martedì 25 novembre 2014

La Stampa 25.11.14
Una lapide a Angkor dimostra che lo zero è nato in Oriente
Riscoperta da uno studioso americano dopo che era andata perduta al tempo di Pol Pot, toglie agli arabi la paternità del sistema decimale
di Laura Anello


Secondo il matematico russo Tobias Dantzig, l’autore de Il numero, il linguaggio della scienza, «nella storia della cultura, la scoperta dello zero si ergerà sempre come una delle più grandi conquiste individuali del genere umano». Un libro che, scriveva Einstein, «è il più interessante sull’evoluzione della matematica che mi sia mai capitato tra le mani». Ecco perché la scoperta – o forse meglio dire la riscoperta – della prima iscrizione al mondo che riporta il segno 0 non è questione che attenga soltanto agli specialisti.
Su quel cerchietto usato in senso posizionale (cioè in grado di determinare il significato di un numero a seconda della sua posizione, per esempio 605, 650, 6500, 6050, 6005) è costruito tutto il nostro sistema decimale. Quello che ci consente di aggiungerlo in coda a una cifra e moltiplicarla per dieci, quello che ci ha permesso di affrancarci dal sistema romano, e poi medievale, che metteva in fila le lettere dell’alfabeto. Ma anche quello che ha dato nuova identità filosofica e concettuale allo 0, lontana dall’idea di «nulla» babilonese e greco.
Finora si è creduto che la prima testimonianza dello 0 «posizionale» fosse custodita in India, nel tempio indù Chatur-bhuja (dio a quattro braccia) della città di Gwalior, a sud di Delhi. Un’iscrizione datata intorno al 900 dopo Cristo. Adesso invece il primo 0 del mondo si è palesato in Cambogia, ed è di due secoli precedente a quello di Gwalior, precisamente del 683. A scoprire l’iscrizione K-127, citata da alcuni testi a cavallo tra Ottocento e Novecento ma poi scomparsa nel nulla, è stato il matematico e divulgatore scientifico americano di origine ebraica Amir Aczel, che si è messo sulle tracce di testimonianze sommerse per arrivare nella città di Angkor, l’antica capitale del regno Khmer, nel laboratorio di restauro dove l’Università di Palermo guida un progetto internazionale chiamato Trinacria che ha consentito di salvare oltre cento opere.
E tra queste l’iscrizione con il numero d’inventario K-127, originariamente collocata sulla porta del tempio pre-angkoriano di Sambor, vicino al fiume Mekong. Un’iscrizione rituale di 21 righe in lingua Kmher antica che alla quarta riga riporta il numero 605. «L’era Chaka ha raggiunto 605 il quinto giorno della luna calante», c’è scritto. «Sappiamo che l’era Chaka era iniziata nel 78 dopo Cristo, quindi l’anno di inserimento nel nostro calendario si ricava dall’addizione 605 + 78, cioè 683. Il primo zero che abbiamo mai trovato», chiosa Aczel. E la questione va ben oltre il semplice primato tra India e Cambogia. Perché è la pietra di suggello sul fatto che lo 0 come base del sistema decimale (perché altri sistemi sono molto più antichi e risalgono indietro nel tempo fino ai babilonesi) sia stato scoperto in Oriente, e non in Occidente, e che gli arabi lo abbiano portato sì da una parte all’altra del mondo: ma da lì a qui, e non il contrario. Affermazione oggi consolidata nella comunità scientifica, ma che agli inizi del 1900 era rivoluzionaria quasi quanto la rivoluzione galileiana.
L’idea diffusa era che lo avessero inventato gli europei. Il matematico britannico George K. Kaye sparava a zero contro l’ipotesi della primazia indiana, contestando allo 0 del tempio di Gwalior di trovarsi in una zona che nel IX secolo dopo Cristo era un califfato arabo. Chi poteva sostenere che non lo avessero portato lì commercianti arabi, dall’Occidente culla di ogni sapere? Fu proprio l’iscrizione cambogiana del tempio di Sambor, la K-127 ora ritrovata, a demolire la visione «occidentocentrica».
L’aveva rinvenuta tra le rovine del tempio del VII secolo, nel 1891, lo studioso francese Adhemard Leclère. Nel 1931 l’archeologo francese Georges Coedes l’aveva tradotta e l’aveva datata a un tempo in cui l’impero arabo non si era ancora esteso fino alla Cambogia. Se quello 0 c’era, scolpito sulla pietra, significava che era stato scoperto lì.
Ma il primato cambogiano era stato dimenticato, così come l’iscrizione era scomparsa nel buco nero dei massacri di Pol Pot, con il suo 1 milione e 700 mila vittime (quasi un terzo della popolazione del Paese) e con le sue 10 mila opere d’arte distrutte. Nessuno ne aveva più memoria, e lo 0 del tempio indiano di Gwalior continuava a essere considerato dalla letteratura scientifica internazionale come il primo 0 «posizionale» del mondo.
Fino a quando quell’iscrizione non è ricomparsa nei laboratori di Angkor. «Ci era stata segnalata dalle autorità cambogiane come un’opera di particolare rilievo – racconta Giovanni Rizzo dell’Ateneo di Palermo - ma si era persa memoria della sua reale importanza, fino a quando il ricercatore dell’Università di Boston Aczel non è arrivato a riscoprirla». Vista da Aczel, una vera caccia al tesoro. «Sono partito grazie all’appoggio della Sloan Foundation di New York, nonostante tanti testimoni mi raccontassero che la distruzione dei Khmer Rossi era stata troppo radicale per ritenere che esistesse ancora. Ho deciso di fare appello al governo cambogiano, finché il direttore generale del ministero della Cultura e delle Arti Hab Touch mi ha detto che era stata spostata in un compound vicino alla città di Siem Reap, pure saccheggiata alla fine del 1990 in una recrudescenza della violenza. Ho guidato fin lì, ho trovato la struttura chiamata Angkor Conservation, mi sono messo a cercare tra migliaia e migliaia di manufatti archeologici collocati a terra in grandi capannoni. Finché, era un tardo pomeriggio, l’ho trovata. Un’emozione incredibile».

Repubblica 25.11.14
La fine della penna
I nativi digitali la usano sempre meno
Dal 2016 la Finlandia la metterà al bando dalle classi
Ma un esperimento italiano rilancia le virtù della scrittura manuale
Migliora ricchezza lessicale e capacità di sintesi dei bambini
di Maria Novella De Luca e Irene Maria Scalise


QUATTRO mesi, per quindici minuti al giorno. Provando a dimenticare tastiere e touch. Lettere maiuscole e lettere minuscole che scorrono sul foglio, intersecando segni e pensieri, simboli ed emozioni. Il tondo della “o”, il gambo della “g”, l’asta della “t”, il manico della “f”. Curve, linee, pieni e vuoti. E a sorpresa quattrocento bambini digitali di otto, nove e dieci anni riscoprono la scrittura in corsivo, e in poco più di cento giorni il loro lessico, punteggiatura e ortografia, migliorano sensibilmente. Così mentre il mondo celebra (o piange) la morte della calligrafia e degli esercizi a penna, mentre addirittura la Finlandia delle scuole più belle del pianeta annuncia, dal 2016, l’addio ad ogni forma di compilazione manuale, un piccolo esperimento italiano rilancia con forza le virtù del corsivo. Ri-alfabetizzazione di bambini e ragazzi che volando dallo stampatello alla tastiera, dicono i più pessimisti, rischiano di non saper più né leggere né scrivere. E di perdere a furia di esercitarsi sui tasti, quell’abilità sottile delle mani che l’uso della penna regala.
È stato un famoso pedagogista italiano, il professor Benedetto Vertecchi, tenacemente convinto del pericolo che la scuola 2.0 cannibalizzi capacità e competenze dei più giovani, ad ideare un singolare progetto che ha coinvolto quasi quattrocento bambini di due scuole romane. «Abbiamo chiesto alle insegnanti di far scrivere ad ogni allievo, per quindici minuti al giorno, brevi testi e pensieri di quattro o cinque righe, utilizzando unicamente il corsivo. È ormai evidente — dice Vertecchi — che alla diminuzione della capacità di scrittura corrisponda una minore coordinazione tra pensiero e azione. Ma anche un peggioramento nell’organizzazione del discorso, un impoverimento del linguaggio e della memoria».
I risultati di questo singolare laboratorio, dal titolo latino “Nulla dies sine linea”, citazione da Plinio il Vecchio, sono stati sorprendenti. «Man mano che i bambini si abituavano ad usare la penna, visto che ormai anche in molte scuole primarie si stanno diffondendo le tastiere, abbiamo visto progressivi miglioramenti. Nell’accuratezza e ricchezza del linguaggio, nella struttura della frase, addirittura nell’ortografia». Segno cioè che nella scrittura corsiva il pensiero corre fluido dalla testa alla mano, a differenza di quanto accade con lo stampatello, che spinge invece al fraseggio sincopato e spezzettato.
Un coraggioso ma solitario tentativo di rieducazione pedagogica quello ideato dal professor Vertecchi, che rischia di venire divorato dalla globalizzazione del sapere in “power point”. Profetizza infatti Paolo Ferri, docente alla Bicocca e grande esperto del rapporto tra culture tecnologiche ed educazione: «Un futuro digitale è inevitabile, anzi siamo in forte ritardo e il nostro sistema scolastico è assolutamente impreparato. Non c’è un linguaggio che deve sovrastare l’altro, il computer e la penna possono convivere, l’importante è evitare ai bambini di essere calati in un contesto schizoide». Mentre cioè a casa e con gli amici, anche i più piccoli vivono una vita da nativi digitali, quali effettivamente sono, in classe si ritrovano d’un colpo in un’altra epoca. «Frequentano aule dove non esiste nulla, neanche il computer, per non parlare di tablet e Lim. E da questa contraddizione spesso nascono gravi problemi di insegnamento ».
Un punto di vista opposto dunque a quello di Vertecchi. Anche Ferri però concorda con la necessità di non perdere l’abilità manuale che la scrittura in corsivo sviluppa. «Paesi come la Finlandia, che puntano oggi soltanto sul digitale, non trascurano per niente la motricità fine, ma la sostituiscono con attività come il disegno, la creta, la musica che purtroppo nelle nostre scuole non sono sviluppate».
Bisogna allora spostarsi in Umbria, a Giove, nella scuola elementare dove insegna il maestro Franco Lorenzoni. Qui il sapere dei bambini si crea in un particolare percorso dove lo studio e l’esperienza della natura e dell’arte, l’abilità di accendere un fuoco e quella di imparare una poesia si fondono insieme. Famoso per aver promosso nel 2012 una petizione, perché fino agli otto anni computer e lavagne digitali restino fuori dalle aule dei più piccoli, Lorenzoni ha di recente raccontato la sua esperienza di maestro nel libro “I bambini pensano grande. Cronaca di un’avventura pedagogica”.
«Il corsivo sviluppa uno straordinario legame tra il pensiero e la mano, oggi i bambini sanno usare le tastiere ma non sanno più allacciarsi le scarpe. Trovo giusto lasciare maggiore libertà anche a chi vuole usare lo stampatello, ma l’importante è far recuperare a questa generazione l’uso delle mani, al di là dei pollici che servono per digitare i messaggi». Arte, natura, laboratori, la matematica, la storia, ma anche veder nascere un vitellino. Per Franco Lorenzoni, nei primi anni la scuola «deve essere un controcanto, preservare, essere anche un po’ anacronistica rispetto alla società: i bambini possono imparare che il sapere non è soltanto dentro il computer, ma dappertutto, nella vita, nell’esperienza...». Ma la scuola non è l’unica “imputata”. I piccoli scrivono sempre di meno non solo per l’abbuffata di pc e tablet che li circondano quanto per la mancanza di esempi. «Sono gli adulti, genitori compresi, a non saper più convivere con la penna — incalza la calligrafa Monica Dengo — non possiamo colpevolizzare soltanto gli insegnanti». A rischio poi c’è anche la memoria: «I contenuti scritti con la propria penna restano assai più impressi nella mente, rispetto a quando si utilizza il computer». E il paradosso, aggiunge Dengo, è che proprio i grandi guru della Silicon Valley se ne guardano bene dall’abbandonare i loro blocchi di appunti e le loro (lussuosissime) penne. «I tavoli dei manager di Microsoft e Google ospitano computer e tablet ma anche tanti fogli e appunti volanti». A riprova di quanto la manualità sottile sia una dote da non far cadere nell’oblio, la calligrafa Dengo ricorda: «Il Giappone dove si mangia con le bacchette, che richiedono abilità e delicatezza, è il paese nel quale i bambini hanno la più elevata capacità di uso della scrittura».

Repubblica 25.11.14
Nn abbandoniamo quelle lettere che danno forma ai nostri pensieri
di Stefano Bartezzaghi


NON si tratta di diffidare o meno delle nuove tecnologie. Casomai, di distinguere fra i saperi necessari e quelli non necessari. L’ostracismo dato dalla scuola finlandese (sin dalla prima elementare) a penne e matite si può infatti prendere come un passo inevitabile verso un futuro in cui saper scrivere a mano necessario non sarà più: così come non è necessario saper estrarre radici quadrate (ci sono le calcolatrici), o saper accendere un fuoco con due legnetti (ci sono fiammiferi e accendini). Avremo sempre con noi un tablet, un bloc-notes elettronico, uno smartphone ounos mart-qualcos’altro che verrà, su cui appuntarci qualsiasi cosa ci serva, dalla lista della spesa all’appuntamento col dentista. Facile prevedere lo sgomento di conservatori, apocalittici (e magari lobbisti dell’inchiostro) e il sorriso stupito e trionfale degli entusiasti del nuovo — inteso come rottamazione del vecchio — che non immaginavano si fosse arrivati già a questo punto.
Alla scrittura, proprio nel senso dello scrivere manuale, sono connesse una quantità di competenze motorie, psicologiche e linguistiche che l’uso di tastiere non sollecita affatto: ma probabilmente anche una qualche Gilda dei Maniscalchi avrà fatto obiezioni simili, quando al traffico automobilistico fu consentito di soppiantare la trazione animale.
Nel caso della scrittura, però, è forse possibile avanzare qualche dubbio in più. E, magari, porre una questione di fondo che perlopiù si finge stia veramente troppo in fondo per meritarsi di essere posta. La questione è: ciò che si insegna a scuola ha da essere puramente funzionale, deve sempre servire, in termini di efficienza e competenza pratica? Il fatto che una certa attività diventerà meno frequente, una volta finita la scuola, è sempre una ragione per cessare d’insegnarla o, in certi casi, può essere addirittura una ragione per continuare a insegnarla? Dante, l’insiemistica, Parmenide e l’orografia australiana a quante professioni servono? Allora perché a scuola non impariamo piuttosto a sostituire un pneumatico o a trattare con un direttore di banca?
I finlandesi dicono che tanto i bambini a sei anni sanno già scrivere e l’importante è che si abituino da subito a usare una tastiera. Sarà, ma a sei anni i bambini sanno già usare una tastiera molto meglio di quanto sappiano scrivere a mano, e questo succede perché usare una tastiera è molto più facile. E poi oltre che scrivere sanno anche rileggersi? C’è da dubitare che possano accorgersi di avere commesso un errore ortografico, se sulla carta non compare la sottolineatura rossa zigrinata con cui i correttori automatici dicono al videoscrivente: «Guarda un po’ qua, se ti pare davvero giusto».
A qualsiasi apparecchio sia collegata, dalle prime macchine da scrivere e dalle etichettatrici Dymo sino agli smartphone con tasti touch, una tastiera fa scegliere le lettere, non rende necessario saperle formare : cosa benedetta quando si scrive di getto e le dita corrono alla velocità del pensiero, a volte anche di più. Ma chiunque scriva molto per mestiere conosce anche il momento dell’indugio e del blocco: carta e penna, si scrive una scaletta o qualche frase di prova perché proprio il bisogno di muovere la mano a fare linee, occhielli e puntini aiuta a trovare il modo di dare forma alla materia che ci appare caotica e confusa nel pensiero.
L’entusiasmo per la rottamazione applica una coazione a rimuovere qualcosa per far posto a qualcos’altro. Ma il nostro cervello è ospitale e la confidenza con la tastiera (in una settimana ci si può impadronire di ogni sua funzione) può tranquillamente convivere con una buona competenza grafica. Perché scegliere? Gli automobilisti possono passeggiare, i motociclisti possono andare in bicicletta, gli scrittori possono leggere, i professori possono imparare. Non si vede perché gli studenti non possano scrivere sia a mano, sia con tastiera.

il Fatto 25.11.14
Pedofilia, monsignor Wesolowski già libero in Vaticano

Monsignor Wesolowski, l’ex nunzio nella Repubblica Dominicana posto il 23 settembre scorso agli arresti domiciliari in Vaticano nell’ambito di un procedimento per abusi sessuali sui minori, da sabato è stato visto nuovamente circolare, in apparente libertà, nella Città Leonina. È questa la notizia trapelata ieri da ambienti vaticani, anche se fonti oltretevere non smentiscono né confermano. Secondo alcune indiscrezioni, più persone lo hanno incontrato con una certa sorpresa, non essendo stato comunicato alcun provvedimento sulla cessazione o la conversione della misura restrittiva a suo carico. Le fonti ufficiali vaticane sul caso non hanno voluto finora precisare se Wesolowski sia tornato in libertà, quanto meno vigilata. Wesolowski, oltre che del secondo grado del processo canonico, è in attesa del processo penale in Vaticano. È accusato di abusi sessuali su diversi minori a Santo Domingo e di detenzione di un ingente materiale pedopornografico.

Corriere 25.11.14.
L’astensione: un problema di cui il premier non è la soluzione ma una parte
Il messaggio a Renzi spedito dall’Emilia
di Paolo Franchi


Saranno leggende, saranno boutade , saranno indebite semplificazioni. Ma sull’Emilia-Romagna (assai più sulla «socialdemocratica» Emilia, a dire il vero, che sulla «sovversiva» Romagna) a sinistra se ne sono dette sempre tante. Non tutte propriamente encomiastiche.
Per esempio che nei primi anni Venti transitò rapidissimamente dal socialismo al fascismo. Per esempio che, tra la Resistenza e l’immediato Dopoguerra, altrettanto rapidamente passò al comunismo, lasciandosi tranquillamente alle spalle il suo ieri e il suo altro ieri. Per esempio che, nel Pci, il famoso «modello emiliano» era un ottimo biglietto da visita da esibire al resto degli italiani e ai visitatori stranieri, ma ufficialmente non se ne parlava nemmeno; e che non a caso, con tutti i voti che il Pci prendeva da quelle parti, mai un emiliano (con la parziale eccezione di Renato Zangheri) ha fatto parte del vertice comunista.
Ciascuna di queste storie ha naturalmente le sue spiegazioni, per l’appunto storiche. Tutte insieme, però, alludono, a torto o a ragione, a un’Emilia senza troppi grilli per la testa e, se non proprio gregaria, quanto meno ben disposta a correre in soccorso al vincitore di turno, e a trarne i vantaggi (veri o presunti) del caso.
A pensarci bene, almeno fino a domenica scorsa è andata così anche con Matteo Renzi. Che in Emilia-Romagna straperse, contro il piacentino Pier Luigi Bersani, le primarie del 2012. E però stravinse, con oltre il 70 per cento, quelle dell’anno successivo, nonostante avesse contro il cosiddetto apparato, o forse anche grazie a questo. Un’altra testimonianza del particolarissimo fiuto politico degli emiliani? Se è così, Renzi farebbe bene, e non solo per scaramanzia, a starci attento. Certo il voto regionale emiliano non era un referendum sul governo, e non può essere interpretato per tale.
Ma quei (quasi) due emiliani su tre che, contraddicendo tutta una storia, domenica scorsa hanno preferito restarsene a casa, potrebbero anche significare che sulla sua immagine di vincente per antonomasia si sta addensando qualche nuvola pesante.
Non si tratta di incrociare le dita. È piuttosto il caso, o dovrebbe esserlo, di lasciare da parte almeno per un po’ la comunicazione di tipo calcistico (due a zero e palla al centro) per proporre a se stesso, e a tutto il suo partito, qualche riflessione e magari anche, perché no, qualche correzione di tiro. Colpisce, tra le prime reazioni al voto emiliano, quella del neopresidente della Regione, Stefano Bonaccini, convinto che la Cgil e, più ancora, la Fiom (le stesse organizzazioni che, secondo Renzi, sarebbero l’altra faccia della Lega di Matteo Salvini, l’unico vincitore certo di domenica scorsa) gli abbiano remato contro per dare un colpo al segretario–presidente del Consiglio. Può essere, anzi, sarà così.
Ma, a parte il fatto che, in questo caso, bisognerebbe anche riconoscere che questi sindacati sono meno minoritari e screditati di come li si è rappresentati, la questione vera è un’altra. Nell’(ex) Emilia rossa, quali che siano state le indicazioni della Cgil e della Fiom, non è scattato niente di simile all’effetto bandwagon ; l’aspirante «partito della Nazione» ha pagato l’assenza di un competitore degno di questo nome, e non ha compensato nemmeno in minima parte con nuovi consensi raccolti «a destra» i voti persi «a sinistra»; l’astensionismo (inteso in primo luogo come rifiuto motivato — non solo a causa degli scandali — della partecipazione politica «classica») l’ha fatta da padrone; solo Salvini ha di che sorridere.
È un caso regionale, seppure importante, o il segno di una crisi di sistema, e dunque di un problema di cui Renzi non è la soluzione, ma una parte? Si capisce bene perché un premier preferisca limitarsi a dire che questo voto non tocca il governo, un po’ meno perché consideri un simile astensionismo un fatto secondario. In ogni caso la domanda è questa, e non se la pongono solo gufi e rosiconi.

Il Sole 25.11.14
Politica 2.0
«Affluenza problema secondario»
Vincere più che rappresentare
Rappresentanza o governance? Matteo Renzi ha sciolto il dilemma con la sua reazione netta dopo il voto – e l'alta astensione – in Emilia e Calabria. «Abbiamo vinto 2 a 0». Conta vincere, insomma
di Lina Palmerini


Rappresentanza o governance? Matteo Renzi ha sciolto il dilemma con la sua reazione netta dopo il voto – e l'alta astensione – in Emilia e Calabria. «Abbiamo vinto 2 a 0». Conta vincere, insomma, anche a prezzo di una minore rappresentatività
Con quella dichiarazione da Vienna – «l'affluenza è un problema secondario, abbiamo vinto» – Renzi spazza via d'un colpo una grande tradizione di sinistra: l'analisi del voto. Un rito che seguiva ogni elezione non solo in caso di sconfitta ma anche se non si era riusciti a mobilitare la base del partito, i militanti, quelli che hanno sorretto il modello Pci fino al Pd di Bersani. E invece il segretario mira ad altro: «Finora ci siamo presi 5 Regioni». L'obiettivo di Renzi è la conquista del governo, il resto viene dopo. È la stessa logica dell'Italicum: garantire un vincitore anche a costo di una minore rappresentatività del sistema. Ed è una reazione che determina un altro strappo nella storia di sinistra, da quell'idea del voto identitario, dei blocchi sociali di riferimento con cui il partito deve riunirsi al momento delle urne. Renzi fa calcoli più pratici – o cinici – e misura le sfide elettorali di volta in volta sulla base di elettorati mobili e dell'avversario che ha di fronte. E questa volta l'avversario non era forte e non c'era il rischio di una sconfitta.
A metà strada c'è il neo Governatore Bonaccini che viene dalla tradizione comunista – poi convertito al renzismo – e quindi tenta una via di mezzo: è una vittoria ma debole. E in effetti una vittoria debole determina una strada in salita nella governance soprattutto se cresce la sfiducia verso la classe politica. Questa sembra la ragione principale dell'astensionismo emiliano dopo gli scandali giudiziari. Ma, accanto, sembra pesare anche lo strappo con la "ditta" bersaniana e soprattutto con la Cgil. Una tesi ancora non corroborata da analisi puntuali, avverte Dario Tuorto dell'Istituto Cattaneo, che considera il parallelismo tra Cgil e scarsa partecipazione solo un'ipotesi. «È tutto da dimostrare perché il non voto ha colpito tutti, il Pd ma specialmente Grillo. Potrebbe essere stata una causa tra altre, troppo presto per dirlo».
Qualche azzardo si può tentare prendendo il dato dei flussi di voto nelle province emiliane e incrociandolo con il peso degli iscritti Cgil. In effetti, la novità di queste elezioni è che quei territori dove si votava di più (Bologna, Modena, Reggio Emilia) si sono allineati con le province dove più alto era l'astensionismo. Ma sono numeri che non danno un'equazione perfetta: più Cgil, più non-voto. Il parallelismo funziona a Reggio Emilia che è la terza provincia per numero di iscritti alla Cgil (118mila tessere) e dove più alto è stato l'incremento dell'astensione (+37%).
Non è così evidente altrove: a Bologna c'è la più alta concentrazione di tessere Cgil – 172mila – ma l'astensionismo è cresciuto meno (30%) mentre a Forlì-Cesena che ha "solo" 67mila iscritti il non voto è aumentato del 35 per cento. Si avvicina al caso Reggio-Emilia l'area di Modena: seconda per tessere Cgil, 130mila, quasi il 33% l'aumento di non-votanti e -54% di consensi per il Pd.
In sostanza i numeri suggeriscono più strade, non una a senso unico. Basta guardare il dato della sinistra (Sel e lista Tsipras) che perde meno del Pd ma perde. Eppure sfila in piazza con la Cgil ed è vicina al leader Fiom ma ha ceduto più del 13% dei consensi rispetto alle regionali 2010 e il 10% sul voto europeo. Dunque un'equazione cristallina non c'è. L'unica sono le urne vuote contro una classe politica che gli emiliani non considerano all'altezza della governance.

il Fatto 25.11.14
Come si rottama le democrazia
di Antonio Padellaro


La domanda è: perché mai gli italiani dovrebbero correre festanti ai seggi elettorali invece di evitarli come la peste? Una vecchia battuta americana sostiene che i politici sono quei tipi che si fanno invitare a pranzo, ti fregano le posate, corteggiano tua moglie e poi ti chiedono il voto. Con un’altra battutaccia si potrebbe dire che, come se non bastasse, la classe politica italiana ha portato il paese alla bancarotta, che si tratta di nominati che pascolano senza molto costrutto nelle varie assemblee e che pur percependo ricchi emolumenti finanziano con i nostri quattrini l’acquisto di slip e vibratori per uso personale. Mai nella lunga storia repubblicana il ceto politico era stato oggetto di una tale, massiccia impopolarità venata di vero e proprio disgusto. La novità è che adesso quasi nessuno fa finta di allarmarsi e anzi c’è chi vede nell’astensionismo collettivo “anche un elemento di modernità e di normalità” (Folli su Repubblica). Mentre Matteo Renzi che non ha tempo da perdere rottama la democrazia rappresentativa con cinque semplici paroline: “l’affluenza è un problema secondario”. Amen. Impegnato com’è a cambiare l’Italia lo statista di Rignano incassa soddisfatto il “2 a 0” (Emilia-Romagna e Calabria) e non sa che farsene dei numeri assoluti (rispetto alle Europee di sei mesi fa il “suo” Pd ha perso la bellezza di 769mila voti). Con questo sistema il giorno, poniamo, che le percentuali di voto scendessero al dieci o al cinque per cento ci sarebbe sempre una Boschi o una Picierno a ricordarci che il nuovo che avanza avrebbe pur sempre il sostegno del 41 per cento degli elettori. La verità è che da oggi Renzi guida un governo di estrema minoranza e che la grande fuga elettorale rafforza la contestazione della sinistra pd e della Cgil in Parlamento e nelle piazze. Senza contare che di fronte alla catastrofe di Forza Italia (meno 222mila voti) la decenza politica imporrebbe al premier di accantonare il patto del Nazareno visto che l’altro contraente, Berlusconi rischia di contare come il due di picche travolto dal si salvi chi può degli ex dc guidati da Fitto. Dalla disfatta non si salva il M5S (meno 400mila voti) i cui vertici farebbero bene a non negare ciò che è sotto gli occhi di tutti, che cioé una parte del voto di protesta sta lasciando deluso le sponde grilline per rifluire nell’astensionismo. In questo panorama vince solo la Lega di Matteo Salvini, che con Casa Pound miete consensi nell’unico granaio elettorale rigoglioso: quello dell’intolleranza xenofoba e della disperazione fascistoide. L’Italia vede nero.

La Stampa 25.11.14
Si realizza il sogno di Renzi
Un Partito della Nazione più di governo che di sinistra
di Fabio Martini


Il voto degli elettori di Piacenza e di Cosenza, di Crotone e di Rimini dimostra che la formazione centrale del sistema, il Pd, sta cambiando pelle: sta cominciando ad assomigliare sempre di più ad un partito-piglia-tutto, a quel Partito della nazione, che è l’ambizione più o meno inconfessabile di Matteo Renzi. I numeri sono eloquenti: il candidato-governatore del centro-sinistra sfonda in Calabria (61,4%), una regione a forte vocazione governativa e dove la sinistra ha sempre faticato, mentre invece in Emilia-Romagna, tradizionale roccaforte rossa, il Pd mantiene la guida, ma perdendo metà degli elettori che lo avevano votato sei mesi fa. E smarrendo per strada una percentuale importante: il Pd passa in Emilia dal 52,5% delle Europee al 44,5 di ieri.
Dunque, un Pd un po’ piu “sudista” e “di governo” e un po’ meno di sinistra, ma comunque un partito asso-pigliatutto che vince ovunque. Con percentuali (sopra il 40 per cento in Emilia, ma anche in Calabria dove ha presentato tre liste) e con il passo della forza centrale, del Partito della nazione. E per questo partitone quali migliori avversari, sulle due ali, di formazioni identitarie, radicali, improbabili come forze di governo? Il risultato elettorale in Emilia- Romagna, dal punto di vista di Renzi, è ideale. La Lega (19,42%) prende il doppio dei voti di Forza Italia (8,36), eppure il dato meno vistoso ma altrettanto importante è un altro: il candidato governatore del centrodestra, il leghista Alan Fabbri, col 29,85%, ottiene la percentuale più bassa ottenuta in Emilia dallo schieramento anti-sinistra nell’arco di tutta la Seconda Repubblica. Ecco perchè ieri notte Matteo Renzi ha mandato in rete un tweet per certi versi sbalorditivo nella sua trasparenza e sincerità: «Lega asfalta Forza Italia e Grillo». Un compiacimento che è anche una speranza: un centrodestra a trazione leghista è un’assicurazione di lunga vita per Matteo Renzi. Anche perché l’avanzata leghista che in queste ore fa parlare di Salvini come di un leader in irresistibile ascesa, in termini di valori assoluti vale molto meno e anzi rappresenta un arretramento rispetto alle precedenti Regionali: nel 2010 il Carroccio fu votato da 288.601 emilian-romagnoli che domenica sono diventati 233.439. In altre parole la predicazione di Salvini ha avuto l’effetto di motivare gli elettori potenziali. Ma neanche tutti.
Naturalmente il voto in Emilia-Romagna e in Calabria ha subito dato la stura a dinamiche interne ai partiti (Forza Italia, Cinque Stelle) che a medio termine potrebbero complicare i progetti di Renzi e del “suo” Partito della nazione. Anche se il tarlo più insidioso emerso da questa tornata elettorale riguarda la progressiva “proporzionalizzazione” del voto: una dinamica destinata a rendere meno scontato l’approdo della riforma elettorale che Renzi ha ritagliato sulla misura di un partito del 40 per cento. Attorno al quale - ecco l’ulteriore novità di questa tornata elettorale - sono oramai scomparse le forze medie (quelle tra il 10 e il 25%), mentre sta fiorendo una miriade di partiti e partitini sotto il 15%, nessuno dei quali sarà interessato ad assecondare il progetto renziano.
Ma nel voto di domenica ci sono altri dati destinati ad avere ripercussioni nei prossimi mesi: la disaffezione che ha colpito il Pd nella “sua” Emilia si è espressa in parte nell’astensione e in parte anche nel voto a due liste di sinistra radicale che sembravano destinate ad una progressiva eclissi: Sel e la Lista Tsipras, pur separate, hanno raggranellato il 6,94% (rispetto al 4,1%delle Europee), una base elettorale per chi la volesse mettere a frutto a Roma. Nell’ottica renziana di un Partito della nazione che dal centro(sinistra) domina il sistema e ammansisce le ali riottose, aiuta anche il ridimensionamento del Cinque Stelle che confermano, aggravandola, una tendenza già nota: laddove manca il richiamo di Beppe Grillo, gli elettori si rifugiano nell’astensione.

Il Sole 25.11.14
Pd penalizzato dall'astensione, ma non ha rivali
La politica in numeri

di Roberto D'Alimonte

Non è mai successo in tutta la storia della Repubblica che si sia votato così poco in una regione italiana. È accaduto domenica in Emilia Romagna. Solo il 37,7% degli elettori si è recato alle urne. Percentuale simile a quella registrata alle elezioni di mid-term negli Usa (36,4%). È questo uno dei dati più significativi della tornata elettorale. Un calo dell'affluenza era atteso ma non in queste proporzioni. Tra le regionali del 2010 e quelle di domenica si è eclissato più di un milione di votanti in Emilia Romagna su circa tre milioni e mezzo. Stessa cifra se il confronto si fa con le recenti europee. Nelle regionali del 2010 in Emilia Romagna aveva votato il 68,1% degli elettori. Il calo dell'affluenza è stato di oltre 30 punti. E questo in una regione in cui fino a oggi la partecipazione elettorale è stata molto alta in tutti i tipi di competizione anche se il trend, qui come nel resto del paese, è da tempo al ribasso. Non possiamo affermare con certezza che sia il calo più forte che si sia mai verificato a livello di elezioni regionali ma è un'ipotesi plausibile. Anche in Calabria l'affluenza è diminuita rispetto alle precedenti regionali, ma solo (si fa per dire) di 15 punti. La differenza con l'Emilia-Romagna è che alle europee lì si era votato molto e in Calabria poco. Per questo, rispetto alle europee, il calo dell'affluenza in Calabria è di soli 4 punti.
Perché una crescita così forte dell'astensionismo? La responsabilità non può essere attribuita a un unico fattore. In primo luogo non bisogna dimenticare che il fenomeno si inquadra all'interno di una tendenza di fondo che caratterizza tutte le democrazie occidentali e che è legata anche a fattori demografici. In questo caso specifico però esistono anche altre cause: il profondo e diffuso malessere sociale legato alla crisi economica, frustrazione, sfiducia, rabbia, l'inchiesta sulle spese "allegre" che ha visto coinvolti molti consiglieri regionali, la generale sensazione che il Pd avrebbe vinto, lo scarso appeal dei candidati, la mancanza di una mobilitazione nazionale che facesse da traino alle sfide locali e, da ultimo, anche il fatto che si sia votato in un giorno solo anziché due come nel passato. È la combinazione di questi fattori che ha prodotto il crollo dell'affluenza. Non è detto che sia sempre così. La sola cosa certa di questi tempi è che tanti voti sono mobili. Vanno e vengono.
Come era nelle attese il Pd ha conquistato entrambe le regioni. E oggi, da solo o con i suoi alleati, governa in 15 regioni su 18 (non tenendo conto del Trentino-Aldo Adige e della Valle d'Aosta). Ha vinto, ma ha perso molti elettori sia rispetto alle regionali del 2010 che alle europee del maggio scorso. In ogni caso, visto che per governare servono le percentuali e non i valori assoluti, oggi si ritrova con un presidente in Emilia-Romagna che ha dalla sua 31 consiglieri su 50 (di cui 29 del Pd). E un altro in Calabria che può contare su una maggioranza simile. La vittoria del Pd però va al di là di queste cifre. Infatti queste elezioni confermano, e anzi accentuano, quello che avevamo già visto alle europee: il Pd di Renzi non ha rivali. Nemmeno quando perde tanti voti. È sparito il polo di centrodestra e sta sparendo anche il terzo polo, quello di Grillo. In Calabria il M5s praticamente non esiste più. Dopo il crollo alle comunali di Reggio Calabria in queste elezioni regionali il suo candidato ha preso meno del 5%.
Nel polo di centrodestra solo la Lega di Salvini può gioire. Eppure, pur avendo raddoppiato i suoi voti rispetto alle europee, ha preso meno voti rispetto alle regionali del 2010. Per Forza Italia queste elezioni sono state un disastro. In Emilia-Romagna ha preso l'8,4% ed è stata nettamente superata dalla Lega in tutte le province. Il suo voto oscilla tra il 6,3% di Reggio Emilia e il 13,8% di Piacenza. Quello della Lega dal 15,2% di Bologna al 28,2% di Piacenza. In Calabria per il partito di Berlusconi è andata un po' meglio visto che i suoi consensi sono ancora a due cifre, ma anche qui sono lontani i tempi in cui era il partito di riferimento. Né è andata meglio alle formazioni neo-democristiane. Ncd-Udc sono andate male in Emilia-Romagna e non hanno sfondato in Calabria, nonostante la crisi di Fi. In questa regione il successo del candidato del centrosinistra è stato schiacciante. Meno quello del Pd. Mario Oliverio ha preso il 61,4% dei voti. La Calabria è una regione particolare dove chi vince lo fa con distacchi abissali nei confronti dei rivali. È stato così con Loiero nel 2005 a favore del centrosinistra e con Scopelliti nel 2010. Qui la differenza la fanno i notabili.
Il fatto negativo di queste elezioni è sicuramente la crescita esponenziale dell'astensione, soprattutto in Emilia-Romagna. Ma c'è anche un aspetto positivo. Oggi si sa chi governerà le due regioni per i prossimi 5 anni. Magari non sarà così a seguito di eventi traumatici di natura giudiziaria. Ma i sistemi elettorali non possono sostituirsi agli uomini e alle donne che li usano. Quel che possono fare è dare agli elettori la possibilità di decidere chi governa. Ed è proprio quello che hanno fatto i "porcellini" con cui si è votato in Emilia-Romagna e Calabria.

La Stampa 25.11.14
Eppure il paese si sta spostando a destra
di Giovanni Orsina


L’Italia va a destra? Posta due giorni dopo il 49% raccolto dal candidato democratico Bonaccini in Emilia e il 61 di Oliverio – anche lui Pd – in Calabria, questa domanda potrebbe sembrare provocatoria. In realtà lo è assai meno di quanto paia. Se infatti all’interno del sistema politico italiano il principale partito di centro sinistra trionfa mentre sul versante opposto volano i piatti, allo stesso tempo l’intero sistema politico italiano sta «slittando» verso destra.
Lo sconcerto degli elettori per questo doppio movimento, non facile da comprendere, potrebbe non essere l’ultima fra le tante ragioni dell’astensionismo.
La crisi economica – che è anche crisi del progetto di integrazione europea – non ha agito in maniera simmetrica sui due versanti dello spazio pubblico, ma ha alimentato l’opposizione radicale di destra ben più che quella di sinistra. E non soltanto in Italia: alle elezioni europee di cinque anni fa, solo per prendere un esempio, il Fronte Nazionale e il Fronte di Sinistra in Francia raccolsero più o meno lo stesso numero di suffragi, poco più del 6%. Nel voto del maggio di quest’anno, mentre le sinistre confermavano quella percentuale, Marine Le Pen la quadruplicava. In quest’esito c’è una certa logica, del resto: che la si interpreti come il frutto d’un fallimento del mercato, o dei processi di globalizzazione, o dell’Europa, in ogni caso la crisi economica spinge a rivolgersi all’unica istituzione dalla quale – per quanto criticata e indebolita – si può sperare di ricevere un minimo di protezione: lo Stato nazionale. E storicamente, culturalmente, psicologicamente, lo Stato nazionale sta a destra.
La destra moderata è ovviamente la prima a essere sfidata dalla crescita prepotente della destra radicale. Anche in questo caso non si tratta di un fenomeno soltanto italiano – oltre che al Fronte Nazionale, si pensi allo UK Independence Party: forte del 27% raccolto alle europee, qualche giorno fa ha vinto un’elezione suppletiva, e sta mettendo sotto pressione il Partito conservatore in vista del voto politico del prossimo maggio. In Italia tuttavia lo scontro a destra è reso ancora più complicato – e la capacità del centro destra di arginare la crescita della Lega ulteriormente indebolita – dalla profonda crisi d’indirizzo e leadership del berlusconismo. Guai sempre a quel partito che in un momento di trasformazione del quadro politico, quando le posizioni consolidate evaporano e si aprono opportunità impensate, si fa trovare inerte, diviso, introverso.
Lo «scivolamento» verso destra del sistema politico italiano non aiuta a capire soltanto quel che sta succedendo a destra, a ogni modo, ma contribuisce a spiegare pure quel che avviene in altri quartieri. I movimenti di Renzi, in primo luogo. Sensibilissimo all’evoluzione dello spirito pubblico, e risucchiato inoltre dall’area di «bassa pressione elettorale» che l’implosione berlusconiana sta generando, negli ultimi mesi il presidente del Consiglio si è spostato di varie caselle verso destra. Una mossa elettorale e politica abile e tutt’altro che insensata – anche se, inevitabilmente, destinata a generare contraccolpi robusti.
La sterilità di cui sta dando prova la cultura progressista radicale di fronte alla crisi, economica e non solo, dei nostri tempi, in secondo luogo, aiuta a spiegare per quale ragione nessuno sia ancora riuscito a riempire lo spazio che Renzi lascia scoperto a sinistra. Certo, ci sono Landini, Camusso e il sindacato, sui quali tanto si è scritto in queste ultime settimane. Non può essere irrilevante tuttavia che la rossa Emilia Romagna, nel momento in cui ha voluto lanciare un segnale d’insoddisfazione al Partito democratico e al suo segretario, abbia scelto di farlo con l’astensione. E non piuttosto votando per il candidato della sinistra alternativa, che è restato al di sotto del 4% dei suffragi. Ragionare nei termini tradizionali della frattura fra destra e sinistra, in terzo luogo, aiuta a spiegare le difficoltà dei grillini. Nato per trascendere quella frattura e con l’ambizione di collocarsi in un «altrove» non di destra né di sinistra, il Movimento in quell’«altrove» non pare stia trovando fortuna né politica né elettorale. Segno che certe logiche politiche tradizionali, sebbene così vecchie da precedere perfino l’avvento di internet, un loro peso lo hanno ancora.
La crescita rapida e consistente dei partiti della destra più radicale in Italia e al di là delle Alpi, in conclusione, pone – e presumibilmente continuerà a porre ancora a lungo – una sfida seria a tutte le altre forze politiche, dalla destra moderata alla sinistra radicale, passando per l’«altrove» grillino. Come ha scritto assai bene Cesare Martinetti su questo giornale una decina di giorni fa, commentando gli avvenimenti di Tor Sapienza a Roma, certe paure, rabbie e frustrazioni scaturiscono da ragioni profonde e reali. Hanno il potere di modificare il quadro politico perché reclamano a gran voce risposte politiche. E se non ne troveranno di politicamente corrette, non potranno che cercarsene di politicamente scorrette.

il Fatto 25.11.14
Che voto è il rifiuto di votare?
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, ma perché tanti diversi tentativi di interpretazione del non voto alle regionali? In molti democraticissimi Paesi l’affluenza bassa è addirittura una tradizione. Forse stiamo diventando moderni.
Lorenzo

OVVIAMENTE, se la tradizione è diversa, l’astensione non fa notizia. Ma un crollo come quello delle elezioni regionali emiliane e calabresi non ha precedenti e dunque la notizia c’è, e si tratta di interpretarla. Prima interpretazione: i cittadini si allontanano dalle istituzioni perché non si fidano più. Troppi cambiamenti inaspettati, inspiegati e improvvisi (un piccolo esempio: la scomparsa degli scontrini dai negozi, scontrini celebrati fino a un momento prima come strumento essenziale contro i pagamenti “in nero”) inducono a prendere le distanze. Facciano loro. Seconda interpretazione: ogni gruppo che cerca voti promette e non mantiene. Poi arriva il giudice. Meglio pensare ai fatti propri e non perdere tempo perché la somiglianza tra gruppi diversi nella stessa classe politica è impressionante. Terza interpretazione: perché votare se poi decidono di governare insieme, persino se “l’amico ritrovato”, fino a un minuto prima era l’avversario da battere (vedi precedenti, affollatissime campagne elettorali)? Quarta interpretazione: poiché chi governa non fa che celebrare il proprio personale, esclusivo trionfo e dare del menagramo ai meno convinti del suo partito, se la veda lui. Uno così non ha bisogno di me. È troppo bravo. Tutte le interpretazioni sono plausibili e hanno una parte di verità. Credo che, tutte insieme, abbiano portato la vera risposta alla infinita celebrazione del “40 per cento”, (risultato Pd delle elezioni europee) attribuito personalmente ed esclusivamente al leader del momento. Era un bel peso, e l’ha usato per sgridare quasi ogni giorno chi era salito sul suo autobus anche se dissentiva. Adesso un quasi 70 per cento (Emilia-Romagna) sull’autobus non è salito. Non è la fine della corsa. Ma certo una bella frenata, almeno ai discorsi.
Furio Colombo

il Fatto 25.11.14
Non c’è più nulla, vince Renzi
Astensione a livelli record
Il Pd lascia sul campo tra Emilia e Calabria 750mila voti
Ma il primo ministro: “Scarsa affluenza è secondaria: con me abbiamo preso 5 regioni”
di Wanda Marra


“Abbiamo vinto. Poi, certo, bisognerà riflettere, ma abbiamo vinto”. A notte fonda, un Matteo Renzi “baldanzoso” così ragionava con i suoi, a scrutinio ancora in corso. Più che un’analisi dei risultati, un ordine di scuderia. Un modo per dettare la linea e oscurare l’astensionismo, che “ci aspettavamo”. Il premier aveva messo le mani avanti giovedì sera chiudendo la campagna a Bologna: “Ci diranno: troppo astensionismo”. Il crollo, però, è stato stupefacente. Solo il 37, 5% è andato a votare in Emilia Romagna, il 45% in Calabria.
MA L’IMPORTANTE è che la narrazione vada avanti. E così mentre si profila un abbandono delle urne senza precedenti il segretario twitta: “Male affluenza, bene risultati: 2-0 netto. 4 regioni su 4 strappate alla dx in 9 mesi. Lega asfalta Forza Italia e Grillo. Pd sopra il 40%”. È l’una e sei minuti. Un modo per blindare i commenti. Anche quello del neo Presidente dell’Emilia, Stefano Bonaccini, che quando esce (e sono quasi le 3) ha le stesse occhiaie di Piero Fassino la notte della vittoria di misura del centrosinistra nel 2006, mentre ammette: “Certo non possiamo essere contenti”.
Più passano le ore, e più Renzi si fa rullo compressore. Tweet delle 9 e 41: “Vittoria netta, bravissimi Stefano Bonaccini e Mario Oliverio. Massimo rispetto per chi vuole chiacchierare. Noi nel frattempo cambiamo l’Italia”. La tensione sociale, il fatto che ormai gli tocca evitare le piazze e i fischi sono garantiti ovunque? Nessun collegamento. “Il governo non c’entra niente”, è il mantra dei suoi. Alle 10 il premier declama al Gr1: “Avevamo detto che non era un referendum sul governo, ora che il risultato è netto lo diciamo a maggior ragione. L’agenda non muta”. E poi, dito puntato sui risultati altrui: “Mentre il centrodestra discute della propria situazione, noi cambiamo l’Italia”. Tradotto dai suoi: “Se il Pd ha perso, gli altri che dovrebbero dire? ”. Quando arriva in Austria, in visita dal cancelliere austriaco Werner Faymann, ed è l’ora di pranzo, dice strafottente verso la democrazia rappresentativa: “La non grande affluenza è un elemento che deve preoccupare ma che è secondario”. Calcisticamente: “Negli ultimi 8 mesi abbiamo avuto 5 elezioni regionali e il Pd ha vinto 5 a 0”. Fine. I suoi ammettono che le ragioni dell’astensionismo sono tante, soprattutto in Emilia: l’inchiesta sulle spese regionali, con tanto di acquisto di vibratore, il fuoco amico (occhi puntati soprattutto sulla Cgil), la mancanza di avversari, le primarie fallite, l’assenza di una campagna elettorale vera e propria. E poi, certo, la crisi.
Dice la giovanissima deputata Giuditta Pini, Giovane Turca di Modena: “È andato in crisi il partitone emiliano, e non da oggi”. Anche Marco Di Maio, deputato di Forlì in ascesa: “In Emilia c’è bisogno di un cambiamento radicale del Pd”.
GLI EMILIANI sono sotto choc e sottolineano il dato locale, ma in buona parte questo dipende dalla mancata gestione della vicenda pre-elettorale da parte di Renzi. Che prima ha cercato di stringere, su pressione di Vasco Errani e di Bersani, sul nome voluto dal governatore uscente, Daniele Manca. Poi, quando si è capito che non era una candidatura sostenibile, non ha appoggiato il suo ex numero due, Matteo Richetti, ma non l’ha neanche dissuaso con chiarezza dalla corsa. Infine, dopo il ritiro di quest’ultimo, ha chiesto a Bonaccini, convertito al renzismo, di metterci la faccia. A garanzia della ditta. Non casuale il continuo omaggio da parte di Renzi a Errani, che di quel sistema di potere, è il vero deus ex machina. Sui territori il rinnovamento non si vede. Oliverio, il vincitore in Calabria, era il candidato della minoranza. Domenica si fanno altre primarie: in Puglia, il super favorito è Emiliano, non certo un volto nuovo; in Veneto, in pole c’è Alessandra Moretti, già portavoce di Bersani, già in fuga dall’Europa. Non certo un nome convincente. Tant’è vero che la sconfitta alle regionali con Zaia è messa in conto. Ragiona Roger De Menech, segretario del Veneto: “Dobbiamo trovare il modo di innervare il territorio del renzismo”. In Liguria il candidato favorito alle primarie è Cofferati, in Campania si va verso una sfida Cozzolino-De Luca, in Toscana verso la riconferma di Enrico Rossi. A proposito di novità. Elezioni difficili su cui tira una brutta aria. Tant’è vero che il premier le vuole spostare da marzo a fine maggio.
L’analisi del voto dell’altroieri, comunque, si farà in una direzione. Mica urgente, tra una settimana, lunedì prossimo. Intanto la minoranza gongola e fa sgambetti sul jobs act: ieri 17 deputati hanno votato a favore di un emendamento di Sel sull’articolo 18. Domani c’è il voto finale: la minoranza ringalluzzita, cerca di ricompattarsi. Decide di parlare nel tardo pomeriggio Bersani: “Il Pd non può rimuovere l’astensione che per l’Emilia Romagna è impressionante. Se si innervosiscono i lavoratori non si pensi che gli imprenditori son contenti”. Per inciso, a Bettola, a casa sua, gli astenuti sono stati il 77%. Resta il tormentone: con questi dati il voto nazionale si allontana? “Certo. Chi vuole affrontare le urne? E Matteo a votare non ci vuole andare”, dice un onorevole renzianissimo. In effetti, chi glielo fa fare? Tanto più che con Forza Italia crollata, l’Italicum si allontana. Ma il quadro politico è cambiato in toto, l’asse del Nazareno ha perso uno dei due perni, e gli effetti sono tutti da verificare.

il Fatto 25.11.14
Retorica anti gufi

Zitti tutti, è una vittoria
Il chiacchierone non vuole chiacchiere (dagli altri)
di Daniela Ranieri

Il premier che ha preso tanti voti per diventarlo quanti Monti e Letta (nessuno) ama le curve spericolate della logica e gli ossimori spaccacervella, sul tipo di “il cavallo nero di Napoleone era bianco” e “sono fedele a quel cornuto di mio marito”.
“Massimo rispetto per chi vuole chiacchierare”, ha twittato dopo la vittoria del Pd in Calabria e Emilia-Romagna, “noi nel frattempo cambiamo l’Italia”. “Noi” è lui, o meglio: lui con la Boschi, Orlando, Martina (è un ministro), Alfano e ovviamente Verdini, nel tempo libero concessogli dai rinvii a giudizio. E chi è che chiacchiera? “Chiacchierano” i sindacati, Landini, i professoroni, gli operai, i costituzionalisti, gli editorialisti, quelli che non cacciano mille euro per cenare con lui, i feticisti dell’art. 18, la minoranza del Pd e in sostanza tutti quelli che dissentono da lui. Siccome hanno tempo da perdere, godono nel produrre brusio al solo scopo di demoralizzare il manovratore. E pensare che nelle signorie, in quel glorioso Rinascimento che sbocciò nel cuore della sua Firenze, il Signore era lasciato libero di regnare nell’arbitrio, sapendo egli cos’era meglio per tutti. Come Lorenzo, Matteo il Magnifico si sa costantemente sotto attacco, soggetto a congiure, complotti, manovre per fargli perdere velocità. Ma non demorde, anzi. È un sacrificio, una quotidiana offerta di sé tributata al futuro e premiata dai risultati.
IL GIOCHINO È FURBO: raso al suolo il Pd, Matteo ci vende la pseudo-vittoria nelle due regioni spolpate in questa specie di midterm della ’nduja e del tortellino come una fase di assestamento della sua opera rivoluzionaria. Lui aveva previsto tutto: dal calo dell’affluenza a quello delle tessere, conscio dei movimenti dialettici della Storia. Ogni flessione, ogni apparente recessione, è una tappa verso la gloria. È il destino dei grandi: prima che si capisca che stanno cambiando il mondo, devono superare un sacco di resistenze. Che la gente che ha smesso di andare a votare non siano burocrati ma quel popolo che la sinistra amava e sosteneva, e che alle calcagna del vincitore frema il candidato leghista, sono dettagli noiosi. “2-0 netto”, twitta Matteo come se avesse 7 anni e non quasi 40, mentre si auto-seleziona una classe di über-votanti ottimisti, patriottici, depurata dai gufi che hanno avuto il buon gusto di restare a casa.
NONOSTANTE IL GIURIN-GIURELLO fatto a Repubblica di essere di sinistra, di rispettare la storia del partito e altri abracadabra per anime pure, propinare il racconto che alle chiacchiere oziose e al dibattito sterile si preferisce governare alacremente secondo oscuri disegni è inequivocabilmente di destra.
“Qui non si parla di politica, qui si lavora” era scritto sui cartelli appesi dal fascio negli uffici pubblici. Il chiacchiericcio prodotto da chi esercita l’arma del dubbio e della critica ha sempre dato fastidio al potere e a chi lo maneggia con ossessività egotica. Senza andare alla pistola di Göring, le analisi, irrise come “alte strategie” e culturame da intellettuali, sono sempre state sbeffeggiate da chi ha un debole per la forza.
E Renzi è abile nelle forzature linguistiche. Rintontisce con le metafore, da quelle calcistiche a quelle telefonistiche (il gettone nell’iPhone) per dissociarsi da una realtà sgradevole. Inventa tagliole lessicali per creare fittizie coppie di opposti e imporre a chi ascolta una scelta: siete con chi fa o con chi blatera? Per la speranza o la paura? Per il cambiamento o la conservazione? Tutte opposizioni senza senso, essendo falso l’assunto principale, ovvero che lui rappresenti sempre il primo dei termini della dicotomia. È un trucco oratorio da dilettanti, noto a tutti i capipopolo.
Perciò, appena Landini incappa in un errore che svela la sua estraneità ai giochini linguistici, si sguinzagliano gli azzannatori renzini, zitti sulle offese a suon di decreti a quegli stessi onesti che si pretende di rappresentare. Certo è vero che se non tutti quelli che sono con Renzi sono disonesti, molti dei disonesti che conosciamo stanno con lui.
E perciò si bagnano d’eccitazione le penne degli ex-berlusconiani, ora ammaliati dal figo fiorentino: per l’arrembante, spregiudicata effrazione che Matteo fa anzitutto alla logica. Come per il paradosso del cretese che dice che tutti i cretesi mentono, delle due l’una: o gli credono quando dice di essere di sinistra, e quindi non dovrebbero sostenerlo; o non ci credono, e quindi non dovrebbero sostenerlo in quanto bugiardo. Ma forse la fortuna di Matteo sta tutta qui, in questa violenza spudorata al linguaggio e ai suoi limiti.

il Fatto 25.11.14
Il politologo Gianfranco Pasquino
“L’uomo solo al comando resta solo”
intervista di Emiliano Liuzzi


Professor Pasquino, partiamo dalle reazioni? Renzi dice che l’affluenza non è la cosa più importante.
Mi sembra un commento post moderno. Post tutto. Post it, quegli adesivi che si attaccano e staccano. Poi si buttano.
Lei è il più autorevole dei politologi di quell’area che un tempo si chiamava sinistra. Ha insegnato ad Harvard. È stato anche parlamentare. Oggi è il critico più severo del suo stesso partito.
Non sono mai stato del Pd. Ma non c’entra niente. In Emilia Romagna ha votato la metà delle persone rispetto al 2010, e la percentuale era già bassa. Il Pd perde centinaia di migliaia di elettori, non ha più iscritti e non si confronta più con la base. Non posso che essere critico.
Ma non è che perdere iscritti e voti rientri in un disegno lucido?
In un disegno sicuramente, quanto sia lucido non saprei. La sinistra si confrontava, interloquiva, era un grande movimento per questo motivo. Senza questo ha un uomo solo al comando che non si rende conto di essere destinato a rimanere solo e basta. Un giorno non avrà più nessuno.
Ha vinto Stefano Bonaccini. Può governare con un consenso che si aggira attorno al 16 per cento se calcoliamo gli astenuti?
Potrebbe farlo. Con una buona squadra che non risponda alle logiche di correnti. Ma non sarà così.
Cosa prevede?
Molti fiorentini, qualche nipote di Prodi. Questa sarà la giunta.
Si aspettava questi numeri?
No. Non pensavo sotto il 50 per cento.
Non le pare di rivivere i tempi in cui Guazzaloca si prese Bologna.
No, siamo di fronte a fenomeni diversi, allora il centrosinistra perse, questa volta comunque ha vinto. Di uguale c’era l’atteggiamento del partito, oggi arrivato al culmine. Mi spiego. Non era diversa la Bartolini quando parlava in maniera molto sprezzante di un macellaio come avversario. Quel macellaio era uno che aveva lavorato, Bartolini no. La stessa cosa è Bonaccini, uno che non ha mai lavorato se non nel partito, ma che non riesce a trattare con i suoi elettori, con la base che non c’è più. Scomparsa.
Era l’idea di Veltroni, più o meno. Giusto?
Era un percorso che ha prodotto questo.
Astenersi dal voto cosa vuol dire?
È il segnale peggiore. Vuol dire che il tuo elettorato lo hai maltrattato, non l’hai ascoltato. Dentro o fuori dal cerchio magico è la logica renziana. Vuol dire che non esiste democrazia.
Il Movimento 5 stelle ha vinto, come sostiene Grillo?
Ha guadagnato 30mila voti rispetto alle passate regionali. Questo è un dato che nessuno può negare. La protesta esiste, e si chiama Grillo, appunto. Chi pensava non esistesse più ha sbagliato. Da parte sua il comico genovese ci mette una assoluta incapacità conclamata nel guidare il movimento.
Forza Italia e Lega?
Il partito di Berlusconi paga la catastrofe di un’assenza di classe dirigente. La Lega non ha vinto. Ha perso 25mila voti rispetto al 2010.

il Fatto 25.11.14
Il premier teme la gente. Parola di psichiatra
di Maurizio Chierici


PRIMA DEL VOTO Renzi è atterrato a Parma ancora impastata dall’alluvione. Il popolo del fango sperava di mostrargli quali dolori provocano disattenzione e abbandono del territorio. Cementificazione, torrenti ridotti a discariche. Ma gli è mancato il tempo dei quattro passi fra le case disastrate impegnato com’era tra un imprenditore all’altro e poi il discorso in diretta RaiNews ai sindaci della provincia col ritaglio veloce del botta e risposta a un ragazzo dei quartieri sott’acqua. E di corsa a Bologna per chiudere la campagna elettorale. Se in Emilia ha votato il 37 per cento, Parma resta maglia nera col 34.
PER FORTUNA Genova non è andata alle urne: il capo del governo deve ancora fare un salto e chissà quanti arrabbiati non sarebbero usciti di casa. Ma quel che conta sono i risultati e il Pd sfiora in Emilia Romagna il 50 per cento, record delle europee polverizzato, insomma felicità del Renzi che lontano dalla gente disegna il nuovo partito dopo aver rottamato il vecchio. Mescolarsi lo imbarazza. Osserva cortei, sindacati, catastrofi dalle finestre illuminate della Tv. “Una fuga continua dal rischio di stabilire relazioni equilibrate che lo obbligherebbero a svestirsi degli abiti che predilige. Non sopporta di mettersi alla pari rinunciando alla capacità manipolatoria”. Angelo Righetti, psichiatra e neurologo, cresciuto alla scuola di Franco Basaglia tra Gorizia e Trieste, responsabile di salute mentale della Conferenza Permanente Euromediterranea, esperto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità fa parte del comitato scientifico della Kip International School titolare del padiglione Expo che propone soluzioni ai problemi sociali; Righetti, analizza l’agitarsi del capo del governo con lo sguardo di un medico curioso. “Ha bisogno della corazza del potere conseguenza del narcisismo primario di chi ha un’idea grandiosa di se stesso. E nel momento in cui deve esercitare l’empatia viene assalito dalla fobia dell’altro al quale dovrebbe solidarietà in situazioni di disgrazia. Ma gli viene naturale discorrere solo con chi lo riconosce referente del potere nutrendone l’immensa autostima: leader solitario che pretende conforto al proprio narcisismo. Produce un racconto e lo abita dentro una scatola di vetro, papamobile in fuga dal rischio di intrecciare relazioni equilibrate”. A volte provoca risposte aggressive alle quali ribatte con la ruvidezza che entusiasma i fedeli del gruppo… “Il leader assorbe questi fedeli quasi fossero parte del suo corpo. E i fedeli si caricano delle sue fantasie grandiose ripetendo le parole di chi li ha scelti e li guida. Bonaccini, nuovo presidente dell’Emilia Romagna, annunciava in campagna elettorale: qualsiasi cosa mi chieda il partito, io la farò”. Partito vuol dire il Renzi. C’è chi lo immagina erede di Berlusconi…
“NESSUNA somiglianza. Renzi non si nasconde fra le bugie, ma nei fumi delle promesse, una dopo l’altra distribuite con l’ansia del programmare il tempo”. Previsione dello psichiatra: quanto può durare la frenesia del correre dall’uno all’altro e quell’accavallare progetti? “Punto interrogativo: non è facile capire dove lo porterà il narcisismo primario. La misura è sempre l’incontro con la realtà e i risultati faranno capire se si tratta di narcisismo benigno non chiuso in un cerchio magico rozzo e tribale: abbatte le barriere, produce investimenti concreti e aperture sociali che consolano l’umanità. Oppure se il narcisismo è maligno, élite al poterechegonfialastupidità di massa, annienta ogni sistema estraneo al gruppo e si avvolge su se stessa. Troppo presto per giudicare a quale narcisismo Renzi appartiene. Lo misureremo nella concretezza delle realizzazioni”.

il Fatto 25.11.14
Meriti di Renzi: l’Emilia aperta ai fascisti e il Pd ridotto a una larva
di Maurizio Viroli


Bravo Renzi, ottimo lavoro: sei riuscito a distruggere uno dei tessuti civici più forti d’Italia. La percentuale dei votanti alle elezioni dell’altro ieri per il Consiglio regionale dell’Emilia-Romagna è infatti scesa al disotto di quella della Calabria (37,70% contro 44,08%) ed è quasi dimezzata rispetto a quella delle scorse elezioni regionali (37,70% del 2014 contro 68,06% del 2010) ; hai ridotto il Pd a una larva come dimostrano il calo degli iscritti e dei consensi (535.109 voti al Pd a questa tornata elettorale rispetto ai 857.613 voti nel 2010) ; hai aperto la strada alla Lega, amica dei neofascisti di CasaPound che ha raggiunto quasi il 30% dei voti in una delle regioni più antifasciste, tolleranti e ospitali d’Italia.
A onor del vero parte del merito devi riconoscerlo anche ai solerti consiglieri regionali uscenti che serbavano di tutto, comprese le ricevute ai gabinetti della stazione, non certo affinché gli amministratori rimborsassero tanta cospicua spesa, ma affinché i posteri non perdessero traccia delle loro gloriose gesta. Il merito principale, tuttavia, è tuo, per aver stretto il patto d’acciaio con statisti di provata probità come Berlusconi e Verdini. Hai ragione nell’affermare che stai trasformando l’Italia: da un paese generalmente corrotto con qualche isola di decenza e di tolleranza ad un paese uniformemente corrotto ed intollerante. Avanti così!
EPPURE, l’alternativa a Renzi ci sarebbe. Pippo Civati, ad esempio, ha dato prova di saggezza e rettitudine con la proposta al Movimento 5 Stelle di votare insieme il futuro presidente della Repubblica che abbia a cuore il bene comune e non interessi di partito. L’onorevole Civati ha dimostrato di avere una forte coscienza civile e ha dato l’esempio di come dovrebbe comportarsi un parlamentare della Repubblica che agisce, come la Costituzione impone, senza vincolo di mandato. Temo tuttavia che il Pd difficilmente lo seguirà per la retta via. Troppe volte ha dimostrato uno sconcertante spirito gregario rispetto alle scelte del suo segretario. Come potrebbe spiegarsi altrimenti che un partito dove militano uomini e donne che hanno amato e dicono di amare Enrico Berlinguer, segua Matteo Renzi? Persone che andavano orgogliose di appartenere a un partito che aveva sollevato la questione morale, come possono sostenere un segretario che governa grazie a un accordo segreto con un delinquente? La prima risposta è che il segretario è pur sempre il segretario, e quindi va seguito e sostenuto. Questo pericoloso spirito gregario che diviene ancor più pericoloso quando il segretario ricopre anche la carica di presidente del Consiglio, ha radici nella vecchia idea di Gramsci che il moderno principe, cioè il partito “prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico”. Il che vuol dire che la coscienza collettiva impersonata dal segretario viene prima di quella individuale.
La seconda, è la persuasione che con Renzi finalmente il Pd vince. Ancora una volta il ‘noi’ del partito viene prima di ogni altra considerazione non solo di carattere morale, a tal segno che pur di vedere il partito al governo si può calpestare ogni decenza. Vale ancora questa considerazione ora che il Pd ha perso? Molti temono che la scissione sarebbe una sconfitta politica. Argomento serio, ma ci sono sconfitte che danno reputazione e creano le condizioni per una vittoria futura, e sconfitte che compromettono pure la dignità e dalle quali gli sconfitti non si rialzano più. Restare nel Pd che porterà al Quirinale un candidato scelto insieme a Berlusconi, aggiungendo così patti segreti a patti segreti, sarebbe una sconfitta irreparabile, per le persone serie che militano in quel partito e per tutti noi. Ma soprattutto i dirigenti seri e i militanti del Pd dovrebbero capire che il loro partito, come tutti i partiti, non è fine ma mezzo; il fine è il bene della Repubblica. E dunque, un partito che fa male alla Repubblica (e tanta astensione dal voto è un male della Repubblica) va o radicalmente cambiato o abbandonato.

Repubblica 25.11.14
Così tramonta il mito della Regione rossa sempre pronta alle urne
Il misero 37 per cento di votanti mette a nudo la crisi delle virtù civiche che per decenni hanno nutrito il modello-Emilia amato anche da Clinton
di Filippo Ceccarelli


È CHE forse tutte le cose sono destinate a finire, ma i miti ancora prima, e peggio, e senza troppe lacrime, in questo autunno elettorale.
La gloriosa leggenda, per esempio, dell’Emilia rossa. Quanti ancora ricordano la canzone? «Se non ci conoscete/ guardateci la bocca/ siamo l’Emilia rossa/ siamo l’Emilia rossa». Brindisi stonati, oramai, emblemi arrugginiti, bandiere scomparse: «Se non ci conoscete/ guardateci all’occhiello/portiam falce e martello/ simboli del lavor». E su quest’ultimo verso, col pugno proteso nell’aria e spesso il bicchiere nell’altra mano, ma sempre molto seriamente i compagni concludevano l’antica canzone: «Viva la libertà!».
Quest’ultima, la libertà, rispondeva a un sentimento assai partecipato in quelle zone di antichi insediamenti operai e contadini, anche nella sua generica e necessitata immaterialità. E invece adesso, e con il senno di poi, cioè quel misero 37,7 per cento di votanti, faceva già impressione il palco di Bologna su cui giovedì scorso il presidente Renzi in camicia e il governatore in pectore Bonaccini, in giacca ma senza cravatta, hanno chiuso la campagna elettorale.
Non c’erano più bandiere, né stemmi di partito, alle loro spalle, e nemmeno scritte. Un fondale nero che faceva ancor più risaltare degli oggetti come da scenografia renziana sul proscenio della Leopolda. E dunque: una moto Ducati, una macchina per la produzione di gelati Carpigiani, una mortadella, delle piadine, del cotechino, del parmigiano reggiano, un prosciutto di Parma stagionato (18 mesi), una selezione di vini regionali, dal Lambrusco al Pignoletto, e qualche bottiglia di aceto balsamico.
L’idea era di presentare, insieme al giovane premier e al candidato, delle «eccellenze» regionali, per quanto inanimate. Ora: d’accordo il marketing; d’accordo il potere delle merci; d’accordo Matteo Brand. Ma quando i partiti si mettono sul piano dei supermercati, veniva da pensare, almeno dovrebbero mettere i prezzi sui prodotti e magari procedere a qualche «offerta», per andare incontro alle esigenze dei consumatori.
Ma forse i cittadini, anche nell’ex Emilia rossa, o gli elettori, se si vuole, avrebbero preferito una colonna sonora un filo meno asettica del soul made in Usa di Alicia Keys. Non si pretendeva certo «Bandiera rossa», «La Lega vincerà» o «I ribelli della Montagna »; non si tratta di mettere «I morti di Reggio Emilia» o «Mimma e Belella», che canta la storia di due partigiane seviziate e uccise dai nazi.
Ma diamine, a ripensarci bene, quel combinato disposto di idoli, consumi, melodie e scenografie aveva già da tempo messo una pietra sopra il mito dell’isola felice del riformismo pragmatico, del buongoverno gioviale, della democrazia attiva, della famiglia perfetta dell’ex Pci mirabilmente rigeneratosi nell’Ulivo di Prodi. E adesso pare inutile rifarsi al celebre testo togliattiano «Ceto medio e Emilia rossa» (1946); dispiace moltissimo, piuttosto, che non ci sia più Edmondo Berselli ad aggiungere un paio di capitoli al suo indimenticato Quel gran pezzo dell’Emilia (Mondadori, 2004), spiegando da par suo che cosa davvero è accaduto in quella «terra di comunisti, motori, musica, bel gioco, cucina grassa e italiani di classe ». Una regione dove abbondavano i centri di ricerca, le biblioteche delle donne, le assemblee settimanali i vecchietti e dove i bambini delle elementari, consultati con un referendum, decidevano di intitolare la loro scuola perfetta a Gianni Rodari.
Tutto finito? Più sì che no, a occhio, fra renzismo, leghismo e astensionismo elettorale. Certo non calano più dal Regno Unito, né più attraversano l’oceano illustri professori (Sassoon, Hellman, Lang, Kretzer, Putnam, Leonardi) per studiare sul campo quel modello unico al mondo di fertile municipalismo, promettenti distretti industriali e invidiabili virtù civiche (comprese nel sostantivo civicness ).
Anche il giovane governatore dell’Arkansas venne allora a Bologna, Bill Clinton, per dire l’ammirata curiosità che suscitava in America quella fortezza di comunisti che nel 1977 si consentirono il lusso di contenere, ospitare, nutrire e alla fine addirittura capire orde di ribelli che pure avevano preso d’assedio la capitale rossa del welfare all’italiana dove tutto funzionava «dal basso» .
Alle spalle del grande calo dei votanti s’indovinano adesso troppi eventi: la Bolognina, la vittoria di Guazzaloca, le case del popolo trasformate in Bingo, il Cinziagate. E’ che tutto davvero si brucia o si consuma. L’altr’anno, all’insegna del vintage, avevano organizzato addirittura la “Notte rossa”, evento ludico-gastromomica e celebrativa di un mondo ormai perduto. Tagliatelle, vino, dibattiti, canzoni, «Se non ci conoscete/ guardateci all’occhiello», c’era pure l’aperitivo “Rosso Antico”, alla salute, ma fino a un certo punto.

Repubblica 25.11.14
L’amaca
di Michele Serra

L’ Emilia Romagna non esiste più. Non quella Emilia Romagna, comunque. L’astensione oceanica di domenica è una pagina di storia, e stupisce che la giovane classe dirigente renziana, che della storia dovrebbe sentirsi bene in arcione, abbia prodotto commenti piuttosto evasivi, come se non avesse capito l’enormità di quanto è accaduto: una popolazione che si è sempre rispecchiata volentieri nella politica e adesso, non riconoscendosi più in quello specchio, lo ha rotto in mille pezzi.
Piangere sui cocci non serve. Entità sociali di ben altra portata si sono sfarinate nel tempo, non c’è più l’impero asburgico, è defunto quello ottomano, ci faremo una ragione anche della fine del modello emiliano, che pure ha avuto meriti sociali, politici e culturali al cui cospetto l’Italia odierna dovrebbe inchinarsi. Il problema, ora, sarebbe capire che cosa, nelle case e per le strade, ha preso il posto della fu-Emilia, essendo ben vive le persone, in movimento le loro teste, in profonda mutazione il tessuto sociale. Per scoprirlo, però, bisognerebbe rimettersi in ascolto, con la curiosità di capire e non con la presunzione di dare lezioncine a chi le ha già sentite tutte, e non ci crede più. Certo, si tratterebbe di rinunciare a qualche talk-show e perdere tempo in qualche assemblea di quartiere. Non è detto che sia un sacrificio.

il Fatto 25.11.14
Tre indagati eletti

Sono tre i neo consiglieri indagati dell’Emilia Romagna: Antonio Mumolo, Pd, Galeazzo Bignami (nella foto) e Enrico Aimi (Fi). Erano 12 i ricandidati alle regionali tra i 41 consiglieri che hanno ricevuto l’avviso di fine indagine inviato dalla Procura di Bologna per l’indagine sui rimborsi.

Corriere 25.11.14
La Fiom contro, i pensionati delusi
L’Emilia rossa a caccia dei «disertori» Il partito scosso dal crollo dei votanti. L’autocritica di Bonaccini
di Francesco Alberti e Marco Imarisio


BOLOGNA La tempesta perfetta continua sul ballatoio del circolo Arci Benassi. «Certo che non ho votato, dopo quegli scandali la Regione possono anche chiuderla». «Anche io mi sono rifiutato, quel Renzi e il suo Jobs act o come si chiama sono roba di destra».
I due pensionati si chiamano Luciano e Dino, ma i nomi sono interscambiabili con quelli degli altri cento che stanno giocando a carte nella sala all’interno della sezione Pd più grande di Bologna, una palazzina enorme con vista sulle luci che illuminano la strada per San Lazzaro di Savena.
Alle pareti di un posto che rappresenta soprattutto un’idea di partito e di sinistra che ti accompagna per tutta la vita non c’è il consueto album di famiglia, ma solo poche e ben selezionate foto. C’è un Romano Prodi ancora baldo e sorridente, c’è il sorriso sotto i baffoni di Renzo Imbeni, il sindaco galantuomo diventato simbolo della via emiliana al comunismo nei tempi moderni. E soprattutto c’è un incontro con annessa stretta di mano tra don Giuseppe Dossetti e il partigiano Giuseppe Dozza, gli uomini che ispirarono la politica emiliana delle due Chiese. Tu chiamalo se vuoi, consociativismo, declinato attraverso la delega ai famosi corpi intermedi, della quale questa Regione è indiscusso regno.
Nella piazza Zanti di Cavriago oltre a quella del Pd ci sono altre 16 sedi di associazioni, sindacati, cooperative, comitati. Il paese più rosso dell’Emilia, famoso per il busto di Lenin donato nel 1920 dal partito comunista sovietico, è rimasto a casa. Su 8.000 abitanti sono andati a votare solo in 2.600, quattro punti sotto la già disastrosa media regionale. Stefano Corradi, segretario del Pd locale, non si stupisce. «Se predichi l’abolizione dei corpi intermedi, perché questi dovrebbero votarti?».
Nel 1970 alle prime Regionali nella storia dell’Emilia Romagna votò il 96,6 per cento degli aventi diritto. La caduta del muro e il cambiamento di nome del Pci non ebbero influenza sul rito della democrazia partecipata: nel 1990 votò un bulgaro 92,9%.
In questa Regione la Cgil conta 800.000 iscritti, la differenza tra il successo di massa e la vittoria in solitudine. Vincenzo Colla, il segretario regionale, ha votato con poca convinzione. «Non si può negare che il governo ha un problema con il mondo del lavoro. E liquidare tutto con un due a zero e palla al centro è un modo debole di commentare l’accaduto».
Ieri mattina Bruno Papignani, il leader regionale Fiom teorico della diserzione elettorale, aveva la voce impastata di soddisfazione mista alla paura di chi ha fatto bingo e al tempo stesso l’ha combinata grossa. «Renzi è venuto qui a mostrare i muscoli contro i deboli, a recitare la sua litania liberista-gaullista, e adesso dovrebbe meditare: ha perso».
In una terra che ha ancora una concezione sentimentale ed etica della politica, i falsi rimborsi dei consiglieri regionali e altre vicende non proprio edificanti di amministrazione locale hanno fatto danni peggio della grandine. Nella Brescello che fu di Guareschi e oggi è in odore di ‘ndrangheta, con un sindaco che finge di non vedere un problema sotto gli occhi di tutti, è andato alle urne appena il 20,80 per cento.
Sarà anche vero, come disse Silvio Berlusconi, che «questi comunisti» voterebbero anche un gatto se glielo chiedesse il partito, ma a queste elezioni si è arrivati con un presidente condannato e dimissionario, Vasco Errani, l’inchiesta sulle spese pazze, dodici consiglieri regionali indagati ma ricandidati, e come ciliegina sulla torta le primarie più assurde dell’epoca moderna, frutto del compromesso tra le imposizioni giunte da Roma e i tentennamenti del nuovo presidente. «Ho sbagliato anch’io» ammette Bonaccini, che ieri non aveva esattamente la faccia del vincitore «Commisi un errore a sottovalutare la rapidità delle decisioni che dovevamo prendere data l’emergenza che si era creata».
L’Emilia Romagna è sempre stata invisa a Roma ma non è un posto da prendere sottogamba. Le fibrillazioni del mondo prodiano, con Sandra Zampa a sostenere che Bonaccini «è stato lasciato solo» e che qualcuno avrebbe potuto fare un pensiero sull’utilizzo dell’ex presidente del Consiglio, e il professore che usa una frase sibillina, «come ti fai il letto, così dormi», lascia intendere un cambiamento di verso che potrebbe non piacere a Renzi.
L’Ulivo comunque sta crescendo bene. L’alberello piantato nel cortile del bar Ciccio, all’indomani del patto che siglava la nascita dell’alleanza poi vittoriosa alle Politiche del '96, è sempre al suo posto nonostante le intemperie. Fausto, fratello del celebre Ciccio, esce dal locale della sinistra pura e dura a due passi dalla casa di Dozza. «Ho votato solo per rispetto dei nostri padri morti per darci il diritto di farlo. Mio figlio che è giovane invece non c’è andato. E io sono due giorni che non gli parlo».

il Fatto 25.11.14
Bruno Papignani L’indicazione della Fiom
“Ci hanno ascoltati, il premier è stato rottamato”
di Salvatore Cannavò


È stato il primo ad averlo detto. La sera del 20 novembre, un minuto dopo aver sentito Matteo Renzi al Paladozza di Bologna parlare di politica e sindacato, Bruno Papignani, segretario Fiom dell’Emilia Romagna, ha preso il suo smartphone, ha aperto il proprio profilo su Facebook e ha lanciato il suo messaggio in bottiglia: “Fate una sorpresa a Renzi, non votate Bonaccini”. Il motivo lo spiegava poco dopo: “Delirio, delirio di onnipotenza... questi qua sono pericolosi”. Quando è tirato in ballo in giudizi politici Papignani mette le mani avanti: “Io rappresento la Fiom solo quando mi occupo di lavoro e sindacato, in questi casi sono un libero cittadino che parla a titolo personale”. Ma a Bologna, e in Emilia Romagna, l’opinione di Papignani è seguita da molti. Non c’è fabbrica in cui, a sessant’anni compiuti, non si sia recato o iscritto alla Fiom che non conosca e non lo conosca. In queste ore, del resto, l’opinione dei sindacalisti è molto gettonata. Susanna Camusso, ad esempio, punta il dito direttamente contro Renzi, come era prevedibile. E imputa l’astensionismo a chi produce “una divisione nel Paese” ricordando che “nessuno può esultare per i risultati ottenuti”. Più diretto Maurizio Landini il quale ricorda che “chi non vota vuole mandare un messaggio” e Renzi farebbe bene a coglierlo perché il messaggio inviato dice che “non ha il consenso necessario” e non ha il pieno “mandato”.
Bruno Papignani, invece, è ancora più esplicito. Si trova in Brasile, dove incontrerà il sindacato, il Pt al governo e visiterà le fabbriche della Volkswagen, ma parla volentieri dell’Emilia: “La gente ha voluto dire semplicemente una cosa: che si è rotta. E ha mandato un segnale”.
Lei ha fatto un appello preciso al non voto, qual è il primo pensiero che ha avuto leggendo dell’astensione?
Più che un appello ho pubblicato una frase sul mio profilo di Facebook per dire di non andare a votare Bonaccini. A quanto pare è stato seguito. (ride).
A mente fredda cosa ne pensa del voto?
Renzi ha fatto proclami liberisti contro i lavoratori, contro gli scioperi. Ed è stato sconfitto. Nonostante sia giovane, a mio avviso è già sulla strada della rottamazione. In Emilia, poi, uno che è stato eletto con il 49% sul 37% degli elettori si pone un problema di verifica del mandato. Secondo me tra un anno si dovrebbe tornare a votare.
Che hanno fatto i lavoratori domenica?
Il voto delle fabbriche corrisponde a quelle percentuali. Le fabbriche non hanno votato Renzi. Non ho dati numerici ma la sensazione di un cittadino maturo che vive tra la gente e non sui camper.
Senta Papignani, lei è della Fiom e si reputa di sinistra. Che sinistra vorreste in Italia?
Una sinistra moderata, socialdemocratica. Ma che unisca il mondo del lavoro e organizzi una società con più tutele sociali e idee di sviluppo. In cui al centro non ci sa l’abolizione dell’articolo 18.
È Landini che potrà costruire questa sinistra?
No, Landini è troppo prezioso per il sindacato. E poi, basta con le persone sempre prima del progetto. Abbiamo già dato con Ingroia, Tsipras, etc. Io voglio un progetto.
Ma ci sono le forze in circolazione
per una simile proposta?
Le forze sono quelle che sono. In realtà ci sarebbe bisogno di una “quinta stagione”, quella che non c’è. Siamo invece davanti alle solite quattro stagioni, quelle che si danno tutti gli anni. Ci sono i piccoli partiti della sinistra litigiosi; c’è un Pd che vuole dimostrare di saper randellare i lavoratori meglio della destra; ci sono di nuovo pulsioni razziste. Quello che manca è la quinta stagione. Io lavorerei per quella.

il Fatto 25.11.14
Diserzione rossa
È la Cgil il primo partito d’opposizione. Ma virtuale
Il renzismo della Nazione non ha altri avversari, eccetto il fascioleghismo
di Antonello Caporale

Nasce nella bassa reggiana la silhouette di un partito che è figlio legittimo della più massiccia rinunzia al diritto di voto, testimonial di una dichiarazione d’amore al contrario. “Io mi astengo, quindi sono”. La fuga dalle urne conduce per la prima volta alla presidenza dell’Emilia rossa un candidato che non riesce a raggiungere nemmeno la maggioranza della minoranza degli elettori di sinistra, trasforma un sindacato in un movimento politico di resistenza passiva, alluviona il patto del Nazareno e proclama il default della democrazia rappresentativa.
È nel triangolo delle fabbriche in crisi, nel distretto della ceramica, tra Sassuolo e Carpi, lungo la via Emilia – tra Modena e Reggio – che va in scena questa rivoluzione muta, questa assenza politica che si traduce in una testimonianza collettiva di rigetto democratico, una prova singolare ma maestosa e visibile di disobbedienza civile. “Io sono andato a votare perché è un diritto che non mi voglio far togliere da nessuno, ma certo c’è qualcosa che non va e chi fa politica si deve rendere conto che è lontano dalla gente” dice Maurizio Landini sul quale oggi cadono le pantofole di quel popolo che è rimasto in salotto, portabandiera forse involontario dell’ammutinamento più grande nella storia repubblicana.
PANTOFOLE anziché voti. Assenza, invece, di presenza. Silenzio e delusione, non chiasso né protesta. Gli ammutinati del 2014 inviano al Parlamento, eletto peraltro con una legge elettorale dichiarata incostituzionale, la notifica dell’alterità. L’Italia non c’è, e se c’è è impegnata altrove. Nel 1990 votava in Emilia Romagna il 92,9 per cento degli aventi diritto, un filino ancora e si raggiungeva il 100 per cento. E malgrado le circostanze, gli anni e gli eventi della politica, il livello di partecipazione è sempre risultato altissimo, attorno all’80 per cento. Negli ultimissimi tempi un crollo che appariva già vistoso, ma comunque si era sopra e di molto alla maggioranza assoluta degli aventi diritto. L’altro ieri nemmeno il 37 ha avuto cuore e voglia di presentarsi al seggio. Il saldo, questo mostruoso numero (il 63) che separa la cifra del diritto dal suo esercizio effettivo, contiene al suo interno l’effigie di un altro popolo, oggi rosso per la rabbia. Il 60 per cento degli elettori del Pd in soli cinque mesi ha ritirato la fiducia, esperienza mai fatta prima, cosa impossibile da prevedere nella Regione monolite, la più disciplinata, organizzata, strutturata e classificata per fedeltà assoluta. Certo, la catastrofica partecipazione alle primarie indicava un indirizzo. Ma qui si è giunti oltre l’immaginabile. “C’è un popolo che aspetta la nascita di un partito nuovo, è certo che qualcosa debba accadere”, dice Nicola Fratoianni, l’uomo che a nome di Nichi Vendola sta conducendo Sel allo scioglimento, decisione che verrà ratificata alla fine del prossimo gennaio. Qualcosa succederà? Intanto l’appello della Fiom reggiana a non valicare i seggi e l’attitudine alla disciplina degli emiliani contribuiscono ora a fare della Cgil il primo virtuale partito dell’opposizione di sinistra al costituendo partito della Nazione, più centrale, più moderato, più interclassista e più avanzato verso il sorriso perenne renziano.
CHE, INFATTI, nota in questa desertificazione il suo personale sol dell’avvenire. Renzi si ritrova in un colpo solo con Silvio Berlusconi, general contractor delle riforme costituzionali, a capo di un gruppo in disfacimento, doppiato dalla Lega di Salvini, l’altro Matteo, e costretto a fare i conti con le bande interne che d’ora in avanti lotteranno solo per la sopravvivenza. Berlusconi sarà il grande elettore del prossimo presidente della Repubblica. Grande di nome, di fatto già piccolino. E invece, a proposito di piccoli, Salvini quadruplica i suoi voti e vede il suo alleato storico sprofondare a una cifra da gregario. Di più: la Calabria dimostra che l’espulsione della sinistra dal voto permette al Pd, nella sua nuova funzione di partito della Nazione, di succhiare la linfa vitale di Forza Italia, raccogliere tra le sue bandiere i gruppi di potere locale che hanno perso il senso dell’orientamento e puntano, come hanno sempre fatto, sul più forte.
ANCHE in Calabria il popolo non vota, ma lì – diversamente dall’Emilia – il saldo non è negativo perchè è riuscito un travaso interno che ridefinisce il campo di gioco e riduce tutti i competitori possibili a comparsa. Il sorriso di Renzi ha dunque un suo perché. Le urne sono certamente vuote, ma le poltrone certamente piene.

La Stampa 25.11.14
Vincenzo Colla, segretario regionale Cgil-Emilia Romagna
«Un non votocon una carica politica mai vista prima in Emilia»
intervista di F. Giu.


Vincenzo Colla, segretario regionale Cgil-Emilia Romagna, lei come se la spiega l’astensione al 62%?
«Mi sembra chiaro che questo dato non è un voto qualunquista o di protesta: è un non voto con una carica politica mai vista in questa regione e non vederlo sarebbe una responsabilità gravissima. La risposta “2-0 palla al centro” del premier la trovo non solo debole, ma anche non all’altezza del rispetto politico e sociale che merita questa regione. Vasco Errani invece aveva capacità di mediazione e di fare sintesi fra le varie rappresentanze».
Il Pd e il governo hanno perso la capacità di fare sintesi?
«Il governo ha problemi non con Landini, la Camusso o con me, ma col mondo del lavoro. E il vero problema che abbiamo è rappresentare un mondo del lavoro che non si sente rappresentato dal governo. Quando si era votato alle scorse europee non c’erano né il Jobs Act né la legge di stabilità. Ho visto venire Renzi al Paladozza (alla manifestazione di chiusura della campagna elettorale di Bonaccini, ndr), l’ho sentito dire che il nostro è uno sciopero politico. Però il 16 ottobre, con una piazza Maggiore che così piena non si era mai vista, sarebbe bastato ascoltare quella gente per capirne i problemi, e invece per la prima volta non c’era un rappresentante del Pd, non il segretario provinciale né un sindaco, né un parlamentare. Certamente mancava la rappresentanza politica».
Vuol dire che si sono rotti i rapporti fra partito e sindacato?
«Rotti non so, tanto più che Bonaccini da candidato ha detto che lancerà il patto del lavoro. Penso però che sia stato un errore: non si può rispondere a quella piazza dicendo che non gliela raccontiamo giusta e che loro vanno avanti tutta. Fra quanti non hanno votato un 30% di disaffezione ci sarà pure, ma certamente c’è anche un bel po’ di scontento».
Il Pd ha commesso errori di sottovalutazione?
«Il tema è che quel vento lì era molto evidente, che ci fosse il tema dell’astensione poi lo si sapeva bene. Sarebbe bastato andare alle assemblee o nelle piazze per capire che c’era un problema: si annusava nell’aria, e il non voto è un grido politico senza precedenti».

il Fatto 25.11.14
Salvini si mangia Forza  Italia, il Pd cade, Grillo precipita
di Marco Palombi


2,1 MILIONI I VOTANTI, 3,2 QUELLI RIMASTI A CASA. EMILIA, RENZI PERDE 665MILA VOTI IN CALABRIA 82MILA. LA LEGA NEUTRALIZZA LA MELONI. L’ASTENSIONE DIVORA M5S

Come un terremoto. Non c’è modo di definirlo altrimenti. Il risultato del voto regionale scuoterà in profondità il sistema politico per le deduzioni che implica: la sostanziale scomparsa di Forza Italia; il successo della Lega e dunque il rafforzarsi del ruolo di Matteo Salvini; la sconfitta del Movimento 5 Stelle (che ne segnala il declino forse definitivo) ; la vittoria monca del Pd, che si perde per strada oltre metà dei voti nella roccaforte emiliano-romagnola; l’irrilevanza della sinistra fuori dal Pd e quella di Ncd. Su tutto, ovviamente, domina però il partito del non voto: uno schiaffo all’intera offerta politica in due regioni che sono entrambe andate al voto anticipato dopo la condanna e le dimissioni dei loro governatori, mentre i Consigli regionali venivano indagati in massa per le cosiddette “spese pazze”.
Fuga dall’urna: il primato della civica Emilia Romagna
I numeri non hanno bisogno di commenti: in Emilia Romagna, regione con percentuali sempre altissime di votanti, è andato al seggio il 37,6% degli aventi diritto. Si tratta del dato più basso di sempre: il precedente record era peraltro freschissimo, essendo stato fatto segnare alle regionali in Sardegna del febbraio scorso (affluenza al 40,9%). Per dare un’idea, Vasco Errani nel 2010 era stato eletto con la partecipazione del 68% degli aventi diritto, alle Politiche del 2013 la percentuale dell’affluenza era stata dell’82%, alle Europee di maggio del 69,99%.
Leggermente meglio, ma non troppo, in Calabria: partecipazione al 44% contro il 59,2 delle regionali del 2010 e il 63,1% delle Politiche 2013 (ma era al 45,77% già alle elezioni di maggio). Le percentuali, però, non danno l’idea del tracollo. Per capirci, bisogna contare le persone: su 5,35 milioni di italiani coinvolti, domenica hanno deciso di votare solo in 2,1 milioni, mentre 3,2 milioni sono rimasti a casa. Secondo una ricerca sui flussi elettorali di Parma dell’Istituto Cattaneo – ma il dato pare confermato a livello nazionale – sono Ncd e M5S i partiti a perdere più voti verso l’astensione, seguiti dal Pd.
Cosa ci dice questo? Il ruolo del Movimento di Beppe Grillo come attrattore della protesta sembra tramontato: rispetto alle non positive Europee perde circa due terzi dei suoi consensi e quasi 410mila voti reali (il confronto sarebbe ancor più impietoso con le trionfali Politiche del 2013). Quanto al partito di Matteo Renzi, rispetto a maggio lascia per strada circa 750mila voti. Ridotta al lumicino Forza Italia: Berlusconi dice addio a oltre 222mila voti rispetto a maggio e 461mila e spiccioli sul febbraio 2013.
Eletto Bonaccini. Leghisti felici, grillini e berluschini no
Il nuovo presidente dell’Emilia Romagna è Stefano Bonaccini, che ha raccolto il 49% dei consensi tra i (pochi) votanti e la metà quasi esatta di quelli con cui fu eletto Vasco Errani. Il Partito democratico peraltro, nella regione rossa per eccellenza, perde il 59,5% dei voti reali rispetto a maggio: un’emorragia che lo porta da 1,2 milioni di consensi a 535mila (meno grave la situazione a livello percentuale: dal 52,5% al 44,5).
Se si fa il paragone con gli ultimi due anni, l’unico partito abilitato a sorridere è la Lega Nord, che nella roccaforte rossa passa dai 69mila voti del 2013 ai 233.439 di questa tornata, passando per i 116.400 delle Europee (va detto che alle regionali del 2010, però, ne prese 288.600, massimo storico in regione). Il Carroccio, peraltro, cannibalizza il centrodestra (Forza Italia all’8%, Fratelli d’Italia all’1 e dispari) e si toglie la soddisfazione di vedere il suo candidato Alan Fabbri strapazzare Bonaccini nella provincia di Piacenza cara a Pier Luigi Bersani e pareggiare in quella di Ferrara da cui viene il ministro Dario Franceschini.
Il Movimento 5 Stelle, nella regione in cui è nato e dove ha colto i successi più dolci, non esce cadavere ma fortemente ridimensionato dal voto regionale: 167mila voti e il 13,3% dei consensi significa – traduce l’Istituto Cattaneo – che il Movimento “ha perso due terzi dei propri consensi (-64,1%) rispetto alle Europee del 2014 (pari a 284.480 voti in meno). Certo, si potrebbe dire che il risultato è migliore per circa 30mila voti rispetto alle Regionali 2010, quando il M5S era sostanzialmente al debutto, ma allora andrebbero ricordati anche i 658.443 voti raccolti nelle Politiche (quasi mezzo milione in più rispetto a ora). Irrilevante l’Ncd: 33.400 voti (2,6%).
In Calabria vincono i Dem, giù Fi, Movimento e Alfano
Il presidente della Calabria da oggi è Mario Oliverio, candidato del Pd, eletto col 61,4% dei voti e sostenuto dalla bellezza di otto liste (compreso il Nuovo Cdu, nuovo perché quello vecchio stava nel centrodestra). Il Partito democratico prende circa 185mila voti per una percentuale del 23,7%: quasi 23mila voti in più rispetto alle regionali del 2010, anche se in calo rispetto ai consensi degli ultimi due anni: come che sia, in termini reali il Pd raccoglie circa 17mila voti in meno rispetto alle Politiche 2013 e addirittura 82.711 a paragone delle Europee con una contrazione del 30,9%.
Wanda Ferro – candidata da Berlusconi, Fratelli d’Italia e una lista misteriosamente definita Casa delle Libertà – si ferma al 23,6%: Forza Italia, in una regione in cui il partito dell’ex Cavaliere nel 2010 vinceva prendendo 271.500 voti di lista e il 26,3% dei consensi, ora si ferma a 95.979 (12,28%). È vero, quattro anni fa c’era il Pdl che ha subito la scissione anche dell’ex governatore Giuseppe Scopelliti, passato con l’Ncd. Ma il confronto è impietoso anche con le Europee di maggio: allora Forza Italia prese 146.577 voti pari al 19,6% del totale.
Ridotto praticamente all’inesistenza in regione il Movimento 5 Stelle: 39.500 voti (4,9%) e fuori dal Consiglio regionale. E pensare che alle Politiche del 2013 fu primo partito in regione (233.169 preferenze e quasi il 25% dei consensi). Male anche il confronto con le Europee di maggio, quando l’affluenza fu simile a quella odierna: 124.369 voti in meno (in percentuale il M5S valeva il 21,5%).
Il Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano, infine, riesce a entrare in Consiglio in alleanza con l’Udc: i 69.392 voti della coalizione e l’8,7% dei consensi gli fruttano tre consiglieri. Ma la Calabria era uno dei due serbatoi elettorali del partito di Alfano: se ieri il conto s’è fermato a 47.447 consensi (6,07%) alle Europee il contatore segnava 85.410 voti (11,4%). Difficile che le due sezioni su 2.409 che ieri sera ancora non avevano finito di contare i propri voti cambino la situazione per il ministro dell’Interno.

il Fatto 25.11.14
I Cinque stelle sprofondano, ma non vogliono ammetterlo
di Luca De Carolis


DELUSIONE IN EMILIA, DOVE IL MOVIMENTO ERA NATO. ZERO ELETTI IN CALABRIA I DISSIDENTI IN RIVOLTA, MA IL BLOG PARLA D’ALTRO: MATTEOTTI E MUSSOLINI
Da “Vinciamo noi” a “l’astensionimo non ci ha colpito”. Dai proclami di trionfo pre-Europee, con avvisi di sfratto per Matteo Renzi, alle braccia alzate al cielo per cinque consiglieri eletti in Emilia. A Regionali ancora calde, il blog e il profilo Twitter di Beppe Grillo giocano la carta del meno peggio: e pazienza per i sogni di sei mesi fa. Ora è tempo di dati sull’astensione “che non ha toccato il Movimento”, di assicurare che “i cittadini non hanno più fiducia nei partiti”. La voce del capo lo ripete più volte: “I numeri non sono opinioni”. Ma sono gli stessi numeri che descrivono un disastro (annunciato) in Calabria, con il 4,89 per cento e nessun consigliere eletto. E di un 13,2 in Emilia Romagna che è il minimo sindacale, nella regione dove il M5S è nato. Cifre che fanno ribollire i dissidenti, compatti nell’invocare “l’autocritica” dei vertici. Affiora anche l’umore nero di tanti parlamentari, che chiedono di tornare in tv, prima possibile. Mentre Alessandro Di Battista, il più ascoltato dai diarchi, prova a dettare la linea: “Usciamo dal Parlamento, da questo postribolo di massoni come diceva Beppe mesi fa”. In un diluvio di parole, il silenzio di Luigi Di Maio. Il “numero tre” guarda il gioco. E riflette sul complicato futuro. Eppure raccontano di un Casaleggio “abbastanza soddisfatto” per il risultato dell’Emilia. La ragione può ritrovarsi nel video di Max Bugani, consigliere a Bologna, vicinissimo al guru: “Ci sono grandissimi problemi in regione, una grande dissidenza interna: abbiamo ricevuto boicottaggi da diversi eletti”. Insomma, poteva andare peggio.
E LA CALABRIA? Non se ne parla, punto e basta. Ma c’è chi ammette la disfatta, nella regione dove le faide tra parlamentari e gruppi locali avevano già portato all’1,86 per cento nelle Comunali a Reggio Calabria, il mese scorso. Il senatore Nicola Morra, calabrese d’adozione: “Siamo stati percepiti come gli altri partiti. Ma la legge elettorale, con la soglia dell’8 per cento per i non coalizzati, ci ha penalizzato. E noi non sappiamo cosa sia il voto clientelare”. Resta il fatto che l’M5S calabrese è devastato: “Dobbiamo resettare i meet up, fare pulizia. Io non ho mai fatto polemiche, ma altri... ”. Sul fronte opposto un altro senatore calabrese, Maurizio Molinari: “Siamo diventati un nugolo di fazioni dentro ad una setta”. In tarda mattinata, i dissidenti si ritrovano alla Camera. E battono il tamburo delle critiche. “Quando i risultati non sono soddisfacenti è giusto chi ha tenuto il timone lasci spazio ad altri” riassume Tancredi Turco. “Grillo e Casaleggio hanno commesso errori” sibila Gessica Rostellato. “Meno social network e più politica” sostiene Walter Rizzetto. Da Parma irrompe il capogruppo M5S Marco Bosi: “Di autocritica neanche l’ombra. E chi se ne importa se 6 mesi fa ci votavano 277.000 persone in più”. Interessante viatico all’assemblea degli eletti convocata in città da Federico Pizza-rotti, per il 7 dicembre. “Analizzeremo i nostri problemi” promette il sindaco ribelle. Ma l’adunata potrebbe segnare la nascita di un’area organizzata, che chiede maggiore democrazia interna e vuole il dialogo con i partiti. Una simil-corrente più forte, dopo il voto di ieri. Ma non parlano solo i critici. La “moderata” Giulia Grillo: “Non abbiamo costruito un tessuto di fiducia in certi territori: e andare in tv può servire”. È il filo rosso della giornata. L’anatema dei diarchi contro il piccolo schermo va rimosso, lo dicono quasi tutti. Perfino Laura Castelli, contraria (“la tv non è uno strumento elettorale”) ammette: “Risulta difficile spiegare agli attivisti perché non ci andiamo”. Concorde la senatrice Barbara Lezzi: “Come chiede buona parte del M5S, si dovranno valutare le partecipazioni televisive”. Ma c’è pure altro: “Taluni, eletti e non eletti, non partecipano a manifestazioni e assemblee, oppure utilizzano il loro status per illustrare teorie deliranti”. A margine, la tentazione: smobilitare dal Parlamento e invadere le piazze, come ha ripetuto venerdì a Bologna Grillo, primo fautore dell’Aventino.
DI BATTISTA rilancia: “Siamo visti come parte del sistema. Qualcuno resti a studiare decreti per denunciare le indecenze. Gli altri nelle piazze, con gli operai a prendere manganellate se necessario”. Suona anche come una stilettata ai fautori del dialogo con il Pd: da Di Maio a Danilo Toninelli, gli uomini della trattativa sulla Consulta. A breve, assemblea congiunta. Doveva essere domani, ma è probabile che salti. In serata il blog di Grillo apre con un’intervista ad Arrigo Petacco: “Mussolini non ha ucciso Matteotti”. Si parla d’altro. L’ultimo espediente.

il Fatto 25.11.14
Chiusi in se stessi
M5S ha lasciato il campo ai Matteo
di Andrea Scanzi


Per il Movimento 5 Stelle va tutto bene. Beppe Grillo dice che l’astensionismo non li ha colpiti e che “il M5S ha vinto”. Su quali basi? Sulle regionali del 2010. E in effetti è vero, rispetto a quel dato i 5 Stelle hanno aumentato elettori in Emilia Romagna: da 126.619 a 159.456. Il Pd, in questi quattro anni e mezzo, ha smarrito più di 322mila voti e persino la Lega 55mila. Lo stesso Renzi, in neanche sei mesi, ha perso quasi 700mila elettori nella sola Emilia Romagna. Un record o giù di lì. Da qui a dire che il Movimento 5 Stelle ha vinto, però, ce ne passa. È vero che i 5 Stelle sono cresciuti rispetto al 2010, ma è anche vero che nel frattempo è successo di tutto e il raffronto tra il 13.26% di due giorni fa e il dato emiliano alle politiche 2013 (24.6%) e alle europee 2014 (19%) è abbastanza impietoso. Per non parlare del flop in Calabria (neanche il 5%).
L’UNICO alibi vero del M5S è che, da sempre, la loro forza ha avuto numeri molto più bassi alle amministrative e regionali. E la tornata elettorale di domenica non fa eccezione. Qualche domanda, però, i 5 Stelle dovrebbero porsela. L’Emilia, teatro dei loro primi successi, stavolta non gli ha sorriso. Senz’altro ha influito la resa disastrosa di alcuni ex protetti di Grillo e Casa-leggio: è comprensibile che, per paura di dare visibilità a qualche nuovo Fa-via, in molto siano stati a casa. O abbiano guardato altrove, per esempio alla Lega Nord. E proprio il caso di Salvini è emblematico: come ha fatto il leader della Lega Nord a superare addirittura il 19%? Giocando alla Grillo. Non nei contenuti, ma nei modi. Provocando. Costringendo i mass media a parlare di lui. Convogliando il dissenso, la protesta, la rabbia. Alcuni 5 Stelle, ora, quasi ringraziano Salvini per avere “ripulito” il loro elettorato dai sostenitori più intolleranti: un ragionamento bizzarro e snobistico, che dimentica come le elezioni si vincano convincendo tutti. Non solo “i più buoni” (ammesso poi che lo siano). Salvini ha poi occupato sistematicamente la tivù. Era ovunque. I 5 Stelle, al contrario, si sono concessi pigramente giusto a qualche tigì. Per il resto, nisba. Una scelta voluta da Grillo, e più che altro Casaleggio, dopo la sconfitta alle Europee. I duropuristi, ovvero gli stessi (parlamentari inclusi) che a maggio erano strasicuri di oltrepassare il 30% e bastonare Renzi, continuano a credere che sia la strada giusta e ricordano che anche Gasparri è sempre in tivù, eppure Forza Italia è quasi scomparsa. Certo: infatti la tivù non è utile a prescindere, ma solo se la si sa usare. Salvini sa farlo, Gasparri no. Di Maio saprebbe farlo, ma in tivù non ci va quasi più. E il risultato è che molti elettori si sono allontanati perché hanno avuto la sensazione che il movimento sia divenuto elitario e non rispettoso di chi li ha votati, visto che non li informa (se non in Rete) del loro operato. Che senso ha rinunciare al mezzo più usato dagli elettori over 50, ben sapendo che è proprio tra gli over 50 che i 5 Stelle non attecchiscono? Masochismo puro. Salvini ha potuto spadroneggiare in tivù, perché al di là di quale intellettuale abile a metterlo in difficoltà (tipo Pennacchi), dall’altra parte aveva le Moretti. E dunque vinceva facile. Se a ogni sua comparsata avesse avuto contro un Di Battista, forse l’epilogo sarebbe stato diverso.
PROPRIO Di Battista, ieri, ha parzialmente riaperto alla tivù: “Poi, magari, qualche incursione televisiva selezionata. È utile, sono d’accordo. Ma occhio a vedere la tv come soluzione! La Tv ci omologa a un sistema che gli italiani detestano! ”. Casaleggio può negarlo quanto vuole, ma a molti italiani – dalle Europee in poi – è parso che i 5 Stelle si siano isolati da soli, abbracciando una clandestinità narcisistica e autoreferenziale che ha finito col favorire ulteriormente Renzi e sminuire le molte battaglie che il movimento continua a portare avanti. C’è poi un’ulteriore sensazione: quella di un Grillo un po’ stanco della sua creatura politica. Forse rientra nella sua umoralità congenita. Di sicuro continuare a ripetere che “va tutto bene, siamo bravissimi”, non pare esattamente la strategia migliore.

il Fatto 25.11.14
Salvini gongola in cravatta “Noi l’unica opposizione”
di Davide Vecchi


Milano Un risultato per noi neanche lontanamente prevedibile, anche per i più ottimisti”. Ha vinto Matteo, l’altro. Quello cresciuto a padania, secessione e cielodurismo. Il “fannullone” a Bruxelles e stacanovista nei talk show nostrani, per un giorno nasconde le felpe e rispolvera la cravatta verde, archivia le aggressioni verbali a rom e clandestini, optando per toni da politico distaccato.
COSÌ, grazie al premier Matteo Renzi, che bolla come secondario il problema dell’affluenza, il Matteo allevato da Bossi ad ampolle del Dio Po, può concedersi il lusso di apparire quasi un fine analista e dice ciò che ci si aspetterebbe dal Presidente del Consiglio: “Non ha vinto nessuno visto che due persone su tre sono rimaste a casa”. La gamba sotto il tavolo non si ferma un istante. È nervoso, Salvini, trattiene la legittima gioia, potrebbe gridare al miracolo: con il voto in Emilia la Lega ha doppiato Forza Italia e Movimento 5 Stelle, lui si è laureato leader del centrodestra antirenziano e soprattutto ha resuscitato un movimento che appariva ormai spacciato, sepolto dai diamanti in Tanzania e dalle lauree albanesi del Trota. Invece no. Nessuna esultanza. “A differenza di Renzi che gongola e twitta noi ci domandiamo il perché in una regione di solito partecipativa come l’Emilia ci sia un dato di astensione come questo e facciamo anche un esame di autocritica per capire come proporci in futuro ai non elettori”, insiste: “Noi non andiamo in giro a stappare spumante, cosa che la vecchia politica ci consentirebbe di fare”. I numeri raccontano di un Carroccio che ha conquistato il 19,42% con 233.439 voti, ma sono riferiti ad appena il 37,67% degli aventi diritto contro i 288.601 ricevuti nel 2010 quando alle urne si presentò il 68,06% degli elettori. Quindi in proporzione la Lega ha aumentato il consenso. Ma il pallottoliere non restituisce il senso dello scatto di Matteo, l’altro. Non ci credeva neanche lui. E l’incredulità era palese ieri durante la conferenza stampa nel fortino della Lega, durata appena 16 minuti. Salvini è apparso determinato e visibilmente contrito nella parte di leader quasi per caso: l’assenza di una forza d’opposizione al governo, l’appiattimento di Silvio Berlusconi sulle politiche del premier, i litigi interni a Forza Italia e all’intero centrodestra, lo strano caso del M5S che, seppur guadagni consensi in Emilia, rimane un corpo esterno al dibattito. Tutti elementi che hanno spalancato l’autostrada a Salvini. Lui lo sa. Non alza la pancia da terra: ieri ha ripreso il tour televisivo che durerà fino alle regionali di maggio, nella campagna elettorale permanente in stile renziano. L’obiettivo? “Stiamo cercando di essere maggioranza in Italia per una proposta alternativa a Renzi”, dice Salvini annunciando da subito tappe al sud. A Berlusconi dice: “Non puoi soccorrere Renzi in quello che è il suo progetto di controllo della società, poi non do lezioni a Forza Italia né a Berlusconi, dico semplicemente che le pseudo riforme che sta portando avanti Renzi sono un danno per il Paese. Quindi chiunque sostiene Renzi sostiene le politiche di Bruxelles perché Renzi è la brutta copia di Monti, quindi non gli do neanche un mignolo ma non perché mi stia antipatico, anzi, mi sta anche simpatico ma le sue politiche fiscali sono contro l’Italia”. Ora “cercheremo di guadagnarci la fiducia di quegli elettori che ieri hanno preferito rimanere a casa”.
CON L’ALLEATO storico di Arcore, dice, “parlerà presto”. L’odore di elezioni anticipate sostiene di non sentirlo, ma “quando Renzi vorrà noi saremo pronti”. Intanto può guardare al Veneto dove la Lega avrà il piacere di sconfiggere Alessandra Moretti. Un favore di Matteo all’altro Matteo.

il Fatto 25.11.14
La candidata Alessandra Moretti
“In Veneto meglio rinviare le elezioni”
intervista di Carlo Tecce


Alessandra Moretti è in partenza per Strasburgo dov’è europarlamentare e poi in giro per il Veneto dov’è candidata per la Regione, domenica ci sono le primarie democratiche, e il vaccino contro l’astensionismo non l’hanno ancora reperito. In questi giorni, l’ex bersaniana ha ripassato il concetto di “ladylike”, successivo a un elogio in favore di quelle politiche – come lei curano il corpo e frequentano l’estetista: “Ladylike è di origine anglosassone in voga nella politica americana per rivendicare l’atteggiamento femminile delle donne quando occupano ruoli apicali nelle istituzioni e nelle carriera”, precisa per sms.
Vada per la definizione, ma lei, Moretti, ha paura del deserto ai gazebo di domenica?
La disaffezione dei cittadini riguarda tutti i partiti, il partito democratico in testa, e dunque deve preoccupare. Ma sono ottimista perché vedo che in Veneto c’è una grande esigenza di rottura dopo gli oltre vent’anni in mano al centrodestra e infine ai leghisti.
Questa esigenza c’era in Emilia Romagna, no?
Non è un problema di candidati, Stefano Bonaccini è stato scelto e conosce molto bene la regione. Il problema sono le attese non rispettate in passato, ora dobbiamo essere capaci di farci perdonare.
La questione morale o l’onestà, per citare Maurizio Landini, sono anche una vostra questione?
Sì, non dobbiamo nasconderci, mai. E spero che non lo facciano i nostri avversari politici. Non dobbiamo dare la sensazione di trincerarci negli alibi. È chiaro quanto in Emilia abbia influito anche la recente inchiesta sui rimborsi dei gruppi.
Le regionali previste a inizio
marzo potrebbero essere rinviate a fine maggio, accorpate con le comunali...
Ascolto questa voce con insistenza, non conosco le intenzioni del governo. Ma un po’ di tempo in più potrebbe aiutare l’esecutivo con il percorso delle riforme, a ripristinare il rapporto con i cittadini, a recuperare la loro fiducia. La situazione è molto complicata, ma il governo deve sempre dar prova di essere attivo e funzionale e, se occorre, mi sembra corretto aspettare maggio anche per risparmiare un po’ di soldi con l’election day. Io mi faccio trovare pronta.

il Fatto 25.11.14
Eresie meridionali. L’urlo leghista nel vuoto
Spiegate al governo dov’è il Mezzogiorno
di Franco Arminio


Negli ultimi anni tutti i governi hanno fotto poco e male per il Sud. Non solo hanno spostato altrove le risorse destinate al Mezzogiorno, ma non hanno avuto nessuna vera idea per governare in maniera intelligente i tanti Sud che abbiamo nel nostro Paese.
L’IDEA OSSESSIVA è che bisogna rimettere in moto la crescita, e poi, una volta che riparte la locomotiva Italia, il Sud non può che accodarsi. Si tratta di un’idea che da troppo tempo viene smentita dalla realtà dei fatti. Non si può considerare il Sud come un semplice vagone da agganciare a una motrice. C’è bisogno di politiche costruite sui singoli territori. La democrazia locale e quella centrale devono lavorare assieme: intimità e distanza. Un lavoro che possa incrociare gli interessi di chi vive in un luogo con gli interessi generali della Nazione.
La società meridionale purtroppo è ferma al lamento. Chi vota Pd dovrebbe chiedere al Governo come si fa a stanziare il 98 per cento dei soldi per i treni al Nord. Chi vota Pd dovrebbe chiedere al governo perché non fa davvero un piano straordinario per il Sud, un piano che riduca il ruolo delle mafie ed esalti le tante energie positive che ci sono nei diversi territori. Chi vota Pd dovrebbe chiedere al governo perché non usare il flusso dell’immigrazione per dare nuova linfa al Sud interno: terre e case vuote che diventano sempre più vuote.
Mentre la politica da discount di Salvini fa il pieno di voti, la gran parte dei politici e intellettuali meridionali cercano di posizionarsi in modo da ricavare qualcosa per sé e per la propria famiglia. Il familismo amorale è ovunque e continua a dominare la vita sociale delle regioni più povere. Nei paesi non si eleggono le persone migliori, ma quelle che sembrano più disponibili all’intrallazzo. Ed è impressionante anche il silenzio e la rassegnazione dei ragazzi meridionali. La lotta sarebbe la sola strada per ottenere il rispetto dei propri diritti, ma non si lotta da nessuna parte. Ci si applica di più per mantenere una certa fedeltà al disimpegno dai propri doveri.
OVVIAMENTE non è così in tutte le zone. La Puglia non è la Calabria, Martina Franca non è Napoli, Matera non è Marsala. E forse bisognerebbe partire proprio dal modello di Sud che s’intravede a Matera: scrupolo e utopia, la forza del passato e la passione del futuro. Il Sud ha straordinari pensatori politici. Franco Cassano, Piero Bevilacqua, Isaia Sales, solo per citarne alcuni. Forse sarebbe il caso che loro ed altri si mettessero insieme per spiegare al governo cos’è il Sud oggi, io direi perfino dov’è. Ho l’impressione che Renzi abbia un’idea vaghissima del Mezzogiorno. A lui piace parlare con Marchionne e Draghi più che con Fabrizio Barca. Quando scende sotto Roma sembra a disagio. La sua politica alla fine vuole globalizzare l’Italia, Sud compreso, senza capire che la forza del Sud è proprio nel fatto che la globalizzazione non ha attecchito.
BISOGNA SPIEGARE a Renzi e ai suoi sostenitori che la specificità dell’Italia è la sua disunità, la sua diversità. Matera oggi può essere considerata nello stesso tempo un paese lucano e una città europea, a Matera c’è un sapore che non c’è a Pescara. E allora, oltre che finanziare in maniera equa i diversi territori italiani, occorre finanziarli per far luccicare la loro specificità, non per omologarli. Il Nord, se vuole, si affidi pure a Salvini. A noi piacerebbe un Sud eretico (erede di Giambattista Vico, di Giordano Bruno), un Sud insofferente ai tamburi ciarlieri dell’attualità, un Sud che sa costruire il suo futuro senza accettare i luoghi comuni da cui è sommerso.

il Fatto 25.11.14
Il Cavaliere dimezzato mette a rischio Matteo
Le urne ridimensionano Forza Italia e scoppia la rissa interna contro il patto del Nazareno
Ora ci sono ben due minoranze
di Gianluca Roselli


Il giorno dopo la disfatta alle Regionali in Emilia Romagna e in Calabria, in Forza Italia è l’ora dei processi, dei veleni e della grande paura. I processi alla classe dirigente del partito e al patto del Nazareno che non porta voti. I veleni dell’opposizione interna che rialza la cresta. E la grande paura di non riuscire più a invertire una tendenza che, in ognuna delle ultime tornate elettorali, ha visto il partito azzurro in costante emorragia di consensi. Alcuni sondaggi planati sul tavolo di Silvio Berlusconi negli ultimi giorni disegnano uno scenario devastante, con Forza Italia all’8-9 per cento sul territorio nazionale. Con l’aggravante che nessuno sa come uscire da una crisi sempre più profonda.
IL DATO POLITICO è sotto gli occhi di tutti: il patto del Nazareno e l’abbraccio con Renzi sulle riforme fa perdere voti. Anche perché, come sottolinea Osvaldo Napoli, “dal patto non stiamo traendo alcun beneficio perché viene disatteso e cambiato da Renzi in continuazione”. Insomma, Forza Italia non può esibire davanti agli elettori alcun risultato tangibile. “Va ridiscusso tutto”, osserva Augusto Minzolini, “a partire dal sistema di voto, imponendoci su Renzi per tornare almeno al premio di coalizione. Altrimenti andiamo pure a votare con il Consultellum e vediamo il Pd quanti voti prende”.
La débâcle in Emilia, con Forza Italia più che doppiata dalla Lega (19,4 contro 8,3), e il modesto risultato in Calabria (12,2) mette sul banco degli imputati il patto del Nazareno e chi lo sostiene, a cominciare da Denis Verdini, Giovanni Toti e tutto il gruppo dirigente. Indebolisce Berlusconi e rafforza l’opposizione interna di Raffaele Fitto. Che parla senza mezzi termini di un “risultato drammatico” e chiede di “azzerare tutte le nomine per dare il via a un vero rinnovamento”. Fitto invita a non cercare alibi e a non nascondersi dietro l’astensione. “Basta con le nomine e con i gruppi autoreferenziali. E basta con una linea incomprensibile, ambigua, che oscilla tra l’appiattimento assoluto verso il governo nei giorni pari, e gli insulti all’esecutivo nei giorni dispari”, afferma l’europarlamentare. Seguito a ruota dai suoi. “Toti e compagnia farebbero bene a dimettersi e a scegliere: o di essere parte di un rinnovamento vero oppure ad avere il coraggio di costruire qualcos’altro altrove”, attacca Giovanni Bianconi. Mentre secondo Saverio Romano “il bilancio è disastroso, come del resto la gestione del partito che non deve occuparsi di maquillage estetici ma di contenuti e di dialogo nel territorio”.
SOTTO ACCUSA finisce anche il casting dei giovani under 35 andato in scena sabato scorso a Villa Gernetto. “Ben vengano i giovani, ma non selezionati così, alla X Factor. Ci vogliono facce nuove, ma anche chi porta voti”, la critica della minoranza.
Le punture di Fitto fanno perdere le staffe a Berlusconi. Nemmeno il consueto pranzo del lunedì coi figli riesce a fargli tornare il buonumore. “Sembra che Raffaele non aspettasse altro che questa sconfitta per tornare alla carica. Forse è addirittura contento”, ragiona un esponente molto vicino all’ex Cavaliere. A rispondere sulle agenzie è Giovanni Toti. “Anche Fitto fa parte del gruppo dirigente. Mi domando quindi contro chi punta il dito... ”, sostiene il consigliere politico. Di sicuro la débâcle fa gioco all’ex governatore pugliese. Ma non solo a lui. Perché Forza Italia in questo momento è divisa in almeno tre correnti. L’opposizione fittiana, i critici “alla Brunetta” e il vertice pro-Nazareno. E anche i secondi usano il risultato per chiedere di staccarsi dall’abbraccio mortale a Renzi. “Questo voto non mi sorprende, vista la stanchezza del Paese di fronte al chiacchiericcio violento e inconcludente del premier. Ma nessuno strumentalizzi la sconfitta per cavalcare la propria ascesa”, avverte il capogruppo alla Camera. “Il patto del Nazareno va rivisto, siamo schiacciati tra i due Matteo e non riusciamo e venirne fuori”, afferma Anna Maria Bernini. Che si consola col fatto che “il vero partito della nazione di Renzi è quello dell’astensione, in Emilia al 63 per cento”. E anche una parlamentare molto accorta come Anna Bonfrisco parla di “un gruppo dirigente smarrito, che forse nemmeno racconta la verità a un Berlusconi impossibilitato a muoversi liberamente”. Mentre sul Nazareno “un conto è il dialogo, altro è restare inermi di fronte all’accadere degli eventi”. Insomma, tra i parlamentari la depressione regna sovrana. “Siamo completamente spariti e non sappiamo da che parte andare”, aggiunge un deputato che vuole restare anonimo.
IL VERTICE del partito, però, rifiuta i processi e stigmatizza chi cerca di approfittarne. “Il dato preoccupante è l’astensione record, che dovrebbe preoccupare molto il presidente del consiglio. In secondo luogo in queste elezioni Forza Italia era priva del suo leader che non ha potuto fare campagna elettorale. Mentre Salvini ha battuto l’Emilia per tre settimane”, sostiene Deborah Bergamini. Anch’essa critica verso l’ex governatore pugliese: “Chi strumentalizza il voto a uso interno fa un grave errore ed è irriconoscente verso il nostro leader”. Oggi l’ex premier tornerà a Roma per fare il punto con lo stato maggiore del partito, anche in chiave anti-Fitto. Poi sarà alla presentazione del libro di Vespa. Ma difficilmente oggi arriveranno parole chiare per i peones azzurri sempre più smarriti.

Corriere 25.11.14
Il Cavaliere «tradirà» il Nazareno
In Parlamento il no all’Italicum
L’ex premier cercherà di rallentare i tempi per giocarsi tutto nella partita per il Quirinale
di Francesco Verderami

qui

La Stampa 25.11.14
Dalle urne nuovi ostacoli sulla strada delle riforme
di Marcello Sorgi


Il quadro politico, già in veloce cambiamento prima delle elezioni regionali, è fortemente mutato dopo il voto in Emilia e Calabria del 23 novembre. Renzi ha ragione a cantare vittoria (ha vinto nelle due regioni e in tutte quelle in cui s’è votato finora), e a distribuire a tutti le colpe dell’astensione, mai così alta: perché non è vero, come si sente dire, che se la gente non va a votare in qualche modo perdono tutti. Allo stesso modo il premier non potrà ignorare le conseguenze determinate dai risultati, parziali quanto si vuole, delle urne.
Il principale sconfitto è Berlusconi. Per quanto impedito dagli obblighi della sentenza della Cassazione, l’ex-Cavaliere in questa campagna elettorale è apparso palesemente svogliato. Non s’è fatto vedere né a Bologna né a Reggio Calabria, pur trovando il tempo per la presentazione del libro della Biancofiore e per la selezione dei giovani di Villa Germetto, dalla quale, tuttavia, non è ancora spuntato il “Renzi di destra”. Continuare con la strategia del “patto del Nazareno” sarà sempre più difficile per l’ex-premier, spinto dai suoi a una svolta verso l’opposizione dura che si inaugurerà con il prossimo “No-tax-day”. Ma anche trovare un’intesa con Salvini, il nuovo uomo forte della destra e il secondo vincitore nelle urne, non è affatto a portata di mano.
In una cornice come questa, l’approvazione delle riforme, dal Jobs Act alla legge elettorale, diventa più complicata. Anche perché la minoranza interna del Pd considera la forte astensione registrata in Emilia come il prodotto della rottura del governo con i sindacati e il mondo del lavoro: gli elettori non sono andati a votare, dicono gli avversari di Renzi, per dare un segnale e perché non avevano alternative. Ma se le avessero avute, le avrebbero certamente imboccate. In altre parole, dentro l’area dell’astensione esiste una sinistra radicale che domani, in caso di elezioni, potrebbe organizzarsi e presentarsi con proprie liste. Anche di questo il premier dovrà tener conto, specie se vorrà puntare egualmente all’approvazione delle riforme solo con l’appoggio del suo partito e della sua maggioranza: all’interno della quale, non va trascurato, il risultato di Ncd è stato deludente.
Resta da dire di Grillo: il flop del Movimento 5 stelle è stato disastroso e l’assenza del leader dalla campagna elettorale ostentata. Ma si sbaglierebbe a dare per conclusa, o avviata verso la fine, la parabola dell’ex-comico. Che in realtà, intuendo le insidie di un campo di gara a lui sfavorevole, con la sua mancata partecipazione ha voluto far capire a militanti e a dissidenti che il presente e il futuro di M5s dipende ancora tutto da lui.

Repubblica 25.11.14
Il day after del Nazareno
Le 24 ore che hanno cambiato la legislatura
di Stefano Folli


Il voto di due sole Regioni ha terremotato la scena politica e costringe Renzi a correre
SI È capito il giorno dopo quanto il risultato dell’Emilia Romagna abbia cambiato lo scenario politico. L’agenda della vigilia, fatta di lente trattative intorno alle riforme in attesa che il patto del Nazareno offrisse il miracolo di qualche frutto concreto, è stravolta. Forse non poteva essere altrimenti. Il Pd è uscito dalle urne vincitore ma devastato. Quei 700mila voti persi sono un drammatico allarme. Obbligano Renzi a guardare cosa sta succedendo nella base del partito di cui è segretario e a correre ai ripari. Quanto a Berlusconi, l’altro contraente del patto, è il grande sconfitto del voto insieme a Beppe Grillo.
Per ore il presidente del Consiglio ha enfatizzato la conquista dei due «governatori » a Bologna e a Reggio Calabria e ha definito «fatto secondario» la valanga dell’astensione. Voleva rassicurare se stesso e i suoi. Ma in cuor suo Renzi ha sempre saputo che le conseguenze del voto non sono positive: al contrario, sono destabilizzanti. Escludono, in ogni caso, che il «partito di Renzi» possa accettare il «tran tran» di riforme sempre annunciate e mai realizzate. Non è nella psicologia del personaggio e nel suo interesse politico. Del resto, la fuga dalle urne a Bologna anticipa una trappola parlamentare: quella che scatterà a Montecitorio il giorno in cui si comincerà a votare per il nuovo capo dello Stato, se Renzi arriverà a quella scadenza senza intese politiche credibili e senza strumenti per obbligare alla resa i più riottosi del suo partito.
Quindi lo scenario è cambiato. È in corso uno sforzo del premier per verificare quanto Berlusconi sia in grado di controllare i suoi parlamentari e quanto abbia ancora voglia di essere fedele al patto. Su quest’ultimo punto, ci sono pochi dubbi: Berlusconi intende rimanere alleato di Renzi perché lì e non altrove è il suo interesse. Ma non è detto che ci riesca, almeno non nel modo determinato che Renzi considera oggi indispensabile. Il voto in Emilia Romagna ha dato il senso a molti parlamentari di Forza Italia che la partita è finita, che l’era di Arcore è conclusa, che il domani probabilmente appartiene a Salvini. Se non siamo al rompete le righe nel centrodestra, poco ci manca.
Renzi si muove sul palcoscenico di questo singolare “day after” con l’ansia di arrivare presto a un risultato. Che oggi può essere solo la riforma della legge elettorale secondo lo schema tracciato nell’ultimo incontro con Berlusconi. Ma sono pochi quelli convinti che il centrodestra nel suo complesso abbia voglia di impegnarsi in tal senso. Il ragionamento è semplice: legge elettorale vuol dire elezioni anticipate a breve; Forza Italia è quasi azzerata, quindi non ha interesse a correre alle urne; ergo — si ragiona — perché dobbiamo fornire i nostri voti per consentire a Renzi di metterci un cappio intorno al collo?
Al netto della spavalderia, il presidente del Consiglio sa di dover giocare una partita delicata. Può convincersi che le riforme si possono fare con il sostegno della sua maggioranza, più qualche transfuga «grillino» o altro. Eppure la riforma elettorale è una legge di sistema che difficilmente può vedere la luce a colpi di maggioranza. Specie quando la situazione all’interno del Pd — sempre a seguito dell’Emilia Romagna — è tutt’altro che serena. L’astensione ben oltre il 60 per cento ha creato un «buco nero» che è pericoloso irridere o minimizzare come episodio secondario o danno collaterale. C’è un pezzo di storia della sinistra italiana in quello sciopero del voto. E la sfida di Renzi con il suo «partito della Nazione» consiste nel non perdere consensi a sinistra prima di aver conquistato in modo stabile i voti moderati di una parte del centrodestra. Per ora l’obiettivo resta lontano. Commettere un errore nel dopo-Emilia Romagna significa pregiudicarlo per sempre.

Repubblica 25.11.14
Il patto del Nazareno ora rischia di saltare
Renzi: “Avanti anche soli alla palude dico no”
Dopo le elezioni regionali Berlusconi non garantisce la tenuta
Contatti con il premier. Ritorna l’ipotesi del voto anticipato
di Claudio Tito


ROMA«Io mi sono stancato di trattare. Di farlo con tutti. Così diventa una palude». Ci può essere già una prima vittima, al momento invisibile e non dichiarata ufficialmente, di questo terremoto elettorale che ha avuto il suo epicentro in Emilia Romagna. È il patto del Nazareno. L’accordo tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi sulle riforme. Sull’Italicum e sull’abolizione del Senato. Nessuno lo dice apertamente, ma le sue fondamenta rischiano di sbriciolarsi. La sostanziale implosione di Forza Italia sta infatti mettendo all’angolo la sostanza e la tempistica di quell’accordo. La disaffezione mostrata dalla tradizionale base del consenso Pd non aiuta certo a puntellare un edificio che già scricchiolava. Aprendo così uno scenario che in questa fase sembrava accantonato: le elezioni anticipate.
Il premier lo ha capito e ha iniziato a adottare le precauzioni del caso. Lo ha fatto nel volo che lo riportava da Vienna e poi dal suo studio a Palazzo Chigi. Inviando allo stato maggiore forzista una serie di messaggi piuttosto netti: «Avanti con voi o senza di voi. Di certo non accetto la palude». Ha parlato con Denis Verdini e con Gianni Letta. Li ha quasi minacciati: «Noi andiamo avanti anche senza di voi, non stiamo dietro alle fobie di Brunetta. La riforma elettorale sta in piedi anche senza di voi».
Ma il punto è proprio questo. È che la potenziale palude non può più essere prosciugata dal Cavaliere. Forza Italia ha più che dimezzato i voti in Emilia Romagna e anche in Calabria. Soprattutto nella regione rossa è stata doppiata dalla Lega di Salvini. Il Carroccio si sta trasformando nel “motore” del centrodestra e tra i forzisti è scattato il panico. Il partito è “balcanizzato”. Si è formata una corrente maggioritaria che punta esplicitamente a cancellare la leadership dell’ex premier. I gruppi parlamentari stanno assumendo sempre più una struttura “anarchica”: tutti vanno in ordine sparso. Berlusconi e i suoi luogotenenti non sono allora in grado di fornire alcuna garanzia sulle prossime scadenze parlamentari. Tanto da dover riformulare a Palazzo Chigi la richiesta già avanzata due settimane fa: «Serve un po’ di tempo». Oggi riuniscono l’ufficio di presidenza di Forza Italia per provare a correre ai ripari. Ma tutto appare più friabile.
Del resto è proprio la dote del «tempo» che il presidente del consiglio a questo punto ha esaurito. Renzi rivendica il risultato di questa tornata amministrativa. Parla di due a zero, di vittoria. Ma sa che sotto il velo del successo da parte dei “suoi” governatori, si è accumulata una “polvere politica” difficile da spazzare. Anche il Pd ha perso nel giro di sei mesi oltre il 50% dei voti in termini assoluti andando ad ingrossare le file dell’astensionismo. Il capo del governo tutto può fare tranne che concedere un’altra dilazione. Anzi, deve serrare. Presentare ai suoi militanti un saldo concreto anche in vista - come minimo - della successiva tornata amministrativa: quella primaverile con ben sette regioni. «La legge elettorale subito».
Berlusconi, in realtà, vorrebbe rispettare il patto. È combattuto tra il “cerchio magico” e gli amici di sempre come Letta, Confalonieri e Doris. Il Cavaliere, però, non è più il «sole che illumina » come si definiva lui stesso. È una stella cadente cui pochi nei suoi gruppi parlamentari credono ancora. Anzi, quasi tutti gli rimproverano l’«appiattimento » sul governo a guida Pd. Insomma, un vero e proprio corto circuito che sta minando le basi di questa legisla- tura già nata zoppa.
Nel suo ufficio a Palazzo Chigi il segretario democratico ha iniziato a mettere in campo le contromisure. Vuole il sì all’Italicum entro dicembre o al massimo a gennaio. Teme più di ogni altra cosa il pericolo di subire la metamorfosi della lumaca: movimenti lenti nel terreno melmoso delle estenuanti e infinite negoziazioni. Ma senza i forzisti con chi può accelerare il passo? Nel pallottoliere del presidenza del consiglio già vengono associati alla maggioranza governativa una ventina tra ex grillini e grillini in via d’uscita. Anche la Lega di Salvini? «No, sarebbe un errore tattico rincorrerlo adesso. La legge elettorale funziona, loro devono decidere cosa fare. Noi andiamo dritto. Il Pd non è mai stato così forte e governiamo ovunque».
Eppure il quadro è meno limpido di quanto lo voglia descrivere il premier. Perché i voti in Parlamento dei berlusconiani non sono così facilmente sostituibili sulle riforme. E la probabile prossima elezione del presidente della Repubblica offre a tutti i suoi avversari una formidabile arma di ricatto. Anche dentro il suo partito, dove il fronte della minoranza bersaniana ha ripreso fiato proprio dopo il “caso” Emilia. «Le elezioni - ripete però Renzi - servono a indicare chi governa e non solo per contare quanti votano». E rispondendo proprio a Pierluigi Bersani ha un moto di stizza: «Di fronte a qualche Solone del giorno dopo che solleva il tema dell’affluenza alle urne in maniera strumentale, è il caso di ricordare che da febbraio a oggi il Pd ha riportato a casa quattro regioni. Non possiamo aspettare l’analisi del voto interessata di quelli che non hanno mai vinto ».
In questi giorni, però, l’esecutivo dovrà affrontare un altro test: il Jobs act. «Alla fine - osserva però il capo del governo su oltre trecento deputati oggi (ieri ndr.) hanno votato contro l’abolizione dell’articolo 18 solo in 17». Come a dire che il fronte interno non è così preoccupante.
Ma lo diventerà quando si voterà a scrutinio segreto sul successore di Napolitano. E allora una legislatura tenuta in vita dall’ossigeno del patto sulle riforme, potrebbe improvvisamente rimanere senza fiato e precipitare nelle urne. Non è un caso che il vicesegretario del Pd, Lorenzo Guerini, ieri dicesse con una punta di malcelata soddisfazione: «Per noi Salvini è l’avversario ideale. Se lui è contento, lo siamo anche noi. E se domani ci fossero le elezioni politiche, ci basterebbe un’affluenza del 75% per arrivare al 50% dei seggi». E non può essere una semplice coincidenza che nei giorni scorsi il ministro delle riforme, Maria Elena Boschi, dicesse senza troppi giri di parole che si può tornare al voto «con due sistemi diversi»: l’Italicum alla Camera e il Consultellum al Senato. Anche dopo questo novembre è difficile mettere ancora in calendario il via libera alle riforme costituzionali: senza il sì dei forzisti, nessuno può pensare di condurre in porto l’abolizione di palazzo Madama. E le chance che tutto rotoli verso le elezioni anticipate stanno progressivamente aumentando. Con un grande ostacolo di mezzo però: le dimissioni di Napolitano e la scelta del nuovo capo dello Stato.

Repubblica 25.11.14
L’Emilia e lo sciopero del voto
“Il Pd ascolti questa protesta o sarà un partito dimezzato”
Prodi punge. Il tweet di Renzi gela la base e c’è chi straccia la tessera
Bonaccini amaro: schiaffo da non banalizzare, lavorerò il triplo
di Michele Smargiassi


BOLOGNA Ma quale “disaffezione”, ma quale “declino della partecipazione”, c’è un solo modo per definire quel che è successo domenica nelle urne emiliano-romagnole, e lo trova l’ex sindaco di Forlì Roberto Balzani: «È stato uno sciopero generale del voto». Era l’antagonista di Stefano Bonaccini alle primarie Pd, ma non lo dice per rivincita: «Sarebbe toccata anche a me, la vittoria mutilata ». «Una vittoria è una vittoria, sennò neppure Obama sarebbe presidente», rivendica invece il neo-governatore che non ha voglia di far la figura del vincitore zoppo. Riappare alle quattro del pomeriggio nelle torri della Regione, con l’aria di chi ha recuperato male il sonno perduto. Il tabellone luminoso alle sue spalle dice 49,1%, in tasca ha le congratulazioni trionfali dei dirigenti del suo partito, da Renzi in giù («risultato netto », «vittoria indiscutibile»...) mescolate al terrore del contagio («astensione dovuta a fattori locali», «non è un test per il governo »).
Ma lui per primo, Bonaccini, sa che nascondersi dietro una percentuale lusinghiera, oggi, è un’ipocrisia. Il 49 per cento di cosa ? Le cifre assolute sono feroci e impietose. Su due elettori che andarono a votare sei mesi fa per le europee, domenica uno è rimasto a casa: un milione e rotti. Contemporaneamente il Pd ha perso per strada 677 mila voti, più della metà di quelli che un Bonaccini allora radioso portò in dono a Renzi. Solo con i voti negati si potrebbe mettere assieme il primo partito della regione, più forte del Pd stesso. Bonaccini governerà con meno della metà dei voti del suo predecessore Errani. Vale a dire, con il consenso di poco più di un emiliano-romagnolo adulto su sei. «Renzi dice che l’astensione è un problema secondario », infierisce Fausto Anderlini, sociologo di “vecchia ditta” Pd, «è come dire: quel che conta è vincere, non importa il modo». Meglio una vittoria senza gloria di una sconfitta gloriosa? Del resto, le bizzarrie delle leggi elettorali aiutano: nel momento più basso del suo consenso reale, il Pd ottiene in premio la maggioranza assoluta dei consiglieri, 30 su 50.
Il Pci, che invece era grande esperto di gloriose sconfitte, si sfiniva di “analisi del voto”, «che erano poi rituali di espiazione da cui si usciva più puri di prima». Adesso invece l’esorcismo si fa per rimozione. O per understatement . Per Vasco Errani, governatore uscente, una sberla da un milione di votanti in meno nella regione che ha sempre votato più di tutte è «un fatto negativo» controbilanciato dal «risultato positivo» di Bonaccini. Il quale promette «faremo tesoro», «apriremo una stagione di cambiamento», però poi rivendica: «non posso stracciarmi le vesti, in un clima difficile abbiamo vinto con venti punti di distacco». Sì, ma in un deserto dei tartari. Solo Reggio Emilia è riuscita a far andare a votare più di metà dei suoi cittadini. A Bettola, paese di Bersani, il 77% è rimasto a casa, e il sindaco Sandro Busca cerca di mascherare la frana con le frane: «Abbiamo le strade dissestate... «. Grondano amarezza i dialoghi online tra militanti, Francesco: «sotto al 40% è sconfitta per tutti », Marco: «io sono andato, ma della mia generazione ero l’unico», Davide: «tutti a esultare per questa... vittoria?», Maria Letizia: «lo sconforto è dei militanti, i funzionari rimarranno sordi», Claudio: «non sono traditori, sono stufi», Giovanni: «è la ribellione silenziosa in una crisi drammatica», Roberto: «se rinuncia la parte sana, tutto sarà peggio », Serena: «il tweet di Renzi di stamattina fa pena». Trionfalismi in mezzo allo smottamento: è troppo per chi ha fatto lo sforzo di far andare la gente a votare e si ritrova un partito dai voti dimezzati. Rimbalza sui social network la foto della prima tessera Pd strappata (anzi tagliata in due: son di plastica, adesso), quella di Simone Bonetti, consigliere al quartiere Saragozza: «La capacità di analisi politica del mio ex partito non va oltre l’offesa per centinaia di migliaia di voti negati».
«Lo schiaffo non va banalizzato», riprova Bonaccini, «ma l’astensionismo non colpisce solo noi». No, ma non tutti hanno perso consensi. La Lega di Salvini raddoppia i consensi sulle europee, umilia i Cinquestelle destinati, profetizza l’ultimo degli espulsi Defranceschi, «a una lenta agonia». No, l’astensionismo di massa non ha fatto tagli lineari, ha scelto i suoi bersagli. «I delusi berlusconiani », analizza la studiosa Nadia Urbinati, «hanno avuto un’alternativa nella Lega. Quelli del Pd non ne avevano. Per questo oggi in Emilia c’è un vuoto a sinistra, e si apre una ‘questione Pd’». «È un non-voto consapevole e politico», insiste Anderlini, «contro una classe dirigente, non contro il modello emiliano. Gli astenuti di domenica non escono dal sistema, ci tengono, al modello, agli asili nido, al welfare. È il ceto politico che hanno bocciato». Per quali colpe? Be’, non c’è che l’imbarazzo della scelta. È andato tutto storto. Le dimissioni forzate di Errani, l’inchiesta “spese pazze” che coinvolge quattro quinti del consiglio uscente, le primarie pasticciate e disertate, la campagna elettorale inesistente, di cui gli elettori ricordano solo il lunotto dell’auto spaccato a Salvini davanti al campo nomadi, e il sextoy messo in nota spese da una consigliera Pd... «Ai tempi del liceo», commenta Romano Prodi, del cui giudizio tutti hanno ancora paura da queste parti, «il mio professore di filosofia, quando qualcuno accampava scuse per un’interrogazione insufficiente, diceva: mio caro, come ti fai il letto, così dormi». Neppur troppo sibillino, il padre dell’Ulivo: chi è causa del suo male, pianga. Amara la soddisfazione di Bruno Papignani, segretario Fiom d’Emilia: «Renzi è venuto a Bologna e ha chiamato l’applauso del palasport contro il sindacato, come fanno i neoliberisti », non poteva aspettarsi il voto di una terra ancora fedelissima alla Cgil. «La gente si è rotta le balle. Se fossi in Bonaccini, governerei un anno e poi mi dimetterei». Magari sperando che, dopo lo sciopero, gli elettori tornino al loro posto. «Non sono voti irrimediabilmente persi», pensa Balzani, «se però non cambia nulla, ancora una o due astensioni e la gente ci si abituerà». Ma quando va a votare meno della metà, il peso dei voti che restano nell’urna raddoppia, e basta una ventata emotiva per ribaltare una maggioranza. L’Emilia Romagna è diventata espugnabile.

Corriere 25.11.14
Il voto di chi non vota. Segnali ai due grandi partiti
di Angelo Panebianco


ra prevedibile, colpisce il picco raggiunto dall’astensionismo nelle elezioni regionali dell’ Emilia-Romagna. Date le caratteristiche politiche e culturali che le vengono da sempre attribuite, una affluenza del 37,7 per cento (contro il 68 delle precedenti Regionali) fa effetto. Anche se, bisogna dire, quella valanga di astenuti non ha sorpreso chi vive in quella regione e, nelle settimane precedenti al voto, ha avuto modo di fiutare il vento.
Emilia tu quoque ? Persino l’Emilia-Romagna si è laicizzata fino a questo punto? Persino nella terra in cui più tenacemente resisteva il voto di appartenenza («giusto o sbagliato è il mio partito» e lo voterò sempre e comunque), tanti cittadini si sono improvvisamente svegliati da un lungo sonno pensando: «Io sono solo mio. Non ti appartengo più, voto solo se mi pare e quando mi pare»?
Le cose sono più complicate di quanto appaiano a un primo sguardo. Una parte ancora rilevante di voto di appartenenza, resiste, nonostante tutto, in Emilia-Romagna e ha giocato, questa volta, sia a favore sia contro il voto. Sono andati a votare, e a votare democratico, per pura disciplina di partito, anche tanti che forse non apprezzavano troppo Stefano Bonaccini, il candidato (vittorioso) del Partito democratico alla presidenza della Regione. Ma, per contro, non sono andati a votare, plausibilmente, molti che, pur continuando ad «appartenere», hanno accolto l’appello della Cgil contro il premier Renzi e la sua politica del lavoro. Al netto di tutto ciò bisogna dire che un processo di laicizzazione c’è comunque stato.
Se si fanno brutte campagne elettorali, se si schierano candidati che, a torto o a ragione, i cittadini non giudicano adeguati, se non si riesce a scrollarsi di dosso, almeno in parte, il peso delle inchieste giudiziarie per il cattivo uso dei fondi pubblici (e c’è un solo modo per riuscirci: gettare nella campagna elettorale candidati brillanti, idee nuove e progetti originali), allora anche in Emilia-Romagna se ne paga il prezzo. È ciò che qui si intende per «laicizzazione». Ciò significa che, di volta in volta, è la natura contingente dell’offerta politica ad attirare o a respingere gli elettori. E nulla può essere più dato per scontato.
Questo voto influenzerà la politica nazionale? Sì, entro certi limiti. È plausibile che la parte del partito che osteggia Renzi e che ha forti ramificazioni in Emilia-Romagna, non si sia affatto mobilitata per portare al voto gli elettori e, semmai, abbia attivamente favorito l’astensione nel tradizionale elettorato di sinistra. La sinistra pd, antirenziana, ha già cominciato a usare contro Renzi l’astensionismo regionale, a citarlo come prova dei guasti che la politica del premier starebbe provocando nel rapporto fra il Pd e i suoi elettori tradizionali.
Anche a destra questo voto regionale avrà conseguenze, forse ancor più forti che a sinistra. Il successo della Lega di Salvini in Emilia-Romagna (il 19 per cento dei voti) e l’umiliazione di Forza Italia (diventata quasi irrilevante: quarto partito in Regione, con solo l’otto per cento) avranno alcune conseguenze. Accentueranno ulteriormente le divisioni interne indebolendo ancor di più la capacità di Berlusconi di controllare il partito.
Non si possono però oscurare le altre — e forse più importanti — ragioni del voto e del non-voto. Non si può dimenticare, in primo luogo, che fra gli elettori (ma di tutta Italia ) è ormai cresciuta moltissimo l’insofferenza per l’istituto regionale: se la sorte delle Regioni venisse affidata a un referendum, è probabile che la maggioranza ne proporrebbe l’abolizione. È inevitabile che ciò favorisca l’astensione.
Ci sono poi state, a gonfiare il non-voto, le tante ragioni locali: l’insoddisfazione per i profili di molti candidati e per l’assenza di idee nuove. E le diffuse valutazioni negative sulle performance delle amministrazioni locali.
Più che la massiccia (e prevista) astensione, dovrebbe soprattutto sorprendere un’altra cosa: la tenuta, nonostante tutto, del Partito democratico emiliano-romagnolo. Magari è sbagliata ma è una convinzione largamente diffusa che, complessivamente, la sua classe dirigente, per qualità, sia oggi l’ombra della classe dirigente di un tempo. A meno che il Pd non riesca a porci un serio rimedio, prima o poi quella diffusa convinzione potrebbe metterne a rischio il tradizionale primato regionale.

Corriere 25.11.14
Divisa e senza exploit

La sinistra extra-Pd rimane ai margini

Insieme in Emilia-Romagna farebbero quasi il 7%. Ma insieme per ora non sono e non è detto che lo saranno in futuro. La sinistra fuori dal Pd, pur in presenza di condizioni politiche favorevoli — i «corpi intermedi» di Cgil e Fiom in piazza da settimane contro il premier — non si è discostata neanche questa volta da numeri risicati: 3,2% Sel e 3,7% l’Altra Emilia-Romagna (una lista Tsipras in scala regionale). Il partito di Vendola, che a Roma è all’opposizione, ha fatto in Emilia una scelta «di governo», appoggiando il neo presidente Bonaccini. Il patto con il Pd è esattamente ciò che l’altra lista rimprovera a Sel. La storia è antica — sinistra di governo o di opposizione — e riproduce, in piccolo, le divisioni ai tempi del governo Prodi. E dire che questa volta il clima, a chi cerca una sinistra fuori dal Pd, era sembrato propizio. Invece, nonostante la doppia offerta, la maggior parte degli elettori ha preferito restare a casa.

Corriere 25.11.14
Jobs act, la sinistra pd rivuole l’articolo 18
Fassina e altri 16 della minoranza votano un emendamento Sel per confermare la riforma Fornero
L’alt del Garante sullo sciopero generale: per treni, aerei e autobus niente blocco il 12 dicembre
di Francesco Di Frischia


ROMA Lo sciopero generale del 12 dicembre, proclamato da Cgil, Uil e Ugl per protestare contro il Jobs act e la legge di Stabilità, non potrà riguardare i settori del trasporto aereo, ferroviario, a livello nazionale, e del trasporto pubblico locale, a livello territoriale. Lo ha stabilito ieri l’Autorità di Garanzia, che ha evidenziato l’irregolarità formale della proclamazione. Facendo riferimento alla legge 146 del 1990 e alle specifiche norme di settore, il Garante spiega in sostanza che «come già evidenziato nel trasporto ferroviario, non verrebbe rispettata la regola dell’intervallo minimo di 10 giorni tra scioperi nello stesso settore, a causa di una precedente proclamazione per il 13 e 14 dicembre». Lo stesso discorso vale per il trasporto aereo e per il trasporto pubblico locale in alcune città. Lo sciopero generale quindi non potrà coinvolgere aerei, bus e treni oppure i sindacati dovranno scegliere un’altra data.
Intanto sono proseguite per tutto il giorno nell’aula della Camera le votazioni sul Jobs act, sul quale il governo non porrà la fiducia dopo le modifiche al testo arrivato dal Senato: comunque la sinistra pd, con Stefano Fassina, Gianni Cuperlo, Pippo Civati e altri 14 deputati, ha votato, senza successo, un emendamento presentato da Giorgio Airaudo (Sel) in difesa dell’articolo 18, per farlo rimanere in vigore dopo un anno di prova. In pratica per confermare la riforma Fornero. Alfredo D’Attorre (Pd, area dem), che non ha partecipato al voto di questo emendamento come altri del suo partito, fa notare: «Alcuni colleghi in ordine sparso lo hanno votato». La conferma arriva dallo stesso Fassina.
Quando pure Renata Polverini (FI) vota a favore dell’articolo 18, Sergio Pizzolante (Ncd) commenta: «È chiaro che Forza Italia è in uno stato confusionale». Polverini replica: «Ho sempre sostenuto l’articolo 18 che rappresenta un’architrave del diritto del lavoro. In stato confusionale è Pizzolante che è al governo con il Pd avendo promesso ben altro agli elettori». Nel primo pomeriggio, constatando che l’esame della legge prosegue senza intoppi, il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, commenta: «Il lavoro va avanti ordinatamente. Sono soddisfatto».
A movimentare l’esame del provvedimento sono Michele Dell’Orco e Ivan Della Valle (entrambi M5S): il vicepresidente della Camera, Roberto Giachetti, li ha espulsi dall’Aula perché hanno fotografato e filmato (violando il regolamento di Montecitorio) il presidente della commissione Lavoro, Cesare Damiano, mentre interveniva. «Ho deciso le espulsioni perché provocavano», spiega Giachetti. Il grillino Carlo Sibilia ribatte: «Diamo fastidio perché ci siamo».
Oggi quindi viene esaminato l’ultimo emendamento al Jobs act: poi si passa all’esame degli ordini del giorno. È prevedibile quindi che al via libera sul provvedimento possa arrivare già oggi, un giorno in anticipo rispetto a quanto previsto dalla conferenza dei capigruppo di Montecitorio.

Corriere 25.11.14
Civati: «Io e altri 30 deputati non voteremo il Jobs act»
La dichiarazione dell’esponente Pd ospite a Piazzapulita su La7:
«Sabato e domenica siamo tutti precettati in Aula per il voto, il Governo porrà la fiducia»

qui

Repubblica 25.11.14
Bersani al premier: “Accendi troppi fuochi”
L’ex segretario del Pd sfida Renzi sulle cause dell’astensionismo
E alla Camera la minoranza affila le armi sul Jobs Act
Diciassette deputati dem votano un emendamento di Sel sull’articolo 18
Civati: a bocciare la riforma saremo una trentina
di Giovanna Casadio


Lo dico da mesi: innervosire i lavoratori non serve, non fa contenti neanche gli imprenditori
Matteo sbaglia a fare spallucce. L’astensione è di proporzioni impressionanti, merita serietà

ROMA Cesare Damiano, l’uomo della trattativa tra la sinistra dem e Renzi sul Jobs Act, nelle brevi pause del voto a Montecitorio mormora: «Il premier farebbe bene a diminuire il conflitto con il sindacato». Ma è Pierluigi Bersani, l’ex segretario, ieri in aula per votare sulla riforma del lavoro, ad affondare il dito nella piaga: l’astensionismo record in Emilia Romagna, che ha visto il Pd perdere il 60% dei propri elettori delle europee, ha una delle cause nello scontro tra il partito e la Cgil e nel malessere ignorato dei lavoratori. «Sono mesi che dico che non bisogna accendere dei fuochi, che non servono a nessuno. Se si innervosiscono i lavoratori non si pensi che gli imprenditori sono contenti: in una situazione come l’Emilia Romagna non è così». Abbandona la cautela, l’ex leader, per chiedere al premier-segretario di «non fare spallucce» su un dato di astensione «impressionante » e che perciò merita una «analisi seria e non risposte superficiali». Insieme c’è la necessità di una «riconnessione» tra il Pd e il paese sofferente, dove di tutto c’è bisogno tranne che di risse.
E tra colloqui e riunioni, con le cifre dell’astensione tra le mani, la sinistra dem prepara la resa dei conti. Una resa dei conti in Parlamento, dove i numeri nei gruppi parlamentari sono favorevoli a quella che nel partito è la minoranza. Il primo banco di prova è il Jobs Act che stasera, o domattina, dovrebbe essere approvato. Non il solo test. Ci sono la legge di Stabilità e la riforma elettorale dietro l’angolo. Sull’Italicum la minoranza torna all’attacco riproponendo la riduzione dei deputati a 500. Però la sinistra del Pd affila le armi per battere un primo colpo sul lavoro. Un assaggio l’ha riservato ieri a Renzi votando un emendamento di Giorgio Airaudo, il sindacalista amico di Landini, ora deputato di Sel. Airaudo ha proposto di ripristinare l’articolo 18 per tutti i lavoratori neo assunti dopo un anno di messa in prova. Sono 17 i dem che hanno appoggiato la modifica. Non passa, ma da Stefano Fassina a Gianni Cuperlo e Pippo Civati la soddisfazione è grande. «È il segnale della volontà di affermare una posizione di principio coerente per ripristinare l’articolo 18», commenta subito dopo il voto Cuperlo.
Non basta per capire quello che accadrà alla fine, quanti saranno i dissidenti nel Pd. Civati e i suoi, così come alcuni bersaniani tra cui Davide Zoggia, vorrebbero un chiaro voto contrario sul Jobs Act. «Così fuori si capisce... «, è la linea di Civati, il quale è dato in uscita a breve dal partito per confluire in un movimento con Vendola e Landini. Fuori — tra i lavoratori che aderiranno alla sciopero generale di Cgil e Uil — non è forse interessante sapere la diaspora della minoranza dem. Che continua. Area riformista, corrente bersaniana che ha nel capogruppo a Montecitorio Roberto Speranza e nel ministro Maurizio Martina i suoi leader, si è frantumata. Alfredo D’Attorre e Davide Zoggia si sono avvicinati alle posizioni di Cuperlo e Fassina, mentre Paola De Micheli, sottosegretario all’Economia, e Damiano, il presidente “trattativista” della commissione Lavoro, valorizzano il successo delle modifiche al testo. Voteranno sì alla riforma, così come Guglielmo Epifani, l’ex capo della Cgil ed ex segretario dem.
Cuperlo è convinto che l’obiettivo è raccogliere il maggior numero di dissensi e quindi avrebbe più successo la scelta di non partecipare al voto. Potrebbe unire i lettiani (pochi) rimasti, i bindiani, alcuni bersaniani incerti. Ma quanti? Una ventina, o anche trenta per Civati. La corrente bersaniana “Area riformista” contava su un centinaio di deputati. Più che dimezzati. Oggi a mezzogiorno la riunione per preparare il documento del dissenso dem e stabilire chi interviene in aula. Stamani i dissidenti incontreranno una delegazione di lavoratori Cgil.

Repubblica 25.11.14
Uomini che odiano il mistero delle donne
di Massimo Recalcati


LACONTAd egli stupri, dei maltrattamenti, degli omicidi di cui sono vittime le donne lascia sempre sgomenti. Tutta questa violenza brutale ha una chiara matrice razzista. Soprattutto se interpretiamo il razzismo, come ci invitava a fare Lacan, come odio irriducibile nei confronti della libertà dell’Altro. La donna, infatti, è una delle incarnazioni più forti, anarchiche, erratiche, impossibile da misurare e da governare, di questa libertà. Il suo stesso sesso non è visibile, sfugge alla rappresentazione, è nascosto, si sottrae alla presa dell’evidenza. La loro identità, difficile da decifrare, non risponde mai a quella della divisa fallica degli uomini. Proprio per questo le donne possono essere l’oggetto di una violenza inaudita. Possono essere aggredite, offese, maltrattate, uccise proprio perché sfuggono ad ogni tentativo di possesso, perché coincidono con la libertà. L’uomo può rispondere a questa coincidenza con l’arroganza razzista e insopportabile della sopraffazione provando in tutti i modi a cancellarla.
È UN disegno fallimentare che costringe ad una iterazione disperata. Invece di scegliere la via dell’amore per la differenza prende quella dell’odio rabbioso e sterilmente rivendicativo (“sei mia!”). L’esercizio della violenza è sempre una alternativa secca a quella della parola. Mentre la legge della parola prova sempre a rendere giustizia della libertà dell’altro, la violenza la vorrebbe sopprimere, calpestarla, ridurla al silenzio. È innanzitutto una battaglia culturale che dovremmo cominciare magari ripensando seriamente a quello che usiamo chiamare “educazione sessuale”. Questa educazione non è forse innanzitutto — essenzialmente — una educazione alla legge della parola? Non dovremmo imparare dai poeti più che dalle slide che classificano scientificamente i sessi mostrando il funzionamento oggettivo dei loro organi? È davvero tutta lì quella che chiamiamo differenza sessuale? È davvero quello il mistero dell’amore?
La battaglia culturale contro la violenza di genere non può non passare da un ripensamento dell’educazione sessuale come educazione della sessualità al mistero dell’amore. Non dovremmo inseguire l’ideale di una sessualità normale — che la psicoanalisi ha dichiarato non esistere — ma valorizzare l’incontro tra i sessi — a prescindere dalla loro anatomia — come un incontro tra differenze. Dovremmo pensare che l’educazione alla sessualità implichi sempre una educazione al rispetto dell’alterità. Dovremmo pensare che essa sia una educazione al discorso amoroso. La domanda d’amore che muove l’uno verso l’altro, non deve mai essere scambiata con il sopruso che annienta la libertà, ma come un dono di libertà. Non è questa la forma più alta e intensa dell’amore, quando c’è? Amare la libertà dell’altro, amare la sua differenza inassimilabile di cui la donna è il simbolo. Per questo Lacan affermava che si ama, quando si ama, sempre e solo una donna. Per questa ragione amare — dovremmo sempre aggiungere — contempla il rischio della caduta e dell’abbandono. È sempre una esposizione rischiosa all’altro che ci rende tutti più indifesi e più femminili. Ci esponiamo senza riserve alla libertà dell’altro che ha sempre, in ogni momento, il diritto di scegliere se rinnovare o interrompere il patto che ci unisce. Ed è, come sappiamo, di fronte a questo diritto del discorso amoroso che la violenza dei maschi può scagliarsi come una freccia avvelenata contro il corpo delle donne.
Colpire, sfregiare, mutilare, straziare per ribadire una proprietà che non esiste. Per coloro che vivono senza educazione alla legge della parola la libertà della donna non è sopportabile se non è imprigionata. Nemmeno per le donne è facile abitare quella alterità che esse portano con sé. Per questa ragione Freud sosteneva che il “rifiuto della femminilità” non riguardasse solo gli uomini, ma attraversasse anche le donne. Non è proprio questa difficoltà che talvolta può consegnare una donna nelle braccia di chi la umilia, la offende, la violenta, la uccide? La donna che rifiuta inconsciamente la propria femminilità può credere che si possa essere una donna solo consegnandosi passivamente ad un uomo, magari seguendo l’esempio sacrificale delle proprie madri. È però del tutto evidente che si tratta di una atroce illusione. Nessun uomo sa cosa sia una donna. Ecco allora consumarsi il terribile equivoco: lei si consegna nelle mani dell’uomo per essere una donna, ma si ritrova ad essere ridotta a corpo-cosa, corpo-strumento, a “roba”, come direbbe il Mastro Don Gesualdo di Verga. È una lezione disturbante che l’esperienza clinica può confermare. La violenza porta con sé una seduzione silente che in alcune donne può nutrire l’illusione fatale che avere un padrone possa sollevarle dal difficile compito di abitare la libertà radicale della femminilità. Ma tutto questo non deve scaricare in nessun modo sulle donne la responsabilità che grava solo su coloro che scelgono la via della violenza al posto di quella della parola. Questa scelta è sempre colpevole. Preferisce il dominio cieco al rischio dell’esposizione, l’affermazione autarchica del proprio Io al suo decentramento, la potenza narcisistica del fallo (sempre un po’ idiota, secondo Lacan) all’incontro con l’alterità di un corpo, come quello femminile, fatto di segreti. Se l’amore è sempre un salto nel vuoto è perché esso implica la rinuncia a rendere l’altro una nostra proprietà, la rinuncia alla violenza come soluzione (impossibile) del problema della libertà.

il Fatto 25.11.14
Donne, centri antiviolenza in rivolta contro il governo
di Elisabetta Ambrosi


NELLA GIORNATA INTERNAZIONALE ESPLODE LA POLEMICA DELLE ASSOCIAZIONI: ”NUOVI OBBLIGHI CON APPENA 6.000 EURO L’ANNO, VOGLIONO CANCELLARCI”

Non accettiamo che il governo decida come dobbiamo lavorare, soprattutto perché la donna non è una minus habens che deve essere messa dentro un percorso con una logica solo securitaria e sanitaria. E comunque se il governo ritiene che dobbiamo lavorare come un servizio di pronto intervento, almeno dovremmo avere le risorse, che invece non ci sono”.
È netto il parere di Manuela Ulivi, presidente della Casa delle donne di Milano (primo centro antiviolenza in Italia), contro le linee guida elaborate dal Dipartimento delle Pari opportunità di Palazzo Chigi, che prescrivono i requisiti per poter accedere ai finanziamenti previsti dalla legge 119/2013, a partire dal 2015. Senza riconoscere la specificità dei luoghi dove le donne già sono accolte e aiutate, il documento, che verrà sottoposto il prossimo 27 novembre alla Conferenza Stato e Regioni, rischia di cancellare un patrimonio qualificato di esperienze acquisite da oltre venti anni dai centri antiviolenza.
È QUESTO l’allarme che l’Associazione Dire, Donne in Rete contro la violenza, che raggruppa circa settanta centri sparsi sul territorio italiano, lancia proprio alla vigilia della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, oggi 25 novembre. Oltre a non dare alcune priorità ai centri antiviolenza già esistenti nell’assegnazione dei fondi – nonostante un accordo tra l’Associazione nazionale comuni italiani e Dire – il documento redatto dal Dipartimento delle Pari opportunità prevede infatti criteri che, secondo l’associazione, non solo rischiano di escludere chi già opera sul campo ma che rispecchiano una metodologia del tutto diversa da quella con la quale, da anni, lavorano i centri.
“Il documento impone infatti che debbano esserci psicologi e assistenti sociali, ma gli operatori sono considerati come figure indistinte, mentre i centri antiviolenza sono fatti da donne che si mettono in relazione ad altre donne. C’è una istituzionalizzazione che nasconde, secondo me, una volontà di controllo sulle donne”, continua Ulivi. “Il fatto è che gli stereotipi di genere”, spiegano proprio dall’associazione Dire, “attraversano le stesse istituzioni, quindi se le operatrici non sono formate le donne vittime di violenza rischiano di trovarsi di fronte psicologhe o anche avvocate che magari le valutano attraverso dei cliché, magari giudicandole poco collaborative, immature, ostili. Attraverso questi criteri, il governo impone una logica che appiattisce, istituzionalizza l’intervento, lo riduce a un servizio: ma la violenza sulle donne non è un fatto solo psicologico, ma è un problema culturale, sociale e anche politico”.
Ci sono poi altri due aspetti che vengono chiamati in causa: la separazione dei centri violenza dalle case rifugio dove vengono accolte le donne – “non hanno bisogno solo di un letto, ma di un percorso” – e il fatto che, mentre il governo ha deciso che i centri dovranno essere aperti cinque giorni a settimana, con un numero telefonico disponibile 24 ore su 24, i fondi che i centri antiviolenza hanno ricevuto sono pochissimi, circa 6.000 euro per due anni per ogni struttura.
Interpellata dal Fatto, la consigliera di Palazzo Chigi per le Pari opportunità, onorevole Giovanna Martelli, si è limitata a segnalare l’iniziativa governativa di domani a Roma: “Vincere la partita più importante: quella contro la violenza sulle donne”. Interverranno Maria Elena Boschi, e personalità del mondo del calcio e dello spettacolo. Durante l’evento, sarà lanciato l’hashtag #cosedauomini, la nuova campagna di sensibilizzazione del governo italiano rivolta agli uomini. “Quando ho visto la locandina sono rimasta senza parole, volevo scrivere al governo”, conclude Manuela Ulivi”. “Quella è una logica che insegue gli applausi, noi invece non facciamo spettacolo. Noi siamo quelle che, di notte, rispondono alle telefonate delle donne impaurite. E con loro facciamo un percorso di consapevolezza che le tratta come soggetti adulti quali sono”.

Corriere 25.11.14
Violenza, i fondi rimasti congelati
Femminicidio, i 16 milioni mai distribuiti
Il governo rilancia: nel 2015 più soldi ai centri
di Giusi Fasano e Giovanna Pezzuoli


Nella giungla delle norme e nell’incertezza dei criteri di distribuzione dei fondi, una cosa è certa: ai centri antiviolenza e alle case rifugio per ora non è arrivato nulla. Non hanno visto un euro di quel finanziamento di 17 milioni (diventati 16 milioni e 450 mila) previsto per il biennio 2013/2014 dalla legge 119, la cosiddetta contestata legge sul femminicidio. Soldi che in teoria dovrebbero integrare e non sostituire le scarse risorse di cui dispongono perlopiù i circa 350 centri attivi in Italia (secondo la mappatura approssimativa stilata sulla base del centralino d’emergenza nazionale 1522).
Certo, in alcune Regioni più virtuose dove è stata fatta la delibera per l’assegnazione, i soldi sarebbero in dirittura d’arrivo, ma nella maggior parte dei casi i centri antiviolenza, privati o pubblici, si arrangiano tra bandi comunali, ricerca di fondi privati e autofinanziamenti.
A fronte di questo panorama economicamente sconfortante grandi numeri vengono annunciati sulla carta con molte buone intenzioni: è l’atteso Piano nazionale antiviolenza interministeriale che dovrebbe coordinare strategie e risorse, peraltro sollecitato dalla stessa Convenzione di Istanbul (primo strumento giuridico internazionale per la prevenzione e il contrasto della violenza di genere), in vigore in Italia dal primo agosto 2014.
Spiega l’onorevole Giovanna Martelli, consigliera alle Pari opportunità per il governo Renzi: «Per il 2015 abbiamo la certezza di 19 milioni e 100 mila euro di fondi per l’attuazione del Piano nazionale, più 7 milioni per il mantenimento dei centri. Presto comunicheremo le azioni principali del Piano il cui varo definitivo avverrà a gennaio, dopo una costruzione partecipata».
Quando dice «presto» la consigliera Martelli intende dire oggi. Perché proprio in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne sarà lei stessa ad anticipare i passaggi-chiave del nuovo Piano. «Sarà molto importante — valuta — la conferenza Stato-Regioni del 27 novembre per definire alcuni dei punti principali». Qualche esempio? «Siglare i criteri minimi di funzionamento per centri antiviolenza e case di rifugio, che dovranno essere omogenei da Bolzano ad Agrigento e che serviranno anche per sciogliere il nodo sulla ripartizione dei fondi. E poi è prioritaria la costruzione di una banca dati che ci consentirà di fare una programmazione costruita, appunto, sui dati».
Denuncia però il rischio di tutta l’operazione l’avvocata Titti Carrano, presidente di D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza), che raggruppa 70 centri indipendenti e gestiti da donne: «Definire i requisiti strutturali per poter accedere ai finanziamenti significa burocratizzare l’intero sistema, cancellano la storia e l’identità dei centri antiviolenza. Anche l’idea di introdurre personale maschile stravolge l’approccio di genere che abbiamo sempre avuto. Come possono poi richiedere 365 giorni di apertura o un centralino telefonico attivo 24 ore su 24 se non ci sono mai stati dati i fondi per questi servizi?».
Il problema, dati alla mano, è che solo una piccola parte di quei 16 milioni e mezzo del biennio 2013-14 viene (per ora in teoria) destinata ai centri e alle case rifugio: per l’esattezza 2 milioni e 204 mila euro. Gli altri fondi vengono accantonati per realizzare nuovi centri (5 milioni e 400 mila euro) oppure per creare reti istituzionali all’interno delle quali i centri esistenti dovrebbero essere recuperati (8 milioni e 800 mila euro). Da qui il timore che arriveranno solo le briciole.
Ammette l’avvocata Manuela Ulivi, presidente della Casa delle donne maltrattate di Milano: «Non sappiamo come e quando verranno distribuiti i fondi. In Lombardia è già stato rinviato due volte il tavolo regionale al quale partecipiamo insieme ad altre 12 componenti non governative e 12 istituzionali. E anche il milione deliberato dalla Regione è disponibile per progetti di Rete. In altre parole: i soldi vanno ai centri solo se stanno all’interno delle istituzioni. L’unico a far la differenza è il Comune di Milano che ha stanziato 600 mila euro per sostenere direttamente alcuni centri ed enti convenzionati».
Nel frattempo, da Milano a Palermo, si batte la strada dell’autofinanziamento: in piazza a vendere clementine o con spettacoli teatrali. Dice Maria Rosa Lotti dello storico centro Le Onde: «Un mese fa la nostra Regione ha inviato al governo un’ipotesi di progettualità. Siamo in attesa di risposta. Il nostro centro? È messo malissimo... Oggi possiamo contare sul contributo della Chiesa valdese! Gli stanziamenti governativi sono lontanissimi dalla copertura di una domanda sociale così diffusa».
S ono briciole anche per la Regione Emilia-Romagna, che tuttavia ha già una delibera per finanziare i centri: «I primi fondi arriveranno entro l’anno e un altro 30% dopo il rinnovo della Giunta» si augura Angela Romanin, operatrice della Casa delle Donne per non subire violenza di Bologna. Ma resta un’ulteriore incognita: sono cumulabili o no i fondi che arrivano dai Comuni e dalla legge 119? C’è sempre il rischio che qualcuno dica: visto che adesso ci pensa il governo…
Tra le più battagliere, Maria Luisa Toto del Centro pugliese Renata Fonte: «Vorrei sapere chi sono i cassieri della mia Regione! Dall’oggi al domani sono sbucati dal nulla 7, 8 nuovi centri che funzionano solo in teoria, non hanno alcuna competenza specifica. Il nostro centro esiste da 16 anni, siamo collegate al 1522, copriamo la provincia di Lecce e siamo tutte volontarie, per molto tempo abbiamo avuto come sostegno 5 mila euro finché nel 2012 di fronte al rischio chiusura ho fatto lo sciopero della fame. Risultato: oggi ne riceviamo 10 mila, bastano appena per le spese telefoniche».

La Stampa 25.11.14
Umberto Veronesi
“Molti medici in Italia già praticano l’eutanasia”
di Stefano Rizzato


Contrastare la sofferenza e non solo il dolore. E mettere al centro delle cure la persona, fino a permetterle di andarsene «in modo dolce e sereno». Così Umberto Veronesi torna a parlare di diritti dei pazienti e di fine vita. «Ai malati terminali che soffrono e chiedono l’iniezione per morire serenamente questo diritto viene negato. In Italia i medici che praticano l’eutanasia possono essere accusati di omicidio, ma molti lo fanno, in forma clandestina». Così lo scienziato italiano si è espresso a margine di «Uniti per i pazienti», la conferenza che ha visto l’Istituto Europeo di Oncologia e l’Università Statale di Milano rilanciare l’impegno per cure umanizzate in ogni campo.
«Oggi - spiega Veronesi - riusciamo a curare sempre meglio e tante malattie che erano letali sono diventate croniche. Questo pone una sfida enorme a livello etico. Io da sempre sostengo il metodo olandese, che prevede leggi molto severe per il suicidio assistito, ma con una deroga. Un paziente in fin di vita e con dolori violenti può accedere all’eutanasia, se lo chiede per iscritto tre volte e nelle sue facoltà. A decidere è il medico, ma solo dopo la valutazione di altri colleghi. Così ogni anno in Olanda ci sono diecimila persone che chiedono di avere l’eutanasia, ma solo tremila l’ottengono».
Contrastare la sofferenza e non solo il dolore. E mettere al centro delle cure la persona, fino a permetterle di andarsene «in modo dolce e sereno». Così Umberto Veronesi torna a parlare di diritti dei pazienti e di fine vita. «Ai malati terminali che soffrono e chiedono l’iniezione per morire serenamente questo diritto viene negato. In Italia i medici che praticano l’eutanasia possono essere accusati di omicidio, ma molti lo fanno, in forma clandestina». Così lo scienziato italiano si è espresso a margine di «Uniti per i pazienti», la conferenza che ha visto l’Istituto Europeo di Oncologia e l’Università Statale di Milano rilanciare l’impegno per cure umanizzate in ogni campo.
«Oggi - spiega Veronesi - riusciamo a curare sempre meglio e tante malattie che erano letali sono diventate croniche. Questo pone una sfida enorme a livello etico. Io da sempre sostengo il metodo olandese, che prevede leggi molto severe per il suicidio assistito, ma con una deroga. Un paziente in fin di vita e con dolori violenti può accedere all’eutanasia, se lo chiede per iscritto tre volte e nelle sue facoltà. A decidere è il medico, ma solo dopo la valutazione di altri colleghi. Così ogni anno in Olanda ci sono diecimila persone che chiedono di avere l’eutanasia, ma solo tremila l’ottengono».

La Stampa 25.11.14
Il primo italiano contagiato è un medico di Emergency
3 domande a Cecilia Strada di Emergency«L’altruismo è più forte della paura»
di Stefano Rizzato


«Senso di responsabilità. Il desiderio di fare il proprio lavoro lì dove davvero ce n’è più bisogno, per provare ad evitare che una situazione che è già un disastro umanitario diventi ancor più catastrofica». Così Cecilia Strada, presidente di Emergency spiega perché ancora oggi, nonostante i rischi, ci sono tanti italiani disposti ad andare in Sierra Leone.
Per tutti ci sono protocolli di sicurezza molto rigidi: troppo rigidi, per essere davvero seguiti?
«Lavorare in zona rossa seguendo i protocolli di sicurezza significa essere vestiti e coperti dalla testa ai piedi, in una sorta di scafandro. Vuol dire poter lavorare al massimo un’ora e poi farsi dare il cambio. Ma i pazienti in condizioni critiche hanno bisogno di assistenza continua, non è facile lasciarli. A volte ci è capitato di dover quasi tirare via dei medici e obbligarli a uscire».
Un lavoro nelle condizioni più difficili.
«È davvero faticoso, sia dal punto di vista fisico sia da quello emotivo. Ci sono tanti elementi da prendere in considerazione. Uno di questi: un virus come ebola è un nemico che non vedi. E da medico ti mette davanti a un paziente che – potenzialmente – può ucciderti».
A che punto è l’emergenza?
«Il contagio non accenna a rallentare e oggi in Sierra Leone ci sono tra ottanta e cento nuovi casi al giorno. C’è bisogno di altro personale e di più posti letto, per potenziare l’isolamento e il trattamento dei malati. Grazie alla cooperazione inglese ci saranno cinque nuove strutture con cento posti ciascuno, entro la fine di dicembre. È un passo importante per iniziare a sperare e noi di Emergency, che prenderemo in gestione uno di questi centri, vogliamo contribuire a migliorare la situazione».

La Stampa 25.11.14
Teatro Opera, il Cda revoca i licenziamenti
Il sovrintendente Carlo Fuortes: approvato accordo con i sindacati, salvi 180 artisti di orchestra e coro
Adesso serve il sì dei lavoratori. Ma il risultato del voto non è scontato

qui

il Fatto 25.11.14
“Patria Ebraica, ultimo trucco di Netanyahu”
Il giornalista Gideon Levy: “E’ una legge strumentale, il premier vuole sia i voti della destra che quelli dei coloni”
intervista di Roberta Zunini


Quella del governo è stata una decisione populista e irresponsabile”. Gideon Levy, giornalista di Haaretz da sempre in prima linea contro l’occupazione e le colonie ebraiche in Cisgiordania, è netto nel condannare l’approvazione domenica da parte DI Netanyahu di una controversa proposta di legge che, se venisse avallata domani dalla Knesset, il Parlamento, trasformerebbe lo status del Paese da “stato ebraico e democratico” in “patria nazionale del popolo ebraico”. Trattandosi della modifica di una “ Legge Fondamentale”, cioè di una normachehacaratterecostituzionale-Israele non ha una costituzione -, avrà bisogno del voto favorevole dei deputati e anche dei 6 ministri che l’hanno bocciata (il consiglio dei ministri si era chiuso con 6 contrari e 14 favorevoli), tra i quali il ministro della Giustizia Tzipi Livni, del Tesoro Yair Lapid e della cultura e sport Limor Livnat, quest’ultima dello stesso partito del premier, il conservatore Likud. Se questi non la voteranno uscendo dall’aula o la bocciassero nuovamente, il premier potrebbe silurarli, inasprendo il clima politico; se passasse, le relazioni con la massiccia minoranza arabo-israeliana, il 20% dell’intera popolazione israeliana, peggiorerebbero.
Israele fin dalla dichiarazione di indipendenza del 1948 si è definito come Stato ebraico.
Ma il testo della legge istituzionalizzerà la legge ebraica come base del diritto. Non è vero quindi che ribadisce ciò che era stato già stabilito. E se fosse stata solo un replica, che bisogno ci sarebbe stato di suscitare questo vespaio?
Significa che, se passasse, la legislazione e i verdetti dei giudici dovranno ispirarsi principalmente ai valori ebraici?
Esatto, e come ha detto il procuratore generale Yehuda Weinstein, la legge formulata in questo modo non è altro che un attacco alla natura democratica di Israele. Siccome Netanyahu vuole vincere a tutti i costi le primarie di gennaio, se ne frega della democrazia pur di strappare voti all’ala destra del suo partito.
Vuol dire che è una legge strumentale?
Sì, da una parte mira a prendere i voti della destra del suo partito, ma tende anche a rabbonire il “portavoce dei coloni”, l’ultranazionalista-religioso Naftali Bennett (leader di “Focolare ebraico”, votato dai coloni) ministro dell’Economia e degli Servizi Religiosi, che gode di ampio consenso tra gli elettori del Likud.
E per quanto riguarda gli arabi-israeliani, verrà tolta la piena cittadinanza di cui godono?
No, perché la legge salvaguarda i diritti dei singoli cittadini dello Stato d’Israele, quindi anche di quelli arabo-iraeliani, ma è evidente che crea un clima di discriminazione culturale. Lo Stato non riconoscerà più di fatto la minoranza arabo-israeliana, un milione e mezzo di persone, come entità a cui spettano i diritti accordati alle minoranze. L’ebraico diverrà l’unica lingua ufficiale e i fondi per le scuole arabe verranno ufficialmente diminuiti (come già accade), così come diminuiranno i permessi concessi agli arabo-israeliani per costruire case”. Secondo Levy, il populismo di Netanyahu ha toccato il fondo.

il Fatto 25.11.14
Moni Ovadia
“Gli arabo-israeliani costretti all’apartheid”
di Rob. Zun.


Che Moni Ovadia sia a corto di aggettivi per definire la legge intitolata “Israele, lo stato nazionale del popolo ebraico”, sembra incredibile. “Sono allibito, non trovo le parole per descrivere questo schifo e il disastro a cui questa legge, se venisse approvata dal Parlamento, condannerà Israele. Ma dopo una pausa, ecco la sintesi: “Siamo alla fascistizzazione dell’ebraismo”. Secondo l’artista e intellettuale ebreo, non c’è altro modo per descriverla. “Questa legge non solo discriminerà la cospicua minoranza arabo-israeliana, che è costituita da un milione e mezzo di persone su una popolazione di dieci milioni di abitanti, ma avvalora una visione distorta dell’ebraismo che è una religione aperta, dialettica, senza un Papa, proprio perché la Torah può venire interpretata in modi diversi ”. L’ebraismo non può essere ridotto alla visione degli ultranazionalisti religiosi di destra, a suo avviso. “Anche gli arabo-israeliani, pur avendo la piena cittadinanza, finiranno per vivere in uno stato di apartheid, brutalità che stanno già sperimentando i palestinesi in Cisgiordania . Se poi prevale questa linea, come sembrerebbe dalla radicalizzazione costante e incessante degli ebrei israeliani, Israele perderà definitivamente la sua caratteristica di unica democrazia del Medio Oriente”. Anzi, per l’intellettuale, la democrazia in Israele è già parziale “fino alla linea verde” ma finirà per sparire anche dentro i confini riconosciuti dalla comunità internazionale. “Che non ha fatto niente per bloccare le violazioni di Israele alle numerose risoluzioni. Ora che anche il presidente Obama ha dimostrato di non essere in grado di contrastare l’arroganza dell’establishment israeliano, Netanyahu e i suoi si sentono liberi di fare quello che vogliono, con il supporto dei repubblicani americani”. Per chiudere Ovadia cita un passo del Levitico (25, 23) in cui il Creatore dice agli ebrei: “Mia è la terra, e voi siete forestieri ospiti presso di me”. E lo commenta con le parole del filosofo Franz Rosenzweig in La stella della redenzione. “E la patria, in cui la vita di un popolo del mondo prende dimora e scava il suo solco nella terra, fin quasi a dimenticare che essere un popolo vuol dire anche qualcos’altro... ‘Mia è la terra’, Dio gli dice, e la santità della terra sottrae il Paese alla sua spregiudicata presa di possesso”.

Corriere 25.11.14
«Stato ebraico» La nuova legge e la crisi di Bibi
di Davide Frattini


Il piano di partizione dell’Onu — compie 67 anni fra pochi giorni — menziona le parole «Stato ebraico» 29 volte. La Dichiarazione d’indipendenza ripete la stessa formula, ripresa anche da iniziative di pace come quella di Bill Clinton. C’era bisogno di ribadirlo, di formalizzarlo in una proposta di legge che molti commentatori considerano poco democratica? Se lo chiede pure un editorialista conservatore come Ben-Dror Yemini che sul quotidiano Yedioth Ahronoth , il più venduto in Israele, prevede: la nuova norma verrà usata per delegittimare il Paese da chi già lo considera razzista e discriminatorio. Perché — sostengono i costituzionalisti — tra i due termini voluti da David Ben-Gurion e gli altri padri fondatori (ebraico e democratico) sposta il peso sul primo, senza mettere per iscritto l’uguaglianza per le minoranze, per quel 20% di arabi israeliani che sono cittadini a tutti gli effetti, con passaporto e diritto di voto. La legge, sostenuta da Netanyahu e votata tra le divisioni dal governo dovrebbe essere presentata in Parlamento domani, è difficile che ottenga la maggioranza. I ministri moderati come Yair Lapid e Tzipi Livni sono decisi a bloccarla, mentre il premier sembra disposto a spingere fino alla crisi. Ai consiglieri che lo avvertono «potresti perdere l’incarico» pare risponda: «Perché adesso ce l’ho?». La coalizione è spaccata, Netanyahu è frustrato dalle liti e vorrebbe tornare al potere con nuovi soci. La contrapposizione è anche tra la nuova e la vecchia destra, con Bibi che sta scegliendo il versante «neo» o «post» Likud anche per ragioni elettorali: deve contrastare l’avanzata di Naftali Bennett, il miliardario hi-tech che guida il partito dei coloni, tra i sostenitori più decisi della norma sull’identità nazionale. Non glielo può perdonare una ministra come Limor Livnat, veterana del Likud che ancora ricorda le parole di Zeev Jabotinsky, imparate alle riunioni del movimento giovanile Beitar. In nome di Jabotisnky (citato perfino da un deputato arabo) e della sua ideologia nazionalista, nella riunione di governo ha detto: «Questa legge è contraria ai nostri valori».

La Stampa 25.11.14
Fumata grigia sul nucleare
. Ma con l’Iran il dialogo va avanti
Teheran è cruciale nelle sfide in Medio Oriente, nessuno può permettersi una rottura
di Roberto Toscano


Nessun accordo sul nucleare a Vienna. Nonostante mesi di un negoziato serio, serrato, e condotto dalle due parti con competenza e buona volontà, e nonostante secondo numerose indiscrezioni si fosse raggiunto un margine di intesa del 95 per cento, la questione nucleare iraniana rimane aperta.
Fumata nera, quindi? Se fosse possibile, si potrebbe dire che la fumata in realtà è grigia, nel senso che il negoziato rimane aperto, con una nuova scadenza fissata a fine giugno 2015, e che nei prossimi sette mesi continueranno gli incontri, probabilmente a partire da quello che si terrà in Oman già entro il prossimo mese di dicembre. Per marzo è invece fissata una sorta di scadenza intermedia con funzione di verifica. 
Si potrebbe discutere a lungo applicando il proverbiale schema del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, se non fosse che siamo in presenza di un bicchiere molto fragile, e che il tempo di qui alla nuova scadenza verrà di certo usato dai negoziatori per cercare una soluzione per i punti ancora non concordati, ma anche da parte di chi prende di mira il bicchiere stesso più che i suoi contenuti.
Nella sua conferenza stampa, il Segretario di Stato Kerry ha parlato di «questioni tecniche complicate» che non è stato possibile risolvere nel loro complesso. Al di là delle innegabili complessità tecniche del negoziato, si può invece dire che – più che la questione del numero di centrifughe o del tipo di controlli - quello che probabilmente non ha permesso di raggiungere un’intesa è che all’Iran si chiedeva l’applicazione immediata delle misure di riduzione della capacità di arricchimento a fronte di una eliminazione solo graduale delle sanzioni. Un’asimmetria che ben difficilmente potrebbe risultare accettabile da parte del vero capo-delegazione iraniana, quel Khamenei che ha concesso ai negoziatori iraniani un margine negoziale, ma certo non un assegno in bianco.
È chiaro a tutti, comunque, che quello che è in gioco è molto di più della questione nucleare. Un accordo a Vienna sarebbe stato infatti un passaggio fondamentale verso il riconoscimento del ruolo dell’Iran in un contesto regionale, tanto più significativo in un momento in cui per fermare e invertire l’avanzata del cosiddetto Stato Islamico l’apporto iraniano appare ben difficilmente sostituibile, se pensiamo alla stanchezza dei curdi, lasciati soli in prima linea, alla riluttanza americana ad impegnare propri reparti di terra, alle ambiguità degli Stati sunniti (oggi spaventati dallo scatenarsi di forze da loro stesse sostenute), alla scarsa collaborazione della Turchia, a un esercito iracheno che, come scriveva ieri il «New York Times» in un articolo devastante, brucia per la clamorosa corruzione dei sui vertici enormi risorse, prevalentemente americane, che dovrebbero metterlo in condizione di lottare seriamente con i jihadisti.
Non è l’atomica iraniana a spaventare israeliani e sauditi, ma la prospettiva di una normalizzazione dei rapporti fra Washington e Teheran. Per rendersene conto, e per capire come certi timori siano fondati, basta considerare quello che il Presidente Obama ha detto domenica scorsa al programma «This Week» della catena televisiva «Abc», quando ha definito l’Iran «un grande Paese, con molti talenti e molta sofisticazione», e ha aggiunto: «L’Iran non è come la Corea del Nord, un Paese che è completamente isolato e completamente disfunzionale».
Ancora più significativo è il fatto che Obama ha tenuto a sottolineare che anche dopo l’eventuale soluzione della questione nucleare, rimarranno, nei rapporti con l’Iran, problemi come l’appoggio a movimenti terroristi e l’ostilità nei confronti di Israele, ma ha parlato di «un lungo cammino verso la normalizzazione». 
Nelle prossime settimane, nei prossimi mesi, emergerà al di là di ogni possibile dubbio la natura politica della questione, al di là di una paventata proliferazione nucleare e del pericolo, ancora meno credibile, di una futura aggressione nucleare iraniana ad Israele. Tutto si collega, in Medio Oriente: dagli equilibri nel Golfo alla minaccia jihadista, dal ruolo della Turchia alla fragilità del Libano, dall’incerto futuro della monarchia saudita alla guerra civile endemica dello Yemen, per arrivare alla questione palestinese, punto di riferimento ideologico, prima ancora che geopolitico, per un mondo arabo-islamico che trova nella causa palestinese un irrinunciabile punto di convergenza, anche se spesso più a livello retorico-propagandistico che reale. 
Questo groviglio di problemi, violenze, rivalità, interessi contrapposti, è entrato – dopo il miraggio della Primavera Araba – in una sorta di deriva dagli imprevedibili approdi. Una deriva che né gli americani né gli europei sembrano in grado di arrestare. 
Nessuno si illude che l’Iran possa essere un alleato degli Stati Uniti. Al massimo potrà essere un interlocutore problematico, ma evidentemente Obama è giunto alla conclusione che l’Iran sia un interlocutore importante, più razionale che fanatico («non una Corea del Nord») nonostante la persistente retorica.
Ecco quello che è veramente in gioco, e non certo il numero di centrifughe o il breakout time - problemi solubili nel prosieguo del negoziato. Possiamo essere sicuri che si tratterà di un gioco pesante, sia a Washington, dove Obama – dopo la perdita anche del Senato - è ormai un’ «anatra zoppa», e a Teheran, dove i nemici della normalizzazione, e soprattutto della moderazione del Presidente Rohani, non rimarranno certo inerti nei prossimi mesi.

La Stampa 25.11.14
Le uccidono il figlio, donna fa strage di taliban
La vendetta di una madre nella provincia di Farah. Nello scontro a fuoco di sette ore coinvolte anche la figlia e la nuora: almeno 25 vittime fra gli insorti

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La Stampa 25.11.14
Ferguson, il poliziotto non sarà incriminato. Riesplode la rabbia, agente ferito da uno sparo. Proteste anche a New York: chiusi tre ponti
Per il Gran giurì non ci sono prove per processare Darren Wilson che aveva ucciso il 18enne di colore Michael Brown. Il padre: «Sono devastato». Violenti scontri con le forze dell’ordine. Manifestazioni nella Grande Mela. Obama: «Accettare il verdetto»
di Paolo Mastrolilli

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Corriere, dal The Dallas Morning News 25.11.14
Texas, sentenza di morte «ingiusta» per schizofrenico

È giusto condannare a morte un malato di mente? Se lo chiede in un editoriale il Dallas Morning News , diretto da Bob Mong . Il 3 dicembre, proprio nella prigione di Huntsville, in Texas, verrà eseguita la sentenza capitale per Scott Panetti, colpevole di aver ucciso i genitori adottivi. L’uomo, affetto da schizofrenia cronica, è stato considerato in grado di subire due processi. E condannato, nonostante la Corte Suprema negli Anni 80 avesse considerato «selvaggia e disumana» la pena capitale per un malato di mente.

La Stampa 25.11.14
“Podemos”: è in Spagna il modello degli orfani della nostra sinistra

Un po’ Tsipras, un po’ Grillo, il movimento nato dagli Indignados è primo nei sondaggi Un “partito” che aiuta i cittadini e combatte “la casta”: può funzionare in Italia?
di Francesco Olivo
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Corriere 25.11.14
Erdogan: «Le donne non sono uguali a noi, non possono ricoprire le stesse posizioni degli uomini»
di Monica Ricci Sargentini

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Corriere 25.11.14
I revisionismi su Matteotti, un diversivo senza fortuna
di Antonio Carioti


La questione della responsabilità personale di Benito Mussolini nel delitto Matteotti è sempre stata discussa. Di certo i sicari che rapirono e uccisero il leader socialista, nel giugno 1924, erano squadristi legati a Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del partito fascista, e a Cesare Rossi, capo dell’ufficio stampa del presidente del Consiglio, cioè di Mussolini. Vi sono storici, come Mauro Canali, secondo i quali il Duce fu certamente il mandante dell’azione criminosa, mentre altri esprimono dei dubbi. Non è del tutto chiaro neppure se l’intenzione degli aggressori fosse fin dall’inizio quella di uccidere Matteotti, o se volessero soltanto «dargli una lezione».
Tuttavia, come lo stesso Mussolini in sostanza ammise nel discorso del 3 gennaio 1925 che segnò di fatto l’avvio della dittatura, è evidente che il delitto maturò in un clima di violenza che il fascismo aveva sistematicamente fomentato e che non prevedeva alcuna tolleranza per un’opposizione intransigente come quella rappresentata da Matteotti.
In tutto questo le dichiarazioni rilasciate da Arrigo Petacco al blog di Beppe Grillo non aggiungono nulla agli argomenti usati a più riprese da coloro che hanno inteso assolvere Mussolini da qualsiasi colpa. Torna l’immagine edulcorata di un Duce bonario, propenso al compromesso con l’opposizione socialista, trascinato suo malgrado sulla via della tirannide. Un copione logoro, già udito un’infinità di volte.
È comprensibile che Petacco abbia approfittato di questo spazio per fare pubblicità al suo ultimo libro. Ma le ragioni che hanno indotto Grillo a presentarne le tesi in termini sensazionalistici non paiono aver molto a che fare con la volontà di illuminare una pagina tragica della nostra storia. Vanno ricondotte piuttosto ai risultati elettorali non proprio lusinghieri ottenuti dal M5S in questa ultima tornata e alla irrilevanza politica cui il partito di Grillo potrebbe ridursi.

La Stampa 25.11.14
Stephen Hawking, la scienza una storia d’amore
“La Teoria del tutto” del regista James Marsh sull’incredibile vita dell’astrofisico britannico
di Francesca Paci

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La Stampa 25.11.14
l museo di Berna dice sì al tesoro nazista
La collezione Gurlitt va in Svizzera, secondo le volontà del mercante Molte delle 1200 opere erano state sequestrate a famiglie ebree
di Tonia Mastrobuoni


«E’ stata una decisione tutt’altro che facile». E in ogni caso «l’arte trafugata o sospettata di essere trafugata non toccherà mai il suolo svizzero». Il presidente del Kunstmuseum di Berna, Christoph Schäublin, ha comunicato ieri in un’attesissima conferenza stampa che accetterà il discusso patrimonio da oltre un miliardo di euro del «mercante d’arte di Hitler», Hildebrand Gurlitt. Un tesoro che il figlio Cornelius era riuscito a nascondere al mondo per quasi 70 anni, dopo che il padre aveva sostenuto che fosse stato distrutto nei bombardamenti di Dresda, e che è stato scoperto nel 2012, assolutamente per caso.
Ma la più incredibile saga dell’arte contemporanea degli ultimi anni non finisce qui: se gli svizzeri hanno accettato di prendersi un patrimonio così contestato - Hildebrand Gurlitt era anche in possesso di centinaia di opere trafugate agli ebrei o classificate dai nazisti come «entartet», «degenerate» - è perché la Germania si è incaricata di trovare i legittimi proprietari delle opere di origine dubbia.
Inoltre, sulla decisione del museo d’arte di Berna pesa il ricorso annunciato venerdì scorso dalla cugina di Cornelius, Uta Werner, che chiede che il testamento venga impugnato, sostenendo che sia stato scritto in un momento in cui il cugino non era più capace di intendere e di volere. Il fratello Dietrich, invece, ha fatto sapere di ritenere le ultime volontà di Cornelius legittime e si è chiamato fuori dal tentativo della sorella di accaparrarsi l’immensa eredità del cugino. Werner è di origine ebraica e ha promesso che, nel caso i giudici le dessero ragione, restituirebbe le opere di incerta provenienza ai legittimi proprietari.
La richiesta della Werner è un colpo di scena, ma è solo l’ennesimo dopo il ritrovamento del tesoro nel 2012. Allora la polizia aveva fatto irruzione nella casa di un vecchietto trovato qualche mese prima con 9 mila euro cuciti nella giacca, su un treno proveniente dalla Svizzera.
Entrando nella casa di Cornelius Gurlitt, a Monaco, i poliziotti avevano rinvenuto oltre 1200 capolavori di Matisse, Picasso, Monet, Klee e altri grandi della pittura, ma anche montagne di immondizia. Gurlitt viveva ai limiti dell’indigenza: vendeva quadri per mangiare e curarsi dai malanni e faceva spola tra l’appartamento di Monaco e un altra casa a Salisburgo, dove gli inquirenti hanno trovato altre centinaia di opere che erano state date per disperse nei roghi di Dresda.
Quando Gurlitt è morto a 81 anni, a maggio, anche il suo testamento ha riacceso le polemiche. Già dal momento del ritrovamento del suo patrimonio aveva fatto discutere la sua - iniziale - indisponibilità a restituire persino i quadri sicuramente rubati dai nazisti ad ebrei - uno dei più famosi è il «Ritratto di signora» di Matisse, appartenuto alla famiglia di Anne Sinclair, ex moglie di Dominique Strauss-Kahn. Solo negli ultimi tempi aveva acconsentito a farle tornare alle famiglie a cui erano state scippate. Ma nel testamento, ultima puntura di veleno nei confronti dei connazionali, ha deciso di sottrarre alla Germania il suo tesoro, donandolo alla Svizzera.

La Stampa 25.11.14
«È giusta la scelta di un’istituzione pubblica»


Suo padre fu perseguitato dai nazisti, finì in un campo di concentramento e dopo la guerra divenne un collezionista d’arte. E da quasi 20 anni Markus Deschler è uno dei più importanti galleristi di Berlino. Sul caso Gurlitt ha le idee chiare: «Credo sia una decisione giusta che l’eredità vada ad un’istituzione pubblica come il museo di Berna». Ma - aggiunge - nessuno si meravigli che Gurlitt, morto a maggio e figlio di una figura di spicco del collezionismo d’arte durante il periodo nazista, abbia deciso di lasciare tutto a un museo svizzero e non tedesco: «Le autorità tedesche non l’hanno trattato bene».
Deschler, cosa pensa della decisione di Berna di accettare la discussa eredità di Gurlitt?
«Trovo positivo che l’eredità vada ad un’istituzione pubblica, che ha proposto di restituire ai legittimi proprietari ogni opera d’arte di dubbia provenienza».
La cugina ha fatto ricorso ma sostiene di voler restituire tutto ai proprietari.
«Non conosco la cugina, mi limito a dire che è meglio se vanno a un museo. E’ l’ultima volontà di Cornelius Gurlitt e va rispettata».
Cosa pensa del fatto che quel patrimonio vada in un altro Paese, in Svizzera?
«Mi dispiace un po’: ci sono anche molti capolavori tedeschi, ma non mi meraviglia. Le autorità tedesche non l’hanno trattato bene, almeno all’inizio».
Ma nascondeva anche molta arte trafugata dai nazisti.
«In realtà solo una parte relativamente piccola di quell’eredità è di dubbia provenienza».
[T. M.]

La Stampa 25.11.14
Così il Louvre “sfilò” a Hitler Monna Lisa
L’operazione di Jacques Jaujard alla vigilia della II Guerra Mondiale
di Vittorio Sabadin


Il 25 agosto 1939, sei giorni prima dello scoppio della II Guerra Mondiale, un eroe dimenticato che si chiamava Jacques Jaujard fece appendere un cartello all’ingresso del Louvre, avvisando i visitatori che il museo sarebbe rimasto chiuso per alcuni giorni a causa di lavori urgenti. Subito dopo avere sbarrato i portoni, decine di uscieri, guide, impiegati, e professori e studenti dell’Accademia diedero inizio in segreto alla più grande operazione di salvataggio dei maggiori capolavori dell’arte, minacciati dal sicuro arrivo dei nazisti e dalle bombe che presto sarebbero cadute su Parigi. In pochi giorni, 3690 dipinti furono staccati dai muri e imballati in 1862 casse bianche. Le statue vennero imbottiture prima di essere caricate sui camion. Dal Louvre partirono 203 veicoli, in 37 convogli diretti verso i castelli della Loira o anonimi paesi di campagna, lontani dagli obiettivi di Hitler.
Nessuno aveva ordinato a Jaujard di organizzare questa operazione. Lo decise da solo, convinto che non c’era più tempo da perdere. All’epoca era vicedirettore dei Musei nazionali francesi e un anno prima aveva già aiutato il Prado di Madrid a portare al sicuro in Svizzera i capolavori messi in pericolo dalla guerra civile. Oggi quasi nessuno si ricorda di lui e persino il film «Monuments men» di George Clooney lo ha ignorato, preferendo dare un ruolo più importante a una delle sue eroiche assistenti, Rose Valland. Finalmente, un documentario di Jean-Pierre Devillers e Pierre Pochart, «Illustre et inconnu» (illustre e sconosciuto) ci ricorda che, se possiamo ancora ammirare migliaia di capolavori, lo dobbiamo al coraggio di un uomo solo, circondato da persone fidate. La «Gioconda» di Leonardo fu il primo quadro ad essere portato via. Su ogni cassa era dipinto un cerchio, il cui colore ne indicava il valore: giallo per le opere di pregio, verde per le più importanti, rosso per i capolavori. Sulla cassa della «Monna Lisa» vennero dipinti tre cerchi rossi. La tela andò a Chambord, ma durante la guerra fu spostata per sicurezza più volte: a Louvigny, poi all’Abbaye de Loc Dieu, al Museo di Montauban e infine nel magico castello di Montal, sopra Tolosa.
I dipinti più grandi, come «Le Nozze di Cana» del Veronese, vennero portati via arrotolati e altri, come «La zattera della Medusa» di Géricault, caricati sui camion così com’erano, protetti solo da un lenzuolo. La grande statua della «Vittoria alata di Samotracia» fu l’ultimo capolavoro a lasciare il museo, il 1° settembre, nelle ore in cui i tedeschi invadevano la Polonia.
Jaujard, nel corso della guerra, si prese cura di ogni opera messa al sicuro. Spostava quadri e statue quando pensava che fossero in pericolo, procurava stufette per proteggere dall’umidità quelle più antiche, come lo «Scriba rosso» egizio, un fragile vecchio di 4000 anni. Doveva combattere su due fronti: i nazisti, inferociti per avere trovato al Louvre solo cornici vuote, e il governo collaborazionista di Vichy, altrettanto ansioso di recuperare le opere per regalarle ai nuovi padroni. Ma riuscì a vincere la sua guerra segreta: nel 1944 tutti i capolavori tornarono a Parigi, senza il minimo danno.
Jaujard aveva aiutato anche molti collezionisti privati, i David-Weill, i Jacobson, i Levy e i Bernheim, a mettere in salvo le loro opere. Verso la fine della guerra la Resistenza gli mandò in aiuto uno dei suoi migliori elementi, nome in codice «Mozart», nota attrice francese biondo platino, che aveva recitato con Jean Renoir prima di passare alla clandestinità. Divennero amanti e guardarono insieme dalla finestra i nazisti che lasciavano sconfitti Parigi.

Corriere 25.11.14
Uomini di dio nelle trincee
I cattolici divisi dalla grande guerra tra patriottismo e volontà di pace
di Paolo Mieli


Papa Benedetto XV (al secolo Giacomo Della Chiesa) diede la celebre definizione della Prima guerra mondiale come un’«inutile strage» in una «Nota ai capi dei popoli belligeranti» resa pubblica il 1° agosto del 1917, in occasione dei tre anni dall’esplosione del conflitto. «Nessuno può immaginare» — scriveva il Pontefice esortando i governanti dei Paesi in armi a cercare immediatamente «una pace giusta e duratura» — «quanto si moltiplicherebbero e quanto si aggraverebbero i comuni mali se altri mesi ancora o peggio se altri anni si aggiungessero al triennio sanguinoso». Per poi esortare i «capi dei popoli belligeranti» a giungere «quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno di più, apparisce inutile strage». Parole che attestavano uno stato d’animo diverso da quello che aveva pervaso la sua allocuzione al concistoro, il 22 gennaio 1915. Nel 1915 il Papa si era limitato a fare riferimento ai criteri di un esercizio della forza «proporzionale» e della giusta causa di una guerra. Aveva chiesto che le regioni invase non venissero «devastate più di quanto sia strettamente richiesto dalle ragioni dell’occupazione militare», e che non fossero «feriti, senza vera necessità, gli animi degli abitanti in ciò che han di più caro, come i sacri templi, i ministri di Dio, i diritti della religione e della fede».
Trentuno mesi dopo — mette bene in evidenza lo storico e sacerdote don Bruno Bignami in La Chiesa in trincea. I preti nella Grande guerra di imminente pubblicazione per i tipi di Salerno editrice — Benedetto XV «evitava (volutamente) due termini: l’espressione “guerra giusta” e il concetto di patria». E parlava di «inutile strage» dopo aver già definito il conflitto «suicidio dell’Europa civile» (4 marzo 1916) e «la più fosca tragedia della follia umana» (4 dicembre 1916). Don Giovanni Minzoni, il prete romagnolo che sarà ucciso dai fascisti il 23 agosto del 1923, testimoniò che la Nota pontificia dell’agosto 1917 aveva suscitato un «gran nervosismo». Padre Giovanni Semeria, cappellano militare presso il Comando supremo del generale Luigi Cadorna, nelle Nuove memorie di guerra (Amatrix), a proposito di quel documento, scrisse che «i Francesi lo trovarono troppo poco antitedesco e i Tedeschi troppo poco severo colla Francia anticlericale».
Il cattolico Tommaso Gallarati Scotti riferì che la parola del Papa aveva sollevato una «tempesta di ire» all’interno del Comando supremo dell’esercito italiano. La Santa Sede «fu vista come nemica dell’Italia», qualche generale, «solitamente non ostile alla Chiesa e di temperamento moderato», usò frasi minacciose all’indirizzo del Pontefice: «Bisogna impiccarlo!». Don Carmine Cortese, cappellano militare dell’ottavo reggimento Alpini Val Natisone, prese nota nel suo diario della discussione con un maggiore che aveva definito Benedetto XV «delinquente, tisico, deforme, che non tarderà tanto a scendere nella tomba». Per poi passare ad accuse dal carattere più marcatamente politico: Giacomo Della Chiesa sarebbe stato, a giudizio di quel maggiore, un «austrofilo» che faceva «gli interessi della Germania». E non furono accuse affidate esclusivamente alle pagine segrete delle lettere o dei taccuini personali. In un discorso pronunciato il 23 ottobre 1917 (il giorno prima della disfatta di Caporetto) il ministro degli Esteri italiano, Sidney Sonnino, disse esplicitamente che il Papa aveva stilato una Nota di «ispirazione germanica».
Fino a quel momento il fenomeno dei cattolici favorevoli all’intervento era stato di una qualche entità. Dall’ottobre del 1914 la Lega democratica cristiana di Eligio Cacciaguerra, Giuseppe Donati ed Eugenio Vaina de Pava si schierò dalla parte degli interventisti. Furono soprattutto Donati e Vaina, scrive Bruno Bignami, «a vedere nella guerra l’occasione per affermare la democrazia nella vita interna dell’Italia e a livello internazionale». Il tutto sarebbe dovuto passare attraverso l’umiliazione dell’Austria, «cancrena d’Europa». E alla Lega si avvicinarono molti giovani cattolici tra cui don Primo Mazzolari, futuro cappellano militare che poi però avrebbe duramente criticato la condotta degli ufficiali: «l’esercito, non c’è scampo, è il rifugio degli imbecilli», scrisse sul suo diario. Fu cappellano militare anche Angelo Roncalli, futuro Papa Giovanni XXIII. Tra i preti che si arruolarono ce ne fu uno, don Annibale Carletti, che nel 1916 guadagnò la medaglia d’oro per aver partecipato alla difesa eroica di Passo Buole. Interventista fu — dopo qualche incertezza iniziale — Filippo Meda, il primo esponente politico cattolico ad assumere (nel 1916) un incarico ministeriale nell’Italia unita. Meda e i suoi collaboratori giustificarono il loro passaggio dal neutralismo all’interventismo con la riprovazione dell’ingiusta aggressione dei tedeschi al Belgio, la scoperta degli sproporzionati metodi bellici usati dagli Imperi centrali, e del «valore della guerra come strumento di maturazione dei popoli», nonché l’interesse della patria «che non poteva vedere indifferenti i cattolici». Così il vescovo di Recanati, monsignor Alfonso Maria Andreoli, diede alle stampe una «Notificazione al clero e al popolo» dai toni iper patriottici: «Oh! Che questa cara patria così privilegiata da Dio, raggiunga altresì il primato delle armi e della vittoria, nel duro cimento di quest’ora fatidica, perché siano rese all’Italia le terre italiane, che per noi sono fatte». E il cardinale Pietro Maffi, arcivescovo di Pisa — che già nel 1911 aveva esaltato la guerra di Libia — adesso, nel 1915, pubblicava un opuscolo intitolato Fede e patria , il cui sottotitolo, Discorsi patriottici per una più grande Italia , stava a testimoniare un’adesione incondizionata alla causa dell’intervento. Grande interprete di questa corrente cattolica a favore dell’entrata in guerra fu don Illemo Camelli (ex socialista), ispiratore dei giornali «La Provincia» e «La Squilla». Oppositore dell’ingresso nel grande conflitto fu invece il deputato Guido Miglioli, con il suo giornale «L’Azione». E i due, Camelli e Miglioli, furono coprotagonisti del «caso Cazzani» che mise in luce un forte contrasto nel mondo cattolico.
Monsignor Giovanni Cazzani, vescovo di Cremona, ebbe l’onore di una citazione da parte di Benedetto XV il quale, in un’intervista rilasciata nel giugno del 1915 (poco dopo l’entrata in guerra dell’Italia) al giornale francese «La Liberté», rivelò che il presule lombardo lo aveva informato del fatto che l’esercito italiano aveva preso in ostaggio diciotto preti austriaci. Secondo il Papa quella cattura dei sacerdoti rientrava nella categoria degli «eccessi» da riprovare, visto che non era «permesso a nessuno, per qualsiasi motivo, di violare la giustizia». Il presidente del Consiglio Antonio Salandra andò su tutte le furie per questa sortita di Benedetto XV. Monsignor Cazzani a quel punto rivelò che la notizia gli era stata data dall’autorità militare di Cremona, che si era rivolta a lui per chiedere indicazioni a proposito di una ventina di preti goriziani prigionieri che chiedevano di poter celebrare la messa.
Negli anni successivi Cazzani prese le distanze prima da Camelli (per i suoi supposti legami con i massoni della Lega patriottica) e poi dall’«Azione» di Miglioli, che il 9 settembre del 1916 fu da lui sconfessata «per la sua vicinanza alle posizioni socialiste». Ma i dissidi proseguirono anche dopo la fine della guerra, allorché «La Provincia» (ispirata, come si è detto, da don Camelli) il 31 dicembre 1918 riferì dell’«animata discussione di monsignor Cazzani con i parroci di Cremona durante i tradizionali auguri natalizi»: alcuni preti avevano accusato il vescovo di «tradimento del sentimento patriottico attraverso il sostegno all’opera di Miglioli». Gli avevano altresì rimproverato di aver finanziato «L’Azione» con soldi della Cassa ecclesiastica, e soprattutto di aver «spostato i preti della diocesi non con la preoccupazione della cura spirituale delle parrocchie, ma con un occhio alle necessità elettorali dell’onorevole Miglioli». L’articolo concludeva con queste feroci parole: «Ogni crisi di clero è crisi di pastore: l’attuale crisi cattolica è crisi del vescovo». Un’esortazione quasi esplicita alla rimozione di Cazzani dalla sede vescovile di Cremona. E lui, dai suoi, fece rispondere per le rime: «L’amor di patria non è monopolio dei signorotti della democrazia della “Provincia”, della “Squilla” o dei preti da esse lodati (riferimento quasi esplicito a don Camelli, ndr ); e se questi giornali non credono all’amor patrio del vescovo e di quanti stanno con lui, noi siamo da ciò autorizzati a dire che nessuna fede merita quelli che da essi millantano». Cazzani rimase poi al suo posto, non si compromise con il fascismo e, anzi, difese in più occasioni don Primo Mazzolari che con il fascismo si scontrò e divenne in seguito partigiano.
Quello di monsignor Cazzani non fu l’unico caso di dissidio nel mondo della Chiesa. «Il Messaggero» avviò una campagna contro il vescovo di Nepi e Sutri, monsignor Giuseppe Bernardo Doebbing, un francescano di origini tedesche, accusandolo di aver invitato i suoi preti a pregare per la vittoria della Germania e di aver addirittura «promosso attività di spionaggio». Il consiglio comunale di Nepi e una rappresentanza dei cittadini di Sutri chiesero al governo la revoca de ll’ exequatur (formula con cui lo Stato, prima del Concordato, concedeva l’esecutività ad atti della Santa Sede) e l’allontanamento di Doebbing. Il collegio dei parroci lo difese, invece, con veemenza. Un magistrato inoltrò al ministero di Grazia e giustizia la richiesta della sua rimozione. E il caso era già all’analisi degli organi ministeriali competenti quando, il 14 marzo 1916, giunse all’improvviso la notizia della morte di Doebbing. Simile il caso del vescovo di Tivoli, monsignor Gabriele Vettori, denunciato per antipatriottismo dal sindaco della sua città, secondo il quale avrebbe «esiliato» alcuni sacerdoti perché, essendo «patriottici», la pensavano in modo diverso dal suo. Si occupò del caso il procuratore generale di Roma, che, dopo un accurato esame, assolse il vescovo con formula piena: i «sacerdoti patriottici» in realtà erano stati mandati via perché «ricevevano in canonica donne con troppa frequenza creando scandalo tra la gente». Ma il Papa si sentì in dovere di tornare sulla questione, il 6 dicembre 1915, «promuovendo» monsignor Vettori alla diocesi di Pistoia e Prato. Venne trascinato in giudizio con capi di imputazione assai somiglianti anche il titolare della diocesi di Albenga, monsignor Angelo Cambiaso, che, dopo una complessa istruttoria, fu assolto per insufficienza di prove. E il vescovo di Portogruaro, monsignor Francesco Isola, accusato di «austriacantismo», fu cacciato dalla diocesi a furor di popolo. Il capo di imputazione era interamente basato sulla sua predica di Natale del 1917 nella quale aveva parlato di «valoroso esercito austriaco». Ma anche nel suo caso il processo che ne seguì si concluse con un’assoluzione.
Il parroco di Soresina — la patria di Miglioli, in provincia di Cremona — don Zaccaria Priori, fu sospettato di attività disfattiste per essersi uniformato alle critiche alla guerra di Benedetto XV. Il procuratore generale di Brescia propose addirittura di sequestrare le rendite del beneficio parrocchiale di cui don Priori era titolare. Don Carlo Gamba, parroco di Casalbuttano, fu accusato di aver dato sostegno a Miglioli e di aver provocato quelli che il decreto del Guardasigilli Ettore Sacchi (4 ottobre 1917) definiva «fatti pregiudizievoli all’interesse nazionale». Così come don Michele Favero, insegnante presso i barnabiti di Cremona. E anche laddove non poteva esserci l’influenza di Miglioli, piovvero accuse su preti e parroci. Il parroco di Poppi (Toscana), don Luigi Sereni, fu accusato di «apologia di reato» e di «diffusione di notizie false intorno alla guerra». Nel Lodigiano, don Luigi Salamina e don Giorgio Savoldelli furono ritenuti responsabili di una manifestazione antimilitarista che si era tenuta a Codogno il 23 aprile del 1917. Altri preti furono accusati di aver dato una mano all’organizzazione di proteste delle mogli che avevano mariti alle armi: a Castiglione d’Adda, Fombio, Guardamiglio, S. Rocco al Porto, Castelnuovo Bocca d’Adda. Simili manifestazioni si ebbero in quello stesso periodo a Busto Arsizio per concludersi con una due giorni a Milano (1° e 2 maggio), nel corso della quale, racconta Bruno Bignami, «gruppi di donne provenienti dalla campagna, percorsero le strade della circonvallazione e scagliarono sassi contro le fabbriche di armi». Al grido di «abbasso la guerra», costrinsero gli operai ad abbandonare il lavoro e sfilarono per le vie del capoluogo lombardo con una manifestazione davvero imponente che non passò inosservata. Il socialista Filippo Turati sospettò (con qualche ragione) che vi fosse lo «zampino dei preti» e scrisse ad Anna Kuliscioff: «Vogliono far cessare la guerra subito; rivogliono i loro uomini, ce l’hanno con Milano che volle la guerra e che ora porta via loro tutto… e vogliono fare la pelle ai signori, fra i quali — beninteso — siamo anche noi».
Poi la guerra finì e tra i sacerdoti che si erano arruolati, trecentocinquanta furono sospesi a divinis perché sotto le armi erano «cambiati». Qualcuno lasciò la Chiesa (o fu spinto a farlo) come quel don Carletti che avevamo incontrato come eroe decorato nel 1916. Don Mazzolari ed il vescovo Cazzani fecero l’impossibile per indurlo a restare tra loro. Ma quella guerra interiore don Carletti ormai l’aveva perduta.

Corriere 25.11.14
Società delle Nazioni. La fine di un breve sogno
risponde Sergio Romano


Si parla tanto di Onu, della sua dubbia utilità e della sua azione diplomatico-militare nei numerosi conflitti sparsi per il mondo. Poco sappiamo dell’istituzione che l’ha preceduta: la Società delle Nazioni. Fu soltanto lo scoppio della Seconda guerra mondiale a decretarne lo scioglimento e per quale ragione gli Stati Uniti non ne facevano parte ?
Andrea Sillioni

Caro Sillioni,
Rispondo anzitutto alla seconda parte della sua domanda. L’assenza degli Stati Uniti fu un tragicomico paradosso. L’idea di una grande organizzazione per la pacifica soluzione delle controversie internazionali era nata negli ambienti intellettuali europei, soprattutto francesi, ma fu sin dal 1916 il cavallo di battaglia del presidente degli Stati Uniti e divenne il quattordicesimo punto dell’appello lanciato ai popoli con il suo discorso del gennaio 1918. Woodrow Wilson volle che il patto per la creazione della Società delle Nazioni (chiamata anche Lega) fosse parte integrante del Trattati di pace, presiedette la Commissione istituita per la redazione del testo, propose d’intesa con la Gran Bretagna il progetto che sarebbe stato approvato, insistette perché il primo Segretario generale fosse un diplomatico britannico, Eric Drummond. Sino alla fine del 1919 pochi in Europa dubitavano che gli Stati uniti avrebbero fatto parte della Società delle Nazioni e sarebbero stati uno dei suoi membri più influenti.
Ma occorreva anzitutto che il Trattato di pace, come è previsto dalla Costituzione americana, venisse ratificato dai due terzi del Senato. Wilson poteva contare sui senatori del partito democratico, ma i repubblicani erano generalmente isolazionisti e poco inclini ad accettare una organizzazione internazionale che avrebbe legato i destini degli Stati Uniti a quelli dell’Europa. Avrebbero votato la ratifica, forse, se Wilson avesse accettato qualche emendamento, ma il presidente voleva imporre la sua linea e attraversò il Paese per una campagna di discorsi con cui sperava di mobilitare l’opinione in suo favore. Si ammalò, dovette rinunciare a qualsiasi intervento pubblico e non poté impedire che all’ultimo voto, il 19 marzo 1920, mancassero, per raggiungere i due terzi, sette senatori.
Al fonte battesimale della Società delle Nazioni, caro Sillioni, vi furono pochi amici, molti scettici e un gruppo di temibili nemici. In ultima analisi la Società fu travolta dal boicottaggio degli Stati che si consideravano ingiustamente puniti dai trattati di Versailles o vedevano nell’organizzazione di Ginevra un ostacolo ai loro disegni. Dei quattro membri permanenti del Consiglio, due (Giappone e Italia) lasciarono l’organizzazione, rispettivamente, nel 1932 e nel 1937. La Germania uscì dall’Assemblea nel 1933 e l’Unione Sovietica ne fu espulsa il 14 dicembre 1939, dopo l’invasione della Finlandia e delle Repubbliche baltiche.
Quest’ultimo sussulto di una organizzazione ormai moribonda fece di Stalin uno dei suoi maggiori nemici. Terminata la guerra, il leader si oppose alla rinascita della Lega e negoziò con Roosevelt e Churchill, a Yalta, la nascita di una nuova Società, l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Per il rispetto della forma la Società nata a Versailles fu dissolta nel corso di un’ultima riunione a Ginevra il 12 aprile 1946 con la presenza di 34 soci. Un vecchio paladino della Lega, Lord Robert Cecil, constatò il decesso con un breve discorso che si concluse con queste parole: « La Lega è morta, lunga vita alle Nazioni Unite».

Repubblica 25.11.14
Maometto vita da profeta senza perdere la misericordia
Dall’amore alla pietà, dalle donne all’ironia
In un Meridiano Mondadori le sentenze e i detti del fondatore dell’Islam
Un corpus di insegnamenti e precetti per i credenti
di Pietrangelo Buttafuoco


TRA i Novantanove nomi di Dio, tra gli appellativi che definiscono Allah, non c’è quello di “padre”. Ma è Muhammad, il Profeta dell’Islam, a far da papà ai musulmani, ai quali insegna tutto, anche come fare pipì. «Davvero», chiede un miscredente, «il Vostro Profeta vi ha ammaestrato con cura su come fare i bisognini?». La risposta, come riporta Ignaz Goldziehr in Études sur la tradition islamique ( Parigi, 1952), è di Muhammad: «Io sono per voi ciò che il padre è per i figli. Devo istruirvi su tutto». Ci si pulisce dalle impurità con la mano sinistra, mentre la destra è benedizione; figurarsi dunque se Maometto, con il suo esempio (tutte notizie raccolte dal racconto della sua vita e dai “detti” a lui riconducibili), non abbia dato precise indicazioni: salutare per primi, guardare sempre negli occhi, combattere con valore, mercanteggiare con abilità, scherzare volentieri, praticare l'arte dell’umorismo.
Una vecchietta si avvicina a Muhammad e gli chiede se mai troverà posto in Paradiso: «No», risponde il Profeta con tono aspro, «nel Cielo di Allah non entrano le vecchie». La donna resta raggelata dalla risposta, ma Muhammad sorride, le porge una rosa e sussurra: «Quando sarai in Paradiso, tornerai a essere la fanciulla bella e sana che fosti ».
Ama i profumi, le preghiere e le donne, Muhammad. Ed è il Profeta più radicalmente umano, è l’esempio per chi «spera in Dio e nell’ultimo giorno». Da qui deriva la necessità per ogni musulmano di conoscere la sua vita, di adattarsi ai suoi gesti, alla sua stessa postura e di raccoglierne, tra gli aneddoti, le sentenze. Vite e Detti di Maometto (Meridiani Mondadori, progetto editoriale di Alberto Ventura, con saggi di Michael Lecker e Rainer Brunner), si rivolge al lettore in una veste che non implica una conoscenza specialistica o, tanto meno, si rivela essere un dossier a uso delle polizie internazionali.
Uffa è parola araba. Uff, infatti, è la prima parola negativa nella lingua araba, e non si dice mai ai propri genitori e neppure al prossimo, fosse pure un nemico. Ogni gesto del Profeta, per il credente, è un fatto prodigo di insegnamenti: Anas bin Malik vide Muhammad bendarsi le ginocchia affinché la moglie Safiyya, poggiandovi sopra i piedi, avesse un comodo rialzo per cavalcare il cammello. Non esiste creatura nel cosmo che non abbia una scintilla della Misericordia. E, infatti, si sarà ricompensati per come ognuno tratterà gli animali. Muhammad racconta di un uomo assetato che, giunto a un pozzo, scorge un cane sfinito dall’arsura ma impossibilitato ad attingere acqua. Mosso a pietà, raccoglie dell’acqua con la scarpa e disseta il cane, commuovendo Allah che lo solleva da tutti i suoi precedenti peccati.
L’insieme dei Detti e delle Vite , oltre al contesto fideistico dei musulmani, è qualcosa di simile a ciò che il corpus dei frammenti presocratici — il primo deposito della sapienza greca — rappresenta nella storia della cultura universale. Resta tra i capisaldi dell’Occidente, pur raccogliendo le fonti direttamente nell’albeggiare dell’Islam, il capitolo che Thomas Carlyle dedicò a Maometto tra gli Eroi ma nell’essere memoria, scrittura e dunque canone, le Vite e i Detti ( gli hadith) — in quanto fonti di una religione spezzettata tra i rivoli delle diverse interpretazioni — fuori dall’ottica «storicistica » diventano «sunna» e incontrano la dimensione quotidiana. Questa doppia radice di biografia del Profeta e di “parlato”, riferito da testimoni e certificato da sapienti, diventa materia viva nel credente. Ancora oggi, gli hadith e i fatti di Muhammad sono appresi più per racconto che per studio.
L’insieme degli hadith e l’unicità della vita di Muhammad non sono dottrina, sono esperienza. «Se giunge l’Ora» — ovvero la fine del mondo — «e qualcuno ha in mano un seme con l’intenzione di piantarlo, lo faccia ». È ancora Muhammad a parlare e il canone è prassi, riguarda ogni momento della giornata — perfino il suggerimento di non eccedere con l’acqua durante i pasti — senza mai irrigidirsi nella sterilità delle norme. Ed è tema “santo” il conformarsi a ciò che fu detto e a ciò che fu fatto, tanto da diventare guida lì dove il Corano — voce e parola di Dio — diventa per il credente un irriducibile e ”sacro” patto a due.
Muhammad è il migliore tra i discendenti di Adamo, ed è, nella catena della Rivelazione, colui che ha posto il Sigillo della religione universale. A differenza di Gesù, che per i musulmani è “Spirito di Allah”, Muhammad non è morto sulla Croce e tornerà da guerriero alla fine dei tempi. Fa l’amore, seduce, è un combattente e dunque uccide — è un capo politico, è il fondatore di una comunità che dilaga oltre al suo tempo storico per arrivare ai giorni nostri — e la sua tomba è visibile perché i suoi giorni sulla terra si sono conclu- si in attesa del Dì del Giudizio. Alla sua morte, nel 632, Abu Bakr, il primo califfo dell’Islam, così parla alla comunità dei credenti: «Chi adorava Muhammad, ebbene sappia che Muhammad è morto e solo Dio non muore».
Prima di Dante Alighieri, che quel viaggio lo fece in virtù di poesia, è Muhammad a fare esperienza del viaggio che lo porta nell’aldilà, dove può vedere gli inferi e poi nell’ascensione, incontrare la luce di Dio. Accanto ai precetti, queste sono le prove “della profezia di Muhammad”. «Quando camminava», scrive Michael Lecker nell’introduzione al Meridiano — «sembrava che stesse scendendo per un pendio».
Muhammad è come un padre che sa trovare una risposta a ogni perché. Genitore di un’umanità redenta dall’ignoranza, il Profeta offre le chiavi della lealtà e della pietà, come quando, entrando nella Kaaba, il tempio eretto da Abrano, oggi meta del pellegrinaggio santo, spazzandone via gli idoli, dice: «Nessun altro terrà queste chiavi eccetto voi, famiglia».
Spetta il Paradiso a chi educa una o più figlie, e questa sentenza del Profeta suona sovversiva ai suoi contemporanei arabi usi a seppellire vive le neonate. At-Tirmiti narra di un uomo che per tre volte chiede a Muhammad: «Chi merita di essere trattato meglio?». La risposta del Profeta è sempre: «Tua madre». Quando infine l’uomo ripete per la quarta volta la domanda, ecco la risposta: «Tuo padre». Pater, dunque. Nell’accezione di una regalità soccorrevole al punto di cedere alla tenerezza: «Un padre che non sa baciare il proprio figlio», dice Muhammad in un hadith , «non conosce misericordia nel proprio cuore». E il padre, riferisce l’ hadith, arriva quarto dopo che per tre volte il seme dell’amore piantato nel cuore degli uomini è ribadito essere quello della madre, la donna ai cui piedi — e sono innumerevoli sono le iscrizioni e le calligrafie che lo attestano — «è sempre Paradiso».
IL LIBRO Vite e Detti di Maometto ( Meridiani Mondadori, pagg. 1248, euro 60)