mercoledì 26 novembre 2014

Corriere 26.11.14
Il Jobs act passa in Aula senza 40 voti del Pd
Renzi: non mi freneranno
Il grazie via Twitter «ai deputati che l’hanno approvato»
di Dino Martirano


ROMA La legge delega sul lavoro (che il premier Matteo Renzi ha ribattezzato Jobs act) ha compiuto alla Camera il secondo giro di boa, lasciandosi dietro una scia densa di veleni e un’aula vuota per metà: 40 deputati del Pd non hanno partecipato al voto e buona parte di loro si è unita alle opposizioni (M5S, Sel e Forza Italia) abbandonando l’emiciclo in segno di protesta. Il governo ha dovuto richiamare in fretta e furia ministri e sottosegretari in Aula perché il totale dei votanti rischiava di non superare il numero legale. L’illusione delle opposizioni, e della minoranza del Pd, è durata però una manciata di minuti: alla fine i voti favorevoli sono stati 316, i contrari 6 (tra i quali Civati e Pastorino del Pd) e 5 astenuti. Totale 327 votanti, una buona spanna sopra il numero legale calcolato ieri a quota 294 (la metà del plenum al netto dei deputati in missione che erano 42).
Ora il provvedimento torna al Senato: oggi parte l’iter in commissione Lavoro e la prossima settimana arriverà in Aula per l’approvazione definitiva in modo da consentire al governo di esercitare (con i decreti attuativi) la delega che riscrive i meccanismi sui diritti dei (futuri) lavoratori dipendenti.
Matteo Renzi, che ha l’ obiettivo di rendere operativi i decreti dal 1° gennaio 2015 insieme alla legge di Stabilità, non ha cambiato rotta e ha rivendicato la bontà della riforma che cambia anche l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 («Reintegro nel posto di lavoro»): «La Camera approva il Jobs act. Più tutele, solidarietà e lavoro...Grazie ai deputati che hanno approvato il Jobs act senza fiducia. Adesso avanti con le riforme. Questa è #lavoltabuona», scrive su Twitter. La sua idea su chi nel Pd non ha votato il testo non cambia: lo fanno «per frenarmi», per calcoli politici hanno ignorato una mediazione «che ha convinto ex sindacalisti come Damiano ed Epifani».
Diametralmente opposta l’analisi dei dissidenti del Pd: «Renzi alimenta tensioni sovversive e corporative», attacca Stefano Fassina. Più tranciante ancora il leader di Sel, Nichi Vendola: «Tradotto in italiano Jobs act vuol dire lavoro sporco, precarizzare, demansionare, licenziare». Forza Italia che ha scelto l’uscita dall’Aula insieme ai grillini: «Il voto sul Jobs act ha certificato lo stato confusionale della maggioranza che sostiene questo moribondo governo. Il provvedimento è un imbroglio che peggiorerà il mercato del lavoro».
Ma è la minoranza del Pd che è entrata in fibrillazione. Dopo il voto è stata convocata una conferenza stampa (Stefano Fassina, Rosy Bindi, Alfredo D’Attorre, Davide Zoggia, Michela Marzano, Gianni Cuperlo, Roberta Agostini, Ileana Argentin, Barbara Pollastrini, Francesco Boccia, Alessandra Terrosi e altri) per presentare un documento intitolato «Perché non votiamo il Jobs act».
In totale i dissidenti del Pd che hanno messo la faccia e la firma sul documento contro il Jobs act sono 29 mentre quelli che hanno votato a favore sono 250. Il fronte del no boccia per la sua genericità la delega al governo sul lavoro: «La parte che dovrebbe allargare diritti e tutele è generica e senza risorse. Il disboscamento della giungla dei contratti precari viene rinviato a valle di una ricognizione da svolgere in tempi indefiniti e senza identificare obiettivi impegnativi. All’avvio di ammortizzatori per gli “esclusi” si dedicano solo 200 milioni di euro contro una promessa iniziale di 1,5 miliardi per il 2015».
Nel Pd, 29 su 307 hanno sottoscritto il documento. Tra gli altri 11 dem che non hanno partecipato al voto ci sono 6 «assenti giustificati» (tra i quali Enrico Letta e Rosa Villecco). E poi vanno conteggiati i 13 parlamentari dem in missione (in buona parte della squadra di governo). Per arrivare a quota 307, il totale del gruppo del Pd, bisogna sommare i due contrari (Pippo Civati e Luca Pastorino) e i due astenuti Paolo Gandolfi e Giuseppe Guerini.

il Fatto 26.11.14
Lavoro, solo 316 sì: il governo a un voto dalla sfiducia
35 deputati del Pd fuori dall’aula
Renzi adesso è un grande difficoltà anche alla Camera
Tra i suoi cresce la voglia di urne con Consultellum
di Wanda Marra


Lorenzo Guerini, vice segretario del Pd, tessitore di natura, e di indole solitamente calmissima, quando il tabellone di Montecitorio fotografa il voto sulla riforma del lavoro, è palesemente nervoso e irritato. La maggioranza al jobs act è di 316 voti. Solo uno sopra la soglia della sfiducia. Nonostante il tentativo portato avanti per tutto il giorno dai vertici dem per arrivare a una mediazione, in 38 del Pd non hanno partecipato al voto. Con loro anche Forza Italia, l’altra gamba non formale, ma sostanziale che sta tenendo in piedi la legislatura.
I RENZIANI parlano di “scorrettezza” e di “mancanza di coraggio”: se fanno così, dovrebbero andarsene, il ragionamento di molti. “Ma non sono capaci”. “Si meriterebbero che si votasse domani con il Consultellum, con loro fuori dalle liste”, il commento che gira. Una tentazione che – almeno tra gli uomini del premier – è in ascesa: tant’è vero che si fanno continui sondaggi e simulazioni.
Renzi per natura sarebbe tentato di andare all’affondo ma la linea, decisa in mattinata, è “calma e gesso”. Non cambia però la valutazione sui circa 30 che si sono sfilati: irresponsabili che, per calcoli politici, "per frenarmi" hanno ignorato la mediazione fatta nel Pd, una mediazione che “ha convinto anche ex sindacalisti come Damiano, Bellanova, Epifani”. Il quadro è fosco, tra il prossimo passaggio della riforma del lavoro in aula al Senato, dove i numeri sono molto più ristretti, la legge di stabilità, e l’Italicum e le riforme costituzionali al palo, con il disfacimento di Forza Italia. Anche perché su queste la fiducia non si può mettere.
Alle cinque del pomeriggio nell’aula di Montecitorio si vedono arrivare ministri e sottosegretari. Di corsa. Per votare. Una scena che alla Camera, nell’era del governo Renzi, non s’era ancora mai vista.
“NELLA CAMERA dove la maggioranza è più forte abbiamo creato una faglia”, commenta Giorgio Airaudo di Sel. La faglia è grossa, ed è stata fondamentale la posizione della minoranza Pd, seppur divisa e litigiosa al suo interno. L’opposizione si allarga. “Sono sette con otto posizioni diverse”, ironizza la giovane turca, Giuditta Pini. E in effetti, ogni riunione sottolinea differenze e liti. Ma nonostante questo alla fine 38 dem (su un gruppo di 307 componenti) non dice sì al Jobs act. Due dicono no, altri due si astengono: sono quattro civatiani, quelli da tempo ad un passo dall’uscita dal partito. I no sono di Giuseppe Civati e Luca Pastorino, gli astenuti Paolo Gandolfi e Giuseppe Guerini. In aula c’è pure il ministro del Lavoro Padoan, che quando si avvicina a Civati gli dice: “Ti ringrazio per aver espresso la tua contrarietà ostinatamente. Gli altri l’hanno fatto più disordinatamente”. Gli altri, infatti, non partecipano al voto. Tra questi in 29 mettono la firma in calce ad un documento in cui spiegano le ragioni del loro non voto. Tra loro ci sono Gianni Cuperlo, Rosi Bindi, Francesco Boccia, Davide Zoggia, Alfredo D’Attorre e un altro drappello di bersaniani. La cui corrente, invece, che ha cercato l’accordo con il governo, Cesare Damiano in testa, ma anche Guglielmo Epifani, bacchetta con durezza l’iniziativa. Lo stesso Bersani la mette così: “Voterò le parti che mi convincono con piacere e convinzione e le parti su cui non sono d’accordo per disciplina".
Le minoranze non votanti fanno un documento unitario, e adesso provano ad andare avanti sull’opposizione dall’interno. Una grana per il governo. Che in Senato metterà la fiducia. Una scelta inevitabile, che, ammettono molti dei ribelli, salverà anche loro da scelte troppo difficili: la fiducia si deve votare. Almeno sembra, perché l’impressione è che il quadro politico sia del tutto fuori controllo.
Saranno presi provvedimenti nei confronti delle minoranze? Matteo Orfini, presidente del partito, assicura di no. Poi, prova a minimizzare: “Il 9% del gruppo ha votato no. Non mi pare una tragedia”.
In realtà, l’impressione che non si tenga più quasi niente è collettiva. Ma il punto è che arrivare alle elezioni è complicato: Napolitano non scioglie le Camere e con le sue dimissioni, si chiude la finestra elettorale di primavera. Ma così è la palude continua. Il premier a mediazioni (e a espulsioni) non ci pensa proprio: “Non do pretesti, ognuno scelga in che partito vuole stare, io vado avanti in ogni caso". I numeri dicono che non è così facile.

il Fatto 26.11.14
Lo “sciopero del voto” è partito dalla piazza Cgil
Il 16 ottobre Boilogna si è fermata per la protesta generale
Quel giorno s’è roitto il rapporto tra elettori re Pd
Tra gli astenuti molti sono anziani
di Salvatore Cannavò


La storia del progressivo distacco tra il Pd di Matteo Renzi e il suo elettorato inizia il 16 ottobre. Quel giorno Bologna si ferma e più di 20 mila persone scendono in piazza per partecipare allo sciopero generale della Cgil. Vincenzo Colla, segretario regionale Cgil, dice dal palco che “una cosa così non si vedeva da anni”. Accanto a lui, da Roma, è arrivata Carla Cantone, emiliana, segretario generale dello Spi-Cgil, i pensionati. Quel giorno si è rotto qualcosa e oggi, con l’indebolimento in Parlamento, la fuga di 750 mila elettori, lo “shock” del gruppo dirigente emiliano, se ne vedono gli effetti. Qualcosa aveva capito Stefano Bonaccini. Raccontano che quando giovedì scorso, al Paladozza, Renzi ha chiamato l’applauso dei circa tremila contro il sindacato, il neo-presidente abbia reagito con una brutta smorfia del viso. Consapevole del disastro che si stava preparando. Un bolognese attento e curioso come Wu Ming 1 non ha dubbi: “Il Pd, e lo stesso Renzi, sono andati in tilt quando si è espresso il conflitto sociale. E l’idea di contrapporre la Leopolda alla piazza di San Giovanni gli si è rovesciata contro”. L’allergia al conflitto è visibile nel nervosismo con cui il premier affronta le piazze che lo contestano. I Wu Ming hanno allestito una mappa interattiva, Renzi scappa per documentare i casi di fuga dalle piazze avverse.
LA CGIL, IN EMILIA ROMAGNA, ha 821 mila iscritti, seconda solo alla Lombardia, più grande e più industrializzata. Lo Spi ne conta 640 mila. Logico, quindi, puntare lo sguardo in quella direzione. I pensionati della Cgil smussano i toni, ricordano di aver fatto un appello unitario, insieme a Cisl e Uil, per andare a votare. A differenza del segretario Fiom, Bruno Papignani, che aveva invitato a stare a casa. Però, tra i 750 mila rimasti a guardare, gli anziani sono molti come confermano anche nel sindacato. Lo ribadisce, ad esempio, Stefano Brugnara, presidente dell’Arci bolognese. “Certamente, sono andati a votare di più rispetto ai giovani, ma di anziani nei circoli Arci che dicevano di non voler votare ne ho sentiti molti. Ed è un dato che deve preoccuparci, tutti. Nessuno può chiamarsi fuori”.
Una buona sintesi di questo fenomeno la fornisce un protagonista insospettabile: il candidato “renziano” alle primarie regionali sconfitto da Bonaccini. Roberto Balzani è un autorevole professore, amico del rimpianto Edmondo Berselli – “all’Emilia manca la sua capacità di raccontare e capire” – fuori dalle logiche degli ex Dc o ex Pci del passato. A differenza del premier, però, non solo non sottovaluta l’astensione ma la fissa con precisione con l’espressione “sciopero generale del voto”. La stessa analisi di Wu Ming 1 che individua nella “pratica degli scioperi generali” l’elemento che ha costituito “uno choc anafilattico” per il gruppo dirigente del Pd. Giudizio rinforzato dal sondaggista Roberto Weber, di Ixé: “L’Emilia è tale grazie ai corpi intermedi. Non puoi attaccarli tutti i giorni e pensare di cavartela”.
Balzani invita anche a non sottovalutare il ruolo dei “ceti medi riflessivi” quella fascia di tecnici, professionisti, imprenditori, che cavalcano il rinnovamento, “ma conservano l’attenzione ai ‘beni comuni’” e che non sopportano più un gruppo dirigente locale inadeguato. Il “modello Errani” che Renzi ha tutelato in tutti i modi facendo coincidere i suoi commenti al voto con quelli dell’ex governatore. La vicenda locale ha giocato un ruolo non secondario, spiega Weber: “Qui c’è una cultura contadina robusta che non sopporta la corruzione e vuole correttezza nei comportamenti. Logico che gli scandali abbiano creato insofferenza”. Gli astenuti del Pd, quindi, hanno storie e fisionomie diverse. Ma sono figlie di una storia che Renzi vuole sradicare anche se oggi sembrano solo seduti sugli spalti a guardare la partita, dopo aver gridato con forza che l’allenatore a loro non piace. “La tipologia di coloro che hanno votato non è molto diversa da chi si è astenuto” spiega Weber: “Hanno solo una sofferenza sociale e un’insofferenza in più”. “Ma non so se torneranno indietro, aggiunge, certi comportamenti sono irreversibli”. Altri immaginano un rinsavimento del gruppo dirigente Pd in grado di ricucire con il sindacato e di dare una svolta al partito. “Serve un’intelligenza collettiva” chiede Brugnara. Ma serve anche, aggiunge Balzani, “uscire una volta per tutte dalla storia del vecchio Pci che qui non è mai morto”. Ma forse, vale l’immancabile puntura di spillo che proviene dal sempreverde Romano Prodi: “Come ti fai il letto, così dormi”.

il Fatto 26.11.14
La democrazia come “fenomeno secondario”
di Oliviero Beha


RARAMENTE capita alla politica, specie a “questa” politica, di dire una parola definitiva sulla situazione, tenendo sempre conto che soprattutto in politica le parole sono degli autentici massi. Anche se fanno a gara a farli sembrare palloncini gonfiati. È successo nel commento all’andamento delle ultime elezioni in Emilia-Romagna e in Calabria da parte del premier: l’astensione, ha detto, è un “fenomeno secondario”. Naturalmente si esprime così perché il suo partito pur vincendo ha perso molti voti. Il punto non è però questo, e neppure la vittoria relativa a destra della Lega di Salvini. Nel mirino c’è proprio la maggioranza degli aventi diritto al voto che non l’hanno esercitato, in una percentuale straniante. Non è davvero sorprendente. Probabilmente buon ultimo nella fila, proprio qui una settimana fa parlavo di “estrema unzione della politica”, della voragine ormai dilatata tra il Palazzo delle istituzioni e il Residence dei partiti da una parte, e la Piazza o la strada dall’altra. La questione riguardava anche il M5S, nella contraddizione della doppia anima di lotta e di governo che la gente percepisce confusamente e di conseguenza fatica a distinguere. Di qui le contestazioni al M5S (che vengono da loro attribuite solo ai “nemici” del Pd, e magari fosse così, saremmo ancora in un recinto identificabile…) nella sua versione “politica” anche se non politicante, e una bella raffica di insulti che il web mi ha poi recapitato. Ben mi sta. Guai a chi non tifa nel Paese in cui si è calcistizzato tutto. Peccato che poi le urne diano responsi non troppo lontani da quella “estrema unzione”, che viene epigrafata da Matteo Renzi con il suo “secondario” riferito all’astensionismo.
SE DOBBIAMO prenderne atto, siamo costretti anche a trarne una serie di deduzioni che attengono alla logica e non al politicismo d’occasione. Se la Repubblica italiana ha una forma di governo democratica, essa non può prescindere dal voto come sua attuazione pratica. Se non votare è secondario, ne discende che sia secondaria la democrazia. Il che può essere tranquillamente oggetto di discussione. Abbiamo avuto il ventennio fascista, ci siamo immersi nel berlusconismo più impuro, nulla vieta che si voglia trangugiare anche la medicina del renzismo e del suo “partito della nazione” che però appunto considera marginale l’andare a votare. La democrazia sarebbe dunque esemplarmente un lusso che oggi, visti i tempi, non ci possiamo più permettere, anche alla luce del disastro combinato in passato dalla “nostra” democrazia leggermente stracciona. Non solo: in questo senso il valore del non voto, che ha riguardato in questa tornata molti italiani in più di quelli che invece hanno votato, viene spogliato di ogni suo significato politico. Ci sarà pure chi non ha votato per mandare un segnale comunque, giusto o sbagliato che sia, no? Niente, si sono astenuti per niente. E le Regioni, l’istituto che dovrebbe far discutere per l’importanza che ha assunto negli anni (pensiamo solo alla spesa sanitaria nazionale che ne assorbe quasi tutto il bilancio)? Nulla, non contano, non è “primario” che non abbiano votato per l’amministrazione di esse. E potrei continuare… Se è prioritario che abbia vinto in ogni caso Renzi e perso Berlusconi, con Salvini all’arrembaggio sulle navi degli immigrati, e non che si stia dissolvendo un’idea democratica della politica e con essa il Paese, forse l’estrema unzione è già stata data. E non mi si venga a dire che “quelli fanno il loro mestiere di parte”, etimologicamente inteso: l’aver ballato sul Titanic mentre affondava non viene considerata oggi la migliore delle opzioni, con l’aggravante che questa classe dirigente rimedia sempre un posto in elicottero per alzarsi in volo prima del naufragio.

il Fatto 26.11.14
Finalmente elezioni a risultato immediato: hanno votato in 36
di Alessandro Robecchi


Forse è questo che intende Matteo Renzi quando dice che sogna un Paese dove la sera stessa delle elezioni si possa sapere chi ha vinto e chi ha perso. Giusto. Bello. Basterebbe che votassero in trentasei: poche schede da contare, percentuali presto fatte, seggi assegnati e seccatura archiviata. Rito antico e democratico, novecentesco, polveroso, retorico, che noia, che vecchiume. Perché poi, di tutte le spiegazioni, le sottili analisi, le elaborate elucubrazioni di questi giorni sul clamoroso astensionismo (soprattutto in Emilia) se ne dimentica una che non è un dettaglio: il valore del voto degli italiani è piuttosto in ribasso. La riforma delle province, di cui si parla da quando Matteo faceva il boy scout, si è tradotta in una semplice abrogazione del voto. Cioè, le province sono ancora lì, con i loro presidenti e i loro consiglieri, ma nominati (anche in seguito a vergognosi accordi tra partiti) e non più eletti. Al Senato peggio mi sento: anche lì resteranno gli scranni, il mirabile palazzo, i senatori che potranno legiferare persino sui temi etici (in soldoni: la vita e la morte), ma non ce li manderà l’elettore italiano. Saranno nominati anche loro, su base regionale. Ecco. Assistiamo dunque allo spettacolo d’arte varia di gente – commentatori politici, corsivisti, esponenti di questa o quella corrente – che si rammarica per l’astensionismo dopo aver applaudito sonoramente due riforme che toglievano il diritto di voto agli italiani per istituzioni fondamentali. Si aggiunga che senatori e consiglieri provinciali verranno nominati proprio dalle regioni (e dai sindaci), dunque avremo, per dire, un Senato nominato da consigli regionali eletti da un’esigua minoranza di cittadini.
Siccome la cultura politica da queste parti somiglia a quella calcistica, il giovane Premier ha fatto notare che l’importate è la vittoria. Al novantesimo, con gol di mano, in fuorigioco, con due avversari a terra, ma che importa, conta vincere. E dunque l’astensione è diventata un problema “secondario”. Sarà. Resta il fatto che l’aria è un po’ cambiata. Qualcuno ricorderà (ok, va bene il paese senza memoria, ma sono passati solo sei mesi!) il garrulo entusiasmo con cui Renzi e il renzismo vennero accolti dal paese. Primarie affollate, urne piene alle Europee, il mitico 41 per cento ripetuto come un mantra a ogni uscita pubblica dei giannizzeri del re. Un paese ipnotizzato e innamorato, ansioso di vedere la realizzazione delle sorti luminose e progressive che si promettevano ad ogni passo. Ora, quell’entusiasmo sembra in fase calante. Faremo questo in febbraio, questo in marzo, questo in aprile. Poi passano febbraio, marzo, aprile e tutti gli altri mesi del calendario, e non si vede granché, e soprattutto quel che si vede non piace. Sarebbe questo, tutto il nuovo che si diceva? Mah. Fosse ancora vivo, quell’entusiasmo della prima ora, alle urne ci si sarebbero precipitati, emiliani e calabresi. E invece no. In più, dopo aver discettato per mesi su renziani della prima e della seconda ora, ecco spuntare un nuovo soggetto, che sarebbe l’anti-renziano della seconda ora. Quello diventato più critico, quello che così come ha dato credito ora se lo riprende, o lo congela, che frena gli entusiasmi. Comunque sia, è vero: settecentomila voti che se ne vanno su un milione e duecentomila potrebbero essere un problema secondario, ma solo se avranno voglia di tornare. Se invece se ne staranno fuori, a guardare, sconsolati e orfani, il problemino potrebbe diventare primario.

il Fatto 26.11.14
Poco importa a Renzi la distanza degli elettori
di Silvano Lorenzon


Abbiamo vinto 2 a 0. Questo è l’entusiasmante commento di Renzi dopo le elezioni regionali. Il tracollo verticale dell’affluenza alle urne non sembra preoccupare il premier che con provocante indifferenza ha giudicato la piaga dell’astensionismo un problema secondario, lasciando capire che di primaria importanza considera solamente la propria ambizione personale. C’è un segno tangibile di distacco e disaffezione della gente nei confronti delle istituzioni. Ma per il Presidente del Consiglio nonché segretario del Pd il concetto di democrazia è uno solo: il suo. Un atteggiamento irresponsabile e indisponente che provocherà ulteriore malessere e irritazione nell’elettorato perché la democrazia non è una partita di calcio, qualcuno vicino a Renzi dovrebbe farglielo notare. Per l’ennesima volta, il non voto ha lanciato un preciso segnale di allarme: sta alle persone consapevoli e responsabili saperlo intercettare e farlo capire a chi ostinatamente continua a fare finta di non vedere e non sentire. Ma probabilmente è già tardi.

il Fatto 26.11.14
L’astensionismo come problema secondario
di Albarosa Raimondi


Renzi con queste parole dimostra quanto si era già intuito da tempo e cioè in quale considerazione tenga gli elettori. È riuscito a portare il partito a livelli di astensionismo mai visti prima, cosa che già si era intravisto alle europee. A lui non interessano le elezioni, in fin dei conti si può governare senza mai essere eletti, come succede a lui. Anzi, probabilmente, il suo ideale elettorale è che a votare vada sempre meno gente, possibilmente nessuno a parte lui e i suoi fedelissimi, in modo da poter avere il potere assoluto e non essere disturbato da noiose critiche che fanno solo perdere tempo. Del resto, la sua riforma elettorale non fa che confermare la volontà di togliere alle persone la possibilità di votare e soprattutto di scegliere: la democrazia non fa parte del suo Dna. Non è sua abitudine chiedersi perché non piace alle persone, ovviamente sono le persone che non capiscono niente; insultare, di fatto, chi si è astenuto dal voto anzichè cercare di capirne le motivazioni fa parte del modo suo e delle sempre più simpatiche sue ministre di fare politica.
L’ex classe dirigente del partito, quello da rottamare per intendersi, ha fatto sicuramente disastri ma per lo meno quando l’astensionismo aumentava se ne chiedeva le motivazioni e bisogna ammettere che qualcuno, spinto dal comune senso del pudore che evidentemente non tutti hanno, arrivava al punto di dimettersi, anche se eletto e scelto dagli elettori regolarmente. Ecco, c’è una cosa che Renzi potrebbe e dovrebbe fare: prendere atto che ormai l’incantesimo è finito e dimettersi.

Corriere 26.11.14
La minoranza alza la voce. E cerca una linea
Bersani: il mio sì per disciplina
E D’Alema: alle urne si è visto che senza radici a sinistra ci indeboliamo
di Alessandro Trocino


ROMA «Confidiamo nelle nuove norme sul licenziamento disciplinare». Gianni Cuperlo scherza, alludendo alla possibilità di provvedimenti dopo il voto di ieri sul Jobs act. Lo fa durante la conferenza stampa serale che sancisce, con una foto di gruppo che vede riuniti una ventina di deputati, un dissenso che cresce e spaventa i piani alti democratici: 2 voti contrari, 2 astenuti e ben 40 deputati che non hanno partecipato al voto (almeno sei, spiegano dalla segreteria, «assenti giustificati»), nonché 13 in missione. Un pacchetto di mischia rilevante, che ha rischiato di far mancare il numero legale e che Francesco Boccia chiama «un nuovo punto di partenza».
Partenza verso dove, si chiedono in molti. Il livello dello scontro è altissimo, come mai era stato da quando Renzi è salito al potere. Pier Luigi Bersani ha votato a favore, ma solo per «disciplina» e in omaggio al suo ruolo di ex segretario di partito. Ma non ha fatto mancare le critiche a quella che considera «un’impostazione difettosa»: «L’articolo 18 si poteva anche toccare, ma su cose di dettaglio». E per il resto, avverte Renzi e i suoi: «Non mi diano del conservatore, sennò mi incazzo». Non è l’unico a perdere serenità. Stefano Fassina si rivolge direttamente al segretario: «Le parole di Renzi non aiutano la pace sociale. Alimenta le tensioni sovversive e corporative».
Renzi sovversivo? Dopo il Bersani che in direzione denunciava il «mobbing» contro di lui e che più tardi spiegava come «il Patto del Nazareno fa salire Mediaset in borsa», aumentano le voci che rendono plausibile (ma non probabile) uno sbocco traumatico. Se Bersani rassicura «il legno storto si raddrizza nel Pd» , sono in diversi a guardarsi intorno. Quelle di ieri sono state prove tecniche di scissione? «Dipende da Renzi», dice Pippo Civati. Che preconizza: «Dopo il voto di oggi, se si mette male, Renzi si fa un giro al Quirinale». Davide Zoggia, bersaniano, spiega che si è trattato solo di «segnalare un disagio»: «Non vogliamo certo far cadere il governo. Se ci fosse stata la fiducia avremmo votato a favore».
Fa sentire la sua voce anche Massimo D’Alema, che analizza il voto delle Regionali: «C’era l’illusione che si potesse buttare via l’elettorato di sinistra per prendere quello di centrodestra. Non è stato così: alla crisi di Berlusconi corrisponde la crescita della Lega. Se perdiamo le radici a sinistra, ci indeboliamo seriamente». L’ex premier non ha apprezzato neanche le polemiche con la Cgil: «L’asprezza dello scontro, l’insulto e il disprezzo del sindacato sono stati un errore».
I numeri di ieri hanno sorpreso persino i dissidenti. Il documento che sanciva la scelta di uscire dall’aula, è stato firmato da 29 deputati. Alla fine, non hanno partecipato al voto in 40 (alcuni impossibilitati, anche causa guai giudiziari, come Marco Di Stefano e Francantonio Genovese).
Matteo Orfini — leader dei Giovani Turchi che ha cercato e trovato una mediazione insieme a Roberto Speranza, Cesare Damiano e Guglielmo Epifani — minimizza e chiama i dissidenti «primedonne»: «Sono vittime di protagonismo a fini di posizionamento interno. Ma alla fine si sono autoisolati. E poi quanti sono, 30? Il 10 per cento del gruppo pd, bel risultato: vi ricordo che contro Renzi all’inizio c’era la maggioranza dei deputati. E poi questa è tutta gente che ha ingoiato senza dar cenni di sofferenza il voto sul pareggio di bilancio in Costituzione e la legge Fornero».
Solo fini di posizionamento interno, con la ricostituzione delle correnti? O c’è di più? Torna la domanda sul possibile sbocco della dissidenza. Per Alfredo D’Attorre c’è «un’area di critica molto vasta» nel Pd. Pippo Civati si prepara a fare le valigie, ma il resto del gruppo pare intenzionato a dare battaglia dentro il Pd. Spiega Cuperlo: «La nostra è un’opposizione costruttiva, sul merito». «Se ci buttassero fuori — aggiunge Fassina — sarebbe surreale».

il Fatto 26.11.14
D’Alema: “Stiamo facendo allontanare il nostro elettorato”


La massiccia astensione nel voto in Emilia Romagna “ci dice che una parte del nostro elettorato è disaffezionato: cioè il Pd sta perdendo forza di attrazione nell’elettorato di sinistra”. Lo dice Massimo D’Alema, che, intervistato dal Tg2, aggiunge: “È un’illusione che si possa buttar via l’elettorato di sinistra perché tanto prenderemmo quello di centrodestra: come si è visto, alla crisi di Berlusconi corrisponde la crescita della Lega. Se quindi perdiamo le nostre radici a sinistra, perché quell’elettorato non ha più fiducia o si sente demotivato, noi rischiamo di indebolirci molto seriamente”. Ciò è conseguenza di un problema non identitario ma “di un problema politico” perché, ricorda l’ex premier e ministro degli Esteri, “non molto tempo fa noi abbiamo avuto un risultato straordinario, che nasceva da molte speranze di cambiamento. Il problema è che queste speranze, in parte, cominciano a essere deluse”.

Corriere 26.11.14
Bindi: si torni all’Ulivo o noi usciamo
Matteo ha deluso, è già in caduta
L’esponente della sinistra: se il Pd non cambia ci sarà bisogno di una nuova forza
Un soggetto alternativo dovrebbe essere competitivo con il Partito della Nazione
intervista di Monica Guerzoni


ROMA «Non ci siamo divisi...».
La minoranza si è spaccata in tre, presidente Rosy Bindi.
«Gli obiettivi di chi ha votato no e di chi ha lasciato l’Aula, come me, erano gli stessi. Marcare la distanza netta da un provvedimento che, eliminando il diritto al reintegro, considera il lavoro come una merce».
L’indennizzo non basta?
«È un passo indietro profondo, secolare, rispetto alla dignità del lavoratore richiamata dal Papa. Oltre a non condividere il merito io ho voluto prendere le distanze dal messaggio che il premier ha costruito in questi mesi. Le sue parole hanno scavato un solco tra il governo, il segretario del Pd e il mondo del lavoro, la parte più sofferente dell’Italia. Abbiamo visto la delegittimazione del sindacato e una provocazione davvero lontana dalla situazione reale degli italiani».
Pensa che l’astensionismo nasca da qui?
«Tra Emilia e Calabria il Pd ha perso 750 mila voti. Se alle Regionali avessero votato gli stessi elettori delle Europee dovremmo dire che oggi il Pd è tornato al 30%, un numero più vicino al 25 di Bersani che non al 41 di Renzi».
L’astensionismo è ininfluente, secondo lui.
«Affermazione molto grave. L’astensionismo è un problema per la democrazia di un Paese, per il Pd e anche per il governo. Il premier ha fatto campagna in prima persona e ha lanciato dal podio dell’Emilia uno dei messaggi piu gravi quando ha detto che lui crea lavoro, mentre il sindacato organizza gli scioperi. Con le Regionali Renzi si è unito ai tanti salvatori della patria a cui gli italiani amano affidarsi, per poi sperimentare la cocente delusione».
Rimpiange Enrico Letta?
«Il paragone non è con Letta. È con Grillo, con Salvini, con il Berlusconi dei primi anni. La rottura della politica col Paese reale è profonda e sembra rimarginarsi quando gli italiani si affidano al salvatore di turno, per poi delusi andare a ingrossare l’unico partito che vince, quello dell’astensione. Il voto di domenica dimostra che è iniziata la parabola discendente, anche di Renzi».
Gufa perché rottamata?
«Sono stati rottamati 750 mila elettori in un colpo solo, non la Bindi. Questa categoria è servita a Renzi per vincere, ma ora, per continuare a governare, deve prendere per mano la povertà, le periferie, il dissesto del territorio, la crisi industriale. Chi guida i processi politici deve indicare il cammino, la speranza, e responsabilizzare tutti nella fatica della paziente ricostruzione».
La minoranza chiederà il congresso anticipato?
«Il gioco interno al Pd non interessa agli italiani, figuriamoci a me. Quel che mi interessa è che ci sia una forza politica che abbia il coraggio di ricostruire il tessuto democratico e affrontare una crisi economica sempre piu grave».
Progetta la scissione?
«Dico che questa è la funzione del Pd, se ha memoria delle origini, se non vagheggia l’idea del partito unico della nazione e se è un partito riformista, ma di sinistra. Quello sul Jobs act è stato un primo passaggio di merito, ma ora ce ne sono altri non meno importanti».
La riforma costituzionale?
«Appunto. Così è irricevibile, umilia il Parlamento e lo rende subalterno al governo».
La legge di Stabilità?
«Non può essere una mera, finta restituzione delle tasse, c’è bisogno di sostegno vero al lavoro e agli investimenti».
E l’Italicum, lei lo vota?
«Se il patto del Nazareno non ha più futuro, nessuno pensi di portare avanti quella legge elettorale con sostegni diversi in Parlamento. C’è da dare al Paese una legge che assicuri il bipolarismo, non attraverso i nominati e il premio di maggioranza al partito unico».
E se Renzi va a votare?
«Questo risultato dovrebbe farlo riflettere, non è tempo di facili ricorsi alle urne. Voglio sperare che al di là del messaggio grave, sbagliato e pericoloso che ha mandato all’Italia, Renzi abbia un momento di ripensamento serio. Spero cambi stile e accetti il confronto. E si ricordi che il segno di chi ha la responsabilità più alta è unire, non dividere».
Perché non uscite per fondare una forza alternativa, guidata da Landini?
«Se il Pd torna a essere il partito dell’Ulivo, che unisce e accompagna il Paese, non ci sarà bisogno di alternative. Ma se il Pd è quello di questi ultimi mesi, è chiaro che ci sarà bisogno di una forza politica nuova».
Una forza minoritaria?
«Tutt’altro che minoritaria, una forza di sinistra, competitiva con il partito della nazione. E allora servirà, oltre alle idee, la classe dirigente».
La sinistra fuori dal Pd non è un ferro vecchio?
«Renzi sbaglia quando si paragona al partito a vocazione maggioritaria di Veltroni, che prese il 33% e ridusse la sinistra radicale a prefisso telefonico. Quello era collocato nel centrosinistra e non ambiva a fare il partito pigliatutto. Se il Pd è quello di questi mesi una nuova forza a sinistra non sarà residuale, ma competitiva. E sarà un bene per il Paese, se non vogliamo che il confronto si riduca ai due Matteo. Sarà una sinistra riformista e plurale, ma sarà una sinistra. Sarà il Pd».
Il voto sul Quirinale sarà una resa dei conti?
«Quando dovremo confrontarci su quella scelta, spero più tardi possibile, io auspico che venga fatta ricercando l’unità del Paese. Fu un bene bocciare la riforma del centrodestra, che riduceva il capo dello Stato a portiere del Quirinale».
Perché Renzi dovrebbe cercare un nome non condiviso?
«Ci sono molti modi per ridurre il ruolo del Colle, come rinunciare alla ricerca della personalità più autorevole per considerarla strumentale alla politica del governo. Sarà fondamentale trovare la persona che più unisce e la cui autorevolezza sia considerata indiscussa, da tutti».

Repubblica 26.11.14
Pierluigi Bersani
“La nostra gente non vuole scissioni ma Matteo non faccia finta di nulla”
“Ho votato sì sul Jobs act per disciplina di partito ma nessuno, anche chi è uscito, può negare i passi avanti compiuti”
“Il messaggio del voto emiliano è chiaro: Restate lì. Infatti la sinistra alternativa prende lo zero virgola”
intervista di Goffredo De Marchis


ROMA Pier Luigi Bersani vota a favore del Jobs Act. Per disciplina di partito, spiega. Perché chi ha fatto il segretario del Pd per quattro anni non può tirarsi fuori tanto facilmente. La solita storia della ditta in cui Bersani crede davvero. Non crede invece che questa riforma «vada al cuore del problema ovvero la produttività». Ma di fronte alla spaccatura profonda consumatasi ieri nell’aula di Montecitorio, c’è qualcosa di più nel suo sì. È un rifiuto netto della scissione, un appello alla minoranza interna a pensarci bene prima di fare mosse azzardate. Tutto muove dal dato emiliano, da quell’astensione «inedita e impressionante ». «Il messaggio di quel voto – spiega Bersani in un corridoio della Camera – o meglio di quel non voto per me è chiarissimo. Significa “restate lì. Noi elettori del Pd ci siamo come autosospesi ma non vogliamo andare da nessun’altra parte”. Non a caso le forze della sinistra alternativa prendono poco o niente, percentuali dello zero virgola. Le cose cambiatele dentro al Partito democratico, è il senso di quella delusione profondissima e che nessuno dovrebbe sottovalutare. Per questo è ancora più grave che Renzi faccia finta di niente».
Forse se il premier aprisse oggi una riflessione sull’astensione e sui voti persi rischierebbe di dare fiato ai tanti dissidenti dentro al Pd e nelle piazze.
«Può darsi che sia questo il punto. Renzi non riconosce un problema, ha paura che se offre un dito poi qualcuno si prende tutto il braccio. Ma negare l’evidenza, non abbassarsi alla discussione può essere un pericolo ancora maggiore per lui. Può fare un volo dall’ottavo piano e il botto sarà ancora più grande. Il dato dell’astensione è agghiacciante e Renzi non dovrebbe temere nulla da un’analisi seria della situazione. Perché io penso che il messaggio di quegli elettori non sia “uscite dal Pd”, bensì risolvete tutti insieme ».
Che è successo in Emilia?
«Un sacco di cittadini, di elettori anche nostri, ha una sensazione di estraneità, la voglia di chiamarsi fuori, un elemento di rifiuto. Non sono andati da altre parti ma hanno detto no e io credo di capire perché. Lo ha scritto bene Michele Serra su Repubblica. Il centrosinistra in quella regione ha sempre avuto il compito di dare un senso alle cose che si fanno e se si perde il senso, cioè un messaggio di coesione a partire da un tema di equità, perché questo è il senso fondamentale della sinistra, non si interpreta quella gente ».
Disincanto o messaggio voluto?
«Messaggio intenzionale. Non pensiamo che la gente si sia distratta, perché quello è un posto dove gli elettori ragionano e fanno quel che hanno deciso di fare. Io li ho visti con le lacrime agli occhi scegliere di non votare».
Per questo si è espresso a favore del Jobs Act? Per non sfasciare tutto?
«Ho votato a favore perché nessuno, nemmeno quelli che sono usciti dall’aula o che hanno detto no, nega i passi avanti che ci sono stati. È il discorso del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. In questo caso ci sono tutti e due».
Però la minoranza si è di nuovo divisa e non vi siete rafforzati.
«Ci sono diverse sensibilità. Ho parlato con tanti di noi. Alcuni hanno problemi a mantenere ferma la barra dentro la loro area. Li capisco benissimo. Altri hanno problemi con i territori, con la loro base elettorale perché sono parlamentari che hanno un loro elettorato vero, autentico. Ma non mi sembra un dramma, ognuno fa quello che può per dimostrare al governo che sta sbagliando, che va corretta la linea».
Anche sul lavoro?
«Certo. Con il Jobs Act non si va al cuore del problema che è la produttività del lavoro. Ci sarà un recupero su quel terreno? Non credo. Ci avvitiamo sull’articolo 18, che aveva bisogno al limite di qualche ritocco, ma non era certo il cuore di una questione drammatica. Io la penso così. E non mi chiamassero conservatore sennò è la volta che mi incazzo».
Cosa bisognava fare di diverso?
«È stato tutto sbagliato fin dall’inizio. Ma spero che si possa dire ancora cosa bisogna fare, perché c’è tempo per correggere. La vera sfida al mondo del lavoro, sindacati compresi, doveva venire dal lato della produttività e quindi da una flessibilità dell'organizzazione aziendale, da una sfida sul tema decentramento e partecipazione. Avere invece affrontato cose minori come l’articolo 18 o altro, o avere creato un ulteriore canale che differenza la situazione dei lavoratori sullo stesso banco di lavoro è un approccio negativo».

il Fatto 26.11.14
Voglia di fuga. Giuseppe Civati
Civati avverte: “O rottama il Patto col Cav. o faccio il nuovo centrosinistra”
intervista di Giampiero Calapà

 
Adesso è “possibile”, dice il dissidente anti-renziano per antonomasia Pippo Civati: “Non posso infilare ancora altri voti contrari al governo e restare nel Pd, Renzi rottami subito il Patto del Nazareno per un nuovo Patto del centrosinistra, un patto dei cittadini: l’iniziativa della mia associazione Possibile, il 13 dicembre a Bologna, sarà l’embrione di un nuovo centrosinistra, vedremo se il Pd andrà nella stessa direzione”.
Civati, ma alla fine a votare contro il Jobs act siete rimasti in due, lei e Luca Pastorino, gli altri dissidenti sono “solo” usciti dall’aula...
Non lo nego, mi aspettavo qualche voto contrario in più perché con un segnale di astensione come quella arrivato da Emilia Romagna e Calabria sarebbe stata una risposta più forte e decisa, più comprensibile. È da un mese che annuncio il mio voto contrario, lo dovevo al mandato elettorale e ai delegati della Fiom che abbiamo incontrato proprio ieri... Neanche i grillini, che mi davano del pirla, hanno avuto la forza di votare “no”. Ma diciamo che registro positivamente anche la loro di uscita dall’aula.
Non si sente sempre più isolato?
No, questo no. Paradossalmente considero positivo un fatto: l’area del dissenso si è allargata. Il dissenso annunciato era circoscritto a 29 deputati del Pd, alla fine sono stati 40. Non è un dato da poco. Iniziano a essere numeri importanti, che dovrebbero far riflettere il capo del governo e segretario del partito.
Allora vede ancora un futuro per il Pd?
Ho passato due mesi a farmi dare del pirla... il solito Civati, dicevano. Invece, il voto delle regionali in Emilia Romagna e Calabria e quello in aula sul Jobs act rappresentano con forza che un problema nel Pd c’è.
Come si traduce questo problema?
Ma come si deve tradurre. È incredibile in aula ascoltare la dichiarazione di voto di Massimo Corsaro, Fratelli d’Italia, uno che più a destra non si può, mio storico rivale dai tempi del Consiglio regionale lombardo: ha detto di riconoscersi pienamente nel Jobs act del governo Renzi. Per me questo è un problema enorme.
Insomma Civati, rompe col Pd?
Ora nel Pd c’è un fatto politico gigantesco, l’area del dissenso si è allargata. Fino a ieri ero solo, oggi no. Voglio ricostruire il centrosinistra. È chiaro che siamo al limite, non posso infilare altri voti contrari al governo del Pd. Ma Renzi deve rottamare il Nazareno. Serve un nuovo Patto del centrosinistra, un patto dei cittadini. Lo chiederemo ufficialmente a Bologna il 13 dicembre in un’iniziativa dell’associazione di sinistra che ho fondato la scorsa estate a Livorno, “Possibile”. Perché adesso è possibile davvero.

il Fatto 26.11.14
Gianni Cuperlo. Li si nota di più se escono
“Fuga di elettori, non convince più”
intervista di Wa. Ma.


Onorevole Cuperlo, perché siete usciti dall’aula sul Jobs act?
Abbiamo tenuto una linea molto chiara in queste settimane. Non eravamo contro una riforma del lavoro, ma doveva essere una buona riforma.
Quali sono i punti indigeribili?
Rispetto al Senato, nel passaggio alla Camera, sono state apportate modifiche positive. Ma il testo finale contiene delle norme per noi sbagliate, sul demansionamento, sul controllo a distanza dei lavoratori, sull’utilizzo dei voucher e sui licenziamenti.
Però avete messo in difficoltà il vostro governo.
No. Non credo. Il problema drammatico dell’Italia oggi non è la poca libertà di licenziare. La nostra priorità è come assumere.
Se in Senato il governo metterà la fiducia la minoranza voterà contro?
Mi auguro che il governo sappia raccogliere il messaggio che è arrivato non solo oggi alla Camera, ma l’altroieri dalle urne.
State pensando di uscire dal partito?
Nessuno di noi ha questa intenzione. Il Pd è il partito che abbiamo voluto con passione e con impegno.
Cosa pensa del dato dell’astensionismo?
Quando in Emilia Romagna da un’elezione regionale alla successiva c’è un calo del 30% non puoi dire che dipende dalla disaffezione dovuta alle indagini. Il Pd dalle europee a oggi ha perso 700mila voti, che vanno prevalentemente nell’astensione. Significa che il grande cambiamento di cui parla il governo non ha ancora un consenso dal basso. Non ho dubbi che Oliverio e Bonaccini saranno due ottimi presidenti, ma dire che l’astensione è un problema secondario è una frase consolatoria, che non tiene conto della qualità della democrazia.
Però non riuscite a mettervi d’accordo neanche tra voi. Bersani ed Epifani hanno votato a favore del Jobs act.
Abbiamo scelto una linea di condotta coerente non partecipando al voto.
I renziani dicono che la vostra posizione è scorretta, che allora dovreste avere il coraggio di andarvene. E che sarebbe il caso di votare con il Consultellum domani mattina, senza mettervi in lista.
Allargo le braccia. Io ho un’idea diversa di partito. Oggi mi preoccupo non di chi dovrei o potrei mettere in lista, ma di centinaia di migliaia di voti che non sono riuscito a far arrivare alle mie liste.
Crede che le elezioni si avvicinino?
Ho sempre dato credito a Renzi, quando diceva “siamo qui per fare le riforme”.

Il Sole 26.11.14
Politica 2.0
La vera partita dei dissidenti Pd
di Lina Palmerini


La minoranza Pd ha scelto l'astensione e non si capisce perché. Se davvero – come dicevano – il Jobs act determina «l'arretramento di milioni di lavoratori» era più logico un no. Ma ieri l'obiettivo era più Renzi che la precarietà.
La scelta di non partecipare al voto finale è un equilibrismo politico perché se è vero che Renzi «incita alla sovversione» – come ha detto Fassina – e se è vero che il Jobs act è «lavoro sporco» – come ha detto Vendola – sono ragioni talmente forti da determinare un logico e conseguente voto contrario. Soprattutto quando in gioco c'è il tema che più di tutti identifica la sinistra e quell'area del Pd: il lavoro. Non a caso nessun leader di centro-sinistra è mai riuscito a fare una riforma dell'articolo 18 e adesso che è fatta, che quell'argine si è rotto, sarebbe stato più coerente strappare davvero. E non riconoscersi più in un partito che quella «libertà di licenziare» l'ha approvata. E invece il limbo del non-voto fa pensare che i 30 – con il Jobs act – vogliano aprire un'altra partita che guarda al Quirinale.
Una tattica per negoziare altro, insomma. Non sul lavoro perché la riforma è ormai fatta ma per trattare su chi sarà il successore di Giorgio Napolitano e diventare gli altri interlocutori di Renzi oltre all'area bersaniana che invece ieri, con coerenza, ha votato sì al Jobs act. Un avvio di guerriglia parlamentare che si muoverà tra la piazza sindacale e il braccio di ferro con Renzi su tutti i prossimi tavoli: Colle, legge elettorale, legge di stabilità. Una navigazione a vista perché il progetto politico non c'è ancora.
C'è una via di mezzo. Un Aventino ma non ancora una opposizione politica di sinistra. Il risultato delle elezioni in Emilia Romagna non pesa solo per l'astensionismo che ha colpito il Pd ma anche per il calo di consensi per la sinistra «radicale», da Sel a Rifondazione alla Lista Tsipras. Nonostante Renzi, nonostante il Jobs act e gli scioperi Fiom-Cgil, le forze della sinistra – variamente distribuite – hanno complessivamente perso l'11% di consensi rispetto al voto europeo e il 13,6% sulle regionali del 2010. E l'Emilia è la seconda Regione per numero di tessere Cgil, più di 822mila, è la terra di Maurizio Landini e delle imprese tra le più sindacalizzate. Segno che non basta parlare di malessere sociale per trovare elettori e consensi.
Servirebbe quello che è accaduto alla Lega. Un leader riconosciuto che la sinistra finora non ha. E un programma declinato in tutte le sue conseguenze. Matteo Salvini è contro la riforma Fornero, contro la «macelleria sociale» del Jobs act – anche se il primo a tentare la riforma dell'articolo 18 fu Maroni da ministro del Welfare nel 2002 – ma è anche contro l'Europa e l'euro da cui queste riforme derivano. È una strada politica lineare, difficilmente realizzabile, ma senza contraddizioni.
Alla minoranza Pd di ieri tutti questi passaggi mancano. Dopo aver combattuto per portare il Pd nei socialisti europei ora sono pronti a voltare le spalle all'Europa? Il Jobs act arriva da lì, da Bruxelles e da Francoforte ma il gruppo del non-voto preferisce scaricare su Renzi e sull'altra minoranza la responsabilità della riforma che è invece uno dei tasselli per stare in Europa. Non in quella vagheggiata dall'area dei 30 che cancella il fiscal compact ma quella di oggi. Quella con cui l'Italia fa i conti. A meno che i dissidenti – da Cuperlo a Boccia – non firmino anche un altro documento: l'uscita cooperativa dall'euro di Fassina.

Il Sole 26.11.14
Democratici. La maggioranza di Area riformista vota sì ma molti escono dall'Aula
La minoranza del Pd si divide: nasce la corrente dei dissidenti
di Emilia Patta e Giorgio Pogliotti


ROMA La presa di distanza della minoranza più radicale del Pd sul Jobs act è arrivata. È stata una decisione lunga e travagliata, presa in una riunione convocata da circa una quarantina di dissidenti, e alla fine il segnale al premier e segretario del Pd Matteo Renzi è giunto forte e chiaro. Che Pippo Civati e i 5 deputati a lui vicini votassero no era noto. La novità, piuttosto, è rappresentata dai trenta (ben oltre, quindi, i 17 che già lunedì sera avevano dato dei segnali in tal senso votando un emendamento di Sel per ripristinare l'articolo 18) che hanno deciso di uscire dall'Aula, non partecipando al voto in segno di protesta. «L'impianto della delega non è soddisfacente nonostante le modifiche approvate dalla Camera», hanno spiegato in un documento comune firmato dall'ex sfidante di Renzi alle primarie Gianni Cuperlo e firmato da Stefano Fassina a Francesco Boccia, da Davide Zoggia a Alfredo D'Attorre a Rosy Bindi. Certamente la decisione di saltare il guado da parte di molti di questi dirigenti del Pd di epoca bersaniana è strettamente legata al risultato delle elezioni di domenica in Emilia Romagna, che hanno visto un impressionante aumento dell'astensione e la perdita di oltre 600mila voti democratici rispetto alle europee nonostante la vittoria del candidato del Pd Stefano Bonaccini. Un calo della partecipazione che la minoranza addebita appunto allo scontro ingaggiato da Renzi contro la Cgil. Un effetto diretto del voto, dunque. Visto che a metà della scorsa settimana il compromesso tra governo e minoranza raggiunto con la mediazione del capogruppo alla Camera Roberto Speranza e del presidente della commissione Lavoro Cesare Damiano aveva soddisfatto un po' tutti, tranne i soli Cuperlo e Civati.
Con il voto di ieri sul tema caldo del lavoro si forma quindi una sorta di corrente dentro la corrente Area Riformista che ha come riferimenti i giovani Speranza e Maurizio Martina (ministro dell'Agricoltura): 30 su un centinaio di deputati accreditati alla minoranza. Un numero che se non riesce a bloccare del tutto i provvedimenti, dal momento che alla Camera il premier può contare sul sostegno della grande maggioranza dei 307 deputati del Pd, certamente può funzionare da freno e da disturbo. E le prossime partite saranno quelle campali della legislatura. Intanto le riforme costituzionali (poi sarà la volta dell'Italicum di ritorno dal Senato). E non è un caso se Bindi ha già presentato un emendamento per reintrodurre l'elettività dei senatori e D'Attore un altro per ridurre a 500 i 630 deputati. Ma soprattutto le Camere dovranno occuparsi presto in seduta comune dell'elezione del prossimo presidente della Repubblica se – come molti segnali invitano a credere – Giorgio Napolitano darà le dimissioni a fine anno.
Sulle posizioni di Speranza e di Damiano, in favore del Jobs act renziano, sono comunque restate personalità di peso come gli ex segretari Pier Luigi Bersani e Guglielmo Epifani. Anche se Bersani ha voluto precisare che, nonostante alcuni «miglioramenti», il Jobs act «non convince» del tutto. «Voto le parti che mi convincono con piacere e convinzione – ha detto – e le parti su cui non sono d'accordo per disciplina, avendo fatto per quattro anni il segretario del Pd». Ma per molti deputati della minoranza questo richiamo alla disciplina di partito potrebbe vacillare in occasione dell'elezione del Capo dello Stato.

Repubblica 26.11.14
Un antidoto allo sciopero delle urna
di Piero Ignazi


LE ONDE d’urto dello sciopero delle urne di domenica scorsa in Emilia-Romagna già invadono i palazzi della politica romana. Il dissenso dei deputati Pd ben oltre le previsioni lo attesta senza alcun dubbio. Del resto la desertificazione dei votanti ha avuto proporzioni devastanti. Mai, in nessuna elezione regionale dal 1970 ad oggi, si era toccata una percentuale così bassa: 37.7%. E mai c’era stato un crollo di partecipazione così ampio tra una elezione e l’altra: più di 30 punti percentuali.
Il terremoto elettorale è di magnitudo tale da non poter essere esorcizzato dalle motivazioni che facevano prevedere una scarsa affluenza alle urne. È vero che non si votava con un traino nazionale perché erano coinvolte solo due Regioni; che non c’era una vera competizione essendo i candidati Pd senza avversari; che i leader politici nazionali ad eccezione di Salvini, che praticamente aveva preso residenza a Bologna e dintorni, non si sono quasi che esiste un tendenziale calo della partecipazione; che i militanti di sinistra sono sfiniti da una serie infinita di appelli alla partecipazione (in due anni, due elezioni e quattro primarie di vario genere). E infine, è piombata l’inchiesta sui rimborsi delle spese dei consiglieri regionali, a quindici giorni dal voto.
Ma, detto tutto questo, la perdita del Pd di oltre 700mila voti, il 56% in meno rispetto alle europee del maggio scorso, fa effetto. Soprattutto se questo avviene nella roccaforte storica della sinistra. È l’Emilia-Romagna, non la Toscana, ad aver dato corpo al mito della sinistra di governo, pulita ed efficiente, pragmatica e conciliante, orientata alla collaborazione con gli interessi organizzati, anche quelli padronali. Una regione, inoltre, connotata da una fitta trama di associazioni e da una intensa partecipazione alla vita pubblica intessuta di passione politica.
La fuga dalle urne incrina questo mito. Sono stati gli stessi artefici del mito — i militanti e gli elettori di sinistra — che, indignati, a livello locale, per le spese pazze e indecenti degli ex consiglieri, e irritati, a livello nazionale, per l’atteggiamento liquidatorio del segretario del “loro” partito di fronte al sindacato e agli oppositori interni, hanno votato con i piedi, rimanendo a casa. Non solo loro hanno disertato le urne: anche una quota di coloro che erano stati attratti dalla nuova leadership renziana si è data un turno di riposo per verificare se l’onda di entusiasmo della primavera scorsa non fosse mal riposta o avesse bisogno di una verifica. Infatti, se i candidati delle minoranze interne hanno avuto buoni risultati — addirittura 5 eletti su 6 a Bologna — vuol dire che non è tutto “di sinistra” l’astensionismo aggiuntivo di queste elezioni. Si è alimentato di molti stimoli ed ha coinvolto molte aree tant’è che ha colpito anche a destra e nell’altrove grillino.
Forza Italia precipita, lasciando enormi spazi vuoti che solo parzialmente la Lega riesce a recuperare. Il buon risultato del Carroccio (ormai un simbolo in via di rottamazione per la sua padanità) è ben lontano dal rappresentare una alternativa potabile per i grandi numeri un tempo raccolti dal Pdl. Certo, i temi che la Lega cavalca, immigrazione e sicurezza, fanno presa perché sono sentiti da una larga fascia di elettorato, anche popolare, ed hanno una capacità di attrazione trasversale. Tuttavia, non bastano per fare un salto di qualità alla Marine Le Pen: alla Lega manca, costitutivamente, l’appello nazionalista che caratterizza il Front National francese. Difficile dirsi per decenni anti-italiani e poi difendere l’economia italiana contro l’euro.
Dato che gli interpreti delti l’insofferenza — Lega, M5S e liste di sinistra radicale — mantengono una loro capacità di rappresentanza nonostante la marea di astensioni, lo scontento investe in pieno i due storici contendenti, Fi e Pd. E se era scontato che Fi si avvitasse in una crisi sempre più profonda, era imprevisto che questo investisse così duramente anche il Pd. Il segnale che gli elettori emiliani-romagnoli del Partito democratico hanno inviato riguarda sì la politica locale, immiserita da scontri di bassa lega senza uno straccio di riflessione e dalla cinica leggerezza con cui si sono usati i soldi pubblici, ma investe anche la politica nazionale troppo oscillante tra disinvoltura nei confronti degli avversari di destra e dileggio nei confronti delle posizioni critiche all’interno del partito e nei sindacati.
La fiducia illimitata nelle dovisti; fattive e trasformative della leadership di Renzi ha offuscato e marginalizzato la visione collettiva e partecipativa della politica. Con la conseguenza di favorire pigrizia da divano televisivo e affidamento miracolistico nelle capacità taumaturgiche del leader. Mentre ciò di cui c’è bisogno è proprio la dimensione collettiva e partecipativa di un partito, che sappia raccogliere per tempo i sintomi del disagio di una società atomizzata, ansiosa e incattivita. Questa dimensione, non riassumibile nella sola leadership, costituisce, ancora, l’antidoto al particolarismo degli interessi e alle scorciatoie ribellistiche.

Corriere 26.11.14
L’Unità cerca testimonial (per trovare fondi)

Ottavia Piccolo? Dacia Maraini? Ascanio Celestini? Paolo Hendel? Giulio Scarpati? Michele Serra? Cercasi testimonial per salvare l’Unità. Il cdr del quotidiano, che ha sospeso le pubblicazioni il 1° agosto, sta chiamando uno a uno i firmatari dell’appello «L’Unità non può più restare in silenzio». Sperano che qualche personalità della cultura ci metta la faccia, domani alla Camera, quando rilanceranno in conferenza stampa la battaglia contro la chiusura. L’offerta dell’editore Veneziani, 10 milioni, copre appena i creditori privilegiati e i liquidatori hanno concesso una proroga fino al 30 novembre.
(Monica Guerzoni)

Repubblica 26.11.14
Lo strabismo del Nazareno
L’ultima mossa dell’ex Cavaliere per non uscire di scena
di Stefano Folli

Lo “strabismo” del Nazareno: il premier e il leader forzista lo interpretano in maniera opposta
ESISTE ancora una strategia di Silvio Berlusconi che non sia un mero tentativo di sopravvivenza? Al momento è difficile individuarla, perché Forza Italia si sta disgregando e il suo leader non è sicuro di nulla, nemmeno di riuscire a stabilire una tregua duratura con Fitto. In altri tempi lo avrebbe messo alla porta, oggi deve rinviare il comitato di presidenza per consentire al suo contestatore di rientrare da Strasburgo.
Più che una strategia, Berlusconi sembra cercare il bandolo della matassa. Ma senza uscire dall’ambiguità. Ieri sera, alla presentazione del libro di Vespa, ha detto di aver siglato il patto del Nazareno «non con Renzi, ma con il paese». Frase in sé curiosa, dalla quale si capisce tuttavia che egli non intende seppellire la vecchia intesa con il presidente del Consiglio. Ma si propone anche di renderla operativa, senza ulteriori perdite di tempo? Qui i segnali si fanno contraddittori. Berlusconi non rompe il patto, ma nemmeno lo esalta. È timoroso della rivolta interna nel suo partito e vorrebbe ricomporre i tasselli del mosaico prima di dare risposte a Renzi che lo sollecita.
In sostanza spera di guadagnare tempo, proprio quello che a Palazzo Chigi non vogliono concedergli. D’altra parte il Berlusconi di oggi non appare in grado di garantire un sostegno sicuro in Parlamento al piano di riforme. In particolare all’unica che dà un senso al patto, essendo come è noto prioritaria per Renzi: la legge elettorale. Il problema non riguarda tanto gli aspetti tecnici della proposta, quanto la tempistica. In fondo a Berlusconi importa poco ormai che il premio in seggi sia assegnato alla lista vincitrice e non alla coalizione. Alla fine, una o l’altra per lui pari sono e lo ha fatto capire. Le sue preoccupazioni sono altre, visto che non solo Forza Italia è a pezzi, ma le possibilità di costruire una nuova coalizione sono vicine allo zero.
Gli stessi tentativi di inseguire Salvini quando ormai la Lega non ha più bisogno del partito berlusconiano, segnalano una notevole mancanza di lucidità politica. È davvero difficile credere che l’altro Matteo accetti adesso di fare il «centravanti goleador» (il candidato premier) in una squadra di cui Berlusconi sia il «regista», ossia il vero capo. Sono scenari del tempo andato e l’offerta, se di offerta si tratta, è tardiva. Il voto in Emilia e in Calabria ha tolto dal tavolo tutte queste ipotesi e ha azzerato di fatto il potere di coalizione esercitato per anni ad Arcore.
Ne deriva che il piano di Berlusconi deve darsi un orizzonte più limitato. E infatti la vera replica al presidente del Consiglio riguarda la legge elettorale. Non nel merito, ma appunto nei tempi. L’estrema incarnazione del patto del Nazareno secondo Palazzo Grazioli prevede un accordo simultaneo: disco verde alla riforma, anche nella modalità gradita al premier, ma in contemporanea si sceglie il nome del prossimo presidente della Repubblica. Individuando una figura, uomo o donna, in grado di offrire adeguate garanzie al fondatore di Forza Italia. Sappiamo che Renzi fino a questo momento ha evitato la simultaneità, il cui effetto sarebbe di regalare a Berlusconi una specie di diritto di veto sui nomi suggeriti dal centrosinistra. Il presidente del Consiglio vuole in primo luogo l’intesa sulla riforma elettorale, tenendola ben distinta dal rebus Quirinale: così da avere tutte le carte in mano. Se a destra insistono, Renzi fa sapere di voler procedere da solo. Sia con la riforma sia, sembra di capire, con l’elezione del successore di Napolitano. Il che significa però inoltrarsi in una foresta inesplorata dove gli agguati sarebbero inevitabili e il grado di incertezza molto alto. Può darsi, in definitiva, che il patto del Nazareno non sia morto, ma è un fatto che i due firmatari ne danno interpretazioni opposte sui punti cardine: la legge elettorale e soprattutto l’elezione del capo dello Stato.

il Fatto 26.11.14
Dal comunismo padano al fascioleghismo russo
La riscossa elettorale del Carroccio passa per la sovraesposizione tv di Matteo Salvini: basta ampolle e secessione, si a CasaPound e a Mosca
di Enrico Fierro


Prossima tappa il Sud. Sì, proprio quello brutto, sporco e cattivo di una volta. È qui, oltre il Garigliano, che Matteo Salvini vuole piantare le prossime bandiere della vittoria. Iniziando da Napoli e Bari, i Borboni e Murat assieme ad Alberto da Giussano per conquistare voti. Quelli delle prossime elezioni regionali di primavera in Campania e Puglia. La strategia è già pronta, una Lega che non sarà più Nord, nazionalizzata, e una sola certezza: nel simbolo deve esserci il nome “Salvini”. Il team di sondaggisti ingaggiati dal Capo ha già pronti diagrammi, slide e percentuali, lo rivela il sito di analisi politica affariitaliani.it : il brand di Matteo sulla scheda elettorale al Sud vale intorno al 4-5%, che proiettato su scala nazionale fa il 2-3.
UN BEL BOTTINO, da sommare al 20% conquistato nella “fu rossa” Emilia. E allora basta con le canzoncine sguaiate sui napoletani (“senti che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani... oh colerosi, terremotati, voi col sapone non vi siete mai lavati”), intonate nelle notti di Pontida innaffiate da troppa birra e poco senso politico. Le parole devono unire, gli slogan devono essere semplici e sfondare da Brescia a Trapani. “Prima gli italiani”, è la parola d’ordine che Salvini ripete ossessivamente a talk unificati, preferibilmente con una t-shirt o una felpa con la scritta ben visibile “Stop invasione”. Già i talk e la televisiun, un Matteo davanti alla telecamera vale 2-3 punti di share, lui lo ha capito e non rifiuta una ospitata che sia una. Finora ha evitato solo le previsioni meteorologiche e i programmi di cucina (anche se da giovane aveva partecipato al Pranzo è servito), ma tempo al tempo, quando per la causa si tratterà di preparare in diretta una cassoeula, si farà. Ma sarebbe ingiusto giudicare Teo Salvini un prodotto meramente televisivo. Perché lui la tv la domina, è attore protagonista che scrive da sé il copione.
LA PAROLA d’ordine “prima gli italiani” fa il giro delle banlieue di casa nostra, è rivolta a chi è in attesa di una casa popolare, a chi se la vede occupata da abusivi, a chi è da anni in graduatoria, diventando “il verbo” del disagio sociale diffuso giorno dopo giorno da militanti leghisti. Si amplifica fino a diventare “virale”, quando Salvini porta la questione delle periferie in televisione. Allora i talk si fiondano nei grandi quartieri popolari di Roma e di Milano. Finalmente la gente che lì vive (malissimo) ha a disposizione un microfono quasi h24. Le immagini di pensionate costrette a barricarsi in casa perché “ci sono troppi neri in giro”, o perché a ridosso del quartiere la giunta comunale (preferibilmente di sinistra e perciò buonista) ha piazzato un campo rom, girano e creano uno strano fenomeno di emulazione. Ognuno fa la sua barricata e pretende un microfono. Animale politico ibrido, che nella sua carriera si è finanche definito “comunista padano”, Matteo Salvini sa quali carte giocare per diventare il Le Pen italiano e prendersi un centrodestra in coma. Sovranità monetaria, no euro, tutela della famiglia tradizionale e aliquota unica per le tasse al 15-20% (“funziona in molti Paesi, così si combatte l’evasione, le imprese investono e assumono”): questi i punti cardine della strategia. Vincente per i sondaggisti. L’elettore medio della nuova Lega, ha spiegato Nando Pagnoncelli, è concentrato soprattutto al Nord, ha tra i 45 e i 64 anni, è un cattolico praticante, e appartiene a quei settori particolarmente colpiti e spaventati dalla crisi. Operai delle fabbriche chiuse, piccoli commercianti, pensionati, esodati e vittime della legge Fornero. Insomma, tutti quei settori della società senza più punti di riferimento politici, “rifiutati” dal Pd, dimenticati dalla sinistra, non “compresi” nelle confuse strategie grilline. Con chi parla il pensionato che abita in una casa popolare di una mega periferia metropolitana, chi incontra, quali parole ascolta? Al Nord quelle della Lega, a Roma quelle dei “fascisti sociali” di Casa Pound o di organizzazioni simili.
UNA PRATERIA sconfinata per il nuovo soggetto fascio-leghista che Salvini sta costruendo. Le prime prove a ottobre con la manifestazione di Milano contro l’immigrazione insieme a Casa Pound. “Abbiamo portato duemila persone”, disse all’epoca Simone Di Stefano, uno dei leader del movimento, “perché Matteo ci ha convinti”. Ha voglia il vecchio Umberto Bossi a dire che “la Lega nasce antifascista”, Salvini vuole fare come a Parigi. “Perché in Europa un solo modello è vincente, quello che abbraccia Front National in Francia, Ukip in Gran Bretagna, Lega, Fratelli d’Italia-An in Italia”. Parola di Lorenzo Fontana, europarlamentare leghista e consigliere più ascoltato dal leader. “L’equivalente di quello che fu il professor Miglio per il Bossi della prima ora”, dicono negli ambienti della Lega. Fontana, salde radici veronesi e una laurea in Scienze politiche, per il sito Dagospia è il Kissinger di Salvini. È lui ad aver avvicinato Matteo a Putin, per il leader della Lega lepenista “vera diga contro il terrorismo islamico”. Il presidente russo è alla ricerca di collegamenti con la destra europea e in queste ore tiene banco la vicenda dei 9 miliardi versati al movimento di Marine Le Pen. L’oro di Mosca arriverà anche alla Lega? “Soldi non ne abbiamo visti e non ci interessa chiederli. Il nostro appoggio alla Russia è totalmente disinteressato”, è la replica di Salvini. Il viale che porta alla conquista del centrodestra non è lastricato di rubli. Per il momento.

il Fatto 26.11.14
La Lega trionfa sulle paure
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, qualcosa non va in quello che lei ci dice ogni giorno sulla Lega Nord. In queste ultime elezioni Salvini ha raddoppiato il suo voto. Se fosse quel pessimo personaggio che lei dice…
Vitaliano
MATTEO SALVINI è quel personaggio che dico. Basti pensare che marcia accanto a Borghezio, uno dei personaggi meno stimabili del mondo politico europeo, che pure è di scarso livello. Potrei dire che ha saputo stanare gente come lui, ma sarebbe un giudizio arbitrario. Conosco Salvini e so che non è politicamente rispettabile. Non conosco chi lo ha votato e perché, ma posso fare le congetture che seguono. Primo. Chi ha votato Salvini lo ha fatto per vendetta, come accade nelle storie d’amore. Lo ha votato di certo una parte della sinistra abbandonata sull’autostrada dal nuovo Partito democratico di Renzi. Una brutta vendetta, ma una vera vendetta, votare per il peggior gruppo disponibile come per dire: persino chi è pessimo merita più attenzione di te. Secondo. Paura e pregiudizio sono due brutte bestie sempre in agguato. Nei secoli, e in Paesi, culture e religioni diverse, hanno sempre portato male. Ma fanno presa. Salvini è un attivissimo portatore di paura e di pregiudizio. Alcuni fra coloro che sono contagiati dalla paura o si sentono liberati dalla proibizione di sfogare il pregiudizio, scelgono Salvini e la Lega, che su queste materie sono imbattibili. Terzo. In un suo modo ingannevole, che, come si è già visto con la buona fortuna privata della famiglia Bossi, serve solo a chi conduce il gioco, la Lega sa come far girare successo e voto. Perciò non bada a spese (morali) per allargare il proprio spazio, dovesse anche provocare qualche linciaggio, non bada a notizie false e a disinformazione, Ebola inclusa. Tutta la storia europea insegna, in tutti i momenti bui del secolo scorso, che i peggiori si affermano, aumentando, attraverso l'illusione di soccorso, il pericolo. Il “trionfo” della Lega nelle elezioni emiliane è la più brutta notizia del momento ma anche la più allarmante chiave di interpretazione del Pd guidato da Renzi: l’Emilia Romagna precipita nella Lega. Non è poco come finale tragico.

il Fatto 26.11.14
Lo studioso Piergiorgio Corbetta
“Il Movimento ha perso, se non cambia morirà”
di Ldc


Il risultato dei Cinque Stelle è più che negativo, è negativissimo. Sono i più colpiti dall’astensionismo, nonostante quello che ha scritto Grillo”. Piergiorgio Corbetta, direttore di ricerca presso l’istituto Cattaneo di Bologna, è co-autore del libro Il partito di Grillo (Il Mulino) assieme a Elisabetta Gualmini.
Secondo il blog del fondatore in Emilia Romagna il Movimento ha guadagnato voti. E l’astensionismo ha colpito solo gli altri partiti.
Non è così, i numeri dei flussi elettorali sono chiari. In Emilia i Cinque Stelle hanno perso 3/4 dei voti rispetto alle Europee della primavera scorsa. E molti di quei consensi sono finiti nell’astensione (il 43 per cento circa, ndr), un’altra parte è andata alla Lega Nord.
Rispetto alla Regionali del 2010 sono cresciuti.
Il paragone non regge, nel 2010 Grillo non era sceso in campo sul piano nazionale. Il Movimento così come è adesso ancora non esisteva.
Perché questo calo?
Perché i Cinque Stelle si alimentano del voto di protesta. Grillo, per dirla in termini tecnici, è stato il “prenditore” di quei votanti arrabbiati, se ne è impossessato con tecniche innovative. Ma quel tipo di elettore è impaziente, pretende subito risultati. E ora presenta il conto. O guarda alla Lega.
Salvini è il vero rivale di Grillo?
Di certo il Carroccio ha intercettato parte del voto di protesta, pescando nello stesso bacino dei 5Stelle. D’altronde nel 2013 Grillo fece il boom alle Politiche proprio prendendo molti voti alla Lega, e a Di Pietro.
Tra i 5Stelle infuria la polemica sull’andare o meno in tv. L’assenza dagli schermi ha influito sul voto?
È una questione di lana caprina. Prima delle Politiche non esistevano in televisione, anzi Grillo aveva fatto dell’ostracismo verso le tv uno dei suoi punti forti. Eppure nelle urne superarono il 25 per cento.
E allora cos’è che non funziona?
Il vero problema è che il M5S non ha una proposta politica chiara, solida. La stessa campagna anti-euro è confusissima. E poi i 5Stelle sono senza ideologia e senza radicamento territoriale. Hanno una base molto fragile.
I dissidenti accusano Grillo e Casaleggio.
La figura di Grillo rimane fondamentale, non ne possono fare a meno. Ma anche i vertici devono prendere atto che i movimenti prima o poi devono mutare pelle, diventare istituzioni: altrimenti muoiono. La storia lo ha sempre dimostrato.
Quindi?
Devono prendere atto che il modello dell’uno vale uno, della democrazia diretta, è fallito, è immaturo. E strutturarsi come un partito tradizionale. Meglio una democrazia approssimata che l’autocrazia di Grillo e Casaleggio, con le loro espulsioni immotivate.

Repubblica 26.11.14
M5S
Crollo trionfale
di Sebastiano Messina


A TRE giorni dal flop alle regionali, sul blog di Grillo ancora non ce n’è traccia. Bisogna far scorrere la pagina molto al di sotto del settimo necrologio di Casaleggio sull’imminente morte dei giornali per trovare un’analisi dei risultati in Emilia Romagna, ben nascosta in un articolo sull’astensionismo. Eccola: «Il MoVimento 5 Stelle nel 2010 raccolse 126.619 voti. Ieri ha aumentato i consensi con 159.456 voti». Fine dell’analisi. Il fatto che Grillo abbia perso tre quarti degli elettori delle politiche (658.443) e due terzi di quelli delle europee (443.936) è stato evidentemente ritenuto un dettaglio insignificante. A meno che il profeta Casaleggio — l’uomo che ha già predetto la fine di tutto — abbia visto in questa emorragia di voti un segnale incoraggiante, un indizio della vittoria prossima futura. Che arriverà, magari, il giorno in cui non ci saranno più i giornali.

il Fatto 26.11.14
Conti pubblici
L’Ocse smonta le stime di crescita di Renzi, il piano Juncker non basterà
di Stefano Feltri


Nel giorno in cui la Commissione europea inizia l’esame definitivo della legge di Stabilità dell’Italia, verdetto definitivo previsto per venerdì, arriva una cattiva notizia che conferma i dubbi degli scettici. Secondo l’Ocse, il think tank dei Paesi ricchi basato a Parigi, nel 2015 il Pil italiano crescerà soltanto dello 0,2 per cento, un po’ meglio nel 2016 quando l’aumento stimato sarà dell’1 per cento. Sempre meglio che l’attuale recessione, peccato che a fine settembre il governo ha impostato tutta la sua politica economica su un quadro più ottimistico: Pil 2015 in crescita di 0,6 per cento (identica valutazione sul 2016, +1 per cento).
MENO CRESCITA vuol dire che il rapporto tra deficit e Pil risulta più alto, idem quello del debito, meno gettito fiscale, qualche buco nelle coperture della manovra. Nel suo Economic Outlook l’Ocse è favorevole al rinvio del pareggio di bilancio dal 2016 al 2017, ma bisogna approfittare bene del tempo guadagnato: “Il ritmo di riassetto strutturale dei conti più lento rispetto agli impegni precedenti proposto da Francia e Italia nelle loro leggi di bilancio 2015 pare appropriato” perché “può dare alle riforme strutturali già concordate e alle politiche monetarie accomodanti una possibilità di rilanciare l’attività economica”.
LE COSE POSSONO migliorare? Il segretario generale dell’Ocse Angel Gurria avverte: “C’è il rischio di un prolungato periodo di stagnazione nell’eurozona se la risposta politica è troppo debole e la fiducia rimane bassa”. E la risposta più forte dall’Europa dovrebbe arrivare oggi: il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker presenta al Parlamento europeo il suo piano di investimenti da 300 miliardi. Juncker è riuscito a mantenere un riserbo inusuale per gli standard di Bruxelles attorno all’iniziativa politica che dovrebbe caratterizzare il suo mandano quinquennale. Secondo il Financial Times, i soldi veri saranno soltanto 21 miliardi di euro che andranno ad alimentare un Fondo europeo per gli investimenti strategici dove, grazie a un po’ di ingegneria finanziaria, al ruolo della Banca europea degli investimenti (Bei) e all’effetto leva diventeranno ben 315 miliardi. I 21 miliardi dovrebbero arrivare dall’attuale bilancio europeo (16 miliardi) e dalla Bei (5 miliardi) che è l’unica istituzione finanziaria pronta ad agire ma non deve esagerare con i prestiti o perderà la tripla A nel rating del suo debito. E questo i tedeschi non sono disposti ad accettarlo. Queste risorse – vere o virtuali – dovrebbero andare a finanziare infrastrutture “cross border”, cioè che non riguardano un solo Paese e per questo sono più complesse da realizzare. Per i singoli leader sarà quindi complicato poter vantare una cifra precisa relativa ai benefici ottenuti: il governo italiano ha presentato richieste per 87,1 miliardi che difficilmente saranno accolte.
PER RENZI SARÀ TUTTO più difficile se il suo punto di forza, cioè un consenso che rende credibili le promesse di riforme, comincia a vacillare: prima la vittoria in Emilia Romagna e Calabria indebolita dall’alta astensione, poi il voto di ieri alla Camera sul Jobs Act, la riforma che gli investitori stranieri vedono come il simbolo di una nuova stagione di riforme. La legge delega passa con soli 316 voti, segno che la maggioranza di Renzi è più fragile del previsto e che il premier non ha il pieno controllo del Parlamento. Per fortuna il giudizio (positivo) della Commissione europea sulla legge di Stabilità dovrebbe essere già scritto.

Il Sole 26.11.14
Violenza contro le donne
Celebrare non basta: è l’ora di reagire
di Elisabetta Rasy


Ci sono dei problemi oggettivamente complessi la cui soluzione sembra invece apparentemente semplice. È il caso della violenza sulle donne, contro la quale ieri il mondo si è mobilitato. Perché le donne non siano più uccise, stuprate, picchiate, vendute, umiliate e offese non c’è che una soluzione: che si difendano.
Qui però la semplicità viene meno. Perché tutti ormai sappiamo che le donne, una gran parte delle donne del mondo, non sono in grado di difendersi. Si tratta di una fragilità disperatamente trasversale: i femminicidi (usiamo ancora una volta questa discutibile parola) allignano in ambienti e situazioni che più diversi non potrebbero essere.
Tra gli assassini di donne ci sono personaggi celebri come il grande campione sudafricano Pistorius e oscure figure della più estrema povertà, professionisti tranquilli insieme a recidivi della violenza; quanto ai luoghi, normalissimi interni borghesi e devastate periferie urbane cui si aggiungono le terre desolate del mondo non occidentale, le campagne indiane degli stupri collettivi e il cuore dell’Africa dei sequestri di massa delle studentesse. Femminicidio sono anche le morti per parto (in India una donna muore per cause legate alla maternità ogni cinque minuti), gli aborti selettivi dei feti femminili, le bambine vendute come spose a neanche dieci anni nella vicina a noi Turchia, dove il presidente Erdogan ha avuto l’idea sicuramente sincera di festeggiare a suo modo la giornata mondiale contro la violenza sulle donne ribadendo la superiorità maschile su quello che lui considera e vuole insistere a considerare il sesso debole.
Ovviamente è un elenco che potrebbe continuare e tutt’altro che inedito. Che senso ha dunque ripeterlo ancora una volta? Ha il senso di sottolineare una contiguità per nulla scontata tra mondi molto diversi tra loro per cultura, benessere e condizione femminile. L’elemento comune è che, naturalmente in misura diversa, le donne sono vittime dove l’emancipazione non è ancora arrivata ma anche dove si è affermata da un bel pezzo. Il che significa che uomini molto diversi tra loro hanno in comune il disprezzo per le donne e l’attitudine a manifestarlo con la violenza. E che donne di condizione e situazione totalmente differente possono essere allo stesso modo vittime.
Per questo, la giornata contro la violenza sulle donne non è uno dei tanti giorni celebrativi che lasciano il tempo che trovano. Non risolve la questione, ma può essere una sorta di chiamata alle armi, alle armi della critica e della consapevolezza. Per guarire da questa pandemia serve infatti molta consapevolezza attiva (maschile e femminile) che evidentemente ancora non c’è, cultura pubblica, impegno istituzionale e quell’empowerment di cui parlavano anni fa le femministe.
Ci sono stati equivoci su questa parola: come se l’obiettivo fosse una semplice scalata di potere da parte di furiose professioniste in carriera. Invece l’empowerment riguarda prima di tutto e soprattutto un potere di altro tipo: la possibilità di essere curate, di essere istruite, di avere un lavoro, di guadagnare del denaro, di essere considerate cittadine a pieno titolo, di ottenere rispetto fuori e dentro il matrimonio, nelle parole, nelle rappresentazioni e nell’immaginario. Solo a queste condizioni le donne saranno effettivamente in grado di difendersi. E solo così si può battere la violenza: quando chi la subisce ha gli strumenti per difendersi.

Repubblica 26.11.14
“Rammendare le periferie così salveremo le nostre città”
di Renzo Piano


QUANDO il presidente Giorgio Napolitano mi ha nominato senatore a vita non ho chiuso occhio per una settimana. Mi domandavo: io, un architetto che la politica la legge solo sui giornali, cosa posso fare di utile per il Paese? Un Paese bellissimo e allo stesso tempo fragile. Sono state notti di travaglio ma alla fine si è accesa una lampadina: l’unico vero contributo che posso dare è continuare a fare il mio mestiere anche in Senato e metterlo a disposizione della collettività. Mi sono ricordato di una scena del film Il postino con Massimo Troisi, quando il personaggio di Pablo Neruda spiega: sono poeta e mi esprimo con questo linguaggio. Io invece sono un geometra genovese che gira il mondo e costruisco usando il linguaggio che conosco, quello dell’architettura. Ecco cosa posso fare.
Mi son detto: l’architetto è un mestiere politico, dopotutto il termine politica deriva da polis che è la città. La risposta come la intendo io è questa: quello che farò è un progetto di lungo respiro, come la carica di senatore a vita impone. Ma quale progetto?
Dagli studi liceali è affiorato alla memoria il giuramento degli amministratori agli ateniesi: prometto di restituirvi Atene migliore di come me l’avete consegnata. Per tutte queste ragioni ho pensato di lavorare sulla trasformazione della città, sulla sua parte più fragile che sono le periferie dove vive la stragrande maggioranza della popolazione urbana. Credo che il grande progetto del nostro Paese sia quello delle periferie: la città del futuro, la città che sarà, quella che lasceremo in eredità ai nostri figli. Sono ricche di umanità, qui si trova l’energia e qui abitano i giovani carichi di speranze e voglia di cambiare. Ma le periferie sono sempre abbinate ad aggettivi denigranti.
Renderli luoghi felici e fecondi è il disegno che ho in mente. Questa è la sfida urbanistica dei prossimi decenni: diventeranno o no parte della città? Riusciremo o no a renderle urbane, che vuole anche dire civili? Al contrario dei nostri centri storici, già protetti e salvaguardati, esse rappresentano la bellezza che ancora non c’è.
Poi la periferia fa parte del mio vissuto, da sempre. Sono nato e cresciuto a Pegli, nella periferia di Genova verso Ponente vicino ai cantieri navali e alle acciaierie. Nel ‘68 quando ero studente al Politecnico di Milano vivevo a Lambrate e andavo rigorosamente in periferia per fare politica e anche per ascoltare jazz al Capolinea, in fondo ai Navigli come dice il nome stesso.
E anche oggi i miei progetti più importanti sono la riqualificazione di periferie urbane, dalla Columbia University ad Harlem, al nuovo palazzo di giustizia della banlieue di Parigi al polo ospedaliero di Sesto San Giovanni che sorgerà dove un tempo c’era la Falck. Un’area che gli anglosassoni chiamano brownfield, ovvero un terreno industriale dismesso.
Questo è un punto importante nel nostro progetto di rammendo. Oggi la crescita delle città anziché esplosiva deve essere implosiva, bisogna completare le ex aree abbandonate dalle fabbriche, dalle ferrovie e dalle caserme, c’è un sacco di spazio a disposizione. Si deve intensificare la città, costruire sul costruito, sanare le ferite aperte. Di certo non bisogna costruire nuove periferie oltre a quelle esistenti: devono diventare città ma senza espandersi a macchia d’olio, vanno ricucite e fertilizzate con strutture pubbliche. È necessario mettere un limite a questo tipo di crescita, non possiamo più permetterci altre periferie remote, anche per ragioni economiche. Diventa insostenibile portare i trasporti pubblici, realizzare le fogne, aprire nuove scuole e persino raccogliere la spazzatura sempre più lontano dal centro.
Per questo con il mio stipendio da parlamentare ho messo a bottega sei giovani architetti che si sono occupati nell’ultimo anno di rendere più vivibili lembi di città a Roma, Torino e Catania. E il prossimo anno saranno altri ragazzi a raccoglierne il testimone e a continuare.
Mi piace parlare di giovani perché sono loro e non io il motore di questa grande opera di rammendo e sono loro il mio progetto. Le periferie e i giovani sono le mie stelle guida in questa avventura da senatore, e non solo. Mi piace anche il concetto di bottega che ha una nobile e antica origine, una sorta di scuola del fare che in questo caso significa fare per il nostro Paese.
Anche perché i nostri ragazzi devono capire quanto sono stati fortunati a nascere in Italia. Siamo eredi di una storia unica in tutto il pianeta, siamo nani sulle spalle di un gigante che è la nostra cultura.
Qualcosa noi del G124 abbiamo fatto: si tratta di piccoli interventi di rammendo che possono innescare la rigenerazione anche attraverso mestieri nuovi, microimprese, start up, cantieri leggeri e diffusi, creando così nuova occupazione. Si tratta solo di scintille, che però stimolano l’orgoglio di chi ci vive. Perché come scriveva Italo Calvino: “ci sono frammenti di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici”. Questi frammenti vanno scovati e valorizzati. Ci vuole l’amore, fosse pure sotto forma di rabbia, ci vuole l’identità, ci vuole l’orgoglio di essere periferia.

La Stampa 26.11.14
Opera Roma, sì dei lavoratori


L’assemblea dei lavoratori ha ratificato a stragrande maggioranza (con sette no e quattro astenuti) l’accordo votato due giorni fa dal Cda del Teatro dell’Opera di Roma. Un’assemblea comunque «assai infuocata» riguardo al taglio dei salari accessori per tutti i 460 dipendenti. Quello di ieri era l’ultimo passaggio per evitare il licenziamento collettivo di 180 lavoratori del Coro e dell’Orchestra della Fondazione lirica, che ormai appare scongiurato.

Corriere 26.11.14
Le allergie nel menu
La trasparenza nei menu diventa un obbligo dal 13 dicembre, in applicazione del Regolamento europeo
di Mario Pappagallo


Sono otto milioni gli allergici ad alimenti in Italia e la metà rischia la vita per choc anafilattico se mangia ciò che gli è proibito. Dodici milioni circa sono gli intolleranti e, infine, quasi un milione e mezzo i celiaci diagnosticati. Per tutti questi cittadini un manicaretto, a parte il gusto, deve essere sicuro.
La trasparenza nei menu diventa un obbligo dal 13 dicembre, in applicazione del Regolamento europeo 1169 del 2011, già applicato da altri Stati Ue. Da noi solo il 28 novembre si discuterà dei decreti applicativi con i ministeri dello Sviluppo economico e della Salute: modalità e sanzioni.
In ritardo, ma senza più possibilità di rinvii. Dal 13 dicembre, entrando in un ristorante, in un self service, in un bar, in una mensa, in gelateria, in una gastronomia, le diverse proposte del menu saranno accompagnate o da un «foglietto illustrativo» (come per i farmaci) che segnalerà la presenza, se prevista, di uno o più dei 14 principali nutrienti fonte di allergia. O presentate da un «addetto agli allergeni» che li elencherà quando si sceglie un piatto, affiancando il cameriere e il sommelier. E tutto dovrà essere aggiornato cambiando i menu. Trasparenza degli ingredienti, anche se nascosti nelle pieghe della conservazione seppur naturale. Vedi i solfiti per «lucidare» frutta e verdura o quelli del vino bianco, vedi il lattosio nei salumi, vedi lo zucchero nel pane, vedi il lisozima di uovo che arricchisce il grana padano ma non il reggiano. Un allergico alle uova deve sapere cosa gli è stato grattugiato sulla pasta. La Ue prevede anche un continuo aggiornamento degli allergeni.
Protestano le categorie di settore, esultano gli allergologi. «A tre anni dalla pubblicazione del regolamento europeo — denuncia Lino Enrico Stoppani, presidente di Fipe (Federazione italiana pubblici esercizi) — gli esercenti italiani attendono ancora di sapere quali indicazioni dovranno fornire e come lo dovranno fare. E non sanno l’entità delle sanzioni in caso di inadempimento. L’inerzia dei nostri governanti è inaccettabile». Tra i politici, duro il governatore del Veneto Luca Zaia: «Una follia da burosauri che coinvolgerà tutta la filiera di produzione, imballo, cucina e somministrazione di alimenti e bevande, con costi per gli esercenti non inferiori ai 50 milioni di euro».
Ma la salute viene prima di tutto. Giselda Colombo, allergologa del San Raffaele di Milano, applaude: «Finalmente la trasparenza a tutela della salute. Ieri, un bambino allergico all’uovo ha avuto uno choc anafilattico con ricovero d’urgenza dopo aver mangiato un hamburger preparato dalla nonna. Perché? Il macellaio aveva usato l’albume d’uovo per amalgamare la carne. Anche una frittura di pesce con olio di arachidi potrebbe causare uno choc. Non deve accadere».
Quali gli alimenti, e i loro derivati, da segnalare? Eccoli: i cereali contenenti glutine; i crostacei; le uova; il pesce; le arachidi; la soia; il latte e il lattosio; la frutta a guscio (mandorle, nocciole, noci, pistacchi); il sedano; la senape; i semi di sesamo; l’anidride solforosa e i solfiti se superiori a determinate concentrazioni; i lupini; i molluschi.
Dal 13 dicembre saranno evidenziati nel menu o narrati. E il cittadino allergico pretenda di sapere. È un suo diritto. Può salvargli la vita.

Repubblica 26.11.14
Ristoranti
Il bugiardino delle allergie ora entra nel menu
I gestori dei locali in rivolta contro un regolamento comunitario che da metà dicembre obbliga a segnalare la presenza nei piatti di sostanze che provocano intolleranze
di Cristiana Salvagni


NON ci sarà più ingrediente segreto che tenga. Dal 13 dicembre il menu dei piatti al ristorante diventerà come il bugiardino dei medicinali in farmacia: un minuziosissimo elenco di cibi e componenti. Che più che prendere per la gola gli affamati con i nomi appetitosi delle pietanze informerà i clienti della presenza o meno degli allergeni, cioè di tutte quelle sostanze, dal glutine al lattosio, responsabili delle intolleranze alimentari di due milioni e mezzo di italiani e di 21 milioni di europei.
A prescriverlo è un regolamento comunitario che entrerà in vigore in contemporanea in tutti i paesi membri e che obbliga le imprese che operano nell’alimentare, preconfezionato e non, a indicare in etichetta i componenti che potrebbero scatenare nei soggetti sensibili delle reazioni pericolose. Quindi i già citati glutine e lattosio, presenti per esempio nella pasta e nella mozzarella di una pizza margherita, ma anche il sedano frequente nei concentrati di pomodoro per fare i sughi, e poi le uova, i crostacei, la soia, il pesce, la senape e i molluschi.
L’obiettivo è garantire la trasparenza ai consumatori e metterne al sicuro la salute. Ma rischia di trasformarsi in un boomerang per gli esercizi commerciali più piccoli, già sul piede di guerra. «Non facciamo i chimici, il nostro è un mestiere artigianale. Ciò che rende celebre l’enogastronomia italiana è la ricchezza degli ingredienti locali che cambiano a ogni stagione e l’estro ai fornelli: codificare i piatti tipici, svilirli in una formula sempre uguale neanche fossero dei medicinali è mortificante», spiega Massimo Zanon, ristoratore e presidente della Confcommercio Veneto, la regione da cui è partita la rivolta delle 300mila imprese del nostro paese tra trattorie, bar, tavole calde, catering, mense, pizzerie e pub che non ci stanno. Perché oltre a svilire la creatività dei nostri chef, la norma solleva ostacoli pratici.
«I menu variano di continuo, i catering e i buffet hanno centinaia di prodotti diversi, composti di materie prime che a loro volta cambiano a seconda delle forniture», dice Erminio Alajmo, presidente della Fipe veneta. «E noi dovremmo scrivere e aggiornare più volte al giorno le etichette? Non è una questione di cattiva volontà ma di reale impossibilità di farlo». Rincara la dose il consigliere delegato della Confcommercio Edi Sommariva: «Alcuni ristoratori pensano di sostituire i prodotti freschi del territorio con quelli dell’industria alimentare già etichettati: è quello che vogliamo?».
Per correre ai ripari Confcommercio ha chiesto al governo un decreto urgente, che come già fatto in altri Paesi europei, dalla Gran Bretagna alla Grecia passando per Olanda e Germania, introduca per gli alimenti non pre-imballati, quindi preparati al momento, la possibilità di comunicare la lista degli allergeni a voce. «La comunicazione scritta ha il pregio della chiarezza ma diventa un problema insormontabile per i piccoli operatori che fanno la spesa quotidiana al mercato, come i bar e le trattorie » commenta il responsabile nazionale di legislazione e impresa Roberto Cerminara.
«A noi sta a cuore la salute del cliente, se ne rovino uno sono io stesso rovinato, per questo devono darci la possibilità di avvertirlo a voce, come abbiamo sempre fatto» continua Zanon. «Chiunque soffra di allergie lo dice al ristoratore e lui consiglia i piatti da scegliere e li fa preparare di conseguenza, in pentole non contaminate. Obbligarci a liste infinite delle quattordici categorie di allergeni ci fa sentire degli scribacchini e ingabbia le ricette in standard che non riflettono le varietà della cucina romana, toscana, umbra, friulana o veneta. Danneggia i piatti tipici e crea una inutile burocrazia».
Se in Europa le etichette dovranno indicare nel dettaglio anche i valori nutrizionali del cibo e la comunicazione degli allergeni sarà scritta o orale, a seconda della norma varata per recepire il regolamento, oltreoceano sta per scattare la guerra aperta all’obesità. La Food and Drug Administration degli Stati Uniti, cioè l’agenzia per gli alimenti e i medicinali, ha varato ieri un nuovo obbligo per pizzerie, ristoranti, chioschi e negozi alimentari: quello di indicare le calorie contenute in ogni piatto. Perfino se si tratta del cartoccio di pop corn comprato al cinema. Paese che vai, menu pazzo che trovi.

Repubblica 26.11.14
Sigarette, scarpe, vestiti il suk dei disperati che rivende la merce trovata nella monnezza
Napoli. Davanti alla stazione gli ambulanti abusivi bivaccano sui marciapiedi attirando frotte di compratori
Residenti in rivolta
di Antonio Di Costanzo


NAPOLI Il mercato dei rifiuti inizia all’alba a corso Garibaldi nei pressi di Porta Nolana. Davanti alla stazione della Circumvesuviana, che trasporta frotte di turisti a Pompei, c’è già la folla. I nomadi hanno sistemato a terra la mercanzia prelevata dai cassonetti della spazzatura durante la notte. C’è un po’ di tutto. Scarpe, vestiti, giocattoli. Andrea e la moglie vengono dall’Europa dell’Est. Studiano una grossa pentola di ferro. È un po’ ammaccata e priva di un manico, ma la coppia è decisa ad acquistarla. Provano a trattare sul prezzo. Offrono pochi centesimi e vogliono barattare della chincaglieria che hanno portato allo scopo. L’anziana Rom non cede.
Più avanti un uomo prende in mano una modellino di una Ferrari. Lo vorrebbe regalare al figlio. Il suk della disperazione attira gente da tutta la città. Sono per lo più immigrati, ma si iniziano a vedere anche italiani. Segno che la crisi economica non guarda in faccia nessuno. Di fronte ai nomadi ci sono i magrebini, riciclano rifiuti in via Cesare Carmignano. La strada, parallela al corso Garibaldi, è un suk maleodorante dove viene messa in vendita spazzatura a chi si può permettere solo questo.
Gli abitanti sono esasperati. Domenica è scoppiata la rivolta. Da un lato gli stranieri, dall’altro gli italiani che dai palazzi hanno gettato giù secchi d’acqua, mentre “quelli”, come vengono indicati in maniera dispregiativa, hanno risposto lanciando bottiglie. Tutto è iniziato per un incidente: una ragazza ha calpestato la mercanzia esposta davanti al portone. Un immigrato l’ha strattonata. È esploso il finimondo. Segno tangibile che la tolleranza è terminata.
Il via vai davanti alla merce esposta continua. Si vende di tutto. Anche oggetti che sembra impensabile possano avere mercato come joystick, vecchi computer, telecomandi, autoradio. Il pezzo forte è un grande pupazzo di Puffo, recuperato poco prima dalla “monnezza” per essere rivenduto. Rispetto al resto costa molto, circa cinque euro. Ci sono anche un paio di pinne, una caffettiera e vari modelli di occhiali, con lenti, o solo montature. Tra l’immondizia spuntano anche cellulari e qualche orologio. Giubbotti, maglioni e scarpe sono i pezzi più ambiti per chi è venuto in cerca di una vita migliore e adesso tira avanti bivaccando tra le strade a ridosso della “Ferrovia”.
Una convivenza sempre più complicata quella tra abitanti e ambulanti: in una città che di tolleranza ne ha sempre dimostrata tanta, adesso, sembra prevalere l’esasperazione. «Rifaremo le Quattro giornate di Napoli — urla chi ha casa in via Carmignano — se ne devono andare non rispettano niente, trattano le strade come latrine, ci insultano, sono violenti e si ubriacano. Se protestiamo ci minacciano. Siamo diventati prigionieri a casa nostra ».
Anna Esposito è una commercialista, abita nel palazzo bersagliato dal lancio di bottiglie: «Abbiamo paura di uscire di casa. L’altra sera una prostituta mi ha scortato fino al portone. L’ho ringraziata di cuore: c’era troppa brutta gente in giro per camminare da sola». A tutto questo si aggiunge la guerra tra poveri che contrappone ambulanti napoletani sgomberati dalle stesse piazze che ora vengono utilizzate abusivamente dagli stranieri. «La situazione sta precipitando — dice Francesco Chirico, presidente della seconda Municipalità — ho scritto al prefetto. Si rischia una deriva violenta». Da giorni nel quartiere si vedono gruppi politici di destra. CasaPound offre protezione ai cittadini e si teme una Tor Sapienza. I segnali ci sono tutti in strade che da troppo tempo si nutrono di rabbia, povertà ed emarginazione. Il Comune è pronto a varare un’ordinanza contro il mercatino dei rifiuti, ma che fine faranno le decine di immigrati che vivono in strada? Tra loro c’è un anziano. Raccoglie mozziconi da terra. Svuota i rimasugli di tabacco e li rulla con dei filtri, realizzando sottili sigarette artigianali. Quelle che non fuma le vende. Campa così.

Corriere 26.11.14
Ferguson, la rabbia e la legge nell’America che si incendia
La decisione frutto di un istituto superato e non rappresentativo
di Sabino Cassese


Non c’è dubbio che il poliziotto bianco Darren Wilson abbia sparato all’afroamericano Michael Brown, causandone la morte. Ma il diritto permette alla polizia e anche a privati, in alcune circostanze, di far ricorso alle armi. In questo caso, il Grand jury ha accertato che non vi è una «probable cause» (un ragionevole fondamento) per accusare il poliziotto di uno di cinque delitti, che vanno dall’omicidio volontario premeditato all’omicidio colposo. Così l’accusatore della Contea di St. Louis, Missouri, Usa, ha comunicato le conclusioni raggiunte da una giuria popolare composta di nove bianchi e di tre afroamericani. La conseguenza è che, salvo che emergano nuove prove, non vi sarà un regolare processo a carico dell’accusato.
Anche nei Paesi di più antica e consolidata civiltà giuridica permangono istituti che sono divenuti, col progresso dei tempi, incomprensibili. Paesi come gli Stati Uniti e il Regno Unito, che hanno insegnato al mondo la democrazia e la giustizia, conservano istituti che confliggono con i principi ormai comunemente accettati di democrazia e giustizia. L’istituto del Grand jury è uno di questi. Esso ha funzioni accusatorie e di investigazione, come in una sorta di udienza preliminare. Davanti ad esso non si svolge un processo in contradditorio; le sue decisioni bloccano, anzi, un esame aperto, contenzioso. La giuria si riunisce senza quelle garanzie di pubblicità che — come scrisse Jeremy Bentham — consente al pubblico di giudicare i giudici. I giurati, scelti mediante sorteggio e tenuti al segreto, si riuniscono senza la presenza di un giudice professionale, non rappresentano un campione della società e non sono preparati per svolgere funzioni investigative. La sua attività non consiste nel decidere, oltre ogni ragionevole dubbio, se è stato commesso un delitto, ma solo nell’accertare se sia probabile che sia stato commesso un crimine. Ma le conclusioni del Grand jury impediscono lo svolgimento del processo vero e proprio.
I difetti del sistema sono stati attenuati finora dalla circostanza che, nella grandissima maggioranza dei casi, la giuria popolare segue le indicazioni dell’accusa e consente lo svolgimento del processo penale.
Nel caso di Ferguson, accusa e giuria sapevano che la questione era molto controversa, sia per l’aspetto razziale, sia perché non era in discussione la responsabilità dell’accusato. La giuria ha lavorato intensamente per tre mesi. Si è deciso di rendere pubblici tutti gli atti: chiunque può leggere in Rete i 24 volumi in cui sono raccolti, insieme con le foto, le testimonianze di 60 persone, le risultanze dell’autopsia. Resta la domanda: perché non lasciar svolgere un regolare processo?
La conclusione è che una persona è stata uccisa. Nessuno ha dubbi sul responsabile. Questo non è stato né condannato, né assolto. Semplicemente, non viene accusato. La giuria popolare con funzione di accusa fu abolita in Francia da Napoleone. Negli Stati Uniti resiste ancora alle molte proposte di abolizione, tutte fondate sulla osservazione che ha perduto quella funzione di garante dell’indipendenza dell’accusa che doveva avere in origine. C’è ora solo da sperare che le procedure investigative aperte dal Dipartimento federale di giustizia, divisione dei diritti civili, per accertare se la polizia locale seguisse pratiche che comportano discriminazione razziale, possano condurre a un risultato meno ingiusto.

Repubblica 26.11.14
Ferguson in fiamme “Anche le vite dei neri meritano giustizia” E interviene Obama
Violenze per l’assoluzione dell’agente che uccise Brown Il presidente: intollerabile ma chi protesta va ascoltato
di Federico Rampini


FERGUSON «MOLTI americani sono sconvolti — dice Barack Obama — perché hanno l’impressione che la giustizia non sia uguale per tutti. Bisogna scegliere i modi costruttivi di rispondere, non con attacchi criminali. Bisogna dare più attenzione alle proteste civili che si stanno svolgendo in queste ore. Sono pronto a lavorare con loro per assicurare che la legge e l’ordine siano applicati in modo imparziale. Non è solo il problema di Ferguson, è il problema di tutta l’America».
«Io chiamo la Guardia nazionale, schiero migliaia di soldati per proteggere le vostre case, i vostri negozi. Scuole chiuse tutta la settimana ». Questo invece è un proclama da stato d’assedio, lo lancia il governatore del Missouri, Jay Nixon, con 2.200 soldati in arrivo nella cittadina di Ferguson. L’annuncio marziale Nixon lo dà circondato da uomini in tuta mimetica, come dal fronte di guerra. Troppo tardi? Molti lo accusano di avere lasciato volutamente la piazza ai violenti, la prima sera del verdetto.
“Burn this bitch down, Bruciate questa fottuta città”. L’urlo del patrigno di Michael Brown risuona al ritmo di rap, è diventato l’inno delle bande di giovani che di notte fronteggiano la polizia di Ferguson, assaltano negozi, incendiano auto, sotto le telecamere venute da tutto il mondo, coi riflettori degli elicotteri che piovono dall’alto, l’odore acre dei lacrimogeni che brucia la gola. L’altra Ferguson è quella del giorno, quando alla luce del sole sfilano le manifestazioni pacifiche, il sindaco raduna tutti i pastori afroamericani, e risuona dai leader religiosi l’appello alla riconciliazione: «Basta violenza, basta distruzione e dolore».
Colui che uccise il 9 agosto Michael Brown, 18 anni, nero e disarmato, non sarà processato. Non c’è motivo d’incriminare l’agente di polizia Darren Wilson, 28 anni, bianco: «Mi dispiace molto per la perdita di una vita, ma ho fatto semplicemente il mio lavoro, non è stata un’esecuzione». Mentre il pubblico ministero Bob Mc-Culloch annunciava le conclusioni del Grand Jury di contea, la mamma di Michael esplodeva in un pianto convulso, abbracciata dagli amici e circondata da centinaia di simpatizzanti. Gli schermi tv, i display degli smartphone e dei tablet si sdoppiavano: da una parte Barack Obama e il suo appello a «esercitare in modo civile il diritto di protesta, la libertà di manifestare pacificamente, perché quel che accade a Ferguson indica sfide più grandi che dobbiamo affrontare come nazione»; dall’altra le fiamme e le colonne di fumo, il dolore dei familiari di Brown ma anche quello dei piccoli commercianti afroamericani del quartiere, «i cui sogni sono stati bruciati negli assalti», dice il capitano nero della polizia Ron Johnson. Da New York a Washington, da Chicago a San Francisco, da Atlanta a Baltimora le proteste non violente sono dilagate in centinaia di città americane. Gli striscioni e le T-shirt di chi è sceso in piazza lanciano le stesse grida: «Siamo tutti Michael Brown», «Anche le vite dei neri hanno valore», «Ho le mani alzate, non mi sparate».
Quel che accadde davvero il 9 agosto scorso a Ferguson, non si saprà mai. Il procedimento del Grand Jury prevede una segretezza eccezionale. Il magistrato Mc-Culloch, regista e manovratore del Grand Jury (9 bianchi, 3 neri), prima ancora di annunciarne il risultato aveva attaccato i media incolpandoli di ricostruzioni distorte. La sua verità alternativa è affidata soprattutto al racconto dello stesso Wilson. Che intercetta Brown quel 9 agosto, all’inizio, solo perché cammina per strada invece di stare sul marciapiedi. Poi gli vede dei sigari in mano, lo sospetta autore di un furto commesso poco prima in una tabaccheria. A quel punto la ricostruzione di Wilson diventa drammatica. Il controllo d’identità diventa colluttazione. L’altro è più grosso, più alto e più forte, lo terrorizza. «Mi urla che sono una femminuccia e non avrò il coraggio di sparargli, mi sbatte la portiera della mia auto addosso, mi strappa l’arma di mano». A un certo punto Wilson — che il giorno dopo l’assoluzione è una star e rilascia la prima intervista tv — lo descrive come L’Incredibile Hulk, gigante dei fumetti e del cinema, che gli si avventa addosso anche quando è già crivellato di colpi. 12 pallottole, alla fine, prima che Brown giaccia crivellato al suolo dove rimarrà a lungo, abbandonato dalla polizia. Ma non c’è nulla che basti a incriminare l’agente. Il magistrato Mc-Culloch era sospetto dall’inizio, le sue sentenze sono sempre dalla parte della polizia: per convinzioni di destra e per ragioni biografiche, suo padre era poliziotto e fu ucciso da un nero.
Obama ha un’altra indagine in corso, quella federale affidata al suo segretario alla Giustizia Eric Holder, che potrebbe mettere sotto accusa l’intera polizia di Ferguson (95% bianchi su una popolazione al 60% nera) per abusi contro i diritti civili. Ma il primo presidente afroamericano vuole anche mandare un messaggio ai suoi, perché sia netta la presa di distanza dalle «reazioni negative che fanno spettacolo in tv», un’esplosione di rabbia che lui giudica fin troppo prevista e perfino coreografata anche dalle autorità locali. Di certo non ha più illusioni di essere il primo presidente di un’America post-razziale. E se negli anni Sessanta le rivolte avvenivano nei quartieri poveri, Ferguson è un sobborgo del ceto medio, abitato da neri che inseguivano il loro American Dream.

Repubblica 26.11.14
Quel “Tank Man” del Missouri diventato un’icona “Come a Tienanmen”
Per i social network e i media Usa la sagoma di uno sconosciuto di fronte ai mezzi di polizia è ora il simbolo dell’impotenza di fronte a un potere troppo grande e sordo
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON SU UNA strada centrale dal gentile nome di Florissant, che da Ferguson riporta dritta verso l’eterno incubo americano in bianco e nero, un omino — sembrano sempre tutti omini — alza le mani per fermare da solo i corazzati della polizia e, su tutti i social network e poi sui media statunitensi a partire da Usa Today, è subito Tienanmen 1989. Nasce, nella notte del fuoco, del fumo, delle lacrime nello Heartland, proprio nel cuore dell’America dove il fiume Missouri si sposa con il padre Mississippi a St. Louis, “Tank Man”, l’uomo del tank, lo sconosciuto che diventa l’icona instant di questa ennesima, banale, già vista e sempre tragica ricaduta nella giustizia non giusta.
Naturalmente il Missouri non è la Cina del 1989, ma la collera di chi si sente oppresso da forze troppo grandi e troppo asfissianti non conosce ideologie né Stati. Dunque sarà lui, per ora uno sconosciuto, un altro monumento vivente all’impotenza e alla solitudine di tutti coloro che nel mondo si sentono schiacciati da cingoli di una forza troppo grande e troppo sorda per poter ascoltare. Il fermo immagine della sua sagoma, minuscola di fronte ai blindati di una forza di polizia che avanza in formazione da falange per sgombrare l’arteria centrale di Ferguson, ripreso dalle telecamere della Nbc appollaiate sui tetti per sfuggire ai lacrimogeni, agli spari, ai lanci di mattoni e pietre che hanno ferito altri reporter, entra nell’album dei brutti ricordi e della cattiva coscienza americani. Con il volto mite di Rosa Parks la ribelle dell’autobus, con i cani lanciati contro i dimostranti per i diritti civili in Alabama, con le foto dei ragazzi uccisi nel Mississippi, con i cappucci a cono dei cavalieri bianchi delle tre “K”.
Come nella piazza della Porta del Paradiso, la Tienanmen davanti alla Città Proibita, anche questa riproduzione americana venticinque anni dopo dell’omino contro i corazzati, riesce per qualche momento a fermare pacificamente l’avanzata della falange, ma si capisce che la sua è una vittoria temporanea. Lo è perché dietro quei mostri di fari, celle fotoelettriche, lampeggianti e autoblindo mostruosi, che fanno apparire la scena come una sequenza da sci-fi, non c’è, come nella Cina del 1989, solo una dirigenza politica terrorizzata dalla rivolta, ma c’è la maggioranza di una cittadinanza, bianca, ma anche nera, latina, asiatica che spinge i “Transformer” della polizia a reprimere.
Dalle rivolte dei ghetti nel 1968, che da Watts a Los Angeles al centro di Washington portarono le fiamme a lambire gli edifici del potere civile, passando per i giorni di Rodney King nel 1991, quando entrai in East L.A. seguendo le stesse colonne corazzate che avevo visto qualche settimana prima entrare a Kuwait City, le sequenze si ripetono perché si vuole che si ripetano. Perché, come nella notte del fumo e del fuoco hanno ripetuto i sapienti della legge interpellati da tutte le tv, il procuratore della Contea di St. Louis che ha condot- to l’inchiesta e l’ha portata davanti ai nove bianchi e ai tre neri che formavano il Gran Giurì, ha organizzato, strutturato, pilotato la procedura di incriminazione per ottenere il «non luogo a procedere». Per proteggere il poliziotto.
«Tutti noi avvocati e procuratori e giudici sappiamo benissimo — ha detto Jeffrey Tobin, consulente legale per la Cnn e per il New Yorker — che se un Procuratore lo vuole, può ottenere dal Gran Giurì l’incriminazione di un panino al prosciutto. Bob McCulloch, il procuratore della Contea, voleva arrivare al non luogo a procedere contro il poliziotto che ha ucciso Michael Brown e ovviamente ci riuscito». Non ingannino le immagini dal fronte che corrono oggi sugli schermi delle tv di tutto il mondo o i sondaggi-instant o le reazioni nervose dei social network: la maggioranza dell’America bianca sta dalla parte di chi ha sparato, non del bersaglio caduto.
Questa, non le colonne blindate inarrestabili, è la marcia della follia che l’“omino” della South Florissant Avenue voleva fermare alzando le mani per mostrare di essere inerme, inoffensivo, ben diverso da coloro che erano arrivati nello “Heartland”, a St. Louis per mescolarsi al dolore dei locali e appiccari i falò della rivolta. È la certezza — oggi più che mai rinfocolata da una decisione giudiziaria che non trova ragione per processare, non per condannare, un agente che ha esploso dieci rivoltellate a cinque metri di distanza su un giovane disarmato in pieno giorno — che la partita sia truccata, che il risultato sia scritto prima dell’inizio.
Eppure Ferguson non è il Sud delle bombe nelle chiese Battiste di Birmingham che uccisero bambine afro durante il catechismo, non è la Georgia o il Mississippi delle croci in fiamme davanti alle case degli ex schiavi. St. Louis, sotto il colossale arco di acciaio dal quale la vista si estende nella vertigine della Grande Prateria a Ovest, è la città che da due secoli incardina l’Est al West, lo snodo dei grandi sentieri che conducevano i carri coperti e le mandrie nella corsa alla Frontiera, lungo quella che oggi è l’autostrada più rettilinea d’America, la numero 70, fino al Colorado.
Non servono i luoghi comuni dello Zio Tom o dell’Ispettore Tibbs per uno Stato come il Missouri, che nella Guerra Civile si divise, in una guerra interna, fra Nord e Sud, fra schiavisti e abolizionisti, inviando battaglioni dei propri figli a morire a migliaia sotto i panni grigi come sotto quelli blu. È sempre stata, e l’icona del Tank Man davanti ai blindati lo ricorda e lo simboleggia, una terra di frontiera nelle crisi, negli scontri, nelle contraddizioni, e nelle opportunità. Ma anche di verità, come queste ore ci mostrano e come predicava un uomo che proprio qui, venendo dall’Ungheria e comprando il quotidiano locale Post Dispatch, inventò il giornalismo moderno che ci ha dato la foto dei “Tank Men” sulla Tienanmen e sulla Florissant Avenue. Si chiamava Joseph Pulitzer e sarebbe stato orgoglioso, oggi, di quel fotogramma che racconta la storia.

Il Sole 26.11.14
Il nodo razziale di un Paese ancora fermo agli Anni 70
di Mario Platero


Il giorno dopo, nel dibattito sulla sentenza di Ferguson e sugli incidenti di lunedì notte, ci sono tre tematiche dominanti su cui riflettere. Fra queste la componente economica e sociale è quella di cui si parla meno. Se ne dovrebbe parlare di più perché è alla radice del malessere che riesplode con puntualità preoccupante: se il tasso di disoccupazione americano è al 5,8%, quello per la popolazione nera è all’11,5% e per i teenager afroamericani arriva addirittura al 24%. Gli afroamericani poveri vivono ghettizzati, crescono in famiglie disfunzionali, in un ambiente dove prevale la cultura delle gang, della violenza e della droga.
Il fatto che ci sia un presidente afroamericano alla Casa Bianca e che molti neri siano ormai parte del “mainstream” e benestanti non ha cambiato un tessuto sociale che porta un poliziotto bianco a uccidere per paura un diciottenne disarmato. Con un interrogativo di fondo: come mai Barack Obama, il presidente afroamericano, ben conscio del “racial profiling” per un nero, per averlo provato lui stesso, non ha messo a punto un progetto economico e sociale per affrontare alla radice il problema razziale americano? Questo dovrebbe essere l'interrogativo di fondo su cui riflettere: perché Obama non dedica gli ultimi due anni del suo mandato a un progetto di emancipazione degli afroamericani?
Invece nei talk show si soffia sul fuoco della tensione. Il tema che prevale è la polemica sulla decisione del Gran Giurì di non incriminare Darren Wilson per l’omicidio di Michael Brown. Come ha detto con eloquenza Benjamin Crump, uno dei due avvocati della famiglia Brown, Mike è il simbolo della vulnerabilità dei giovani afroamericani a Los Angeles, a New York, a Cleveland, a Philadelphia e in molte altre grandi città americane dove l’essere neri equivale a essere colpevoli. Città dove giovani come Mike muoiono ogni giorno uccisi dalla polizia solo perché sono neri o perché abitano in ghetti degradati. L’ultimo caso è di due giorni fa a New York riguarda Akai Gurley, 28 anni, andava a farsi le treccine, aveva preso le scale, ma un poliziotto, una matricola, lo ha visto all’improvviso si è spaventato, aveva il dito sul grilletto e ha sparato accidentalmente uccidendolo sul colpo. Akai lascia due bambine ed è morto solo perché era nero.
Nel caso di Brown la famiglia continua a rifiutare il fatto che la reazione di paura di Wilson poteva essere giustificata da un attacco ingiustificato al poliziotto e dal fatto che Mike aveva rubato poco prima in un negozio. Ma oggi si parla di Mike e non si parla di Akai. Dietro il simbolo Mike ci sono gli Al Sharpton gli attivisti civili di pasta molto diversa da quella di Martin Luther King, che invece del pacifismo stimolano la resistenza e il conflitto.
C’è anche un terzo aspetto: lavorare per il recupero di un rapporto più sano con la polizia. Trovare una soluzione per diminuire il numero dei ragazzi uccisi per nulla. Una di queste è stata proposta ieri, la legge Michael Brown: vuole obbligare i poliziotti a indossare sempre una videocamera. Forse un’iniziativa utile. Ma non risolutiva. Colpisce come il dibattito il giorno dopo sia soprattutto su questo: sulle carte del Gran Giurì, sulle ingiustizie, sui rapporti con la polizia, sicuramente una delle più violente del mondo. Ma nel 2014 non si può essere fermi al 1970. Soprattutto quando alla Casa Bianca c’è Barack Obama. Non sappiamo se lo farà, ma un progetto da costruire coi repubblicani per affrontare il problema razziale americano dovrebbe diventare una priorità per Obama. E una proposta nuova, possibile, con investimenti massicci in educazione e in addestramenti, in assistenza sociale per le famiglie in maggiore difficoltà potrebbe diventare uno dei grandi successi della sua amministrazione. Strano in effetti che con molti afroamericani alla Casa Bianca - oltre a Barack Obama ci sono da Valerie Jarrett, Susan Rice e naturalmente Michelle Obama, ancora non sia pensato seriamente anche a questo.

l’ex premier britannico è notoriamenteil modello di riferimento di Matteo Renzi
La Stampa 26.11.14
Non c’è pace per Blair. “È amico dei dittatori”
Save The Children gli consegna un premio per l’impegno umanitario. E lo staff dell’Ong si ribella


Accusato da alcuni di essere un criminale di guerra, da altri di trascurare il suo ruolo di inviato in Medio Oriente per fare affari con dittatori di mezzo mondo, Tony Blair è di nuovo al centro delle polemiche, questa volta come destinatario di un riconoscimento che secondo i critici non merita.
Anzi, il conferimento del «Global Legacy Award» all’ex Primo ministro britannico da parte della Ong «Save The Children» è «moralmente riprovevole». A sostenerlo è lo staff stesso del gruppo per la protezione dei diritti dell’infanzia, come rivelato dal «Guardian». Lamentando di non essere stati consultati, o anche solo informati, 200 dipendenti hanno scritto una lettera per contestare una decisione che secondo loro mina la credibilità dell’organizzazione. «Consideriamo questo premio inopportuno, nonché un tradimento dei principi fondanti e dei valori di Save The Children», dicono.
Il premio, uno dei più prestigiosi dell’organizzazione umanitaria, è stato conferito in una serata di gala la settimana scorsa a New York cui hanno partecipato il regista-attore Ben Affleck con la moglie Jennifer Garner e altri Vip. Blair ha ringraziato con un discorso dai toni alti: «Brutalità, conflitto, intrigo, ossessione distruttiva a perseguire il proprio interesse esistono da quando esiste il genere umano. Ma nella la storia dell’uomo il desiderio implacabile di fare del bene non si è mai spento», ha detto.
Intanto infuriava la polemica. Il deputato George Galloway, noto per le sue posizioni radicali e per aver incontrato Saddam in Iraq, ha parlato di «premio grottesco ad un infanticida», mentre il direttore esecutivo di Human Rights Watch, Kenneth Roth, ha definito Blair «un uomo che difende qualunque dittatore lo paghi». Una petizione online firmata da 85,000 persone chiede la revoca dell’onorificenza.
A peggiorare le cose per Save The Children c’è il fatto che due persone vicine all’ex premier occupano posizioni di rilievo nel ramo britannico del gruppo: Justin Forsyth, che di Blair è stato consigliere, e Jonathan Powell, suo ex capo di gabinetto. Il gruppo si difende sottolineando che il premio è stato conferito dalla branca americana in assoluta indipendenza. È un riconoscimento, spiegano, al lavoro di Blair come Primo Ministro, in particolare per quando si è impegnato ad alleviare il debito dei paesi africani al G8 di Gleneagles nel 2005.
Blair attraverso un portavoce ha dichiarato di essere onorato per il premio. Ma l’ex primo ministro, un tempo popolare nel paese e non solo, sa di essere diventato un personaggio inviso a molti. L’aver trascinato il paese nella guerra in Iraq ha indelebilmente segnato la sua eredità politica, e consulenze assai redditizie in alcuni paesi con diritti umani a dir poco dubbi, come il Kazakhstan, non hanno giovato alla sua reputazione.

Corriere 26.11.14
Cina
Il capo dell’esercito e quella tonnellata di mazzette in cantina
Il generale Xu «vendeva» promozioni. Portati via lingotti d’oro, preziosi e banconote
di Guido Santevecchi


PECHINO Il generale Xu Caihou aveva una grande cantina sotto la sua bella casa di Pechino. E in quel seminterrato di oltre duemila metri quadrati gli agenti dell’anti-corruzione cinese hanno trovato una tonnellata di banconote tra yuan, dollari ed euro. Erano divise in cassette, ciascuna con un’etichetta che riportava il nome dell’ufficiale che aveva pagato una tangente per comprarsi la promozione. Xu è sotto inchiesta da marzo, ha confessato, è stato espulso: è il militare di grado più alto caduto per corruzione nella storia dell’Esercito popolare di liberazione, dal 1949. Per mesi la faccenda è stata trattata con discrezione, perché l’Esercito è un’istituzione sacra in Cina e ha tra i suoi ranghi 2,3 milioni di uomini e donne in armi.
Il generale Xu, 71 anni, era al vertice dell’apparato: dal 2004 al 2012 vicepresidente della Commissione centrale militare, il comando supremo; di fatto ne era il capo operativo, perché la carica di presidente spetta al segretario generale del partito nonché presidente della Repubblica. Ora però, alla stampa è stato dato il via libera per rivelare i dettagli della vergognosa condotta di Xu.
Così si è saputo che oltre alla tonnellata di denaro, nella cantina erano nascoste gemme, decine di chili di giada pregiata, antichità: tutto frutto della compravendita di gradi nelle forze armate. In garage c’era anche una limousine con il cofano imbottito di lingotti d’oro: il regalo a Xu da parte del vicecapo della logistica militare (anche lui è stato arrestato). E siccome in un esercito con 2,3 milioni di militari gli ufficiali in attesa di promozione sono tanti, il seminterrato sotto casa di Xu non bastava a contenere le mazzette: il comandante aveva dovuto affidare una parte del bottino all’autista e a una attendente, una ragazza che secondo la ricostruzione sarebbe stata anche la sua amante. Lei lo avrebbe anche truffato, sottraendogli molto denaro, ma il generale naturalmente non l’aveva potuta denunciare, per non tradirsi. Per portar via le banconote e il resto del materiale dalla cantina ci sono voluti dieci camion, per fare l’inventario di tutto una settimana di lavoro, hanno fatto sapere gli investigatori della Commissione di disciplina. Con i loro nomi segnati con precisione su ogni cassetta di denaro, anche gli ufficiali promossi per tangente ora rischiano di finire degradati e già sui giornali filtrano voci su prossimi arresti «molto in alto».
Finora la campagna anti-corruzione aveva colpito l’enorme macchina burocratica civile della Cina, il coinvolgimento dei militari è un’ulteriore prova di forza del presidente Xi Jinping. Dietro si intravede anche uno scontro politico, con una fazione dell’Esercito accusata apertamente di «deviazionismo ideologico».
Nelle ultime settimane sulla stampa e in tv sono comparse decine di immagini di Xi Jinping in giacca alla Mao verde oliva tra gli ufficiali. Li ha convocati a Gutian, la base dove nel 1929 Mao Zedong stabilì il principio che il partito controlla l’esercito (allora Armata Rossa). E da Gutian Xi ha ripetuto la parola d’ordine di Mao: «È il partito che comanda il fucile». Gli editoriali dei giornali hanno scritto di «forze nemiche» che cercano di sottrarre l’esercito dalla guida del partito per nazionalizzarlo; di «lotte ideologiche», di «idee politiche scorrette». Ieri un nuovo avvertimento: «Gli ufficiali debbono provare la loro devozione al partito, chi non lo fa e ricorre a clientelismo e nepotismo sarà degradato o espulso».

Corriere 26.11.14
Il Vaticano e la trattativa segreta
L’ambasciatore cinese a Roma vola a riferire al presidente Xi Jinping


L’ambasciatore della Repubblica Popolare in Italia, Li Ruiyu, si è imbarcato sul volo dell’Air China con destinazione Pechino. Il diplomatico è rientrato in patria per riferire al presidente Xi Jinping sullo stato dei negoziati in corso con il Vaticano. Le trattative ad alto livello tra Santa Sede e Celeste Impero sono riprese a giugno dopo quattro anni di interruzione. Dovrebbero portare al reciproco riconoscimento e all’apertura di una nunziatura apostolica a Pechino e di un’ambasciata cinese in Vaticano. Fin qui nulla di nuovo. Nel senso che tali discussioni vanno avanti, discretamente, da anni, con alti e bassi. Noti anche i punti di dissidio: il potere esclusivo di nomina dei vescovi da parte del Papa — respinto finora dal governo di Pechino — e l’esistenza di una «Chiesa patriottica» fedele al Partito comunista e di fatto sganciata da Roma. Tuttavia alcune novità sono rilevanti e questo spiega la staffetta dell’ambasciatore Li Ruiyu. Xi vuole imprimere la sua «impronta imperiale» facendo della Cina un Paese capace di dialogare con tutti. Glielo consente la sua forza oltre che la sua rinnovata «ortodossia ideologica». Dunque, favorita anche da gesti di apertura quali il permesso di sorvolo all’aereo papale diretto in Corea e il messaggio di Francesco a Xi e al «bello e nobile» popolo cinese, la volontà di riallacciare i rapporti è forte. Tanto che una delegazione della Segreteria di Stato era pronta a recarsi a Pechino già questo novembre. Ma l’affollamento di eventi nella capitale cinese ha costretto a rivedere i piani. Qualcuno ha anche avanzato l’ipotesi di una prossima visita di Francesco nel Celeste Impero. Ma, dicono le fonti cinesi, per questo è ancora «troppo presto». Resta il fatto che le distanze sulle questioni chiave si stanno riducendo sempre più. Il resto verrà.

Repubblica 26.11.14
La Nazione ebraica a uso elettorale
di Mario Pirani


DESTINATA ad apparire e a riapparire all’improvviso nel corso degli ultimi decenni la piaga del conflitto arabo-ebraico torna ad avvelenare il Medio Oriente e a trasmettere i suoi miasmi dalle regioni vicine alle grandi capitali del mondo intero. Quel che ormai impaura le genti sotto ogni latitudine è la sensazione che non vi siano vie di scampo e che ogni cammino intrapreso, sia esso diplomatico, politico o persino militare, abbia già iscritto il suo fallimento nelle ragioni di partenza.
ECHE questa avversa sorte scaturisca dalle reciproche ragioni, sì che ognuno possa avvalersi di una assurda verità: quella di prevalere in egual misura sui diritti altrui, ognuno sperando di inalberare sull’altro la bandiera del giusto. Questa volta la pietra del contendere sta nella lettura o meglio nella scrittura in fieri della Costituzione israeliana ossia della Dichiarazione d’Indipendenza letta da Ben Gurion nel 1948 che affermava il carattere ebraico e democratico del nuovo Stato nell’atto della sua fondazione. In esso si sanciva l’assoluta eguaglianza di tutti i suoi cittadini, fossero essi ebrei, musulmani, cattolici, drusi, circassi od altro. Una volta affermata questa parità di cittadinanza applicabile a tutti restavano al solo popolo ebraico i diritti nazionali derivanti dall’autodeterminazione (dalla bandiera al servizio postale). Netanyahu presentando la legge, ancora in discussione, ha avanzato l’esigenza di ripristinare pienamente l’ebraicità di Israele, corrosa dal tempo e dalla crescente presenza araba (1.500.000 persone).
Detto questo c’è da chiedersi perché il governo Netanyahu affronta nuovamente questo principio, sancito nella dichiarazione di Ben Gurion che però non era mai stata convertita in un legge costituzionale (lo Stato di Israele non ha ancora oggi, infatti una costituzione). A nostro avviso ci sono due motivazioni: una più profonda e l’altra più specificamente politica.
Per quanto riguarda la prima, l’esaltazione di una ossessione religiosa ha portato ad una radicalizzazione degli estremismi di cui purtroppo conosciamo le conseguenze (omicidio dei tre ragazzi israeliani, un giovane palestinese arso vivo, l’omicidio del rabbino israeliano e ultima, la strage nella sinagoga), questo riguarda le frange più estremiste come il movimento “price tag” da parte israeliana e le organizzazioni terroristiche di Hamas e Jihad. Nella “narrativa” della parte più moderata palestinese, resta l’idea che in fondo gli ebrei israeliani non sono altro che degli usurpatori e che la ”narrativa” ebraica sulla propria appartenenza a quei luoghi non è altro che una mera invenzione che serve solamente a giustificare l’occupazione di una terra che è sempre e solo appartenuta ai palestinesi. Sembra non esserci una vera trasformazione del pensiero, che porti ambedue le versioni a riconoscersi ed avvicinarsi, unico presupposto per un reale percorso che conduca alla pace e all’accettazione dell’altro come proprio vicino, magari non il più simpatico possibile, senza arrivare a realizzare il desiderio profondo di annientarlo.
Nella consapevolezza ebraica di questa permanente aspirazione si colloca il disegno di Netanyahu di stabilire i principi basilari della futura costituzione israeliana, di cui l’essere uno Stato ebraico è il presupposto fondamentale. Nella dichiarazione del ‘48 si costruisce il credo della nazione. In essa sono compresi gli imperativi storici della rinascita di Israele, la struttura per uno “Stato ebraico democratico”. Ed è su questo che il dibattito politico israeliano futuro, quando cioè arriverà il momento di tradurre in legge costituzionale questa dichiarazione di principio, si articolerà.
La ministra Tzipi Livni e una minoranza del partito hanno votato contro questo principio perché determinati a dare alle parole “ebraico e democratico” identica dignità mentre la proposta del ministro di estrema destra Elkin presentata ma non votata alla riunione di governo tende a dare una maggiore rilevanza alla natura ebraica.
La seconda chiave di lettura è molto più politica e riguarda la imminente crisi di un governo usurato che si prepara a nuove elezioni in cui il partito dell’emergente Naftali Bennett paragonato a Gerusalemme a Beppe Grillo sembra erodere consensi al Likud, il partito di Netanyahu il quale con la trovata della costituzione tenta di accreditare una piattaforma di maggioranza.
Tra le voci più autorevoli tra cui la prof. Gabison, notissima studiosa di diritto costituzionale e il precedente capo della Corte suprema, Shamgar, hanno lanciato l’idea di promuovere una sorta di costituente in cui tutte le parti politiche possano identificarsi. Un percorso difficile di crescita a cui Ben Gurion aveva inizialmente rinunciato, sapendo quanto sarebbe stato complicato mettere insieme le variegate parti della società ebraica.
Shlomo Avineri un noto editorialista israeliano scrive su Haaretz : «Quelli di noi che hanno sostenuto Oslo — e che ancora lo giudicano una giusta strada — ripongono poca speranza nella volontà dei palestinesi che non hanno dato prova convincente di volersi davvero battere per la soluzione “due popoli — due Stati”. D’altra parte non se la sentono di garantire la legittimazione del diritto ebraico all’autodeterminazione. Possiamo contare solo su noi stessi — non nel senso del nostro potere militare ma sulla nostra saggezza, il nostro desiderio di mantenere uno Stato-nazione ebraica qui, e sulla nostra abilità di realizzare questo desiderio, anche nelle condizioni difficili di un profondo e sedimentato rifiuto dell’altra parte ». Questa è la scommessa futura di una popolazione la cui maggioranza se pur profondamente disillusa continua ad essere disposta, ancora oggi, a scambiare territori in cambio di pace e sicurezza.
È però più che discutibile che un’iniziativa politica, in sé non biasimevole, su un tema così spinoso e contraddittorio sia accompagnata e si intersechi con un disegno strumentale di natura elettorale che ne inficia il carattere e ne inquina la trasparenza.

Corriere 26.11.14
Una donna insegue la libertà tra divorzio e legge rabbinica
di Paolo Mereghetti


C’è una sola informazione da sapere prima di lasciarsi andare alla visione di Viviane : in Israele non esiste il matrimonio civile, c’è solo quello religioso, e quindi il divorzio (che esiste) può essere ratificato solo da un tribunale rabbinico, che ha bisogno però del pieno consenso del marito. Fatta questa premessa si è pronti per entrare nell’aula di tribunale dove Viviane e Elisha Amsalem stanno discutendo del loro divorzio: o meglio dove Viviane chiede un divorzio che il marito non sembra intenzionato a concedere.
Gli antefatti e le ragioni dei due contendenti li scopriremo scena dopo scena, anzi rinvio dopo rinvio, perché la cosa chiara da subito è che il marito non vuole concedere il divorzio alla moglie, che pure vive ormai fuoricasa, dalla sorella, da tre anni. Niente, Elisha prima diserta le udienze, poi sceglie il silenzio o cerca ogni giustificazione possibile per rifiutare quello che Viviane cerca da diversi anni. E quando anche l’uomo accetta di farsi rappresentare da un avvocato — nel suo caso il fratello rabbino Shimon, mentre la donna ha scelto un avvocato che non mette la kippah (come a sottolineare la sua «laicità») — ed entrano in scena i testimoni chiamati dai due contendenti, lo scontro non diventa meno facile da risolvere, perché il quadro si allarga alla società, all’idea dominante di famiglia e alle sue regole non scritte.
Costruito con ammirevole economia di mezzi, tutto all’interno dell’angusta aula di tribunale con poche scene nell’adiacente sala d’attesa, ritmato dalle scritte in sovrimpressione che scandiscono il passare del tempo («sei mesi più tardi», «tre mesi più tardi», , «due settimane più tardi»… Per arrivare a una conclusione, dopo 115 minuti di proiezione, ci vorranno cinque anni di rinvii), sceneggiato e diretto da Ronit Elkabetz (che interpreta anche la dolente Viviane) insieme al fratello Shlomi, il film è uno dei più forti e commoventi ritratti di tenacia femminile che il cinema abbia offerto negli ultimi anni. E non a caso la critica francese Dominique Martinez ha paragonato alcuni dolenti primi piani della protagonista a quelli di Renée Falconetti nella Giovanna D’Arco di Dreyer.
Qui non c’è il rischio di una condanna al rogo, come per la Pulzella d’Orléans, ma è pur sempre di una vita che si parla, quella di una donna che ha trovato la forza di ribellarsi a un marito ossessionato dall’ortodossia religiosa e incapace di dimostrare l’affetto che una moglie ha bisogno di sentire. Il tema prende concretezza scena dopo scena, rinvio dopo rinvio, affidato ora a una risposta piccata dell’«egregio rabbino» che presiede il giudizio («lei deve stare al suo posto, donna!»), ora a una testimonianza ottenuta non senza difficoltà da una vicina succube del marito. A confrontarsi sulla scena sono due idee della dignità umana: quella che rivendica la donna alla ricerca di una vita che non sia fatta solo di dovere e di sottomissione, e quella che difende l’uomo, disposto a vivere con una donna che non lo ama pur di non ammettere il suo fallimento (e tacitare la sua gelosia). Due idee che l’ortodossia religiosa non sembra prendere in considerazione, come si capisce dal comportamento fazioso del terzo incomodo del film, l’«egregio rabbino» che guida il tribunale.
Se lo spettatore finisce per schierarsi con la donna, la messa in scena cerca invece di tenere i due coniugi sullo stesso piano, o comunque di spiegare con equanimità i punti di vista opposti, affidati ora alle parole dei rispettivi legali ora ai silenzi dei due protagonisti. Concedendosi solo qualche significativa scelta di regia, come quelle delle scarpe di Viviane, eleganti e femminili durante il processo, dimesse e «penitenziali» nell’ultima, silenziosa inquadratura. Il perché di questa scelta, lo lasciamo scoprire allo spettatore.

La Stampa 26.11.14
Ascesa e caduta del latin lover, un archetipo tutto italiano
Un libro racconta la storia erotica del nostro Paese Dagli sfrontati etruschi ai dongiovanni stanchi del ’900
di Mirella Serri


Lo storico Teopompo di Chio, vissuto nel IV secolo a. C., descrive divertito la mancanza d’inibizioni degli antichi etruschi. Se un visitatore bussava alla porta di un signore in quel momento in dolce compagnia, il servo avvertiva che il padrone stava facendo all’amore e che si sarebbe liberato al più presto. Per entrambi i sessi era poi normale girare senza veli e concedersi en plein air audaci giochi. Oppure abbandonarsi a intrecci sadomaso come quello raffigurato sulla tomba della «flagellazione» della necropoli di Monterozzo, vicino Tarquinia, dove due uomini frustano una donna che li accarezza. Quella popolazione, insomma, non possedeva il nostro comune senso del pudore e in questa disinvolta gestione della privacy maschi e femmine si ponevano sullo stesso piano.
Lo scenario cambia radicalmente a Roma, in età repubblicana. La riservatezza era praticata, eccome. Le performances erotiche non venivano ostentate, però l’autorità di un pubblico personaggio dipendeva anche da queste. Il pater familias, ci spiega Seneca, a cui era concesso diritto di vita e di morte sui propri cari, nel sesso doveva essere attivo e mai passivo, per non smentire il proprio ruolo di dominatore. Guai, dunque, se fosse stato reso noto che le fanciulle o gli schiavi con cui si trastullava (la bisessualità era largamente praticata) per caso avessero provato piacere. «Marito di tutte le mogli e moglie di tutti i mariti»: Giulio Cesare diventò per questi suoi molteplici accoppiamenti l’emblema del vero romano, doppiamente vincitore sia in battaglia che tra le coltri. Al condottiero va il merito di aver incarnato lo stereotipo, anche in senso letterale, del latin lover. Già, proprio così. Un’arte, questa della seduzione, in cui i maschi italiani, a partire dagli antichi romani, sembrano essere tra i maggiori esperti. Adesso, a spiegarci dove e come nasce il mito dell’amante latino alla maniera di Casanova o del bel tanguero Rodolfo Valentino, è Cinzia Giorgio in Storia erotica d’Italia. Gli amori, gli scandali, il sesso e la vita privata: la storia d’Italia che avreste sempre voluto leggere e nessuno ha mai osato raccontare (Newton Compton editore, pp. 330, € 9,9).
La figura del playboy made in Italy è universalmente conosciuta, afferma la studiosa di Women’s Studies, non solo perché ha origini lontane ma anche perché si è mantenuta in vita a lungo grazie alla persistente disparità tra uomo e donna, sostenuta per secoli dalla Chiesa cattolica e le cui basi furono gettate dai latini. Dopo il celebre ratto delle Sabine, racconta Tito Livio, le matrone rapite a cui fu proposto di tornare a casa si rifiutarono. Le aveva convinte Romolo dicendo che «avrebbero avuto mariti migliori di quelli che avevano lasciato i quali si sarebbero fatti perdonare del ratto con il trasporto della passione». Livio alimenta così la leggenda che i connazionali fossero gli unici ad esser tanto appassionati e dotati. Quest’aura continua a illuminare il maschio latino (come narra Boccaccio) pure nei secoli bui, quando gli ostacoli alla conquista del gentil sesso diventano quasi insuperabili. Il «Canon Episcopi», vademecum per i vescovi per combattere la stregoneria, diffonde l’idea che nella donna sedotta e abbandonata alberghi il diavolo. Però il playboy medievale mantiene intatto il suo virile appeal. I muscoli amatori li esibisce con le cortigiane: già numerose presso i romani (divise in categorie, dalla «noctiluca», lucciola notturna, alla «bustuaria» che stazionava nei cimiteri) si dividono in «oneste» - mantenute da più benefattori - e in «prostitute di lume», che si concedono nel retrobottega dei maestri candelieri giusto il tempo di durata di una piccola candela (da cui «reggere il moccolo» ovvero il terzo incomodo in un incontro amoroso).
A queste si aggiungono le belles de jour della Serenissima, descritte dall’Aretino, capaci di intrattenere dotte conversazioni a busto scoperto. La notorietà di un personaggio è supportata dal metro delle sue conquiste: di Raffaello, notevole amatore scomparso a soli 37 anni, Vasari dirà che era stato portato alla tomba dal troppo «coito» e lo stesso eccesso viene evocato per Ludovico Sforza, «il Moro», che ha avuto tanti incontri ravvicinati con «una sua puta molto bella» (la sedicenne Cecilia Gallerani che Leonardo raffigurò ne La Dama con l’Ermellino).
Così, è ancora un altro esempio, la leggenda di Niccolò Paganini, gran seduttore, cresce anche per via delle dicerie sulla notevole estensione delle parti più intime. Mentre il ministro e presidente del Consiglio Francesco Crispi finisce sotto processo per le storie d’amore, Gabriele D’Annunzio, che le sue infinite liaisons non le teneva certo nascoste, scrive il Piacere (al maschile, s’intende). Per non parlare di Benito Mussolini, gran tombeur e consumatore ogni giorno di rapporti con plurimi «orinatoi di carne» (durata massima 15 minuti). Connotato da un «pragma della banda e del capintesta bassamente erotico, un basso prurito ossia una libido di possesso, di comando, di esibizione, di cibo, di femmine, di vestiti, di denaro, di terre, di comodità e di ozi», come Carlo Emilio Gadda descrive l’abbuffata di sesso e di potere che le camicie nere ostentano come medaglie belliche.
Vitaliano Brancati, poi, ne Il bell’Antonio smonta la fama di galletto dell’italiano meridionale e nella trasposizione cinematografica il personaggio è interpretato da Marcello Mastroianni. Il quale impersona sul grande schermo anche uno dei più celebri conquistatori, Marcello Rubini della Dolce vita. Nemmeno in tempi più recenti il latin lover ci abbandona: Gianna Nannini ne canta le brame degli occhi fissi sul «décolleté». Attualmente il mito, complice i cambiamenti della mentalità femminile, ha perso smalto. Il falchetto rapace impersonato da Alberto Sordi ne Il seduttore è un po’ spiumato. Ma non demorde. Madonna scrive sulla sua t-shirt: «Italians do it better». E la leggenda che gli «italiani lo fanno meglio»
continua.

La Stampa 26.11.14
L’arte d’invecchiare secondo Marc Augé
di Elena Loewenthal


Sarà vero? Difficile dire se sia un auspicio, una certezza o una minaccia. Il sottotitolo del nuovo libro di Marc Augé dice che «la vecchiaia non esiste», ma in fondo le pagine che lo compongono sono un invito non a negare bensì ad accettare tale condizione. Il tempo senza età (Cortina editore, pp. 104, € 11) non è di fatto una disamina dell’assenza bensì una proposta per affrontare il tempo che passa non negandolo e nemmeno piangendolo. Augé parte dall’assunto che «la vita rappresenta una lunga e involontaria indagine» e invita a cogliere la dicotomia fra età, che è «la spunta minuziosa dei giorni che passano», e il tempo, che invece «è una libertà».
Di fronte allo stillicidio dei giorni che procede per accumulo, l’unica resistenza possibile non sta nella chirurgia plastica, nello sconforto o in un volontario rimbambimento, ma nell’uscire dalla nostalgia, trattando la vecchiaia – che comunque esiste eccome! – con i riguardi che gli antichi riservavano alle Erinni, dee della vendetta, chiamandole «Eumenidi» o «Benevole».
L’ultima età della vita, in fondo, è emblematica della condizione umana, in bilico fra una consapevolezza che diventa energia (e che a volte sfiora pericolosamente il delirio di onnipotenza) e una fragilità connaturata. Augé dichiara che quando qualcuno gli chiede l’età risponde che ovviamente la conosce. Ma non ci crede. Perché l’età è qualcosa di superficiale, una specie di etichetta che ci viene incollata addosso ma che il più delle volte è molto lontana dalla percezione che abbiamo di noi stessi. Quest’ultima è fatta di ricordi e speranze, di nostalgie e progetti, di emozioni antiche e nuove. Di illusioni e della nostra instabile capacità di stare soli con noi stessi.
Quella di Augé non è una ricetta facile, né di immediata assimilazione. In primo luogo, perché ci impone di non cadere nella trappola del giudizio: la vecchiaia è cosa buona o no? Piuttosto, spiega, «bisogna inchinarsi al suo orgoglio», anche se è fatta di cedimenti, rinunce, debolezze. E poi perché non propone soluzioni ma una disposizione d’animo che sia costante consapevolezza invece di rimozione. Si tratta insomma, di scendere a patti con i ricordi invece che rincorrere l’esperienza, e accettare cio che è per definizione inaccettabile: muoriamo tutti giovani. Troppo presto.

Corriere 26.11.14
Uno cento mille Mirò
La routine e la rabbia segreta volto sfuggente di un artista che inseguì sempre l’infanzia
di Roberta Scorranese


Barcellona, 1910. Un giovane magro e dall’aria mite sfoglia un registro meticolosamente compilato. Numeri, calcoli, somme. Ma il giovane, da poco diciottenne, non vede le cifre: negli occhi ha un saltimbanco verde, un mare blu e un tramonto color arancia matura. Si chiama Joan Miró e vorrebbe fare l’artista. Per suo padre, però, non se ne parla: gli ha trovato un posto da contabile presso una rinomata drogheria cittadina. La grazia dell’artista che in seguito impasterà sogni e colori ad olio nacque così: da una prova di triste ragioneria.
Da allora però tutto avvenne come in un disegno demiurgico: una lunga depressione, il cedimento rassegnato della famiglia, gli studi d’arte, l’incontro con il maestro Francesc Galí, Parigi eccetera. L’ultimo approdo di questo cammino lambisce le rive del Po mantovano: a Palazzo Te, la mostra Mirò. L’impulso creativo racconta alcuni importanti capitoli dell’opera del catalano nato nel 1893. «Come la grafica, il gesto, il nero, la semplicità: un racconto per temi» dice Elvira Cámara López, curatrice e direttore della Fundació Pilar i Joan Miró, dalla quale provengono le 53 opere in mostra.
La scelta di procedere per grandi terreni inesplorati e non con le solite opere più volte viste, rivitalizza il gusto della scoperta. Così alle Fruttiere di questo splendido palazzo dove i Gonzaga elevarono la cultura a istituzione, ogni tela o scultura o arazzo parla del continuo, inesausto sforzo di quel giovane ragioniere che volle essere artista. Si vada subito a quei terribili, violenti arabeschi neri su fondo bianco. «È come se forzasse il colore, con energia inusitata, un po’ come quando lavorava la ceramica, pareva distorcerla con violenza» dice Cámara López. Sui registri contabili aveva (forse) imparato a sdoppiarsi per non morire e così negli atelier parigini prima e in quelli catalani dopo, si consumava una commedia pirandelliana di una molteplice personalità.
Da una parte c’era il Joan rigorosissimo, che si alzava sempre alla stessa ora, seguiva una routine da noia borghese, fedele alla sua Pilar Juncosa (tanto che più volte il casanova Picasso lo ha canzonato: «Ma è mai possibile che io ti veda sempre con la stessa donna?»). Sulla tela no. Sulla tela il nero si incendiava in sagome mostruose (c’è un Senza titolo non datato che pare un urlo di Munch in chiave surrealista); gli enormi occhi che aveva «rubato» ai Cristi Pantocratori della pittura romanica che amava trasfiguravano in incubi strepitanti.
Qual era il Miró più autentico? Quello che scriveva «Lavoro come un giardiniere o come un vignaiolo. Le cose maturano lentamente», o quello che ammetteva: «[ho] bisogno di sfuggire al lato tragico del mio temperamento»? Il ragioniere temeva l’incendiario. Inevitabile la ricerca di altre strade. La calligrafia orientale per esempio. Due viaggi in Giappone e la consapevolezza che la grandezza sta nell’essenziale assottiglieranno sempre più i suoi sogni: esili profili animaleschi, linee appena ombreggiate di colore. Uomo colto e robusto lettore dipinse piccole poesie oniriche: «parlò» con le sagome degli uccelli, usò metafore per indicare il femminino (cercate il simbolo dei tre capelli: indica la donna), non si distaccò mai dalla sua infanzia. Sono quelle note accese di colore che denotano la poesia pittorica di Miró: il blu del mare, il giallo del sole, il rosso del tramonto.
Ma, come aveva intuito l’amico poeta Rafael Alberti, in lui c’era tanto, tanto gioco. Si divertiva quando lanciava secchiate d’acqua sporca sulla tela per conferire opacità (inquietudine) allo sfondo; si divertiva a disegnare gli arazzi, che poi Josep Royo avrebbe tessuto; giocava con i materiali — legno, ferro, bronzo, stoffa.
La mostra ricostruisce anche i due amatissimi atelier, nei quali condusse un’esistenza metodica e insieme anarchica. Nello studio Sert e Son Boter, mentre rispettava ossessivamente gli orari della merenda e del riposo, distrusse molte sue opere con la furia prometeica di chi sa bene che quella scintilla creativa gli appartiene, scintilla che nessuno (nemmeno il categorico capo dei Surrealisti André Breton) avrebbe mai imbrigliato. Si arriva alla fine, alle sculture d’assemblaggio e alle tele su fondo nero e una sensazione afferra alla gola: per tutta la sua vita Miró ha cercato di ricomporre il mosaico della sua innocenza. Prima della drogheria, prima di Parigi, prima della maturità, prima dei mercanti, prima di Pilar.
In lui è come se tutto fosse nato e morto senza un dopo.

Corriere 26.11.14
«L’atelier, un monastero per mettere a nudo l’anima»
Lo spazio mentale di Plessi, tra Venezia e Majorca
di Gianluigi Collin


Il primo impatto è di stupore, anzi di vero disorientamento. Chiunque conosca il lavoro di Fabrizio Plessi, con le sue potenti videosculture costruite con recuperi di antiche imbarcazioni, con legni, ferri e pietre laviche non può non rimanere stupito dell’arredo essenziale, elegante, quasi asettico del suo studio veneziano alla Giudecca in mezzo all’archeologia industriale di una vecchia birreria accanto al Mulino Stuky. Fabrizio Plessi (Reggio Emilia, 1940), una vita fluida, tra acqua e fuoco, è tra i più affermati protagonisti internazionali della video art. Plessi ha al suo attivo 14 Biennali di Venezia, mostre al Guggenheim, personali in molti musei in tutto il mondo. Offre subito un prosecco e presenta il suo «atelier mentale», parlando del luogo dove crea le opere, del suo rapporto con lo spazio, con Venezia ma anche con Majorca, dove, guarda caso, ha una casa e uno studio a pochi passi dai due atelier (uno è segreto) di Juan Miró. «Ogni mattina attraverso il mare che divide Venezia dall’isola della Giudecca. È l’inizio di un viaggio, silenzioso e solitario. Entro in questo spazio, con i muri bianchi, solo con i miei libri, i pennarelli e i colori con cui disegno... per me è come un monastero. E allora comincio il mio lavoro minimale, assoluto, privato. Sono solo. Non ho assistenti, sono nel silenzio più assoluto, avvolto soltanto dalla luce fortissima che filtra dai finestroni. E allora, dialogo con me stesso. È il luogo dove mi metto a nudo».
E continua: «Certo, Venezia mi ha influenzato, ha modificato il mio carattere, ero un emiliano squadrato, sono arrivato a Venezia che avevo 15 anni. Questa città mi ha reso più fluido, più elastico. Ma su una cosa sono fermo: amo la bellezza, le cose calibrate, la misura. Quando disegno, lo faccio cercando la semplicità. La semplicità è un punto d’arrivo, è tutto. Il mio studio riflette questo mia dimensione mentale, il mio rigore. Credo nell’adrenalina della creatività: quando disegno, qui su questo tavolo, con la matita e un foglio bianco sono solo con me stesso. È il mio spazio di libertà mentale».
Fabrizio Plessi, maglione attillato, con i capelli lunghi sulle spalle, un po’ sciamano, un po’ rockstar anni Sessanta, si muove nel suo studio come fosse a celebrare, per davvero, un rito sacrale: parla sottovoce, con dolcezza, sorridendo. Intorno, i ferri del mestiere: pennarelli, fogli di carta, colori ben allineati, pronti per diventare progetti, sculture, mostre. Negli scaffali ne ha migliaia: li mostrerà in occasione della Biennale, per lui tutta Ca’ d’Oro. Su un tavolo non si può non notare una piccola e magnetica scultura in pietra lavica, con un led in cui scorre una colata d’oro. Per terra, grandi disegni su carta, («il muro bianco è il futuro») i libri perfettamente allineati negli scaffali neri e, infine, una piccola concessione: un paio di fotografie con suoi ritratti e alcune riviste in cui si parla della sua arte. Su una di queste, un servizio sullo studio di Majorca: «Lì ho trovato la potenza della natura. Una natura che ti avvolge in modo protettivo e con il suo calore prende lentamente il sopravvento, su tutto, anche sulla ragione. Ci vado tutte le estati. E quando gli amici mi vengono a trovare, li porto nella magia dello studio di Miró. In questo studio, nel ’95, ho anche avuto il privilegio di fare una mostra, “Fuochi fatui”». Plessi sorride: «Mi è stato concesso di fare una specie di profanazione in quel luogo sacro per gli spagnoli. Era un’installazione ispirata a un albero con una resina rossastra che Miró amava. E allora, ho realizzato un albero in movimento continuo, fissato in un’altalena. Dentro, ardeva un fuoco. Era il fuoco della passione, per l’arte, per la vita. Fuoco, che in Miró ardeva alto e potente».

Repubblica 26.11.14
Miró L’uomo che sognava dipingendo mondi
di Lea Mattarella


«MI è difficile parlare della mia pittura – dichiarava Joan Miró – perché essa è sempre nata in uno stato di allucinazione, provocato da uno choc di qualche tipo, oggettivo o soggettivo, del quale non sono affatto responsabile». Se questa è una dichiarazione di poetica ecco che diventa chiara la ragione per cui la mostra aperta a Mantova alle Fruttiere di Palazzo Te fino al 6 aprile curata da Elvira Cámara López, si chiami Miró, l’impulso creativo. Già nel titolo è chiarito proprio l’aspetto irrazionale dell’immaginario dell’artista catalano. Sono i surrealisti con cui entra in contatto molto presto a farlo innamorare del caso, del sogno, dell’assurdo. Così il suo mondo, che inizialmente era dominato da un realismo maniacale seppur bizzarro, si declina sempre più in maniera astratta e semplificata. La sua astrazione, però, ha sempre origine nel mondo che lo circonda.
«L’immobilità mi colpisce – ha affermato – questa bottiglia, questo bicchiere, una grossa pietra su una spiaggia deserta, queste sono cose immobili, ma scatenano un movimento tremendo nel mio animo». E poi ci sono il cielo, le costellazioni, la musica, la poesia, l’architettura, persino i rumori («i cavalli nelle campagne, le ruote di legno di carri che cigolano, il suono di passi, grida nella notte, grilli») che favoriscono la «tensione mentale», così la chiama lui, che lo porta alla creazione. Da tutto questo nasce uno dei racconti per immagini più amati del Novecento, fatto di segni leggeri, forme biomorfe, tracce, elementi fantastici e fiabeschi che alludono anche a un eros incantato e sognante. Un universo danzante in uno spazio che non ha paura del vuoto. Questa esposizione vuole rivelare alcuni aspetti fondamentali della sua pittura, esplorando la produzione successiva al suo trasferimento a Palma di Maiorca nel 1956 (è qui che morirà nel 1983, era nato a Barcellona novant’anni prima). Non è una retrospettiva, ma un viaggio in cui le soste sono decise dalla vocazione di Miró verso alcuni aspetti del mondo che lo incantano e da cui prendono vita immagini in divenire, forme generative che sembrano esplodere oppure fiorire. Il nero è uno degli aspetti della sua pittura di cui qui si indaga la forza, ma anche la variazione delle sfumature. C’è quello che Miró chiama il “nero avorio”, ma anche “il nero marrone”. Con questo non-colore disegna arabeschi oppure immagina stesure che occupano quasi interamente la tela, da cui si affacciano le sue forme curvilinee, abitate da piccoli cerchi galleggianti.
Nello stesso tempo, l’esposizione indaga la potenza del suo gesto che si impone sulla superficie come una sciabolata ( Senza Titolo, 1968-1972) o come un ghirigoro, un segno che si arrotola ( Senza Titolo, 1967). Oppure sgocciola in piccoli rivoli che sembrano sgorgare da un elemento materico come ad esempio uno spago ( Senza titolo, 1973). Miró comincia molto presto a inserire materie alternative a quelle pittoriche tradizionali all’interno delle sue opere. Chiodi, peli, frammenti di linoleum, oggetti, cartacce, fili, spaghi, piume fanno la loro apparizione fin dalla fine degli anni Venti. Una sezione della mostra è dedicata proprio alla “Sperimentazione con i materiali”: ecco ancora legni, carta vetrata, giornali. Ogni tipo di supporto viene utilizzato per la sua espressività. E Miró sperimenta anche l’arazzo. Bellissimi i due esempi intitolati La lucertola dalle piume d’oro , colorati e vitali. Lo sgocciolamento libero e audace sulla tela arriva da un’altra sua fascinazione che si declina in senso personale. Si tratta dell’incontro con l’informale americano e con Jackson Pollock. Anche se al movente sempre denso di pathos e carico di energia dell’artista statunitense, contrappone il gioco, l’ironia, un flusso di armonie, di sogni e non di incubi.
Il primo contatto con l’Espressionismo astratto americano è del 1947, anno di un viaggio negli Stati Uniti. L’amore per Pollock lo si vede nella sezione della mostra che esplora il suo modo di trattare i fondi che spesso Miró colora con liquidi di ogni tipo: l’acqua con cui ha pulito i pennelli, il tè, il caffè, succhi di fiore e di foglie. Tutto scola sulla tela dando vita a un mondo vibrante in cui ogni cosa succede davanti a te: scarabocchi, piccole deflagrazioni, l’andamento del colore che sfida le leggi di gravità. Ma non si potrebbe capire Miró senza aver chiara la sua necessità, che nel corso del tempo si fa sempre più prepotente, di semplificare. A indicargli questo cammino è l’arte giapponese. Viaggia in Oriente nel 1966 e nel 1969, è amico del poeta Shuzo Takiguchi, predilige il gesto, la calligrafia, la sintesi di un tratto che, quasi inconsapevolmente, assume «la forma di una donna o di un uccello». La figura femminile, i frammenti del suo corpo, i volatili, le teste, il cielo stellato sono temi continuamente evocati in ciò che nasce nel suo atelier. La mostra, tra l’altro, ricostruisce i suoi due studi a Palma di Maiorca, lo Studio Sert e il Son Boter, ricoperto di graffiti. E non bisogna dimenticare che per lui lo spazio in cui creava era assimilabile a un orto: «Qui ci sono i carciofi. Laggiù le patate. Le foglie devono essere tagliate in modo che le verdure possano crescere. A un certo momento devi sfoltire. Lavoro come un giardiniere o un vignaiolo. Ogni cosa ha bisogno di tempo». E ciò che conta in un quadro non è la sua durata «ma se ha piantato semi che daranno vita ad altre cose». Il mondo Miró ne contiene molti altri.

Repubblica 26.11.14
Quell’alfabeto che incantò anche Queneau
Attraverso i suoi fantasiosi segni il maestro creò una “scrittura” fatta di simboli e figure ricorrenti
È un linguaggio per tutti, visibile che sostituisce parole usurate
di Tiziana Migliore


IL VEZZO di considerare l’arte campo dell’ineffabile, dell’emozione soggettiva, dell’abbandono lirico, ha impedito di notare un’operazione unica nel Novecento. Joan Miró ha inventato una lingua per figure. Non una scrittura privata né un repertorio di marche stilistiche, ma un linguaggio per tutti, visibile e dicibile, che recupera le qualità sensibili e affettive del rapporto con le cose. Riscoprire “l’infanzia del mondo” – il modo cognitivo di sintetizzare e simbolizzare – e retroagire sulle parole, che, usurate, hanno perso energia figurativa e potere di significare. Il rigenerarsi dell’uomo passa attraverso questa invenzione. Inventare alla maniera delle origini: manipolare, sperimentare, cimentarsi con concetti e strumenti.
Raymond Queneau ha chiamato i segni di Miró “miroglifici”. L’alfabeto è tutt’altro che misterioso. Si compone di figure in metamorfosi, secondo un ciclo non biografico, ma biologico: nascita, crescita, assestamento, destino. Cambiano nel tempo, come gli esseri viventi, mantenendo inalterati certi tratti. Queneau aveva frequentato Miró a Varengeville, in Normandia, dove entrambi si erano rifugiati, nel 1939, per l’avanzata delle truppe tedesche. Ricorda una frase dell’artista, mentre alcuni amici passavano nelle mani della Gestapo: «il coraggio consiste nel restarsene a casa, accanto alla natura che non tiene conto dei nostri disastri». Se gli altri surrealisti partivano dai resti dei materiali invecchiati e l’insieme di elementi singolarmente realistici negava il realismo in generale (Leroi-Gourhan), Miró apre una strada vergine. “Poeta preistorico” (Queneau), ma anche oulipista, ripensa il nostro dare senso ai segni. Prende a modello gli ecosistemi naturali. La ricerca di Miró comincia dalla terra. La casa di famiglia di Mont-roig è il soggetto di tre varianti successive – La fattoria (1921-1922), acquistata da Ernest Hemingway, Terra arata (1923-1924) e Paesaggio catalano ( Il cacciatore) (1923-1924) – che avviano un processo di geometrizzazione e spoliazione. Un iter analogo agli studi di Mondrian sull’albero, con la differenza che qui l’analisi della forma espressiva provoca un cambiamento sul piano del contenuto. Dal 1940, tramite il disegno, ha inizio un’attività di vaglio e riordino: alcune figure vengono scartate, altre si impongono in modo stabile. Emergono una grammatica del miró – norme di funzionamento – una sintassi – regole di combinazione – e una scrittura, tipografia e calligrafia che insonorizzano il lettering: volume, timbro, ritmo. I miroglifici sono configurazioni primigenie tese fra la terra e il cielo. Tredici in tutto, sette organiche – l’occhio, il cuore, il piede, la mano, il seno, l’organo genitale maschile, l’organo genitale femminile – e quattro cosmiche – il sole, la luna, l’uccello e la stella. Termine “neutro”, né organico né cosmico, è la scala dell’evasione, che collega i due poli; termine “complesso”, organico e cosmico, è la spirale. Un foglio preparatorio dello spettacolo L’Oiseau ( 1968) fornisce lo schema: un carosello dove ognuno di questi segni è accompagnato dal suo nome e che però, in se, non spiega nulla. Occorre guardare le opere. La serie delle Costellazioni, con astri-radici di patate, è un atlante di combinatorie di elementi. Dal 1937 gli autoritratti sono “panorami” di miroglifici. Negli anni Settanta il segno diventa gesto e la pittura simula la coltivazione della terra. Duchamp era sicuro che Miró esprimesse una “cosmogonia estranea alla pura astrazione”. Per il suo compleanno, nel 1947, gli regala una cravatta con scena di paesaggio. Dono di scambio. La cravatta, “forma-principio” della Macinatrice di cioccolato (1913) e del Grande Vetro (1915-23), è un glifo duchampiano. Noi siamo pronti a imparare il miró? L’autrice ha scritto Miroglifici pubblicato da et al.

La Stampa TuttoScienze 26.11.14
“Siamo tutti baby matematici ma poi è la scuola che ci rovina”
Dennis Sullivan, vincitore del Premio Balzan: vi racconto la mia via ai numeri
di Francesco Vaccarino


«La matematica per me è una disciplina visiva: amo i problemi che possono essere spiegati in modo semplice attraverso le immagini. Tutto questo mi ha portato a correre avanti e indietro tra varie discipline, sempre in cerca della visione che mi guidasse, per tornare all’algebra e alla chiarezza delle sue strutture». Così si racconta Dennis Sullivan, professore alla Stony Brook University e alla City University of New York, vincitore del Premio Balzan 2014 per la matematica: sostenitore, al di là dei dubbi del senso comune, dell’«umanità della matematica» - come dice lui. Sullivan ha aperto - e l’ha raccontato venerdì scorso all’Accademia dei Lincei di Roma - prospettive insospettate, in particolare in due aree: la topologia e la teoria dei sistemi dinamici.
Parlando della topologia algebrica - la disciplina che studia la «forma» delle cose - spiega: «Cerco strutture algebriche, vale a dire la grammatica e la sintassi che regolano le manipolazioni degli enti che si manifestano attraverso l’intuizione topologica e geometrica». Sullivan, infatti, ha fornito un contributo essenziale alla «Hauptvermutung», la «congettura fondamentale» sui modi di triangolare gli spazi, vale a dire di approssimare oggetti curvi mediante quelli che sono specie di poliedri.
Non solo. Ha ottenuto una classificazione degli spazi definiti «semplicemente connessi», cioè senza buchi e «fatti» di un pezzo solo. Ha anche sviluppato la teoria dell’«omotopia razionale», un modo per analizzare le deformazioni degli spazi topologici che è considerato uno dei gioielli matematici del XX secolo.
Nella seconda parte della carriera Sullivan ha trasformato la teoria dei sistemi dinamici, i modelli matematici in grado di descrivere l’evoluzione nel tempo di un sistema di enti, per esempio costituito da masse soggette a specifiche forze. Il risultato è l’«analisi armonica applicata alla dinamica olomorfa», che usa lo studio dei segnali come sovrapposizione di onde. «Si tratta - osserva - di smontare spazi complicati nei loro elementi atomici, in una specie di scarnificazione del problema, e di comprendere come questi stessi elementi si combinino. Il passo successivo consiste nell’includere gli errori di approssimazione in un modo controllabile: l’esempio-base sono gli “sviluppi di Taylor”, con cui si approssima una funzione mediante dei polinomi».
Oggi Sullivan lavora sulla teoria delle stringhe. «Si tratta ancora una volta di comprendere la natura dello spazio grazie all’algebra: la “topologia delle stringhe”, che ho introdotto con Moira Chas, formalizza alcune questioni molto complesse di questa teoria fisica che interpreta la natura dell’Universo». E il prossimo passo è già in vista: lo sviluppo di una teoria algebrica e topologica per l’analisi dei fluidi tridimensionali. «Anche in questo caso il percorso parte dall’identificazione dei “mattoni” del problema per costruire l’algebra delle interazioni e approssimare così il comportamento dei fluidi».
Tutte realtà, queste, da super-specialisti. Eppure - osserva Sullivan - «la matematica è un’attività naturalmente “umana”, tanto che i bambini, prima ancora di andare a scuola, sono quasi tutti dei piccoli matematici: sono incuriositi dai numeri e dalle figure geometriche. Poi vanno a scuola e imparano “qualcosa” che viene chiamata matematica e che li allontana dalla disciplina. Non giudico i maestri - dice -: hanno tanto da fare e cercano di farlo al meglio. Penso, però, che si dovrebbe trovare un modo nuovo per insegnare la matematica, rivolto agli esempi e alla comprensione delle cose, e non basato sul nozionismo. E invece, oggi, è come se uno studiasse il manuale della playstation senza mai giocarci! La matematica è così intrinsecamente umana e universale che, forse, dovrebbe essere insegnata da appositi insegnanti: come si fa per la musica».

La Stampa TuttoScienze 26.11.14
“Il bosone non basta: c’è ancora da scoprire il 95% dell’Universo”
La conferenza alla Normale di Pisa per la serie “Virtual immersions in science” Dall’elettrone alla super-simmetria: perché la storia delle particelle è aperta
di Gabriele Beccaria


A metà della conferenza Riccardo Barbieri, fisico della Scuola Normale Superiore di Pisa, mostra quanto di più vicino ci sia alla rappresentazione del Tutto. Non è un disegno e non è un grafico. È la «slide» di una lunga equazione.
È l’equazione che racchiude tutte le altre, in grado di spiegare il comportamento delle particelle, i «mattoni» di cui l’Universo è fatto e con cui si crea la realtà. «E’ un quadrante della Natura, le cui leggi si possono scrivere in poche righe con precisione assoluta»: la descrive così Barbieri, ricordando che al Cern di Ginevra c’è chi l’ha fatta orgogliosamente stampare sulla t-shirt. Come un manifesto della potenza della ricerca nel XXI secolo.
E allora si arriva al titolo della sua conferenza, organizzata a Pisa il 12 novembre scorso nell’ambito del programma «Virtual Immersions in Science»: «Dall’elettrone al bosone di Higgs: una storia incompiuta?». Risposta. Sì. La storia è ancora aperta. Moltissimo lavoro aspetta i fisici, mentre si aspetta la riaccensione dell’acceleratore «Lhc». Da una parte c’è il Modello Standard - la teoria che racchiude le particelle e le loro interazioni - e dall’altra c’è la cascata delle scoperte delle particelle stesse: dall’elettrone, individuato nel 1897, fino al bosone di Higgs, rilevato nel 2012 proprio al Cern. Ma nel mezzo galleggiano molti interrogativi senza risposta.
«Ci sono delle ragioni fattuali per cui la storia non è affatto conclusa», ha spiegato Barbieri. E queste hanno a che fare con la «torta cosmica»: oggi gli studiosi che indagano l’Universo ne vedono e capiscono all’incirca il 5%. Appena. Il resto è materia oscura ed energia oscura. Un 95% di realtà alternativa che - almeno al momento - non rientra nelle armonie del Modello Standard. Ed è in questo oceano misterioso che il bosone di Higgs si prende il suo ruolo di protagonista, quello che l’ha reso una star sui media del mondo da quando fu annunciata la prova della sua esistenza, due anni fa.
Lo si capisce quando si comincia a descriverlo, seguendo la logica controintuitiva della fisica dell’infinitamente piccolo. Ricordando come nel mondo sub-atomico particelle e onde non siano distinguibili, Barbieri ha spiegato che il bosone di Higgs rappresenta «un campo», vale a dire «una zuppa, estesa in ogni punto dello spazio e in ogni istante del tempo». E il suo «condensato» - così lo si definisce in gergo - dà origine alla massa delle particelle. Il bosone, quindi, è piccolo, piccolissimo, tanto da manifestarsi con una certa riluttanza perfino nelle collisioni all’interno di «Lhc», ma allo stesso tempo è decisivo per tenere insieme il cosmo nella sua vastità, stelle e galassie comprese.
Il bosone di Higgs appare quindi come la colla perfetta per mettere in comunicazione scale di grandezza opposte. Peccato che «il rompicapo» - come lo chiama Barbieri - resti, eccome. «Il valore di questo campo è stato definito nell’esperimento di “Lhc” . Ma, se vogliamo capirlo, spingendoci oltre il Modello Standard, dai calcoli si ottiene un altro valore, decisamente più grande». Il rompicapo va sotto il nome di «Problema della naturalezza» o «della gerarchia» e cerca di spiegare - senza riuscirci - perché la forza gravitazionale sia tanto insignificante nel mondo microscopico rispetto alle forze elettriche. Insomma: «C’è un evidente conflitto tra valori misurati e valori calcolati». Altissimi nel primo caso, piccolissimi nel secondo caso. «Due facce - osserva Barbieri - di una stessa realtà».
A questo punto qual è la strada da imboccare? «Lhc» sta scaldando i suoi iper-tecnologici motori: 27 km di magneti ad anello, che dal 2015 ospiteranno nuove collisioni di protoni. «Vedremo se scoprirà altre particelle. Ogni volta che si aumenta il regime di energia c’è la possibilità di vedere cose nuove. In produzione diretta». Barbieri è uno dei fisici che lavora alla teoria della super-simmetria ed è questa una possibile risposta al rompicapo dei valori troppo grandi e troppo piccoli: se si trovassero altre particelle, «speculari» a quelle già note, ma decisamente più pesanti, si potrebbe dire di aver messo fine al mistero.
«Il meccanismo che ha nascosto fino a oggi le particelle “super-simmetriche” potrebbe essere analogo a quello che spiega un apparente paradosso: mentre nello spazio vuoto le leggi fisiche prevedono che non ci sia distinzione tra elettroni e neutrini, in presenza del campo di Higgs la “simmetria” tra elettroni e neutrini svanisce e di conseguenza i primi e i secondi riprendono una spiccata identità». Ridiventano particelle decisamente diverse. I primi molto comuni e i secondi molto elusivi.
Mezzo secolo dopo, nella stessa sala della Normale dove entrò per la prima volta, Barbieri ha tenuto la sua lezione, spiegando che quando uno scienziato si trova davanti a un pubblico di non specialisti riemerge sempre una domanda, quella finale: «A cosa serve tutto questo?». E le risposte - ha concluso - «sono due. La prima è classica: a molti follow-up, da Internet alla medicina. Ma io preferisco la seconda: Non lo so!». Poi dopo una pausa termina così: «E’ la curiosità per ciò che è superfluo a renderci pienamente umani».

La Stampa TuttoScienze 26.11.14
“Anno 2015, viaggio nella materia all’alba del cosmo”
di Antonio Lo Campo


E’ un grande momento per la fisica italiana: mentre si festeggia la nomina di Fabiola Gianotti a direttore del Cern, torna a far parlare di sé «Alice», uno degli esperimenti dell’acceleratore «Lhc». I leader storici del test - tra cui l’attuale coordinatore Paolo Giubellino - sono stati insigniti del premio «Lize Meitner» per la Fisica nucleare, assegnato dalla «Nuclear Physics Division» dell’European Physics Society.
Professor Giubellino, perché «Alice» è considerato così importante?
«Ha realizzato un salto di qualità straordinario nella comprensione del comportamento della materia nucleare a densità e temperature estreme».
Che cosa significa in pratica?
«Le ricerche ci portano informazioni essenziali sulle interazioni forti che governano l’Universo, aprendoci la porta su due aspetti-chiave: come si genera dalla massa dei quark quella delle particelle ordinarie, vale a dire di ciò che ci sta intorno? E, quindi, com’era l’Universo nei primi istanti dopo il Big Bang?».
Che cosa avete scoperto?
«Studiando collisioni tra nuclei di piombo a velocità prossima a quella della luce e raggiungendo temperature di 3 mila miliardi di gradi, siamo entrati nel vivo di un programma che ha impiegato mille ricercatori e ora iniziano ad arrivare i risultati. In queste condizioni è possibile osservare la materia primitiva, com’era prima che assumesse le caratteristiche che presenta adesso, in particolare prima che i quark si riunissero a formare i protoni e i neutroni e, da qui, i nuclei degli atomi».
Com’è questa materia?
«I quark e i gluoni, che in condizioni normali sono intrappolati nel nucleo, si “sciolgono” e si liberano in una “zuppa”. Uno dei modelli teorici che descrive il comportamento in questo stato, chiamato “plasma di quark e gluoni”, era stato descritto per la prima volta proprio da due italiani, Giorgio Parisi e Nicola Cabibbo».
E il futuro? Che cosa promette «Alice» per i prossimi anni?
«Nuovi e più importanti risultati. Da febbraio 2015 inizierà la fase “Alice 2.0” che si prolungherà per il prossimo decennio. L’obiettivo è utilizzare come strumento per l’analisi del plasma una sonda d’eccezione: i quark pesanti, noti come “charm” e “beauty”. Hanno una massa così grande che possono essere prodotti solo nei primissimi momenti delle collisioni, quando sono più violente. Si può così disporre di un “tracciante”, che si muove nel plasma e si combina con altri quark per formare le particelle finali. Potremo quindi studiare direttamente la struttura dell’intero sistema. “Alice”, ma anche “Atlas” e “Cms” si preparano attraverso una serie di migliorie agli apparati sperimentali».
Il vostro obiettivo finale?
«Conoscere in modo dettagliato com’era davvero la struttura dell’Universo nella fase iniziale del Big Bang».

La Stampa TuttoScienze 26.11.14
«Trovati sulla cometa i primi mattoni della vita»
di Luigi Grassia


Il modulo Philae in questo momento è congelato in un crepaccio buio, su una remota cometa dal nome poco poetico (67P/Churyumov-Gerasimenko), in attesa che il corpo celeste, nella sua orbita, si avvicini alla luce e al calore del Sole e che questo risvegli anche Philae. Nel frattempo gli scienziati a Terra valutano la messe di dati scientifici che il modulo e la sonda Rosetta sono riusciti trasmettere. La novità più intrigante è la probabile scoperta di molecole organiche. I ricercatori vanno cauti, ma uno degli enti spaziali coinvolti nel progetto, cioè l’Agenzia spaziale tedesca, riferendosi ai dati preliminari di uno degli strumenti a bordo di Philae, ha fatto sapere che i primi mattoni della vita sarebbero stati rintracciati sulla cometa, anche se «l’identificazione e l’analisi delle molecole è ancora in corso».
L’identificazione di molecole organiche è una delle maggiori aspettative dalla missione Rosetta, perché si ritiene che le comete abbiano avuto un ruolo importante nella comparsa della vita sulla Terra : i componenti chimici delle future cellule si sarebbero formati nello spazio e sarebbero precipitati negli oceani primordiali usando le comete (nei passaggi periodici) come mezzi di trasporto. Le indiscrezioni dell’Agenzia spaziale tedesca sono autorevoli perché proprio alla Germania è stato affidato l’esperimento «Cosac», che consiste nell’«annusare» e analizzare i gas emessi dalla cometa.
Ma Philae regala anche altri risultati. Il suo braccio meccanico vibrante ha verificato che la cometa ha una superficie di 10-12 centimetri di polveri che ricoprono il ghiaccio. La temperatura del suolo è di 170° sotto zero. I sensori sismici, elettrici e acustici confermano che la cometa al momento non è attiva, ma, quando si avvicinerà al calore del Sole, ci si aspetta che si avviino movimenti delle rocce e del ghiaccio: la speranza è che gli strumenti del modulo si risveglino e possano documentare quel che succede
Ma Philae regala anche altri risultati. Il suo braccio meccanico vibrante ha verificato che la cometa ha una superficie di 10-12 centimetri di polveri che ricoprono il ghiaccio. La temperatura del suolo è di 170° sotto zero. I sensori sismici, elettrici e acustici confermano che la cometa al momento non è attiva, ma, quando si avvicinerà al calore del Sole, ci si aspetta che si avviino movimenti delle rocce e del ghiaccio: la speranza è che gli strumenti del modulo si risveglino e possano documentare quel che succede.