti formulati da David Hilbert nel 1900, introducendo la “macchina di Turing” per dimostrare che esistono problemi matematici “indecidibili” e fondando in qualche modo l’informatica e gli studi sull’intelligenza artificiale. L’Intelligence britannica lo arruola per decrittare gli inespugnabili codici cifrati tedeschi, ottenuti grazie alla famosa macchina Enigma: Turing riesce nell’impresa, salvando milioni di vite. Non contento, subito dopo la guerra entra in competizione con il progetto americano di Von Neumann per la realizzazione del primo calcolatore elettronico, e nel 1948 vince la gara, realizzando il Manchester Mark I, e formulando le idee di base su quelle che oggi si conoscono come reti neurali. Poi però confessa sventatamente a un poliziotto di essere omosessuale. In Inghilterra, a quell’epoca, è un reato. Al processo i suoi meriti di scienziato non gli risparmiano la condanna a un anno, oppure, in alternativa, la castrazione chimica. Turing sceglie la seconda, che gli procura effetti devastanti. Nel 1954, ormai esausto, inietterà del cianuro in una mela e si suiciderà mangiandola. Dicono che il logo della Apple sia ispirato proprio a questo suo gesto estremo.
In Alan Turing. Storia di un enigma ( a cui il film è ispirato, e che Bollati Boringhieri ripubblicherà in gennaio), il suo biografo Andrew Hodges insinua che lo scienziato, depositario di segreti bellici, fosse anche considerato un rischio dai servizi segreti inglesi e americani e che, come già Robert Oppenheimer (è appena uscita per Bompiani una sua bella biografia firmata da Ray Monk), sia stato sacrificato sull’altare della sicurezza nazionale.
Nei due film, almeno a giudicare dai trailer, non ci verranno risparmiati i cliché che popolano il nostro immaginario sugli scienziati: Turing sarà scostante, altezzoso, avrà un’aria di sufficienza e ostenterà superiorità, mentre per Hawking si insisterà soprattutto sulla storia d’amore con Jane Wilde e sulla sfida alla propria malattia. Né, temiamo, ci sarà molto spazio per parlare delle loro scoperte scientifiche. Perché per noi profani gli scienziati restano comunque una specie di setta misterica, parlano un linguaggio incomprensibile: caratteristiche che li portano spesso all’irregolarità, alla maniacalità o addirittura alla follia. Ovviamente, non è affatto così. Quasi mai matematici, fisici, biologi o geologi sono geniali e sregolati. Per fortuna, molti cineasti e romanzieri se ne sono accorti; e hanno scoperto che, nonostante gli scienziati siano di norma persone comuni, socievoli e curiose, senza il minimo problema relazionale, dedite con disciplina e fatica al proprio lavoro, spesso dietro le loro creazioni si celano comunque storie meravigliose. Tutte da raccontare. Come nel caso di Turing e Hawking: storie di caparbietà, di tenacia, di intelligenza, di immaginazione, di pensiero avventuroso e audace alle frontiere estreme della conoscenza. Storie perfette, per degli eroi cinematografici. Ai quali la malattia o la persecuzione per l’omosessualità aggiungono un ulteriore elemento: una fragilità che li umanizza, li rende più simili a noi e, dunque, raccontabili al grande pubblico, capaci di affascinarci, a prescindere dai tic, dalle eccentricità e dalle svagatezze del “genio”, almeno come noi lo immaginiamo.
Se portare sullo schermo le storie di questi “eroi fragili” e brillanti contribuirà a far capire quanto vicine siano la scienza e l’arte, quanta passione e allo stesso tempo quanta disciplina animino tanto un matematico quanto un musicista o un romanziere, allora questi film avranno davvero rivoluzionato il nostro immaginario. E potremo finalmente sbarazzarci dei vecchi luoghi comuni: addio, “genio e sregolatezza”.

Repubblica 23.11.14
Genio e sregolatezza, una falsa leggenda da mandare in soffitta
di Marco Cattaneo


L’ULTIMO in ordine di apparizione è stato Matt Taylor, l’uomo che doveva passare alla storia per averci portato su una cometa e invece è stato costretto a scusarsi in lacrime per una camicia imbarazzante. Preceduto di un soffio da Cédric Villani, matematico francese vincitore della medaglia Fields nel 2010. Per lui niente tatuaggi e fumetti sexy; Villani veste abiti da dandy cui abbina vivaci cravatte a fiocco e vistose spille a forma di ragno.
Al contrario di questi due esemplari di scienziato da vetrina, dopo aver dimostrato la congettura di Poincaré, un problema che ha dato grattacapi ai matematici per tutto il XX secolo, Grigorij Perel’man ha rifiutato riconoscimenti come la medaglia Fields e il milione di dollari previsto dal Clay Institute per chi avesse risolto i sette problemi del secolo, ha lasciato tutti gli incarichi universitari e si è ritirato a vivere con la madre in una casa popolare alla periferia di Mosca. La sua ultima immagine, del 2007, lo ritrae nella metropolitana della capitale russa con capelli incolti, barba arruffata e un paio di vecchie scarpe bucate.
Insomma, gli scienziati dell’ultima generazione non fanno nulla per sfuggire allo stereotipo che vuole il genio accompagnato alla sregolatezza. O forse no. Perché a fronte di una manciata di personaggi fin troppo eccentrici, i laboratori sono popolati da migliaia di ricercatori brillanti, anche geniali, che hanno una vita ordinaria, non hanno problemi relazionali, non soffrono di patologie psichiatriche.
D’altra parte la frequenza di comportamenti stravaganti nei tratti biografici dei grandi scienziati non poteva non suscitare l’interesse... degli scienziati. Così nel 2005 Dean Keith Simonton, psicologo dell’Università della California, ha passato in rassegna una montagna di studi in materia per arrivare a una conclusione rassicurante, almeno per l’icona pop dello scienziato: l’associazione tra genio e tratti psicotici ha una forza considerevole. Ma c’è di più. Nel 2009 Szabolcs Kéri, psichiatra dell’Università Semmelweis di Budapest, ha scoperto, studiando un gruppo di persone altamente creative, che presentavano una variante di un gene legata a un maggiore rischio di schizofrenia. Quasi un’esplicita conferma della vita di John Nash narrata in A Beautiful Mind. Ma c’è un problema: la psicosi vera e propria, in Nash ma anche in tutte le altre persone che soffrono di queste malattie, soffoca il genio creativo, non lo alimenta.
Insomma, guardando alla figura di Nash, ma anche alla formidabile creatività degli scienziati stravaganti, il genio e la follia potrebbero convivere, rimanendo separati da un labile — ma valicabile — confine, come sosteneva già John Dryden, poeta inglese del Seicento. Quale sia quel confine è l’oggetto di studio di Shelley Carson, psicologa cognitiva di Harvard che dedica il suo lavoro agli ingredienti della creatività. Scoprendo che uno specifico fattore determina il successo creativo: la “disinibizione cognitiva”, vale a dire l’apertura a idee, immagini o stimoli ritenuti estranei, insoliti. Grande intelligenza e memoria di lavoro farebbero il resto, tenendo a bada gli effetti negativi della disinibizione — che accompagna anche la sregolatezza, per non dire la follia — e incanalandoli nel processo creativo.
Ma allora che cosa dovremmo dire alle migliaia di scienziati che hanno una vita perfettamente normale, non si mettono i calzini spaiati, non conservano appunti nel frigorifero? Forse faremmo bene a ricordare che le linguacce di Albert Einstein furono accompagnate dalla compostezza del “danese tranquillo”, Niels Bohr, come lo definisce Abraham Pais nella sua monumentale biografia. E alle bizzarrie di Paul Dirac, uno dei padri della meccanica quantistica, replicare con la grigia quotidianità di Werner Heisenberg, che pure fu uno dei fisici più visionari del XX secolo. E ancora che se Steve Jobs suggeriva «stay hungry, stay foolish » («siate affamati, siate folli »), Thomas Edison sosteneva che il genio è «per l’1 per cento ispirazione e per il 99 per cento sudore».
Ma soprattutto dovremmo imparare a non farci condizionare dagli stereotipi. Così, dietro l’immagine dello scienziato eccentrico, potremo mettere meglio a fuoco il contributo che tutti quei protagonisti, eccentrici o meno, hanno dato al cammino della conoscenza e della civiltà.

Repubblica 23.11.14
I messaggi nascosti di Leibniz
di Piergiorgio Odifreddi


LA SCUOLA Normale Superiore di Pisa ha pubblicato da poco un libretto di una settantina di pagine, Leibniz e la crittografia di Nicholas Rescher, che svela un lato sconosciuto del grande filosofomatematico. Si è scoperto, cioè, che fra i tanti suoi progetti ce n’era anche uno di una macchina per codificare e decodificare automaticamente i messaggi mediante una tastiera collegata a un cilindro, nello stile della famosa macchina Enigma usata dai nazisti.
Durante la Seconda Guerra Mondiale a decrittare quest’ultima ci si mise, con successo, nientemeno che l’inventore del computer Alan Turing, in un episodio raccontato nel 2001 dal film Enigma di Michael Apted. E oggi la crittografia è uno dei campi di applicazione canonici della potenza di calcolo dei computer. Non è dunque così sorprendente, col senno di poi, l’interesse di Leibniz per questo argomento, visto che il suo lavoro ha posto le basi della moderna informatica in almeno due modi. Da un lato, fu lui a inventare l’aritmetica binaria, che permette di scrivere tutti i numeri con due soli simboli, lo 0 e l’1, invece dei dieci richiesti dal sistema decimale. Dall’altro lato, fu sempre lui a immaginare una characteristica universalis in grado di esprimere i concetti matematici, sfociata poi nei linguaggi di programmazione. Il tutto, a dimostrazione della sua visionaria versatilità.

Repubblica 23.11.14
Quel malinteso chiamato Rimbaud
di Franco Marcoaldi


Rimbaud la canaglia di Benjamin Fondane Castelvecchi, trad. di G. L. Spadoni pagg. 190, euro 17,50

BASTA leggere il titolo del libro, Rimbaud la canaglia, per capire che la biografia scritta da Benjamin Fondane non ha nulla di edificante. Nulla a che vedere con il tentato addomesticamento dell’interpretazione surrealista, e tantomeno di quella cattolica, che appellandosi alla tardiva e controversa conversione del poeta, ne legge la vita come un gigantesco “malinteso”, come una disperata fuga di fronte alla chiamata.
Secondo Fondane, allievo di Šestov e morto ad Auschwitz nel 1944, l’interesse di Rimbaud nasce proprio dalla sua abiezione. Nei successivi passaggi di una vita furiosa — la poesia, i primi vagabondaggi, l’Africa, il traffico di armi, il drammatico ritorno in patria — il poeta incarna l’incomponibile lacerazione dell’uomo moderno, dimidiato tra fede e ragione. In un vorticoso precipizio, l’esistenza di Rimbaud si presenta come un campo di battaglia dove si fronteggiano «due potenze oscure, ugualmente implacabili ». E nell’impossibilità di scegliere, l’autore di Una stagione all’inferno «uccise la sua ragione, uccise la sua fede; non ebbe la minima pietà di sé».

Repubblica 23.11.14
Uccidere per salvare l’enigma della morale
Uno scambio ferroviario con l’alternativa tra vita e morte diventa il simbolo delle scelte etiche nelle riflessioni del filosofo Edmonds
di Maurizio Ferraris


«NEL Père Goriot Balzac ricorda un passo di Rousseau, nel quale questi chiede al lettore che cosa farebbe se, senza lasciare Parigi, e, naturalmente, con la certezza di non essere scoperto, potesse, con un semplice atto della volontà, uccidere un vecchio mandarino che abita a Pechino e la cui morte gli procurerebbe un gran vantaggio. Egli lascia intuire che non darebbe un soldo per la vita di questo dignitario». In questo passo delle Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte (1915) Freud manifesta tutto il suo pessimismo antropologico. Ma la carrellata di carrellologia morale (vedremo il motivo del nome) presentataci da David Edmonds in Uccideresti l’uomo grasso? ( Raffaello Cortina) ci lascia più speranzosi, e costituisce la prova della tesi di Borges secondo cui la metafisica è una branca della letteratura fantastica.
All’origine c’è anche qui la guerra. Nell’estate del 1944, con i lanci delle V1 su Londra, le autorità si trovarono di fronte a un dilemma morale. Avendo notato che per un errore di calcolo dei tedeschi i lanci tendevano a cadere nella periferia sud, si pensò, con un’opera di disinformazio- ne, di suggerire che superavano la capitale in direzione nord. Correggendo il tiro, i tedeschi avrebbero mancato l’obiettivo nei lanci sulla zona sud — ma i lanci sulla zona nord avrebbero colpito la zona sud.
Alla fine, fu presa quella decisione. Sotto le bombe c’erano anche le due eroine della carrellologia, future famose filosofe morali: Iris Murdoch e Philippa Foot. La prima formulazione è dovuta a un articolo del 1967 di Philippa Foot: un uomo sta vicino a una leva di scambio ferroviario e ha l’alternativa tra il lasciare che un carrello in corsa travolga cinque perso- ne legate ai binari, o deviarlo su un altro ramo dove ucciderebbe una persona. Nel caso che dà il titolo al libro invece voi siete su un ponte accanto a un uomo grasso, se lo schiantaste sulla ferrovia il suo peso bloccherebbe il carrello salvando cinque uomini — ma voi avreste ucciso l’uomo grasso. I riflessi prossimi di quelle remote scorribande metafisiche e morali si hanno in indicazioni di tutti i giorni, per esempio quando in aereo vi dicono che in caso di depressurizzazione dovete prima indossare la maschera e solo dopo farla indossare al bambino che vi siede accanto.
Tutto questo ci chiarisce l’ambito sublime della carrellologia, che è quello di una casuistica morale utile a raffinare le nostre intuizioni, che però poggiano sul presupposto che le vittime della nostra decisione ci siano sconosciute. Nella concreta esperienza morale ciò accade di rado. Se l’uomo grasso ad esempio fosse un nostro rivale in amore forse più che di fronte a un delicato dilemma carrellologico ci troveremo di fronte a una dolorosa scelta morale: risparmiandolo avremo sì condannato cinque persone, ma ci saremo rivelati capaci di una magnanimità da cavaliere errante.

Il libro
UCCIDERESTI L’UOMO GRASSO? di David Edmonds RAFFAELLA CORTINA TRADUZIONE
DI G. GUERRIERO PAGG . 234 EURO 19

Repubblica 23.11.14
Massimo L. Salvadori
“Solo oggi sono riuscito a fare pace con la donna che mi mise al mondo”
intervista di Antonio Gnoli


L’UNIVERSITÀ Laureato in filosofia, ha proseguito gli studi a Dublino, Napoli e Lipsia. È professore emerito dell’Università di Torino, ordinario di Storia delle dottrine politiche. Visiting Professor alla Columbia University e ad Harvard
IL PARLAMENTO Tra il 1992 e il 1994 è stato deputato eletto nelle file del Partito democratico della sinistra per l’undicesima legislatura, vicepresidente della III Commissione esteri e nella commissione speciale per le politiche comunitarie
I SAGGI Ha pubblicato sintesi storiografiche e numerosi saggi dedicati alle vicende della sinistra italiana e non solo, da Gramsci e il problema storico della democrazia (Einaudi) al recente Le stelle, le strisce, la democrazia (Donzelli)
LE ALTRE OPERE Oltre ai saggi ha scritto anche romanzi e fiction.
Nel 2012 ha pubblicato Vita di Bernie, il cane che non voleva abbaiare (Salani), ispirato al suo schnauzer, e da poco è uscito Cinque minuti prima delle nove (Claudiana)

ALL’IMPROVVISO Massimo Salvadori estrae una scatola di sigari. Finalmente si concede una fumata. Sono trascorse alcune ore da quando c’eravamo dati appuntamento nella stazione di Milano. Volevo sollecitarlo sulla sua vita. Scavare nel suo passato. Capire perché uno storico di solito calmo e distaccato abbia deciso di raccontarsi in maniera impietosa in un libretto ( Cinque minuti prima delle nove, edito da Claudiana) che, senza pretese narrative, ha il profumo dell’onestà e la forza irresistibile di una valanga. Ero stupito. Di lui. Del libro. Dal serafico personaggio che si trasforma nel più ardito fra i trapezisti: volteggia senza rete, indifferente alle vertigini che le parole raccolte procureranno a lui e agli altri.
Qualche ora prima era ad attendermi al binario. Un uomo di una eleganza tradizionale che, dati i tempi sbadatamente originali, si potrebbe definire scontata. Il borsello che stringe in una mano mi appare come un’appendice involontariamente provocatoria. Inattuale. Un capro espiatorio di anni lontani e ormai sepolti. Mi attardo a pensare che questo signore di 78 anni ha più vie di entrata che di uscita e che per troppo tempo ha lasciato che le cose seguissero il loro corso spontaneo. Poi la decisione di tirare fuori dal cassetto quel libro, a un tempo impietoso e tenero.
Perché?
«Un’insegnante, amica carissima — che in un periodo brutto dell’adolescenza mi strappò al caos — ha detto: Massimo sei ormai vecchio. Puoi fare ciò che vuoi. Pubblicalo ».
Emerge soprattutto la figura di sua madre. Che donna è stata?
«Ha condizionato la mia vita, quella di mio fratello e delle mie due sorelle».
Come hanno reagito a questa sua testimonianza?
«Sono tutti morti. Non farò loro del male, ammesso che le cose che ho scritto possano ancora ferire o urtare».
Si può parlare di un’infanzia molto difficile. Da dove comincerebbe?
«Dalla morte di mio padre. Avevo cinque anni. La ditta per la quale lavorava ci mise a disposizione una macchina che da Torre Pellice, dove vivevamo, ci condusse all’ospedale delle Molinette a Torino. Fu un incontro straziante. Papà ci abbracciò e scoppiò a piangere. Fu il commiato. L’addio».
Anche nel libro lei parla della “Ditta” senza specificare oltre. Ha un nome?
«Ce l’ha. Nel libro avevo volutamente omesso riferimenti anche personali. La ditta è l’Olivetti dove mio padre era impiegato».
Cosa accadde quando lui morì?
«Mia madre non era in grado di occuparsi della nostra educazione. La ditta scelse per me e mio fratello un convitto dove farci studiare. Erano gli anni della guerra».
Dunque duri.
«Sì. Vivevamo in un edificio molto grande. Un orto provvedeva alla nostra alimentazione. La disciplina ferrea. La sera il direttore — un fanatico calvinista — ci leggeva passi della Bibbia. Crebbi con un forte senso della religione. Ma anche con lo sgomento di un bambino cui non era stata data alcuna alternativa».
Quanto restò nel convitto?
«Abbastanza. Il direttore, a un certo punto, scrisse una lettera, indirizzata al nuovo marito di mia madre, nella quale lo informava che l’autorità germanica non intendeva più tenere i bambini. Ci trasferirono in un orfanotrofio ».
Non era più semplice, visto che sua madre si era risposata, tornare in famiglia?
«Avremmo dovuto smettere di studiare. Mia madre non era in grado di provvedere e il patrigno non manifestava nessun interesse né doveri nei nostri riguardi. Era un uomo meschino, frustrato, gretto».
Perché lo sposò?
«È un mistero. Sospetto che volesse qualcuno sottomano da maltrattare. Più di una volta la sentii insultarlo. Accadeva che di fronte a degli estranei dicesse con sarcasmo: si è presa una vedova con quattro figli e senza un soldo, solo per stare dentro casa, al calduccio».
Era molto umiliante. Di cosa si occupava il suo patrigno?
«Era laureato in lettere e la mamma sperava che, prima o poi, trovasse un posto da insegnante. Quanto a lei, per mantenersi, si era decisa a fare l’affittacamere. Trasformò la grande casa dove abitava in una specie di alberghetto ».
Un altro forse avrebbe provato a cancellarla. Cosa trova di speciale in questa donna?
«Fu un rapporto difficilissimo. Per un verso motivo di disagio e sofferenza. Ma per un altro di ammirazione».
Ammirazione?
«Sì, ammirazione per una donna coraggiosissima. Figlia di contadini cattolici, non era andata oltre la terza elementare. Eppure parlava e scriveva benissimo. C’è un episodio che rivelò il suo carattere. La ditta, cioè la famiglia Olivetti, le chiese di nascondere una coppia di ebrei. Accettò. Ma dopo qualche settimana accadde che un giovane repubblichino, fanatico come pochi, le chiese di consegnargli i due vecchi ebrei».
Sua madre come reagì?
«Dapprima negò che in casa tenesse nascosti dei clandestini. L’altro insisteva e minacciò che l’avrebbe denunciata. La mamma interruppe la discussione. Si allontanò per un momento. Poi tornò. Estrasse dal grembiule un coltellaccio e lo puntò sulla pancia del repubblichino. “Prova a denunciarmi e te lo pianto nelle budella. E se non ci riesco io lo faranno i partigiani”. La sua durezza e la determinazione mi impressionarono. L’altro ripiegò spaventato».
Che ne fu dei due ebrei?
«Qualche giorno dopo giunse una macchina che li portò via. Non ho mai saputo verso quale destino».
Aveva una qualche consapevolezza di ciò che stava accadendo agli ebrei?
«No, sapevo che stavano succedendo delle cose brutte, ma non imputavo i motivi alla condanna e alla persecuzione di un popolo. Avvertivo, questo sì, certe ingiustizie di cui non capivo la ragione».
Ingiustizie personali?
«Vissute personalmente. Durante le elementari strinsi amicizia con un bambino della mia stessa classe. Eravamo i due più bravi. Ci contendevamo gli elogi della maestra. Senza rivalità. Con affetto e stima. Quando finì il ciclo scolastico io passai alla scuola media e seppi che Vincenzo, era il suo nome, non sarebbe più andato a scuola. Ricordo che mi precipitai a casa della madre. La implorai che facesse di tutto per farlo continuare. Mi rispose che Vincenzo non poteva più essere mantenuto e doveva andare a lavorare. Fu in quel preciso momento che compresi cos’era l’ingiustizia ».
Ha più avuto notizia di Vincenzo?
«No, perso completamente. Ho anche provato a cercarlo. Resta un vuoto. Ad ogni modo quel trauma contribuì a cambiarmi. Affrontai il nuovo corso scolastico contro voglia. Da quel bambino perfetto che ero, mi trasformai. Non mostravo più alcun interesse per la scuola. Mi rifugiavo nei fumetti e nei libri di avventura. Non parlavo con nessuno. Ero chiuso in me. In un preoccupante autismo ».
Forse era solo il passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza.
«A modo suo penso di sì. Una volta la sentii dire rivolta al patrigno: mica come te, con Giulio sì che facevo la mia grande figura!».
«C’era indubbiamente quello che a me parve l’insopportabile fine di un mondo di sogni. Anche se quei sogni erano stati spesso turbati dalla ferocia della realtà».
Come ne è uscito fuori?
«Per pura fortuna, o casualità. Incontrando sia alle medie che al liceo alcune persone giuste. Persone straordinarie senza le quali non ce l’avrei fatta. Ad ogni modo, quando finì la guerra tornammo a studiare al convitto».
Quanto tempo ha trascorso in quei luoghi lontano da casa?
«Dall’età di cinque a diciassette anni. Alla fine del liceo la ditta ci avvertì che il suo impegno finanziario era da considerare concluso. Nel frattempo si pose il problema di cosa scegliere all’università. Mia madre voleva che facessi legge. Le dissi che era una facoltà che non mi apparteneva. Mi iscrissi a lettere e filosofia».
Come reagì?
«Ovviamente malissimo. Era molto delusa. Dalle figlie, da me. Meno da mio fratello. Ma su di me aveva puntato molto. Questa è una famiglia di incapaci, il vostro sangue non è buono, disse. Con una veemenza e un disprezzo che le si leggeva sul volto. Poi aggiunse: non dovreste fare figli. Verrebbero come voi. Manifestò così la sua delusione».
In questo contesto drammatico lei è riuscito a sopravvivere e a fare la sua strada diventando uno tra gli storici più accreditati. Chi sono stati i suoi maestri?
«Due in particolare: Walter Maturi con cui mi sono laureato e Federico Chabod. Purtroppo entrambi morirono prematuramente».
Perché ha scelto di essere soprattutto uno storico della contemporaneità?
«Perché negli anni del liceo, e forse già prima, scoprii il valore della politica. Le due esperienze hanno camminato insieme».
La politica fu per lei all’inizio un modo di confrontarsi e identificarsi con chi o cosa?
«All’inizio con il Partito comunista. Fu il figlio del direttore del convitto a farmi da mentore politico. Tanto era religiosamente fanatico il padre, quanto lo fu lui nelle sue scelte staliniste. Dal partito uscii nel 1956. Come tanti altri ».
Ma quel legame con il Pci era anche il bisogno di riempire un vuoto affettivo?
«Intende dire per tutte le complicazioni che il rapporto con mia madre aveva prodotto?».
Sì.
«Non penso che ci sia una relazione. La mia adesione maturò nell’idea che occorresse vivere in un mondo più giusto. Ma non ho mai avuto un rapporto fideistico. Non ho mai cercato nel Pci una chiesa rassicurante. Nonostante ciò resto uno storico di sinistra».
Cosa vuol dire?
«Significa non perdere il rispetto di sé, delle cose che si sono fatte con lealtà, anche ammettendo gli errori compiuti. Mi sono occupato di Gramsci, di Kautsky e della socialdemocrazia. Ho scritto una storia del pensiero comunista cercando di capire ciò che ero stato e le ragioni della mia parabola politica».
Non sente di essere finito in un vicolo cieco?
«Separerei quella che può essere una sconfitta personale da una sconfitta epocale. Il comunismo ha fallito. Ed è una sentenza senza appello. Per quanto mi riguarda ho il rammarico di aver compreso tardi certi valori della cultura liberale».
Tornerei al suo racconto di formazione. Perché ha deciso di mettersi così a nudo?
«Volevo raccontare delle cose che mi parevano poco credibili. C’è un sogno che ancora, qualche volta, faccio. Mio padre muore e va all’inferno. È un angoscia che mi porto dentro».
Come si chiamava suo padre?
«Giulio e mia madre Francesca».
E Francesca amava Giulio?
Quando è morta?
«Era nata nel 1906. Morì nel 1970. Negli ultimi anni si era chiusa in un isolamento assoluto. Quando stette davvero male il patrigno avvertì me e mio fratello. Ci precipitammo in ospedale. Vedemmo questa donna orgogliosa, dura, malandata che ci scrutava con ironia. Cominciò a dire: a me non importa di morire e adesso vi pianto in asso. Cominciò a scherzare sulla morte con battute esilaranti. E noi prendemmo a ridere. Sempre più forte. Come se la tensione si stesse sciogliendo. Arrivò il medico. Guardò la scena con raccapriccio, poi esclamò: due figli, due delinquenti come voi, non li ho mai incontrati. Ero spiazzato dallo stupore. Mio fratello ebbe solo il tempo di replicare: lei non può capire. L’altro sbatté la porta ».
Chi è oggi Massimo Salvadori?
«Un uomo che ha cercato da solo di andare al fondo della sua personalità. Che si è formata troppo rapidamente. E nel tempo è restata sempre la stessa».
Come se non fosse mai cresciuto?
«La mia crescita è avvenuta in un attimo. Congelata per lungo tempo in un senso di estraneità che ho faticato a rompere. E se ci sono riuscito è stato grazie ad alcune persone straordinarie e a mia moglie Edda».
Ha avuto un’educazione fortemente religiosa. Cosa le è rimasto?
«Tutto ciò che è imposto non può durare. Non sono più credente. Diciamo che mi rifaccio al De Rerum Natura di Lucrezio».
Un pacato materialismo.
«Già. Per lunghi anni non sono riuscito a tornare nei posti della mia infanzia. A Torre Pellice. Luogo di glorie valdesi. Solo da vecchio ho riscoperto l’importanza di quelle storie, di quei personaggi, di quella dignità. È stato improvvisamente un diverso sentire. È come se tutta la pietas che era stata dissipata tornasse con forza. È un sentimento di pathos che oggi provo. Meno estraneo alla vita. Meno immobile. Riconoscente. Pacificato. Anche con la donna che mi ha messo al mondo».

Repubblica 23.11.14
Amelia Rosselli nel nome dei padri
I “giustiziati” sono il papà Carlo e lo zio Nello assassinati a Parigi durante un agguato fascista
A lanciarla fu Pasolini che definiva “lapsus” le devianze verbali dovute al bilinguismo
Nei versi c’è tutto il peso che le tragedie familiari hanno esercitato su di lei
di Walter Siti


L’amore non corrisposto di cui parla è quello per Renato Guttuso uno dei tanti uomini anziani di cui spesso si innamorava La seconda strofa è il racconto delle difficoltà economiche, della fama, dell’obbedienza coatta e insieme il deciso rifiuto del ruolo di vittima

PARTIAMO dai tre versi finali, forse aggiunti in un secondo tempo ma in realtà conclusione necessaria e straziante vertice del testo. “ Cara vita che mi sei andata perduta”: l’aggettivo epistolare leopardiano e il dativo etico contribuiscono al tono di familiarità affettuosa; che segna però anche una violenta disappartenenza, come se la vita non fosse consustanziale all’io ma apparisse una presenza scissa con cui fare i conti. Non mediante la vita, ma accompagnandosi ad essa, la protagonista avrebbe “fatto faville”: nell’espressione più che colloquiale è impossibile non intravedere un barlume di autoironia. La vita è andata perduta e non c’è più rimedio: non si sa nemmeno quando e come sia successo, eppure mancava poco, “se solo…”; mancava poco e mancava tutto — non resta che il mesto sorriso di chi ripensa alle smodate ambizioni giovanili, di danzare e bruciare nel mondo. “Se tu non fosti”, palese sgrammaticatura al posto di “fossi”; volontaria o no? La lingua scivola per eccesso di passione, sostituisce al modo dell’ipotesi quello della certezza.
Concepita nel confino di Lipari, nata a Parigi, emigrata con la madre inglese a Londra a otto anni poi trasferita a New York, la Rosselli vedrà l’Italia solo dopo l’adolescenza; il suo trilinguismo infantile (italiano/francese/inglese) diventerà il bilinguismo (italiano/ inglese) di tutta una vita. Pasolini, che la lanciò come poetessa, insisteva sulla sua formazione cosmopolita (lei precisava “ero una profuga”); lui chiamava “lapsus” le sue devianze verbali ma lei ne rivendicava la piena consapevolezza. Al primo verso della nostra poesia l’inesistente “rinnoverava” è un composto ottenuto da “rinnovare” (o, dantescamente, “rinnovellare”, con allusione a un dolore) mischiato ad “annoverare”: come se il verbo significasse “rinnovare passando in rassegna”.
Arriviamo così alla parte più oscura del testo, quella che giustifica la desolata constatazione finale: perché la vita è andata perduta? A causa del peso, si potrebbe anticipare riassumendo, che i morti familiari hanno esercitato su di lei. I “giustiziati” sono il padre Carlo e lo zio Nello, assassinati a Parigi in un agguato fascista; ma più che la morte conta qui la loro “severa vita”, che è stata tutta un inno alla “giustizia” (Giustizia e Libertà, si chiamava il movimento fondato dal padre). La nonna paterna, Amelia come lei, era stata per la nipote il simbolo della “giustizia assoluta”; l’abisso che quel ricordo rinnova è la mancanza affettiva che l’altissima moralità parentale ha scavato nel cuore della bambina sballottata dagli eventi: «di mio padre», dirà la Rosselli in un’intervista, «resta in me un senso di non corporeità». “Disinteresse” è parola ambigua: allude all’impegno politico disinteressato, senza tornaconto personale, ma anche alla mancanza di interesse per i figli da parte di un padre troppo impegnato. “Era e non era”, “costanza/incostanza”, “disinteresse/interessato”: nella mente dell’adulta tornata bambina il contegno dei grandi ha la vaghezza di un sogno — ma è anche lacerata coscienza che quegli eroi vivevano di illusioni romantiche: fedeli a speranze che masochisticamente volevano perdenti, attori tragici sprecati nella tragica farsa del fascismo. La passione è lucida e ingiusta, esagera e teatralizza: immagina prigionia e confino come un medioevo con carcerieri che hanno cani al guinzaglio (le “cagnotte” sono un’altra parola inventata, forse per attrazione dell’antico “cagnotto”, cioè sbirro).
La seconda strofa è una carrellata sulla propria vita all’ombra dei padri: il gioco (che è recita del destino, sia “jouer” che “play” significano anche “recitare”), le difficoltà economiche, la fama e l’obbedienza coatta — elenco fatto con approssimazione e fastidio ma col deciso rifiuto a star chiusa nel ruolo di vittima. Le “doleanze” dei “perseguitati” sono un francesismo per “lamentele”, ma è ovvia l’allusione ai “cahiers de doléance” che nel 1789 scatenarono la Rivoluzione Francese. Gli ultimi tre versi, come abbiamo visto, segnano la frattura insanabile tra quello che avrebbe potuto essere e ciò che è stato; ma l’intera produzione della Rosselli è dominata dal desiderio incoercibile di una storia “altra”, irrealizzabile e impossibile — storia non solo biografica ma pubblica, la reale (sempre delusa) possibilità di una rivoluzione.
Quel che la rende struggente è la sincerità indifesa ma sempre battagliera; la capacità di afferrare il linguaggio sul discrimine mobile tra conscio e inconscio, là dove le verità più maleducate vengono a galla scuotendo l’io e mettendolo ogni volta in pericolo. Documento nasce come canzoniere amoroso (con un temerario riferimento a Petrarca); come si inserisce nel canzoniere questo corpo-a-corpo coi padri? L’amore non corrisposto è per Renato Guttuso: uno dei tanti uomini più anziani di lei (insieme a Carlo Levie Mario Tobino) di cui la Rosselli via via si infatuava. “Questo incesto non/ si ha da fare” scrive in un’altra poesia della raccolta. E in una dell’anno precedente, poi non inclusa in Documento , si era così rivolta ai padri: “vi amo vi venero e vi riverisco/ vi ricerco in tutte le pinete/ vi ritrovo in ogni cantuccio/ ed è vostra la vita che ho perso”.

Il Sole Domenica 23.11.14
A Cesare quel che è di Cesare
A 250 anni da «Dei delitti e delle pene» Beccaria va riconosciuto non solo come grande giurista ma come economista anticipatore di Adam Smith
di Armando Massarenti


Nel 1765, in una sorta di lungo editoriale della rivista «Il Caffè» intitolato «De' fogli periodici», Cesare Beccaria osservava che «il vero fine di uno scrittore di fogli dev'essere di rendere rispettabile la virtù, di farla amabile, d'inspirare quel patetico entusiasmo per cui pare che gli uomini dimentichino per un momento se stessi per l'altrui felicità». «Ma questo scopo – aggiungeva – dev'essere piuttosto nascosto che palese, coperto dal fine apparente di dilettare, di divertire, come un amico che conversi con voi, non come un maestro che sentenzi». E ciò anche laddove si discorra dei temi che – oltre la moda, la letteratura, l'umorismo, gli apologhi e tutti gli espedienti volti a rendere leggera e gradevole la lettura – egli riteneva fossero decisivi per alimentare la felicità, pubblica e privata: «l'agricoltura, le arti, il commercio, la politica». E poi «la fisica e la storia naturale», miniere inesauribili di idee che devono «fermentare» nella mente di chi legge, e che lo scrittore deve «rendere a chiarezza e precisione, e quasi in sugo ed in sostanza» allo scopo di non annoiare nel rendere pubbliche sia «le cognizioni positive» «utili al maggior numero» sia – non meno importanti – quelle «negative» volte «a distruggere i pregiudizi e le opinioni anticipate, che formano l'imbarazzo, il difficile e, direi quasi, il montuoso e l'erto di ogni scienza».
Dei delitti e delle pene era stato pubblicato un anno prima, nel 1764, ed è un inno a questa idea dei Lumi che lavorano «più a distruggere che ad edificare, e così facendo edificano insensibilmente», consapevoli che «ad ogni verità grande ed interessante, mille errori, e mostruose falsità stanno d'attorno che la inviluppano e la nascondono agli occhi non sagaci».
Sono trascorsi duecentocinquant'anni dalla pubblicazione di quel piccolo formidabile trattato, distruttore di pregiudizi ed edificatore di diritti e di idee innovative che ancora brulicano nelle nostre teste. E in questi due secoli e mezzo Cesare Beccaria è stato esaltato, ma anche trascurato e frainteso, in molte sue linee di pensiero. Come scrisse Luigi Settembrini, Dei delitti e delle pene ha rappresentato più che l'uscita di un libro un momento epocale, segnando «il tempo in cui fu abolita la tortura e le atrocità nei giudizi criminali, e si cominciò a pensare se è proprio necessaria la pena di morte ai colpevoli». Intellettuale illuminista, antesignano negli sviluppi di molte correnti del pensiero moderno, come il contrattualismo, il liberalismo e l'utilitarismo, Beccaria, insieme a Machiavelli il più conosciuto al mondo tra i pensatori italiani, supera con la sua riflessione e produzione teorica i confini tra le varie discipline e certamente sfugge a una definizione univoca. Jeremy Bentham lo considerava tra gli ispiratori più importanti dell'utilitarismo, per la formulazione del celebre principio incentrato sulla «massima felicità per il maggior numero di persone», ma in Beccaria non può essere affatto trascurata l'attenzione per i diritti individuali e il riferimento al contrattualismo alla Rousseau, con echi che giungono oggi fino alle "teorie della giustizia" alla John Rawls, come ricorda il filosofo del diritto Mario Ricciardi nell'ultimo numero della rivista Philosophical Inquiries (www.philinq.it). Ma è anche vero che il calcolo razionale caro agli utilitaristi permette a Beccaria di desacralizzare il diritto scindendo per primo, e una volta per tutte, l'idea (giuridica) di reato dal concetto (etico-religioso) di peccato, e che proprio il suo ragionare da economista gli fornisce la chiave per valorizzare al massimo grado i diritti individuali in un contesto drammatico e ancora oggi delicatissimo come quello del sistema sanzionatorio penale.
Che l'eredità intellettuale di Beccaria non possa essere circoscritta a questo fenomenale piccolo trattato – dove troviamo perfettamente enunciati i principi della certezza del diritto e della pena, del grado di deterrenza dei diversi tipi di punizione, della velocità dei processi come ingrediente fondamentale per una giustizia giusta – lo dimostra la monumentale opera avviata da Luigi Firpo e Gianni Francioni con l'edizione nazionale delle Opere di cui uscirà a breve il terzo volume dedicato agli Scritti economici (Mediobanca). Come sostiene Carlo Scognamiglio Pasini nel suo L'arte della ricchezza (uscito in questi giorni per Mondadori education), Beccaria è stato in realtà «il più profondo e il più originale degli economisti italiani». Scognamiglio abbraccia appieno in questo il giudizio di Schumpeter che definiva Beccaria "l'Adam Smith italiano". In una nota critica del curatore Gianmarco Gaspari agli Scritti economici si legge che Beccaria avrebbe anticipato Smith nella formulazione del concetto di "divisione del lavoro". Scogmamiglio invece ricorda che due furono le idee di Beccaria considerate eversive dai suoi contemporanei: la prima è quella, già menzionata, della distinzione tra crimini e peccati, che spinse la Chiesa a mettere subito all'Indice Dei delitti e delle pene. La seconda è un'idea che si troverà anche nella Ricchezza delle nazioni di Smith (1776) e che «rivoluzionerà il sapere economico aprendo la strada alla moderna economia politica, al sistema dell'economia di mercato, e più tardi anche all'antitesi rappresentata dal socialismo di Marx ed Engels». Espressa chiaramente da Beccaria nelle lezioni che tenne tra il 1769 e il 1771, è l'idea secondo cui la vera fonte della ricchezza delle nazioni non è costituita dalle risorse naturali e dall'agricoltura, ma trae invece origine dal lavoro umano e dagli strumenti che ne incrementano la produttività. La classe sociale cui Beccaria apparteneva – aristocratici e proprietari terrieri – non poteva subire un simile attacco alla rendita, e spinse Beccaria ad abbandonare l'insegnamento e il progetto di pubblicare il proprio testo sull'economia, che uscirà postumo nel 1804, e ad accettare per il resto della sua vita solo compiti operativi e amministrativi. Che è sempre un bel modo per depotenziare le menti più fervide e innovative.

Il Sole Domenica 23.11.14
Scienza & fede
Un dialogo superficiale
Un sondaggio mostra come gli italiani amino conciliare l'intervento divino e le spiegazioni scientifiche. È un bene?
di Vincenzo Barone


Intervenendo sul caso Galileo, nel 1979, Giovanni Paolo II invitò gli intellettuali a rimuovere le «diffidenze» esistenti tra scienza e religione e a «dischiudere la porta a future collaborazioni». Da allora, ha preso corpo nel mondo cattolico una nuova teologia della natura, che non si contrappone alla scienza, ma pretende di trarre da essa alimento, presentandosi come il frutto di un lavoro condotto congiuntamente da scienziati e teologi, e spesso da scienziati-teologi. Non si tratta di un movimento rozzamente creazionista, ma di una corrente di pensiero almeno in apparenza più sofisticata, che diffonde l'idea che sia la scienza stessa a rinviare a Dio, indicando, con i suoi sviluppi più avanzati, un cammino verso la trascendenza. L'orizzonte generale entro cui questo programma si inscrive è contrassegnato da un mito ricorrente, quello del «dialogo tra scienza e fede». Le tesi di fondo della nuova teologia naturale sono, in realtà, facilmente confutabili: non esistono, all'interno della scienza, domande inevase di senso, né «strade verso Dio», a meno di non prendere sul serio amenità come il principio antropico, o di non credere – come taluni fanno – che il teorema di incompletezza di Gödel e le relazioni di indeterminazione di Heisenberg segnalino delle insufficienze da colmare con una forma superiore di sapienza. Rimane, tuttavia, quella parola magica – «dialogo» –, che sembra rappresentare un valore in sé. Chi mai si opporrebbe a un dialogo, se non un intollerante fondamentalista?
La compatibilità tra scienza e fede (quest'ultima intesa specificamente come credenza in un Essere trascendente che interviene nella natura) è stata oggetto di un sondaggio promosso dal Centro di documentazione interdisciplinare di scienza e fede della Pontificia Università della Santa Croce, diretto dall'astronomo e teologo Giuseppe Tanzella-Nitti (se ne trova un resoconto, a cura dell'astrofisico Matteo Bonato, sul sito www.disf.org, e un'esposizione più dettagliata sull'ultimo numero della rivista «Paradoxa»). A un campione rappresentativo della popolazione italiana è stato chiesto di esprimere un giudizio su una serie di affermazioni riguardanti le origini dell'uomo e dell'universo, e sul possibile ruolo svolto da Dio. Per ciò che riguarda la comparsa dell'uomo sulla Terra, il 42% degli intervistati ritiene che la specie umana si sia evoluta a partire da forme inferiori di vita con l'aiuto divino, mentre il 28% pensa che sia stato Dio a creare l'umanità. Il restante 30% ritiene che Dio non abbia avuto alcuna parte nell'evoluzione umana. I risultati relativi all'origine dell'universo mostrano un andamento simile: il 45% degli intervistati ritiene che l'universo sia stato creato da Dio e che, al tempo stesso, la scienza possa spiegarne l'origine, mentre il 27% è del parere che l'universo sia stato creato da Dio e che la scienza non sia in grado di spiegarne l'origine. Solo il 28% crede che l'origine dell'universo sia spiegabile in termini puramente scientifici. Il dato che fa riflettere è che per quasi la metà dei nostri connazionali la spiegazione scientifica e l'azione di Dio possono tranquillamente coesistere nella visione del mondo naturale. I cattolici trovano questo fatto «incoraggiante» e plaudono all'«apertura interdisciplinare» degli italiani. A uno scienziato, e a chiunque abbia a cuore la salute culturale della società, l'esito del sondaggio, invece, non può che apparire deprimente, giacché dimostra – e purtroppo non è una sorpresa – che nel grande pubblico regna una profonda incomprensione del metodo scientifico. In una famosa conferenza del 1941 su «Scienza e religione» (la si può leggere in Pensieri degli anni difficili, Bollati Boringhieri, 2014) Einstein spiegò che il «compito della scienza è quello di stabilire regole generali che determinino la connessione reciproca fra gli oggetti e gli eventi nello spazio e nel tempo», e aggiunse: «Quanto più un uomo è conscio dell'ordinata regolarità di tutti gli eventi, tanto più salda diventa la sua convinzione che non vi è posto, accanto a questa regolarità, per cause di natura differente. Per lui né la legge della volontà umana, né la legge della volontà divina esistono come causa indipendente degli eventi naturali». Il principio secondo cui non possono essere introdotti nel cosmo elementi di intenzionalità non è un aspetto secondario e negoziabile della scienza, ma uno dei suoi valori costitutivi, una regola imprescindibile del gioco. È grazie a questo «postulato di oggettività», come lo chiamava il grande biologo francese Jacques Monod (non a caso uno dei bersagli preferiti dei teologi cattolici), che la scienza è progredita e ha accumulato successi: respingendolo, non si costruisce un sapere più ricco e «interdisciplinare»; semplicemente, si esce dalla scienza. È peraltro evidente, sul piano logico, che se anche in un solo caso (al momento del Big Bang, per esempio, o nella transizione verso il genere Homo) ipotizzassimo un intervento soprannaturale, non avremmo motivo – a meno di non voler porre limiti a Dio – per non ammettere interventi simili in qualunque altra situazione.
Ne deriverebbe una conoscenza del tutto arbitraria, non assoggettabile a controllo: qualcosa di profondamente diverso da quella precisa forma culturale che va sotto il nome di scienza. Bisogna dunque essere chiari: il dialogo tra scienza e fede – questa ipotetica Grosse Koalition dello spirito – è impossibile, per l'essenza stessa delle due parti. Affermare ciò non significa essere fondamentalisti o inclini al conflitto; significa solo essere coerenti.
E infine, il fatto che la gente sappia, magari in modo superficiale, del Big Bang e dell'evoluzione, ma consideri questi processi governati da Dio, ci dice anche un'altra cosa: che la vera alfabetizzazione scientifica non passa attraverso la somministrazione di curiosità e di informazioni in pillole, bensì attraverso una più ardua opera di educazione ai meccanismi di funzionamento della scienza.

Il Sole Domenica 23.11.14
Mirò a Mantova
Nello studio dell'artista
La rassegna alle Fruttiere di Palazzo Te permette di affacciarsi ai due ateliers di Maiorca (fedelmente ricostruiti) e di entrare nel vivo dei processi creativi dell'artista
di Marco Carminati


È come se ci ponessimo alle spalle di Miró e lo guardassimo lavorare. È questo – in estrema sintesi – il senso della mostra «Miró. L'impulso creativo» che aprirà i battenti il 26 novembre nelle Fruttiere di Palazzo Te di Mantova organizzata in collaborazione con la Fundació Pilar i Joan Miró a Mallorca e curata da Elvira Cámara López, direttore della Fondazione, ente spagnolo che ha prestato le opere in mostra.
Il processo creativo di Miró, la sue predilezione per certi colori, la tendenza a usare tecniche sperimentali, il modo singolare di trattare i fondi dei dipinti, il gusto per la scultura e gli arazzi sono i numerosi temi che la rassegna sviluppa in cinque sezioni e in alcune sottosezioni, due delle quali offrono la fedele ricostruzione degli studi del maestro a Maiorca.
La prima sezione (intitolata «Il gesto») chiarisce subito come il processo creativo di Miró fosse contraddistinto da una forte tendenza alla libertà espressiva. A partire dagli anni Quaranta l'artista acquisisce una grande gestualità nel dipingere, incorporando progressivamente nelle sue opere segni, grafismi, pennellate d'esecuzione libera, che abbinerà a sgocciolamenti e versamenti di pittura. In occasione del suo primo viaggio negli Stati Uniti, Miró entra in contatto con l'Espressionismo Astratto americano e osserva l'approccio all'opera d'arte di Jackson Pollock. In questo modo scopre un mondo di energia e vitalità e abbandona il tradizionale cavalletto verticale a favore della tela distesa a terra sul pavimento dello studio. E comincia a versare pittura sulla superficie del quadro camminandoci sopra e lasciando su di essa impronte di mani e piedi, o impiegando grosse pennellesse per distribuire il colore in modo da lasciare spazio a una certa dose di casualità. La spontaneità del tratto, gli schizzi, il dripping e l'espressività del gesto diventeranno elementi sostanziali della sua opera.
La seconda sezione è dedicata a «La forza del nero». Miró conosce la potenza incisiva dei colori primari blu, rosso e giallo. A Maiorca scopre l'intensità dei colori del Mediterraneo, la luminosità del sole e la forza del blu. Ma alla tavolozza abituale si aggiunge il bianco – come quintessenza di tutti i colori – e soprattutto il nero, che poco alla volta si impadronisce delle superfici pittoriche. L'artista impiega il nero – colore associato alle origini e ai principi cosmici dell'universo – per tracciare le sottili linee di contorno. In altri casi, il nero diventa violento e viene applicato con pennelli ma anche con le mani e con i pugni. Talvolta utilizza questo colore per costruire la struttura di base dell'immagine e poi, al pari di un artigiano, aggiunge i colori successivi per completare l'opera.
A questo punto delle rassegna si apre la prima sottosessione, dedicata alla fedele ricostruzione dello studio Sert. Giunto a Maiorca, Miró si fece progettare uno studio dall'amico architetto Josep Lluís Sert (1902-1983), che ben comprese le esigenze dell'artista. Ispirandosi all'architettura mediterranea, l'architetto cercò suggestivi effetti di luce e ombre, e fece un audace uso di materiali e colori accostando la terracotta nel suo colore naturale al rosso, al blu e al giallo che vivacizzano gli infissi. L'interno dello studio è costituito da un grande ambiente rettangolare inondato di luce naturale, che permette all'artista di lavorare in grande tranquillità, circondato dalla natura. Miró ebbe bisogno di qualche tempo per abituarsi al nuovo spazio, ma poi cominciò a riempirlo di mobili, cavalletti, tele a diversi stadi di esecuzione, saturando pareti e vetrine di oggetti e curiosità che continuò a collezionare per tutta la vita. Lo studio rimase nelle stesse condizioni in cui Miró lo lasciò nel 1983 poco prima di morire: tutti gli oggetti esposti in mostra sono originali e sono stati utilizzati dall'artista.
Segue la terza sezione, dedicata al «Trattamento dei fondi». L'insaziabile curiosità di Joan Miró lo portò a sperimentare in tutti gli ambiti che avevano a che fare con il suo processo creativo. La sua determinazione a distaccarsi dal concetto tradizionale di pittura per cercare nuove strade artistiche lo portò a ultilizzare con disinvoltura anche i supporti per le opere o il trattamento dei fondi dei suoi dipinti. Tele e fondi sono per Miró un autentico campo di battaglia, su cui sperimentare tutte le opportunità che la sua immaginazione gli suggerisce. Per preparare le tele impiega prodotti tradizionali ma non si farà scrupolo di versarci sopra benzina, acqua sporca o succhi di fiori. Miró fu sempre attratto anche da supporti poco convenzionali come la carta vetrata, il cartone ondulato, la carta di giornale e la masonite.
Siamo alla quarta sezione: «L'eloquenza della semplicità». Miró è stato un uomo semplice, austero e metodico, lontano dall'eccentricità che la tradizione attribuisce di solito agli artisti. Il suo linguaggio artistico ha adottato questa semplicità del carattere, manifestandosi nella progressiva riduzione cromatica e formale. L'artista ha intenso ridurre il proprio vocabolario al minimo indispensabile per «suscitare una reazione emotiva fondamentale e immediata».
Entriamo nella sottosezione con la ricostruzione di un altro studio di Miró. Si tratta delle studio Boter, che venne realizzato a Maiorca nel 1959 con fondi del premio «Guggenheim International Award» al fine di decongestionare il primo atelier di pittura e dedicare il secondo studio alla scultura e ai dipinti di grande formato.
La mostra si avvia alle sezioni conclusive. «La sperimentazione con i materiali» ci porta a comprendere l'inesauribile necessità di sperimentazione da parte dell'artista, che lo spinse a tralasciare materiali e strumenti ortodossi per utilizzare tutto quello che gli cadeva tra le mani e in qualche modo lo ispirava. L'anticonformista Miró ci ha lasciato un amplissimo corpus di opere, comprendente dipinti, disegni, ceramiche, sculture, incisioni, litografie e arazzi. E chiude la rassegna proprio una bellissima sequenza di disegni associati a sculture e a monumenti. E due grandi arazzi, frutto del rapporto di collaborazione che si istaurò negli anni Settanta tra Miró e l'artista "tappezziere" Josep Royo.

Il Sole Domenica 23.11.14
Nonno Joan e suoi legami con l'Italia
di Joan Punyet Miró
nipote di Joan Miró


L'8 ottobre 1952 mio nonno Juan Miró, in compagnia della moglie Pilar e della figlia Dolores, scrisse una cartolina da Venezia alla sorella: «Siamo appena arrivati, dopo un ottimo viaggio, ieri abbiamo fatto 382 km e oggi 231 km. È tutto bellissimo e Venezia è davvero impressionante. Presto trascorreremo un giorno a Padova, e oggi siamo passati da Verona che è molto interessante. Saluti e abbracci da questi tre che ti vogliono tanto bene».
Durante il suo soggiorno veneziano, Miró visitò i monumenti storici più importanti della città e si sedette con sua moglie al tavolino di un caffè di Piazza San Marco, per riposarsi e bere qualcosa. Nel frattempo, la Basilica, il Palazzo Ducale e il Campanile sussurrano all'orecchio di Miró la storia distillata dalle pietre che li sostengono. Miró comprese allora il magnetismo che una città bella come Venezia esercita su qualunque artista. Nella sua luce, sussurri di sirene si intrecciano con lo sciabordare delle onde contro le vicine imbarcazioni, che emanano effluvi carichi di aromi marini. Il soggiorno veneziano dell'artista lo ispira a elaborare con forme e volumi nuovi i personaggi, gli uccelli e le stelle che scaturiscono dalla sua abile mano.
Il 17 ottobre Miró spedisce un'altra cartolina alla sorella: «Cara Mª. Dolors, Torino è splendida e grazie a Dio abbiamo fatto un buon viaggio. Ora andiamo verso la frontiera e tra due o tre giorni saremo di ritorno a Barcellona. Ci vediamo presto Pilar, M. Dolors, Joan». Diverse gallerie e musei italiani cominciarono a interessarsi all'evoluzione dell'opera di Miró. Finalmente, nel 1954, alla XXVII Biennale di Venezia, egli ottenne il Gran Premio Internazionale per la Grafica.
A Roma viveva Rafael Alberti. Miró andò a fargli visita, insieme alla moglie Pilar, durante la mostra «Omaggio a Rafael Alberti. La parola e il segno» nella Galleria Rondanini. L'artista eseguì un disegno destinato a essere incluso in una cartella dedicata al poeta da diversi pittori. Qualche tempo dopo, da Anticoli Corrado (paese del Lazio a 60 km da Roma), Alberti gli scrive per comunicargli che sta lavorando a un testo della sua raccolta intitolata «Maravillas con variaciones acrósticas en el jardín de Miró». Il volume verrà presentato il 12 febbraio 1976 alla Galleria La Vetrina di Roma.
Un altro legame di Miró con l'Italia era il suo rapporto con Peggy Guggenheim, la quale collezionò sin dall'inizio opere dell'artista, che finirono nel Palazzo Venier dei Leoni sul Canal Grande, dove si stabilì nel 1949. A riprova del rapporto di amicizia e confidenza che li univa, nel 1975 Peggy Guggenheim scrive: «Caro Miró, le mando il mio amico Dott. Pelizziar, che ha molta voglia di conoscerla e desidererebbe comprare qualche Sua opera. Nel caso ciò non fosse possibile, La prego di fargli un piccolo disegno nel libro che Le porterà. Molto cordialmente, Peggy Guggenheim».
Nel 1963 Miró si reca a Milano, dove è allestita una mostra dei suoi dipinti alla Galleria del Naviglio. Un articolo intitolato «Gli spaghetti di Joan Miró» descrive la sua visita alla città insieme a Milena Milani attraverso l'obiettivo di Ugo Mulas. Miró vi è fotografato insieme al noto editore e gallerista italiano Carlo Cardazzo. Pochi altri fotografi hanno colto con così grande efficacia il "dialogo" di Miró con il Ritratto femminile del Pollaiuolo. Durante la visita dell'artista al Museo Poldi Pezzoli, Mulas immortalò un momento storico in cui si incrociano due epoche diverse: la minuziosa raffigurazione della fisionomia femminile rinascimentale sembra osservare con un certo distacco il subconscio di un uomo onirico, poetico, lirico e musicale. Il raffronto tra un ritratto pittorico del Cinquecento e uno fotografico di un pittore del Novecento è commovente. Miró viene anche fotografato sul tetto circondato di guglie del Duomo di Milano, da cui deve aver osservato dettagliatamente le sculture e i doccioni di quel capolavoro dell'architettura gotica.
In una lettera del 2 settembre 1979, il professor Alessandro Falassi di Siena rivolge a Miró la seguente comunicazione: «Il nostro museo desidera dedicarle una sala del secolo XIII che abbiamo recentemente scoperto nel sotterraneo... Inoltre abbiamo deliberato di nominarla, se lo desidera, Protettore perpetuo della contrada». Di fronte a una tale dimostrazione di affetto, la risposta di Miró non si fa attendere: «Come Lei sa, la Vostra cultura è molto vicina a quella della Catalogna, e la nostra sensibilità e i vincoli umani che ci uniscono sono molto profondi. È per me un grande onore accettare l'offerta della contrada di nominarmi Protettore perpetuo».
Oltre ad apprezzare l'opera e la figura di un personaggio come Joan Miró, l'Italia ne valorizzò con attestati e riconoscimenti la grande dedizione al compito creativo di artista, nonché l'impegno politico, etico, culturale e sociale a favore del suo Paese e al consolidamento del processo democratico.
Il 7 giugno 1979, il sindaco di Montecatini Terme e il presidente della locale Accademia gli comunicarono il conferimento del premio annuale «Vita d'Artista», conferito a un maestro della pittura o della scultura che abbia dedicato con grande successo la sua esistenza al campo delle arti. Il 27 maggio 1981, il presidente della Repubblica Italiana, Sandro Pertini, invitò Miró a un ricevimento all'Ambasciata d'Italia a Madrid, in presenza del re e della regina di Spagna. Ma Miró, accusando notevole stanchezza e fatica – non bisogna dimenticare che, all'epoca, aveva già 88 anni –, declinò molto gentilmente l'invito con una frase scritta di suo pugno sul retro dell'invito stesso in cui si legge: «Eccellentissimo Signor Ambasciatore d'Italia, La prego di dire all'Eminentissimo Signor Presidente della Repubblica Italiana che sono molto onorato dal Suo invito, e mi dispiace molto di non poter venire a Madrid per assistere al ricevimento in onore del Re e della Regina di Spagna, e che lo saluto cordialmente».
Dal 25 giugno al 12 luglio 1981 si svolse il 24° Festival dei Due Mondi di Spoleto, sotto la direzione di Giancarlo Menotti. Trattandosi di una delle manifestazioni culturali più internazionali del momento, Miró accettò senza esitare l'invito a realizzare il poster che sarebbe servito anche come copertina del programma.
Ma certamente uno dei momenti più gratificanti per Miró fu quando ricevette una lettera manoscritta da Sandro Pertini, Presidente della Repubblica Italiana, il 2 luglio 1981: «Illustre e caro Maestro, l'amico Carmine Benincasa mi ha recato il suo bellissimo quadro. Ne sono profondamente commosso, perché mia moglie ed io siamo sempre stati degli ammiratori della sua nobilissima arte. E adesso finalmente abbiamo una sua opera!».

Il Sole Domenica 23.11.14
Fundació firmata da Moneo


Maiorca rappresentò per Joan Miró uno straordinario luogo di creazione in assoluta pace e libertà, un giardino fertile che si impegnò a coltivare fino alla fine dei suoi giorni. Il rapporto di Joan Miró con Maiorca si mantenne vivo per tutta la sua vita a cominciare dall'infanzia: la madre Dolores Ferrà e i nonni materni erano di Maiorca. Per via di questo legame familiare, a partire dal 1900 l'artista trascorse nell'isola i periodi estivi.
In seguito, il legame di Miró con Maiorca si rafforzò ulteriormente grazie alla sua unione con una maiorchina, Pilar Juncosa, con la quale contrasse matrimonio nel 1929. Tra il 1940 a il 1942 l'artista si ritirò a Maiorca per fuggire dall'invasione nazista in Francia, paese in cui risiedeva in quel periodo.
Nel 1956 Miró si trasferì definitivamente a Maiorca, dove ebbe a disposizione il magnifico studio progettato dall'amico architetto Josep Lluís Sert. Nel 1959 Miró comprò alcuni terreni ed edifici contigui, detti Son Boter, che andarono a costituire un insieme di laboratori dove Miró realizzò e progettò più di un terzo della totalità della sua opera artistica fino alla morte nel 1983.
La Fundació Pilar i Joan Miró a Maiorca nacque dalla volontà di Joan Miró e della moglie Pilar Juncosa di donare i laboratori dell'artista alla città di Palma. Nel 1981 si costituirono gli Statuti della Fondazione, e dopo la scomparsa dell'artista, su iniziativa della moglie Pilar, si decise di affidare all'architetto Rafael Moneo l'incarico di costruire un nuovo edificio come sede della Fondazione. Per reperire i fondi necessari alcune opere di Joan Miró vennero messe all'asta da Sotheby's.
L'edificio – che, come afferma Moneo, «ricorda una cittadella» – si ispira a uno degli elementi iconografici che più contraddistinguono l'opera di Joan Miró: la stella. Il visitatore rimane sorpreso dalla trasformazione del tetto in uno specchio d'acqua, mentre l'interno offre un clima di raccoglimento e di pace che rispecchia lo spirito dell'opera di Miró.
Le grandi vetrate riproducono la dialettica tra esterno e interno voluta dall'architetto. Nei giardini le piante autoctone dell'isola creano uno spazio verde fitto e rigoglioso e convivono in armonia con le sculture di Joan Miró.
Gli stagni che circondano l'edificio sono parte integrante dello spazio e diventano elementi primordiali nella conformazione di un edificio architettonicamente singolare. L'edificio venne inaugurato nel 1992.
La Fundació Pilar i Joan Miró di Maiorca è un luogo unico al mondo, grazie al ricco e singolare patrimonio artistico e architettonico, e al contesto naturale in cui si immerge. Offre al visitatore la possibilità di contemplare l'atmosfera creativa attraverso la sua collezione permanente e i laboratori nei quali lavorò l'artista fino alla fine della sua vita. Da questo lugo magico giungono le opere in mostra a Mantova.

Il Sole Domenica 23.11.14
Arrigo Petacco
Nazisti in fuga verso l'Argentina
di Francesco Perfetti


Nel gergo dei marinai il termine «Ratline», che letteralmente significa «via dei topi», si riferisce alla scala di corda che giunge alla sommità dell'albero maestro dove, quando la nave è in procinto di affondare, si spera di trovare un ultimo rifugio. Quello stesso termine è stato, poi, utilizzato simbolicamente per indicare la via di fuga dei criminali nazisti alla ricerca della salvezza dal naufragio del III Reich. Il porto di Genova, come racconta Arrigo Petacco nel suo più recente volume, fu l'ultima tappa europea della «Ratline» dei nazisti, quasi tutti diretti verso l'accogliente Argentina del presidente Juan Domingo Peron, che giungevano da ogni parte nel capoluogo ligure, presto divenuto la più importante via di fuga dall'Europa, e che, all'insaputa dei cittadini genovesi, avevano lì la possibilità di imbarcarsi per il nuovo continente.
Quanti furono i criminali nazisti che riuscirono a sfuggire alla giustizia, in qualche caso solo temporaneamente, attraverso la «Ratline»? Non si sa con precisione, ma il loro numero fu, certo, enorme, centinaia o forse migliaia. Petacco ricorda che, nell'arco di tre anni, fra il 1946 e il 1949, salparono da Genova, fra gli altri, Adolf Eichmann e Josef Mengele, Klaus Barbie ed Erich Priebke. È vero, però, che un'altra città ligure, non troppo distante, La Spezia, divenne, al contrario, l'ultima tappa europea dell'esodo degli ebrei verso la terra promessa e fu denominata la «Porta di Sion»: Petacco, originario di quelle zone, ricorda con toni di commossa partecipazione la gara di solidarietà che gli spezzini disputarono per aiutare i profughi contro il blocco disposto dalle autorità inglesi nei confronti dei motovelieri assiepati di ebrei privi di mezzi di sostentamento.
La «Ratline» fu anche chiamata la «via dei conventi» perché i naufraghi del III Reich giungevano a Genova, provvisoriamente accolti in una bella villa in un quartiere elegante della città che fungeva da centro di raccolta e poi di smistamento, dopo essere stati ospitati, nascosti e aiutati da strutture conventuali e dalla Caritas, che provvedeva a far rilasciare loro dalla Croce Rossa Internazionale nuovi passaporti, con nomi veri o falsi, insieme a visti d'ingresso per l'Argentina. Di questa vicenda e delle tappe della «grande fuga» Petacco ricostruisce tutte le fasi in un racconto avvincente che sembra nascere dalla fantasia di uno scrittore di spy-stories e che, invece, è storia drammaticamente reale. Non tralascia neppure, l'autore, di raccontare certe incredibili «leggende politiche», a cominciare da quelle che alimentavano l'idea della sopravvivenza dello stesso Hitler, di Martin Bormann e di altri capi del nazismo, rifugiatisi in Paesi dell'America del Sud grazie all'organizzazione clandestina «Odessa» che, fornita di ingenti mezzi finanziari, favoriva la fuga dei criminali nazisti. Nessuno di loro, anche fra quelli poi scoperti e processati, ha chiesto perdono. Ed è una circostanza, questa, che merita di essere ricordata come monito morale.

Arrigo Petacco, Nazisti in fuga. Intrighi spionistici, tesori nascosti, vendette e tradimenti all'ombra dell'Olocausto, Mondadori, Milano, pagg. 168, € 19,00

Il Sole Domenica 23.11.14
Se questo è Machiavelli
Una mostra a Roma costruita intorno a un presunto ritratto del segretario fiorentino
L'impressione è che molti abbiano preso un clamoroso abbaglio
di Massimo Firpo


Il 27 ottobre è stato presentato al Vittoriano in pompa magna – nientemeno che in anteprima mondiale – un ritratto inedito di Niccolò Machiavelli, destinato a diventare il pezzo forte, la «pietra miliare», della mostra su «Machiavelli e il mestiere delle armi. Guerra armi e potere nel l'Umbria del Rinascimento», inauguratasi il 31 a Perugia. Il 12 ottobre il «Corriere della sera» segnalava con grande rilievo Il volto ritrovato di Machiavelli, un piccolo olio su tavola (cm 21,5 x 5,5) di proprietà di Alessandro Campi, uno dei curatori della mostra, professore associato di storia delle dottrine politiche proprio a Perugia, già direttore della Fondazione Farefuturo di Gianfranco Fini, autore di libri su Raymond Aron, Berlusconi, Alleanza Nazionale, la Nuova destra eccetera. Nell'articolo a firma di Sergio Rizzo si narra la stupefacente storia del dipinto, comprato su e-bay da un rigattiere di Jacksonville in Florida, dove sarebbe giunto per tramite di un generale della Nato di stanza a Bruxelles. Vicende rocambolesche, insomma, con tanto di lieto fine e principe azzurro, questa volta addirittura nei panni dell'autore del Principe. L'articolo del Corriere è stato ripreso il giorno dopo dal «Giornale dell'Umbria», osservando che il prof. Campi «è fra gli intellettuali più esperti della vita e delle opere del filosofo fiorentino e che non a caso gli ha dedicato molti studi e una mostra promossa lo scorso anno al Vittoriano di Roma «Il principe di Niccolò Machiavelli e il suo tempo», che è andata davvero molto bene; ora lo si scopre possessore di un'opera di straordinario valore storico-artistico» (e dunque anche venale). Quel dipinto, quel «volto ritrovato di Machiavelli», insomma, sarebbe una scoperta importantissima. E invece tale non è.
Il catalogo della mostra presenta in copertina quel volto di Machiavelli, al quale dedica una corposa scheda un illustre storico dell'arte, Claudio Strinati, già direttore del Polo museale romano, mentre la scarna nota di restauro che la accompagna nulla dice sulla datazione, e dalle fotografie si evince solo il pessimo stato di conservazione della tavola. Quanto alle argomentazioni attributive di Strinati, dispiace doverne constatare l'inconsistenza, le palesi contraddizioni, l'assenza di ogni base documentaria. Passino le divagazioni psicologiche su quel profilo maldestro, in cui si sforza di cogliere «uno stato d'animo eccitato e come esterrefatto, evidente nello sguardo fervidamente esplicito nel manifestare un moto di stupore, di curiosità, di sbalordimento, quasi che l'uomo fosse stato colto dal pittore in uno scatto divertito non si sa quanto volontario o quanto involontariamente provocato da un qualcosa che è al di fuori dello spazio del quadro e dunque destinato a non essere mai colto» (appunto!). Ma nulla, proprio nulla autorizza a vedere in quel presunto ritratto qualche nesso con la «presa di potere medicea» e con la «cerchia delle personalità, amiche o nemiche ma comunque organiche, a diverso titolo gravitanti intorno alla famiglia o da questa fortemente condizionata», per concludere che esso «potrebbe avere, paradossalmente, trattandosi del Segretario della Repubblica fiorentina, una origine di committenza medicea, sia pure in senso lato», anche perché è difficile capire che cosa sia la committenza in senso lato.
Allo stesso modo nulla, proprio nulla autorizza a collegare quel presunto ritratto a Giorgio Vasari, che «mentre scriveva le Vite tendeva sempre a procurarsi ritratti degli artisti citati per porli all'inizio delle biografie di ciascuno»: pertanto – si legge – «di Machiavelli, indubbiamente, Vasari non avrebbe mai cercato un ritratto a stampa per presentarlo in una delle Vite, dato che le biografie vasariane sono soltanto quelle degli artisti». Ma allora che c'entra Vasari? C'entra, perché anche Vasari fece dei ritratti di profilo, tra cui uno di Alessandro de' Medici, che «sia dal punto di vista stilistico, sia dal punto di vista concettuale, può ben essere considerato come il prototipo da cui successivamente sono nati tanti altri ritratti del tempo in profilo, tra cui quello di Machiavelli appena riscoperto», scrive Strinati, dimenticandosi di aver segnalato poco prima la diffusa consuetudine già nel '400 di rappresentare personaggi illustri di profilo, secondo il modello delle monete antiche. Con il che il prototipo stilistico e concettuale va a farsi benedire, ma non importa: «Certo, Alessandro de' Medici, nel citato ritratto del Vasari, è a figura intera e in armi. Il ritratto del Machiavelli è una testa di profilo, ma lo spirito e la qualità pittorica che anima questi due ritratti sono analoghi». Che cosa sia lo spirito del dipinto non so, ma come si fa a parlare di «qualità pittorica» analoga a quella vasariana per quella tavola ridipinta? Lo stesso Strinati non ardisce proporne l'attribuzione a Vasari, ma si sforza di andarci più vicino possibile: «Altrettanto certo è che ci troviamo di fronte a un suo stretto collaboratore, dalla mano più mossa e fluida, piuttosto raffinato nella modellazione della materia pittorica, di mano veloce e sintetica». Non proprio Vasari, insomma, ma giù di lì, o forse ancor meglio di Vasari. Seguono alcune divagazioni su Paolo Giovio, propedeutiche all'ipotesi di datare il dipinto negli anni della «massima adesione del Vasari ... agli ideali gioviani» (??), e cioè in occasione degli affreschi nel Palazzo della Cancelleria del 1546. Con il che sarebbe il ritratto più antico di Machiavelli oggi noto: niente male! Non resta dunque che individuare a colpo sicuro tra i collaboratori del pittore aretino l'autore del ritratto, «un giovanissimo spagnolo destinato a una brillante carriera successiva tra Roma e Napoli, Pedro Rubiales, chiamato in Italia Roviale Spagnolo». E perché proprio lui? Ma è ovvio, perché «vivace, arguto, veramente iberico nella conduzione schietta e veloce del dipingere». E perché un ritratto di Machiavelli a quella data? Ma è ovvio, perché nel '47 cadeva il ventennale della morte del segretario fiorentino.
Un illustre storico dell'arte come Raimond van Marle era solito affermare che «non esistono attribuzioni giuste o sbagliate, ma solo stupide o intelligenti», e io davvero non so come si possa propinare cibo così indigesto e indigeribile al colto pubblico e all'inclita guarnigione, non foss'altro perché quel dipinto è di tale povertà qualitativa da scoraggiare ogni tentativo di attribuzione. Eppure lo si presenta al Vittoriano, gli si organizza intorno una mostra, lo si fa diventare un evento. Per di più sarà anche opportuno ricordare, a scanso di equivoci, che nulla induce a ritenere che esso riproduca le fattezze di Machiavelli, più verosimilmente restituiteci da un celebre ritratto di Santi di Tito del secondo '500 basato su un busto di terracotta forse esemplato sulla maschera mortuaria del segretario fiorentino. Si tratta invece in tutta evidenza di una copia tarda e scadente di un ritratto postumo desunto forse dal dipinto custodito nel museo di Paolo Giovio a Como, di cui esistono varie versioni, tra cui la bella incisione che figura nei gioviani Elogia virorum literis illustrium, pubblicati a Basilea nel 1577, e l'altrettanto bella copia seicentesca di Antonio Maria Crespi all'Ambrosiana.

Il Sole Domenica 23.11.14
La parola allo storico dell'arte
Ma l'epoca è quella
di Claudio Strinati


Non posso contrastare le osservazioni del prof. Firpo su una materia di sua stretta e incontrovertibile competenza, ma vorrei indicare le ragioni che mi hanno indotto a pubblicare il piccolo quadro recante iscritto il nome di Machiavelli. La cosa è nata da colloqui tra il prof. Alessandro Campi, proprietario del dipinto, e il sottoscritto. Acquistata di recente l'opera, da studioso appassionato e competente del Machiavelli, me l'ha mostrata chiedendomi se la ritenessi degna. Ho risposto positivamente. Letta la relazione di restauro di un tecnico capace e corretto come Paolo Crisostomi, ho ritenuto che il dipinto fosse effettivamente databile al sedicesimo secolo, che fosse stato eseguito da un pittore della cerchia vasariana (che ho creduto di identificare in Roviale Spagnolo) e che potesse essere degno di una pubblica presentazione. E lo penso anche adesso. Che si tratti di un dipinto cinquecentesco, certo posteriore al tempo del Machiavelli, mi sembra di poterlo ribadire. Ammetto che la datazione da me proposta possa essere errata e il quadro spettare piuttosto alla fine che alla metà del Cinquecento, ma questo non cambia il fatto che il dipinto costituisca un esempio di quel tipo di ritrattistica encomiastica che fu sviluppato nella cerchia di Giorgio Vasari e non solo. Non voglio difendere a oltranza l'identificazione di questo ritrattino da me pubblicato come possibile ritratto del Machiavelli. Resta, però, che il nome del Machiavelli è iscritto sul quadro e non sono così frequenti Ritratti del Cinquecento in cui si trovi il nome di Machiavelli iscritto. Intendo dire che la scritta sul quadro è antica ma è vero che potrebbe essere sbagliata. Tuttavia questo tipo di sbagli ha una sua storia, di un certo interesse. Infatti capita talvolta, per quel che riguarda la pittura del Cinquecento e la ritrattistica in particolare, di riscontrare situazioni analoghe a quella del dipinto di proprietà Campi. Voglio riferire una mia recente esperienza in proposito. Incaricato recentemente dal Museo Maillol di Parigi di curare una mostra sull'«Età dei Borgia», ho cercato di studiare con una certa attenzione le figure di Cesare e Lucrezia Borgia in rapporto alla produzione artistica del periodo. Cesare ebbe alle sue dipendenze Leonardo da Vinci e Lucrezia orientatò i suoi interessi culturali verso l'ambiente letterario ma non fu priva di contatti con alcuni pittori eminenti della Corte di Ferrara. Feci richiedere per la mostra un meraviglioso disegno di Leonardo da Vinci che raffigura uno stesso personaggio in tre pose diverse, avendo letto che la storiografia lo ha ritenuto un Ritratto di Cesare Borgia (non vi è iscritto nessun nome) ma poi, approfondendo, mi sono reso conto che tali presunte testimonianze non sono in nessun modo dimostrabili. Esistono però altri Ritratti antichi di Cesare Borgia, o per meglio dire, supposti Ritratti, eseguiti da vari pittori del tempo ma non si assomigliano tra loro e nessuno ha la prerogativa di una conclamata e documentata identificazione. Il bello è che la stessa cosa accade per Lucrezia. Conosciamo vari ritratti risalenti al Cinquecento che sono ritenuti Ritratti di Lucrezia ma nessuno è certo, nemmeno quello dell'immagine affrescata nell'Appartamento Borgia in Vaticano dal Pinturicchio e raffigurante Santa Caterina d'Alessandria nella cui faccia una seria tradizione storiografica dice che sarebbe rappresentata appunto Lucrezia. Michelangelo Buonarroti , del resto, negò sempre ( tranne in un caso, a onor del vero, ma uno in tutta la sua lunga e operosa vita) la coincidenza necessaria tra rappresentazione di un determinato personaggio storico e verosimiglianza del Ritratto di quel personaggio.
Quando scolpì le figure dei Duchi Lorenzo e Giuliano de'Medici, pochi anni dopo la morte del Machiavelli, nella Sagrestia Nuova di s. Lorenzo a Firenze, gli fu fatto notare che i volti delle due statue non assomigliavano affatto ai personaggi reali. E chi se ne accorgerà dopo secoli ??!, pare abbia risposto il sommo artista.

Il Sole Domenica 23.11.14
Il bicentenario del «divin marchese» (1740-1814)
Sade, il vizio della scrittura
Le mostre e i libri per l'anniversario ne fanno apprezzare il ruolo di «rivelatore ideologico» e quello più fine, di autore
di Daniela Gallingani

In occasione del bicentenario della morte di Sade, avvenuta il 2 dicembre 1814, pare giunto il momento di sgombrare il campo dai pregiudizi che hanno condizionato questi due secoli di interpretazione della sua opera. In particolare, quello relativo al suo ruolo di «rivelatore ideologico» di dinamiche culturali e di processi storici di matrici diverse e spesso contrastanti.
In una simile prospettiva, si stanno moltiplicando in tutta Europa mostre, convegni, seminari, in un rituale commemorativo previsto per i grandi scrittori.
E finalmente sono in prevalenza la scrittura di Sade e la genesi delle sue opere al centro di questi eventi, in una continuità virtuale con la rivoluzione iniziata nel 1947 con la pubblicazione di Jean-Jacques Pauvert dell'Histoire de Juliette, e che raggiungerà l'apice nel 1990, con l'edizione del l'opera completa nella Bibliothèque de la Pléiade, a cura da Michel Delon.
Furono, in effetti, l'Affaire d'Arcueil (1768) e l'Affaire de Marseille (1772), che l'avevano visto protagonista di orge sfrenate e di disdicevoli violenze compiute su giovani donne, servi e nobili a un tempo, a fare da subito di Sade l'immagine stessa del male, sì da renderlo appunto, via via, l'ispiratore del Terrore e il difensore del sensualismo più sfrenato, giungendo, sotto il Consolato, a essere strumentalizzato sia dai monarchici che dai repubblicani.
Persino nel carcere di Charenton dove venne rinchiuso, fu ritenuto colpevole di diffondere, con le rappresentazioni teatrali che organizzava, una perniciosa contaminazione morale che unicamente il carcere appunto, si auspicava, avrebbe potuto ostacolare per sempre.
Paradossalmente, soltanto quando si incominciò a declinare il sadismo e il masochismo dal punto di vista medico e patologico, Sade iniziò ad apparire più colui che aveva osato «mettere in scena» il sadismo che non il sadico per eccellenza. Ma anche il Novecento non si liberò del tutto dai condizionamenti ideologici che avevano investito da sempre l'opera di Sade. Da Apollinaire a Paulhan fino ai Surrealisti, Sade è la «vittima assoluta», il prototipo del rivoluzionario radicale e trasgressivo che avrebbe determinato la presa della Bastiglia, la vittima innocente dei poteri che si erano alternati tra Sette e Ottocento, il paladino di un immaginario erotico che aveva in Justine la donna nuova, colei che «possedeva le ali per rinnovare l'universo intero».
In parallelo, poi, con l'affievolirsi degli estremismi avanguardisti del primo Novecento, Sade ritrovò una mitizzazione capace di esprimere a pieno la negatività dei tempi, che lo dipingeva come il responsabile della morte dell'individuo, dei suoi valori e dei suoi principi.
Occorreva prendere Sade sul serio, proclamavano i "nouveaux philosophes", da Klossowski a Bataille e a Lacan, da Foucault al gruppo di «Tel Quel», perché Sade – affermavano – «ci concerne tutti e appartiene alla modernità del XX secolo». Ancora una volta, però, si confondeva l'«uomo Sade» con l'«uomo sadiano», un mostro concettuale che emigrava trasversalmente dalla filosofia, alla storia, dall'estetica alla politica, indagato mediante le categorie della follia, della perversione, del desiderio e che faceva assurgere il sadismo a potente strumento di analisi della società postmoderna, dominata dal potere economico e dall'alienazione.
Così, di nuovo, è la specificità della scrittura di Sade che continua a essere trascurata, insieme alla sua valenza autorale. Uno scrittore, Sade che, al contrario – e ora finalmente viene sottolineato – corregge più volte i suoi manoscritti; si nutre della lettura ossessiva dei testi più disparati; si cimenta in un esercizio sfrenato di riappropriazione, e talora di plagio, di ogni genere letterario, dalla novella al dialogo filosofico, dal romanzo epistolare al pamphlet, spesso distorcendoli, trasformandoli e quasi brutalizzandoli a suo piacimento, come avviene anche per la Storia, che è implacabilmente sottomessa, quasi malmenata dalla scrittura sadiana.
La retorica classica, alla base dell'architettura delle Cent Vingt Iournées, i finti parallelismi di Aline et Valcour, i molteplici punti di vista che si alternano nella costruzione del Voyage en Italie, o i riti culinari che duplicano le turpi azioni dei convitati del Castello di Silling, sono impietosamente rimanipolati per spostare continuamente il centro della narrazione e impedirne una conclusione e una interpretazione univoche.
Eppure, l'enorme mise en scène ordita da Sade in nome dell'eccesso e dell'iperbole sembrano paradossalmente scontrarsi con un limite, una sorta di inappagamento infinito e continuamente rievocato, rappresentato via via da un castello, da un sotterraneo, da una prigione, comunque da uno spazio chiuso e circolare in cui tutto diventa lecito, e nel quale un lettore desideroso di essere soddisfatto da ogni dettaglio, viene implacabilmente convocato, con la parola e con lo sguardo. I limiti della Rivoluzione, dello Stato, della Religione e della Ragione, si traducono in un discorso volutamente ripetitivo e ossessivo che disegna e denuncia le rovine di un mondo immobile nella sua inadeguatezza. Immobile come il Portrait imaginaire di Man Ray, in cui il viso di pietra di Sade ci restituisce il progetto implacabile di un testimone inflessibile e insopportabile delle contraddizioni del suo tempo e dei vizi della modernità.

Il Sole Domenica 23.11.14
A Parigi
Le peripezie di un rotolo
di Stefano Salis


È notte e fa freddo nel carcere della Bastiglia. In pieno centro di Parigi, il suo più illustre prigioniero, il marchese maledetto, Alphonse De Sade, non teme il gelo; piuttosto l'occhio dei guardiani. Molto probabilmente, però, loro, non sanno cosa stia facendo. Tutte le notti di questo freddo ottobre-novembre 1785, alla luce tremula e fioca di una candela, con fatica ed energia, il marchese compie il suo più vero più efferato e più reiterato delitto: scrivere. Scrive su minuscoli pezzi di carta, da una parte e dall'altra. Una grafia piccolissima, precisa, ed elegantissima, viste le condizioni in cui la pagina è vergata. I foglietti gli arrivano clandestinamente, pochi alla volta, con la complicità della moglie e di qualche sodale: sono rettangoli di appena 11,2 cm di larghezza nei quali si dovrà squadernare l'intero catalogo delle deviazioni sessuali. Sta nascendo, ricopiato pazientemente notte per notte, il testo delle 120 giornate di Sodoma. Nessuno deve vedere: giorno dopo giorno, pezzo dopo pezzo, i fogli sono incollati (con una strana mistura, fabbricata anche con la sua urina) e formano un rotolo. Il rotolo viene messo in sicuro nella cella: sotto il pavimento, nelle fessure delle pietre. Ogni notte la furtiva scena si ripete.
Il marchese al carcere ci è abituato. Imprigionato per la prima volta nel 1740 a 23 anni passerà ben 27 anni della sua vita dietro le sbarre di undici prigioni e fortezze differenti. All'epoca, per essere carcerati basta poco: una lettera, recante la firma del re e di un suo funzionario, che ti dichiari malvisto e il gioco è fatto. Al marchese di queste lettere ne sono arrivate diverse. La sua carriera di carcerato è molto più solida di quella di scrittore: ogni tanto riesce a far uscire clandestinamente dalla cella qualche scritto, qualche lettera d'amore, qualche invettiva. Ma questa volta no. Le cose andranno peggio di come ha previsto. Ironia della sorte, e della storia, De Sade viene improvvisamente rilasciato il 2 luglio del 1789. Non ha tempo però di raccogliere le sue cose, soprattutto la più preziosa, il rotolo delle 120 giornate, che ormai ha raggiunto i dodici metri di lunghezza. Esce e arringa la folla: distruggetela, questa prigione! Pochi giorni dopo la Bastiglia cade sotto la sferza dei rivoluzionari: il rotolo è perduto. Per sempre? come tale lo riterrà il suo autore, fino alla morte o...
Sì, qualcuno degli insorti lo trova, capisce che si tratta di un pezzo da collezione (i bibliofili riconoscono sempre la leccornia) e lo vende alla nobile famiglia dei Villeneuve-Trans. Ecco che il manoscritto, pezzo unico ed eccezionale, resta in mani private, per tre generazioni. Le peripezie non sono finite. Nel 1904 il rotolo viene venduto a un sessuologo berlinese Iwan Bloch, che ne capisce il valore, soprattutto, dal suo punto di vista, scientifico. Lo trascrive: nasce il catalogo dei comportamenti "sadici". Gli strafalcioni e gli errori materiali di Bloch sono molti, ma almeno, finalmente, il testo vede un'edizione pubblica. Non è finita. Il rotolo è ricomprato nel 1929 dal nobile Charles de Noailles che ne fa predisporre una nuova edizione, nel 1935. Una nipote di de Noailles fa poi l'errore di prestarlo a un editore, sedicente suo amico. Fiutato l'affare, l'editore lo rivende al più grande collezionista di erotica di sempre: lo svizzero Gérard Nordmann: siamo nel 1982. Inizia una battaglia legale per il riottenimento del rotolo, promossa dall'editore Carlo Perrone, erede de Noailles. I tribunali francese e svizzero arrivano a conclusioni opposte. L'epilogo, però, è vicino. E arriva, a suon di euro. Il più grande collezionista di manoscritti al mondo, Gérard Lhéritier, media tra i contendenti e, sborsando 7 milioni di euro (!), se lo compra e lo riporta finalmente in Francia dove, per la prima volta (un solo passaggio pubblico precedente, alla Fondazione Bodmer nel 2004), lo espone, fino al 18 gennaio al pubblico nel suo nuovo Institut des Lettres et Manuscrits inaugurato per l'occasione in rue de l'Université. Così, oggi, il rotolo di De Sade troneggia nella sala centrale della mostra, sala alla quale si arriva dopo avere visto altri capolavori di bibliofilia (i predecessori del libertinismo, intellettuale ed erotico) e prima di vedere gli esiti più belli della sua influenza (dal punti di vista della bibliofilia), con i surrealisti. È una mostra che emoziona, che istruisce e che racconta. E che, una volta di più, ci fa vedere quante meraviglie contengano questi miracolosi oggetti di carta. Spero di averne restituito un briciolo: perché il consiglio non può essere che andare a vedere di persona.

Il Sole Domenica 23.11.14
Il personaggio. Indomito e nobile
di Giuseppe Scaraffia


Era stato un bambino biondo, altero e insufflato che il mondo doveva soddisfare i suoi capricci. Quando un augusto compagno di giochi, forte del suo rango, gli aveva fatto una prepotenza, Donatien Alphonse François non aveva esitato a tempestarlo di pugni. "La crudeltà, ben lontana dall'essere un vizio, è il primo sentimento impresso in noi dalla natura."
Allontanato dei genitori, Sade venne mandato dalla nonna che lo viziò teneramente, accentuando i suoi difetti. Poi fu affidato a uno zio abate, uomo colto, raffinato e libertino. Madame de Sade veniva da una ricca famiglia di recente nobiltà, lieta d'unirsi ai discendenti dalla Laura di Petrarca. Il marchese era innamorato della giovane sposa e desiderava molto dei figli. Lei lo ricambiava con foga. Nelle lettere lui lodava il «bellissimo» deretano e l'anima di Pélagie.
La sua prima detenzione, nel 1763, per "eccessi di dissolutezza" non incrinò la solidarietà di Pélagie. Nel 1772 la suocera era diventata la sua maggiore persecutrice. Al genero non erano bastate le attrici scandalosamente esibite nel castello, nè le prostitute seviziate. Poco dopo la nascita del terzo figlio, era fuggito in Italia con la giovane, innocente cognata.
Malgrado tutte le colpe del marito, la docile e sgraziata moglie non lo abbandonava, sempre pronta a tacitare col denaro le vittime dell'aggressivo erotismo del consorte. «Avete immaginato di far miracoli riducendomi a un'atroce astinenza, l'accusava Sade, ...è stato uno sbaglio: mi avete infiammato la mente, inducendomi a creare dei fantasmi che dovrò realizzare». Però restava sempre un padre. Al teorico dell'incesto la figlia pareva goffa e banale, "una buona, grossa massaia".
La storia fece irruzione nella cella della Bastiglia nel 1789, proprio quando Sade era riuscito a ottenere, sublime paradosso, una serratura interna. Nel saccheggio degli insorti andò (momentaneamente) smarrito anche lo sterminato serpente di carta delle 120 giornate di Sodoma.
Giunto al manicomio di Charenton con un ordine di carcerazione di "durata illimitata", per i reati di sodomia, avvelenamento e libertinaggio, Sade vi sarebbe rimasto fino all'anno seguente, quando la rivoluzione lo liberò. Abbandonate le ultime esitazioni, l'ex-marchese era entrato nella sezione delle Picche di Place Vendome. Pur adorando il re, detestava gli abusi della monarchia. «Cosa sono? Un aristocratico o un repubblicano? Ditemelo voi, per favore, perchè, per quel che mi riguarda, non ne capisco niente».
Il terribile inverno del '95 lo sorprese sprovvisto di tutto. L'inchiostro si gelava nel calamaio e Sade era costretto a tenerlo a bagnomaria. Nel '97 furono pubblicate la Nuova Justine e Juliette, in cui risuona l'eco della ferocia politica di quei giorni.
Nel 1801 il marchese fu arrestato e imprigionato, probabilmente su delazione del suo editore, benchè negasse la paternità di Juliette . L'obesità dei carcerati aveva cancellato quasi completamente la sua svelta figura. Soltanto gli occhi conservavano una strana luminosità, "come una brace morente tra i carboni spenti". Due anni dopo, su richiesta della famiglia, ansiosa di privarlo delle ultime proprietà Sade venne trasferito al manicomio di Charenton.
Nel testamento del 1806 chiese di essere seppellito in un bosco. Sopra le sue spoglie avrebbero dovuto seminare delle ghiande, in modo che, appena si fosse riformata la vegetazione, «le tracce della mia tomba scompaiano dalla faccia della terra...». Quando morì, il 2 dicembre 1814, lasciò il ricordo di un vecchio signore dai modi squisiti, che pronunciava le peggiori sconcezze con una voce dolcissima, mentre disegnava sulla sabbia del cortile delle figure oscene.

Il Sole Domenica 23.11.14
I racconti
Sapeva anche essere tenero
di Chiara Pasetti


Il conte Donatien-Alphonse-François de Sade (1740-1814), conosciuto anche con il soprannome attribuitogli dagli scrittori decadenti della fine del XIX secolo di «divin marchese», è stato uno dei protagonisti sotterranei della vita letteraria dell'Ottocento. Le sue opere, benché circolassero clandestinamente (e nelle biblioteche fossero à l'enfer, ossia non consultabili) a causa dei crimini commessi dai suoi personaggi, che l'opinione pubblica attribuiva, a torto, a lui, vennero lette con grande attenzione dagli autori di quel secolo, su cui ebbero una forte influenza; in particolare, da Baudelaire e Flaubert, il quale dichiarava di voler tenere sul comodino dei suoi ospiti tutti i libri del «grande Sade», e da «pensatore e demoralizzatore» quale era ne apprezzava moltissimo il pessimismo totale («un po' rancoroso come quello di tutti i moralisti», secondo il giudizio di Antonio Veneziani), condito da sagacia, ironia e da una vena iconoclasta particolarmente vivida, e invitava gli amici a essere come il marchese, «filosofi e uomini di spirito».
In occasione dell'anniversario della sua morte, avvenuta duecento anni fa nel ricovero per malati mentali di Charenton in cui era rinchiuso dal 1803, esce ora una sua raccolta di Storielle (tratte da Historiettes, Contes et Fabliaux), per molto tempo passate sotto silenzio; ritrovate e pubblicate postume nel 1926 a cura di Maurice Heine, che come tutti i surrealisti ne apprezzava lo spirito di rivolta contro ogni forma di tirannia, vennero composte in carcere nel 1788 come molte altre sue opere, tra cui le ben più celebri Cent Vingt Journées de Sodome.
Come scrive il curatore Veneziani, sono dodici raccontini che costituiscono delle «piccole perle, ora divertenti, ora sognanti, sapide e liberatorie», che sfatano il giudizio negativo spesso attribuito al suo stile di scrittura, definito da molti critici sciatto e ripetitivo. Qui de Sade dà prova di una narrazione raffinata e pulita, che coinvolge il lettore per l'originalità delle vicende e per i guizzi improvvisi. Ma soprattutto, queste Storielle mostrano un altro volto dell'autore «nero e terribile». Il torbido sensualismo presente nei testi più noti, la sessualità perversa, le oscenità e le prosperità del vizio, la stravaganza morbosa e l'atmosfera sulfurea e malata, da «tenebroso harem di larve crudeli», tutti «fiori del male» dell'«atroce e sanguinoso bestemmiatore», lasciano qui il posto a una spassosa leggerezza, che si compiace del piacere di scrivere e di divertire, e che rispetta tutti i gusti e le fantasie, anche quelle più bizzarre, perché trova che siano originate «da un principio di delicatezza». La frenesia di Justine, i personaggi femminili e maschili tormentati e viziosi, tragici e delittuosi, qui non trovano spazio, e de Sade si concede una promenade più rilassata e, appunto, delicata, che incontra vescovi impantanati e cocchieri costretti alla bestemmia, istitutori trasgressivi e allievi ingenui, verginelle istruite alla virtù che istigano invece perversioni di mariti libidinosi, e "maisons de passe" dove si godono senza pericolo «i piaceri della voluttà». Il tutto condotto da una vena beffarda che serpeggia in ogni storia, e che richiama alla mente il giudizio di Apollinaire sul divin marchese, «lo spirito più libero che sia mai esistito a tutt'oggi», un ironico libertino che, come lui stesso aveva confessato, ha concepito tutto ciò che si può concepire in questo ambito (e non solo!), ma... «non ho mai fatto tutto quello che ho concepito e mai lo farò». Gli crediamo?

D. A. F. Sade, Storielle, a cura di Antonio Veneziani, Elliot, Roma, pagg. 62, € 8,50