lunedì 24 novembre 2014

«È bastato nominare la parola onestà... l'aver richiamato l'idea, il solo concetto, ha squarciato, terremotato, alluvionato la politica italiana con effetti mai raggiunti in un dibattito pubblico in cui lo scambio verbale a sinistra non è mai stato esattamente un dialogo fra educande»
L’Huffington Post 22.11.14
Una "cavolata" svela perché si spacca la sinistra
di Lucia Annunziata

qui

L'Huffington Post 24,11.14
L'Emilia rossa resta a casa
E' del 37,67% il dato definitivo sull'affluenzain Emilia-Romagna
Il dato è in calo del 30,3% rispetto alle regionali del 2010 (fu il 68,06%)-
E del 32,33% rispetto alle europee di sei mesi fa, era il 70,0%.
Il Pd perde 700mila voti
di Andrea Carugati

qui e su spogli

Se Renzi da Roma sorride per le due regioni vinte, il Pd in Emilia soffre. Non piange, perché alla fine Stefano Bonaccini farà il governatore e il testa a testa con il leghista Alan Fabbri (alter ego di Salvini) resterà un lampo di quando le sezioni scrutinate erano poche decine. Il Pd emiliano soffre perché in sei mesi, dalle europee di maggio, ha perso quasi due terzi dei suoi voti: da 1,2 milioni a circa 500mila. Un'emorragia spaventosa, una scissione silenziosa di tanti “compagni” che sono rimasti a casa, non hanno votato per la lista Tsipras e neppure per Sel, che era comunque alleata del partitone. Il risultato è molto al di sotto delle più nere aspettative: 37% di votanti, 30 punti in meno del 2010, l'ultima vittoria di Errani. Ancora di più se si guarda alle europee di maggio. Meno votanti che in Calabria, uno schiaffo per la tradizione emiliana, sempre in testa agli indici di partecipazione al voto, per tutto il Dopoguerra.
Per i vertici del Pd emiliano è uno tsunami, e non tanto per il rischio di delegittimazione del governatore, ma per il segnale politico lanciato da centinaia di migliaia di simpatizzanti ed elettori. Non a caso fino a oltre le due di notte non parla praticamente nessuno del Pd locale. Bonaccini arriva nel palazzo della Regione dopo le due e mezza, quando ormai la sua vittoria è chiara, ma è chiarissimo anche che si tratta di una vittoria mutilata. Lui, che è un uomo che conosce bene questo territorio, l'antifona l'aveva capita benissimo, soprattutto nelle ultime due settimane, quando era stato costretto a prendere le distanze da Renzi che pure era venuto qui per sostenerlo anche come gesto di amicizia personale: “Si vota per la Regione, non per il governo nazionale”. E ancora, rivolto al mondo legato a Cgil e Fiom: “Continueremo con la concertazione, qui il rapporto con i sindacati ha sempre dato buoni frutti”. Dalla Fiom erano arrivati messaggi espliciti di invito al boicottaggio, “Fate un regalo a Renzi, non votate Bonaccini”. L'invito è stato colto, ma sarebbe eccessivo attribuirne solo al sindacato la responsabilità.
Dopo il trionfo alle europee, con il Pd sopra il 52% in Emilia -Romagna, anche la festa dell'Unità bolognese di fine estate era stata un successo per Renzi, con un bagno di folla caloroso e un tripudio in camicia bianca insieme ai leader socialisti europei. Dopo quel momento di pace, con il leader che dal palco della festa omaggiava tutto il partito a partire da Bersani, è successo qualcosa: il Jobs Act, le manifestazioni piazza, lo scontro sempre più duro con Cgil e Fiom. E intanto in Emilia la campagna elettorale non decollava, con le primarie pasticciate, il ritiro di Richetti, il flop ai gazebo. E poi le inchieste e i verbali sulle spese pazze, 41 consiglieri indagati su 50, le carte giudiziarie che sono uscite sui giornali fino a pochi giorni prima del voto hanno gettato un'onda di discredito sulla classe dirigente regionale. E Bonaccini è stato il parafulmine di tutto questo, molto al di là delle sue responsabilità personali, visto che la sua posizione per circa 3mila euro di rimborsi regionali sarà presto archiviata.
Ma è il silenzio che parla meglio di tanti dettagli. Fino alle due mezzo del mattino del Pd non parla nessuno, tranne il deputato cuperliano Andrea De Maria che si sofferma sul “prezzo pagato a sinistra”, soprattutto per “le scelte del governo sul lavoro”. Bonaccini arriva al palazzo della Regione col volto tirato, che parla più di tante parole. La linea è quella del nazionale, “due regioni su due vinte dal centrosinistra, se era un test nazionale sul governo lo abbiamo superato molto bene”. Le percentuali, dunque. Pd sopra il 43%, il candidato al 48%, “quasi 20 punti in più del leghista Alan Fabbri”, fermo al 31%, che comunque parla di “risultato storico”. E' finita l'Emilia rossa?, chiedono i cronisti che lo assediano a Bonaccini. “Andiamoci cauti con queste analisi, nel 2012 dopo Parma molti osservatori dicevano che il M5s ci avrebbe travolti...”. E ancora: “Non è finita l'Emilia rossa, e neppure la storia di un centrosinistra radicato in questa regione. I cittadini ci chiedono uno scatto, anche nel rapporto con l'istituzione Regione che è percepita lontana”.
Il neogovernatore non ha dubbi: ”In altre regioni dopo una vicenda come le inchieste sui consiglieri avremmo rischiato di perdere, qui non è successo”. Solo alla fine, Bonaccini parla della “sofferenza di un pezzo del Pd che ha voluto dare un segnale restando a casa”, ricordando gli inviti a non votare Pd del leader Fiom Papignani. La linea è chiara: due regioni su due, (quasi) 20 punti di distacco dal principale sfidante, il leghista Fabbri. “Ora dovremo aprire una nuova stagione, adesso bisogna aprire una fase di cambiamento, abbiamo 5 anni per dimostrare di poter fare bene. Non si può essere soddisfatti di una partecipazione così bassa...”, spiega il governatore. Lo scarso risultato dei partiti dell'estrema sinistra resta comunque una consolazione: “Chi non ci ha votato non è andato più a sinistra, la lista Tsipras probabilmente non entrerà neppure in Consiglio”. Alla fine, il governatore dell'Emilia è stato scelto dal 48% del 37% di votanti: poco più del 16% degli aventi diritto al voto. Da queste parte non era mai successo. Fabbri, sindaco di Bondeno, oscurato da Salvini per tutta la campagna, arriva al palazzo della Regione dopo Bonaccini, con l'aria di chi ha fatto il botto.
La Lega Nord supera il 20%, nel 2010 si parlò di un boom per il 13%, vennero scritti molti libri su questa discesa delle camicie verdi sotto il Po. C'era ancora Bossi, e il governo Berlusconi, un'altra era geologica. Di certo, Salvini la sua sfida dentro il centrodestra l'ha vinta, con Forza Italia sotto il 9%. “Il pallone Renzi si sta sgonfiando”, twitta il leader del Carroccio. Anche Renzi twitta la sua soddisfazione.

l'Huffington Post 24.11.14
Elezioni regionali, Gad Lerner:
"Inizia la parabola discendente di Renzi, de profundis per la nostra democrazia”

qui e su spogli

"Il crollo della partecipazione dei cittadini al voto nella regione che tradizionalmente garantiva l’affluenza più alta d’Italia suona come un de profundis per la nostra democrazia, da Bologna prende avvio la parabola discendente di Matteo Renzi". Così Gad Lerner commenta i dati sull'affluenza alle Regionali in Emilia-Romagna sul suo blog.
"Ricorderemo le regionali come il punto di non ritorno di una politica ritornata arrogante col trucco del falso rinnovamento renziano. Prima la disfatta del 'modello emiliano' impersonato da Vasco Errani. Poi la sceneggiata delle false primarie, con ritiro decretato dall'alto dell’unico vero concorrente di Stefano Bonaccini. Infine l’arrembaggio al carro del vincitore presunto, Matteo Renzi, da parte di una moltitudine di trasformisti".
Riassume così quella che legge come una disfatta su tutta la linea, l'editorialista di "Repubblica", che conclude: "Tutto ciò rende umiliante il risultato elettorale del Partito Democratico in Emilia Romagna, abbandonato dalla maggioranza dei suoi elettori e perfino insidiato nel suo primato da un leghista divenuto emblema della destra".

il Fatto 24.11.14
Regionali, urne vuote: Emilia al 37%, Calabria 44 
Vince il centrosinistra. Renzi: ‘Due a zero per noi’
Al voto il 39,9%, Pd in testa con Bonaccini e Oliverio. Premier su Twitter: “Male affluenza, bene risultati. Lega asfalta FI e Grillo. Siamo sopra 40%”. Ma nella regione rossa 30% in meno di votanti
Più elettori in Calabria che in Emilia dove il crollo dell’affluenza è da record. Questo il primo dato del voto regionale. Nel complesso è andato alle urne il 40% degli aventi diritto. Ma se la Calabria arriva al 44%, in Emilia Romagna l’affluenza è ferma al 37,6%, trenta punti in meno dell’ultima tornata elettorale. Sul fronte politico, vittoria probabile per il Pd in entrambe le regioni. Tanto che Renzi esulta su Twitter e attacca: “Chi sostiene sciopero ha risultati da prefisso telefonico”

La Stampa 24.11.14
La maggioranza assoluta non vota
Il centrosinistra conquista Emilia e Calabria
Ma la maggioranza assoluta non va a votare
Effetto Salvini, la Lega Nord sorpassa Forza Italia
Il centrosinistra conquista Emilia e Calabria
Ma la maggioranza assoluta non va a votare
Effetto Salvini, la Lega Nord sorpassa Forza Italia
Il premier: «2-0 netto, male l’affluenza».
Nella ex regione rossa si ferma al 37,7%, in quella del Sud al 44,1%
Il Carroccio  al secondo posto conquista il 29,85%
e ora vuole conquistare il centrodestra
di Francesca Schianchi


«Se si andrà su una percentuale al di sotto del 50% sarà un dato preoccupante». Alle nove di sera, quando mancano un paio d’ore alla chiusura delle urne delle Regionali di Calabria ed Emilia Romagna, e i dati intermedi di affluenza registrano a Bologna e dintorni un calo drastico di votanti, l’ex premier Romano Prodi dà voce ai timori della vigilia. Che a tarda sera, all’arrivo dei dati definitivi di affluenza, si rivelano anche peggiori di quello che molti paventavano: 37,67% di votanti sui 3,4 milioni di aventi diritto in Emilia, un tracollo mai visto in una terra tradizionalmente affezionata al voto che alle Europee partecipò per quasi il 70% e per il 68% alle ultime Regionali; 44,07% sul milione e quasi 900mila aventi diritto in Calabria, regione storicamente meno sensibile alle urne (alle scorse Europee si presentò il 45,7%) epperò pure qui il calo è importante, se si pensa che alle Regionali 2010 votò il 59,2% dei calabresi.
E se la sorpresa è l’Emilia, chissà con quale umore avrà atteso i risultati il super favorito della vigilia, il Pd Stefano Bonaccini, quando, peraltro, le primissime sezioni pubblicate sul sito del Viminale lo vedono per un po’ tallonato dallo sfidante della Lega Alan Fabbri, sostenuto anche da Fi e FdI, mentre appare più distanziata la candidata presidente del M5S, Giulia Gibertoni. In Calabria, nella sfida per succedere a Giuseppe Scopelliti, procede molto a rilento lo scrutinio: le primissime sezioni danno molto avanti il candidato dem Mario Oliverio, seguito da Wanda Ferro, sostenuta da Fi e Fratelli d’Italia, e poi da Nino D’Ascola, l’aspirante presidente di Ncd e Udc.
Ma, in attesa dei risultati definitivi, quello che più fa discutere è proprio l’astensionismo, che rischia di fare apparire «presidenti dimezzati» i vincitori, eletti da nemmeno la metà degli aventi diritto: «Chiunque vincerà non sarà totalmente legittimato», commenta subito l’emiliana Gibertoni. Non sono bastati i richiami ad andare a votare arrivati da più parti (in mattinata è lo stesso Prodi, al seggio, a ricordare che «il voto è l’unico filo che ci lega sistematicamente alla democrazia, uno può essere contento o scontento, ma se si rinuncia al voto si rinuncia a qualcosa»): i calabresi ma soprattutto gli emiliano-romagnoli hanno deciso che questa tornata si poteva pure saltare. «I primi dati dell’affluenza sono disarmanti», commenta già a metà giornata il deputato Pd Pippo Civati, allarmato da numeri che per tutta la giornata restano, nel caso dell’Emilia, al di sotto di quelli di quattro anni fa. «Naturalmente, quando pochi vanno a votare è sempre un dispiacere per la democrazia – ammette il presidente Pd Matteo Orfini – ma non sono dati paragonabili a quelli di altre tornate, perché stavolta votavano solo due regioni, senza il traino di elezioni nazionali, né di quelle amministrative». In mattinata, ci aveva pensato il ministro Maria Elena Boschi a scindere il risultato dalla tenuta dell’esecutivo: «Le elezioni regionali non sono un referendum sul governo».

Corriere 24.11.14
Affluenza, l’Emilia affonda
Lo schiaffo dell’astensione In Emilia-Romagna vota solo il 37,7%: vince Bonaccini, balzo della Lega
La tendenza non era difficile da individuare. Ma dati così clamorosi non erano preventivati: l’Emilia-Romagna, regione simbolo della sinistra, diserta le urne
Per eleggere presidente della Regione e consiglieri ha votato il 37,7% degli aventi diritto
di Virginia Piccolillo

ROMA Si temeva, ma è andata peggio del previsto. Gli elettori hanno disertato le urne. Sei su dieci non hanno votato. Più in Emilia-Romagna che in Calabria: dove si è registrata, rispettivamente, un’affluenza del 37,67% (contro il 69,98 delle europee e il 68,13 delle precedenti regionali) e del 44,10% (contro il 45,76 delle Europee e il 59,26 delle Regionali).
Praticamente un crollo. Uno schiaffo ai partiti e non solo. Il centrosinistra non ha raggiunto con scioltezza il risultato preconizzato dal ministro alle Riforme, Maria Elena Boschi: «Due a zero». Se in Calabria, dove si è votato con la nuova legge regionale favorevole alle grandi coalizioni, è balzato subito in testa nello scrutinio Mario Oliverio, che le prime proiezioni finali danno per vincitore con il 60% circa dei voti, il superfavorito dell’Emilia-Romagna, il renziano Stefano Bonaccini non ha stravinto: tallonato nei risultati dei primi scrutini dal leghista Alan Fabbri. I primi dati lo danno poco sotto il 50%, comunque avanti una quindicina di punti sull’esponente di centrodestra, mentre Giulia Gibertoni, candidata del Movimento Cinquestelle che proprio da Bologna, con il Vaffaday di Beppe Grillo iniziò la sua parabola politica, oscilla intorno al 13%.
Complessivamente però è stata una débâcle il piccolo ma significativo test politico per capire gli umori degli elettori in regioni chiave: la «rossa» Emilia, chiamata a riconoscersi con il nuovo corso renziano, dopo la bufera giudiziaria dei rimborsi gonfiati. E la Calabria, anch’essa scossa da inchieste che ne hanno decapitato i vertici amministrativi di centrodestra. Per alcuni, un sondaggio sulla tenuta di popolarità del governo. Anche se il ministro Maria Elena Boschi invita a non considerarlo tale.
La conta del risultato finale è andata avanti fino a tarda notte. In attesa del responso finale, lo scontro si è acceso proprio sulla voltata di spalle degli elettori. Con l’opposizione, interna ed esterna alla maggioranza, pronta a darne la colpa al presidente del Consiglio Matteo Renzi. «I primi dati dell’affluenza sono disarmanti — partiva subito all’attacco il dissidente pd, Pippo Civati —. Domani forse sarà più chiaro che la governabilità come unica stella, senza rappresentanza, non è solo un problema ma un vero e proprio pericolo». «Uno può essere contento o scontento, ma se rinuncia a votare, rinuncia alla democrazia» avvertiva in mattinata l’ex premier Romano Prodi. Invano. Più tardi faceva notare: «Se si andrà al di sotto del 50%, sarà un dato preoccupante».
In Calabria, si sfidavano Mario Oliverio (centrosinistra) che ha avuto la meglio su Wanda Ferro (FI e Fratelli d’Italia), secondo le prime proiezioni, ferma al 23,2%. Dietro gli altri candidati: Cono Cantelmi (M5S), il difensore di Scopelliti Nico D’Ascola (Ncd e Udc) e Domenico Gattuso (l’Altra Calabria). In Emilia-Romagna oltre a Bonaccini, Fabbri e Gibertoni, erano in corsa Alessandro Rondoni (Ncd-FI) Maurizio Mazzanti (lista civica Liberi Cittadini) e Cristina Quintavalla, (L’Altra Emilia-Romagna).
A spingere gli elettori all’astensionismo ha influito certamente la questione giudiziaria. In Emilia, dopo le dimissioni in luglio del governatore Vasco Errani, condannato in Appello per falso nella vicenda legata a un finanziamento alla coop del fratello, era ancora fresco l’eco della indagine sui rimborsi spese dei gruppi consiliari della Regione. Con i soldi pubblici sperperati persino al sexy-shop. Così Bonaccini, 47 anni, sostenuto anche da Sel, Centro democratico ed Emilia-Romagna civica, ha visto via via assottigliarsi il consenso. Ma anche in Calabria si è votato in anticipo per le dimissioni di Giuseppe Scopelliti (ex Pdl-Udc poi Ncd), giunte dopo la condanna a 6 anni per gli ammanchi al comune di Reggio Calabria, nel periodo in cui era sindaco.
E così la realtà ha superato i peggiori sondaggi. Prima dello spoglio un partito aveva già vinto: quello del «non voto».

Corriere 24.11.14
Lo choc dei democratici traditi dagli elettori nella roccaforte rossa
Il partito si interroga: dov’è finita la base?
Il peso dell’assenza di mobilitazione del sindacato
di Francesco Alberti


BOLOGNA «Mamma, ho perso la base…». Benedetto il senso dell’humour in questa notte di streghe. Il funzionario di fede pd scivola come un’ombra lungo gli interminabili corridoi delle Torri di Tange, sede dell’Emilia-Romagna e cuore pulsante del Partitone che fu. Quando manca poco alle 2 di notte, Stefano Bonaccini, 47 anni, modenese, renziano della seconda ora, non si è ancora fatto vedere, non è ancora ufficialmente il successore di Vasco Errani (anche se il suo vantaggio sul leghista Alan Fabbri è netto), ma un posto nella piccola grande storia della Regione ex rossa, suo malgrado, l’ha già conquistato: nemmeno nei peggiori incubi, il partito prendi-tutto che qui governa dal Dopoguerra avrebbe mai immaginato un simile tracollo di votanti. Addio zoccolo duro, addio mobilitazione di coscienze. Nella terra delle Feste dell’Unità, dell’associazionismo spinto, della passione con venature ancora dogmatiche, il militante si è fatto nebbia. «Vittoria mutilata» era il fantasma che aleggiava da giorni nei pensieri dei vertici pd. E così è stato. «Dove sono finiti gli Stakanov del voto?». Perfino Romano Prodi, che ne ha viste di ogni colore e che in mattinata aveva lanciato un appello alla partecipazione, a sera era basito: «È un dato preoccupante».
Era nell’aria la diserzione dalle urne. Ma non con queste proporzioni. Predestinato al successo, Bonaccini si è trovato a combattere contro un avversario subdolo e invisibile: la stanchezza-disgusto della gente per la politica. Altro che Alan Fabbri, il candidato leghista messo sotto tutela per tutta la campagna elettorale dal suo segretario Matteo Salvini. O i 5 Stelle, abilissimi nel fare harakiri a colpi di espulsioni e lotte intestine. Il nemico si nascondeva nelle viscere dello stesso Pd. E se è vero che hanno contribuito anche fattori come la mancanza di un traino nazionale, l’inchiesta sulle spese «allegre» con i 41 consiglieri regionali indagati e la generale consapevolezza che il Pd avrebbe vinto, è altrettanto vero che tutto ciò non basta a spiegare una simile Waterloo di partecipazione. Nel Pd già qualcuno si domanda quanto abbiano influito sul non voto la violenta polemica tra Renzi e Camusso sul versante lavoro. «La sofferenza è a sinistra» punta il dito il cuperliano Andrea De Maria. Bonaccini, fiutando l’aria, aveva provato a mettere un argine: «Ricordo a chi ha mal di pancia verso il governo — aveva detto — che stiamo votando per l’Emilia-Romagna, non per l’esecutivo nazionale». Arrivando poi ad azzardare un non facile equilibrismo in quel triangolo rovente composto da Landini, Camusso e Renzi: «Qui con i sindacati c’è una tradizione che ha dato buoni risultati, continueremo a cercare la concertazione». Per tutta risposta il leader della Fiom emiliana, Bruno Papignani, ha ordinato ai suoi il boicottaggio del candidato pd. E pure nella Cgil, qui una potenza con 800 mila iscritti, c’è stata una mezza sollevazione. «Chiunque vince non sarà totalmente legittimato» infierisce la candidata 5 Stelle Giulia Gibertoni. Il dopo Errani è iniziato e ha il sapore dell’anno zero.

Corriere 24.11.14
Emilia-Romagna, un simbolo che si spegne


L’Emila-Romagna non è solo una Regione, è un simbolo. È la roccaforte della sinistra lungo l’intero arco della storia repubblicana. Quando la destra espugnò Bologna con Giorgio Guazzaloca, fu una frattura nelle vicende della politica italiana. Quando meno della metà degli elettori si reca alle urne, è un blocco intero che scricchiola, un modello di consenso che vacilla. L’Emilia-Romagna in cui crolla la percentuale di chi si reca a votare è il regno dei «corpi intermedi», dalle cooperative al sindacato al partito di stampo tradizionale, che innervano la società, la integrano, le danno coesione politica. Matteo Renzi gioca tutto il suo appeal sulla «disintermediazione», sul rapporto diretto tra il leader e gli italiani saltando la mediazione dei corpi intermedi. Ma il massiccio astensionismo di ieri in Emilia rappresenta la reazione ritorsiva dei corpi intermedi. Se il sindacato viene messo con le spalle al muro, chi si identifica con la cultura e la politica che si sono insediati nel sindacato decide di disertare le urne.
Si può dire che in Emilia le elezioni mancano del pathos dell’incertezza e del «voto utile», visto che il risultato è scontato: ma è sempre stato così, e mai l’astensionismo ha raggiunto livelli tanto allarmanti. Si dice anche che l’astensionismo è una sindrome molto diffusa già da tempo e che pure il sindaco di Roma l’anno scorso è stato votato da meno della metà dei romani. Però in Emilia si è assistito a un crollo. E mai avremmo potuto immaginare che l’Emilia si potesse dimostrare più astensionista della Calabria. Si tratta inoltre di un fenomeno privo di un colore sicuro. Anche l’elettore di destra deluso da Berlusconi è sfiduciato e non va a votare. Anche l’elettore di Grillo che vede la carica del Movimento 5 Stelle spenta e incapace di indicare un’alternativa è tentato dall’astensione. Ma non si può separare il destino dell’Emilia dal partito che, pur tra mille rotture, evoluzioni e discontinuità rappresenta e incarna l’eredità del Pci, la sua presenza capillare, la sua ramificazione in tutti i gangli sociali, cooperativi, sindacali, associativi. E dunque se in presenza del messaggio ottimistico ed elettrizzante del premier che è anche il segretario del partito che gode del massimo insediamento emiliano l’elettorato risponde così freddamente, la percezione del rifiuto appare inequivocabile. E si evidenzia ancora di più che l’intero arco dei partiti, grillini inclusi, coinvolto nello scandalo dell’uso disinvolto dei fondi pubblici non dà agli elettori l’ossigeno per la minima fiducia. Anzi, nutre la sfiducia per tutto il sistema, percepito come un blocco indistinto, che spreca i soldi dei contribuenti con cene pantagrueliche, regali, articoli di consumo, oggetti lussuosi e persino sex toys pagati con i fondi che dovrebbero servire a finanziare la politica. Ovvio che questo andazzo intollerabile abbia alimentato un rigetto disilluso e indiscriminato. E che il comportamento disdicevole dei consiglieri regionali abbia confermato e rafforzato una tendenza astensionista oramai solida e che ieri in Emilia ha assunto le caratteristiche di un crollo. Un campanello d’allarme per tutti i partiti, per le Regioni, per il premier e anche per i suoi avversari. Una data spartiacque. Un altro simbolo che si spegne.

Corriere 24.11.14
Renzi: è due a zero per noi, ai duri e puri percentuali ridicole
Il premier attacca la sinistra interna
di Maria Teresa Meli


ROMA A notte fonda Matteo Renzi ammette che l’«affluenza è andata male», ma sottolinea che i risultati del Pd «sono buoni»: «Vinciamo con un 2 a 0 netto». Quindi aggiunge: «In soli nove mesi abbiamo strappato quattro regioni su quattro alla destra e siamo sopra il 40 per cento, mentre le forze politiche che hanno appoggiato lo sciopero generale hanno percentuali da prefisso telefonico. Certo, il dato dell’affluenza preoccupa, ma quello elettorale è netto. Noi abbiamo vinto e la Lega ha asfaltato i grillini e FI».
A sera, invece, quando i dati dell’astensionismo in Emilia si rivelavano nella loro deflagrante evidenza, Renzi aveva adottato un atteggiamento zen. I perché e i per come di quella scarsa affluenza riguardano quella regione e la tattica che la minoranza pd ha messo in atto per sfiancare il premier.
Ma non sono solo gli avversari interni a sfregarsi le mani per l’astensionismo. Ogni volta che qualcuno punta i riflettori sul calo dei votanti Renzi sorride e allunga l’elenco di chi vorrebbe impedirgli di andare avanti o, quanto meno, di di condizionarlo. Renzi ritiene che nonostante abbia vinto in tutte e due le regioni gli daranno del filo da torcere: «So bene che daranno la colpa a me. È ovvio. Ma io non ci casco. Non mi importa. Queste elezioni non avranno ripercussioni sul mio governo, perché queste elezioni non erano un referendum sul mio esecutivo. Chi crede o spera di mettere in mezzo il governo si sbaglia di grosso. Io vado avanti».
L’uomo è fatto così: «Io potrò anche fallire, ma non per queste elezioni. Continuerò a provarci perché so che abbiamo un’unica possibilità, quella di rivoluzionare l’Italia». Costi quel che costi. Anche quando il prezzo è la minoranza interna che in Emilia, magari, ha preferito non darsi troppo da fare. Anche quando il leader della Fiom emiliana, Bruno Papignani, in campagna elettorale ha lanciato questo appello: «Fate una sorpresa a Renzi, non votate Bonaccini». Il quale Bonaccini, peraltro, da persona onesta qual è, ammette che con il boom dell’astensionismo il premier poco c’entra: «Qui l’inchiesta sulle spese della Regione ha pesato davvero», confida agli amici.
Renzi sa che l’astensionismo in Emilia ridarà fiato alla minoranza più agguerrita. Pippo Civati ha cominciato dalla mattina. Ma è ovvio che non è lui che preoccupa Renzi. Il suo sguardo va oltre le contingenze. «Io — spiega ai collaboratori — quando sono andato al governo ho sbaragliato un progetto tecnocrate e neocentrista che era pronto. Ma so che gli ideatori di quel progetto sono ancora lì che aspettano un mio passo falso, che vorrebbero mettermi sotto tutela, fermarmi. Non ci riusciranno».
È ovvio che Renzi quando parla così non sta pensando agli avversari interni. A Bersani, Bindi e D’Alema. Però anche loro sono sul piede di guerra.Ma Renzi si è ripromesso di non farsi trascinare in questo giochetto. Il suo motto è e rimane: «Noi siamo il governo del fare, quindi facciamo». Tradotto: portiamo a casa il Jobs act alla Camera e la riforma elettorale al Senato a fine anno. Sì, anche quella, pure se ora è più difficile. Poi c’è marzo 2015: è la data fissata ufficialmente per l’approvazione definitiva dell’Italicum. Si può sforare di un mese al massimo e arrivare ad aprile, benché non si debba dire. Però non si può andare oltre. Anche se gli avversari interni ora gli contesteranno che il premio di lista favorisce la Lega. E che alla fine il rischio è quello di consegnare il Paese in mano a Salvini. Ma lui non ci crede.
Comunque, quelli che preoccupano veramente Renzi in realtà sono altri. Sono i «tecnocrati e i burocrati». Quelli ai quali ha scombinato i piani, che lo aspettano al varco, attendendo il logoramento oppure il passo falso. «O noi o loro», ricorda ai suoi il premier.

Repubblica 24.11.14
Renzi esulta: “Successo per due a zero, asfaltato chi ha sostenuto la Cgil e non il governo”
di Francesco Bei


ROMA «Male affluenza, bene risultati: 2-0 netto». Il tweet di Matteo Renzi è come una fotografia scattata dal satellite, fissa soltanto il dato generale. Ovvero quelle «4 regioni su 4 strappate alla destra in 9 mesi» e, riguardo ai partiti, la Lega di Salvini che «asfalta Forza Italia e Grillo», mentre il «Pd è sopra il 40%» in entrambe le regioni. E le liste di sinistra che appoggiano la Cgil e lo sciopero generale?«Azzerate a livelli da prefisso telefonico ». Insomma, come confida ai suoi, se la bassa affluenza «era un dato largamente atteso », alla fine «quello che conta è comunque che vinciamo noi. Nonostante tutto e tutti». Nella notte elettorale, man mano che i numeri si fanno più densi e l’affluenza crolla a percentuali inimmaginabili, Renzi si fa forte del risultato portato a casa. Appunto, «due regioni su due». E un panorama di opposizioni che non costituiscono un’alternativa possibile di governo. Tuttavia a Largo del Nazareno, dove Lorenzo Guerini è rimasto a presidiare la “situation room”, nessuno si nasconde che il vero buco nero che risucchierà tutte le altre considerazioni è il dato della partecipazione popolare. Un crollo mai visto in queste proporzioni, tanto più eclatante quello dell’Emilia “cuore rosso” d’Italia. Un’autentica ferita per il Pd renziano in cerca di conferme. Che ora il premier attribuisce in larga misura a un colpevole preciso: il sindacato di Camusso e Landini. Ancora molto forte in una regione che vanta decine di grandi insediamenti industriali, dove i metalmeccanici iscritti alla Fiom sono circa 70 mila.
I renziani sospettano che sia stato proprio lo zoccolo duro del sindacato rosso ad assestare un colpo politico preciso contro il governo. Segnali più o meno espliciti del resto non sono mancati alla vigilia del voto. A partire dal clamoroso invito a disertare le urne (come «regalo a Renzi») pronunciato da Bruno Papignani, popolare leader della Fiom emiliana. Un non-voto politico, alimentato dalla contrapposizione feroce di queste ultime settimane sul Job Act. Anche per questo il capo del governo nel primo ragionamento a caldo tende a vedere il bicchiere mezzo pieno: «Se dopo un mese in cui ci sono stati gli scontri in piazza, le accuse sulla delega-lavoro, le contestazioni quotidiane in fabbrica organizzate da Landini e i raid di Salvini anti-immigrati, siamo riusciti a vincere lo stesso, va bene. Sinceramente va molto bene».
Quanto alle percentuali di affluenza negativa, per il premier sarebbe sbagliato caricarne la responsabilità tutta sulle spalle dell’esecutivo. Perché si votava per il rinnovo delle regioni, istituzioni in fondo alla classifica di fiducia dei cittadini. Enti screditati dal malgoverno, dalle inchieste sulla corruzione, dai giganteschi buchi di bilancio. «Solo in Emilia su 50 consiglieri regionali – fanno notare nel Pd – 41 sono indagati. In Calabria non ne parliamo». Che gli elettori abbiano voluto “punire”, restandosene a casa, degli enti percepiti come corrotti e distanti è una tesi che si fa strada ai piani alti del Nazareno. «Poi è chiaro che andare a votare solo per le regionali, senza il traino nazionale, non aiuta ». Insomma, in Emilia-Romagna come in Calabria non c’è stato l’effetto Renzi delle Europee. Non c’era il premier direttamente in campo, si votava per i candidati governatori. Oltretutto gli uomini del centrosinistra erano dati per vincenti, la qual cosa potrebbe aver spinto molti a considerare scontata la vittoria e quindi non necessaria la fatica di mettersi in fila ai seggi. «Dovunque andassi – racconta nella notte Bonaccini – mi chiamavano da giorni “presidente”. Di certo non ha aiutato».
In ogni caso nella notte la distanza fra il Pd e gli inseguitori è larghissima: 16-17 punti tra Bonaccini e il leghista Fabbri, in Calabria la vittoria dem è ancora più netta. Lo stesso Renzi ancora si stupisce per aver conservato nei sondaggi dei livelli consistenti di fiducia. «L’ultima rivelazione – confida ai suoi – mi dava al 51%, quando tutti i miei colleghi stanno messi peggio. Al 12% come Hollande o al 25% come Obama. Il Pd è quotato al 36%, un risultato incredibile. E segnalo che i sondaggisti ci davano al 29% la sera in cui prendemmo il 41%». Il segnale che arriva da palazzo Chigi è dunque quello di mantenere i nervi saldi: «Anche in Emilia il Pd sta al 45%, alle Europee prendemmo il 52% ma con il mio traino».
In una settimana decisiva in Parlamento per il Job Act il rischio è però che il voto deludente di ieri possa alimentare un’ultima battaglia di trincea della minoranza Pd più intransigente, quella di Fassina, Bindi, Civati e Cuperlo. Ma Renzi è convinto di essersi coperto le spalle con un accordo di ferro stretto con area riformista e giovani turchi. Un’intesa a cui partecipa anche Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro e tradizionale riferimento sindacale in Parlamento. Forte di questo patto politico e delle due regioni comunque conquistate, il premier andrà avanti per la sua strada. «Siamo un paese davvero strano, dove chi vince le elezioni è chiamato a giustificarsi».

La Stampa 24.11.14
«Slogan violenti e quanta tv: un problema democratico»
4 domande a Pippo Civati


«Io so che, nel novero di chi vota, Renzi vince. Ma il problema è fuori da lì». Sospira preoccupato, a metà serata, il deputato Pd Pippo Civati. I dati definitivi di affluenza non ci sono ancora, ma quello delle 19 non è buono, soprattutto in Emilia, un modesto 30,9% di persone alle urne, «un dato sconvolgente».
Si profila un astensionismo molto alto…
«Noi stiamo spiegando che l’unica cosa che conta è la governabilità, il mantra renziano del sapere chi ha vinto la sera delle elezioni. Ma c’è un altro punto, ed è la rappresentanza. Qui c’è un gran numero di persone che si autoescludono perché non si sentono più rappresentate da nessuno».
Perché?
«Io penso che la cosa sia legata alla crisi economico-sociale. Abbiamo tanto parlato del 40% del Pd, il punto è capire come mai questo nostro messaggio di successo coinvolga un numero basso di persone. Altrimenti la nostra vittoria rischia di essere non dico di Pirro, ma una vittoria a metà per chi ha a cuore il funzionamento della democrazia».
Questa disaffezione ha anche a che fare con i provvedimenti del governo?
«Ha a che fare con la crisi. Certo sarebbe meglio se si usassero parole meno violente, se si evitasse di dividere, se si evitassero provocazioni… Non è bella la frase di oggi della Boschi: Landini sposta il dibattito sul piano ideologico perché sul merito non ha niente da dire».
Come si torna a dare rappresentanza a chi non si sente rappresentato da nessuno?
«Dirò una cosa forse un po’ moralistica: con molta umiltà. Costruendo il consenso non solo in tv, ma facendo un po’ di lavoro all’antica. Evitando parole che dividono, provocazioni, non banalizzando le richieste degli altri. In questo caso, il coraggio è parente dell’umiltà».[f.sch.]

Corriere 24.11.14
Guerini: mancava un vero avversario
Il vicesegretario dem: «Difficile mobilitare la base quando l’alternativa è debole»


ROMA «Il tema dell’affluenza riguarda tutto il sistema politico...».
L’Emilia rossa che non vota non è un problema del Pd, onorevole Lorenzo Guerini?
«Il crollo della partecipazione — risponde il vicesegretario a spoglio ancora in corso — è un dato che consegna a tutti un elemento di preoccupazione. Ma non vanifica una vittoria netta, con il Pd sopra al 40%».
Quella di Bonaccini non è una vittoria mutilata?
«È un risultato da festeggiare. Per noi la cosa importante è chiudere l’anno come lo abbiamo iniziato. Con Renzi segretario abbiamo preso il 40,8 alle Europee, strappato al centrodestra Sardegna, Abruzzo e Piemonte e adesso vinciamo in Calabria ed Emilia».
Per Civati i dati dell’affluenza sono «disarmanti». La sinistra tornerà a chiedere il congresso?
«Una sciocchezza. Il Pd è reduce da un anno di successi elettorali inaspettati, se guardiamo al 2013. Parlare di una crisi del Pd significa fare qualche passo nell’irrealtà»
La disaffezione non è un messaggio a Renzi?
«No, la discesa significativa dell’affluenza nasce da un insieme di cose. Dal disagio sociale, dalla vicenda dei rimborsi che ha pesato molto e dal fatto che gli elettori percepiscono il livello istituzionale regionale come lontano dai loro problemi».
Il primo partito è il non voto, non fate autocritica?
«Il primo partito è il Pd. La campagna elettorale in Emilia è stata sentita pochissimo e ha avuto scarso traino televisivo. Ma dobbiamo impegnarci con forza ancora maggiore sulle domande che i cittadini ci hanno rivolto».
È già in crisi la formula del partito pigliatutto?
«È una semplificazione, non siamo il partito unico pigliatutto».
Eppure, rispetto alle Europee, il Pd soffre e anche la popolarità di Renzi cala.
«Il paragone non si può fare e ricordo che, prima di Renzi segretario, il Pd era al 25%. Certo, quando la campagna elettorale è caratterizzata da un’alternativa molto debole, c’è più difficoltà a mobilitare».
Nessun problema nel rapporto tra il leader e la base ?
«No, c’è l’esigenza di studiare bene i dati e le motivazioni, confrontandosi con il livello territoriale».
La Lega cresce perché sta sul territorio più di voi?
«Sciocchezze».
Sicuro che non abbia influito la polemica con Camusso e Landini?
«Non lo so. Fare l’analisi su dati così frammentati è sbagliato. Aspettiamo i risultati finali, ma il tema vero è da ricercare nelle cause locali. La disaffezione dei cittadini muove molto anche da lì».
Fassina, Civati e Cuperlo vedono spazi a sinistra...
«I segnali vanno colti, sempre. Ma il tema non è questo, è la scarsa partecipazione dei cittadini. Io potrei dire che le polemiche quotidiane non fanno bene al Pd, ma non lo dico, perché il bilancio elettorale è lusinghiero».
Il Jobs act piace a Sacconi e la sinistra non lo vota.
«Non confonderei le rispettabili opinioni di alcuni autorevoli esponenti con l’area politica guidata da Speranza, che è convinta dell’ottimo risultato raggiunto e lo dimostrerà votando compattamente».
Chi non vota la fiducia sarà espulso?
«Assolutamente no. E non mi pare sia stata messa».
Scissione all’orizzonte?
«Non la vuole nessuno e sarebbe folle paventare questo rischio dopo un anno elettorale straordinario»

La Stampa 24.11.14
Perché così pochi alle urne
di Elisabetta Gualmini


Tutto ha remato contro le elezioni in solitaria di Calabria ed Emilia Romagna. 
L’assenza di qualsiasi traino nazionale o locale, perché non votavano le altre regioni e non c’erano altre consultazioni: né quelle per il sindaco, di cui si parla nei bar, né quelle per il governo nazionale, di cui si parla in televisione. Le indagini sulle «spese pazze» dei consiglieri regionali e le dimissioni dei governatori, non hanno certamente creato entusiasmo, anzi hanno demoralizzato parecchi elettori solitamente ligi. A differenza delle ultime regionali, si poteva votare solo in un giorno, non anche il lunedì. Era ovvio aspettarsi quindi un calo significativo della partecipazione, come avviene in molti Paesi europei, dove la partecipazione va e viene, nel mentre tende strutturalmente a calare.
Nei tre casi effettivamente paragonabili di regioni a statuto ordinario (Abruzzo, Molise, Basilicata) che hanno votato in un anno diverso dalle altre e in un momento dell’anno in cui non c’erano altre elezioni, il differenziale nel tasso di partecipazione rispetto alle politiche dell’anno più vicino è stato tra il 19 e il 28%.
Sulla base di questi precedenti, quindi, sarebbe stato ragionevole attendersi una riduzione di circa il 20-25% rispetto alle politiche del 2013. Che in Emilia-Romagna voleva dire un po’ meno del 60% di partecipazione, in Calabria poco più del 40. Con tutta evidenza, hanno giocato, pesantemente, anche altri fattori, che hanno portato addirittura a una inversione della forchetta tra Nord e Sud.
L’elettore di opinione, che si muove per scegliere il Presidente, il partito o la coalizione, stavolta non aveva tanti stimoli per andare a votare. Soprattutto in Emilia, si sapeva già chi avrebbe vinto. O comunque tutti pensavano, compresi gli antagonisti, che non ci sarebbe stata partita. Tanto che il centro-destra e gli altri partiti hanno di fatto rinunciato a organizzare una vera alternativa.
In entrambe le regioni, il centro-destra si è presentato in ordine sparso, con Ncd ovunque divisa da Forza Italia, e con la Lega all’arrembaggio sotto la nuova segreteria di Salvini. Il quale Salvini, in assenza di Berlusconi, dava l’impressione di dominare «il campo dei moderati», vagheggiando l’idea di una Lega dei Popoli, cioè di un Partito Nazionale della Protesta.
Il Movimento 5 Stelle invece, si è semplicemente ritratto. Non solo perché manca di una classe dirigente nei territori. In Calabria Grillo aveva da tempo presagito il crollo. Fosse stato per lui, il simbolo non sarebbe stato nemmeno esposto, come in Sardegna. «Le comunali di Reggio Calabria? Abbiamo scherzato per noi il 2,5% è una enormità. Con le Regionali magari prenderemo il 2,2%. Magari mettiamo lì due-tre consiglieri, non si tratta di prendersi la Regione, non ce la faremo...». Quasi la stessa cosa in Emilia Romagna, dove l’antipolitica aveva trionfato e aveva creato non pochi fastidi al Pd. Solamente un blitz, di malavoglia, di sera tre giorni prima delle elezioni. Praticamente di nascosto. 
E così il circuito si è auto-alimentato. Gli stessi avversari, dividendosi o ritraendosi, hanno tolto qualsiasi mordente alla contesa. Fino a farla scomparire dai radar dei media e di una consistente quota di elettori. 
Sono andati a votare gli abitudinari incalliti o gli incalliti credenti nella liturgia democratica delle elezioni. Con tutta probabilità, in Emilia-Romagna, questa componente dell’elettorato continua ad essere più consistente che in Calabria. D’altro canto, l’unica competizione che sembrava effettiva, che poteva scaldare gli animi, era quella sulle preferenze, per ottenere un posto al sole nei consigli regionali. E si sa, che quel genere di competizione è sempre stata straordinariamente più accesa, ha sempre coinvolto molti più votanti in Calabria (circa l’85%) che in Emilia-Romagna (circa il 25%). Per di più, questa volta, la lotta per le preferenze in Calabria era acuita dalla drastica riduzione (da 50 a 30) dei seggi consiliari da distribuire. Mentre in Emilia la voglia di votare per i consiglieri regionali non era proprio alle stelle.
A ben vedere, quindi, l’inversione della forchetta, non rende più clamoroso il flop, ma in parte lo spiega. Gli elettori italiani sono sempre meno identificati con i partiti. Sempre meno vanno a votare per confermare la loro lealtà. Ci vanno se serve, mossi più dalla Tv che dagli apparati, anche nell’Emilia Rossa. E’ un’enorme transizione in corso. Votano per scegliere chi deve governare o per dimostrare dissenso. Stavolta le alternative non c’erano e il dissenso dell’antipolitica era spento.

La Stampa 24.11.14
In Emilia è effetto Salvini
La Lega sorpassa Forza Italia
Il candidato Fabbri festeggia: anche qui sono stufi del Pd
Adesso l’obiettivo è l’Opa per conquistare il centrodestra
di Alberto Mattioli

«Siamo sopra di tre voti!», e il bar «Dal Mister» esplode. Vabbé, sono solo dodici sezioni su 4.512, ma il brivido c’è. L’aspirante governatore leghista Alan Fabbri ci crede, o almeno ci spera. Come se per una volta, la prima dal 1945, praticamente un’altra era geologica, il Pci e derivati potessero perdere un’elezione in Emilia-Romagna. Poi il divario si allarga e all’una meno un quarto il candidato del Pd, Stefano Bonaccini, è sopra di nove punti, lui al 45 e Fabbri al 36: sarebbero molti altrove, sono pochissimi qui, nell’Emilia ex rossa dov’è sempre stata fantascienza che qualcuno potesse far paura a chi ha sempre governato, figuriamoci un marziano leghista.
Certo pesa l’affluenza, o meglio la sua mancanza: 37,67%, un disastro, un niente, 30 punti in meno delle precedenti regionali. Per dire: a Reggio Emilia si è scomodato meno del 36% degli elettori, lì dove hanno sempre votato più compatti che a Pyongyang. «I dati sono molto positivi. In alcuni seggi siamo il primo partito, specie nelle zone terremotate. Gli emiliani sono stufi del Pd, che è sotto il 50%. Se il risultato è questo, è storico», proclama Fabbri. Poi, in privato: «Gli stiamo mettendo paura». Matteo Salvini ha già telefonato, entusiasta.
Certo che, vista da qui, la lunga attesa ha tutto un altro sapore. Finora l’unica ragione per la quale Bondeno era nota, e solo alla meglio gioventù emiliana e pure romagnola, era la presenza dell’«Armony», storico locale delle meglio pornostar. E invece, incredibile ma vero, ieri la politica italiana si è decisa anche qui, per la precisione a Scortichino, frazione del capoluogo, e per essere ancora più precisi «Dal Mister», il bar centro della social life locale. E’ qui che Fabbri, ingegnere, 35 anni, leghista da quando ne aveva 14, segni particolari codino e felpa con la scritta «Scortichino», di professione sindaco di Bondeno, ha deciso di aspettare i risultati elettorali.
«Dal Mister» si festeggia a prescindere. «Comunque vada, sarà un successo», se la ride il Mister, cioè Claudio Poletti, un passato da allenatore di calcio e un presente da leghista a 24 carati, corrente Fabbri. «Alan? Lui non è “un” sindaco, è “il” sindaco». Il Mister ha sommerso le pareti con le bandiere di ogni possibile separatismo europea: catalana, corsa, scozzese, basca e via secessionando. Il Sole delle Alpi è invece ostenso su un trattore parcheggiato nel piazzale: ancora e sempre la retorica della Terra contro la finanza senza radici, lo strapaese longanesiano contro l’Europa multietnica. «Gli immigrati? Sì, se ne vedevano, ma li ho fatti correre, se necessario con le cattive», assicura il Mister.
Tutt’intorno, una Bassa molto bassa all’angolo fra Emilia, Veneto e Lombardia. La campagna non sembra molto amena; la compagnia, sì. C’è un gran via vai di simpatizzanti, amici, bambini, giornalisti e troupe tivù. Si sovrappongono battute, bevute, risate, cori. Arrivano mamma (comunista non pentita) e papà Fabbri, coltivatori diretti. Il pigmalione Matteo Salvini aveva invece impegni più pressanti, leggi il derby di San Siro (è un milanista patologico) ma forse nella notte, se le rose fioriranno davvero, potrebbe calare su Scortichino. Per lui l’importante, più che battere l’imbattibile candidato del Pd, è stracciare gli «alleati» di Forza Italia per lanciare con successo l’Opa su un centrodestra deberlusconizzato. I primi dati di partito, parzialissimi, gli danno ragione: Lega al 23% e secondo partito, Fi sotto il 10.
L’Alan è già quasi in modalità nostalgia: «Una bellissima esperienza». Un saluto agli alleati? La voce sembra uscire dal freezer: «Fi ha condiviso con noi il programma», stop. Come governatore, meglio Maroni o Zaia? «Zaia». Perché gli emiliani non hanno «sentito» questa campagna? «Perché si vota solo per le regionali. E perché il Pd ha paura di queste elezioni, quindi ha cercato di parlarne il meno possibile, salvo poi preoccuparsi perché la gente non va a votare». Vincerete? «Non credo. Ma è stato molto bello lo stesso. E adesso dai, Mister, fammi uno spritz».

Corriere 24.11.14
La Lega doppia Forza Italia
L’urlo di Salvini: «È storico»
Al bar di Bondeno, il paese di Alan Fabbri, è tripudio per i primi dati
di Marco Imarisio


BONDENO (Ferrara) La nuova destra lepenista italiana si fa al bar Dal Mister di Scortichino. A ogni aggiornamento sul sito del Viminale corrisponde un commento di Alan Fabbri seguito dalle risate dei suoi sostenitori che gli stanno alle spalle. «Siamo sopra Bonaccini almeno per un paio di minuti» urla il candidato leghista. «Fatemi una foto prima che torno a essere secondo...». Passano il tempo e le voci corrono più o meno incontrollate. Ma verso le due di notte il buonumore diffuso non sembra solo conseguenza delle abbondanti libagioni. Il crollo dell’affluenza rende possibile ogni sogno, compreso quello del sorpasso sui parenti serpenti di Forza Italia, con i primi dati parziali che dopo lo spoglio di 1.171 sezioni su 4.512 forniscono un punteggio impietoso: 21% leghista contro il misero 8,7% dei berlusconiani. Matteo Salvini chiama sfidando ogni superstizione. «Non ci posso credere — urla al telefono —. Sopra al 20% è un risultato storico».
Quando qualcuno si prenderà la briga di scrivere la storia del Le Pen nostrano, se mai ce ne sarà una, dovrà per forza inserire la notte delle elezioni regionali di Emilia e Romagna trascorsa in questo locale di una frazione di Bondeno, a pochi chilometri dall’argine destro del Po, accanto a un campo sportivo. Fabbri, candidato con barba e codino di un centrodestra unito solo sulla carta sbriga le formalità in anticipo telefonando al suo rivale, il vincitore annunciato Stefano Bonaccini. «Ce le siamo dette ma senza mancarci di rispetto. E guarda che per non c’è problema, se fai cose che mi piacciono sono disposto a collaborare con te».
Ma la cronaca impone di raccontare di un posto pieno che non ci stava più neanche uno spillo, dove Alan Fabbri, il sindaco di Bondeno che Salvini ha scelto per la prima verifica importante della nuova Lega Nord, trascorre la sua notte bianca in attesa dei risultati. All’ingresso c’è parcheggiato un trattore avvolto nella bandiera con il Sole delle Alpi. Dentro, appese alle pareti di legno c’è il tripudio di ogni possibile bandiera indipendentista, dai baschi fino alla Nazione Romagna. Sono tutte un gentile omaggio del candidato Alan, quando il Mister decise di aprire il bar. La scelta di aspettare circondato dagli amici stempera la tensione di un passaggio che lo stesso Salvini definisce potenzialmente storico, almeno per lui. Lo scambio di messaggi tra mentore e delfino non è proprio al livello dell’incontro di Teano, ma questo passa il convento. «Auguri per il derby» scrive Fabbri intorno alle 20. «Mi tocco» risponde Salvini, e non c’è bisogno di scendere nei dettagli. Ai posteri converrà piuttosto consegnare il precedente sms del segretario leghista in pieno afflato obamiano: «Il meglio deve ancora venire». Ancora poche ore e si saprà. Il voto dell’Emilia-Romagna ha rilevanza nazionale quasi solo per questo, per tastare la consistenza del fenomeno Salvini alla prova dei fatti, dopo infiniti rodaggi televisivi. Anche lo scambio preventivo di cordialità con Bonaccini ha un suo senso. Ai convenuti, amici e familiari di Fabbri, non importa un fico secco della vittoria del candidato democratico. La missione emiliano romagnola consiste nel prendere un voto in più di Forza Italia.
«L’astensione è il nostro primo alleato, come il generale inverno per i russi» ammette Fabbri. Nel bel mezzo dello spoglio il suo distacco da Bonaccini è di 17 punti, 48 a 31%, con posti insospettabili come la provincia di Ferrara dove addirittura è un testa a testa con scarto di poche centinaia di voti. «Saranno anche dati provvisori ma non era mai successo prima, gli stiamo facendo un po’ di paura. Stiamo andando bene, soprattutto come Lega Nord. Quelli di Pd, Forza Italia e Movimento 5 Stelle sono rimasti a casa, i nostri invece hanno votato tutti. Siamo il secondo partito regionale, missione compiuta».
Fabbri aveva un’asticella da superare, il 13% della vecchia Lega Nord alle Regionali del 2010, ultimo anno prima dell’avvento di Beppe Grillo. Forza Italia è il bersaglio, M5S il granaio dal quale prendere voti. «Come hanno fatto loro con noi. Adesso glieli sfiliamo tutti, uno per volta». La notte è ancora lunga ma partono tutti verso Bologna, con festa per pochi intimi in piazza Maggiore. L’Emilia-Romagna, un tempo rossa, rischia davvero di diventare il primo gradino della scalata di Matteo Salvini al centrodestra italiano.

Corriere 24.11.14
Crollo di 30 punti rispetto alle europee
Bonaccini presidente con il 49%
Bene la Lega, l’affluenza crolla sotto il 40%
Il candidato Pd: «Inutile negarlo, voto molto negativo». Prodi: «Preoccupante». Renzi: «Affluenza male ma il risultato è 2-0 per noi»

qui

La Stampa 24.11.14
In primavera altre sette sfide

Sono sette le Regioni che saranno chiamate alle urne nella prossima primavera: Veneto, Liguria, Toscana, Umbria, Marche, Campania e Puglia. Di queste, solo due sono governate dal centrodestra: in Veneto il governatore è Luca Zaia (Lega); in Campania è Stefano Caldoro (Forza Italia). Nelle altre cinque Regioni governa il centrosinistra. I presidenti sono del Pd, con l’eccezione della Puglia, dove la giunta è guidata da Nichi Vendola, leader di Sel, eletto per la prima volta nel 2005 e riconfermato nel 2010, in entrambe le occasioni dopo aver vinto le primarie.

il Fatto 24.11.14
Renzi, nessuno gli faccia ombra
di Ferruccio Sansa


Un grande albero non teme di restare in ombra. È un principio della botanica, ma vale altrettanto per la politica. Un grande leader sceglie collaboratori alla propria altezza, non ha paura che la sua statura sia messa in discussione da chi gli sta accanto. Anzi, capisce che il lavoro di squadra, la capacità di riporre fiducia negli altri, di delegare sono elemento fondamentale del successo di un disegno politico. Riconosce nella critica leale un valore. Di più: uno statista che ha cari i propri ideali, prima del successo personale, cerca figure degne cui passare il testimone.
Non succede in Italia, e non tanto perché il culto della personalità porti sempre un uomo solo al comando. I limiti dei nostri leader sono spesso rivelati dalle loro corti. Ancora una volta Silvio Berlusconi è il prototipo. Non bisognava aspettare il suo naufragio politico, giudiziario e umano per capire dove avrebbe portato il Paese. Bastava vedere di chi si era circondato: Cesare Previti, Marcello Dell’Utri, erano più che sufficienti. Ma oltre i boss, c’era quella selva di figure premiate non per le qualità, ma per un’obbedienza che somiglia alla sottomissione. Gente di cui il potere esagerato rivelava i limiti, più che la grandezza. I Gasparri, i Letta, i Bonaiuti. Nomi che nel sentire comune sono quasi diventati aggettivi qualificativi. È un limite non soltanto berlusconiano. Basti pensare al centrosinistra di marca dalemiana, con il lider Massimo che anche in questo somigliava al suo acerrimo alleato politico. Ma neanche in questo, povero D’Alema, è riuscito a uguagliare Berlusconi: scandali da pochi spiccioli, festini sfigati.
E Beppe Grillo? Anche lui rivela i propri limiti nella scelta dei collaboratori. Basta guardare i criteri studiati per scegliere i candidati alle elezioni. Dovrebbero servire per selezionare una classe dirigente totalmente nuova; qualche volta ci riescono, vedi i Fico, i Di Maio. Ma soprattutto sembrano studiati apposta per evitare che nel Movimento emergano figure forti, fedeli agli ideali prima che al leader. E chi alza la testa, tipo Pizzarotti, resta giù dal palco.
Fino a lui, a Matteo Renzi, ovviamente. Non era necessario, forse, veder naufragare le sue promesse per capirne i limiti. Bastava, nei primi giorni, guardare le foto di gruppo dei suoi fedelissimi. Politici di mestiere, gente che tutta insieme ha lavorato meno di un solo operaio a fine carriera. E adesso si apre la partita del Quirinale. Occasione irripetibile per scegliere una personalità che abbia testimoniato nella sua vita i valori della Costituzione. O per affidarsi a qualcuno che non faccia ombra. Una Pinotti che gode della simpatia di Fincantieri e Finmeccanica e raccoglie endorsement di giornalisti amici. “Pinotti perché no? ”, scrivono. Forse dovrebbero dirci perché sì.

Repubblica 24.11.14
Quanto pesano quei seggi vuoti
Non sarà un test sulla salute del governo. Ma nemmeno potrà essere sbandierato come un suo successo
di Stefano Folli


IL DATO clamoroso dell’astensione in Emilia Romagna, la regione dove tutti, ma proprio tutti, andavano a votare per senso civico e fedeltà al Pci, dice molto sull’Italia dalla rappresentanza fragile. In Calabria si vota di meno da sempre, ma che all’ombra di San Petronio le urne siano vuote come e persino più che sullo Stretto offre la fotografia di una regione e di una nazione che in pochi anni si sono trasformate come forse era difficile immaginare. E mette in sottordine la stessa, presunta vittoria dei candidati del Pd.
Non sarà un test sulla salute del governo. Ma nemmeno potrà essere sbandierato come un suo successo
C’ÈANCHE, certo, un elemento di modernità e di normalità nella tendenza all’astensione. Eppure è meglio non fare confusione. Il voto compatto del passato, figlio di una disciplina quasi militare, era un ricordo già da tempo. Sotto questo aspetto, la fase post-ideologica era cominciata da un pezzo anche fra Bologna, Modena e Forlì. Tuttavia, poiché l’Emilia Romagna non è il Nebraska, il crollo repentino dell’affluenza è un dato dai risvolti politici che andranno indagati a fondo alla luce dei risultati reali. Anche perché è opinione diffusa e radicata che il voto emiliano-romagnolo non sarà neutro, cioè non sarà privo di conseguenze sul piano nazionale. Non sarà un test sulla salute del governo, aveva anticipato con prudenza la Boschi; ma nemmeno potrà essere sbandierata come un successo di Renzi la probabile assegnazione al Pd dei due nuovi «governatori ». Né Beppe Grillo, dal canto suo, potrà annettersi gli astenuti, quasi fossero una corrente esterna dei Cinque Stelle che va a colmare il calo di consensi del movimento. L’astensione stavolta colpisce insieme la politica e l’antipolitica e merita una riflessione distinta dalla propaganda.
Vedremo, innanzitutto, quanto un’affluenza al di sotto del 40 per cento peserà sui risultati definitivi e soprattutto sul rapporto fra le forze in campo. È chiaro che il Pd di Renzi subisce uno sciopero del voto da parte di chi non ha condiviso certe scelte di politica economica. La Cgil è forte e influente nella regione, così come è estesa più che altrove la rete del potere locale ancora legata al vecchio assetto del partito. Il braccio di ferro in corso sul piano nazionale non poteva non avere riflessi in Emilia Romagna, anche se Bonaccini era tutt’altro che un candidato di rottura e nessuno, peraltro, aveva previsto un simile tracollo.
Ma il «partito di Renzi» non è ancora maturo. È nato e tuttavia deve ancora crescere. La sfida a tutto campo ha incontrato i primi, seri ostacoli sul campo. In fondo era il primo confronto elettorale dopo l’ubriacatura delle europee ed è arrivato in un momento non facile per il governo sotto diversi profili. Che Renzi perdesse consensi nel vecchio mondo legato alla storia del Pci e del sindacato, era comprensibile. Ma il futuro del fenomeno politico intestato al presidente del Consiglio sarà deciso da un unico, determinante fattore: la capacità del giovane leader di conquistare altri voti (parecchi voti) in settori nuovi della società, in modo da compensare quelli perduti e allargare la base sociale di riferimento.
Non sappiamo per adesso se in Emilia Romagna questo travaso sia iniziato. Probabilmente non era l’occasione giusta per avviare l’esperimento. Si dovrà verificare se la Lega di Salvini ha tratto vantaggio dalla valanga astensionista o se anch’essa ne è stata condizionata. Lo stesso vale per il complesso del centrodestra e per i grillini. Quel che è certo, da oggi comincia una fase nuova del «renzismo». L’attacco frontale alla sinistra e al sindacato disorienta e non paga, anche se poi la vittoria elettorale, in termini strettamente numerici, magari arriva lo stesso. Se a destra cresce un personaggio, che può essere anche Salvini, ecco che l’espansione del Blair italiano puó incagliarsi.
Le conseguenze non sarebbero irrilevanti. A cominciare dal destino di quel «patto del Nazareno» che in fondo non convince oggi né i fautori né i detrattori.

La Stampa 24.11.14
Invidiosi o gufi
Quando la politica non tollera i diversi
L’eterna abitudine a isolare chi ha opinioni diverse
«Il vero gufo è Renzi»
di Mattia Feltri


C’è una parte di sinistra, dice il sindaco di Firenze, Dario Nardella, che «sembra assecondare l’Italia invidiosa». Dunque chi è perplesso o apertamente contrario alle politiche di governo non è che la pensi in altro modo, semplicemente è invidioso: termine contenuto nel vocabolario renziano fra gufi e rosiconi, come il premier è abituato a definire gli avversari. Se è un peccato, lo è doppio. Primo perché non è un linguaggio nuovo: erano «invidiosi», secondo Silvio Berlusconi, quelli che lo attaccavano nei giorni tumultuosi delle olgettine; erano «invidiosi», secondo Roberto Formigoni, quelli che prevedevano sconfitte del centrodestra in Lombardia; erano «invidiosi», secondo l’allora leader dei giovani di Forza Italia, Simone Baldelli, i coetanei di sinistra che deridevano una loro iniziativa (e da cui erano chiamavano «piazzisti», tanto per sottolineare la profondità dell’analisi). Sui gufi c’è da star qui mezza giornata. Erano «gufi» e pure «cornacchie» appollaiati sulla Quercia, secondo il fondatore di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini, quelli che si aspettavano la crisi del primo governo Berlusconi, 1994; erano «gufi» (e di nuovo «cornacchie»), sempre secondo Fini, quelli che nel 2004 davano in discesa il suo partito; erano «gufi», secondo Dario Franceschini, quelli che nel 2009 vedevano il Pd in difficoltà nel posizionamento europeo (coi socialisti o coi popolari?); erano «gufi» e «veterocomunisti», secondo Berlusconi, i contendenti di centrosinistra. I gufi da queste parti svolazzano da molto prima che li avvistasse Renzi, e ora che li ha avvistati parlano tutti di «gufi»: Beatrice Lorenzin, Nunzia De Girolamo, Luigi De Magistris.
È un peccato - secondo motivo - perché i rottamatori non hanno rottamato un metodo fastidioso, il metodo di attribuire a chi è in disaccordo secondi fini inconfessabili perché meschini o loschi. Il sostantivo più usato nel ventennio della Seconda repubblica è «malafede». Sono stati dichiarati in malafede Francesco Rutelli da Francesco Storace, l’intero Pds da Maurizio Gasparri, l’intera An da Luigi Manconi, l’intero centrodestra da Luciano Violante, Massimo D’Alema da Pier Ferdinando Casini, Walter Veltroni da Adolfo Urso, Umberto Bossi da Barbara Pollastrini, Giulio Tremonti da Vincenzo Visco, l’intera Forza Italia da tutta la Margherita, l’intero Ulivo da Renato Schifani, Piero Fassino da Giorgio Lainati, i fuoriusciti del M5S dai non fuoriusciti del M5S... Potremmo andare avanti fino all’ultima pagina di questo giornale, ma tocca segnalare che gufi, rosiconi, invidiosi e disonesti sono tutti figli dei coglioni - linguisticamente e psicologicamente parlando - con cui Berlusconi tratteggiò gli elettori di sinistra nella campagna elettorale del 2006. Se qualcuno non è convinto dalle tue ricette, è un coglione. E siccome la vita è un andirivieni da tergicristallo, a loro volta gli elettori di centrodestra erano irrimediabilmente «coglioni» (o, con le attenuanti, «fessi») secondo l’analisi di Dario Fo; Antonio Di Pietro, assecondando le sue attitudini, li iscrisse in un politico registro degli indagati in quanto «complici».
Un meraviglioso ribaltamento della logica spinge a escludere di essere un po’ tardo chi non capisce gli altri: sono gli altri a essere tardi. Ci abbiamo messo del nostro anche noi giornalisti, poiché negli anni si sono letti autorevoli commentatori parlare - per esempio - della «dabbenaggine» e della «complicità nella furbizia illegale» degli ostinati sostenitori di Forza Italia, che a sua volta - secondo esempio - prendeva i voti nella «zona grigia dell’illegalità fiscale» (per non parlare delle perpetue e reciproche accuse di servaggio fra star dei quotidiani). Gli evasori votano Berlusconi, in Sicilia chiunque vinca è perché lo ha votato la mafia, in Italia chiunque vada al governo è a ruota dei padroni e della finanza globale. Una così solida indisponibilità a prendere in considerazione le ragioni degli interlocutori non aveva bisogno dell’esplosivo sbarco sul pianeta della politica di Beppe Grillo (annunciato con un benaugurante vaffanculo). Lui ha riunito in una banda planetaria di farabutti, o in alternativa di imbecilli, chiunque non si inebri alle sue sentenze. A proposito, eccone una delle più rilassate: «Il vero gufo è Renzi».

L’unico effetto certo dell’Italicum: riapriremo i manicomi
Corriere 24.11.14
Un perfetto rompicapo, che disorienta gli elettori
di Michele Ainis


Sbarazzarsi del bicameralismo è giusto. Ed è giusto e urgente correggere la legge elettorale. L’Italicum, però, si applica a un solo ramo del Parlamento. E se la riforma costituzionale facesse cilecca, nascerebbe un sistema schizofrenico: Camera non rappresentativa e Senato ingovernabile.
Buone intenzioni, cattive applicazioni. È giusto sbarazzarsi del bicameralismo paritario? Sì, però cambiando la Costituzione, non la legge elettorale. Quest’ultima non può semplificare l’ iter legis , né sottrarre ai senatori il voto di fiducia sul governo. E non è altrettanto giusto correggere la legge elettorale? Di più: è urgente. Altrimenti voteremmo coi rimasugli del Porcellum, ossia con un proporzionale puro. Difatti i nostri geni si sono messi all’opera, regalandoci l’Italicum. In sintesi: premio di maggioranza e governo chiavi in mano, con o senza ballottaggio. Peccato che il marchingegno s’applichi alla Camera, non anche al Senato. Tanto laggiù non serve, dicono; aboliremo l’elettività dei senatori. E se la riforma del Senato fa cilecca? Rimarrà in circolo un sistema schizofrenico, come il Corriere segnalò a suo tempo («Il buon senso nel cestino», 4 marzo). Supermaggioritario di qua, superproporzionale di là. Una follia. Denunziata, adesso, anche dagli ultimi due presidenti della Consulta (Silvestri e Tesauro).
Secondo Roberto D’Alimonte ( Il Sole 24 Ore , 22 novembre), la denunzia «non sta in piedi». Ma è la sua difesa che ha problemi d’equilibrio. D’Alimonte osserva che la doppia elezione di Camera e Senato può sempre offrire risultati contrastanti, quale che sia la legge elettorale. Altro però è subirli, altro auspicarli, incentivarli, programmarli. Altro è decidere per un maggioritario usando ingredienti diversi (al Senato con l’unino-minale, alla Camera con il premio), altro è decidere per un maggiorzionale . Inoltre il premio di maggioranza sacrifica la rappresentatività del Parlamento, dunque si giustifica solo in cambio di maggiore governabilità. L’Italicum, viceversa, battezza un Senato ingovernabile, una Camera non rappresentativa. Con un solo sparo, uccide entrambi i valori costituzionali in gioco. E infine uccide pure il Parlamento, allevando due Dracula che si vampirizzano a vicenda.
C’è un esorcismo contro questo vampiro? In teoria, basterebbe estendere l’Italicum al Senato. Dove però non votano i più giovani, che magari alla Camera voteranno in massa per i 5 Stelle. Rischiando, così, d’andare al ballottaggio con due coppie di ballerine differenti.
Esempio: da un lato Grillo contro Renzi, dall’altro Renzi contro Berlusconi. Una follia al quadrato. Per scongiurarla, si può riesumare l’emendamento Lauricella: la legge elettorale entra in vigore dopo la riforma (ipotetica e futura) del Senato. Ma allora l’urgenza della legge verrebbe contraddetta dalla stessa legge. Una follia al cubo. Da qui l’unico effetto certo dell’Italicum: riapriremo i manicomi.

Corriere 23.11.14
Crisi e conflitti, senza il rispetto
L’età dell’odio che va fermata
di Aldo Cazzullo

qui

La Stampa 24.11.14
L’ufficio di presidenza della Camera
Marcia indietro sugli affitti per gli uffici dei deputati per salvare i dipendenti
di Carlo Bertini


Un no strisciante e generalizzato agli open space da centinaia di peones che non vogliono condividere con altri i loro uffici della camera e il placet dei grillini, concesso per salvare gli stipendi di 400 famiglie: sono gli ingredienti che consentiranno ai questori di Montecitorio di mettere sul piatto una proposta al costruttore Scarpellini per riprendere in affitto col 25% di sconto uno dei plessi di palazzo Marini che ospita decine di uffici e una mensa.
Decisione sofferta perché dopo aver sbandierato i benefici sul bilancio ottenuti con la rescissione di tutti i contratti, dopo aver rifiutato le proposte di rinegoziazione del costruttore su entrambi i Palazzi, l’ufficio di presidenza della camera ora torna alla carica. Anche per tacitare il pressing cui da settimane sono vittime i questori alle prese con un piano di ristrutturazione degli spazi che costringe gli onorevoli a restringersi in 5-6 metri quadri. Quindi si prova a trattare almeno su uno dei due, il cosiddetto «plesso 3», che la Camera vorrebbe riaffittare per 6 anni a canone ridotto, così come ridotto dovrebbe essere il costo dei servizi, previo impegno a salvare «i livelli occupazionali e retributivi dei lavoratori». Cioè quei 400 dipendenti che lavorano negli uffici di quei palazzi. «Abbiamo votato a favore del nuovo contratto a Scarpellini, ma solo per pagare lo stipendio ai dipendenti di Milano 90, vere vittime della Casta. Continuiamo la lotta contro gli sprechi, ma non contro i lavoratori», assicura il portavoce dei 5stelle Riccardo Fraccaro. «Nessuna marcia indietro, nessun ripensamento a Montecitorio sugli affitti dei Palazzi Marini», tiene a chiarire la Camera. «Dopo il recesso dai vecchi contratti deciso prima della pausa estiva, l’Ufficio di Presidenza ha dato mandato al Collegio dei Questori di acquisire informazioni circa l’orientamento all’eventuale stipula di un contratto per il più piccolo dei Palazzi, alla condizione di un canone sensibilmente inferiore, con la garanzia di poter recedere anticipatamente. E di salvaguardare l’occupazione». Solo quando saranno acquisite queste informazioni, la Camera deciderà se «eventualmente» sarà il caso di procedere.

La Stampa 24.11.14
Ue: su riforme e debito Italia sorvegliata speciale
Slitta a venerdì il via libera di Bruxelles alla manovra ma a marzo Roma rischia due procedure d’infrazione
di Marco Zatterin


Nei prossimi quattro mesi l’Italia «sarà monitorata molto attentamente», si sussurra a Palazzo Berlaymont, dove la Commissione Ue sta chiudendo il «Pacchetto Economia» e le pagelle per le Leggi di stabilità giunte in ottobre dalle capitali. Un verdetto positivo viene dato per scontato e venerdì (anziché domani come era atteso) Bruxelles non chiederà a Roma di correggere la manovra, cosa che andrebbe fatta se si leggessero i numeri senza tenere conto della recessione e degli effetti attesi dalle riforme. Il governo guadagna tempo, fanno notare le fonti, «ma non ha più possibilità di sbagliare un solo colpo».
Il momento aiuta, con la congiuntura continentale malata e le tensioni politiche che gonfiano l’ondata euroscettica. Spiega un diplomatico che «la Commissione non potrà puntare i piedi sino a che non sarà certa della reale dinamica dell’economia e di cosa gli Stati son davvero disposti a fare». È una fase in cui il presidente Juncker punta sulla flessibilità. Tuttavia, si concede, «i Trattati chiedono a Bruxelles di garantire il rispetto delle regole e la luna di miele non potrà essere eterna».
Più complicata ancora è la situazione della Francia: la manovra di Parigi deve essere ancora approvata dal collegio dei commissari che chiederà impegni molto concreti e gravosi a Parigi in cambio dell’ok ai conti. Tornando all’Italia è centrale che il governo non sottovaluti la verifica di marzo. Nell’opinione che riceveranno venerdì, Renzi e Padoan troveranno scritto che la situazione debitoria italiana è a rischio di insostenibilità e che il rapporto fra passivo storico e Pil deve calare. La Commissione ha preso per buono l’impegno riformista poiché è un modo per «riportare l’economia sulla retta via». Accolta la tesi secondo cui le riforme costano nel breve periodo e rendono nel medio. Obbligatorio il Parlamento le approvi e che l’attuazione segua a ruota.
«Si riconosce che le riforme possono stimolare la crescita, con effetti sul Pil e dunque sul rapporto col debito di cui questo è denominatore», è la linea. Pertanto si accetta che l’aumento della spesa allineato agli interventi strutturali possa essere compensato dal miglior tono congiunturale che può portare. Ma senza abbassare la guardia. Nel 2014, l’Italia avrebbe dovuto correggere il deficit (depurato da ciclo e una tantum) di uno 0,7% di Pil per centrare gli obiettivi previsti: non l’abbiamo fatto e ci hanno perdonato, ma il divario è lì. Per il 2015 si richiedeva un altro 0,7 e hanno accettato che si porti a casa lo 0,3. Quindi, nel 2016, lo stesso governo riconosce che servirebbe uno 0,9 per curare il debito come si deve.
Le esigenze di una disciplina fiscale sostenibile non potranno essere azzerate. Il che ci porta a marzo, quando la Commissione avrà le nuove stime. Senza le riforme ben lanciate, l’Italia potrebbe vedersi rinfacciare il debito (133,8% del Pil) e finire in infrazione. C’è poi il rischio procedura per il disequilibrio macroeconomico, meccanismo di allerta basato su 11 indicatori che vede già Roma sorvegliato speciale da aprile, causa scarsa competitività e conti claudicanti. Facile tirare le conclusioni: o il governo sarà inattaccabile o sarà stangato due volte, anche perché nel 2015 verrà meno l’alibi della recessione. Un altro sconto, a questo punto, è difficile da immaginare.

Repubblica 24.11.14
“Quel piano è solo un libro dei sogni”
di Eugenio Occorsio


ROMA . «Il piano Juncker temo che rappresenti solo un libro dei sogni, e che tutte le speranze che vi vengono riposte si tradurranno in amare disillusioni». A poche ore dall’annuncio del progetto- cardine della nuova Commissione (mercoledì al Parlamento europeo), Daniel Gros, già docente a Kiel e Francoforte e ex consulente della stessa Commissione, getta acqua sul fuoco delle aspettative. Lo fa pur restando convinto «della necessità di una politica espansiva», e non è poco per un economista tedesco. Ma le attente analisi dei meccanismi comunitari che conduce attualmente quale presidente del Center for european policy studies di Bruxelles, l’hanno indotto a un profondo scetticismo: «Qualsiasi eventuale accordo per scorporare gli investimenti del piano dai vincoli su deficit e debito, è puramente informale e verbale, e non reggerà».
È difficile insomma che si traduca in reali deroghe?
«Solo in un caso: se l’investimento lo fa una società privata in cui un ente pubblico prende una quota di minoranza finanziandosi con i fondi europei. Altrimenti non c’è scampo: i 200 milioni, mettiamo, di contributo a un aeroporto o una strada, finiranno in un modo o nell’altro nel deficit e nel debito di qualche amministrazione statale o locale. Ci sono perplessità anche sull’ipotesi che il piano si basi sui project bond come strumento operativo diretto, cioè i buoni paneuropei emessi da soggetti privati che si rifinanziano coi proventi dell’opera (pedaggi, biglietti d’ingresso) e che hanno avuto finora un ruolo piccolo e marginale. Si è detta scettica anche Moody’s perché questi titoli devono essere collocati su un mercato a forte concorrenza visto che c’è sovrabbondanza di bond di ogni tipo anche con buon rating ».
Quale dovrebbe essere il ruolo delle istituzioni finanziarie europee in tutta questa partita?
«Si fa grande affidamento sulla Bei, ma vorrei far notare che la Bei per statuto se vorrà partecipare all’iniziativa dovrà prima fare un aumento di capitale, a carico naturalmente dei Paesi azionisti, e quanto meno servirà molto tempo. A quanto mi risulta poi l’Europa non metterebbe sul piatto 300 miliardi ma solo 40, sperando con una leva calcolata chissà perché in “uno a sette”, sull’adesione dei privati all’iniziativa. Pura teoria, wishful thinking. Con una leva si può fare di tutto come diceva Archimede, ma su cosa si basano questi calcoli?» Ma al di là della Bei?
«Potrebbe essere un po’ più facile fare ricorso alla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo che ha sede a Londra, in cui la stessa Bei ha una partecipazione così come gli Stati dell’Ue, e agisce come banca privata a tutti gli effetti. I fatti però dimostrano che si sta facendo fatica a estendere la sua operatività al di là dell’est europeo per cui è nata. Ma poi, al fondo, siamo sicuri che gli investimenti infrastrutturali avrebbero questo grande ruolo di motore per la ripresa? In Paesi come l’Italia l’obiettivo primario della politica economica dovrebbe restare la ripresa dei consumi, come è stato per esempio in America».

Il Sole 24.11.14
Gli italiani e la lunga crisi
Senza reddito né lavoro: due milioni di famiglie rischiano il «default»
Sono due milioni le famiglie italiane a forte rischio di esclusione sociale: senza redditi da lavoro né pensioni, in quattro casi su dieci hanno almeno un figlio a carico (spesso Neet) e nel 14% sono composte da soli stranieri.
Sul territorio a soffrire di più è il Sud:in Sardegna, Calabria, Puglia e Sicilia oltre il 20% delle famiglie ha almeno un componente che ha perso il lavoro nel 2013.
Dalla fotografia scattata da Italia Lavoro sui dati Istat emerge, poi, che dal 2004 al 2013 è aumentato il peso delle persone sole (+42,2%) e dei genitori single con figli a carico, che hanno superato quota 2,1 milioni, in aumento del 25 per cento
di Francesca Barbieri


Sempre più frantumate, invecchiate e meno attive sul mercato del lavoro, le famiglie italiane escono con le “ossa rotte” dagli anni della crisi. La fotografia scattata da Italia Lavoro, rimescolando i microdati Istat, riflette una vera e propria tendenza alla frammentazione: la coppia con figli, pur restando in vetta, dal 2004 in poi ha visto diminuire il proprio peso, passando da un’incidenza del 42,5% sul totale dei nuclei al 36,7 per cento. In forte crescita risultano, invece, le persone sole, che sono passate da poco meno di 5,7 milioni a oltre otto (+42,2%), e i genitori single con figli a carico, che hanno superato quota 2,1 milioni, in aumento di un quarto rispetto al 2004.
Una polverizzazione che ha fatto crescere di più il numero delle famiglie (+8% dal 2006 al 2012) rispetto al trend della popolazione (+1,1%). «È lo specchio di un Paese - commenta Luigi Campiglio, docente di politica economica all’Università Cattolica di Milano - sempre più al femminile: le donne con una speranza di vita più lunga sono spesso vedove o sole in tarda età, oppure ne troviamo di mezza età senza figli che si occupano delle madri anziane, o ancora giovani separate dal marito che accudiscono da single i figli». Con effetti negativi in termini economici, «visto che le lavoratrici - aggiunge Campiglio - restano prevalenti nelle posizioni meno pagate e hanno scarse prospettive di carriera rispetto agli uomini».
La crisi del lavoro
Lo studio di Italia Lavoro non lascia grandi spazi all’ottimismo e tratteggia effetti pesanti anche sull’occupazione. L’anno scorso il 16% dei nuclei ha avuto almeno un componente colpito dalla perdita del posto per licenziamento, cessazione dell’attività dell’impresa o per scadenza del contratto a termine, contro il 13% di un anno prima. In valore assoluto si tratta di poco meno di quattro milioni di nuclei familiari, aumentati del 20% in un anno.
Restringendo l’obiettivo sul territorio, emerge che è il Sud a soffrire di più:?in Sardegna il 24% delle famiglie ha almeno un componente che ha perso il lavoro nel 2013, in Calabria il 23,3%, in Puglia il 22% e in Sicilia il 21% (si veda l’infografica a lato). «Durante la crisi - sottolinea Daniela Del Boca, docente di economia politica all’Università di Torino - si aggrava il fenomeno di “polarizzazione” tra le famiglie in cui si lavora in due e quelle in cui nessuno è “attivo”, già in atto negli anni precedenti e non solo in Italia. Questa situazione mette a rischio di povertà un crescente numero di nuclei, in primis quelli con un unico genitore, ma nel nostro Paese la situazione è aggravata dall’invecchiamento della popolazione che in altri Stati è meno accentuata, dato il minor declino della fertilità». Oggi, infatti, le famiglie composte da over 65 soli sono circa 4 milioni.
Le famiglie più a rischio
Dalle elaborazioni di Italia Lavoro emerge poi che quasi due milioni di famiglie sono a forte rischio di esclusione sociale:?non hanno redditi da lavoro né da pensione, né componenti al proprio interno con oltre 65 anni (che potrebbero beneficiare di sussidi sociali). Si tratta di nuclei che nel 58% dei casi hanno subìto almeno una perdita di lavoro nel giro di un anno, che hanno un figlio a carico (41%), con almeno un Neet (21%) e nel 14% dei casi sono composte da soli stranieri.
Il peso dei Neet
E se da un lato sempre più madri e padri perdono il lavoro, dall’altro sempre più figli faticano a uscire di casa. Nel 2013 su un totale di 25 milioni di famiglie l’8,3% ha almeno un Neet (giovane al di sotto dei 30 anni che non studia e non lavora) all’interno: si tratta di 2,1 milioni di unità, che rappresentano il 31,4% di tutte le famiglie con un componente tra i 15 e i 29 anni. E in 280mila ce n’è più di uno.
Nella maggior parte dei casi si tratta di coppie con figli (1,5 milioni), che corrispondono a 1,8 milioni di Neet. Tutti figli? Non proprio, visto che dal report si osserva che oltre 320mila rivestono il ruolo di genitore. Tra questi ultimi, «c’è una maggioranza di individui - spiegano da Italia Lavoro - con coniuge occupato, prevalentemente con qualifica di lavoro manuale, ma anche un buon quarto che non può contare su alcun sostegno economico derivante dal lavoro».
Con riferimento ai figli Neet, la metà ha un solo genitore occupato - per lo più con qualifica medio-bassa -, il 23,5% ha entrambi i genitori inseriti al lavoro, ma ben tre su dieci(423mila) hanno mamma e papà privi di un impiego.
«Una condizione di grave criticità - conclude il sociologo Egidio Riva - frutto della disillusione di fronte alle aspettative lavorative dei giovani che vengono puntualmente tradite. Il lavoro è una risorsa sempre più scarsa e non solo non lo si ricerca più, ma si rinuncia anche ad accedere a livelli di istruzione più elevati, come conferma il calo di matricole all’università».

International Business Times 5.11.14
Il taglio delle tasse? Una frottola, lo ammette anche Padoan

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Repubblica 24.11.14
I costi dell’Europa non politica
di Jean Paul Fitoussi


FISCAL compact, six paks, two paks, semestre europeo: queste espressioni disegnano i contorni della politica europea.
CON quei vincoli auto-imposti dai governi di ieri, e subiti da quelli di oggi. Questo stato di fatto e di diritto pone due interrogativi: uno politico, l’altro economico. Il primo attiene alla strana democrazia che caratterizza i Paesi dell’Eurozona, i cui cittadini conservano il diritto di cambiare governo, ma non quello di cambiare politica. In altri termini, una democrazia di forma, ma non di sostanza.
Nasce da qui la questione economica. Se la politica attuata secondo i termini del Trattato avesse avuto esiti felici per l’occupazione e il tenore di vita, sarebbe razionale continuare sulla stessa strada; ma se al contrario portasse l’economia europea sull’orlo dell’abisso, sarebbe almeno il caso di interrogarsi sulla sua fondatezza. Certo, si potrebbe obiettare che questa politica non è finalizzata al benessere delle popolazioni, bensì alla riduzione del debito. Ma persino in rapporto a quest’obiettivo i risultati sono fallimentari. Non solo l’inflazione resta al di sotto dell’obiettivo indicato dalla Banca centrale europea, ma la deflazione che già colpisce alcuni Paesi sta minacciando l’Eurozona nel suo complesso.
I governi che comprendono l’aritmetica (il rapporto tra debito pubblico, crescita e inflazione) si sono «timidamente» azzardati a chiedere che questo circolo vizioso sia interrotto; ma sono stati subito richiamati all’ordine.
Come si spiega quest’ostinazione delle istituzioni europee? Siamo quasi alla metafisica: «I vostri sforzi non sono ancora sufficienti per raccoglierne i benefici: perseverate, e sarete ricompensati ». Ma le promesse di un futuro radioso hanno fatto cilecca. Non esiste alcuna teoria, né alcune prova empirica a indicare che dall’austerità possa emergere un mondo migliore. L’Europa è ammalata della dottrina da lei stessa iscritta nei suoi Trattati, in nome della quale va perseguendo a qualunque costo — sia economico che sociale — il Graal dell’equilibrio di bilancio.
Eppure una politica del genere non ha alcuna prospettiva di successo. E ciò per i motivi che ho esposto nel Teorema del lampione ( Einaudi). Ai governi non rimane più alcun margine di manovra, tranne che per l’attuazione di riforme strutturali, il cui risultato «involontario» potrebbe essere la deflazione. Privati degli strumenti del potere — la politica monetaria, di bilancio, di cambio e la politica industriale — non hanno oramai altra risorsa che quella di portare avanti una politica di competitività a breve termine, il cui strumento privilegiato è la compressione dei costi salariali. Per raggiungere quest’obiettivo possono disporre di alcune leve: sovvenzioni alle imprese sotto forma di riduzione degli oneri sociali, liberalizzazione del mercato del lavoro (o meglio, se vogliamo dir pane al pane, minori tutele per i lavoratori) e tagli alla spesa sociale della nazione.
Ma se un Paese guadagna in competitività, vuol dire che altri l’hanno persa.
Eppure esiste un’altra strategia, assai meno rischiosa, dato che non può in nessun caso portare alla deflazione; un modo più cooperativo per comprimere il costo unitario del lavoro e migliorare così i livelli di competitività, non attraverso la riduzione dei salari, ma accrescendo la produttività del lavoro. Il suo strumento privilegiato: gli investimenti, sia privati che pubblici; i quali ultimi portano infatti a migliorare l’efficienza del settore privato (basti pensare alle reti dei trasporti e delle comunicazioni). Ma questa strategia è preclusa alla maggior parte dei Paesi dell’Eurozona dai vincoli di bilancio.
L’aspetto più sconvolgente di queste politiche europee, irragionevoli sul piano economico, è la loro durezza sul quello sociale. Le tutele vengono ridotte nel momento stesso in cui la società ha più bisogno di essere protetta. Il modello sociale europeo, concepito in un periodo di piena occupazione viene progressivamente smantellato nel momento del maggior bisogno. In altri termini: quando c’è lavoro per tutti si promettono alte indennità ai disoccupati, per poi ridurle, col pretesto di una buona gestione finanziaria, via via che la disoccupazione aumenta.
Meglio sarebbe, per uscire dal binario morto su cui ci troviamo, riconoscere che l’architettura europea è fragile in ragione dei suoi vizi di costruzione, e tentare di porvi rimedio. Il principale di questi vizi sta nell’aver concepito l’Unione politica e monetaria come uno spazio ove i debiti nazionali sono sovrani, mentre la moneta non ha sovrano. Non si tratta di una formula. Gli stati membri dell’Eurozona emettono prestiti in una valuta sulla quale non hanno alcun controllo. In questo modo si lascia libero corso agli umori e alle profezie auto-realizzatrici dei mercati. Se questi ultimi diffidano — anche se a torto — di un dato Paese, i capitali si affretteranno a lasciarlo, creando al suo interno una crisi di liquidità (diminuzione della sua massa monetaria). La quale però non suscita alcun meccanismo di correzione (una svalutazione) e si trasforma di conseguenza in una crisi di solvibilità. A quel punto, lo Stato potrà ottenere prestiti solo a tassi notevolmente più alti, dato che non può costringere la propria banca centrale e sottoscrivere i suoi titoli. Ma c’è di peggio: questa minaccia sulla solvibilità di uno Stato mette in pericolo il suo sistema bancario, se i titoli pubblici che detiene si svalutano e i depositi bancari diminuiscono per effetto della riduzione della massa monetaria. E si vieta alla Banca centrale europea, pure consapevole di questo problema, di porvi rimedio.
Le soluzioni sono facili da enunciare, ma politicamente difficili da attuare. La più logica sarebbe quella di chiudere lo spazio speculativo nel quale i mercati si stanno ingolfando; o in altri termini, creare nell’Eurozona un titolo di debito unico, e al tempo stesso assegnare un sovrano alla moneta. Fu indubbiamente la creazione della moneta unica a porre fine alla speculazione sui mercati di cambio, e quindi allo spread dei tassi d’interesse. Ma piuttosto che rischiare una maggior integrazione, i Paesi dell’Eurozona hanno preferito l’austerità di bilancio.
Quella che ho raccontato è una storia triste. La storia di un deficit di democrazia crescente, della distruzione di un capitale umano e sociale, di un deprezzamento del futuro. Eppure l’Europa è ricca, per le sue risorse, la sua qualità di vita, il suo capitale di conoscenze, la competenza delle sue donne e dei suoi uomini. Una politica diversa avrebbe potuto rivelare queste ricchezze. Per quanto tempo pagheremo ancora i costi economici e sociali dell’assenza di un’Europa politica? ( Traduzione di Elisabetta Horvat)

La Stampa 24.11.14
Uccisa una donna ogni due giorni
Domani la giornata internazionale contro le violenze. L’investigatrice: “Mai arrendersi, bisogna denunciare”
di Grazia Longo


Diciamocelo, «femminicidio» è un neologismo orribile. Ma oltre a rendere perfettamente l’idea di un delitto di genere, nei confronti cioè della donna in quanto tale, aderisce altrettanto precisamente all’orrore che nasconde. Un record drammatico, come dimostra la ricerca Eures: nel 2013 nel nostro Paese sono state uccise 179 donne, una ogni due giorni. Ben il 14% in più del 2012 (157 vittime), e soprattutto con l’incremento del 16,2% in ambito familiare.
Un fenomeno in crescita in tutto il mondo e che rappresenta la più profonda discesa agli inferi di maltrattamenti e stalking. Un’emergenza così grave da essere ricordata, domani, con la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Perché gli uomini che odiano le donne abitano in tutti gli angoli del mondo: i dati Lancet, Science e Who rivelano che il 39% degli omicidi e il 30% delle violenze fisiche e sessuali, a livello mondiale, sono commessi dal partner. Percentuali che raddoppiano nel Sud Est asiatico.
E in Italia, lo scorso anno, 7 donne su 10 hanno perso la vita per mano di chi avrebbe semmai dovuto proteggerle - marito, fidanzato, convivente - ma che non ha retto alla fine di una relazione, a un rifiuto, al desiderio della donna di affermare la propria personalità e indipendenza. O addirittura perché diventano un peso per chi le ha tradite. Sono 55, pari al 45,1%, quelle uccisi da mariti o partner, cui seguono gli ex coniugi/ex fidanzati (18 vittime, pari al 14,8%) ed i partner non conviventi (8 vittime, pari al 6,6%). Una donna ogni due giorni è davvero tanto, troppo.
E solo alcune conquistano le prime pagine dei giornali o ampi spazi nel talk show televisivi. Eppure dietro a casi come quelli recenti di Roberta Ragusa e Daniela Ceste (per le quali al momento sono stati indagati i rispettivi mariti, ma non esistono colpevoli) c’è un esercito di volti e di drammi che finiscono presto nell’ombra. Come Daniela Puddu, 37 anni, di Iglesias, lanciata dalla finestra perché si era «permessa» di chattare via Facebook con il suo ex. Oppure Alessandra Agostinelli, 34 anni di Frosinone, assassinata dal marito geloso, o Fabiana Luzzi, 16 anni, Corigliano, «colpevole» di negare un rapporto sessuale al fidanzato. E ancora, Maria Ton, romena di 36 anni e Giuseppa Corvi, originaria di Terni, entrambe uccise dai mariti possessivi : la prima a colpi di piccone, l’altra a martellate. Solo l’8 marzo, giornata dedicata alle donne, tra mimose, convegni e pizze tra amiche, in tre sono state ammazzate da chi aveva giurato loro amore eterno. Con un’inversione geografica rispetto al 2012: ora si muore di più al Sud.
Ma non bisogna arrendersi. Bisogna denunciare: affidarsi alle forze dell’ordine che collaborano con i centri anti-violenza e con le scuole. Sì, perché occorre una rivoluzione culturale che educhi i ragazzi a non considerare le ragazze un oggetto, una proprietà. «Ma allo stesso occorre far maturare nelle ragazze quella consapevolezza, autostima e forza per difendersi da chi può far loro del male» spiega Francesca Lauria, tenente dei carabinieri del Racis, che dirige l’unità sezione atti persecutori. Un centro nazionale che si avvale di ufficiali di polizia giudiziaria e psicologi, con diramazioni capillari.
«Abbiamo un rappresentante in ogni comando provinciale - spiega il tenente Lauria - che collabora con i colleghi locali. Ma per i casi più gravi interveniamo con rinforzi da Roma, anche per i figli delle donne che subiscono le ossessioni maschili. Non dimentichiamo infatti che bambini sono vittime indirette, spettatori innocenti e inermi che vanno tutelati tanto quanto le loro mamme».

La Stampa 24.11.14
Richiami sessuali nella pubblicità
L’uso malato del corpo femminile
La ricerca di Art Directors Club: pose ed espressioni sono esplicite
di Flavia Amabile


Due corpi avvinghiati. La donna abbraccia l’uomo, lui ha la schiena e la testa rivolti verso il basso, lei ha una mano sul suo collo, l’altra non si sa bene dove. Entrambi hanno poco o nulla addosso. Siamo a via del Corso a Roma, pubblicità di gioielli.
Due donne con il corpo teso e seminudo. Una ha le mani molto vicine alle zone intime, l’altra le appoggia ai lati della testa come potrebbe accadere in alcuni momenti di particolare intensità. Siamo a pochi passi da piazza di Spagna a Roma. Pubblicità di una marca di costumi anche se è fine novembre.
Ci sono corpi da shopping ad ogni angolo di strada in tutt’Italia. Inizia la stagione natalizia e che cosa c’è di meglio di un corpo di donna per attirare verso le vetrine dei negozi? E quindi ecco un’orgia di fianchi, seni, glutei, scollature profondissime persino a Roma dove da agosto il sindaco Ignazio Marino avrebbe bandito dai muri della città le pubblicità che usano il corpo delle donne. Forse sui muri se ne vedono di meno ma vetrine, cartelloni e poster ne sono pieni per attirare acquirenti verso oggetti che spesso non hanno alcun bisogno di un corpo nudo o seminudo per essere pubblicizzati. Scarpe, occhiali, profumi, gioielli, vestiti, prodotti farmaceutici e persino cibo o telefoni usano corpi che diventano modelli di bellezza, il mito a cui ispirarsi come era accaduto per le statue greche duemila e oltre anni fa. Con una differenza profonda: il mito di oggi vuole soprattutto provocare, eccitare, suscitare istinti sessuali.
Lo conferma un’indagine realizzata da Art Directors Club Italiano con la collaborazione di Università Alma Mater di Bologna e della Nielsen. Nelle pubblicità prese in considerazione le donne sessualmente disponibili sono il 12,9%, gli uomini l’1,7%, 22 volte meno frequenti. E per donna «sessualmente disponibile» in pubblicità gli autori della ricerca intendono quelle che attraverso le espressioni del volto e il linguaggio del corpo esprimono la disponibilità a un rapporto sessuale. In alcuni casi la disponibilità è suggerita anche dalle ambiguità tra testo e immagine.
E non è tutto. Sui muri e nelle vetrine d’Italia è più facile imbattersi in una donna sul ciglio dell’orgasmo che coinvolta da uno sport (le sportive sono l’1,40%, le preorgasmiche l’1,94%, 42 volte più frequenti, spiega Massimo Guastini, presidente dell’Art Directors Club. Per individuare la donna «preorgasmica» si è fatto riferimento ad uno studio pubblicato sul Journal of Nonverbal Behavior e si è usato un Sistema di Codifica delle Espressioni Facciali.
Ico Gasparri, fotografo, è stato il primo a denunciare quello che stava accadendo, ha iniziato nel 1990 a documentare l’uso dei corpi di donna nelle pubblicità stradali. Il suo archivio comprende oltre 3500 scatti e circa 500 campagne pubblicitarie. Continua a scattare con uno sguardo sempre più sconfortato: «Le immagini si sono fatte sempre più esplicite, volgari, sfacciate». Ico Gasparri continua a fotografare le pubblicità. L’ultima immagine scattata ieri sera è una campagna della Regione Lombardia per informare dell’apertura serale dei laboratori di analisi. «Persino in una campagna istituzionale come questa si è scelto di tagliare il volto, eliminando gli occhi, una tecnica usata dalla pubblicità sessista, profondamente degradante per le donne».

La Stampa 24.11.14
L’angoscia di amare la vittima di uno stalker
La dura vita dei nuovi compagni: “Siamo perseguitati”
di Grazia Longo


L’escalation di sofferenza, frustrazione, paura di uno stalker non coinvolge solo la donna e i suoi figli (costretti spesso ad assistere alla violenza), ma anche il nuovo partner.
I centri di ascolto anti-violenza ricevono sempre più richieste da parte di nuovi fidanzati, conviventi e mariti dilaniati dall’impossibilità di gestire le vendette dell’ex.
E molte volte per interrompere questa persecuzione fisica e psicologica non c’è altra strada che quelle della denuncia.
Francesca Zanasi, avvocato da tempo sensibile al problema, affrontato anche in diversi libri (l’ultimo dall’eloquente titolo «L’odioso reato di stalking») ha raccolto più di una testimonianza da parte di uomini «che amano le donne e proprio per questo motivo vengono minacciati e picchiati da coloro che le odiano». I nuovi partner sono dunque l’ultimo anello di una catena che non accenna a spezzarsi e che inficia profondamente una relazione sentimentale sicuramente più complessa delle altre perché sorta sulle macerie di una vecchia storia.
Il nuovo volto dello stalking rivela dunque un disagio declinato tutto al maschile. «Io resisto alle ruote bucate e alle molestie telefoniche perché sono molto innamorato della mia fidanzata - racconta Andrea, 32 anni, impiegato - ma non nascondo la difficoltà, a vivere una storia in queste condizioni. Paura? Per ora non tanta, perché a parte le ruote dell’auto tagliate non ho subito danni. Più che altro temo per la mia ragazza che già ha faticato a iniziare una nuova relazione, per colpa di tutto quello che aveva passato con l’ex marito, e non vorrei che decidesse si interrompere il rapporto. Ma io glielo dico sempre: “Non dobbiamo mollare: non solo perché ci amiamo, ma perché non dobbiamo darla vinta a quel farabutto”».
Non tutti, però, hanno l’ottimismo e l’aplomb di Andrea. Soprattutto quando l’acrimonia dello stalker si acuisce per le migliori condizioni economiche e professionali di colui che viene considerato ancora un rivale in amore.
Simone, ad esempio, 41 anni, manager, non nasconde, «il brivido che mi percorre la schiena ogni volta che esco di casa. L’ex convivente della mia compagna non solo mi ha rigato tutta la carrozzeria dell’auto, ma ha anche bruciato il campanello della mia porta e soprattutto si accanisce con lettere e telefonate oscene. Ce l’ha con me perché guadagno più di lui ed è convinto che questo sia il motivo perché la mia donna lo ha lasciato. Peccato che neppure ci conoscessimo quando lui la gonfiava di botte fino a spedirla all’ospedale in ben due occasioni».
Ma il «tarlo dell’abbandono», s’impenna all’inverosimile, nei casi di un nuovo partner della ex, quando ci sono dei figli di mezzo. Francesco, 51 anni, infermiere: «Mi sto per sposare con una donna che ha avuto il coraggio di denunciare l’ex marito, il quale la umiliava e degradava anche di fronte ai figli. E adesso lui fa di nuovo il pazzo: ci intimidisce provando a metterci i figli contro. Meno male che i ragazzini ricordano bene le violenze patite dalla loro madre. Ma è comunque uno stress. Contro questi uomini che non si rassegnano e continuano a perseguitare occorrono servizi ad hoc».
E dalla polizia arriva la proposta di un «trattamento obbligatorio di recupero, tipo quello per i tossicodipendenti». Lo sottolinea Maria Carla Bocchino, responsabile della divisione analisi violenza domestica: «Occorrono comunità di accoglienza che si basino sull’auto aiuto: chi è riuscito a superare i suoi problemi di violenza aiuta chi ne è ancora vittima. Per ora la legge prevede una cura su base volontaria, ma il legislatore avrebbe fatto bene a deciderne l’ obbligatorietà».

Repubblica 24.11.14
Cleveland. La caccia al nero in strada ultimo incubo d’America
Gioca con un’arma finta ucciso da un poliziotto
Il dodicenne non aveva fatto nulla, come Michael Brown a Ferguson o Akai Gurley a New York ma la paura provoca la morte di 600 giovani di colore l’anno
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON CI SONO ora altre due candeline nel vento, riparate dentro vasetti di vetro col Sacro Cuore di Gesù, sotto la panchina del parco di Cleveland dove un altro ragazzo nero, colpevole di aver brandito una pistola giocattolo, è stato colpito dalla polizia ed è morto ieri. Due candeline che si uniscono a quella Via Crucis di lumini coasttocoast accesi per ricordare esecuzioni di innocenti e che illuminano il calvario dell’essere neri, da Ferguson nel Missouri, a Brooklyn, a Cleveland, a Oakland in California, alla Florida, a New York. Ovunque l’essere scuri di pelle e giovani rappresenta una possibile sentenza capitale senza giudice, giuria, appello. E senza reati.
La morte del dodicenne a Cleveland, raggiunto da due colpi di pistola dall’agente di pattuglia chiamato da un passante nel panico, è soltanto un’altra storia esemplare di quella che, agli occhi della comunità afroamericana, appare omai una guerra civile, una micro-pulizia etnica lanciata dagli uomini in “bianco e nero”, la polizia, contro i propri figli in nero senza bianco. Basta riascoltare la conversazione fra un anonimo seduto su una panchina del parco e la centralinista del 911, l’ormai famoso numero nazionale per le emergenze, per capire.
«Sono seduto su una panchina del parco Cudell — dice la voce roca di un uomo anziano — e vedo un ragazzo con una grossa rivoltella».
911: «È bianco o nero?».
«Qui ce le stiamo facendo tutti addosso, madam, ci sono madri e anziani come me, non si capisce che cosa voglia fare».
«Credo, ma non lo so, che sia una pistola finta, non vedo il tappino arancione sul buco della canna. È vestito di grigio, con una giacca mimetica ». 911, e tre: «È bianco o nero?».
«È nero», risponde finalmente, con un sussurro, come se quell’uomo sapesse di avere firmato, con la cognizione del colore, una condanna a morte. E stacca la comunicazione.
Pochi minuti più tardi, una volante del Cleveland Police Department raggiunge il parco. Un agente avvicina il ragazzo e gli intima di alzare le mani, il ragazzo ride e estrae l’arma dalla cintola. Partono i due colpi al petto e allo stomaco che lo uccideranno dopo cinque giorni di agonia. L’arma era in effetti un giocattolo, una perfetta riproduzione alla quale lui aveva tolto il tappino arancione.
Ogni esecuzione di strada, o dentro un falansterio oscuro come il “Project” di Brooklyn dove venerdì scorso è stato seccato con un colpo al petto un altro giovane afro che era andato a trovare la ragazza e la loro bambina, ha la propria storia, la propria dinamica, ma ha la stessa invariabile matrice. Se quel ragazzino di Cleveland, a 12 anni neppure un teenager, ha segnato la propria storia “giocando” al duro con la rivoltella giocattolo e dando agli agenti di Cleveland la giustificazione per sparare, niente aveva fatto Michael Brown a Ferguson, per meritarsi l’esecuzione. Nessuna, se non vendere sigarette di contrabbando, era la colpa di Eric Garner, un uomo adulto, soffocato al collo dagli agenti che lo arrestavano a New York, mentre tentava di gracchiare: «Non respiro, dio mio, non respiro».
La matrice è quell’arma a doppia canna che ogni anno uccide più neri americani sotto i colpi della polizia di quanti ne metta a morte il boia con la sua siringa di stato, più di 600 all’anno dal 2000 a oggi, secondo i dati ufficiali del governo federale raccolti da Pro Publica, un centro di ricerca indipendente. È quell’esplosivo che rende un teenager nero 24 volte più esposto a essere abbattuto rispetto a un coetaneo bianco e si chiama paura, versione semilegalizzata del razzismo. È quella, prima della miseria, dall’abbandono di luoghi come il “Project”, il casermone di Brooklyn, dove sarebbe bastato un tubo al neon da 10 dollari sul pianerottolo del settimo piano per salvare la vita di Akai Gurley, colpito nel panico della penombra da un agente. Un ragazzo nero sorpreso a spacciare droga o arrestato per furto o rapina ha 30 volte più probabilità di finire in carcere di quante ne abbia un bianco colpevole degli stessi reati. Dunque le carceri traboccano di detenuti con la pelle scura e questa appare come la conferma che “loro” sono più delinquenti di noi. La stessa dinamica distorta della xenofobia italiana verso “quei criminali” immigrati. È il pregiudizio di colpevolezza, o di intenzioni criminali, che accompagna ogni giovane uomo di colore, che fa fermare auto di lusso sulle autostrade se guidate da neri, nel sospetto che siano macchine rubate. È l’inconscio “profiling”, la definizione pregiudiziale di criminalità che la legge proibisce, ma che nel segreto delle proprie paure non soltanto gli agenti di polizia, ma i cittadini stessi coltivano. Se a questo “pregiudizio di colpa” si aggiunge la ragionevole certezza che chiunque, negli Usa, maschio o femmina, bianco, nero, bruno possa nascondere un’arma da fuoco nel cruscotto dell’auto, sotto il giubbotto, nel calzoni, il “prima spara e poi chiedi” diventa la normalità.
Nella notte delle paure tutti quei ragazzi neri con l’aria un po’ strafottente, con l’andatura un po’ da bulli, con le catene e i ciondoli e i tatuaggi e gli amuleti contro le loro paure ben più reali delle nostre, sono bersagli potenziali, al massimo «tragici incidenti» come hanno commentato il sindaco di New York De Blasio, il capo della polizia di Cleveland Ed Tomba, il sindaco di Ferguson, la cittadina del Missouri in animazione sospesa nell’attesa della sentenza del Gran Giurì sul caso di Michael Brown. Uno che non era povero, non era una sagoma inquietante nella penombra di un casermone, non aveva precedenti penali, non aveva mai neppure marinato la scuola e stava per entrare all’Università. Ma era un giovanotto nero caduto nella Via Crucis delle candeline.

Repubblica 24.11.14
Pedofili a Westminster “Così agivano gli orchi protetti dai servizi segreti”
Abusi e violenze negli anni ’80, le nuove rivelazioni “L’Intelligence insabbiò la verità sui politici coinvolti”
di Enrico Franceschini


LONDRA IN AUTUNNO inoltrato la sera scende precoce a queste latitudini, avvolgendo le rive del Tamigi in una fitta oscurità già alle quattro del pomeriggio. Sulla città cala un’atmosfera tenebrosa, da romanzo gotico, clima con cui del resto l’Inghilterra ha dimestichezza: da Jack lo Squartatore al dottor Jekyll e mister Hyde, l’ horror story sembra scritta nel suo dna. Ma forse gli inglesi non avevano mai sentito, neanche nei romanzi di Robert Louis Stevenson, una storia spaventosa come quella raccontata negli ultimi giorni dalla stampa locale. Una rete di pedofili a cui appartenevano deputati, ministri, generali delle forze armate e potenti uomini d’affari avrebbe stuprato per anni decine di ragazzini in una lussuosa magione vicino al parlamento di Westminster, uccidendo poi, a seconda delle versioni, una, tre o addirittura diciassette delle giovani vittime, verosimilmente per chiuderne per sempre la bocca. «È solo la punta dell’iceberg », ammette il ministro degli Interni Theresa May. E adesso sul banco degli imputati salgono perfino i servizi segreti britannici, accusati di avere dapprima messo a tacere i giornali che volevano indagare sulla torbida vicenda, quindi di avere fatto scomparire ogni prova dai propri archivi.
I fatti risalgono agli anni ‘80: ci sono dunque voluti tre decenni per farli emergere, ritardo che induce a credere a una qualche forma di occultamento. C’è più di un sospetto che gli orchi di Londra godessero di protezioni al massimo livello. Nel fine settimana due stimati giornalisti si sono fatti avanti sostenendo di avere ricevuto un monito da Mi6 e Mi5, lo spionaggio e il controspionaggio di Sua Maestà, che pubblicare notizie sul presunto “Westminster pedophile ring”, la banda dei pedofili di Westminster — così la definisce ora la stampa inglese — avrebbe costituito un danno alla sicurezza nazionale.
Avvertimenti di questo genere vengono emessi dall’intelligence britannica in rarissime occasioni: da mezza dozzina a una dozzina di ingiunzioni all’anno. In gergo si chiamano “D notices”. Trent’anni or sono, quando era direttore del Bury Messenger, un apprezzato giornale locale, Don Hale ricevette una soffiata da una ex ministro laburista, Barbara Castle, secondo cui a Elm Guest House, un edificio vicino al parlamento di Westminster dove molti deputati avevano un appartamento, si svolgevano festini di pedofili vip in cui erano coinvolti dei giovani fatti arrivare da un orfanatrofio della capitale.
Il direttore si ritrovò fra le mani un faldone di accuse. Voleva farci un grosso articolo di denuncia. Ma il giorno seguente gli piombarono in redazione quindici agenti in borghese e due in uniforme, recapitandogli per l’appunto una “D notice”, l’avvertimento che mettere in pagina il pezzo equivaleva a mettere a rischio o tradire la patria. Così non ne fece niente. Hilton Times, direttore di un altro piccolo giornale, il Sussex Comet, racconta di avere ricevuto una minaccia analoga: voleva mandare un cronista a indagare sulle presunte orge di deputati a Elm Guest House, ma ricevette un monito dai servizi segreti, gli fu detto di lasciar perdere e obbedì.
Erano altri tempi: pre-Wikileaks, pre-Datagate (sebbene post-Watergate). E chissà se avvertimenti simili arrivarono anche a giornali londinesi ben più importanti delle due gazzette di provincia. Ma adesso che tutta la stampa nazionale si è buttata a capofitto nella storia della “banda dei pedofili di Westminster”, quei moniti, incredibilmente, non si trovano più. Negli archivi dei servizi segreti, riportava ieri l’ Observer, le “D notices” del 1984 sono scomparse o perlomeno risultano incomplete. «La corrispondenza di routine viene distrutta, se non appare significativa dal punto di vista storico», ha spiegato al giornale domenicale un portavoce dell’intelligence. «Distrutta?», si indigna Simon Danczuk, deputato del Labour. «E perché mai? I nostri servizi segreti emettono un pugno di moniti di questo genere ogni anno. Da dove viene l’urgente necessità di distruggerli? Queste sono serie domande che richiedono una risposta urgente».
Un altro deputato laburista, Tom Watson, ha chiesto al primo ministro David Cameron di formare una task-force per condurre un’inchiesta a tutto campo su pedofilia e insabbiamenti. Già, perché non sarebbe il primo caso di prove occultate: in luglio è saltato fuori che un dossier su 114 casi di abusi sessuali collegati a parlamentari, anche quello risalente agli anni ‘80, è misteriosamente sparito dagli archivi di Scotland Yard.
L’epoca è la stessa del vaso di pandora di nefandezze emerso tra presentatori, attori e dj della Bbc , che ha recentemente portato a processi, condanne e profondo sdegno da parte dell’opinione pubblica britannica: volti che entravano benigni nelle case di tutti, attraverso la televisione, si sono rivelati nel privato dei mostri maligni, che abusavano di bambini, ragazze, disabili negli ospedali, orfanelli e in almeno un caso di macabra perversione, quello del dj Jimmy Savile, addirittura di cadaveri all’obitorio. Dentro alla Bbc , sia pure con grave ritardo, è stata fatta giustizia. Si vedrà se è possibile farla anche dentro al mondo della politica.
Così come è legittimo domandarsi quali siano le cause di questo male ignobile, cosi diffuso, almeno in passato, nella società britannica: frustrazioni sessuali conseguenza del puritanesimo vittoriano? Le boarding school, le scuole private maschili, dove gli alunni vivono a stretto contatto con gli insegnanti, in cui fino a non molto tempo venivano impartite punizioni corporali (frustrate sul sedere con rami di betulla, a calzoni abbassati: succedeva a Eton) davanti a tutta la classe? Le ombre tenebrose che si allungano sul Tamigi, di fronte alle guglie del palazzo di Westminster, non sono soltanto quelle della sera che scende precoce sulla Londra autunnale.

Repubblica 24.11.14
La cultura dei College dove Alice vive nel paese degli incubi
La pedofilia è una malattia particolarmente britannica?
di John Lloyd


LA PEDOFILIA è una malattia particolarmente britannica?
Di fronte a questa domanda, si tirano sempre fuori due argomenti: Lewis Carroll e le scuole pubbliche.
Lewis Carroll, nella vita reale il reverendo Charles Lutwidge Dodgson, diacono della Chiesa anglicana, scrisse uno dei più famosi libri per bambini del mondo, un’opera assurta al Parnaso letterario con Pinocchio e le fiabe dei fratelli Grimm — ovvero, “Alice nel paese delle meraviglie”. Fu Alice Liddell, la giovane e bella figlia di un amico, a ispirargli il libro. Dodgson, che era un provetto fotografo dilettante, fece molte fotografie di Alice in abiti diversi — e di molte, molte altre bambine.
Alcuni dei suoi ammirati biografi hanno cercato di dire che si trattava di puri rapporti di gioco: ma non può essere vero. Scrisse, infatti, di essere sempre stato tormentato dalle «inclinazioni del mio cuore peccatore» e che «non si capisce perché le belle forme delle bambine debbano restare coperte ». Gli piaceva guardare le fanciulle nude: ma non c’è alcuna prova che sia andato oltre il guardarle. La scrittrice Katie Roiphe ha scritto che «c’è qualcosa di commovente in un uomo che combatte la lotta più dura del mondo: quella contro la propria lussuria».
Vi sono stati — e vi sono — in Gran Bretagna molti di questi uomini, alcuni dei quali non «combattono la propria lussuria », ma cercano piuttosto di soddisfarla? Attualmente, sembra che sia così: si dice che un gruppo di uomini potenti, tra cui magistrati e politici di alto livello, avrebbe portato dei bambini in un albergo nel sud di Londra per fare sesso: e almeno uno dei bambini sarebbe stato ucciso. Un fascicolo sul gruppo pedofilo, redatto dalla polizia nel 1980, è scomparso. Come in tutti i misteri, una congerie di teorie riempie il vuoto che dovrebbe essere colmato da una spiegazione e da una prova.
Il fatto che vi siano coinvolti uomini illustri introduce un altro elemento che sembra essere particolarmente britannico: l’eterna popolarità delle scuole «pubbliche» — in realtà, di proprietà privata — dove i giovani (e le giovani) di ceto elevato vengono mandati da piccoli fino all’età di 18, vivendo nella scuola stessa. Si tratta soprattutto di istituzioni del XIX secolo, fondate per formare i quadri da cui trarre i futuri leader dell’impero britannico: dovevano essere istituzioni dure, luoghi in cui i ragazzi più grandi erano serviti dai più giovani.
Le relazioni omosessuali erano comuni: il noto giornalista ed ex redattore di The Spectator, Alexander Chancellor, ha scritto di recente nella sua vecchia rivista «sono andato (all’età di otto) in una scuola del Berkshire, dove il preside, nel dormitorio, baciava e abbracciava teneramente i bambini più belli nei loro letti, e in cui l’insegnante di violino aveva l’abitudine di mettermi la mano sulla coscia». Chancellor ha scritto anche, tuttavia, che «l’idea della concupiscenza nei confronti dei bambini mi sembra non solo aberrante, ma quasi inimmaginabile. Se c’è una cosa contro natura, questa è il considerare i bambini come oggetti sessuali».
Eppure, né Lewis Carroll, né le scuole pubbliche con insegnanti pedofili, dimostrano nulla. Nel Regno Unito, ci sono in proporzione più pedofili in Scozia che in Inghilterra — ma, in proporzione, meno bambini scozzesi vanno alle scuole pubbliche. Gli uomini e le donne hanno tante fantasie sessuali, alcune delle quali possono avere per oggetto bambine e bambini: ma le fantasie non sono illegali, fino a quando non le si mettono in pratica.
È impossibile dire quanti pedofili ci siano in ogni società — perché tutto dipende da quanto questi crimini sono denunciati, da quanto il sistema giudiziario e la polizia prendono il crimine sul serio, e da quanto l’opinione pubblica sia disposta a coprirli. Molti di questi crimini avvengono nelle famiglie, dove i bambini non possono mai dire nulla.
Papa Francesco ha detto di recente che circa il 2% dei sacerdoti, secondo lui, è pedofilo: ma non ha detto su che cosa basa questa stima. Uno psicologo canadese, James Cantor, ha scritto un libro nel 2008, in cui sosteneva che i pedofili rappresentano il cinque per cento della popolazione — sulla base di ricerche fatte in Finlandia, Germania e Norvegia. Ma le ricerche erano sulle fantasie, non sui fatti.
L’ex primo ministro francese, Edith Cresson, ha detto una volta di ritenere che almeno un britannico su quattro fosse gay — basando la sua convinzione, pare, sul fatto che, quando si trovava nel Regno Unito, gli uomini non la guardavano, mentre in Francia lo facevano costantemente. So che le donne italiane, tra cui mia moglie, hanno una certa simpatia per questa ipotesi — anche se non arrivano a pensare che il 25 per cento degli uomini britannici sia gay.
La Gran Bretagna ha avuto una visione puritana della sessualità e dell’ostentazione sessuale: oggi, non più. Il sesso oggi è presente nella vita pubblica britannica come in ogni altro posto d’Europa — e molte cose che prima erano nascoste, oggi sono rese pubbliche. Tra queste, la pedofilia è una delle meno attraenti: ma nessuno può dire se si tratti di un’abitudine britannica, o se gli inglesi siano semplicemente più trasparenti al riguardo. ( traduzione di Luis E. Moriones)

La Stampa 24.11.14
Netanyahu e lo Stato degli ebrei
Israele ha votato una legge sull’«identità nazionale». Cosa significa?
di Maurizio Molinari


Con 14 voti contro 7 il governo di Benjamin Netanyahu ha approvato la «legge fondamentale» che definisce Israele come lo «Stato Nazione del popolo ebraico» innescando una polemica al vetriolo sull’identità collettiva e lacerando la maggioranza in maniera tale da aprire la strada a nuove elezioni. La legge approvata è frutto di due testi presentati da deputati del Likud e di Israel Beytenu, il partito del ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, ed è stato votato da tutti i ministri di questi partiti (tranne un’astensione) come anche di Ha Bayt Ha-Yehudì di Naftali Bennet: diventa così il punto di incontro delle forze politiche di centro-destra della coalizione. A votare contro sono stati invece tutti i ministri di Yesh Atid, il partito di Yair Lapid, più il titolare della Giustizia Tzipi Livni, del vecchio Kadima: sono le forze di centro-sinistra accomunate ai laburisti di Yizhak Herzog dal condannare una legge che «penalizza le minoranze e non sarebbe stata mai stata approvata da Ben Gurion, Menachem Begin e Zeev Jabotinsky» assicura Lapid, citando i padri fondatori dello Stato. La contrapposizione fra gli schieramenti è netta, su una questione che ha a che vedere con la definizione dell’identità nazionale. Netanyahu vuole un testo che esalta il carattere ebraico di Israele - facendo venir meno l’equiparazione fra lingua ebraica ed araba - per «difendere la nazione da movimenti autonomisti in Galilea e nel Negev che ne minano l’identità ebraica». Ovvero: l’affermarsi di gruppi islamici fra gli arabo-israeliani del Nord e le tribù beduine del Sud ha bisogno di una risposta legislativa. Ma Lapid e Livni obiettano che così vengono lesi i diritti delle minoranze, inclusi drusi, circassi, arabo-israeliani e beduini che servono nell’esercito. Per questo Lapid va a trovare la famiglia di Zidan Saif, l’agente druso morto nel contrastare gli attentatori di Har Nof, accusando il premier di volerli trattare da «cittadini di serie B». Per i leader del centrosinistra la priorità è definire Israele come «democrazia», per i leader del centro-destra conta di più il «carattere ebraico». Il consigliere legale del governo solleva dubbi sul testo e Netanyahu promette: «Armonizzeremo le posizioni». Ma Lapid ritiene che abbia altro in mente: «Sfruttare la legge per vincere le primarie del Likud e portare il Paese a votare».

Repubblica 24.11.14
'Israele Stato nazione ebraica', via libera del governo
Il premier Benyamin Netanyahu ha sottoposto all'esecutivo la nuova legge secondo la quale i legislatori dovranno ispirarsi al diritto ebraico. Il ministro delle Finanze Lapid pronto a passare all'opposizione: "È una norma cattiva"

qui

Repubblica 24.11.14
Israele “Nazione ebraica” per legge, il governo si spacca
di Fabio Scuto


GERUSALEMME . Con una mossa che rischia di infiammare ulteriormente le tensioni con i cittadini arabi d’Israele, il governo del premier Benjamin Netanyahu ha approvato un disegno di legge che definisce giuridicamente Israele come «lo Stato della nazione ebraica». La decisione è arrivata al termine di un tumultuoso consiglio dei ministri che ha diviso il governo (14 favorevoli, 6 contrari) e che rischia di mettere in crisi la fragile maggioranza su cui poggia. I ministri di due partiti della coalizione e i loro leader — Tzipi Livni, ministro della Giustizia, e Yair Lapid, ministro del Tesoro — hanno votato contro quella che nelle intenzioni della destra sarà “la legge fondamentale” per lo Stato ebraico.
Israele si è sempre definito come “Stato ebraico” fin dalla dichiarazione d’indipendenza del 1948, ma il nuovo testo istituzionalizza la legge ebraica come fonte del diritto e che in futuro la legislazione e le sentenze dei giudici dovranno ispirarsi maggiormente ai valori ebraici. Lo Stato sosterrà maggiormente l’educazione ebraica, mentre le minoranze potranno sviluppare — in maniera autonoma — i propri valori e la propria cultura. Una legge che così formulata «è un attacco alla natura democratica di Israele», ha già sentenziato il procuratore generale Yehuda Weinstein.
Lo scontro all’interno del governo e della maggioranza riflette le divisioni e le tensioni del Paese e rischia di riaccendere le violenti proteste della popolazione araba che scuotono il Paese da settimane. Netanyahu ha difeso il provvedimento sostenendo che «si tratta di una risposta ai critici arabi di Israele che mettono in discussione l’esistenza di Israele». Netanyahu ha da tempo chiesto che i palestinesi riconoscano il carattere ebraico di Israele come condizione per qualsiasi accordo di pace. Ma sia i palestinesi che i loro “fratelli” arabi d’Israele sono convinti che ciò nuocerebbe ai diritti civili di questa minoranza — 1,5 milioni che già si considerano “cittadini di serie B”. «Oggi nemmeno Menachem Begin, il leader storico della Destra, si troverebbe a suo agio in questo Likud», ha tuonato contro il premier Yair Lapid, leader dei partito laico Yesh Atid. Il capo dei laburisti Yitzhak Herzog definisce la decisione come «irresponsabile ». Dopodomani la “legge fondamentale” affronta il primo passaggio in aula alla Knesset. Se al momento del voto i ministri Livni, Lapid e i loro colleghi “ribelli” decideranno di lasciare l’aula o votare contro, Netanyahu potrebbe decidere il loro siluramento.

Repubblica 24.11.14
Per il tribunale rabbinico la decisione spetta esclusivamente al marito
In sala il 27 il film che racconta un “processo” per la separazione
di Storia Viviane
di Natalia Aspesi


La lotta di una donna nel moderno Israele “Il divorzio è un diritto solo per gli uomini”
VIVIANE vuole il divorzio: da mesi ha lasciato il tetto coniugale ed è andata a vivere da un fratello sposato; fa la parrucchiera, non vuole soldi, desidera solo divorziare da dieci anni, da cinque si è decisa a chiederlo. Ma vive in Israele, nazione democratica dove però matrimonio e divorzio sono solo religiosi (anche in Italia sino al 1970, esisteva solo l’annullamento ecclesiastico, difficilissimo da ottenere). Davanti al tribunale rabbinico, la donna può chiedere il divorzio, ma solo il marito può concederglielo, facendole cadere nella mani il Gett, il foglio con il suo consenso, pronunciando la frase “da adesso sei permessa a qualunque uomo”, come un oggetto senza valore che può passare da un padrone all’altro. Viviane è uno di quei film miracolosi in cui sembra non succedere niente e invece avvince con momenti drammatici e ironici, con una intensa sceneggiatura e attori eccezionali: specialmente lei, Viviane, l’attrice Ronit Elkabetz, che è anche sceneggiatrice e regista del film assieme al fratello Shlomi.
Una stanzetta bianca con due tavolini e quattro sedie, per i coniugi e i rispettivi avvocati, alla loro destra il computer del cancelliere, di faccia il tavolo con i tre giudici rabbini; in quello spazio claustrofobico passano gli anni della disperazione di Viviane e della ferrea ostinazione del marito Elisha, che non si presenta oppure se c’è, dopo essere stato condannato a una settimana di carcere per oltraggio alla corte, dice sempre no. La battaglia tra Viviane ed Elisha (Simon Abkarian) e tra i due difensori, per lui il fratello Shimon (Sasson Gabay), per lei il bell’avvocato Carmel (Menache Noy) è fatta di parole, di silenzi, di sguardi: irridenti, inflessibili, torvi quelli del marito, sofferenti, ostinati quelli di lei. Viviane ha una bellezza nobile e stanca, un viso pallido e intenso, meravigliosi capelli neri, che la religione considera un’arma di seduzione scandalosa, raccolti sulla nuca e che in un momento di stanchezza e sfiducia lei scioglie e accarezza, un gesto sfrontato davanti ai rabbini che la richiamano immediatamente. Anche gli abiti segnano il crescere della sua insofferenza e voglia di ribellione. Prima vestita castamente di nero e in pantaloni, poi con una camicia bianca femminile, e ancora con le belle gambe nude e i tacchi alti o con una fiammeggiante camicia rossa. Alla fine porterà delle babbucce piatte, come per affrontare un futuro di libertà ma anche di rinuncia. Le udienze si susseguono, due mesi dopo, sei mesi dopo, due settimane dopo, per anni, mentre la vita di Viviane si consuma: accetta di riprovare a vivere col marito ma non ce la fa. “Lui non mi parla”. I rabbini la chiamano donna, vogliono sapere se è stata pura durante la separazione, accusano il suo avvocato di amarla: un testimone dice “questa donna non è retta, l’ho vista in un caffè con un uomo che non era un parente”. I testimoni dicono che lui è un marito perfetto, anche i vicini di casa, ed è lui a rispondere anche per lei. “Per vent’anni ho curato sua madre che mi odiava”, dice Viviane, “anche lui mi odia”. Sì certo, dice il responsabile della sinagoga, “è un po’ pignolo, da 15 anni non parla con un altro fedele per una nota sbagliata, anche se quello gli ha chiesto tante volte scusa”. Viviane: “Lui non mi tocca da anni, non gli va mai bene quello che cucino, non vuole amici. Siamo incompatibili”. Non basta, donna. “Una donna ha bisogno del pugno di ferro” dice il di lei fratello”, “ma era felice?” chiede l’avvocato. “No, soffriva molto”. All’ennesimo no di Elisha, Viviane perde la calma, grida contro i rabbini. “Siete senza misericordia, ma vi toglieranno il potere, tribunale di merda!”.
Anni di parole inutili, di ipocrisia, di negazione dei diritti della donna, di supremazia maschile in nome della religione. Dice Ronit Elkabetz: “Il tempo perduto in questi procedimenti ha valore solo per la donna che supplica di tornare a vivere. Fino a quando non ottiene il divorzio non potrà mai ricostruirsi una famiglia e i figli fuori dal matrimonio non avranno riconoscimenti giuridici. Una donna in attesa di divorzio è condannata a una sorta di prigione”. Viviane è l’ultima parte di una trilogia i cui precedenti film non sono stati distribuiti in Italia. Israele l’ha candidato per l’Oscar al film straniero: nel 2012 lo ha vinto un altro film israeliano, il bellissimo Una separazione.
VIVIANE Regia di Ronit e Shlomi Elkabetz, con Ronit Elkabetz, Menashe Noy, Simon Abkarian
SUL SITO Su Repubblica.it in esclusiva 5 minuti del film “Viviane”

La Stampa 24.11.14
Palestinese ucciso dal fuoco israeliano
Si tratterebbe di un contadino che si era avvicinato al confine presso Jabalya

qui

Corriere 24.11.14
«La mano tesa di Sisi? Positiva per Israele, inutile senza negoziati»
L’analista Hugi sull’offerta di truppe egiziane
di Davide Frattini


GERUSALEMME Nel libro Arabian Nights ha cercato di spiegare gli arabi, i vicini di casa che li circondano, agli israeliani. Per provare ad ammansire l’ansia da assedio con la voce che tutti riconoscono nei programmi trasmessi dalla radio dell’esercito, la più ascoltata nel Paese, dove Jacky Hugi analizza e decodifica quel che succede dall’altra parte delle frontiere. Come la proposta di Abdel Fattah al Sisi che i giornali e le televisioni israeliani hanno ripreso e rilanciato. «Siamo pronti a inviare forze militari all’interno di uno Stato palestinese — ha detto il presidente egiziano in un’intervista al Corriere della Sera prima del viaggio in Italia —. Aiuterebbero la polizia locale e rassicurerebbero gli israeliani con il loro ruolo di garanzia. Non per sempre, s’intende. Per il tempo necessario a ristabilire la fiducia. Ma prima deve esistere lo Stato palestinese dove inviare le truppe».
Hugi fa notare quell’ultimo passaggio, quell’ultima condizione, la più complicata per ora da realizzare: «I negoziati sono fermi, qualunque accordo sembra lontano. Questo permette a Benjamin Netanyahu di prendere tempo e non rispondere all’offerta di al Sisi. Il premier israeliano deve anche tenere conto della diffidenza dei suoi elettori: le relazioni tra i due Paesi sono molto migliorate di recente, ma è difficile che la gente qui accetti di affidare la sicurezza sui confini a un esercito arabo. Verso l’Egitto resiste un atteggiamento sospettoso legato alle guerre combattute in passato».
Abu Mazen, il presidente palestinese, ha ripetuto di essere pronto ad accogliere una forza internazionale, di poter accettare anche un futuro Stato palestinese demilitarizzato. L’idea di al Sisi sembra applicabile alla Cisgiordania, può essere più complicata da attuare nella Striscia di Gaza, che pure confina con l’Egitto: i rapporti con i fondamentalisti di Hamas sono tesi.
L’esercito egiziano ha spianato a colpi di tritolo e demolito le case per creare una fascia di sicurezza profonda un chilometro alla frontiera con Gaza, un’area sotto controllo militare per fermare i traffici di armi e la circolazione di ideologie proibite come le prediche dei Fratelli musulmani. «Non dimentichiamo però — continua Hugi — che anche per Hamas l’Egitto resta Umm A-Dunya , la madre del mondo, lo Stato arabo più importante. È vero, l’ostilità in questo periodo esiste, Hamas sa che il popolo e qualunque regime egiziani saranno sempre leali alla causa palestinese».
Il primo ministro Netanyahu e il presidente al Sisi condividono l’obiettivo di frenare l’avanzata estremista nella penisola del Sinai. «I due leader hanno un buon rapporto personale, rafforzato da interessi strategici: vogliono la stabilità nella regione. Il coordinamento tra gli eserciti è tale che l’aviazione israeliana ha avuto il permesso di colpire in territorio egiziano perché i nemici erano comuni. Al Sisi non usa e non sfrutta la retorica anti israeliana a scopo interno, al contrario proclama e sostiene una relazione di buon vicinato. Sa di poter resistere a eventuali pressioni popolari per un lungo periodo, la sofferenza della popolazione palestinese a Gaza non sta infiammando le proteste al Cairo, dove la gente piuttosto è arrabbiata e preoccupata per la crisi economica».

Repubblica 24.4.14
Quel dialogo tra Cina e Vaticano
di Agostino Giovagnoli


PECHINO offre al Vaticano di scegliere insieme i nuovi vescovi”. Così titola il “Global Times” sito ufficioso del governo cinese, riportando una notizia data dal quotidiano filo comunista di Hong Kong “Wen wei po” che la attribuisce ad una “fonte autorevole” di Pechino. È la conferma, indiretta ma eloquente, che la notizia è autentica.
La “fonte autorevole” fa sapere che il messaggio inviato in agosto da Francesco alle autorità della Repubblica popolare — mentre volava, primo Papa nella storia, nello spazio aereo cinese — ha avuto effetti positivi e che Pechino è pronta a riconsiderare insieme alla Santa Sede tutti i principali problemi aperti tra le due parti.
Il contenuto del messaggio è cauto. Si manifesta solo la disponibilità ad affrontare insieme i problemi. Ma questo “insieme” è già una notizia. Implica, infatti, il riconoscimento che la Santa Sede ha diritto ad interessarsi della Chiesa in Cina senza venir accusato di ingerenza negli affari interni della Repubblica popolare. Dopo decenni di aspri rimproveri per le relazioni diplomatiche intrattenute dal Vaticano con Taiwan, si scrive inoltre che tale questione non è poi così difficile da risolvere, anzi che il governo di Pechino ha già studiato la soluzione. Non si gira intorno, poi, alla questione cruciale dell’Associazione patriottica dei cattolici cinesi che, secondo Roma, permette al partito di controllare in modo capillare tutta la vita della Chiesa “ufficiale”. Ora, scrive il “Wen wei po”, per Pechino il tema non è più intoccabile, perché il tempo passa, le situazioni cambiano e si trasforma anche la mission dell’Associazione patriottica, per la quale si può pensare anche ad un mutamento di nome e di funzioni. Sarebbe un cambiamento di portata storica e sicuramente a Pechino non tutti sono d’accordo. Ma anche solo ipotizzarla apre nuovi scenari. Al problema dell’Associazione patriottica si lega strettamente quello della Conferenza episcopale “indipendente” dalla Santa Sede ma “dipendente” dal partito attraverso l’Associazione. Ma anche questo legame può essere rivisto secondo la “fonte autorevole”. Si arriva così alla questione della nomina dei vescovi. Roma ha sempre ribadito che spetta solo al Papa. Il “Wen wei po” propone una procedura che riconosce al Papa tale nomina, seppure alla fine di un lungo percorso di consultazioni. Anzi, ne propone due, insomma c’è spazio per discutere. Ma c’è una deadline: le novità devono realizzarsi entro il 2015, anno in cui — mera coincidenza? — è prevista una nuova Assemblea nazionale dei cattolici cinesi.
Queste aperture sorprendono dopo che per mesi sono giunte in Occidente notizie di croci abbattute e di chiese distrutte, in particolare a Wenzhou. Ma chi conosce la situazione dall’interno spiega che è stato l’effetto indiretto — molto pesante per i credenti — della scelta politica di condurre una lotta durissima contro la corruzione: spesso, infatti, i funzionari usano gli affari religiosi per arricchirsi. E, al vertice, un comune disegno lega lotta contro la corruzione e “normalizzazione” dei rapporti con il Vaticano: il cosiddetto “Socialist rule of law with Chinese characteristics”. Dall’esterno, non è facile cogliere questi collegamenti e, oggi come ieri, contro l’intesa tra la Santa Sede e la Cina giocano l’incomprensione culturale, la sfiducia reciproca e la mancanza di fretta. Davanti alle novità, hanno cominciato immediatamente a levarsi inviti alla prudenza che invocano all’ennesimo rinvio. Ma l’inerzia stride con l’urgenza missionaria impressa da papa Francesco a tutta la Chiesa.
L’urgenza del dialogo deve prevalere sulle distanze. Insomma, «il tempo è superiore allo spazio», come ama ripetere papa Francesco citando Sant’Ignazio.

Repubblica 24.11.14
Il nipote di Confucio “Ora la Cina riscopre il suo pensiero”
Il manager Kung Tsui-chang è discendente diretto del filosofo: “Ma questa identità non deve pesare troppo sui miei figli”
di Austin Ramzy


Oggi anche le donne fanno parte della genealogia della famiglia Kong Un tempo non era così
Sono un tesoro per tutta l’umanità: possono aiutare a risolvere i conflitti internazionali e la crisi ecologica

KUNG Tsui-chang è un uomo d’affari, ha 39 anni, abita a Taiwan ed è il discendente diretto di Confucio, 79esima generazione. Ha ereditato il titolo di “Responsabile dei sacrifici di Confucio” dal nonno, Kung Techeng, scomparso nel 2008. La carica fu creata dalla Repubblica cinese nel 1935 dopo l’abolizione del titolo nobiliare di Duca di Yansheng, che nella Cina imperiale era conferito ai discendenti del filosofo cinese. Mentre ai duchi di Yansheng erano riconosciuti privilegi specifici sulla proprietà di Confucio a Qufu, nello Shandong, Kung si limita a officiare le commemorazioni annuali del Grande Saggio a Taiwan. Nonostante il confucianesimo in Cina sia stato oggetto di duri attacchi nella seconda metà del Novecento, Kung da qualche anno nota un maggior gradimento del pensiero confuciano.
Che aspettative avevano per lei i suoi genitori, visto che lei è il discendente di Confucio?
«Volevano solo che trattassi gli altri con gentilezza e mi comportassi in modo retto e onesto. Vivevamo in tre generazioni in una casa piena di libri: una famiglia di intellettuali. Mio nonno coltivava con rigore l’erudizione: aveva sempre un libro tra le mani, e se non leggeva, scriveva. Perciò, ho sviluppato un rispetto assoluto per la conoscenza. Mio nonno celebrava ogni anno i Sacrifici a Confucio. Mi sembrava un argomento distante, per adulti, finché un anno prima della morte lui volle che fossi io a condurre i riti. Allora diventai consapevole della mia strada. È una responsabilità ma anche un onore».
Lei è andato a Qufu, la città natale di Confucio?
«Nel maggio 2011, due anni dopo aver ereditato il titolo, ho fondato l’Associazione cinese di Confucio per diffonderne il pensiero e la cultura. Quell’anno sono andato per la prima volta a Qufu con mia madre, mia moglie e 20 membri del consiglio dell’associazione. Siamo stati ricevuti con grande solennità. Ho celebrato un rito al Tempio confuciano, ho visitato il Palazzo della famiglia Kong e l’Istituto di ricerche su Confucio. L’anno dopo, alla festa di Qingming, ho partecipato alla cerimonia primaverile al Tempio di Confucio sul Monte Ni, e i discendenti di Confucio hanno celebrato i riti al Cimitero di Confucio. Erano eventi pubblici, e alcuni media li hanno seguiti con grande attenzione. La mia parenzione te più stretta in Cina continentale è una prozia, Kong Demao. Vive a Pechino, ha 98 anni e gode di buona salute. Adesso ci teniamo in stretto contatto».
In che modo il pensiero confuciano può contribuire alla società moderna?
«Il confucianesimo è da oltre duemila anni il fulcro della tradi- cinese, ha influenzato l’Asia orientale e le culture di altri Paesi. È una preziosa proprietà culturale del popolo cinese ma anche un tesoro della cultura spirituale dell’umanità. Ora la cultura confuciana sta vivendo un revival in Cina. Esercita una grande influenza nell’elevare le qualità spirituali degli individui, ma può anche contribuire ad accrescere il livello di moralità e a costruire una società armoniosa. Oggi alcune idee del confucianesimo, come “Ciò che non vuoi sia fatto a te non fare agli altri”, o l’unità del cielo e della terra, o l’uomo visto come centro ricevono più attenzione in diverse culture. Possono contribuire a risolvere conflitti internazionali, la crisi ecologica e altre gravi problematiche moderne».
Nella Cina continentale il nome e il pensiero di Confucio sono discussi molto più diffusamente. Lo stesso presidente Xi Jinping ha visitato Qufu.
Lei cosa ne pensa?
«Dopo decenni di svolte culturali, la Cina è tornata a riconoscere l’importanza che il pensiero e la cultura confuciana hanno per lo sviluppo sociale. È un fenomeno positivo. Spero non si tratti solo di una riscoperta, ma che il confucianesimo in Cina continui a evolversi e diffondersi per il bene dello sviluppo della pace mondiale ».
Chi è oggi il rappresentante di Confucio?
«In oltre 5000 anni di storia cinese, Confucio è stato il Maestro più compiuto e più sacro. I discendenti non possono sperare di raggiungere lo stesso livello. Sono fiero di esserne l’erede, ma non oso considerarmi un suo rappresentante ».
Le discendenti femminili di Confucio sono state incluse nelle genealogie ufficiali?
«In passato le donne non erano comprese nelle genealogie della famiglia Kong. Infatti non avevano uno status autorevole nella società. Col tempo però, e ora con gli sviluppi sociali, i documenti ancestrali tengono conto anche di loro. Lo stesso vale per le regole di trasmissione del titolo di Responsabile dei sacrifici, modificate nel 2009. L’incarico si tramanda tra i discendenti di Confucio, che devono avere il cognome Kong. In assenza di un discendente maschio in grado di assumere la posizione, questa può essere affidata a una discendente donna.
Lei cosa insegna di Confucio ai suoi figli?
«Mio figlio e mia figlia frequentano rispettivamente la terza e la prima elementare. La loro identità non deve pesare su di loro. Spero che crescano vivaci e in salute, e che ricevano un’educazione morale, intellettuale, fisica, collettiva ed estetica. La maggior parte dei taiwanesi ha interiorizzato il pensiero confuciano, e la mia famiglia non fa eccezione ».
© New York Times News Service Traduzione di Marzia Porta

Corriere 24.11.14
In arrivo nove milioni dalla banca di Putin per l’ascesa di Le Pen
Il partito conferma il prestito ottenuto in Russia
di Stefano Montefiori


PARIGI L’identità di vedute tra Marine Le Pen e Vladimir Putin viene da lontano, come ama ricordare la stessa leader del Front National: «Con grande lucidità già nel 1995 Putin disse che in dieci anni la Francia sarebbe diventata una colonia delle sue ex colonie».
Di Putin Marine Le Pen ammira «la forza di difendere la civiltà cristiana contro la barbarie dell’immigrazione», e «il coraggio di opporsi alla globalizzazione dominata dagli Stati Uniti». Nello scontro tra Unione europea e Russia a proposito dell’Ucraina, Marine Le Pen sta con Mosca, non con Bruxelles. E Putin ricambia congratulandosi con il Front National quando ottiene un buon successo alle elezioni municipali, nel marzo scorso.
Questa amicizia sta dando i suoi frutti, perché le casse vuote del Front National hanno appena ricevuto una prima tranche di due milioni di euro sul totale dei nove ottenuti in prestito dalla First Czech Russian Bank, un piccolo istituto russo di proprietà di Roman Yakubovich Popov, uomo vicino al premier Medvedev e al presidente Putin.
Il tesoriere del Front National, Wallerand de Saint-Just, ha confermato ieri la notizia diffusa il giorno prima del giornale online Mediapart : «Il prestito è frutto di un lavoro tecnico che ho compiuto negli ultimi quattro mesi, perché si tratta di persone molto minuziose. È un’operazione perfettamente normale e regolare. Avrei preferito una banca francese, o anche una europea per una questione di vicinanza e di lingua, ma nessuna è più disposta a darci un centesimo».
Le difficoltà di ottenere finanziamenti non riguardano solo il Front National, non si tratta di un boicottaggio per ragioni politiche, tiene a precisare il tesoriere. A suo dire le banche francesi non sono più disposte a finanziare campagne elettorali dopo il caso di Nicolas Sarkozy, che ha visto i suoi conti del 2012 bocciati dal Consiglio costituzionale e ha dovuto rinunciare a 11 milioni di rimborsi pubblici. Alla vigilia del congresso del partito che si apre sabato prossimo a Lione, il Front National rivela così come pensa di finanziare la sua ascesa. «Siamo in piena crescita e le prossime scadenze elettorali stanno per arrivare — ha aggiunto Wallerand —. Da adesso alle presidenziali del 2017 abbiamo bisogno di una cifra tra i 30 e 40 milioni di euro». Che sono già cominciati ad arrivare grazie agli ottimi rapporti con il Cremlino.
Nella fase di gelo diplomatico seguita alle crisi in Siria e Ucraina, le relazioni economiche tra Francia e Russia sono continuate tramite, per esempio, il patron di Total, Christophe de Margerie, contrario alle sanzioni, morto in un incidente aereo a fine ottobre proprio a Mosca. Ma la politica ufficiale di Parigi è molto critica nei confronti di Putin. Il presidente François Hollande si rifiuta di onorare il contratto siglato nel 2011 dal predecessore Sarkozy, e non consegna alla Russia le due navi da guerra Mistral prodotte nei cantieri francesi di Saint-Nazaire.
I sondaggi che danno Marine Le Pen in testa per le presidenziali del 2017 a Mosca sono quindi visti con grande interesse. Per la Francia si apre la questione democratica di una formazione politica anti-sistema finanziata da una potenza straniera, come accadeva prima del crollo del Muro con il Partito comunista di Georges Marchais, sovvenzionato dall’Unione sovietica. Al Front National però non sono imbarazzati: «Meglio un prestito da una banca russa — dice l’esponente Christian Bouchet — che prendere i soldi da Gheddafi come ha fatto Sarkozy».

Repubblica 24.11.14
Presidenziali Tunisia, il laico Essebsi in testa secondo gli exit poll
Avrebbe un ampio margine rispetto al secondo classificato, il presidente uscente Marzouki, che però contesta i risultati. Se dati confermati, ballottaggio sarà il 28 dicembre

qui

Repubblica 24.11.14
Elogio dello Zero il volto nichilista della matematica
Dall’arte alla fisica, il valore “esistenziale” dei numeri nel libro di Piergiorgio Odifreddi
di Piergiorgio Odifreddi


IL SAGGIO Questo testo è tratto da Il museo dei numeri di Piergiorgio Odifreddi (Rizzoli, pagg. 428, euro 22) In libreria dal 26
Il nulla ha sempre affascinato la letteratura lo dimostra anche un passo dell’Odissea
L’insieme vuoto è al centro della teoria degli insiemi: ricorda Ibsen e Pirandello

LO zero, primo elemento della lista dei numeri interi, è in realtà l’ultimo arrivato sulla scena. Gli uomini avevano già effettuato difficili calcoli aritmetici, risolto complicate equazioni algebriche e dimostrato profondi teoremi geometrici per secoli e millenni, prima che gli Indiani e i Maya introducessero in matematica un analogo di concetti quali il nulla, l’assenza, il silenzio, il buio, il non-essere e il vuoto, che erano già stati considerati, più o meno timidamente, in altri campi.
In letteratura, lo zero aveva fatto la sua prima apparizione nell’episodio dei Ciclopi dell’ Odissea, quando Ulisse dichiarò a Polifemo di chiamarsi Nessuno. Molti altri personaggi in seguito ebbero nomi analoghi, dal capitano Nemo di Jules Verne (1870) al Nowhere man dei Beatles (1965).
Se poi si passa alle metafore letterarie del nulla, il discorso si allarga. Una quasi scontata è l’assenza, e le opere che parlano di qualcuno, o qualcosa, che non c’è, o non arriva, abbondano: da Aspettando Godot di Samuel Beckett (1952) a La scomparsa di Georges Perec (1969). Altrettanto immediata è la metafora dell’ombra, che in molte storie si stacca dal rispettivo corpo e acquista vita propria, come per il Casella dantesco e Peter Pan. C’è poi la metafora del buco, che ha vari archetipi naturali nell’essere umano. La bocca spalancata a voragine, ad esempio, che diede il nome al Caos nella Teogonia di Esiodo (—700 circa). O la vagina, che gli elisabettiani chiamavano in codice “nulla”: di qui l’ammiccante titolo Molto rumore per nulla di William Shakespeare (1599). Se assenze, ombre e buchi alludono più o meno indirettamente al nulla, la sua realizzazione letterale è il silenzio, a cui hanno incitato, parlando, i mistici di ogni tempo, da Lao Tze a Ludwig Wittgenstein. Il silenzio può anche iniziare un’opera, come la “pausa accentata” che precede il “bussare del destino” della Quinta sinfonia di Ludwig van Beethoven (1808). La più nota composizione silente è invece 4’ 3-3” di John Cage (1952), articolata in tre movimenti di 30”, 2’23” e 1’40”: un silenzio di 273 secondi in tutto, che richiamano esplicitamente la temperatura di — 273° dello zero assoluto.
Una delle più note metafore concettuali del nulla è il nichilismo: un termine inizialmente introdotto da Ivan Turgenev in Padri e figli ( 1862), per indicare quel radicale rifiuto dei valori stabiliti che caratterizza il conflitto generazionale. Nell’Ottocento il nichilismo raggiunse la sua massima espressione artistica nei romanzi filosofici di Fëdor Dostoevskij, incarnandosi in personaggi quali Raskolnikov di Delitto e castigo ( 1866), Stavrogin dei Demoni (1873), e Ivan dei Fratelli Karamazov (1879). Nel Novecento assunse poi varie metamorfosi, dalla “generazione perduta” di Gertrude Stein alla “gioventù bruciata” di James Dean. E culminò infine nella letteratura esistenzialista francese di metà secolo, da La nausea di Jean-Paul Sartre (1938) a Lo straniero di Albert Camus (1942). Anche la filosofia ha una sua specifica versione di nichilismo, che consiste nell’affermazione di quel genere di nulla che è il non-essere. A farlo venire in essere fu Parmenide, che inventò nel secolo — VI uno dei primi paradossi della storia: quello secondo cui il non-essere non può essere niente, per sua natura, ma allo stesso tempo è qualcosa, cioè appunto il non-essere. In seguito, più o meno negli stessi anni di Turgenev e Dostoevskij, Friedrich Nietzsche iniziò nel Crepuscolo degli idoli (1888) una rilettura della storia della filosofia post-kantiana. E la interpretò come una progressiva affermazione del nichilismo, nel senso della scoperta della mancanza di senso e del carattere caotico del mondo.
Nella fisica il nulla può essere inteso in due sensi complementari: negativamente, come assenza della materia, e positivamente, come presenza del vuoto. La fisica moderna ha però introdotto un concetto di vuoto energetico più generale, definito come lo stato di energia minima di un campo. Nel 1929 Paul Dirac immaginò il vuoto quantistico come costituito da un mare di elettroni, in tutti i possibili stati di energia negativa. Se uno di questi elettroni lascia il suo posto a causa di un aumento di energia, il buco da esso lasciato viene percepito come un “antielettrone”, con la stessa massa dell’elettrone, ma carica opposta. Questa nuova particella, chiamata positrone, fu poi scoperta nel 1932. In parte il ritardo per l’introduzione dello zero in matematica è derivato dal rifiuto del nonessere e del vuoto nel pensiero filosofico e scientifico. Ma, una volta introdotto, esso ha acquistato un’ovvia valenza simbolica che è poi stata sfruttata a fondo, letteralmente e metaforicamente. Basta pensare a espressioni come “zero via zero”, “zero assoluto”, “sentirsi uno zero”. Il più noto uso di quest’ultima metafora si trova forse nel Re Lear di Shakespeare (1606), quando il Buffone apostrofa il re ormai senza corona, dicendogli: «Ora sei uno zero senza valore. Io sono meglio di te: sono un buffone, ma tu non sei niente».
In matematica esiste anche l’insieme vuoto, che non contiene nessun elemento. L’insieme vuoto è l’analogo di una scatola vuota. Ma mentre di scatole vuote ce ne sono molte, perché nella vita il contenitore conta, di insiemi vuoti ce n’è uno solo, perché in matematica conta solo il contenuto. E come la geometria degli antichi è costruita a partire dai punti, così la teoria degli insiemi dei moderni si costruisce a partire dall’insieme vuoto. Essa si riduce dunque letteralmente a un edificio di pure forme, che si dissolve in ultima analisi nel nulla: una visione, questa, molto vicina alla shunyata buddhista, per la quale le cose non sono solo contenitori vuoti, ma sono vuote apparenze di contenitori. Allo stesso modo, si rimane con niente in mano se si cerca l’essenza della cipolla pelandola, come nel Peer Gynt di Henrik Ibsen (1867), o in Vestire gli ignudi di Pirandello (1922). O se si cerca l’essenza del carciofo sfogliandolo, come nelle Ricerche filosofiche di Wittgenstein (1953).

il Fatto 24.11.14
Il mago delle lingue
John, il gallese esperto n.1 di calabrese
di Michele Concina


C’è un anziano signore che sa tutto del dialetto calabrese. Anzi, delle centinaia di dialetti parlati fra la Sila, l’Aspromonte e i due mari. Sa tutto del lessico, della pronuncia, dell’etimologia, della toponomastica calabrese. Sa decifrare i codici della ‘ndrangheta come i palinsesti medioevali. Ma calabrese non è: è gallese, e si considera celta.
Si chiama John Basset Trumper, è nato 70 anni fa a Cardiff, da poco è andato in pensione dopo aver passato metà della sua vita a insegnare Linguistica generale ad Arcavacata, l’università di Calabria. In Italia è arrivato in un anno speciale, il 1968. “Fu uno shock”, racconta. Ma non si riferisce alla contestazione studentesca, agli scontri fra operai e celerini, alla rivoluzione dei costumi. “Studiavo a Padova. Scendevo a far colazione, e il barista mi parlava in dialetto. A un cittadino britannico faceva impressione”. La protesta sociale, i cortei per le strade erano invece materia consueta: “Venivo da una famiglia socialista, quasi trotzkista. Mio nonno era stato un leader sindacale dei minatori gallesi, poi uno dei primi deputati laboristi. A Padova, però, in piazza non ci andavo. L’Unione Europea era una cosa diversa, a quei tempi, e mi avevano detto che rischiavo il foglio di via”.
Ai sommovimenti in atto nel nostro Paese, Trumper partecipò piuttosto da scienziato. Introducendo di fatto nell’arsenale investigativo uno strumento nuovo, la perizia fonica. Successe con l’attentato di Peteano, nel maggio del ’72: tre carabinieri attirati in trappola con una telefonata e uccisi da una 500 carica d’esplosivo. L’Arma cercò d’incastrare prima Lotta continua, poi sei ragazzi qualunque che forse ce l’avevano con i militi per piccoli sgarbi. Incaricato dalla magistratura, lo studioso dimostrò che il telefonista era “un friulano della valle del Natisone che tentava di sembrare triestino”. In seguito fu dimostrato che la strage era opera di un gruppo di neofascisti, uno dei quali confessò.
Ormai piuttosto noto fra gli addetti ai lavori, alla fine degli anni Settanta Trumper fu ingaggiato dalla difesa di Toni Negri, il “cattivo maestro” dell’università di Padova accusato di aver fatto la telefonata con cui le Brigate rosse fornivano istruzioni per il ritrovamento del corpo di Aldo Moro. “Si capiva benissimo che il telefonista era un abruzzese che voleva passare per romano. Certo non era Negri, un accademico tutt’altro che coraggioso. Uno di quelli bravi solo a parlare”.
COSÌ ARRIVÒ IL 1980, e John Trumper scoprì la Calabria. Landa remota e malsicura per gran parte degli italiani, figuriamoci per un suddito di Sua Maestà. “Mio padre mi aveva infilato nel bagaglio una scorta di chiodi e viti”, ride oggi la moglie padovana, Marta Maddalon. “Io insistevo: guarda che anche laggiù ci sono i negozi di ferramenta. E lui: forse, ma non si sa mai”. A Trumper, un collega disse: devi esserti innamorato del Medioevo. “E forse c’era un pizzico di verità”. Il fatto è che la Calabria, per un linguista, è come la foresta amazzonica per un ornitologo, un territorio brulicante di varietà e specie rare, in parte ancora sconosciute. “Credo che proprio qui sia riscontrabile il massimo della frammentazione linguistica. È quasi incongruo parlare di calabrese come se fosse un unico idioma. Ci sono paesi come Africo in cui si parlano due dialetti diversi. Tutti pensano che il calabrese sia difficile da parlare; ma imitare la fonetica non è troppo impegnativo, il problema è scegliere la sintassi e il lessico giusto, fra centinaia di varianti”.
In 34 anni, Trumper se n’è impadronito più di chiunque altro. Ha fondato il primo laboratorio di linguistica sperimentale a sud di Roma e il Centro di lessicologia e toponomastica della sua università. Dirige l’Atlante linguistico-etnografico della Calabria e coordina il Dizionario etimologico calabrese. È un filologo che si diverte: anni fa ha tradotto in “un pot-pourri di dialetti della valle del Crati” ‘Endgame’, cioè ‘Finale di partita’, uno dei più importanti lavori teatrali di Samuel Beckett. Se è di buon umore, la mattina al bar si mette ad ascoltare quelli che chiacchierano e indovina da quale paese provengono; come il professor Henry Higgins, il professore di fonetica protagonista di ‘My fair lady’.
QUANDO GLIELO chiedono, lavora anche per il cinema: è stato consulente per il dialetto pre-silano nella produzione di ‘Marina’, un film sugli immigrati italiani che ha vinto tutti i premi disponibili in Belgio, e in Italia ha trionfato al recente festival di Trevignano. Non, invece, per ‘Anime nere’, che però ha analizzato con scrupolo professionale: “Bellissimo, ma i tre fratelli parlano tre dialetti differenti”. L’ultima impresa è un libro, ‘Male lingue’ scritto con Nicola Gratteri, il magistrato in prima linea contro la ‘ndrangheta. Uno studio sulle origini lontanissime dei codici utilizzati dalla criminalità organizzata, per capire le regole che la governano e l’immagine che ha di se stessa. Della sua Calabria, certamente non più medioevale, Trumper rimane innamorato. L’unica cosa che rimprovera ai suoi abitanti è la mancanza di senso dell’umorismo: “E’ un ingrediente indispensabile della vita, serve a tutto. Anche ad affrontare il cancro, come è capitato a me”.

La Stampa 24.11.14
“La mia vita, una battaglia per curare le persone non solo gli organi malati”
A fine anno il celebre oncologo lascia la direzione dell’Ieo
“Sono l’uomo della speranza, ma vivo immerso nel dolore”
intervista di Luca Ubaldeschi


Come a volte succede con le grandi storie, tutto è cominciato per caso: «Era un giorno d’estate, inizio Anni 50, io giovane assistente all’Istituto tumori di Milano. Il responsabile del reparto va in ferie, il vice pure, mi chiamano, “Tocca a te”. Era la prima volta che operavo una donna al seno».
Umberto Veronesi ricorda bene la paziente di quel giorno, passo iniziale di un percorso che lo ha portato a diventare il simbolo della lotta ai tumori: 30 mila donne operate, quasi 300 mila visitate, circa 5 milioni nel mondo che hanno salvato il seno grazie alla sua tecnica rivoluzionaria.
Oggi, alla vigilia di scadenze importanti - venerdì compie 89 anni, a fine anno lascerà la direzione scientifica operativa dello Ieo, Istituto europeo di oncologia, la sua creatura, per rimanere come emerito -, l’oncologo più famoso riflette sulla sua straordinaria esperienza di medico con parole non scontate: «Vivo da sempre una situazione di schizofrenia. Sono l’uomo della speranza, però immerso ogni giorno nel dolore. Devo trasmettere fiducia e ottimismo, ma nel profondo sono angosciato, tormentato, sento un nichilismo alla Nietzsche, porto dentro di me la fossa comune di tutti i pazienti che ho perso». Un concetto, quello della doppia condizione psicologica, che Veronesi spinge ancor più in là: «Sono ermafrodita, in senso intellettuale: un corpo da uomo con una mente femminile».
Per questo ha dedicato la vita ad aiutare le donne?
«Quando feci quel primo intervento, ero convinto della tecnica che si usava: mastectomia bilaterale con rimozione dei muscoli del torace. Si pensava fosse l’unico modo per salvare la vita delle pazienti, ma era un massacro. Quasi il 50% dei mariti lasciava la moglie che perdeva un seno per il tumore, le donne stesse rifiutavano l’intimità. Probabilmente è stato il rispetto sacrale che ho fin da bambino per il corpo femminile - io, orfano di padre, cresciuto in un ambiente di donne - a farmi dire no a quella mutilazione. Mi sono messo a pensare, studiare, ricercare».
E ha maturato la convinzione che essendo la ghiandola mammaria composta da diversi lobi, forse si poteva rimuovere soltanto quello colpito dal tumore e salvare il seno. Ma non è stato facile rovesciare il credo dominante, vero?
«Esposi l’intuizione ai miei colleghi e ricevetti accuse feroci, fui considerato un ciarlatano che voleva scardinare i dogmi per fare carriera e soldi. Ci fu chi disse che volevo sacrificare vite umane per diventare famoso. Ma non mi arresi, conclusi la sperimentazione nell’isolamento e fra dubbi atroci. Furono anni bui. Poi arrivò la vittoria scientifica, il mio lavoro pubblicato sul New England Journal of Medicine e rilanciato nel 1981 dal New York Times in prima pagina. Fu la svolta: altri media ne parlarono, le donne andavano dai medici col giornale in mano chiedendo che salvassero loro il seno».
Oggi la sua tecnica, la quadrantectomia, è patrimonio globale. E negli ultimi 15 anni le sue pazienti sono guarite nel 94% dei casi. Ma che cosa vede, oggi, nei loro occhi?
«Paura, ancora. La diagnosi di cancro provoca alle donne un corto circuito cerebrale. Il primo pensiero sono i figli, “Chi si prenderà cura di loro?”. A dispetto di indici di guaribilità sbalorditivi, se pensiamo che all’inizio del secolo scorso le guarigioni erano vicine allo zero e negli Anni 50 al 20%».
Oggi il rapporto con il malato è più facile o difficile?
«Direi più complesso. La paziente arriva dopo aver letto tutto su Internet e questo è spesso un disastro, perché il web informa, però non spiega. Si legge “carcinoma”, ma la parola in sé dice poco, perché è la dimensione a fare la differenza tra la vita e la morte. Il cancro del seno è malattia legata alla dimensione, dunque alla diagnosi precoce. Uno studio dello Ieo ha scoperto che in caso di tumore impalpabile la guarigione arriva al 99%. Se ogni donna facesse regolarmente mammografia, ecografia, risonanza magnetica, il problema sarebbe risolto. Ma non è così semplice, dipende da dove vivi, dai costi, dall’organizzazione».
Al paziente dice la verità?
«Distinguo due momenti, diagnosi e prognosi. La diagnosi, cioè che cosa ha il paziente, è certa e come tale va comunicata. Ma per la prognosi - come evolverà la malattia, come reagirà il corpo, quanto vivrà il paziente - c’è sempre un margine di incertezza e in quel margine abita la speranza. Nessun medico ha il diritto di togliere la speranza, perché quando si dice a una persona che dovrà morire, è come se morisse in quell’istante. Attenzione: questo non è tradire la fiducia del paziente, ma provare a capire».
Capire che cosa?
«Che una malattia colpisce un organo, ma viene elaborata da una mente. Lo stesso male può essere più o meno sopportabile a seconda della persona che lo percepisce. Ecco perché dico che bisogna tornare alla “Medicina della persona” (di cui Veronesi parlerà oggi alla Statale di Milano nell’incontro “Uniti per i pazienti”, ndr). Per curare qualcuno dobbiamo sapere chi è, che cosa pensa, che progetti ha, per cosa gioisce e soffre. Dobbiamo far parlare il paziente della sua vita, non dei disturbi. Oggi le cure sono fatte con un manuale di cemento armato: “Lei ha questo, faccia questo; ha quest’altro, prenda quest’altro”. Ma così non è curare».
Professore, questa sarebbe un’altra rivoluzione...
«È quella che a livello internazionale si chiama “Medicina narrativa”. Curare è prendersi cura della persona senza lasciare che abbia il sopravvento la medicina d’organo. Sono stufo di sentire in sala operatoria “Che cosa abbiamo oggi? Un polmone, un fegato...”, senza sapere a chi appartengono quel polmone e quel fegato. Ai medici non piace legarsi al paziente, nel timore di perdere obiettività, e spesso non disdegnano di drammatizzare la malattia perché così aumenta la loro missione salvifica e dunque il potere».
I medici italiani sono pronti a questo salto?
«Devono imparare a fare un lavoro diverso. Oggi la tecnologia offre scenari inediti, posso fare una diagnosi senza palpare un paziente o operarlo senza toccarlo, attraverso un robot. Questo dà più tempo per conoscere la persona che si ha davanti».
C’è anche un problema legato alle parole da usare?
«Penso spesso che la parola cancro vada eliminata per il potere paralizzante di cui ho parlato. Tumore è già meglio. Oppure neoplasia. Allo Ieo quasi non usiamo più carcinoma».
Però la questione di fondo è la sconfitta definitiva del cancro. Succederà?
«Io non la vedrò, ma succederà. Fra qualche anno cureremo tutti i tumori. Lo faremo grazie alla diagnosi precoce, per ora abbiamo farmaci risolutori solo per alcune forme di tumore».
Professore, come vorrebbe essere ricordato?
«Come uno che ha contribuito a migliorare la qualità della vita, soprattutto delle donne. Dopo secoli di maschilismo, le donne stanno prendendo più potere in tanti campi, nella sanità, nei media, nella magistratura. È una fortuna: la donna è pacifista, conciliatrice, l’uomo è violento e aggressivo. Si va verso una maggiore parità e il prezzo da pagare è anche una più bassa attrazione fra i sessi. Andiamo verso un’umanità bisessuale. Non è detto sia un male».

La Stampa 24.11.14
Empatia. Si può insegnare?
I genitori danno più importanza ai risultati scolastici e alla felicità dei figli Ma anche l’altruismo va comunicato, sostiene uno psicologo Usa. Ecco come
di Paolo Mastrolilli


Stiamo allevando figli gentili, educati, compassionevoli? Probabilmente la risposta che molti genitori darebbero d’istinto a questa domanda è no, ma non è il caso di disperare. Questi sentimenti si possono coltivare, e lo psicologo di Harvard Richard Weissbourd è determinato a insegnarci come. Infatti ha lanciato un progetto, chiamato Making Caring Common, e suggerisce cinque regole auree da cui partire.
L’empatia verso gli altri non è una dote necessariamente naturale e automatica, anzi. A questo difetto di fabbricazione, però, si aggiungono gli errori commessi da padri e madri. Secondo uno studio condotto da Weissbourd, l’80% dei giovani pensa che i loro genitori danno più importanza ai risultati che ottengono a scuola e poi sul lavoro, o alla loro felicità personale, che non a quanto si preoccupano degli altri. Solo il 20% dei ragazzi ha la sensazione che essere gentili e curarsi del prossimo sia importante, e quindi si comporta di conseguenza. Per cambiare questo atteggiamento il professore di Harvard suggerisce 5 regole che i genitori dovrebbero applicare, convinto che l’altruismo si impari prima di tutto a casa.
Il punto numero uno è «Making caring for others a priority», ossia rendere una priorità il fatto di occuparsi degli altri. I genitori tendono a mettere la felicità dei figli davanti a tutto, ma così non li abituano a pensare al compagno di classe vittima di abusi, o anche alla semplice necessità di passare la palla quando si pratica uno sport. Dovrebbero invece invitarli a considerare la felicità degli altri, i loro obblighi e le conseguenze dei propri comportamenti. Bisogna dire: «La cosa più importante è che tu sia gentile», non soltanto felice.
Il secondo punto è «Provide opportunity for children to practice caring and gratitude», cioè dare occasioni per praticare la gratitudine e l’attenzione verso gli altri. Abituare i figli ad aiutare i compagni, dai compiti al gioco, e ringraziare chi aiuta loro.
Il terzo è «Expand your child’s circle of concern», ossia allargare il cerchio delle persone di cui si preoccupano. Non ci sono solo la famiglia o gli amici stretti. Senza arrivare necessariamente a farsi carico della fame nel mondo, si può partire dal dare una mano ad un compagno di classe finora mai considerato, per capire come potrebbero essere utili a tanti esseri umani di cui non avevano nemmeno immaginato l’esistenza.
Il quarto è «Be a strong moral role model and mentor», quindi dare il buon esempio. Facile a dirsi, difficile a farsi. I genitori devono dimostrare ai figli di essere gentili, e poi porli davanti a dilemmi morali per spingerli verso le soluzioni più compassionevoli.
Il quinto, infine, è «Guide children in managing destructive feelings», cioè aiutare i bambini a gestire i sentimenti distruttivi. Averli non è un segno di cattiveria: capitano a tutti. Affrontarli nella maniera giusta però è essenziale. Si comincia insegnando ai figli che quando si avvertono questi sentimenti è meglio fermarsi un istante, respirare profondo, e aspettare di calmarsi per esprimerli poi in maniera appropriata. Oltre alle cinque regole auree, Weissbourd ha consigli per tutto, anche per come abituare i bambini a mangiare ogni tipo di cibo, coinvolgendoli nella scelta e nella preparazione. E queste sono solo alcune delle indicazioni offerte dal Making Caring Common Project, che attraverso il suo sito si propone come strumento permanente a disposizione di famiglie e scuole, per l’educazione di bambini rispettosi e responsabili. L’importante è sapere che insegnare l’empatia e la gentilezza è possibile, basta provarci.

La Stampa 24.11.14
“La gentilezza l’abbiamo scritta nel cervello”
di Stefano Rizzato


La s’insegna ai bambini e ai manager. La si esige dai presidenti del Consiglio e nei rapporti online. Ma cosa c’è dietro alla passione collettiva per l’empatia? «È nata con la scoperta dei neuroni specchio, quando abbiamo capito che il cervello è programmato per mappare le azioni altrui come se fossero nostre». A spiegarlo è Leonardo Caffo, filosofo giovane (è nato nel 1988) e ricercatore all’Università di Torino.
L’empatia ha trovato quindi una base scientifica?
«Prima era un concetto solo filosofico: la capacità di rappresentare lo spazio altrui come se fosse proprio. Poi abbiamo scoperto che tutto questo è scritto nei neuroni, che in realtà c’è una sfumatura sottile tra il sé e l’altro. L’empatia non si impara, è auto-appresa. Ma esprimerla è tutt’altro che automatico».
Quali sono gli ostacoli?
«Paradossalmente abbiamo costruito un mondo che funziona nel modo opposto. L’ambiente è fondamentale: la natura umana è liquida, ma abitiamo una società che non l’asseconda. Per capirlo possiamo fare un parallelismo con le lingue. Come ha spiegato Noam Chomsky, una seconda lingua non s’impara, ma si sviluppa. Nel nostro hardware ci sono strumenti innati per acquisire un nuovo idioma, proprio come quelli dell’empatia. Ma poi dipende dal contesto e dalla società in cui siamo immersi».
Quindi ogni ambiente basato su gentilezza e rispetto, che sia una scuola o una famiglia, fa bene all’empatia?
«Sì, e tutto questo si lega anche a quello che oggi sappiamo dei geni, al loro cambiare e mutare in funzione di ambiente ed esperienze. Favorire l’empatia è una scelta con risvolti morali importanti, che ci porta verso una società più giusta. Ci sono esperimenti che lo confermano: i bambini con meno di tre anni, di qualunque cultura, hanno l’innata capacità di soffrire per le sofferenze altrui. Ampliare i loro confini, abituarli all’alterità, crescerli a contatto con un cane o un maiale: così possiamo educarli anche a rapportarsi con chi è diverso».

Repubblica 24.11.14
Il lifting al cervello
Sempre di più la scienza cerca di capire i processi di invecchiamento per frenare l’orologio biologico Gli ultimi studi superano il dualismo mente-corpo: anche le emozioni possono servire a mantenersi più giovani
di Silvia Bencivelli


UNA casa come una macchina del tempo, diretta verso un passato di arredi anni Cinquanta: le tendine alle finestre, il secchio per il carbone, una radio gracchiante vecchie canzoni. E nessuno specchio, perché gli ospiti non vedessero i propri veri volti. La casetta anacronistica fu inventata dalla psicologa americana Ellen Langer, che nel 1981 fece accomodare al suo interno cinque anziani. Alla fine del soggiorno, giura Langer, i cinque erano ringiovaniti: facevano le scale con meno sforzi, erano più agili e avevano persino meno problemi di vista. Risultati così buoni, racconta oggi Langer al New York Times, che non ebbe nemmeno il coraggio di sottoporli a una rivista scientifica, temendo (o sapendo) di non essere presa sul serio. Anni dopo lo stesso esperimento fu ripetuto a favore di telecamera, per un reality della Bbc che aveva come ospiti cinque celebrità passatelle. Mentre le idee di Langer sul potere della mente sono diventate materia da bestseller e da manuali dal sapore new age in cui si raccontano esperimenti su come la calvizie possa peggiorare la percezione del proprio stato di salute, e quindi comprometterla davvero, o su come ci si possa garantire una vecchiaia sana imparando a tenere attiva la mente e a cercare le novità in ogni piccola cosa.
Ellen Langer ha una cattedra ad Harvard: «Per me l’esperimento del 1981 ha dimostrato che il modello biomedico dell’epoca, che teneva mente e corpo su binari separati, era sbagliato », spiega oggi. In realtà, a superare il dualismo mente — corpo la medicina del ventesimo secolo ci stava pensando da un pezzo. E in realtà quello che propone Langer non è altro che un effetto placebo sotto forma di pillole di benessere che migliorano l’umore e quindi, anche, in una certa misura, la salute dell’organismo.
Ma quello che era nuovo allora, e che oggi comincia a essere tendenza, è la proposta di operare un lifting al cervello per fermare gli orologi del corpo. Proposta che suona bene in senso commerciale, ma meno in senso scientifico, e lascia perplessi gli esperti di quella che viene chiamata geroscience , cioè la ricerca sull’invecchiamento. I suoi obiettivi sono diversi da quelli di Langer: «La nostra idea — spiega Claudio Franceschi, professore di immunologia all’università di Bologna e uno dei più importanti studiosi della longevità — è che studiare l’invecchiamento serva a capire le malattie dell’invecchiamento, che sono deviazioni dai meccanismi biologici sani». Non a impedire l’invecchiamento. Cioè l’obiettivo della ricerca non deve essere il cosiddetto antiaging: «Quella è una tendenza americana, di una società ossessionata dalla giovinezza. Ma a noi non interessa fare soldi così». Si parte semmai dalla constatazione che la maggior parte delle malattie ha come principale fattore di rischio l’età e quindi che più si invecchia più si rischia di ammalarsi. Ed è la salute l’obiettivo della ricerca, non l’eterna giovinezza in dieci comode rate.
Il versante psicologico della faccenda è comunque importante. Nessuno lo nega: «Il rapporto tra emozioni e salute è un’area calda della ricerca scientifica. Stiamo perciò cominciando a studiare l’effetto positivo delle emozioni, non più solo quello negativo degli stress», prosegue Franceschi. Ma attenzione a non pensare che la storia si esaurisca qui «perché la dura realtà biologica è un’altra». La dura realtà biologica è che le nostre cellule invecchiano eccome. Perciò possiamo fare un lifting alle zampe di gallina, e uno al cervello, ma per rassegnarci alla speranza di un invecchiamento sano conviene soprattutto prendersi cura di noi, concretamente.
Anche questa può suonare come una banalità, ma qui la scienza conferma. Per esempio, confermano gli studi sui cosiddetti orologi biologici: meccanismi di regolazione dell’espressione dei geni del Dna che rispondono a oscillazioni molecolari su periodi di ventiquattro ore, una specie di minuscolo orologio a pendola che regola i nostri comportamenti. A partire dal ritmo sonno- veglia.
«Si è visto che più si rispetta l’orologio endogeno — spiega Rodolfo Costa, professore di genetica all’università di Padova e coordinatore dell’unità di ricerca in Neurogenetica e Cronobiologia — più si vive in armonia con l’ambiente». Mentre forzarlo su ritmi diversi «aumenta il rischio di malattie anche gravi, metaboliche e cardiovascolari».Va detto che non è sempre possibile assecondare i propri ritmi: «Molti di noi sono soggetti a un jet lag sociale, cioè devono dormire in orari diversi da quelli che sarebbero loro, per adeguarsi al lavoro e al resto della società», prosegue Costa. E ci si può fare poco, se non recuperare il sonno perso, e solo parzialmente, durante il weekend. Quello che però la geroscience sta inseguendo è un cambio di paradigma che consideri l’invecchiamento un fenomeno ad alta complessità. «Per esempio — prosegue Franceschi — un tempo per studiare l’invecchiamento si studiavano i vecchi, ma oggi sappiamo che dobbiamo cominciare dai bambini». Perché noi siamo il risultato di «quello che ci è successo nel corso di tutta la vita: dal punto di vista nutritivo, ambientale, psicologico… ». Quindi anche la genetica tradizionale non ci basta più. Non basta più studiare il Dna dell’individuo, cioè il Dna contenuto nel nucleo di ogni sua cellula, per capire come e perché qualcuno è più longevo. Bisogna considerare anche il Dna mitocondriale, cioè il Dna contenuto in particolari organelli che si trovano a migliaia di copie dentro ogni cellula. «Ma c’è dell’altro», insiste Franceschi. C’è il Dna di tutti i batteri che ci vivono addosso, che insieme costituiscono il microbioma: «Sono migliaia di specie batteriche che insieme hanno cento volte il numero di geni del nostro Dna, e che producono vitamine, digeriscono il cibo, mantengono il nostro sistema immunitario». E, cosa importante, «la loro composizione è influenzata dall’età, dalla dieta, ma anche dall’esercizio fisico e dalle emozioni».
Ed ecco che il cerchio si chiude. Tornano le emozioni, che influenzano il microbioma, che a sua volta influenza il nostro organismo. Solo che tornano in un quadro così dettagliato da autorizzare ad abbandonare le vaghezze sul potere della mente per entrare in dettagli biologici che oggi cominciamo a conoscere davvero.
Ma comunque la vogliamo mettere, dobbiamo considerare che l’invecchiamento del corpo non è poi un fatto tanto naturale. L’uomo non è programmato per vivere cent’anni, anche se qualcuno ci riesce. Cioè: negli ultimi decenni abbiamo allungato moltissimo le nostre aspettative di vita. Ma i nostri geni sono rimasti gli stessi. Ed è qui il vero anacronismo, non in una casetta ferma agli anni Cinquanta.

Repubblica 24.11.14
Nei geni troveremo le risposte per ritardare la vecchiaia
di Elena Cattaneo


L’ATTESA di vita media alla nascita ha fluttuato per millenni ben al di sotto dei 35 anni. Non che tutti i nostri antenati non invecchiassero. Erano però pochi quelli che ci riuscivano. Inoltre, la vecchiaia era apprezzata solo quando i “vecchi” rimanevano autonomi. Parole come invecchiamento e vecchiaia non sono mai state culturalmente enfatizzate, perché era evidente che si trattasse di una fase naturale, inevitabile e tipicamente conclusiva del ciclo vitale umano. Dall’inizio del 1800, grazie ai progressi medici, ai miglioramenti dell’igiene, all’istruzione e alla produzione di ricchezza economica e sociale, l’attesa di vita media è però cresciuta costantemente. Oggi, giapponesi e italiani sono i più longevi, superando anche gli 80 anni. Ma non solo. In Italia, nel mio e in altri settori, conosco un lungo elenco di colleghi “di quella età”, le cui capacità deduttive, progettuali e creative continuano a essere per me illuminanti.
Cresce quindi l’interesse per i meccanismi sottesi all’invecchiamento. In biologia e medicina, l’unità base per spiegare tutto rimane la cellula. Se le nostre cellule, come quelle di qualunque altro sistema biologico non avessero un numero programmato di cicli replicativi saremmo potenzialmente immortali. Ma l’immortalità delle cellule non è un bene perché genera tumori. Replicazione e morte cellulare insieme permettono, al contrario, la creazione di varietà tra le specie, necessaria a rispondere ai cambiamenti ambientali. Anche l’invecchiamento dei neuroni è un processo fisiologico evolutivamente previsto. Studi sul cervello dimostrano che abbiamo una riserva endogena di staminali neurali che producono nuovi neuroni, ma solo saltuariamente e solo in un paio di microdistretti cerebrali, uno dei quali fortemente implicato nei meccanismi di memoria e apprendimento. Alcune ricerche vorrebbero spingere su questa riserva endogena e quindi sulla neo-genesi neuronale per rallentare il decadimento cognitivo. Ma si tratta di frontiere molto lontane. Bisogna studiare. Dallo studio della biologia delle staminali ci si attende anche una migliore comprensione dei fattori genetici e biochimici implicati nei processi di senescenza cellulare, ovvero che possano un giorno ritardare alcune delle conseguenze neurologiche e psicologiche di questi processi. Alcuni geni legati all’invecchiamento sono ora noti grazie anche a scoperte della ricerca di base italiana.
Con la longevità aumentano purtroppo anche le malattie degenerative. Sono una conseguenza del disaccoppiamento tra la nostra fisiologia, che si è selezionata per sopravvivere nella savana pleistocenica, e l’ambiente, che dalla rivoluzione agricola in poi è diventato sempre più artificiale per proteggerci dalle insidie ecologiche e alimentari naturali, allungandoci la vita. Da ciò noi viviamo molto più a lungo, ma con un’efficienza fisiologica messa alla prova da fattori di rischio che non erano mai esistiti prima. Inoltre, il fatto che in media le persone si riproducessero prima di 35 anni ha concentrato la fase di influenza di alcuni cosiddetti geni-malattia nel periodo di vita adulta.
Va da sé che per invecchiare bene si debba condurre una vita salutare. Sono importanti la dieta, l’attività fisica e coltivare interessi, in particolare culturali. Esperimenti condotti su animali dimostrano che l’attività fisica e gli stimoli visivi inducono le staminali cerebrali a generare più neuroni. Io penso, comunque, che le risposte principali per ritardare la senescenza, cioè gli effetti deleteri dell’invecchiamento, risiedano nei geni e nella loro storia. Storia che vuol dire conoscere il passato. Sappiamo che le società più avanzate sono quelle in cui un numero ampio di persone, non solo pochi benestanti, vive una vita lunga e in buona salute. Ebbene una sfida importante è abbattere le disuguaglianze nella salute, che dipendono molto da istruzione e reddito. In questo, scienza, politica e istituzioni devono collaborare con un proficuo dialogo basato su fatti scientificamente comprovati, sulla trasparenza delle responsabilità e sulla fiducia.
Il nuovo “invecchiamento” è sempre più un patrimonio diffuso che potrebbe evolvere in una fase ancor più vitale di maggior serenità, libertà, creatività e utilità sociale. Soprattutto, non distruggerei mai l’occasione di attingere alle competenze e alle esperienze accumulate nei circuiti dei cervelli anziani. Un tempo sono stati giovani e ora portano con sé decenni di allenamento verso le nuove idee, utilissimi per la collaborazione tra generazioni. Ordinario dell’università degli studi di Milano

Corriere 24.11.14
L’alba di Mediobanca
Così Cuccia sfidò l’ostilità di Einaudi
«Ricordiamo che la Banca d’Italia non fece obiezioni su di noi...»
di Giorgio La Malfa

Mediobanca fu costituita a Milano il 10 aprile 1946 con un capitale di un miliardo di lire sottoscritto dalle tre Banche di Interesse Nazionale (Bin): la Banca Commerciale, il Credito Italiano e il Banco di Roma. Enrico Cuccia, che aveva allora 38 anni ed era condirettore centrale per l’estero della Comit, venne nominato direttore della nuova banca.
«In un momento in cui il nostro Paese muoveva i primi passi per uscire dal labirinto delle sue rovine — disse Cuccia nella prima assemblea dei soci, che si tenne il 29 ottobre 1947 — era sembrata essenziale per la ripresa economica italiana la creazione di un organismo che promuovesse la formazione di nuovo risparmio a media scadenza necessario a mettere le aziende produttive in condizioni finanziarie di equilibrio e che contribuisse a contenere le richieste delle aziende stesse all’impoverito settore creditizio ordinario entro i limiti delle effettive esigenze a breve termine». Cuccia aggiunse che «l’iniziativa dalla quale è sorto il nostro Istituto venne concretata nell’autunno del 1944, ma furono necessari oltre 18 mesi di laboriose pratiche per ottenere le indispensabili autorizzazioni». Non spiegò quali fossero state le difficoltà incontrate.
Molti anni dopo, ricordando a Firenze Raffaele Mattioli nella sola occasione in tutta la sua vita in cui egli abbia accettato di prendere la parola in pubblico, Cuccia si soffermò sulle origini del progetto: «L’idea di Mediobanca — spiegò — ha una data di nascita, o, forse, sarebbe meglio dire, di concepimento: qualche giorno dopo il Ferragosto del 1944, nell’Ufficio di Rappresentanza della Comit a Roma, in piazza Santi Apostoli, Mattioli ed io parlammo per la prima volta della nuova creatura». E aggiunse: «Il nome che Mattioli suggerì fu “Unionbanca” in quanto sin dal primo momento l’iniziativa non fu vista da lui come un affare controllato dalla sola Comit». Spiegò che, nella prima formulazione del progetto, vi sarebbero dovuti essere quattordici azionisti fra banche e compagnie di assicurazione, anche se le tre Bin avrebbero dovuto avere la maggioranza del capitale. Da quel primo scambio di idee era nato un appunto, datato 30 settembre 1944, consegnato da Mattioli al commissario straordinario dell’Iri, Leopoldo Piccardi, nel quale, delineati i problemi che il sistema bancario italiano si sarebbe trovato ad affrontare nell’immediato dopoguerra, si proponeva la costituzione di un ente specializzato nella raccolta di risparmio e nella concessione di finanziamenti a medio termine. Iniziava così l’iter che doveva portare alla costituzione di quella che poi si sarebbe chiamata Mediobanca.
Quali furono le difficoltà e gli ostacoli? Un primo problema riguardò l’individuazione dei soci. Solo il Credito Italiano, guidato da Mino Brughera, fu da subito favorevole. Gli altri interpellati declinarono l’invito, probabilmente sospettando di essere chiamati a fornire dei capitali per un affare di interesse della sola Comit. Alla fine l’Iri costrinse un Banco di Roma molto riluttante ad affiancarsi alle altre due Bin.
Il problema maggiore fu la Banca d’Italia. Sia il direttore generale, Niccolò Introna, che Luigi Einaudi, divenuto Governatore all’inizio del 1945, furono contrari. L’ostilità di Einaudi traspare dal suo diario di quel periodo (Luigi Einaudi, Diario 1945-1947 , Laterza 1993). Diciassette marzo ’45. «(Mattioli) mi promette di mandarmi un certo progetto compilato da lui che suppongo essere quello del consorzio bancario per le operazioni a media durata di tempo». Quattordici aprile. «Si parla del suo (di Mattioli) progetto di Union Bank… Se gli si chiedesse la (sua) opinione intorno all’opportunità di lasciar fare operazioni di medio credito alle banche ordinarie risponderebbe di sì oltre che per sé anche per il Credito». Einaudi aggiunge di avere fatto leggere a Mattioli un articolo apparso sull’«Economist» nel quale, presentando un progetto analogo, si commentava che questo tipo di iniziative costituiva il dustbin , «il tradizionale ripostiglio degli affari cattivi delle banche». Da questi accenni si capisce che Einaudi sospettava che la Comit cercasse di tornare, senza farsene accorgere, ai suoi vecchi amori (e vizi) della banca «mista» degli anni di Giuseppe Toeplitz.
Seguono altri incontri tutti inconcludenti, anche se Mattioli non si scoraggiò anche dopo una durissima lettera di Introna e continuò a perorare il progetto. Nel settembre, anzi, presentò alla Banca d’Italia una domanda formale di autorizzazione a costituire il nuovo istituto facendo riferimento al fatto che «il Governatore della Banca d’Italia, dopo diffusa e animata (sic) discussione della proposta, ci ha autorizzati a riferirci agli affidamenti da lui dati per l’accoglimento della domanda».
Quello che infine sbloccò le resistenze della Banca d’Italia fu una brillante trovata di Mattioli, che nell’ottobre fece sapere della disponibilità di Felix Somary, presidente della Bankartet Cie di Zurigo, ad investire in Unionbanca fino a mezzo miliardo di lire. Einaudi apprezzava Somary, che era anche un economista oltre che un banchiere, e probabilmente giudicò che questa partecipazione estera (che peraltro poi non ebbe un seguito concreto) potesse offrire le garanzie di indipendenza dalla Comit della nuova iniziativa che egli riteneva indispensabili. Nel frattempo Introna venne sostituito da Donato Menichella, che conosceva bene sia Mattioli che Cuccia (che aveva lavorato con lui all’Iri dal 1934 al 1938) e diede una mano a concludere positivamente l’iter della pratica. Così si poté procedere alla costituzione di Mediobanca, che poté iniziare la sua attività.
Ma non era ancora finita perché non era venuta meno l’ostilità di Einaudi. Inaspettatamente, nel marzo del 1947, nell’Assemblea dei partecipanti della Banca d’Italia, il Governatore espresse l’avviso che bisognasse introdurre un ulteriore limite alla raccolta di risparmio di Mediobanca, che per lo Statuto poteva andare da 12 a 60 mesi, e stabilire che la durata minima dei libretti di risparmio dovesse essere di 24 mesi.
A quel punto partì da Mediobanca una lettera, mai pubblicata, diretta al ministro del Tesoro. La lettera, sicuramente scritta personalmente da Cuccia, è cortese nella forma, ma molto dura nella sostanza. «Dobbiamo anzitutto ricordare — si legge — che lo Statuto di Mediobanca formò oggetto di esame e di discussione presso questo ministero in data 3 aprile 1946, con l’intervento anche del Governatore della Banca d’Italia, nella stessa persona dell’on. Professor Einaudi. Né in quella sede (…) né in occasione di un successivo scambio di corrispondenza venne sollevata alcuna obbiezione sui limiti dei vincoli della nostra raccolta».
Detto questo, Cuccia fa presente che, avendo cominciato la raccolta secondo le modalità previste dallo Statuto debitamente autorizzato dalle autorità di governo, tornare ora sul mercato con vincoli diversi e rinegoziare con coloro i quali avevano sottoscritto libretti di risparmio da 12 a 24 mesi avrebbe avuto conseguenze e costi notevoli per la giovane banca. Ma i due punti successivi sono i più duri. Il primo è un’obiezione di sostanza, messa in forma di interrogativo: «Quali possano essere le ragioni di principio addotte per giustificare il criterio di destinare ad operazioni finanziarie con scadenza da uno a cinque anni fondi raccolti con vincoli da due a cinque anni?». L’altro riguarda il fatto che questo eventuale limite si applicherebbe a Mediobanca, ma non ad altri istituti a medio termine come l’Imi, che oltretutto godevano di un trattamento fiscale più favorevole.
Si è già detto perché Einaudi non amava il progetto di Mattioli-Cuccia. Ma perché privilegiare l’Imi e gli altri istituti a medio termine? Riflettendoci bene, la risposta è che tutti questi istituti (tranne Mediobanca) avevano natura di enti pubblici e dunque non rispondevano ai propri azionisti, ma solo alle autorità di governo e soprattutto alla Banca d’Italia: erano il braccio armato dello Stato.
È molto curioso che un liberale come Einaudi fra un’impresa privata, seppure creata da banche pubbliche come erano le Bin, e un ente pubblico preferisse quest’ultimo. Ma forse Einaudi, che non conosceva Cuccia personalmente, non poteva sapere che questi avrebbe difeso con assoluta caparbietà l’indipendenza e l’autonomia di Mediobanca anche nei confronti della Comit.
Molti anni dopo Mattioli avrebbe scritto a Cuccia una famosa lettera, nella quale lamentava «le tenebre del più ermetico segreto», con le quali Cuccia copriva le iniziative della banca anche nei confronti dei suoi azionisti principali, e domandava polemicamente: «Nell’interesse di chi è amministrata Mediobanca?». Era una lettera che avrebbe dato in qualche modo ragione alle preoccupazioni di Einaudi circa l’idea che aveva Mattioli dei rapporti fra la Comit e Mediobanca, salvo che, pur legato a Mattioli da un rapporto di affetto molto profondo, Cuccia considerava non negoziabile la completa autonomia di Mediobanca anche rispetto ai suoi azionisti e a maggior ragione nei confronti dell’Iri, progressivamente infeudato alla politica.
È per questo che Mediobanca, a differenza degli altri istituti a medio termine, è viva e vegeta e, in tutto il corso del dopoguerra, ha potuto rendere all’economia del nostro Paese servizi importanti e significativi.

Corriere 24.11.14
Samantha svela il sonno
Sensori e sfere riflettenti, sperimenterà i disturbi del riposo in assenza di gravità
di Giovanni Caprara


Ieri alle 22,01 la partenza per la stazione spaziale: «Starò lontana per un po’» Astrosamantha è in orbita e oggi potrà scrivere la prima pagina del suo diario di abitante della stazione spaziale.
Samantha Cristoforetti è volata sulla navicella russa Soyuz alla 10.01 di ieri sera verso la casa cosmica. Chi le scrive una e-mail riceverà un messaggio automatico che solo un astronauta può diffondere: «Sono fuori dal pianeta per un po’ e tornerò nel maggio 2015».
Prima di partire ha confessato di aver fatto la doccia più lunga della sua vita, sapendo bene quanto sia difficile lassù lavarsi per bene. Disagi da donna spaziale compensati tuttavia da altre straordinarie soddisfazioni, soprattutto per Samantha al suo primo viaggio nel cosmo. Il balzo sulla stazione è stato breve, poco più di sei ore, mentre fino ad un paio d’anni fa si impiegavano oltre due giorni. Nei continui ammodernamenti nell’impiego e nella tecnologia della navicella concepita una quarantina d’anni fa, è stata elaborata una traiettoria più rapida che ha tagliato la percorrenza e i disagi affrontati dai tre astronauti chiusi in uno spazio estremamente angusto.
Il primo giorno sulla stazione Samantha, lo dedicherà all’ambientamento, poi inizierà il suo lungo soggiorno di sei mesi nei quali sarà impegnata in circa duecento esperimenti scientifici, dieci dei quali preparati dall’agenzia spaziale italiana Asi con varie istituzioni di ricerca nazionali. Naturalmente avrà momenti di riposo e ore dedicate all’attività ginnica per combattere il degrado fisico provocato dall’assenza di gravità.
«Ma non farò nulla che possa fare sulla Terra», ha ricordato per sottolineare che vuol vivere il più intensamente possibile la sua eccezionale dimensione di astronauta dell’Esa.
Affronterà, tra gli altri, un esperimento sul sonno studiato dalla Fondazione Don Gnocchi prezioso pure quaggiù. Senza la gravità la qualità del sonno è cattiva incidendo negativamente sul lavoro da compiere.
Anche se in passato le indagini rivelavano un’apparente normalità si è scoperto che gli astronauti subiscono dei dannosi micro-risvegli di cui non si conosce la causa. Si pensa che dipendano da alterazioni del sistema nervoso indotte da un cambiamento nel funzionamento del cuore. Per scoprirlo Samantha dormirà indossando una maglietta riempita di sensori i quali registreranno l’elettrocardiogramma, il respiro, le vibrazioni cardiache mentre un termometro misurerà la temperatura della pelle. Al risveglio i dati saranno scaricati su un computer che li invierà a terra.
Un altro esperimento ideato al Politecnico di Milano impegnerà a lungo la prima astronauta italiana quasi danzando indagando l’adattamento del cervello nella guida dei movimenti in assenza di peso. Samantha attaccherà sul suo corpo delle sferette riflettenti consentendo a un gruppo di telecamere di tenere sotto controllo le posizioni assunte durante una serie di esercizi.
Altri test riguarderanno lo studio della perdita di calcio delle ossa di cui si soffre in orbita e utili a combattere l’osteoporosi negli anziani oppure la circolazione sanguigna nel cervello la cui comprensione può aiutare l’indagine nelle malattie neurodegenerative.
Tanti compiti ai quali Samantha da mesi si preparava per realizzare al meglio.

Repubblica 24.11.14
Lo studioso francese Christian Salmon spiega come i protagonisti di oggi, da Obama a Hollande, cerchino il consenso solo con espedienti “narrativi”
“La politica prigioniera dei racconti dei suoi leader”
di Anais Ginori


PARIGI SIAMO diventati tutti cannibali. Affamati di storie e colpi di scena, divoriamo i nostri rappresentanti politici come fossero oggetti di consumo, dimenticando che il piatto finale di questo banchetto funesto è la democrazia, il sistema istituzionale che abbiamo faticosamente costruito. «Il dibattito delle idee è passato dall’età della confronto a quello dell’interattivo, del performativo e dello spettrale» racconta Christian Salmon, autore di numerosi saggi su censura e narrazione.
Dopo aver pubblicato qualche anno fa l’illuminante Storytelling, Salmon torna con un nuovo libro dedicato all’assoggettamento dei politici alla narrazione e alla performance. La politica nell’era dello storytelling è un’inchiesta sulla nuova generazione di uomini pubblici, da Bill Clinton a Matteo Renzi, protagonisti di una commedia mediatica permanente che li ha lentamente resi nudi e “potenti impotenti” come scrive Salmon. «La comunicazione politica — continua — non mira più solo a formattare il linguaggio, ma a incantare gli spiriti e sprofondarli in un universo spettrale di cui i politici sono al tempo stesso performer e vittime».
L’obbligo della “narrazione” sta uccidendo la politica?
«Quando ho scritto Storytelling volevo allertare sui pericoli della narrazione nel management, nel marketing, nella comunicazione politica. Ormai è cosa nota. Lo storytelling ha invaso le nostre vite. È una sorta di pensiero magico usato dai comunicatori, una vulgata che scredita ancora di più la parola pubblica. In questo nuovo libro analizzo gli effetti dissolventi e divoranti dello storytelling sull’homo politicus e sulla sfera pubblica».
Siamo assistendo a una ‘cerimonia cannibale’, titolo originale del libro?
«Il dramma che si recita non è altro che il divoramento dell’uomo politico per come l’abbiamo conosciuto negli ultimi duecento anni. Per l’effetto combinato del neoliberismo, le nuove tecnologie e la rivoluzione della comunicazione, la scena politica si è spostata dai luoghi tradizionali dell’esercizio del potere verso quelli performance come i media all news, Internet e i social network».
In cosa consiste la trappola della “insovranità”?
«La simbologia del potere funziona solo con una sovranità reale. La globalizzazione neoliberista e la costruzione europea hanno distrutto la sovranità degli Stati. È scomparso il legame tra l’incarnazione del potere e il potere di agire. Da un lato ci sono po- teri senza volto — i mercati, le agenzie di rating, Bruxelles — e dall’altro volti di impotenti. Lo sviluppo dei social network e dei canali all news non ha fatto altro che aggravare la situazione. Più gli uomini politici sono esposti mediaticamente, più la loro impotenza è lampante. È un circolo vizioso ».
L’uomo politico è diventato un oggetto di consumo?
«Il tempo lungo delle deliberazioni democratiche ha lasciato il posto al tempo reale dei canali di informazione. L’uomo di Stato si presenta ormai più come un oggetto di consumo che come una figura autorevole: è diventato un artefatto della sottocultura di massa e non è più visto come un’istanza produttrice di norme. Un personaggio di serie tv sottomesso all’obbligo della performance».
Esistono delle eccezioni?
«Da Bill Clinton a Nicolas Sarkozy, passando per Tony Blair, George Bush e Barack Obama, ogni capo di Stato è costretto a essere onnipresente fino a banalizzarsi, sovraesposto sotto alla lente d’ingrandimento dei media. Si crea una distanza ravvicinata persino oscena. Siamo passati dal ‘doppio corpo’ del Re studiato da Kantorowicz al ‘corpo aumentato’ dei telepresidenti. È il corpo sudato di Sarkozy, quello spettrale di Berlusconi. È la silhouette lunga di Obama, sottile quanto un logo. Gli uomini politici diventano virtuali, angeli digitali. Subiscono fluttuazioni nei sondaggi con la stessa volatilità di un’azione in Borsa. La simbologia del sovrano scompare».
François Hollande è un pessimo narratore?
«Ha perso la battaglia delle parole, adottando il linguaggio della destra sui temi economici e senza riuscire a proporre un racconto alternativo che sia capace di dare senso alla sua azione. Ha fallito anche sull’immagine. È precipitato nel bagno dell’acido mediatico, com’era già successo a Clinton o a Berlusconi con il bunga bunga. Hollande ormai appare slavato, senza più credibilità.Nudo».
Cosa pensa della sovraesposizione e del successo mediatico di Matteo Renzi?
«Il Titanic aveva un problema di iceberg. Non un problema di comunicazione. L’ha detto Paul Begala (ex consigliere di Clinton, ndr.) a proposito dell’amministrazione Obama. Vale anche per Matteo Renzi. Mi sembra impegnato in una fuga in avanti che può creare un’illusione ma solo momentanea. Fa parte di quello che definisco ‘paradosso del volontarismo impotente’».
In politica, si tenta di mascherare la mancanza di autorità con il volontarismo?
«Il volontarismo è la forma che assume la volontà politica quando il potere è privo di mezzi. Viene esibita una volontà ancora più forte, raddoppiandone l’intensità, per tentare di recuperare credibilità. Ma questa prova di forza non fa altro che accentuare il sentimento di impotenza dello Stato. E si entra così in una spirale di perdita di legittimità».
Qual è la responsabilità dei media?
«La mediasfera è il teatro della sovranità perduta. È la ribalta per uno strip-tease in cui l’homo politicus si spoglia a poco a poco dei suoi poteri, dei suoi attributi, del suo prestigio, della sua maestà, fino a perdere dignità. È il prezzo da pagare per catturare l’attenzione sempre più reticente dell’opinione pubblica. La ribalta di questo spogliarello è la televisione. In verità, l’uomo politico sta forse scomparendo al culmine della sua sovraesposizione mediatica. Parafrasando una formula di Martin Amis, direi: “He has vanished into the front page”. È scomparso in prima pagina».

L’AUTORE Christian Salmon (Marsiglia 1951) Tra i suoi saggi Storytelling (Fazi), Diventare minoritari (Bollati Boringhieri)
IL SAGGIO La politica nell’era dello storytelling di C. Salmon (Fazi, trad. di N. Vincenzoni pagg. 119 euro 16)
RTV-LAEFFE Alle 13,45 su RNews (canale 50 del digitale terrestre e 139 di Sly) il servizio

Corriere 24.11.14
Traduzioni, la migliore è quella sostenibile

Tra i «mestieri del libro» uno dei più importanti, e sottovalutati, è quello del traduttore. Eppure gran parte dei libri che leggiamo, soprattutto romanzi, sono stati scritti in una lingua diversa dall’italiano. «Le traduzioni, come il vino, possono essere sottoposte a diversi procedimenti di lavorazione, partire da una quantità disparata di metodi, arrivare a risultati (ebbene sì) addirittura opposti». Ecco perché uno che questo lavoro lo fa con competenza e passione, Daniele Petruccioli, ha deciso di scrivere una «guida pratica per orientarsi nel mondo dei libri tradotti», intitolata Falsi d’autore (Quodlibet, pp.120, e 10). Di una cosa bisogna essere certi: quando si compra una traduzione è inutile sperare di avere in mano l’originale, così come chi ascolta un disco contenente un’esecuzione degli Studi di Chopin non ha in mano lo spartito di quegli stessi Studi . Petruccioli porta il lettore in un excursus, anche storico, che passa attraverso il «traduttese» e il «tradiano», che svela trucchi, senza voler assolvere a priori il traduttore. Si arriva al capitolo finale per scoprire che esiste la «traduzione sostenibile». A patto, però, che si voglia essere «lettori consapevoli».