giovedì 27 novembre 2014

Corriere 27.11.14
Il Papa e gli animali
«Il Paradiso è aperto a tutte le creature»
Le parole sull’aldilà: non luogo, stato dell’anima
di Gian Guido Vecchi


CITTÀ DEL VATICANO La Chiesa in cammino nella storia «verso il Regno dei Cieli», il Paradiso che «più di un luogo» è «uno stato dell’anima in cui le nostre attese più profonde saranno compiute in modo sovrabbondante». Francesco, nella sua catechesi in piazza San Pietro, parla della «Gerusalemme celeste» e sorride: «È bello pensare al Cielo. Tutti noi ci troveremo lassù, tutti».
E poi amplia lo sguardo, con una frase che allarga la speranza della salvezza e beatitudine escatologica agli animali come all’intero creato: «La Sacra Scrittura ci insegna che il compimento di questo disegno meraviglioso non può non interessare anche tutto ciò che ci circonda e che è uscito dal pensiero e dal cuore di Dio», spiega. Prima di citare il capitolo 8 della Lettera ai Romani: «L’apostolo Paolo lo afferma in modo esplicito, quando dice che “anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio”».
Pure altri testi, dalla seconda lettera di Pietro all’Apocalisse, mostrano «l’immagine del “cielo nuovo” e della “Terra nuova”», ricorda Francesco, «nel senso che tutto l’universo sarà rinnovato e verrà liberato una volta per sempre da ogni traccia di male e dalla stessa morte». Come «compimento di una trasformazione che in realtà è già in atto a partire dalla morte e risurrezione di Cristo» ci si prospetta, insomma, una «nuova creazione»: «Non dunque un annientamento del cosmo e di tutto ciò che ci circonda, ma un portare ogni cosa alla sua pienezza di essere, di verità, di bellezza».
Francesco sta preparando una enciclica «ecologica» sulla custodia del Creato. Di certo il tema è ricorrente e talvolta controverso, nella Chiesa. Si racconta che Paolo VI avesse consolato un bambino in lacrime per la morte del suo cane dicendogli: «Un giorno rivedremo i nostri animali nell’eternità di Cristo».
Del resto la parola «animale» viene da «anima», come principio vitale, e anche Giovanni Paolo II disse in un’udienza del 1990: «Alcuni testi sacri ammettono che anche gli animali hanno un alito o soffio vitale e che l’hanno ricevuto da Dio».
Una prospettiva che Benedetto XVI — del quale peraltro è noto l’amore per i gatti — sembrò sbarrare durante un’omelia di sei anni fa: «Nelle altre creature, che non sono chiamate all’eternità, la morte significa soltanto la fine dell’esistenza sulla Terra...».
Il tema, spiega un grande teologo come l’arcivescovo Bruno Forte, ha a che fare con la parola greca anakephalaiosis , ovvero «la “ricapitolazione” di tutte le cose in Cristo e quindi nella gloria di Dio, tutto in tutti».
Non a caso Francesco ha citato San Paolo: «Secondo la teologia paolina, come si legge nella lettera ai Colossesi, tutto è stato creato per mezzo di Cristo e in vista di Lui, e quindi tutto parteciperà alla gloria finale di Dio». Certo, «nella forma e nella misura data ad ogni creatura», aggiunge Forte: «Una cosa è la creatura consapevole e libera, un’altra quella inanimata. Ma l’idea è che l’universo intero non viene annientato».

il Fatto 27.11.14
Jobs Act, la legge di Renzi l’ha scritta Confindustria
Squinzi & C. si congratulano per la svolta e vedono la ripresa nel 2015
Tutto merito delle nuove norme sul lavoro, che peraltro sono opera loro:
ecco il documento dell’associazione degli imprenditori italiani che già a maggio le anticipavano punto per punto
Il documento di Squinzi “Proposte per il mercato del lavoro” contiene già tutto il Jobs Act:
Via l’articolo 18, “demansionamento”, controlli sui dipendenti
di Marco Palombi


Il Centro Studi di Confindustria, per la crescita, ha adottato la politica di Giorgio Gaber sulla rivoluzione: oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente. In pratica quest’anno sul Pil non si muove foglia, l’anno prossimo può essere, ma dopo sarà una pacchia. D’altronde, scrivono gli analisti degli imprenditori, “le riforme strutturali danno frutti nel medio termine, ma nell’immediato rispondono alla domanda di cambiamento del Paese e restituiscono così la fiducia necessaria a rilanciare consumi e investimenti”. Che lo dicano non è così sorprendente se si considera – come vi mostriamo in questa pagina – che l’unica riforma strutturale in dirittura d’arrivo, il Jobs Act, l’hanno scritta loro. Non è un’esagerazione, ma la lettura comparata tra il testo Proposte per il mercato del lavoro e della contrattazione pubblicato da Confindustria a maggio e il ddl delega uscito dalla Camera: sono uguali. Esiste anche una conferma negativa: il Jobs Act reale non ha infatti praticamente niente a che fare con le linee guida che Renzi annunciò in pompa magna a gennaio.
Testi a confronto: ecco quello scritto dagli industriali
Sono anni che gli imprenditori tentano di manomettere lo Statuto dei lavoratori, ma non era mai capitato che un governo facesse proprie le loro proposte senza cambiarle di una virgola. Per esserne certi basta leggere le Proposte di cui sopra. Il testo si apre con una lamentazione sul declino italiano: c’è stata una perdita di produttività enorme, dice Confindustria, colpa anche di quegli avidi dei lavoratori italiani che hanno ottenuto aumenti di stipendio “che non avrebbero dovuto aver luogo”. Non solo: “Nel 2010 e 2011, all’accentuarsi della crisi, sia in Germania che in Spagna si è operato un aggiustamento verso il basso del livello delle retribuzioni reali, non così in Italia”. E quindi? “Questi dati devono guidare le nostre linee di riforma”. Insomma, il fine è tagliare gli stipendi. Ma quali sono queste linee? Lo spiega senza timidezze il box Interventi sulle tipologie contrattuali: “Occorre rendere più flessibile il contratto a tempo indeterminato”. Tradotto: via l’articolo 18 e libertà di licenziamento. E come? “Limitare la tutela della reintegrazione ai soli casi di licenziamento discriminatorio o nullo e prevedere la tutela indennitaria” per tutti gli altri. Il Jobs Act – e solo per un emendamento imposto al governo dalla sinistra Pd – cambia la formula aggiungendo la reintegra anche per alcuni licenziamenti disciplinari. Poca roba. Seconda richiesta: “Rendere più flessibile la nozione di equivalenza delle mansioni”. È il famoso de-mansionamento, che ovviamente Renzi ha inserito nel Jobs Act: oggi è possibile dequalificare un lavoratore – col suo accordo o quello dei sindacati – solo in presenza di una crisi aziendale, nel mondo della Leopolda deciderà l’impresa e basta. Terza richiesta: “Aggiornare la disciplina dei controlli a distanza”. Fatto. Il Jobs Act cancella di fatto l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, che impedisce, per dire, di puntare una telecamera su un dipendente per controllarlo oppure monitorarne le operazioni sul Pc. L’era dei polli da batteria aziendali sta per cominciare.
E ancora: bene il contratto unico a tutele crescenti – scrive Confindustria – però “non può sostituire tutte le altre tipologie contrattuali esistenti”. Il governo, ovviamente, si adegua e passa dal disboscamento radicale delle attuali 46 forme contrattuali degli annunci di Renzi all’invito al governo a “valutare” la situazione e semmai... Il premier, ad esempio, dice che cancellerà i Co.co.pro., tipologia contrattuale famosa che però stava già morendo di suo (all’uopo le imprese hanno già il sostituto: il comodissimo “tempo determinato” disegnato dal decreto Poletti).
Finita? Macché. Le imprese chiedono – nell’apposita sezione “Ammortizzatori” – l’estensione a tutte le aziende del “contratto di solidarietà espansivo” (meno ore di lavoro e meno stipendio in cambio di qualche assunzione) anche alle aziende che oggi non ne hanno diritto: i criteri sono gli stessi per la concessione della Cig straordinaria. Fatto. Tutto il sistema comunque, dice Confindustria, va “riformato profondamente”. Il primo passo? Bisogna “porre fine subito all’esperienza degli ammortizzatori sociali in deroga”. Fatto pure questo.
Memorabilia: Così la pensava Matteo a gennaio
Si potrebbe continuare con le coincidenze tra il ddl delega del governo e le Proposte di Confindustria, ma lo schema è chiaro. Più curioso che il Jobs Act reale sia invece solo un lontano parente di quello che Renzi presentò in gennaio, quand’era segretario del Pd da un mese e a Palazzo Chigi c’era Enrico Letta: in quel testo, peraltro, tutta questa roba confindustriale non c’era. A gennaio, il primo punto all’ordine del giorno era scrivere (“entro 8 mesi”) un Codice unico del lavoro con le norme esistenti in modo che fosse traducibile in inglese: è passato un anno... Il punto due era invece la “riduzione delle varie forme contrattuali che hanno prodotto uno spezzatino insostenibile” per andare verso “un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti”. E l’articolo 18? Neanche una parola: d’altronde per il Renzi pre-Chigi si trattava di “un falso problema”.
Al punto 3 Renzi proponeva un “assegno universale” di disoccupazione. Nella delega l’impegno c’è, ma si dice che i soldi verranno stanziati con altri interventi nel bilancio dello Stato: peccato che nel ddl Stabilità attualmente in Parlamento a questo fine non c’è un euro.
Rispettato invece l’impegno a istituire un’Agenzia unica per gestire le politiche attive del lavoro (anche qui però mancano i soldi), mentre “l’obbligo di rendicontazione online” per chi usa soldi pubblici per la formazione e la sospirata “legge sulla rappresentanza sindacale” il povero Renzi se le è proprio dimenticate, come pure i “sette piani industriali dettagliati per settore” con cui creare “nuovi posti di lavoro”. È un vecchio adagio: si fa campagna elettorale in poesia e si governa in prosa. E a Confindustria hanno degli ottimi prosatori.

il Fatto 27.11.14
Governi obbedienti
Finalmente si realizza il sogno di Agnelli
di Giorgio Meletti


Il sogno di Gianni Agnelli si realizza, e scusate il ritardo. Il suo cinismo lo portava a pensare, e va bene, ma anche a dire: “La sinistra può fare delle cose che la destra non potrebbe fare”, cioè le cose che piacevano a lui. E così eccolo, nell'ottobre 1998, che vota al Senato, con moderato entusiasmo (“Avrei preferito De Gasperi”), la fiducia al governo di Massimo D'Alema, primo e ultimo presidente del Consiglio ex comunista. L'avvocato maramaldeggiava come un Oscar Farinetti qualsiasi sui suoi dipendenti futuri disoccupati: “I conflitti di classe, da quando è caduto il muro di Berlino ed è successo quello che è successo a Mosca, si può dire siano già finiti”. Sì, si poteva dire già allora al Senato, oggi l'Avvocato l'avrebbe ripetuto allegramente alla Leopolda, dove non sarebbe sicuramente mancato, lui che sostenne D’Alema ma anche De Mita e Berlusconi.
CI VOLEVA MATTEO RENZI per realizzare la quadratura del cerchio, la Confindustria che detta, letteralmente, e il governo che trascrive commi scritti altrove. Agnelli, da presidente della Confindustria, trattava con Luciano Lama e, insieme, imprenditori e sindacati dettavano al governo i termini della loro faticosa intesa. E lo stesso maestro del collateralismo, Silvio Berlusconi, non è mai riuscito a combinare niente, solo a promettere. Perché non è di sinistra come Renzi, è solo di destra, un difetto che impedisce di dire ai lavoratori “lo faccio per voi” e far scattare l’applauso. Basta ricordare i due momenti chiave, l'alfa e l'omega della sua parabola. Marzo 2001, nella campagna elettorale che lo porterà a sterminare il cosiddetto centro-sinistra di Francesco Rutelli, B. va a Parma, al convegno della Confindustria, abbraccia il presidente Antonio D'Amato e proclama: “Il vostro programma è il mio programma”. Agosto 2011, dieci anni dopo: il governo Berlusconi annaspa tra spread alle stelle, manovre e contromanovre, lettere della Bce e colloqui riservati al Quirinale per preparare l'avvento si super Mario Monti. Si presenta a Palazzo Chigi una strana alleanza dei produttori capitanata dalla presidente della Confindustria Emma Marcegaglia (oggi nominata da Renzi alla presidenza dell'Eni) che impartisce al Caimano un cazziatone strepitoso: “No all'atteggiamento rilassato del governo”. Al suo fianco annuiscono padri della patria come il presidente dei banchieri Giuseppe Mussari e leader sindacali come Susanna Camusso della Cgil e Raffaele Bonanni della Cisl, oggi fresco pensionato d'oro.
BERLUSCONI ci aveva provato, a cancellare l'articolo 18, facendosi teleguidare dalla Confindustria. Ma c'era l'opposizione, allora, e Sergio Cofferati riempì il Circo Massimo senza che il segretario dei Ds Piero Fassino gli desse del conservatore. Aveva dunque ragione Agnelli, ci voleva il trionfo politico della sinistra (41 a zero, due a zero etc.) per consentire finalmente alla Confindustria di dare ordini al governo di Renzi. Che in una cosa è coerente: effettivamente non tratta con le parti sociali, si limita a obbedire agli industriali, tanto i conflitti di classe sono finiti.

il Fatto 27.11.14
Camusso (Cgil): “Sul lavoro pronti al ricorso alla Ue”

“Valuteremo tutte le strade, anche il ricorso all’Europa contro il Jobs act. La lettura degli articoli 30 e 31 della carta di Nizza dice che è possibile, ci proveremo". A dirlo è il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, dopo la sentenza della Corte di Giustizia Ue che dichiara illegittime le norme italiane sui contratti a tempo determinato nelle scuola (vedi articolo a pagina 3  ). "Vedremo come scriveranno i decreti delegati, se decidono nel chiuso delle stanze o se aprono un confronto. Si può ricorrere in ragione delle direttive europee. Questi sono i casi in cui diciamo: meno male che l’Europa c'è", sottolinea Camusso. "Sarà uno degli argomenti che useremo per contrastare il tentativo di abrogare l'articolo 18 che è in corso con la legge delega", aggiunge. L’articolo 30 della Carta di Nizza riguarda proprio la “tutela in caso di licenziamento ingiustificato”, mentre l'articolo 31 si riferisce alle “condizioni di lavoro giuste ed eque”, stabilendo che “ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose”. A proposito di un’eventuale consultazione la Camusso dice: “C'è tanta strada prima di porsi il tema del referendum”.

Corriere 27.11.14
Giuliano Ferrara:

«Senza Silvio il centrodestra non esiste. Il suo vero erede è Renzi»
intervista di Fabrizio Roncone


ROMA Appuntamento con Giuliano Ferrara, direttore de Il Foglio , alle quattro del pomeriggio.
Ma è in lieve ritardo.
«Sto salendo adesso su un taxi...». Cellulare, Roma, il frastuono del traffico di sottofondo. «Però se il tassista è disposto a sopportare le mie chiacchiere, l’intervista possiamo cominciarla subito... Dai, parti con la prima domanda...».
Silvio Berlusconi controlla ancora Forza Italia?
«Berlusconi non ha mai controllato Forza Italia. Non controlla coalizioni, né governi, né partito: lui è il partito, è la coalizione, è il governo. Una figura simile a Kim Il-sung, il dittatore coreano. Poi, certo, è anche un grande e famoso megalomane che, per anni e anni, è stato comunque l’unica giustificazione della destra italiana. Senza di lui cosa ci sarebbe stato, cosa c’è? Il Movimento sociale, An, Fratelli d’Italia... Roba da serie B. Bossi capì ed ebbe l’astuzia di essergli amico. Ma ora l’erede di Bossi è Salvini, un brillante attaccamanifesti. No, dai: la verità è che senza Berlusconi non erano niente e non saranno niente».
Non ti sarà sfuggito, direttore, che Raffaele Fitto sembra muoversi come uno pronto a lanciare un’Opa e...
«Non accetto domande su Raffaele Fitto!».
Permettimi d’insistere.
«Ma cosa dovrei dirti? È un politico di provincia che ha preso preferenze a Bisceglie, con enorme rispetto per Bisceglie. Posso parlarti di Fitto? Posso parlarti di Fitto, dopo che mi hai appena chiesto un parere su Berlusconi, uno che ha battuto tutti i suoi avversari, da Occhetto a D’Alema, da Prodi a Bersani?».
Berlusconi intanto dice che Salvini può essere il nuovo candidato premier del centrodestra.
«Sai, Berlusconi cambia spesso le statuine del suo presepe personale... Ricordi quando diceva che Fini sarebbe stato il suo successore? No, dico: ad un certo punto indicò persino la Brambilla e io me lo ricordo Tremonti, a cena, che quando lo seppe quasi mi svenne davanti al ristorante... No no... Vuoi la verità?».
Dai.
«Berlusconi vuole governare con lucidità, e la parola lucidità qui la dico e qui la nego, una fase di transizione del Paese d’intesa con il Pd: poi, se al termine di questo percorso lui ce la facesse a vincere ancora, allora sarà Napoleone...».
E non ce la facesse?
«Gestirà la sconfitta con il suo vero erede».
E chi sarebbe?
«Renzi, è chiaro! Perché è Renzi il capo della nuova generazione che si riconosce nel trasversalismo inventato da Berlusconi medesimo. Staffetta perfetta».
Per immaginarci un Berlusconi vittorioso dobbiamo cominciare ad immaginarci un Berlusconi di nuovo candidabile: devi ammettere che ci vuole un bel po’ di fantasia.
«Più che alla fantasia, dobbiamo affidarci alla Divina provvidenza. Ci sono di mezzo tribunali italiani e la corte europea, l’interpretazione di molte leggi e l’elezione del nuovo capo dello Stato...».
Non hai mai nominato Angelino Alfano.
«Alfano?».
Alfano sostiene d’essere disposto a ricostruire un’alleanza di centrodestra ma...
«Dimmi un po’: non ti ho risposto su Fitto e ora pensi che ti risponda su Alfano? Guarda, non è antipatia. Però davvero questi sono tutta robetta... Fratelli di Alfano, Fratelli di Fitto, Fratelli di Salvini... partitucci, veri o potenziali, che non arrivano al 6%...».
Patto del Nazareno.
«Se mi dici che scricchiola, mi metto a urlare...».
Non te lo dico: ma è un patto destinato a durare, sì o no?
«Il cosiddetto Patto del Nazareno è la legittimazione della legislatura, e non per ragioni puramente aritmetiche. Vogliamo rinfrescarci la memoria? Dopo le elezioni del 2013, Berlusconi disse: voglio un governo di larghe intese e voglio che Napolitano resti presidente. Ricorderai che Bersani non lo ascoltò e provò a fare il governo del cambiamento con Grillo, andando subito a sbattere. Così spuntò fuori Letta, che pensò di farsi un governo in accordo con Alfano. Ma durò un battito d’ali. A quel punto chi arriva?».
Renzi.
«Bravo, arriva Renzi. E che fa? Riceve subito Berlusconi al Nazareno, nella sede del Pd, e lì gli spiega che accetterà entrambe le sue richieste, su governo e Quirinale. Tutto qui. Semplice semplice. Per questo il Patto tiene. E vi sarei grato se voi del Corriere riusciste a spiegarlo anche a quei due premi Nobel di Fitto e di Brunetta...».
( Pausa ).
«Aspetta che devo dire al tassista... ecco, qui, se accosta qui è perfetto. Io sono arrivato... E tu che dici? Mi sembra che l’intervista c’è tutta, no?».

Corriere 27.11.14
Nuovo statuto pd. Quell’invito agli ex segretari


Renzi l’aveva annunciato in direzione e così è stato: ieri si è svolta la prima riunione pd della commissione sulla forma del partito. Obiettivo, preparare i lavori per l’assemblea nazionale di Reggio Calabria (13 dicembre) e la riscrittura dello statuto. Una trentina di deputati — tra i quali Andrea Orlando, Gennaro Migliore, Sandra Zampa e Nico Stumpo — hanno deciso il calendario. Si ragionerà su ruolo degli iscritti, primarie, web e finanziamento. Saranno invitati anche gli ex segretari: Walter Veltroni, Dario Franceschini, Pier Luigi Bersani e Guglielmo Epifani; ma anche altre personalità, come Fabrizio Barca.
(Alessandro Trocino)

La Stampa 27.11.14
Gianni Morandi: “Non ho votato. Qui in Emilia siamo tanti più a sinistra di Renzi”
Il cantante: «Se il premier fosse stato leader di un partito negli Anni Cinquanta, io e mio papà forse l’avremmo visto come un rivale politico»
di Marinella Venegoni

qui

Corriere 27.11.14
«Berlinguer ultimo grande leader»
Morandi e le regionali in Emilia: «Per la prima volta non ho votato»
Nei giorni in cui il cantante, da sempre vicino alla sinistra, compie 70 anni:
«C’è molta delusione: non so se Renzi ai miei tempi, sarebbe stato nostro alleato»

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il Fatto 27.11.14
Renzi & co. molto veloci da fermi
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, che senso ha un governo che corre e non arriva, decide e non succede, promette e non accade, salvo multe e privazioni?
Ruggero

LA PAROLA è cambiamento. E cambiamento c’è. Più gente ha paura, più negozi chiudono, più operai, ex operai e precari di tutti i tipi, compresi i futuri precari, chiamati studenti, scendono in piazza, più periferie si infuocano, più destre si animano e si rafforzano confortate dal fatto che la sinistra si vede come protesta (grande ma marginale) nelle piazze ma non al governo, dove ogni singola decisione viene salutata e celebrata dalle due destre (Alfano e Brunetta) salvo finte scenate con un occhio ai sondaggi. Ma anche i sondaggi appaiono disorientati. Renzi cammina sempre più in fretta sul suo tappeto mobile, e perde punti. Salvini dice cose che Fantozzi una volta definiva “bestiali”, e va su di due punti poi di altri due. Hanno fatto bene, ancora una volta, molti nostri colleghi giornalisti a non dire della Lega ciò che sanno e che pensano. Di questo passo un personale politico di questo genere para-nazista te lo puoi ritrovare al governo. Salvini, diventando segretario della Lega dopo la spartizione dei proventi dei precedenti leader politici e guide morali incaponite sia con l'uso privato dei fondi pubblici sia con la secessione del Nord, si è posto la giusta domanda: ma forse un’Italia canaglia, disposta a tutto, pur di terrorizzare un bambino nero o di dare la caccia a un rom, non c’è solo in certi cortili della Lombardia e del Veneto. Forse c’è anche nel resto d'Italia. Ed eccolo al lavoro, con il patriota Borghezio, che ha già spento ogni stima per l’Italia con il suo indefesso lavoro al Parlamento europeo, impegnato insieme ai fascisti di Casa Pound a far saltare in aria le periferie di Roma. Tra poco si scende, perché, come ha spiegato bene Saviano, la ’ndrangheta e le mafie hanno un buon tornaconto da disordini come questi. Se non altro tengono impegnata la polizia, e la costringono a distrarsi dai veri affari che tengono in piedi una buona parte dell’Italia. Intanto il resto del Paese, un aggregato di cittadini che credevano in un partito, credevano nelle istituzioni (o almeno le volevano vive) credevano di poter dare una mano, con buona volontà civica, e nei limiti del possibile, si vedono ogni giorno trascinati da nuove, inattese, non spiegate decisioni, fuori dai limiti del possibile, e sottoposti a cambiamenti che fanno paura perché il costo è tutto sui cittadini, non si vede niente di nuovo o diverso (salvo il costo). E, se c’è un vantaggio, se lo attribuiscono ministre e ministri di bell’aspetto quando vanno (ogni pomeriggio e ogni sera) in televisione, sottobraccio agli alleati e sostenitori di una nuova destra senza tanti pregiudizi verso i “comunisti” come Renzi e Boschi. Come vedete ne abbiamo fatta di strada. Tutta verso il niente.

il Fatto 27.11.14
Scuola, la Ue bioccia l’Italia: “Assumete tutti i precari”
Bruxelles vieta il “rinnovo illimitato dei contratti a termine”
In 300mila possono chiedere al giudice l’assunzione
Effetto valanga su tutta la PA
di Carlo Di Foggia

Per i precari italiani, c'è un giudice in Europa: “Il rinnovo illimitato di contratti a tempo determinato per esigenze permanenti delle scuole statali è ingiustificato”. La sentenza pronunciata alle 9:33 di mattina dal presidente sloveno della Corte di Giustizia europea, Marko Ilesic è di quelle che fanno storia. Stando ai numeri, per dire, riguarda direttamente i 250-300 mila lavoratori (insegnanti e personale tecnico-amministrativo) finiti nella riffa di graduatorie creata per stringere l’imbuto delle immissioni in ruolo: da ieri, tutti quelli che hanno superato i 36 mesi cumulativi di contratto potranno essere assunti oppure risarciti. La sua portata, però, travalica i confini della scuola, visto che il dispositivo rischia di avere effetti su tutto il gigantesco mondo del precariato nel pubblico impiego, e rafforza il proposito della Cgil di ricorrere all’Ue contro il Jobs Act appena approvato alla Camera.
IERI, dopo l’esultanza dei sindacati, il ministro dell'Istruzione Stefania Giannini ha spiegato che la “riforma del governo non solo è perfettamente in linea, ma anticipa la sentenza”. Il riferimento è alla promessa di assumere 150 mila precari della scuola fatta a settembre scorso, chiudendo le graduatorie a esaurimento. Una misura, come si legge nel dossier, pensata proprio per disinnescare la bomba in arrivo. Niente da fare, e gli effetti rischiano di travolgere il sistema di reclutamento: perfino chi è stato assunto potrà chiedere un risarcimento. Secondo l'Anief, combattiva associazione specializzata in ricorsi legali, la cifra complessiva supererà i due miliardi di euro. “È una pietra miliare nella lotta contro la precarizzazione”, spiega l’avvocato Walter Miceli, uno dei tanti legali protagonisti della vertenza. “Il governo ora deve stabilizzarli”, aggiunge Domenico Pantaleo della Flc Cgil: “Quello della Giannini è un palliativo”.
La battaglia, durata anni, è culminata ieri con la condanna per violazione della direttiva comunitaria 70 del 1999. Un testo recepito dall'Italia nel 2011, ma sistematicamente violato. Secondo l’accordo quadro, infatti, superati i 36 mesi presso la stessa amministrazione il rapporto di lavoro è da considerarsi a tempo indeterminato e per ricorrere a ulteriori rinnovi occorre che ci sia “una reale esigenza”. Non solo: la legge italiana avrebbe dovuto indicare “tempi certi per l'immissione in ruolo ed eventuali sanzioni per gli abusi”.
NEL 2011, un decreto del governo ha invece provato ad arginare i ricorsi con una deroga alle norme comunitarie, ribadita dalla Cassazione nel 2012: i precari, il senso del testo, accumulano punti utili, e poi “sussistono ragioni oggettive che impediscono” l’assunzione. Quali? “La particolare condizione della scuola italiana”. Tradotto: vista la mancanza di risorse, non è possibile assumere tutti, ma l'attesa fa curriculum. Prima il Tribunale di Napoli e poi la Consulta hanno però chiesto alla Corte Ue di esprimersi. Ora spetterà ai giudici del lavoro decidere, su richiesta degli interessati, se obbligare gli Istituti ad assumere i precari - pagando gli scatti di anzianità arretrati e i periodi tra un rinnovo e l'altro - o decretare un risarcimento. Non è il “tutti assunti”, ma poco ci manca: una rivoluzione che rischia di pesare non poco sulle casse statali. Solo i 150 mila che il governo vuole assumere da gennaio, per dire, costeranno tre miliardi l'anno, che diventano 4 dopo tre anni (c’è n’è solo uno fino a dicembre 2015 nella legge di Stabilità): cifre che ora rischiano di raddoppiare, o peggio se ci saranno ricorsi in altri settori della Pa. E l'Anief ha già annunciato contenziosi anche per i precari di Afam, Sanità, Regioni ed Enti locali mentre il sindacato Gilda prepara diffide ed è pronto ad andare in tribunale.
DEI 150 MILA previsti dal governo, 135 mila hanno più di 36 mesi di servizio, mentre uno su cinque ha abbandonato da tempo l’insegnamento o non l’ha mai svolto. Molti, spera l’esecutivo, rinunceranno. Possibile, però, che il tempo indeterminato possa convincerne una buona parte a cogliere l’occasione, arrivando a scuola senza alcuna esperienza. Per ovviare, il Miur ha avviato un censimento che si chiuderà entro il 31 dicembre. Non è l'unico ostacolo alla riforma, che dovrebbe diventare un decreto a gennaio. La consultazione pubblica della “Buona scuola” non ha dato i frutti sperati: nonostante il “milione e 350 mila contatti sul sito”, il mondo reale la pensa diversamente. Tutti i collegi dei docenti dei 41 mila istituti statali hanno bocciato il piano Renzi. Nessuno escluso. Molti hanno addirittura appoggiato una contro-riforma attraverso una legge di iniziativa popolare. Dal canto loro, i sindacati hanno avviato una propria petizione, raccogliendo più 300 mila firme. Al centro dello scontro, oltre ai tagli della Stabilità (1,4 miliardi in tre anni), l'abolizione degli scatti stipendiali: verranno sostituiti da quelli “per merito” riservati al 66 per cento dei docenti dal 2019. Fino ad allora, nessun aumento per tutti.

Corriere 27.11.14
In aula il regno della confusione
di Gianna Fregonara


La sentenza europea mette il sigillo sulla confusione che regna nella scuola in fatto di insegnanti, graduatorie, posti vacanti, ricorsi e riforme che correggono riforme.
La sentenza della Corte di Giustizia europea, che condanna l’Italia per l’eccessivo e prolungato uso dei precari nella scuola, mette la ceralacca sulla confusione che regna nella scuola italiana in fatto di insegnanti, graduatorie, posti vacanti, riforme che correggono riforme, ricorsi, vecchi e nuovi concorsi. E potenzialmente apre la via a decine di migliaia di ricorsi di singoli supplenti che potranno chiedere al giudice del lavoro di valutare il proprio caso e capire se si sia creato negli anni un diritto all’assunzione (con scatti di anzianità e carriera) o almeno a un risarcimento. Sono duecentocinquantamila secondo il sindacato gli insegnanti che potrebbero puntare al posto fisso, poco più di sessantamila dicono le prime stime ufficiose del Miur.
Di questo si parlerà a lungo nei prossimi mesi, proprio mentre al ministero dell’Istruzione sono alle prese con il testo del decreto di stabilizzazione dei 150 mila insegnanti iscritti alle graduatorie ad esaurimento che è stato promesso dal progetto della «Buona scuola» e dovrà essere approvato dal Consiglio dei ministri nella prima metà di gennaio e diventare legge entro marzo.
Si tratta dell’ennesimo tentativo di mettere ordine nel percorso, del tutto tortuoso, per diventare insegnante, esaurendo in un colpo solo tutto ciò che è rimasto dal passato, quelle graduatorie ad esaurimento (Gae) che non ci sono ancora, esaurite per i tagli della riforma Gelmini e i limiti al turn over. Poi si dovrebbe passare dal 2016 a concorsi con scadenze corte e regolari, come si addice a un sistema moderno ed efficiente di reclutamento. Ma il progetto di tirare un tratto di penna sul passato è ben più difficile di quanto spiegato nel libretto della «Buona scuola»: intanto chi entrerà in base alla sentenza della Corte europea avrà diritto alla ricostruzione della carriera, cioè ad uno stipendio più alto e agli arretrati mentre tutto ciò non è scontato per chi sarà «stabilizzato» dalla «Buona scuola», che per ora ha stanziato solo un miliardo per il 2015.
Il censimento poi dei 148 mila insegnanti che sono iscritti nella graduatorie ha riservato sorprese poco piacevoli ai tecnici del ministero che stanno scrivendo il testo del decreto. La difficoltà sta in primo luogo nel fatto che le competenze degli insegnanti in attesa di cattedra non sempre sono quelle necessarie nella scuola del Ventunesimo secolo. Per fare un esempio, come scrive nel suo rapporto la Fondazione Agnelli c’è «un’insufficienza di docenti in scienze matematiche per le secondarie di primo grado (le medie) le cui supplenze annuali vengono sempre più spesso assegnate a docenti non inclusi nelle Gae e anche non abilitati, mentre c’è una sovrabbondanza di docenti della scuola dell’infanzia, sono oltre 50 mila a fronte di un organico di 82 mila posti». È poi noto a tutti, oltre che confermato dai dati del Miur, che servono insegnanti nelle aree urbane del Nord mentre le graduatorie più numerose sono quelle delle regioni del Sud: c’è da immaginare che nessuno rifiuterà una cattedra per sempre anche lontano da casa, ma non è pensabile che poi non cerchi di riavvicinarsi creando una nuova catena di supplenze.
Infine, come ha segnalato sul Corriere Orsola Riva, ci sono oltre 30 mila insegnanti che da oltre tre anni non insegnano, ci sono docenti di materie (la stenografia) che non esistono più e che dovranno essere formati per altri compiti. Senza entrare nelle polemiche tra governo e sindacati sulla valutazione del merito degli insegnanti, nè sui dubbi che anche i tecnici hanno sulla possibilità di creare reti di scuole (con quali criteri?) e organico funzionale a disposizione delle supplenze (chi ne farà parte e per quanto tempo?), la sfida è altissima. O si riusciranno a scrivere risposte chiare, non solo sulla carriera dei 150 mila neo assunti ma anche sul valore che porteranno nella scuola pubblica con le loro competenze per gli studenti, o il risultato sarà solo quello di trasferire la confusione dall’aula professori direttamente dentro le aule, aumentando lo stato di smarrimento degli studenti di fronte ad una scuola che pensa sì ai diritti degli insegnanti ma neppure questa volta a quelli degli alunni, trasformando le buone intenzioni non in una riforma epocale ma in un enorme soqquadro.

il Fatto 27.11.14
No alla Riforma, solo Agnese s’astiene


DIi tutte le 41 mila bocciature avanzate dagli istituti statali al piano “La buona scuola” del governo, quella che ha fatto più scalpore è arrivata dall’istituto Balducci di Pontassieve, provincia di Firenze. Si tratta, infatti, del liceo scientifico dove insegna la moglie del premier Agnese Renzi, insegnante di italiano e latino per le scuole superiori. L’unica a non partecipare al voto del collegio dei docenti è stata proprio la first lady, che però ha “discusso la riforma” in famiglia. La Renzi è anche una delle migliaia di precarie storiche costrette ogni anno e barcamenarsi con le supplenze. Da qualche settimana è infatti tornata a insegnare a due passi da casa per 8 ore la settimana con una sostituzione maternità fino alla fine dell’anno. Dopo la sentenza di ieri, quindi, avrebbe la possibilità di ottenere l’assunzione coatta dal giudice del lavoro.
Pochi giorni dopo l’ingresso, ha dovuto chiedere un permesso per volare con il marito al G20 in Australia. “Ma non c’è alcun privilegio per lei. Agnese si muove in modo sobrio, fa le cose con semplicità…” ha spiegato il preside Giulio Mannucci. A marzo, invece, subito dopo lo sbarco del marito a Palazzo Chigi, aveva usufruito di un’aspettativa dall’educandato Santissima Annunziata di Firenze per stare di più con i figli.

La Stampa 27.11.14
Blair: Renzi è il nostro erede
Il premier: ora è tutto più arduo
Il laburista punta su lui e Valls come alfieri di una politica nuova
di Mattia Feltri


La Terza via, scrive Tony Blair, è «un pensiero che punta su politiche concrete (...) invece che su soluzioni ideologiche che possono ricevere uno scroscio di applausi da parte dei militanti del partito ma sono del tutto impercorribile nel mondo reale». Quindici anni fa (novembre 1999), Blair fu protagonista - insieme con Lionel Jospin, Gerhard Schröder, Romano Prodi, Massimo D’Alema e altri - della conferenza che si tenne a Palazzo Vecchio, Firenze, con cui i leader della sinistra mondiale cercarono di fare rete delle nuove idee, come imponevano la conclusione del secolo breve e delle sue dottrine. C’era anche Bill Clinton, che oggi ricorda così: «I confini avevano iniziato ad apparire più come delle reti che come dei muri». E poi: «Credevamo nella condivisione delle opportunità e delle responsabilità e rifiutavamo le false dicotomie che troppo spesso inquinano il dibattito (...) - impresa e lavoratori, economia e ambiente, settore privato e settore pubblico (...) Eravamo convinti che i risultati avessero più valore della retorica».
Sono parole, e ricordi, e soprattutto rivendicazioni di successi, che Clinton e Blair hanno affidato a IL - mensile del Sole 24 Ore diretto da Christian Rocca - con testi scritti apposta per il numero in edicola domani. Ne parliamo non soltanto perché quella fu una stagione di riformismo di cui abbiamo i segni sulla pelle (per esempio si comincia a riconoscere i rilevanti meriti di Schröder nella solidità della Germania di oggi), ma perché Blair affida a Matteo Renzi e al primo ministro francese Manuel Valls , e lo ha ripetuto ieri a Sky, l’eredità della Terza via e il compito di rinnovarla. È di leader così, dice Blair, che «gli elettori hanno urgente bisogno». E allora IL ha chiesto e ottenuto un articolo anche da Renzi e Valls. Come si può riprendere il tracciato di quella terza via, forse l’unica concretamente percorsa fra le mille immaginate del Novecento? Renzi accetta il ruolo, premette che «quel compito è diventato più arduo. Ai due vecchi conservatorismi di destra e di sinistra, si è difatti aggiunta l’inconcludenza di un populismo che (...) si è fatto istanza politica a sé». Ora ci tocca, scrive Renzi, andare avanti, trovare la nostra direzione ripartendo dalla «stagione clintoniana» lungo la quale si seppero scardinare il postulato di destra sull’inviolabilità del mercato e quello di sinistra sulla centralità dello Stato. Almeno, si aggiunge qui, da un punto di vista teorico, vista l’anarchia finanziaria che contribuì a generare la crisi di una decina d’anni più tardi.
Renzi non si ritrae, sottolinea almeno due punti importanti, «la globalizzazione» che impone «più velocità e più trasparenza, insomma: una sfida inedita per la storia del pensiero»; e la spietata sfida alla sinistra, cui continua a succedere di «affezionarsi troppo ai cambiamenti che ha realizzato negli anni passati», fino al punto di difenderli anche «quando diventano il principale ostacolo per le conquiste future». E così, pare dire Renzi, grazie a Blair e Clinton che mi nominano successore, ma loro saranno soltanto un punto di partenza . E non si crogiola troppo nell’investitura nemmeno Valls, che nel suo scritto appare molto concentrato sulla definizione di sé come uomo di sinistra, ma alla lunga arriva al sodo: dall’incontro di Firenze sono cambiate parecchie cose per la crisi economica, l’avanzata di paesi emergenti e il barcollare della struttura europea; così propone la «raccolta diretta da parte della Bce dei debiti degli Stati», scansa il rigore e suggerisce di «rilanciare collettivamente gli investimenti». E con il rigore se la prende pure Matt Browne - vecchio consigliere di Blair e oggi di John Podesta, collaboratore di Barack Obama - nell’ultimo intervento ospitato da IL. «Il riaffermarsi della destra ha dato inizio a un’epoca di politiche di austerità, così come hanno iniziato a prosperare il populismo e l’antipolitica». Per fortuna, dice Browne, c’è gente della stoffa di Renzi e Valls - e conserviamo dell’invidia per tanta fiducia. Ma quel che conta è la considerazione finale: i conservatori di destra e di sinistra, i populisti e tutti quelli che si opporranno alla Terza via rivisitata «diventeranno monumenti al passato».

Corriere 27.11.14
Tony Blair
«L’Europa ha bisogno di una sinistra nuova»
intervista di Paolo Valentino


ROMA «La modernizzazione che Matteo Renzi sta cercando di portare in Italia è la sola strada per una forza progressista, che vuole creare una società più giusta ed eguale. Chi non cambia i sistemi di base, in un mondo che cambia così tanto e così velocemente, rimane indietro. Abbiamo tutti davanti gli stessi problemi: globalizzazione, innovazione tecnologica, demografia. La ragione per cui molti Paesi devono riformare sistemi pensionistici, welfare, mercato del lavoro è proprio il mondo che cambia. E la sinistra ha successo solo quando rimane fedele ai suoi valori, ma li applica in modi diversi per tempi diversi».
A Roma per una serie di incontri, compreso quello avuto ieri con il Presidente del Consiglio, l’ex premier laburista britannico Tony Blair ha concesso un’intervista al Corriere . Abito grigio, in grande forma, i famosi occhi azzurri che continuano a lanciare scintille, solo i capelli più radi e diafani ne raccontano i 61 anni.
Signor primo ministro, lei fece le sue riforme in un panorama economico caratterizzato dalla crescita, mentre oggi Renzi e gli altri leader devono farlo nel pieno della più grave recessione del Dopoguerra. In che modo governi progressisti possono riformare e rimanere fedeli a se stessi in tempi di crisi?
«Oggi il cambiamento è allo stesso tempo più urgente e più difficile. Penso che in Europa sia necessario un “grande compromesso”, l’intesa a stimolare l’economia, sul piano degli investimenti e su quello monetario, in cambio di sostanziali riforme strutturali, altrimenti l’economia non sarà competitiva in futuro. La moneta unica è stato un progetto motivato dalla politica ma espresso nell’economia, dove l’assunzione implicita era che la crescita continuasse all’infinito. Gli aggiustamenti necessari per allineare le varie economie non vennero fatti. Oggi, di fronte alla recessione, venuto meno lo strumento della svalutazione, l’eurozona deve agire insieme».
Lei quindi critica quei Paesi come la Germania, che insistono solo sull’austerità?
«È impossibile ridurre il debito se non si ha crescita. E’ necessario per l’eurozona combinare misure per lo sviluppo nel breve periodo, varando le riforme che nel lungo termine renderanno quella crescita sostenibile. Ma è chiaro che prima venga la crescita».
L’Europa deve affrontare anche una grave crisi di credibilità presso le opinioni pubbliche. Ieri al Parlamento europeo Papa Francesco ha criticato la troppa burocrazia, la distanza dai cittadini, la «globalizzazione dell’indifferenza» che caratterizzano l’Ue. Allo stesso tempo, crescono nel Continente forze anti-europee, nazionaliste, anti-immigrati che contestano l’esistenza stessa del progetto europeo. Qual è una risposta progressista a questa crisi dell’Europa?
«Credo siano necessarie tre cose. Primo occorre capire che la rabbia della gente è reale, per questo sono necessarie politiche per la crescita e il lavoro. Secondo bisogna affrontare le genuine preoccupazioni sollevate dalle ondate migratorie. E qui abbiamo bisogno di regole, ma non di pregiudizi: quindi forti controlli per frenare l’immigrazione clandestina e misure comuni a tutta l’Unione Europea. Terzo e più importante, l’Europa deve concentrarsi non sulla burocrazia o l’interferenza nella vita delle persone, ma su grandi cose che mostrino perché essa sia l’idea giusta per il XXI secolo: mercato unico, politica energetica, difesa e sicurezza comuni. In nessuna crisi alle nostre porte, oggi, siamo in grado di agire senza che gli Usa siano il senior partner. La percezione della gente è che Bruxelles e le sue istituzioni siano lontani. Tutte le volte che l’Europa si pone il problema di come avvicinarsi alle persone, le sue istituzioni avviano una grande introspezione su se stesse e, due o tre anni dopo, notiamo che la gente le sente ancora più distanti».
Ma come si danno risposte comuni senza forti istituzioni comuni?
«Non riusciremo ad affrontare i partiti dell’estrema destra nazionalista con altri dibattiti sui poteri di Commissione, Consiglio e Parlamento. La priorità immediata è dare alla gente il senso del perché l’Europa sia rilevante nel Terzo Millennio. E la ragione oggi non è più la pace, come per la generazione dei nostri genitori, ma il potere. Se vogliamo essere influenti, far avanzare i nostri valori e interessi in un mondo dove emergono nuovi protagonisti, Cina, India, Indonesia che è tre volte la Germania, ci vuole l’Europa».
Non molti suoi connazionali sono d’accordo. Quanto la preoccupa la prospettiva del Brexit?
«Sono molto preoccupato dalla possibilità che il Regno Unito esca dalla Ue. Sarebbe un disastro per noi e per l’Europa. Però non credo ci sia una maggioranza della popolazione favorevole all’uscita».
Che fare con la Russia? Come bilanciare la necessità di sostenere le aspirazioni dell’Ucraina, con la legittima difesa dei nostri interessi economici e strategici?
«La cosa migliore è tenere fermi i nostri valori. L’Europa deve agire con fermezza di fronte alla destabilizzazione dell’Ucraina. D’altra parte, ci sono aree dov’è indispensabile cooperare con Mosca, la lotta all’Isis, la Siria, l’Iraq, i negoziati con Teheran. Questo è possibile nelle relazioni internazionali: fermezza sui valori, dialogo e cooperazione sulle emergenze comuni. Non dobbiamo agire con Putin in un modo che chiude ogni spiraglio».
Che fare in Medio Oriente?
«Occorre vedere la regione come teatro di una lotta molto basilare: tra quelli che vogliono società tolleranti sul piano religioso e aperte su quello economico, e chi si oppone».
Le manca fare il primo ministro?
«Ogni tanto. Quando ci sono le grandi crisi, pensi sempre che avresti molto da dire a da fare. D’altra parte non ho mai avuto tanto da fare in vita mia».
C’è mancanza di vera leadership in Europa?
«No, direi che c’è buona leadership in giro, non ultimo qui in Italia. Si sarebbe mai immaginato tre anni fa l’attuale posizione di Matteo Renzi?».

Repubblica 27.11.14
Occorrerebbero intese forti. Invece sono deboli per il caos in Forza Italia e le tensioni nel Pd
di Stefano Folli


La paura di Renzi l’incognita del Colle e il rischio paralisi sulla legge elettorale
NEL momento più difficile della sua esperienza di governo, non è strano che Matteo Renzi si sia ritrovato al Quirinale. Da Napolitano ha sempre ricevuto buoni consigli, anche affettuosi. Verso il dinamico giovane fiorentino («uno di quelli che vogliono cambiare le cose in Europa» ha detto Tony Blair a Sky), il capo dello Stato ha dimostrato fin dall’inizio stima e simpatia.
Oggi, quando mancano poche settimane alle dimissioni del presidente per ragioni di età e di salute, i suoi consigli sono ancora più preziosi e senza dubbio bene accetti da un premier che vede restringersi il sentiero davanti a sé. Il sentiero istituzionale, in particolare, perché la riforma a cui Renzi tiene continua a essere — come tutti sanno — la legge elettorale. Accanto a questa c’è la trasformazione del Senato in camera delle autonomie: una sorta di fiore all’occhiello del «renzismo», un’iniziativa costituzionale complessa che Napolitano ha sempre appoggiato con convinzione.
Il problema di Renzi è che l’autunno ha oscurato il quadro e reso incerto il cammino della modernizzazione. Inoltre la prospettiva di una sede vacante al Quirinale ai primi di gennaio rende ancora più confuso lo scenario. Ci vorrebbero accordi forti tra le forze politiche, a cominciare dal partito berlusconiano. Invece le intese sono deboli, esposte al vento delle divisioni interne che coinvolgono, in forme diverse ma insidiose, sia Forza Italia sia il Pd. Eppure il presidente del Consiglio ha bisogno di risultati certi entro una data definita: sia per non soccombere alla «vulgata» che già circola nei palazzi romani a proposito di un declino politico ormai in essere, sia per disporre di un’arma di pressione sui parlamentari quando si comincerà a votare per il successore di Napolitano.
La nuova legge elettorale maggioritaria approvata almeno in un ramo del Parlamento sarebbe un buon argomento per tenere a freno dissidenti e contestatori, soprattutto quelli che interessano da vicino il premier perché convivono all’interno del Pd. Una riforma maggioritaria taglierebbe le unghie a chi sogna una scissione (non Bersani, come si è visto); mentre una legge proporzionale, tipo quella introdotta dalla sentenza della Consulta, incoraggerebbe senza dubbio la nascita di nuove formazioni. In altre parole, tutto s’intreccia. Il partner Berlusconi non dice «no» alla riforma di Renzi, ma è sempre più impacciato da un partito che non rispetta più la sua autorità, un tempo assolutamente scontata. Per cui al vertice di Forza Italia si tenta di rinviare la legge elettorale a dopo l’elezione del presidente della Repubblica, inseguendo un legame che il premier rifiuta. D’altra parte, il colloquio di ieri è servito, certo, a rassicurare Renzi circa il consueto sostegno da parte di Napolitano. Ma anche a stabilire che non si possono immaginare strappi e colpi di testa in materia istituzionale. Occorre, anzi, una certa simmetria fra il percorso della riforma elettorale e quella, di natura costituzionale, che cambierà il volto del Senato.
Qui Napolitano è stato chiaro e il presidente del Consiglio non ha motivo per non essere d’accordo. In fondo tutti hanno ascoltato cosa ha detto di recente a Palazzo Madama l’ex presidente della Corte, Silvestri: in un sistema che continua a essere bicamerale, fino alla compiuta riforma del Senato, non ci si può affidare a un modello elettorale dichiaratamente previsto per la sola Camera dei deputati. Ne derivano una serie di conseguenze che consigliano di tener conto dei vari passaggi costituzionali in corso, coinvolgendo un’ampia platea di forze politiche, senza rincorse solitarie. Può darsi che siano necessari tempi un po’ più lunghi di quelli desiderati dal premier, ma è interesse comune evitare rischi di incostituzionalità. Se poi, come è inevitabile, questo percorso s’incrocerà con l’elezione del nuovo capo dello Stato, pazienza. Un sistema maturo — è il pensiero attribuito a Napolitano — si giudica anche da come sa gestire gli snodi istituzionali rilevanti.

Repubblica 27.11.14
Rischio Senato sul Jobs Act
Battaglia nel Pd
Rissa Cuperlo Orfini sull’articolo 18
Cgil: ricorso all’Europa


Jobs Act, scontro in casa Pd Orfini accusa le “primedonne”
Cuperlo: difendo le mie idee
La Cgil prepara un ricorso alla Corte di giustizia europea
Riforma in Senato il 2 dicembre, ok prima dello sciopero

ROMA Il giorno dopo l’approvazione del Jobs act nel Pd non arriva la quiete dopo la tempesta. Nonostante gli sforzi di Matteo Renzi per sdrammatizzare la situazione. «Sono più preoccupato dei precari, delle mamme senza maternità, dei cassintegrati cinquantenni che non delle legittime opinioni diverse all’interno del Pd», dice il premier al Tg1.
Anche se non rinuncia ad una stoccata agli avversari: «Il Pd si è riunito, ha ragionato, ha discusso, ha trovato punto di accordo: se qualcuno non ha rispettato quel punto di accordo è un problema suo».
Acqua sul fuoco, comunque. E non sembra neanche preoccuparlo l’annuncio di Susanna Camusso di un ricorso alla Corte di giustizia europea contro il Jobs act. Gli stessi giudici che hanno dichiarati illegittime le norme sui precari della scuola. «Valuteremo tutte le strade perchè siamo in presenza di una manomissione violenta dello Statuto dei Lavoratori» annuncia Susanna Camusso. Renzi glissa, ma lo scontro nel Pd ormai divampa. Quello fra Matteo Orfini, per esempio, e Gianni Cuperlo. Il presidente del Pd definisce i dissidenti sul Jobs act «primedonne, vittime di protagonismo a fini di posizionamento interno». Parole che non piacciono a Cuperlo che risponde: «Primedonne? No, solo donne e uomini con le loro convinzioni e la loro coerenza». E ricorda all’attuale presidente che gli ha lasciato quella poltrona e lo ha votato, che lui «dovrebbe essere una figura di garanzia verso tutti». Orfini non la prende bene. Replica e nega di avere mai parlato di “primedonne”. Nel frattempo si accedono altri fuochi. Rosy Bindi assicura che non pensa alla scissione, ma attacca duramente il premier. Ospite di Lilli Gruber dice: «Non voglio uscire dal Pd, ma non voglio che il Pd esca da se stesso. Renzi fa sempre molta fatica a riconoscere gli errori, come per l’astensionismo in Emilia Romagna che ha definito irrilevante. Per la prima volta dopo mesi di trionfo Renzi registra una battuta d’arresto sulla quale andrebbe fatta una riflessione». La Bindi parla di ritorno all’Ulivo, la formazione che portò al governo Romano Prodi. L’idea viene subito girata a Prodi stesso. E il suo commento è: «Ho combattuto per l’Ulivo tanti anni perché pensavo fosse la creazione di un sistema bipolare che unisse diversi riformismi. Ci ho dato metà della mia vita. Non posso essere contro».
Renzi in ogni caso vuole andare avanti a tappe forzate. Il Jobs act arriverà al Senato il 2 dicembre e l’obiettivo è di approvarlo prima del 12 dicembre, data dello sciopero generale convocato da Cgil e Uil. A discuterne nell’aula di Palazzo Madama ci sarà anche il democratico Walter Tocci che aveva presentato le dimissioni dopo avere votato quel testo — senza condividerlo — ad ottobre. Il Senato ieri, a larghissima maggioranza, ha respinto le sue dimissioni.

Repubblica 27.11.14
E la sinistra interna prepara la rivincita al Senato: senza di noi il governo non ha i voti
di Tommaso Ciriaco e Goffredo De Marchis


ROMA Allontanare la scissione, contare molto di più nel Pd approfittando di un Renzi che non sembra invincibile come due mesi fa. «Quelli che l’altro ieri sono usciti dall’aula durante il voto sul Jobs Act formano un gruppo molto più grande dell’Ncd », avverte Stefano Fassina. «Non ci faremo sentire soltanto sul lavoro, ma anche sulle riforme costituzionali ed elettorale. E sulla scelta del nuovo presidente della Repubblica». Ecco la vera partita, il Quirinale, anche dentro al Partito democratico. Per questo l’obiettivo è far ballare il governo al Senato sull’articolo 18 così come è avvenuto a Montecitorio. Con numeri della maggioranza che a Palazzo Madama sono in bilico fin dalla partenza dell’esecutivo Renzi.
Diventare la seconda gamba del governo è l’obiettivo della minoranza, seppure divisa e senza un leader riconosciuto. Costringere il premier a trattare con l’opposizione interna punto su punto. E non abbandonare il partito, ovviamente, come invece ipotizzano Rosy Bindi e Pippo Civati. I civatiani del Senato si comporteranno come il loro leader alla Camera. E sono 4 voti a sfavore della riforma del lavoro, anche nel caso di una votazione di fiducia. Corradino Mineo, Lucrezia Ricchiuti, Felice Casson e Walter Tocci sono in trincea. «La fiducia sarebbe una vergogna nazionale. Se Matteo la mette faccio un casino pazzesco», annuncia l’ex direttore Rai. Tocci ha visto le sue dimissioni respinte proprio ieri e si sente aneviterebbe cora più libero di manifestare il proprio dissenso. «Questo Jobs Act non lo avrebbe scritto neanche la Fornero», dice Ricchiuti. Questo tipo di opposizione è già stato digerito dal governo in occasione dell’abolizione del Senato elettivo. Ma la maggioranza continua a viaggiare sul crinale di 7 voti di scarto tra la vita e la caduta dell’esecutivo quindi a Palazzo Chigi i movimenti sono continuamente monitorati.
I tempi sono strettissimi. Il Jobs Act arriva a Palazzo Madama martedì, mercoledì e giovedì si vota. La fiducia non è decisa ma nessuno si sente di escluderla. Un voto sul governo altre plateali spaccature perché il grosso dei dissidenti non dirà no a Renzi. Se invece il dibattito sarà aperto i dissensi si manifesteranno più chiaramente. Magari con la stessa modalità di Montecitorio ossia l’uscita dall’aula. Federico Fornaro, bersaniano, sta già preparando un documento critico e conta di ottenere le firme di 25 senatori. «Non è accettabile il doppio binario per cui allo stesso banco di lavoro sederanno un dipendente con l’articolo 18 e uno senza», dice. Se davvero i parlamentari contrari alla linea saranno 25 ovvero uno su quattro dentro il gruppo Pd, si rafforzerà la minaccia di Fassina. «Sono tutti i voti che sommati a quelli della Camera peseranno nella successione a Giorgio Napolitano», pronostica Massimo Mucchetti. Una battaglia del genere, per avere un minimo respiro, va condotta sotto le insegne del Pd. «Bersani lo ha detto chiaramente — dice Alfredo D’Attorre —. La parola scissione dobbiamo cancellarla dal vocabolario. E noi vogliamo correggere oltre alle scelte di Renzi anche le oscillazioni di Bindi e Civati».
Fondamentale diventa una sostanziale unità della minoranza dem. Obiettivo ancora lontano. «Non vogliamo alzare alcun muro — dice Fassina —. Tutti insieme vogliamo cambiare la strada intrapresa da Renzi. Non funziona sia politicamente sia economicamente. Lo dicono i lavoratori, le piazze che non sono fatte da funzionari della Cgil in gita». I fronti aperti sono tanti. «Sulla legge elettorale non accetteremo più come risposta Berlusconi non è d’accordo», avverte D’Attorre. E i rapporti di forza, continua Fassina, «sono cambiati. Abbiamo riconosciuto il grande lavoro fatto da Speranza e Damiano. Si può fare di più. Stando dentro il Pd». Manca un leader, è vero, lo ammette anche D’Attorre. «Uscirà fuori». Magari proprio al momento chiave, il voto per l’elezione del presidente della Repubblica, la madre di tutte le battaglie.

Grazie, Bersani!
Repubblica 27.11.14
Orfini, presidente del Pd
“Più lealtà o diventiamo una comune anarchica”
“Evitato il disastro solo perché il 90% dei nostri deputati è stato disciplinato”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA «I dissidenti non hanno avuto rispetto per l’unità del Pd e le decisioni che avevamo preso». Matteo Orfini, il presidente del Pd, non arretra. La polemica con Gianni Cuperlo, entrambi ex dalemiani, è stata al calor bianco.
Orfini, nel Pd stanno volando gli stracci?
«Non stanno volando gli stracci. Abbiamo avuto un passaggio molto delicato. Sapevamo che lo sarebbe stato. E lo abbiamo gestito bene, perché abbiamo discusso a lungo del Jobs Act, lo abbiamo migliorato, anzi lo abbiamo riscritto. Oggi il Pd può essere orgoglioso del lavoro che ha fatto».
Però lei ha definito i dissidenti dem “primedonne in cerca di protagonismo”: non è stato irrispettoso?
«La mancanza di rispetto è stata piuttosto la loro nei confronti di tutti quei parlamentari e quei dirigenti che hanno in questi mesi saputo ascoltarsi, discutere e migliorare un testo rimanendo al merito. La mancanza di rispetto è avere rotto l’unità del Pd con un comportamento difforme da quello che tutti insieme avevamo deciso di avere in aula. Una scelta del genere non ha prodotto un disastro solo perché il 90% dei deputati democratici si sono comportati come tutti insieme avevamo deciso di fare».
Irresponsabili, quindi?
«Nei confronti del governo, del Pd e del paese. Stiamo discutendo di problemi serissimi e abbiamo il dovere di dimostrare di essere un partito e non una comune anarchica ».
Cuperlo le ha rimproverato di non essere l’arbitro imparziale che un presidente di partito deve essere?
«Il presidente del Pd deve garantire il rispetto delle regole e dello Statuto. È esattamente quello che ho fatto, perché nelle regole del Pd non c’è scritto che ognuno può fare quello che gli pare. Non c’è neppure scritto che il presidente debba rinunciare alle proprie opinioni, non lo facevano Cuperlo e Bindi».
Sia Cuperlo che lei siete stati dalemiani: è ormai diaspora di ex dalemiani?
«Come ha più volte detto D’Alema, i dalemiani non esistono. D’Alema non c’entra nulla».
Però alle primarie di un anno fa lei appoggiava Cuperlo mentre ora è renziano?
«Per me non esistono cuperliani e renziani, esiste il Pd. Il congresso è finito l’8 dicembre di un anno fa. Io ho lavorato per il Pd, non per unire la minoranza dem. Cuperlo non ha mai condiviso questa impostazione e ha ritenuto si dovessero mantenere le divisioni congressuali».
Teme una scissione?
«No, girando per circoli e iniziative dem non c’è uno dei nostri militanti che non ci dica che dobbiamo stare uniti».
La battaglia nel Pd ricomincia al Senato e lì il dissenso mette davvero il governo a rischio?
«Spero che tutto il Pd al Senato recepisca l’accordo del testo della Camera».


Corriere 27.11.14
Lo spazio (esiguo) a sinistra del Pd e il mito del «partito del lavoro»
di Nando Pagnoncelli


Le frizioni sempre più evidenti nel Pd, innescate dal Jobs act, sono esplose ieri con evidenza. Punto scatenante è stato il risultato delle elezioni in Emilia-Romagna. La straordinaria astensione è stata letta prevalentemente come un segnale critico rivolto a Renzi. Rosy Bindi, nell’intervista concessa a questo giornale, lo dice esplicitamente e ritiene che non sia lontano il momento della costituzione di una forza di sinistra in competizione con il Pd di Renzi che starebbe progressivamente spostandosi a destra. Una forza che recuperi l’ispirazione dell’Ulivo, saldamente collocata nell’area del riformismo di sinistra.
Che consistenza avrebbe un percorso di questo genere? Quale forza elettorale? È naturalmente difficile da dire. È indubbio che l’aggravarsi delle difficoltà economiche del Paese creino nell’elettorato forti preoccupazioni e un malumore diffuso anche verso il governo e il premier che hanno perso una quota importante di consensi a partire dalla fine dell’estate. E abbiamo visto che il Jobs act non sembra essere particolarmente apprezzato, poiché si pensa che favorisca più le imprese che non i lavoratori né si spera in un suo effetto apprezzabile sulla crescita dell’occupazione.
Ma questo non basta per individuare una stabile base di consenso. L’orientamento culturale su cui Renzi fonda il suo percorso non è infatti tanto un rifiuto della collocazione a sinistra, quanto un percorso di rinnovamento delle costituencies della sinistra in un mondo trasformato. E, in fondo, è stato Renzi a collocare il Pd nel Partito socialista europeo, cosa che non era riuscita a nessuno dei segretari provenienti dalla tradizione ex-comunista. E l’impostazione retrostante il Jobs act sembra una sorta di riedizione del patto dei produttori, sia pure con modalità negoziali e processi decisionali diversi rispetto al passato. Quindi l’ipotesi della nuova forza può avere una sua consistenza solo se non si chiude nel recupero del passato, nel ritorno all’Ulivo o comunque alle tradizioni precedenti. La richiesta di cambiamento, anche del ceto dirigente, è stata evidente in una parte importante dell’elettorato tradizionale della sinistra e sembra oramai un dato che non si può mettere in discussione. Anche perché il consenso potenziale ad una forza di questo tipo, come abbiamo visto qualche settimana fa, veniva meno dai lavoratori e più da disoccupati e anziani. Recuperare il disagio e la delusione attraverso il classico partito del lavoro è dunque presumibilmente difficile.

il Fatto 27.11.14
Da Saragat a Civati
Tutti si scindono, ma nessuno li vota
di Fabrizio d’Esposito


Il titolo più bello, in materia di scissioni, lo fece l’Avanti del 7 settembre 1920, pochi mesi prima della fatidica Livorno: “Proletari d’Italia: organizzatevi, disciplinatevi, armatevi. L’ora decisiva è forse imminente”. Dove quel sublime “forse” è la fotografia eterna di ogni dramma scissionista, supremo sbocco del male frazionista. Dopo quasi cent’anni ci risiamo per la centesima volta. Stavolta, “l’ora decisiva è forse imminente” per Rosy Bindi e Pippo Ci-vati, e forse, tocca ripetere il sublime avverbio, per Stefano Fassina e finanche Gianni Cuperlo. La loro ipotetica uscita dal Pd avviene da sinistra, anche per un’ex dc come la Bindi. Il Partito della Nazione renziano, condito con la salsa immangiabile del patto del Nazareno, è il nuovo casus belli ma nel corso degli ultimi venti anni ci sono state rotture più corpose per molto meno.
Le scissioni scorrono nel sangue di tutta l’Italia repubblicana, non solo a sinistra. Persino Antonio Di Pietro si scisse dall’Asinello e si fece l’Italia dei Valori per conto suo. E volendo partire dalle origini bisogna dire che dalle divisioni tra marxisti e anarchici, poi tra massimalisti e riformisti, poi ancora tra comunisti e socialisti, si è al-fine arrivati alla resa dei conti tra renziani e bindian-civatiani. Questo passa il convento.
IL PUNTO POLITICO, e serio, è che le scissioni non rendono mai in termini elettorali. A cominciare dalla storica frattura che si consumò nel gennaio del 1947 a Palazzo Barberini, a Roma, nel Psiup (Partito socialista di unità proletaria) di Pietro Nenni. I socialdemocratici di Giuseppe Saragat si radunarono nel Psli, Partito socialista dei lavoratori italiani, che in seguito diventò Psdi, Partito socialdemocratico. Per circa mezzo secolo il Psdi di Saragat ha sempre vivacchiato fra il tre e il cinque per cento, a proporzionale vigente. Ossia una media di venti-venticinque parlamentari a legislatura.
Stesso destino per tutte le contorsioni scissioniste che hanno dilaniato il Pci dopo la Bolognina. Rifondazione non è mai in doppia cifra, seppure con una media più alta degli antichi cugini socialdemocratici di Saragat, tra il sei e l’otto per cento. La vocazione scissionista si è sempre scontrata con la solida vocazione bipartitica o bipolare del sistema italiano, tra Dc e Pci, tra centrodestra e centrosinistra. Che poi scissionismo, frazionismo, semplice trasformismo abbiano condizionato e influito sulle coalizioni di governo con il loro potere di veto questo è un altro discorso. Le scissioni procurano più poltrone che voti, in genere. Anche perché spesso si verificano in funzione filogovernativa. Capitò ai comunisti di Diliberto quando Rifondazione mollò il primo Prodi ed è capitato più recentemente agli alfaniani del Nuovo Centrodestra in occasione, un anno fa, della decadenza di Silvio Berlusconi. Ncd, infatti, nacque per non lasciare i posti ministeriali nell’esecutivo di Enrico Letta. Sempre a sinistra, poi, quel “forse” è rimasto tale parecchio volte. Il tormentone Cofferati, per esempio, che tenne banco sin all’inizio del terzo millennio. Il Cinese, un’intervista sì e l’altra pure, era costretto a smentire la rottura, che non avvenne mai. Disse Cuperlo, nel 2003, da posizioni dalemiane e anti-Cofferati: “Serve più rispetto per la nostra classe dirigente”. Oggi per lui, Cuperlo, la situazione è capovolta e sta nello stesso fronte di Cofferati.
LO SCAMBIO di posizioni, in materia di scissioni, è continuo. Basta dare un’occhiata alla saga vendoliana, dopo la scissione da Rifondazione. Era il 2008 e Vendola ruppe in funzione filodemocratica (nel senso di Pd). Adesso è contro Renzi ma in direzione filogovernativa ha subìto la microscissione di Gennaro Migliore.
A destra il filone è altrettanto denso, calcolando le transumanze postdemocristiane e postmissine. Famosi “i sette puttani” monarchici che abbandonarono nel 1961 Achille Lauro sindaco di Napoli per passare con la Dc di Gava padre. E drammatica fu nel 1977 la scissione di Democrazia nazionale dal Msi di Almirante per appoggiare il governo Andreotti della non sfiducia. Ma dopo, voti e seggi, furono pochissimi. Manco dieci.

La Stampa 27.11.14
Speranza: Matteo cambi registro se non vuole sorprese sul Quirinale
Il capogruppo democratico alla Camera e le tensioni nel partito
di Carlo Bertini


«Ci sono date fissate per tutto, jobs act, Italicum, riforma del Senato. Chiedo a Renzi che fine ha fatto il tema dei diritti civili. Perché non fissiamo una data certa pure per coppie di fatto e ius soli? Forse perché Alfano condiziona troppo il governo?». Questa richiesta di Roberto Speranza, capogruppo Pd, all’indomani della fronda di una trentina di deputati sul jobs act, la dice lunga. Sì perché Speranza, che è anche capocorrente di Area Riformista, quella di Bersani, Epifani, Damiano, Amendola, vorrebbe che il premier ascoltasse le ragioni della sinistra. «E’ stato un errore molto grave il voto contrario rispetto alle indicazioni del gruppo», chiarisce. «Ma Renzi cambi registro, non banalizzi il dissenso, non attacchi così i sindacati, non dica che l’astensionismo è un fatto secondario». E in questa fase delicata, il capogruppo suggerisce al premier di seguire quando si tratterà di eleggere il futuro inquilino del Colle, il metodo della condivisione.
Tradotto, Renzi non scodelli un nome secco come frutto di un accordo preso solo con Berlusconi, perché la fronda Pd in asse con Sel e grillini può condizionare la partita?
«Il passaggio sul Colle, che mi auguro vi sia il più tardi possibile, ha bisogno appunto della massima condivisione. Solo questo fattore può garantire il massimo della coesione. E noi abbiamo bisogno di una tenuta fortissima del gruppo, perché ancora portiamo sulla pelle le cicatrici della ben nota vicenda della volta scorsa. Renzi del resto sa bene che solo la condivisione garantisce coesione».
Secondo lei che obiettivo hanno i suoi compagni di cordata che contestano Renzi? Farlo cadere?
«Sarebbe folle andare al voto anticipato che sancirebbe un fallimento per tutti noi. Tutto il Pd è consapevole che noi siamo l’unico cardine possibile per il paese, non siamo la Francia, l’Inghilterra o la Germania dove ci sono leadership alternative di sistema. Qui se non regge il Pd ci sono Salvini, Berlusconi o Grillo. Quindi chi lavorasse per far cadere il governo farebbe un errore gravissimo ai danni del paese. Ma ritengo che anche le anime più critiche non abbiano l’obiettivo di far cadere Renzi o di immaginare altri scenari».
Neanche quello di fare un altro partito?
«Ho sentito tutti escludere con forza la scissione. Io scommetto che non ci sarà e lavoro per questo. Ma serve uno sforzo da parte di Renzi di includere tutti nei processi. Mettere le questioni di merito sul tavolo è legittimo, ma dobbiamo trovare un metodo per garantire tenuta facendo convivere anche opinioni diverse nel Pd. È stato un errore non votare sul jobs act come ha deciso il gruppo, dopo una lunga discussione nel partito e in Commissione. Chi lo ha fatto ha voluto esprimere un disagio che c’è nel mondo del Pd, un disagio che non sottovaluto, ma ritengo molto più leale manifestarlo seguendo le indicazioni del gruppo».
Ha vissuto quelle diserzioni in aula come una sconfitta anche personale?
«No, anzi ritengo sia un successo aver portato il 90% del gruppo a votare il jobs act».
Però?
«Però Renzi non faccia finta di nulla, quei colleghi che sbagliano lanciano un segnale sull’inquietudine che c’è fuori. Conviene questo scontro perpetuo con il sindacato? A che ci porta? Sulle riforme costituzionali e sulla legge elettorale serve il massimo confronto dentro il Pd, va costruito un clima di sintonia e maggiore fiducia nel gruppo parlamentare. Renzi deve mostrare di essere più capace di cogliere lo spirito di disagio nel paese di queste settimane».

Corriere 27.11.14
Bindi, Fassina, Civati e Bersanu sono contro Renzi
La vocazione minoritaria di certo Pd
La propensione a dire sempre no è nella tradizione della sinistra italiana
di Ernesto Galli della Loggia


I deputati pd che martedì sono usciti dall’Aula per non votare il Jobs act si candidano a essere i nuovi protagonisti di uno degli spettacoli più antichi del repertorio della sinistra italiana: il nullismo politico. Cioè la propensione a dire sempre no, a fare l’opposizione e basta. Bindi, Fassina, Civati, Bersani e compagni sono contro Renzi perché lo giudicano un pericoloso thatcheriano travestito, e sta bene. Dunque si sono schierati contro quasi tutto quello che ha fatto - contro il patto del Nazareno, contro gli 80 euro, contro la riforma del Senato, contro la revisione dell’articolo 18 -, e sta ancora bene. Ma avanzando quali proposte nuove e alternative? In nome di quale nuovo progetto? Che cosa farebbero, insomma, se fossero loro a governare? Nessuno lo sa: sospetto perché non lo sanno neppure loro.
Ma in questo modo quello della sinistra pd finisce per essere niente altro che l’esatto rovescio di ciò che essa rimprovera a Renzi: l’antipersonalismo come risposta al personalismo. Così come, sempre in questo modo la sinistra pd mostra una singolare mancanza di sintonia con lo spirito del Paese. Non sembra proprio, infatti, che oggi gli italiani sentano il bisogno di «discorsi», quanto piuttosto di soluzioni tangibili, di proposte e progetti concreti. Magari anche elementari e brutali, come quelli leghisti di Salvini (e però, guarda caso, di grande successo), certo meno che mai delle astratte scomuniche ideologiche di Gianni Cuperlo. Non hanno bisogno di sentirsi dire che il presidente del Consiglio è un chiacchierone che non combina nulla, bensì di sapere che cosa combinerebbe chi gli muove tali accuse.
Nella situazione drammatica in cui si trova, il Paese ha bisogno di una cosa più di ogni altra: di un’idea capace di unirlo e di portarlo in salvo. Pur con tutte le critiche possibili e sia pure molto a tentoni, la proposta renziana del «partito della nazione» interpreta questa necessità e si muove in questa direzione. Rappresenta qualcosa che alla Sinistra finora non è mai riuscito, ed è la ragione che fin qui le ha impedito di sedere da sola al governo. S’illudono infatti gli antirenziani del Pd se credono che l’Italia possa essere governata sulla base delle ragioni dei disoccupati, dei metalmeccanici e dei pensionati. Bisogna avere un progetto che contemperi le ragioni di molti, molti altri; e più che vellicare il passato di una parte occorre disegnare un futuro plausibile per tutti. Altrimenti si conferma solo la propria antica, maledetta vocazione al minoritarismo permanente.

La Stampa 27.11.14
Le due strade per il successore di Napolitano
di Marcello Sorgi


La corsa al Quirinale s’è definitivamente aperta ieri dopo che Napolitano ha confermato a Renzi, in visita al Colle accompagnato dalla ministra Boschi, che non se la sente di rinviare le dimissioni. Per il premier, l’idea che il Presidente accettasse di prolungare il suo secondo mandato fino all’inaugurazione dell’Expo a maggio 2015 era legata all’obiettivo di approvare la riforma elettorale prima di presentarsi al voto delle Camere riunite, affollate di parlamentari riottosi che rispondono ormai solo a se stessi, per poter usare contro eventuali ribellioni a voto segreto la pistola carica di un eventuale scioglimento anticipato, l’ipotesi più temuta da deputati e senatori che non vogliono perdere il posto.
Ma Napolitano, oltre a confermare che medita di lasciare all’inizio del prossimo anno, ha detto a Renzi che non ha molto senso adoperare a fini tattici un percorso riformatore che ha bisogno dei suoi tempi e dei necessari accordi e compromessi. Con parole più formali il concetto è stato ribadito in una nota diffusa dal Quirinale alla fine dell’incontro. Renzi proverà egualmente a far passare prima di Capodanno al Senato l’Italicum, insistendo con Berlusconi, che ieri è stato fortemente contestato da Fitto e altri oppositori interni per aver cercato di difendere il patto del Nazareno, e magari completando il testo con una clausola che lo agganci all’effettiva conclusione dell’iter della riforma del Senato ed elimini dal calendario l’ipotesi di nuove elezioni in primavera. E comunque, l’approvazione definitiva del sistema elettorale slitterà a dopo le votazioni per il nuovo Capo dello Stato, che a questo punto si svolgeranno senza rete. Berlusconi scambierebbe il “sì” all’Italicum con la garanzia di rientrare nell’accordo per la successione al Colle. Quanta parte di Forza Italia lo seguirebbe in questo caso nel voto parlamentare, non è dato sapere.
Ma l’asse del Nazareno sarebbe tuttavia solo uno degli schieramenti che si presenterebbe ai nastri di partenza della corsa per il Colle, con l’obiettivo di eleggere un Presidente frutto dell’accordo tra Renzi e Berlusconi. L’altro, che con tutta evidenza era già in preparazione ieri nei corridoi di Montecitorio, era il redivivo fronte ulivista, che ha nella minoranza del Pd, in particolare in Rosi Bindi, e nel tentativo di costruire un’intesa con il Movimento 5 stelle, le sue fondamenta, e punta su un inquilino del Quirinale (molti pensano a Prodi) che si dedichi a ridimensionare Renzi.
Nessuno dei due fronti può dire di aver in tasca i voti necessari a realizzare il proprio obiettivo. La lista dei candidati, nell’attesa, si allunga. Come vuole la tradizione italiana, la gara per il Quirinale rischia di partire al buio, con forti desideri di vendetta che spuntano da tutte le parti.

Corriere 27.11.14
La road map contro le trappole in Aula
La nota del Colle Le dimissioni L’elezione
La ricetta del leader pd che cambia l’agenda e reimposta il rapporto con l’opposizione
di Francesco Verderami


ROMA Il Parlamento voleva la «prova di fedeltà» e Renzi gliel’ha data: i voti sulla riforma del bicameralismo alla Camera e quello sulla legge elettorale al Senato slittano a gennaio. E il cambio d’agenda del premier non è altro che una proposta di un gentlemen agreement con tutte le forze politiche, compresa la minoranza del Pd. Sgombrando il campo dai soliti sospetti sull’ipotesi — peraltro impraticabile — del voto in primavera, Renzi confida di sminare il sentiero dei due provvedimenti, riducendo i rischi delle trappole, di quei voti a scrutinio segreto che potrebbero far saltare il suo disegno.
Il patto offerto è chiaro: mettendo in sicurezza le sue riforme, il segretario democrat offre la messa in sicurezza della legislatura almeno fino al 2016. D’altronde lo scambio è per certi versi necessitato, visto l’ingorgo di fine anno in Parlamento: c’è da votare la legge di Stabilità e da approvare il Jobs act, a cui dovrà seguire l’immediato varo del decreto attuativo sulla riforma del lavoro, come Renzi ha promesso a Bruxelles. Ciò non vuol dire che i percorsi di modifica del bicameralismo e dell’Italicum saranno altrettante passeggiate, è chiaro che la Camera vorrà modificare il testo della riforma costituzionale con cui si punta al monocameralismo, così come il Senato vorrà riscrivere alcune parti della legge elettorale.
Il governo, prima di attraversare i canyon del Parlamento, conosce già quali saranno i punti degli agguati, là dove gli avversari di Renzi proveranno ad affossarlo: per un verso il tentativo (sulla riforma costituzionale) di ripristinare il Senato elettivo; per l’altro (sull’Italicum) di far saltare il premio di maggioranza alla lista, modificare il sistema delle candidature bloccate e introdurre il meccanismo dell’apparentamento per le forze più piccole in caso di ballottaggio. Ogni emendamento nasconde accordi segreti trasversali, ogni passaggio — se non venisse gestito — farebbe scattare la trappola, con ripercussioni politiche pesanti per il premier, assediato dai partiti di maggioranza e opposizione che sull’Italicum vogliono la norma transitoria con cui rendere inapplicabile la legge elettorale fino alla modifica del bicameralismo...
È un sentiero di guerra, insomma, preludio alla madre di tutte le battaglie: la corsa al Quirinale. Ecco lo snodo che il leader democratico teme più di ogni altro, e certo il cambio di road map sulle riforme non lo aiuta, perché l’intreccio lo espone a gravi insidie. Il patto del Nazareno all’apparenza vivo, in realtà Renzi sa che non è più così, che le apparenze potranno nascondere la verità (forse) fino all’approvazione al Senato dell’Italicum. Ma Berlusconi — sebbene debole nel Paese e persino nel suo partito — vuole prima garanzie sul futuro inquilino del Colle.
Formalmente sarebbe quello l’atto conclusivo dell’accordo, ma il patto non c’è già più, tra i due non c’è più nemmeno voglia di parlarsi. E se partisse ora la sfida per il Colle, sarebbe davvero una scommessa. Ecco cos’ha spinto il premier all’estremo tentativo di convincere Napolitano a restare, «almeno fino alla festa dell’Unità d’Italia, presidente», cioè fino al 17 marzo. Siccome non sarà così, Renzi si trova a dover tracciare una rotta senza un sestante, tra gli scogli di un Parlamento dove il Pd è diviso in tre tronconi e Forza Italia divisa in due, con Ncd e Udc che formalmente si promettono di marciare uniti, la Lega pronta all’agguato, i Cinquestelle assetati di rivincita. E tutti vorranno contare. I senatori del gruppo delle Autonomie hanno persino fatto un comunicato: «Siamo in sedici, ci siamo capiti...».
Il risiko è iniziato, e in questa confusione Renzi potrebbe restar vittima della nemesi, anzi peggio. Perché — dopo l’affossamento di Marini e Prodi — si stese la rete di protezione con Napolitano. Ma ora? Ora il premier dovrà proporre ufficialmente alle forze politiche una linea di condotta, che è già pronta: il «metodo» è il rapporto con l’opposizione, il «modo» è l’intesa da ricercare con Forza Italia, il «nome» è il candidato da condividere. Il rischio è che si arrivi a un «presidente per caso», frutto della casualità e simbolo di una sconfitta politica.

il Fatto 27.11.14
Cospirazioni
Se c’è il complotto non servono prove
di Bruno Tinti


Gli amici te li scegli ma i parenti no. Ci ho pensato spesso quando, in riunioni familiari, ho ascoltato in silenzio perentorie affermazioni sulle scie chimiche, quelle strisce bianche frutto della condensazione che si forma in alta quota sulle ali degli aerei e che sarebbero effetto di esperimenti condotti da imprecisate società (sempre partecipate dalla CIA) con micidiali armi chimiche. Oppure quando mi hanno informato sulla riconducibilità alle MULTINAZZZIONALI (quali non è mai stato specificato) di ogni nequizia politico-sociale-ambientale; qui ciò che mi disturbava non era tanto la tesi (l’inquinamento ambientale è certamente da imputare alle grandi società di estrazione; e anche qualche colpo di Stato) ma l’arrogante certezza disinformata di chi la sosteneva. E anche quando mi hanno contestato (come se fosse colpa mia) il Tso imposto a un pm di Roma, Paolo Ferraro, che indagava su un presunto Progetto Monarch, un complotto della massoneria e di sette esoteriche in ambienti politici, militari, finanziari e radicato – manco a dirlo – anche nella magistratura; qui, contravvenendo a una regola che mi ero imposto di osservare, ho rotto il silenzio per precisare: “Guarda che l’hanno sospeso dalla magistratura per infermità mentale”. “Ovvio (sorriso di scherno), bisognava impedirgli di arrivare fino in fondo”.
QUESTA mania del complottismo è molto antica. Mi ricordo, al tempo delle Br e della Rote Armee Fraktion (meglio conosciuta come Banda Baader-Meinhof), del dilagare della tesi del Grande Vecchio. Dovunque si leggeva di questa figura occulta, di volta in volta un uomo solo al comando o una ristretta cerchia di onnipotenti, che controllava e utilizzava per i suoi scopi occulti il terrorismo internazionale. Gli scopi occulti non si sapeva quali fossero (la destabilizzazione, certo. Ma in favore di chi? E per ottenere cosa?) però, che esistesse, i complottologi lo sapevano per certo. Come facevano a saperlo restava oscuro; ma lo sapevano. Quando arrivò Licio Gelli questa gente ebbe un orgasmo: eccolo il Grande Vecchio. Ma poi nemmeno lui gli bastò; dietro c’era sicuramente qualcun altro.
Adesso arriva Gioele Magaldi con il suo libro Massoni, società a responsabilità illimitata – La scoperta delle Ur-Lodges (Chiarelettere). La saga delle saghe: la massoneria, le super logge, la Trilateral, il Bilderberg e l’elenco infinito degli affiliati, da Lenin a papa Giovanni XXIII, da Osama bin Laden a Mario Monti, da Merkel a Draghi (che fanno finta di litigare e che in realtà si spartiscono il mondo). Quando ne ho letto su Il Fatto, mi è venuto in mente Cesare Pascarella (La scoperta de l’America), quando fa dire a uno degli avventori dell’osteria dove il narratore racconta le gesta straordinarie di Cristoforo Colombo: “Ma ’bi pazienza, fermete un momento... – Ma ste fregnacce tu come le sai? ”.
Perché Magaldi – secondo me – un problema ce l’ha. Documentazione niente. Lui dice che possiede tonnellate di documenti, nascosti in luoghi sicuri tra Londra, Parigi e New York. Perché non in un garage della Garbatella a Roma non si sa. Mi ricorda un tipo con cui ebbi a che fare quando ero pm, Igor Marini, quello che sosteneva che Prodi, Dini e Fassino avevano preso tangenti in occasione dell’acquisto di un pacchetto di azioni di Telekom Serbia da parte di Telecom Italia. “Ho tutte le prove”. “Va bene, dove sono? ” “In una cassaforte del notaio X (non mi ricordo il nome) a Lugano”. Mi disse pure che era morto in un incidente di deltaplano ma che lui sapeva per certo che lo avevano ammazzato. “Adesso la cassaforte sta negli archivi notarili”. Cominciai a organizzare una rogatoria internazionale, ma fui preceduto dalla Commissione di inchiesta parlamentare che mandò alcuni dei suoi membri in missione segreta a Lugano; tanto segreta che gli svizzeri non ne sapevano niente. Motivo per cui li arrestarono tutti. Naturalmente nella cassaforte non c’era niente. “Però conservo altri documenti in un locale segreto che si trova nell’hotel Columbus in via della Conciliazione a Roma”. Così, imperterrito, mi disse Marini. “Passate di qua, salite di là, aprite quella porta... ”. Non c’era niente, solo un antico muro di mattoni spesso due metri. Conclusi che si trovava bene in galera.
Magaldi, anche lui, ha la risposta pronta: “Non li ho pubblicati perché sono migliaia; sarebbe venuta fuori un’antologia di migliaia di pagine”. Se la cavava meglio il narratore di Pascarella: “Eh, le so (le fregnacce) perché ci ho bona memoria. – Già! Te ce sei trovato! Che significa? – Le so perché l'ho lette ne la storia. – Ne la storia romana? È naturale. – Ne la storia più gran-ne e più magnifica, – Che sarebbe er gran libro universale”.
PER CARITÀ, magari Magaldi sa davvero tante cose. Lui – dice – ha bazzicato con i potenti; e io più che qualche processetto... Però sputtanare tanta gente non è una cosa bella. Lenin mi è sempre stato simpatico e anche Papa Giovanni. Pure Merkel e Monti mi sembrano brave persone (anche se a Il Fatto arriveranno migliaia di lettere di italiani indignati che ce l’hanno con loro). Quello che proprio non mi va giù è sbattere Draghi in prima pagina: un orgoglio per l’Italia, un signore che si trova a gestire la più grande crisi economica della storia e che quotidianamente deve combattere (davvero, altro che per finta) con i Paesi ricchi che non hanno pietà di quelli poveri. Almeno con riferimento a Draghi uno straccio di prove le vorrei proprio vedere. Come si dice, le chiacchiere stanno a zero.

Corriere 27.11.14
Nozze gay, la Procura di Udine:
«Non valida la circolare di Alfano»
Secondo il pm il ministro non poteva chiedere ai prefetti di annullare la trascrizione dei matrimoni omosessuali celebrati all’estero: «È prerogativa del giudice»
di Elena Tebano

qui


Corriere 26.11.14
Omicidio del 4 settembre del 2013
Psichiatra uccisa a Bari,
il killer condannato a 30 anni
L’imputato è Vincenzo Poliseno. In aula ha detto poche
parole: «Non so perché sono qui, non ricordo»

qui

il Fatto 27.11.14
L’euro di Napoli: c’è anche il pezzo da 300
Arrestati i falsari, chiuse due zecche clandestine
Il Pm: da loroi il 90% dei soldi taroccati in giro per il mondo
di Vincenzo Iurillo


Napoli I tedeschi si sono bevuti la banconota dall’inesistente taglio di 300 euro e forse qualcuno nell’intascarla avrà pure dato il resto, come il tabaccaio a Totò che gli porgeva “la diecimila lire” appena uscita dalla tipografia “Lo Turco” per comprare la saponetta ne La Banda degli onesti. Ma c’è poco da scherzare. Alla gang dei falsari napoletani sgominata con i 56 provvedimenti cautelari di ieri (84 indagati in totale), ovvero il cartello Napoli Group che include 11 presunte associazioni a delinquere, è riconducibile circa il 90% degli euro falsi spacciati nel mondo: in Europa e in alcuni stati africani, per lo più.
LA BANDA era ben strutturata: c’erano quelli specializzati nella produzione, gli addetti alla distribuzione e quelli che giravano l’Europa per dare lezioni di contraffazione alle varie criminalità organizzate. Nel corso dell’operazione sono state scoperte una stamperia ad Arzano (Napoli) e una zecca a Gallicano (Roma). La Bce li temeva, perché banconote e monete erano ben fatte e circolavano in gran quantità, e i carabinieri del Nucleo antisofisticazione monetaria hanno dovuto faticarenon poco per individuare i soldi falsi e tracciarne i percorsi.
Le accuse vanno dall’associazione per delinquere alla falsificazione di monete, spendita ed introduzione nello Stato di monete falsificate, falsificazione di valori di bollo e contraffazione di altri pubblici sigilli. Venivano falsificati anche “gratta e vinci” e marche da bollo. Dalle indagini coordinate dal procuratore aggiunto della Dda di Napoli Filippo Beatrice e dai sostituti Giovanni Conzo (Dda) e Gerardina Cozzolino (Procura di Santa Maria Capua Vetere), non sono emersi elementi che colleghino queste attività ai clan camorristici. Il procuratore capo di Napoli Giovanni Colangelo ritiene però che per questi tipi di reato ci vorrebbe una modifica legislativa per assegnarne la competenza alle procure antimafie, per rendere le inchieste più efficaci.
NELLE 702 PAGINE dell’ordinanza firmata dal gip Dario Gallo fa capolino il nome di Domenica Guardato, la mamma di Fortuna Loffredo, la bimba morta precipitando da un palazzo popolare del Parco Verde dopo essere stata vittima di abusi sessuali. Per la signora Guardato, indagata numero 37, il giudice ha disposto il divieto di dimora nel paese di residenza, Caivano. Secondo l’accusa, la signora avrebbe “acquistato” un po’ di banconote false da 20, 50 e 100 euro per poi spenderle in giro. “Io non c’entro nulla – ha detto – quando ho visto i carabinieri ho pensato alla mia piccola Fortuna, non certo ad una vicenda del genere”.

Corriere 27.11.14
Donne, le radici millenarie di pregiudizi ancora vivi
di Eva Cantarella


Ci risiamo. Giorni fa il presidente turco Erdogan ha detto la sua sulla differenza tra i generi. Non si dovrebbe, a suo parere, parlare di uguaglianza, ma di equivalenza: donne e uomini non possono ricoprire le stesse posizioni, perché sono diversi per indole e costituzione fisica e ciò sarebbe dunque contro natura.
Immagino che Erdogan non lo sappia, ma sul punto ha precedenti più che illustri, a partire da Aristotele: un figlio, spiega, nasce dal seme paterno e dal sangue mestruale materno, entrambi prodotti elaborati del cibo che non viene espulso dall’organismo. Ma la donna, essendo più fredda dell’uomo, non riesce a compiere l’ultima trasformazione: perciò il suo sangue non diventa seme. Il figlio nasce quando il gamete maschile «cuoce» il residuo femminile. Il contributo dell’uomo alla procreazione è dunque attivo, quello femminile è passivo: la donna è materia alla quale l’uomo-spirito dà forma. Così si legittimava l’idea di una naturale subalternità sociale della donna.
I proseliti di quest’idea sono molti. Nella Germania dell’Ottocento, in pieno clima romantico, Josef Görres formula una teoria che attraversa l’universo. La differenza sessuale sulla Terra è il riflesso di quella che percorre il cosmo e che produce delle equazioni: maschile=nature spirituali, luce e libertà; femminile=nature materiali, gravitazione e necessità. Sempre in Germania nell’Ottocento, Jacob, uno dei fratelli Grimm, parla di differenza sessuale in campo linguistico: le vocali, più elementari, sono femminili, le consonanti, più elaborate, maschili; la forma attiva del verbo è maschile, la forma passiva femminile.
J.J. Bachofen nel das Mutterrecht descrive un momento della storia in cui le donne avrebbero dominato imponendo i valori femminili (fratellanza, giustizia, eguaglianza): la donna, identificata con la terra, è madre di figli che sono fratelli. Un’epoca felice, ma inferiore al patriarcato, quando l’uomo-spirito riesce a imporsi sulla materia: e con lui nascono lo Stato e le leggi. Si potrebbe continuare, ma ce n’è già abbastanza. Nel terzo millennio siamo ancora alle solite.
Eva Cantarella

il Fatto 27.11.14
Qui Gerusalemme: vietato divorziare
Il dramma di Viviane, sposa infelice vittima del dovere
di Federico Pontiggia


Care signore, Rosalie care, se avete ancora negli occhi Divorzio all’italiana, sappiate che altrove va pure peggio: non perché vi vogliano scaricare a tutti i costi, ma perché non vi mollano. Dell’indimenticabile film di Pietro Germi del 1961 con Marcello Mastroianni si scrisse (Telesette): “Una commedia grottesca intinta di nero con forti accenti satirici sui costumi e le istituzioni”. Ebbene, levate il nero, mischiate farsa e comico, dramma e grottesco, commedia e satira, e troverete un’altra separazione (im) possibile: Divorzio all’israeliana, nome in codice: Viviane. Basta scambiare attivo e passivo, maschile e femminile, e mutatis mutandis sono tante le assonanze con la parabola di Fefè Cefalù, eccetto il genere precipuo d’appartenenza: Viviane è fantascienza distopica, ovvero dolente neo-neorealismo.
Perché lo spiega la protagonista, sceneggiatrice e regista (a quattro mani con il fratello Shlomi) Ronit Elkabetz: “Oggi in Israele il matrimonio è governato dal diritto religioso, a prescindere dalla comunità di appartenenza dei coniugi e dal fatto che siano religiosi o completamente laici. Quando una donna pronuncia il ‘sì’ sotto il baldacchino nuziale, viene subitoconsiderata come potenzialmente ‘privata del gett’, del diritto di divorziare, poiché solo il marito ha la facoltà di scegliere: la legge attribuisce un potere esorbitante al coniuge. I rabbini sostengono di fare tutto il possibile per aiutare le donne, ma nel corso delle udienze a porte chiuse dei procedimenti giudiziari la realtà è ben diversa, poiché è loro sacro dovere fare di tutto per preservare un nucleo familiare ebraico. Sono, dunque, reticenti a privilegiare il desiderio del singolo di sciogliere il matrimonio rispetto al dovere religioso”. Ecco la fantascienza o, meglio, la via crucis di Viviane Amsalem, che da tre anni cerca di ottenere il divorzio dal marito Elisha (Simon Abkarian) davanti al tribunale ebraico: mission impossibile, perché Elisha non concede il placet, i giudici traccheggiano pilatescamente, i testimoni non risolvono, gli avvocati nemmeno.
CHE FARE? Non mollare, andare avanti, udienza dopo udienza, fallimento dopo fallimento, perché per Viviane è questione di vita o di morte: con Elisha non vuole più stare, ma l’attesa della liberazione è cattività, esclusione coatta dalla vita sociale, pena l’esser tacciata di quell’adulterio che cancellerebbe ogni residua speranza. “La missione dei rabbini è di salvare tutti i nuclei familiari ebrei, è il precetto della shalom beit, della ‘pace domestica’: il desiderio di divorziare di questa donna costituisce una minaccia all’ordine stabilito, lei stessa rappresenta per i rabbini un pericolo a titolo personale”. Che fare? Innanzitutto, un film, un courtroom drama da far impallidire Il caso Paradine o La parola ai giurati, un Kammerspiel (dramma da camera) che mette alla sbarra non una donna, non un uomo, ma un sistema.
Non c’è accanimento contro il singolo, lo stesso Elisha non (con) cede perché Viviane la ama ancora, i rabbini non sono aguzzini, i testimoni non sono truffaldini, ma nessuna ragione parziale può pareggiare quell’irragionevole dato di fatto: Viviane non può decidere il suo destino, non può andarsene. Se stiamo con lei, quello spettatoriale non è un sostegno apodittico: stiamo con Viviane perché empatizziamo, comprendiamo, compatiamo. E la regia aiuta: non abbiamo mai un totale, una visione onnisciente, bensì (false) soggettive, ovvero inquadrature con il nome e cognome di chi sta guardando quel che vediamo sullo schermo. Un’immagine che incarna un’idea, insieme elogio dell’individuo, rifiuto di un totale totalitario, chiamata alla responsabilità personale: nel caso, paiono tutti sinonimi di divorzio. Candidato da Israele all’Oscar 2015, Viviane è imperdibile.

Repubblica 27.11.14
“Nazione ebraica”, Rivlin contro Netanyahu
Il presidente attacca il premier per la proposta di legge che farà diventare la Torah fonte del diritto
“È anti-democratica e spaccherà il Paese”
La protesta della comunità araba e delle altre minoranze
di Fabio Scuto


GERUSALEMME Interrotto dai fischi e dalle proteste, incurante delle critiche che piovono da gran parte di Israele e da quelle che arrivano da Stati Uniti e Europa, il premier Benjamin Netanyahu ha difeso ieri davanti alla Knesset il disegno di legge che definisce Israele “Stato della Nazione ebraica”. E’ una legge necessaria, ha argomentato il premier annunciando che sarà votata la prossima settimana, per sventare iniziative volte a cambiare Israele ed evitare che il Paese sia «inondato» da profughi palestinesi. Una legge che nelle sue pieghe afferma che l’ebraismo sarà la fonte del diritto nella legislazione, e che lo Stato come tale sosterrà solo l’educazione ebraica, altri gruppi sociali religiosi o etnici dovranno provvedere per proprio conto. Stabilisce che fra ebraismo e democrazia, il primo è superiore al secondo. Una legge voluta dai “falchi” dell’ultradestra del Likud e dai nazionalisti di Focolare ebraico, che rischia di essere benzina sulla crisi di queste settimane e aumentare le tensioni fra israeliani e arabi, che sono il 20 % della popolazione di Israele, ma anche di ferire i rapporti con le altre comunità, come i drusi che sono da sempre fedeli alleati del popolo ebraico.
I fiumi di parole sui giornali e nei talk show hanno spinto il capo dello Stato Reuven Rivlin a dire la propria sulla legge che tanto sta a cuore al premier. Il successore di Shimon Peres — ex avvocato, giurista ed ex presidente della Knesset — ha scelto un forum di magistrati per denunciare che la «nuova legge non rafforzerà lo Stato ebraico di Israele ma anzi lo indebolirà». Gli israeliani, ha detto il presidente, hanno una gloriosa casa nazionale, parlano ebraico e producono una ricca cultura nella propria lingua, le festività ebraiche sono celebrate in pubblico, la bandiera con la Stella di David e l’inno nazionale sono chiaramente presenti negli eventi sportivi mondiali, il simbolo dello Stato è sul passaporto di tutti gli israeliani. «E allora perché questa legge superflua e dannosa?» che è contro la visione di uguaglianza con i cittadini arabi dei padri fondatori, si è chiesto il presidente; «Israele è già di fatto lo Stato nazione del popolo ebraico».
Su questa legge si gioca la sopravvivenza del governo. “Netanyahu contro lo Stato di Israele”, titolava ieri Yedioth Ahronoth, accusando il premier di pensare solo alla sua sopravvivenza politica. La legge, spiega il giornale, è il ticket che il premier deve pagare alla destra ultrà del Likud se vuole ottenere ancora la nomination alle primarie di gennaio, in vista del sicuro voto anticipato. Lo scontro nell’Esecutivo è al vetriolo. Yair Lapid, ministro del Tesoro e capo dei centristi di “Yesh Atid” giudica che pure il capo storico della destra israeliana «Menachem Begin si sentirebbe fuori posto dentro questo Likud». Non meno tenera la signora Tzipi Livni, ministro della Giustizia che a Repubblica sintetizza così lo scontro: «E’ una lotta fra sionisti che sostengono la democrazia e i membri estremisti di un Tea-Party israeliano che vogliono uno Stato religioso ebraico che si nasconde e si isola, uno Stato che alla fine è anti- sionista e anti-democratico».
Il disagio del presidente Rivlin, uomo di destra e da sempre nel Likud, è condiviso giuristi come il Procuratore Generale Yehuda Weinstein che ha definito la legge in contrasto con gli intenti della dichiarazione di indipendenza (Israele non ha una Costituzione) e con i principi democratici dello Stato.
Non è un giurista né un politico Mahmoud Seif, è lo zio del poliziotto ucciso nella sparatoria alla Sinagoga la scorsa settimana. «Mio nipote - dice - è caduto in battaglia contro i terroristi e prima, come tutti i drusi, ha fatto il servizio militare nell’Esercito e adesso perché deve passare una legge che mette la nostra lealtà in dubbio?».

Repubblica 27.11.14
Moshe Feiglin, deputato del Likud
“È un testo necessario per preservare i valori che ci contraddistinguono”


GERUSALEMME . «Questa legge è necessaria perché l’intenzione delle sinistre e di tutti i cosiddetti “democratici” che vi si oppongono è quella di erodere l’identità ebraica dello Stato d’Israele». È tagliente come sempre Moshe Feiglin, deputato del Likud e uno dei protagonisti delle passeggiate sulla Spianta delle Moschee che hanno infiammato gli animi e portato a violenti scontri nella Città Santa.
Perché ritiene giusta la legge?
«Perché vuole preservare i valori che contraddistinguono l’identità ebraica contro chi li vuole cancellare. La parola “democrazia” non compare nella dichiarazione di indipendenza e in ogni caso questa non è un fine, ma solo un mezzo».
Ma non crede che la norma così formulata, con un chiaro riferimento alla preponderanza della tradizione legislativa ebraica, possa colpire l’uguaglianza di fronte alla legge non solo delle minoranze etniche, ma anche delle donne o delle correnti religiose ebraiche non ortodosse?
«No, perché già così Israele non è un Paese veramente democratico: non lo è uno Stato il cui il Parlamento chiude un giornale, un Paese dove il 93% dei terreni appartiene allo Stato, come non lo è uno Stato in cui l’esercito si appropria per tre anni di migliaia di cittadini [la coscrizione obbligatoria, ndr] o in cui il ministro dell’Istruzione, e non i genitori, è responsabile dell’educazione dei bambini. E potrei continuare con altre decine di esempi».
Quindi lei pensa che con questa norma l’identità ebraica sia più salvaguardata...
«Io credo che sia una prerogativa e un dovere dello Stato proteggere il patrimonio comune, così come era inteso dai padri fondatori, contro discendenti irresponsabili, che potrebbero decidere un giorno di svenderlo o cambiarlo». ( f. s.)

Repubblica 27.11.14
Itzahak Herzog, leader dei laburisti
“Bibi ha fallito, ora lasci così infiammerà la regione e ci renderà più insicuri”


GERUSALEMME . Itzhak Herzog, lei è il leader dei laburisti israeliani, perchè il suo partito si oppone così tenacemente alla Legge sulla Nazionalità Ebraica, quando i suoi punti principali sono, in definitiva, molto simili a quelli stabiliti dalla Dichiarazione di Indipendenza?
«Appunto per questo. Perché continuare ad occuparsi di questa legge è come se il governo Netanyahu tenesse le sue sedute sul monte del Tempio. Il fatto stesso di mettere una cosa del genere all’ordine del giorno, in un periodo così delicato da tutti i punti di vista, politici, diplomatici e di sicurezza è totalmente superfluo, irresponsabile e potrebbe infiammare ancora di più la nostra regione. Se la dichiarazione di indipendenza era sufficiente quando eravamo 600.000 persone (nel 1948, ndr), non c’è motivo che non basti anche oggi».
Allora perché, secondo Lei, il premier si ostina a farla passare, anche a costo di una crisi di governo?
«Perché è un primo ministro insicuro, senza una visione ideale e senza programmi, per cui ha bisogno di leggi che si occupano di cose ovvie, ma che hanno un impatto sul suo pubblico. La situazione del paese anche economica è gravissima e Netanyahu ha cercato una scappatoia, di quelle che si rifanno a posizioni nazionaliste estremiste, ma che danneggiano il delicato mosaico della società israeliana. Il governo sta dimostrando di non essere in grado di rimanere alla guida del paese. Netanyahu mette in pericolo gli interessi basilari ed esistenziali di Israele, con il suo comportamento e le sue decisioni. E’ ora che lasci libero il suo posto».
Lei vede la necessità di elezioni anticipate?
«Ho fatto appello a Tzipi Livni e a Yair Lapid affinché lascino il governo e si uniscano a noi per cambiare questa situazione». ( f. s.)

La Stampa 27.11.14
Il governo israeliano contro i “Morabitoun”
“Estremisti al soldo dei partiti islamici”
Sono le sentinelle musulmane che sorvegliano la Spianata delle Moschee e impediscono l’ingresso a credenti di altre fedi
Tel Aviv vuole metterli fuori legge: “Stipendiati anche dai Paesi del Golfo”
di Maurizio Molinari

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Corriere 27.11.14
Stato palestinese perché è pericoloso il riconoscimento
di Bernard-Henri Lévy


Da quasi 50 anni sono a favore della soluzione dei due Stati. Ma il riconoscimento unilaterale della Palestina da parte del Parlamento francese sarebbe una cattiva idea, per varie ragioni.
1) Hamas. Il suo Statuto e il suo programma. Il fatto che amministri, in attesa di ulteriori informazioni, uno dei territori costitutivi dello Stato che si vuole riconoscere senza indugio; e il fatto che abbia come dottrina la necessaria distruzione di Israele. Non si può riconoscere, fosse pure simbolicamente, uno Stato dove la metà del governo pratica la negazione dell’Altro. Non si può riconoscere, soprattutto simbolicamente, un governo dove il sogno di metà dei ministri sarebbe di annientare lo Stato vicino.
Si tende la mano al proprio popolo, certo. Lo si aiuta. Si appoggia e si rafforza l’altro partito, quello di Abu Mazen, lo si incoraggia a rompere l’alleanza contro natura che esso ha stretto. Ma il tentativo rimane in sospeso finché l’alleanza non viene rotta, o finché Hamas resta quello che è e si riconosce in uno Statuto che ordina a tutti i musulmani di «uccidere» gli ebrei, cercandoli fin dietro le rocce e gli alberi dove «si nascondono» (articolo 7); finché si dichiara (articolo 13) che «le pretese iniziative» e le «soluzioni di pace» che, come l’attuale progetto francese, dovrebbero «regolarizzare la questione palestinese», vanno «contro» la «fede».
2) Il momento. La spinta mondiale del jihadismo. Il fatto che la società politica, e purtroppo civile, palestinese si mostri di nuovo, al di là della stessa Hamas, poco chiara sul problema. Non parlo di Abu Mazen, che ha condannato l’attentato del 18 novembre, costato la vita a 5 persone, in una sinagoga di Gerusalemme Ovest. Ma parlo dei suoi alleati del Fronte popolare per la liberazione della Palestina che l’hanno rivendicato. Parlo del jihad islamico e, ancora, di Hamas che l’hanno applaudito. E penso alle migliaia di giovani che, avuta la notizia, sono scesi in piazza per lanciare fuochi d’artificio e rallegrarsene.
Forse un giorno una maggioranza di israeliani riterrà che il modo meno inefficace di proteggersi contro tale situazione sia una separazione netta. Ma sarà una loro decisione, non quella di un Parlamento spagnolo, inglese, svedese o, adesso, francese, che improvvisa una risoluzione raffazzonata, mal impostata e, oltretutto, incoerente. Non si può inorridire per le decapitazioni in Iraq e ritenere trascurabili gli omicidi a colpi di coltello e di ascia in Israele. Non si può, qui, rifiutare la retorica della scusa («i jihadisti partiti per la Siria sono poveri disgraziati, vittime del malessere sociale...») e, là, accettarla («l’assassino è un umiliato, vittima dell’occupazione...»). Non si può, da una parte, rafforzare l’arsenale legislativo che permette, in Europa, di lottare contro la cieca violenza e, dall’altra, votare una risoluzione che equivale a dire «vi ho capito» a coloro che si lanciano tra la folla con automobili-ariete sognando una terza Intifada.
Ci sarà uno Stato a Gaza e a Ramallah. È interesse di Israele ed è diritto dei palestinesi. Ma abbiamo fondate ragioni di immischiarci solo se chiediamo uguali sforzi a una parte e all’altra: dall’Anc sudafricano al Pkk curdo passando per l’Irgun di Begin, la Storia è piena di organizzazioni terroristiche poi rinsavite. Ci si aspetta dai gruppi palestinesi che seguano lo stesso itinerario, ed è anche a questo che devono dedicarsi, in Francia, gli uomini e le donne di buona volontà.
3) Nessun osservatore onesto può ignorare che da entrambe le parti resta del cammino da compiere. Nessun difensore della pace può negare che i torti sono da attribuire sia ai governi di Tel Aviv — che da Rabin a Netanyahu non hanno mai rinunciato alla politica di insediamenti — sia alla direzione palestinese, che oscilla fra l’accettazione del fatto israeliano e il rifiuto di qualsiasi presenza ebraica in terra araba. Ebbene, è proprio quel che negano i sostenitori del riconoscimento unilaterale. È proprio quel che dimenticano quando ripetono che «non se ne può più», che «è urgente smuovere le cose» o che è necessario un «atto forte» capace di «far pressione» e «sbloccare la situazione», e non trovano altro «atto forte» se non quello di imporre a Netanyahu il loro Stato palestinese non negoziato. L’ ultimo rimprovero da fare ai sostenitori del riconoscimento unilaterale è proprio questo: il loro ragionamento presuppone che esista un solo blocco, quello israeliano; un solo protagonista su cui far pressione, Israele; e che, dal campo palestinese, non ci sia da aspettarsi nulla (non muovetevi; non prendete iniziative; soprattutto non chiedete che sia dichiarato caduco, per esempio, lo Statuto di Hamas che trasuda, ad ogni riga, odio per gli ebrei; poiché il vostro Stato lo avete)... Non sappiamo se a prevalere sia l’ostilità nei confronti di Israele, il disprezzo per i palestinesi o, semplicemente, la leggerezza. Ma una cosa è certa. Senza condivisione delle responsabilità, non ci sarà condivisione del territorio; esonerando uno dei due campi dal suo compito storico e politico, si crede di voler la pace, ma si perpetua la guerra.
traduzione di Daniela Maggioni

La Stampa 27.11.14
New York come Ferguson
“Basta uccidere i nostri ragazzi”
In strada afroamericani e attivisti di Occupy: è l’America più ingiusta di sempre
di Paolo Mastrolilli


Il rumore degli elicotteri è il primo segno che sta accadendo qualcosa di strano. Cosa ci fanno, alle sette di sera, sopra gli edifici di Midtown? A quest’ora la gente dovrebbe già essere in metropolitana, avviata verso casa, mentre il traffico della rush hour sulla Seconda Avenue scema. Invece si sentono volteggiare gli elicotteri, che pattugliano il Palazzo di Vetro dell’Onu, la stazione di Grand Central, e soprattutto il tunnel che collega Manhattan al Queens.

«Hands up, don’t shoot», si sente gridare all’improvviso dalla strada. È Ferguson che diventa una protesta nazionale. In alcuni casi decine, in altri centinaia di persone, che sono scese in piazza per solidarietà con i manifestanti del Missouri.
La scintilla si è accesa in tutti gli Stati Uniti, almeno 170 città arrabbiate, e New York non poteva mancare. Perché ormai non si protesta più solo contro la violenza della polizia contro i neri, che di per sé potrebbe anche bastare, ma contro tutte le ingiustizie e le diseguaglianze della società moderna americana. Per qualche istante, l’impressione è quella di essere tornati ai tempi di «Occupy Wall Street». Stessa gente, cioè giovani millennial assai colorati, con l’aggiunta di più neri. E stessi slogan, anche se stavolta gli insulti contro gli agenti presunti razzisti arrivano prima delle urla per la redistribuzione del reddito.
Martedì notte le proteste sono continuate anche a Ferguson, naturalmente. Oltre quaranta arresti e un’auto della polizia incendiata, mentre due agenti dell’Fbi sono rimasti feriti intervenendo in una casa dove qualcuno si era barricato dentro. Niente a che vedere con l’uccisione di Michael Brown, però. Tutto sommato una nottata tranquilla, rispetto alla guerriglia del giorno prima. La gente, soprattutto la comunità locale che a Ferguson dovrà continuare a vivere, sta ascoltando l’invito dei famigliari di Mike a manifestare in maniera pacifica, e le minacce del governatore del Missouri Nixon, che ha mobilitato oltre duemila soldati della Guardia Nazionale per riportare la calma.
L’agente Darren Wilson ha quasi provocato, dicendo in una intervista con George Stephanopoulos della Abc che «ho la coscienza apposto, ho fatto il mio dovere. Se Brown fosse stato un bianco, mi sarei comportato nella stessa maniera». La piazza, però, ha risposto dandosi una calmata, perché anche ai tempi di Martin Luther King le marce pacifiche avevano molto più effetto delle violenze delle Black Panthers. Lo hanno ripetuto i genitori di Mike, parlando ieri con le televisioni americane: «La storia raccontata da Wilson - ha detto la madre - è falsa. Mio figlio non ha cercato di strappargli la pistola, non esiste. Dobbiamo dirlo, senza violenza». Ovvia difesa di una mamma addolorata.
La sorpresa, però, è quello che accade nel resto dell’America, che rispetta poi la migliore tradizione di questo Paese sempre in movimento. Una dopo l’altra, tutte le città hanno visto gente scendere in piazza. In alcuni casi, manifestazioni organizzate; in altri, proteste a gatto selvaggio. New York, Boston, Atlanta, Denver, Chicago, Oakland, Los Angeles, Seattle, Austin, Pittsburgh, Miami, Philadelphia. «Hands up, don’t shoot», abbiamo le mani alzate, non sparate. E poi «no justice, no peace», niente pace senza giustizia.
A New York giovedì scorso un poliziotto aveva ammazzato per errore Akai Gurley, un ragazzo nero di Brooklyn freddato nelle scale di un palazzo, mentre girava disarmato e innocuo. Quindi la gente era pronta ad alzare la voce. La protesta comincia sugli snodi del traffico nella zona est di Manhattan, davanti all’Onu, alla stazione Grand Central che porta i pendolari verso le periferie a nord della città, al Midtown Tunnel che conduce invece verso il Queens e Long Island. La polizia accorre. Prima osserva, e poi minaccia di arrestare chi non si leva di mezzo. Mark Johnson, un nero che lavora qui vicino, tiene per mano un bambino: «Lo faccio per mio figlio, perché domani potrebbe toccare a lui». Nelle stesse ore si accende Times Square, e l’intera West Side. La protesta, improvvisa, marcia verso l’autostrada Fdr che circonda l’isola, e la blocca. Intasa il Lincoln Tunnel, paralizzando il traffico verso il New Jersey. Un gruppo di ragazzi si avvia verso il Manhattan Bridge, quello che porta a Brooklyn, e cerca di prenderne il controllo. La polizia comincia a tirare fuori le manette di plastica: l’ordine sarebbe quello di lasciar scivolare la protesta, per evitare liti e scontri che potrebbero farla degenerare nelle violenze di Ferguson. Fin a un certo punto, però. Jane, una veterana di «Occupy Wall Street» con i capelli viola, spiega perché non vedeva l’ora di tornare in piazza: «Ci hanno tappato la bocca, ma i problemi sono rimasti irrisolti. Il razzismo, la violenza contro i neri, fanno il paio con la diseguaglianza che governa l’America. Pochi bianchi e ricchi hanno tutto, e usano la forza per evitare che gli altri li obblighino a condividere le opportunità del nostro Paese».
Il presidente Obama lancia un messaggio diverso: «Niente pazienza per le violenze, ma questo è un problema nazionale che va affrontato». Poi dice: «Serve una risposta costruttiva». Infatti annuncia che il ministro della Giustizia Holder terrà una serie di incontri in varie regioni, per discutere la questione della violenza della polizia. È poco, però, e tardi. La protesta è diventata nazionale perché ormai va oltre Ferguson, la morte di Mike Brown, l’agente Wilson, che forse era stato davvero aggredito. È il segno di un malessere più grande, che magari fra qualche giorno tornerà sotto la terra, ma continuerà a eroderla.

Corriere 27.11.14
Ferguson, se rabbia e proteste sfilano davanti alle telecamere
La presenza dei grandi network sulla scena degli scontri esaspera la protesta ma serve anche da polizza assicurativa contro eventuali azioni repressive della polizia
di Massimo Gaggi

qui

Repubblica 27.11.14
La rivolta delle star nere “Ferguson, uno scandalo” L’America scende in piazza
La rabbia corre in Rete. Arresti a Los Angeles Magic Johnson: “Basta con le morti inutili”
di Federico Rampini


FERGUSON L’AMERICA intera protesta per l’ingiustizia di Ferguson, con la cittadina del Missouri solidarizzano le metropoli dalla East Coast alla West Coast. E si mobilita con una coesione rara il mondo delle star afroamericane, dallo sport allo spettacolo. Twitter, Facebook, tutti i social media sono inondati di messaggi che vengono dalle celebrità nere. Sono reazioni durissime contro l’assoluzione del Grand Jury per l’agente Darren Wilson, che il 9 agosto uccise il 18enne nero Michael Brown, disarmato. Serena Williams commenta: «Wow. Vergognoso». Magic Johnson: «Dobbiamo lavorare insieme per porre fine alle morti inutili di giovani di colore. A Ferguson non è stata fatta giustizia». LeBron James riecheggia la linea di Barack Obama, un richiamo alla questione razziale e una dissociazione dalle violenze: «Come società dobbiamo evitare il ripetersi di queste morti. Sono vicino alle famiglie, ma la vendetta non è la risposta». L’attore Chris Brown condanna con sarcasmo la lunghezza del procedimento del Grand Jury: «Non ci vogliono 100 giorni per decidere se un omicidio è un crimine, ci vogliono 100 giorni per capire come dirlo agli americani».
Il mondo dello sport e quello della musica, il cinema e la televisione, è un coro di indignazione. Era dai tempi della prima elezione di Obama nel 2008, che gli opinion leader della comunità afroamericana non scendevano in campo così compatti e decisi. È una coalizione di celebrità che interpreta gli umori dei neri ed anche delle giovani generazioni di tutte le etnie. È la conferma che Ferguson è diventata un simbolo. Al di là delle polemiche che proseguono sulle testimonianze di parte, sulle scelte controverse del magistrato che ha orientato il Grand Jury, la morte di Brown riapre un dibattito nazionale sulla questione razziale. Un tema unifica le proteste: l’American Dream ha tradito una parte di questa società. La ripresa economica che dura da cinque anni non ha sanato le diseguaglianze crescenti, e i giovani maschi afroamericani sono la componente più debole, hanno i salari più bassi, il tasso di disoccupazione più elevato. Per loro la percentuale di arresti, condanne al carcere, uccisioni sotto il fuoco della polizia, è un multiplo della media nazionale.
Il coro delle star fa amplificare quello che succede nella società civile. A Ferguson gli scontri violenti sono stati contenuti dalla mobilitazione eccezionale di forze dell’ordine, 2.200 militari della National Guard schierati dal governatore del Missouri, Jay Nixon. Ma nella metropoli vicina e più grande, Saint Louis, le manifestazioni hanno costretto a chiudere il palazzo del municipio. Dopo che un gruppo di manifestanti era riuscito a introdursi dentro il City Hall, centinaia di poliziotti sono accorsi in rinforzo, fino a “blindare” la sede comunale, evacuando il personale e chiudendone l’attività.
Ormai l’epicentro della protesta non è più solo il Missouri ma l’America tutta intera. La giornata di ieri è stata segnata proprio da questo salto di dimensione, la “nazionalizzazione” delle proteste. L’elenco si è allungato a centinaia di città. A New York il traffico è stato bloccato in diversi quartieri: il corteo principale è partito da Union Square, diretto a Times Square. Altri gruppi di ma- nifestanti hanno bloccato ponti tra Manhattan e Brooklyn col risultato di un caos nei trasporti, alla vigilia di Thanksgiving. Da Chicago ad Atlanta, le maggiori metropoli hanno visto dei cortei in piazza, guidati da leader religiosi e da politici afroamericani. La maggioranza sono state pacifiche, solo in alcuni casi le proteste sono sfociate in scontri con la polizia. A Los Angeles ci sono stati 130 arresti. Sempre in California, a Oakland la tensione con le forze dell’ordine è stata alta. 44 arresti a Chicago, 21 ad Atlanta. Nel Midwest il Minnesota ha visto uno dei cortei più vasti.
Nelle proteste di piazza si sono visti anche bianchi e ispanici, soprattutto giovani. Ma la “maggioranza silenziosa”, come venne chiamata fin dai tempi di Richard Nixon l’opinione pubblica bianca e moderata, vive in altro modo la vicenda di Ferguson. Il confronto con l’era Nixon richiama alla memoria una stagione di rivolte ben più radicali, violente e di massa: le ribellioni nei ghetti metropolitani degli anni Sessanta, quando ci furono anche movimenti di lotta armata (Black Panthers) che contrastavano la non violenza di Martin Luther King. Oggi non esiste più un “terrorismo nero”, eppure i bianchi continuano a percepire gli afroamericani come un pericolo per l’ordine pubblico. Gli ultimi sondaggi, dalla Cnn all’ Huffington Post , rivelano che due terzi dei bianchi condividono l’assoluzione dell’agente Wilson; mentre due terzi dei neri sono convinti che andava incriminato per omicidio.

Repubblica 27.11.14
Lo scrittore Percival Everett
“Se sei di colore sai che il prossimo potresti essere tu”
intervista di Anna Lombardi


«MOLTO è cambiato in America. E molto è rimasto uguale. Oggi gli afroamericani hanno più opportunità, soprattutto economiche. Ma non è cambiata la percezione razziale verso chi è nero e povero. Anzi, non devi nemmeno essere povero. Basta essere un giovane nero per essere percepito come pericolo». Percival Everett, 58 anni, uno dei più stimati autori afroamericani, il romanziere della tragicomica odissea di Non sono Sidney Poitier (Nutrimenti), lo sa bene. «Questa vicenda mi colpisce come cittadino. Penso alle sfide che i giovani neri hanno oggi davanti e sono angosciato per loro. Rivedo me stesso trent’anni fa: quando pensavo che le cose sarebbero andate in altro modo».
E invece?
«La percezione razziale è la cornice di una divisione che non si sana e si fa sempre più ampia. I giovani afroamericani in America vengono trattati come i palestinesi in Israele, come gli zingari in Europa».
Ma la segregazione non era finita negli anni Sessanta?
«Invece, anche ora, sai che il prossimo incidente puoi essere tu. Cammini con affianco il riflesso continuo delle luci blu della polizia. Le storie di neri fermati senza una ragione si raccontano quotidianamente: nessuno ci fa più caso».
Com’è possibile in una nazione che per la prima volta ha un presidente afroamericano, un ministro della giustizia afroamericano, dove è nero anche il direttore del New York Times?
«Dobbiamo probabilmente essere grati agli otto anni precedenti di pessima gestione del Paese… Barack Obama è uno degli uomini più intelligenti che sia mai arrivato al potere. Ma l’attitudine razziale resta. E mi chiedo: com’è possibile che il governo non abbia indagato in modo più aggressivo su Ferguson?».
Ci sono manifestazioni in tutta l’America. Uno degli slogan che gridano alla polizia è “You serve us”: siete voi al nostro servizio, siete voi che dovete proteggerci…
«E la polizia lo fa. Il problema sono i singoli poliziotti, troppo inesperti per capire come agire, per capire che il ragazzo nero che hanno davanti non è una minaccia. Molti poliziotti sono di colore, molti sono persone a cui hanno sparato addosso più di quanto abbiano mai sparato loro stessi. Loro sì che sono al nostro servizio. Il problema è anche la cattiva pianificazione: quando metti tanti poliziotti bianchi in una zona nera, è gente che non conosce l’ambiente, non capisce cosa succede».
Quanto è profonda la distanza?
«I giovani bianchi si appropriano di simboli e stili della cultura nera, vogliono vestire come i neri, fare il rap. Ma allo stesso tempo sono spaventati da quella cultura. Alla fine della storia non c’è nessun bianco che pensa “vorrei essere nero”».
E adesso questa decisione del Grand Jury…
«Vergognosa».
Cosa la fa arrabbiare?
«Il fatto che non ci sorprende. Ce lo aspettavamo. Ancora una volta».
La rabbia di molti però si è trasformata in violenza.
«Nessuno ama la violenza ma è una reazione comprensibile in quelle condizioni. È frutto di rabbia, ma anche paura. Se fossi un ragazzino nero sarei terrorizzato».
Le proteste porteranno a qualcosa?
«Le rivolte si placheranno: fino a quando non succederà di nuovo. Perché questa indignazione non nasce, come si dice, con il caso di Trevyon Martin. Arriva dopo decine di altri. È un problema che l’America non ha mai risolto».
Che fare?
«Innanzi tutto riconoscere che il problema razziale esiste ancora. Purtroppo è da qui che bisogna ripartire. Dall’inizio».

il Fatto 27.11.14
Il libro
L’insegnamento di Gramsci e la nuova “quistione meridionale”
di Nando dalla Chiesa


Rileggere Gramsci per capire la nuova Questione meridionale. Non più la separatezza di Nord e Sud, ma una diversità territoriale che resiste ai movimenti civili e alle nuove generazioni. Melampo ripubblica Gramsci
Pubblichiamo un estratto della prefazione di Nando dalla Chiesa

Classe dirigente nazionale doveva essere, nella visione di Gramsci, la classe operaia. E dalla sua alleanza con i contadini poveri sarebbe dovuta nascere, con la mediazione del partito “intellettuale collettivo” e nuovo principe machiavelliano, la riforma intellettuale e morale. Ebbene c’è un momento nella storia del Novecento italiano in cui questo sembra potersi realizzare. Ed è durante la guerra di Liberazione e negli anni immediatamente successivi. Allora è la classe operaia del Nord che alza la testa in nome di un sentimento patriottico unendosi con la borghesia risorgimentale azionista e con quel cattolicesimo popolare che Gramsci indica come la maggiore novità politica dopo il Risorgimento. È in quella temperie che sembra realizzarsi un nuovo spirito pubblico, una riforma intellettuale e morale che si trascrive nella Costituzione. E che permane per un breve lasso di tempo nei partiti che ne nascono. E il Sud ancora diverso. Con le Quattro giornate di Napoli e l’epopea delle lotte contadine ma senza Resistenza. [... ]
La “quistione meridionale” ha cambiato verso e forma. Finito il latifondo, finita la classe contadina “disgregata e amorfa”, svuotatosi di generazioni di giovani, il Sud si accinge a vincere nella sovrastruttura, nella mentalità pubblica e nel senso del diritto. Ma con conseguenze formidabili nella struttura, nelle forme della produzione e delle relazioni sociali. Il Nord in ritirata dalla sua stessa identità si è conformato senza lottare. Ha lasciato a combattere alcune avanguardie, oggi per fortuna più numerose di ieri. La “quistione meridionale” è ancora più nazionale di un tempo. Non il Sud da integrare nella nazione. Ma il Sud che progressivamente conquista la nazione, la cambia, la uniforma a sé. Realizzando un rovesciamento pratico dell’impianto gramsciano leggibile esattamente con le categorie centrali di quell’impianto. [... ] Resta da vedere chi possano essere oggi gli operai dei consigli di fabbrica dell’Ordine Nuovo da incaricare di costruire e guidare un’alleanza eguale e contraria a quella in corso tra il blocco corrotto dominante del Sud e il suo omologo del Nord.
CHI POSSANO essere i contadini poveri. Chi gli intellettuali capaci di esprimere un sentimento nazionale (o patriottico) e di mettere in crisi l’armatura “flessibile ma resistentissima” del sistema. Se vi siano già sulla scena pubblica i soggetti di questa nuova alleanza. Molti indizi portano a pensare che alcuni di essi esistano, al Nord e al Sud, e abbiano anche coscienza della loro missione storica. Sappiamo in più, dalla storia fin qui giunta, e da quanto abbiamo fin qui detto, che nulla sarà possibile senza “la rivoluzione morale e culturale delle masse” [... ]. E questa consapevolezza ha se non altro il pregio di cancellare le illusioni e le scorciatoie e di render chiari e impegnativi i compiti di ciascuno. Oltre che di indicare altri due meriti che a Gramsci vanno pur riconosciuti: l’elogio della fatica e l’invettiva contro gli indifferenti.
LA QUESTIONE MERIDIONALE Antonio Gramsci Melampo pagg. 230, 15,00 €

Corriere 27.11.14
Hong Kong, studenti in manette La polizia arresta Joshua Wong, il leader 18enne dei manifestanti di Occupy Central

Travolte le barricate nel quartiere di Mong Kok. I giovani: «Torneremo in piazza»
di Guido Santevecchi


PECHINO Per sessanta giorni i ragazzi del movimento democratico di Hong Kong e la polizia si erano affrontati in una sfida di logoramento con pochissimi episodi di violenza. Ma nelle ultime ore la situazione sta subendo un’accelerazione drammatica per la tradizione pacifica del territorio. Gli agenti sono andati all’attacco dei blocchi stradali nel quartiere Mong Kok a Kowloon, la zona continentale di fronte all’isola di Hong Kong. Ci sono stati scontri, manganellate, uso di spray urticanti e 148 arresti, compreso Joshua Wong, il diciottenne che guida l’organizzazione «Scholarism», il suo compagno Lester Shum della «Federation of Students» e altri due giovani leader. Tra i feriti o contusi anche una ventina di agenti.
Teatro degli scontri è stata Nathan Road, l’arteria a sei corsie che attraversa Mong Kok ed è il centro della sua attività commerciale. I ragazzi avevano piazzato tende e barricate che per otto settimane hanno fermato il traffico: l’ordine di sgombero è venuto dalla magistratura indipendente di Hong Kong, sollecitata da una cooperativa di tassisti esasperati. Quella delle ingiunzioni giudiziarie è la tattica alla quale si è affidato il governo di Hong Kong, incapace di dare una risposta politica alla protesta dei ragazzi, che chiedono candidature libere per le elezioni del governatore, nel 2017.
La settimana scorsa gli studenti si erano ritirati da una parte di Admiralty, il quartiere degli affari di Hong Kong, quasi senza opporre resistenza; era stata spaccata solo una porta a vetri del Legislative Council, l’assemblea parlamentare: episodio subito condannato come provocazione di una piccola frangia del movimento. L’altra sera a Nathan Road invece ci sono stati corpo a corpo tra gruppi di manifestanti e poliziotti: uno choc destinato a lasciare il segno in una città non abituata alla violenza di piazza. Così come ha danneggiato l’immagine della polizia il pestaggio di un attivista ripreso dalle telecamere il 15 ottobre: ieri sette agenti sono stati arrestati. Dalla cella dove sono detenuti, i quattro leader studenteschi hanno twittato: «Ci accusano di oltraggio al tribunale e resistenza alle forze dell’ordine». Il loro arresto potrebbe riaccendere la protesta, che aveva perso di slancio ed era stata sconfessata anche dalla maggioranza della popolazione, stanca dei disagi. «Torneremo in strada e saremo in tanti», dicevano diversi studenti ieri notte.
La situazione del movimento democratico però si è fatta precaria: sono emerse divisioni al suo interno, non c’è coordinamento con il gruppo di docenti universitari che avevano lanciato «Occupy Central», non c’è dialogo politico con le autorità. Che cosa succederà nelle prossime ore?
Steve Vickers, capo dell’intelligence della polizia fino al 1997, quando Hong Kong è stata restituita alla Cina dalla Gran Bretagna, ora dirige una società di «valutazione rischi», ed è pessimista: «Il governo locale non fa nulla, Occupy Central non ha una leadership unita: così si è dato un pretesto a Pechino e ai suoi servizi di sicurezza per giocare un ruolo più attivo a Hong Kong. Ci sono in giro agitatori, provocatori, anche legati alle Triadi; la polizia si trova in mezzo, con pochi ordini, demoralizzata». Potrebbe finire male, con scontri gravi e con la Cina «costretta» a prendere il controllo.

Repubblica 27.11.14
India, ribellati alle caste
Ogni sedici minuti un Intoccabile è vittima di un crimine. Come Surekha, uccisa perché aveva lottato per i suoi diritti
“Da studentessa non trovai menzione del concetto di casta nei testi scolastici, eppure si evinceva dal nome delle persone, dal lavoro che facevano o dai matrimoni che combinavano”
Perché, chiede la scrittrice Arundhati Roy, il mondo si mobilita contro le ingiustizie, ma non censura il sistema sociale induista?
di Arundhati Roy


Surekha non poteva aspirare a vivere bene, il villaggio non le permetteva di collegarsi alla rete elettrica, di irrigare i suoi campi o di attingere acqua al pozzo pubblico
Ogni settimana 13 Dalit vengono assassinati e sei rapiti. Le statistiche non contemplano le amputazioni o le umiliazioni, come essere svestiti e costretti a sfilare nudi

MIO PADRE era un Indù riformato, un Brahmo. L’ho conosciuto solo da adulta. Sono cresciuta con mia madre nella sua famiglia cristiana siriana del villaggio di Ayemenem, in Kerala, nell’India sud occidentale. Allora governavano i comunisti, ma vivevo tra le divisioni del sistema delle caste che squarciava e crepava il tessuto sociale. Ayemenem aveva la sua chiesa “Paraiyan”, in cui sacerdoti “Paraiyan” predicavano ai fedeli “intoccabili”. La casta si evinceva dal nome delle persone, da come si riferivano le une alle altre, dal lavoro che facevano, dagli abiti che indossavano, dai matrimoni che combinavano, dalla lingua che parlavano. Ma da studentessa in nessun testo scolastico trovai menzione del concetto di casta, mai. Fu leggendo Annientamento della Casta il testo scritto per una conferenza del 1936 da BR Ambedkar, autore e pensatore indiano, che mi resi conto, allarmata, della falla esistente nel nostro universo pedagogico. Leggere Ambedkar mi chiarì anche il motivo per cui quella falla esiste e continuerà ad esistere finché la società indiana non subirà un cambiamento radicale e rivoluzionario.
Se avete sentito parlare di Malala Yousafzai, una dei due vincitori del premio Nobel per la pace di quest’anno, ma non di Surekha Bhotmange, vi invito a leggere Ambedkar. Malala aveva solo 15anni, ma aveva già commesso vari reati. Innanzitutto era una ragazza, abitava nella valle dello Swat in Pakistan, poi era una blogger della Bbc , era apparsa in un video del New York Times e frequentava la scuola. Malala voleva fare il medico, suo padre voleva che entrasse in politica. Era coraggiosa. Lei (e il padre) ignorarono i Taliban quando dichiararono che le scuole non erano destinate alle ragazze e minacciarono di uccidere Malala se non avesse smesso di criticarli apertamente. Il 9 ottobre 2012 un killer la fece scendere dal bus della scuola e le piantò una pallottola in testa. Malala fu trasportata in aereo in Inghilterra e, dopo aver ricevuto le cure migliori del caso, sopravvisse. Fu un miracolo.
Il presidente degli Stati Uniti e il segretario di Stato americano le inviarono messaggi di sostegno e solidarietà. Madonna le dedicò un brano. Angelina Jolie scrisse un articolo su di lei. Malala è apparsa sulla copertina del Time . Pochi giorni dopo il tentato omicidio, Gordon Brown, inviato speciale delle Nazioni Unite per l’educazione globale, lanciò la petizione “Io sono Malala” per esortare il governo del Pakistan a garantire l’istruzione a tutte le bambine. In Pakistan proseguono i raid dei droni americani con la missione femminista di “far fuori” i terroristi islamisti misogini.
Surekha Bhotmange aveva 40 anni e, come Malala, vari reati alle spalle. Era una donna in primis — una dalit “intoccabile” che viveva in India ed era povera in canna. Era più istruita del marito, quindi faceva le veci di capo famiglia. Ambedkar era il suo idolo. Come lui, la famiglia di Surekha aveva ripudiato l’induismo per convertirsi al buddismo. I figli di Surekha erano istruiti. I due maschi, Sudhir e Roshan, avevano frequentato l’università. La figlia, Priyanka, aveva 17 anni e stava terminando le superiori. Surekha e il marito avevano comprato un piccolo appezzamento di terreno nel villaggio di Khairlanji, nello stato del Maharashtra. La loro proprietà era circondata da fattorie appartenenti a caste che si consideravano superiori alla casta Mahar, cui apparteneva Surekha. Poiché era una Dalit e non aveva diritto ad aspirare a vivere bene, la panchayat (assemblea) del villaggio non le permise di collegarsi alla rete elettrica né di trasformare la capanna di fango col tetto di paglia in una casa di mattoni. Gli abitanti del villaggio non permettevano alla famiglia di Surekha di irrigare i campi con l’acqua del canale, o di attingere al pozzo pubblico. Cercarono di costruire una strada pubblica attraverso la proprietà della donna e, alle sue proteste, passarono coi carri trainati da buoi sui suoi terreni. Lasciavano le loro bestie pascolare sulle sue coltivazioni.
Ma Surekha non cedette. Si rivolse alla polizia che non le prestò orecchio. Nel corso dei mesi la tensione nel villaggio salì alle stelle. A mo’ di avvertimento, gli abitanti aggredirono un parente della donna, lasciandolo moribondo. Surekha sporse nuovamente denuncia. Questa volta la polizia procedette a degli arresti, ma gli accusati furono rilasciati su cauzione quasi subito. Il giorno del rilascio, il 29 settembre 2006, alle sei di sera, circa 40 persone del villaggio, uomini e donne, arrivarono furibondi sui trattori e circondarono la casa dei Bhotmange. Il marito di Surekha, Bhaiyalal, che era nei campi, udì il rumore e corse a casa. Nascosto dietro un cespuglio vide la folla aggredire la sua famiglia. Corse a Dusala, la città più vicina e, attraverso un parente, riuscì a chiamare la polizia. (Servono i contatti giusti anche solo perché la polizia risponda a telefono). I poliziotti non arrivarono mai. La folla trascinò fuori di casa Surekha, Priyanka e i due ragazzi, uno parzialmente non vedente. Ai ragazzi fu ordinato di stuprare la madre e la sorella; al loro rifiuto vennero mutilati dei genitali e infine linciati. Surekha e Priyanka subirono uno stupro di gruppo e vennero massacrate di botte. I quattro corpi vennero gettati nel vicino canale dove furono ritrovati il giorno successivo.
Inizialmente la stampa presentò l’accaduto come “delitto d’onore”, riportando che gli abitanti del villaggio erano indignati perché Surekha aveva una relazione con un parente (la vittima della precedente aggressione). A seguito delle proteste di massa inscenate dalle organizzazioni Dalit, la magistratura fu infine spinta a prendere atto del delitto. Comitati di cittadini indagarono sull’accaduto, rivelando l’inquinamento delle prove. Nel primo grado di giudizio i principali autori del delitto vennero condannati a morte, ma non venne invocata la legge di Prevenzione delle atrocità riferita alle caste e alle tribù intoccabili — il giudice ritenne che il massacro di Khairlanji fosse un crimine dettato da desiderio di “vendetta”. Disse che non sussistevano prove dello stupro e che l’omicidio non aveva connotazioni di casta. Se un giudice indebolisce il quadro giuridico in cui è inserito il reato per il quale commina poi la pena di morte, non fa che spianare la strada alla riduzione o addirittura alla commutazione della pena da parte dell’organo di giudizio superiore. Non è una prassi insolita, in India. La condanna a morte di un individuo, per quanto efferato sia il suo crimine, difficilmente può essere definita un atto di giustizia. L’ammissione da parte del tribunale che il pregiudizio di casta continua ad essere un’orrenda realtà in India sarebbe stato un passo in direzione della giustizia. Invece il giudice si è limitato a cancellare la casta dal quadro.
Surekha Bhotmange e i suoi figli vivevano in una democrazia orientata al mercato, quindi niente petizioni Onu con lo slogan “Io sono Surekha”, né messaggi indignati di capi di stato rivolti al governo indiano. Meno male, non vogliamo mica che ci sgancino bombe addosso solo perché da noi vige il sistema delle caste.
«Per gli intoccabili», scrisse Ambedkar nel 1945, con un coraggio che gli intellettuali di oggi in India fanno fatica a trovare, «l’induismo è una vera camera degli orrori». Per un autore dover usare termini come “Intoccabili”, “casta intoccabile”, “classe arretrata” e “altre classi arretrate” per definire esseri umani come lui è come vivere in una camera degli orrori. Dato che Ambedkar ha usato il termine “Intoccabili” con rabbia fredda, lucida, e senza batter ciglio, devo farlo anch’io. Oggi il termine “Intoccabile” è stato sostituito da quello Marathi “Dalit” (“gente svantaggiata ”), che viene a sua volta usato in maniera intercambiabile con “casta registrata.” Questa prassi, come indica lo studioso Rupa Viswanath, non è corretta, perché il termine “Dalit” include intoccabili che si sono convertiti ad altre religioni per sfuggire allo stigma della casta (come i Paraiyan del mio villaggio che si erano convertiti al cristianesimo), non considerati nell’accezione “casta registrata”. La nomenclatura ufficiale del pregiudizio è un labirinto che porta ad una burocratizzazione del discorso. Per tentare di evitarlo, nella maggior parte dei casi, ma non sempre, uso il termine “Intoccabile” quando mi riferisco al passato e “Dalit” quando scrivo del presente. In riferimento a Dalit convertiti ad altre religioni specifico Dalit sikh, Dalit musulmani, o Dalit cristiani.
Stando ai dati ufficiali del National Crime Records Bureau ogni sedici minuti un Dalit è vittima di un crimine commesso ai suoi danni da un non Dalit; ogni giorno più di quattro donne Intoccabili vengono stuprate da Toccabili; ogni settimana 13 Dalit vengono assassinati e sei Dalit rapiti; nel solo 2012, l’anno in cui una ventitreenne venne uccisa a Dehli dopo uno stupro di gruppo, sono state violentate 1574 donne Dalit (di regola si calcola che venga denunciato solo il 10 per cento degli stupri o altri reati commessi ai danni di Dalit) e 651 Dalit sono stati assassinati. Questo solo per quanto riguarda gli stupri e le carneficine. Non sono contemplate le umiliazioni, come essere denudati e costretti a sfilare nudi, a mangiare merda (letteralmente), i sequestri dei terreni, il boicottaggio sociale in varie forme, la limitazione di accesso all’acqua potabile. Bant Singh, un Dalit Mazhabi Sikh dello stato del Punjab, nel 2005 ha subito l’amputazione di entrambe le braccia e di una gamba perché aveva osato sporgere denuncia contro gli stupratori della sorella. Il suo caso non compare nelle statistiche ufficiali dei reati: non esiste la categoria “triplice amputazione”.
«Se la comunità si oppone ai diritti fondamentali non c’è legge, né parlamento, né magistratura che possa garantirli nel vero senso della parola», diceva Ambedkar. «Cosa se ne fanno dei diritti fondamentali i negri in America, gli ebrei in Germania e gli intoccabili in India? Come diceva Burke, non si è ancora trovato il metodo per punire le masse». Chiedete a un qualunque poliziotto di campagna in India e probabilmente vi dirà che il suo compito è “mantenere la pace”. Questo si fa per lo più difendendo il sistema delle caste. Le istanze dei Dalit infrangono la pace.
Altri abomini contemporanei come l’apartheid, il razzismo, il sessismo, l’imperialismo economico e il fondamentalismo religioso sono stati oggetto di critica sotto il profilo politico e intellettuale a livello internazionale. Come mai il sistema delle caste in India — una delle modalità più brutali di organizzazione sociale gerarchica che l’umanità conosca — è riuscito a sfuggire a un simile scrutinio e censura? Forse perché è ormai talmente fuso con l’Induismo e, per estensione, con ciò che è giudicato bello e buono (il misticismo, lo spiritualismo, la non violenza, la tolleranza, il vegetarismo, Gandhi, lo yoga, il turismo zaino in spalla, i Beatles) che, almeno dal di fuori, sembra impossibile scardinarlo e tentare di comprenderlo.
(Copyright Arundhati Roy Traduzione di Emilia Benghi)

IL TESTO Questo testo è un estratto dell’articolo “Vergogna dell’India”, pubblicato da Prospect, nel quale Arundhati Roy ha riscritto l’introduzione al libro “L’eliminazione delle caste” di Ambedkar


Corriere 27.11.14
Intellettuali e l’Urss. Il Dio che è fallito
risponde Sergio Romano


Quando si parla dell’Urss si fa normalmente riferimento a un regime oppressivo e lesivo di ogni forma di libertà. Ma doveva essere necessariamente così? Scartabellando vecchie copie di Storie illustrata, ho trovato un articolo di Raffaello Uboldi di molti anni fa. A detta sua, prima che si instaurasse la ferrea dittatura stalinista, l’Unione Sovietica costituiva una delle mete preferite dell’intellighenzia europea. È stata una via obbligata quella presa o il corso degli eventi poteva essere differente?
Francesco Perfetti

Caro Perfetti,
Vi furono pellegrinaggi intellettuali in Unione Sovietica anche dopo l’inizio della dittatura stalinista. George Bernard Shaw, brillante commediografo e premio Nobel per la letteratura nel 1925, visitò l’Urss nel 1931, fu molto lusingato dalle accoglienze ricevute e dette sul regime sovietico giudizi entusiasticamente favorevoli. Più tardi, dopo l’inizio delle grandi purghe, giustificò i processi staliniani sostenendo che i protagonisti delle grandi rivoluzioni sono spesso incapaci di amministrare lo Stato e che occorre spesso eliminarli con una corda al collo. Quando gli furono chieste notizie sulla catastrofe umanitaria provocata dalla grande carestia ucraina, rispose di avere visto soltanto bambini rosei e ben nutriti.
Non meno interessante fu il caso di un grande romanziere tedesco, fuggito dalla Germania nazista, autore tra l’altro di Süss l’ebreo e I fratelli Oppermann . Invitato in Unione Sovietica, Lion Feuchtwanger vi rimase dal novembre 1936 al febbraio 1937 e assistette ad alcune delle udienze di uno dei grandi processi celebrati a Mosca contro i «nemici del regime». Come scrisse in un libro pubblicato dopo la fine del viaggio ( Mosca 1937 , pubblicato in Italia da Mondadori dopo la fine della Seconda guerra mondiale), la colpa degli imputati gli sembrò evidente.
La reazione di un grande scrittore francese, André Gide, è più sfumata e non priva di qualche ambiguità. Fu invitato in Unione Sovietica nel 1936 perché negli anni precedenti aveva salutato la rivoluzione bolscevica e la creazione dello Stato sovietico come gli eventi più entusiasmanti e promettenti del secolo. Ma già prima del viaggio aveva espresso qualche dubbio sui più recenti sviluppi della politica di Stalin. Come scrisse in un piccolo libro apparso nel 1937 ( Ritorno dall’Urss ), il viaggio confermò i suoi dubbi.
Mentre attraversava la Georgia, fece sosta a Gori, città natale di Stalin, e decise d’inviare un messaggio al leader sovietico. Scrisse: «Passando per Gori durante il nostro meraviglioso viaggio, sento il bisogno di mandarle il mio più cordiale …». Ma il suo accompagnatore e interprete lo fermò inorridito e gli disse che non avrebbe mai trasmesso un messaggio in cui a Stalin si desse semplicemente del lei. Era indispensabile aggiungere almeno un appellativo come «leader dei lavoratori» o «padre dei popoli». Gide protestò, ma dovette arrendersi e consentire che il messaggio venisse trasmesso con qualche ampollosa aggiunta. Ma sospettò che correzioni della stessa natura fossero state apportate ai discorsi che aveva pronunciato e alle interviste che aveva rilasciato dopo il suo arrivo in Unione Sovietica. Dichiarò allora pubblicamente che non avrebbe riconosciuto come suo alcun testo pubblicato in russo. Dodici anni dopo, nel 1949, Gide avrebbe scritto uno dei sei saggi sul comunismo pubblicati in un libro intitolato Il dio che è fallito . Gli altri cinque sono stati scritti da Arthur Koestler, Ignazio Silone, Richard Wright, Louis Fischer, Stephen Spender.

Corriere 27.11.14
Un riscatto per la periferia malata
Da un’idea di Renzo Piano nasce un nuovo Magazine
C’è un bisogno assillante di bellezza
Dal lirismo di Calvino alla denuncia dei cronisti. Ora la proposta di rammendo del senatore a vita
di Gian Antonio Stella


«E rano sposi. Lei s’alzava all’alba/ prendeva il tram, correva al suo lavoro./ Lui aveva il turno che finisce all’alba/ entrava in letto e lei n’era già fuori». Forse nessuno è riuscito a raccontare l’alienazione della periferia come Italo Calvino che scrisse, sulla musica di Sergio Liberovici, Canzone triste . Dove l’unico momento di serenità è quel breve incrocio in cucina: «Soltanto un bacio in fretta posso darti/ bere un caffè tenendoti per mano./ Il tuo cappotto è umido di nebbia./ Il nostro letto serba il tuo tepor».
Erano periferie operaie, di fuliggine, di tute di tela grezza color carta di zucchero, di palazzoni coperti di mattonelle giallastre, «mattina e sera i tram degli operai/ portano gente dagli sguardi tetri;/ fissar la nebbia non si stancan mai/ cercando invano il sol fuori dai vetri…». E non si può capire l’orrore di certe periferie di oggi, dove ormai non ci son quasi più operai e men che meno operaie e la povertà decorosa è affogata nel degrado, nel vandalismo, nella sporcizia, nella microcriminalità, nello spaccio di droga, se non si torna al momento in cui furono costruite. E al carico di sogni che accompagnò spesso la loro progettazione, sogni che finirono per schiantarsi quasi sempre nella realtà di cantieri che, fatto l’alveare e finiti i soldi, ignorarono la necessità di corredare i dormitori di tutto il resto. Il verde, gli spazi collettivi, i punti di ritrovo e di sintesi della comunità.
Tutto ciò che avrebbe consentito ai «detenuti» dei nuovi palazzoni, in parte deportati dei centri storici, di vivere. Si pensi al Nuovo Corviale, il serpentone immaginato forse dall’architetto Mario Fiorentino come una cittadella che potesse avere una vita autonoma dignitosa e presto diventato un mostro di rara bruttezza: migliaia di persone assediate e intimidite che vivono tra finestroni spaccati, ascensori defunti, campanelli rotti, spazzatura… O a Librino, l’alveare disegnato da Kenzō Tange che i catanesi chiamano «Libbrìnu» o meglio ancora «’u quatteri», dove mai si è visto il gran parco immaginato dall’architetto giapponese e dove una cronaca da incubo registra da decenni morti ammazzati, stupri di gruppo, agguati ai poliziotti, guerre tra pusher decisi a imporsi sugli altri al punto che nel luglio del 2014 in casa di un aspirante re dello spaccio è stato trovato un trono lamellato d’oro. O ancora alle case popolari di via Selinunte, a Milano, dove la signora Georgia con due disabili in famiglia ha raccontato al «Corriere»: «Una sera iniziano a dar botte sulla porta, stavamo mangiando, sembrava che volessero sfondarmela. Apro, terrorizzata. Tre arabi urlano: “Dove sta il negro?”. Non so chi cercassero, forse erano robacce di droga. Quella sera hanno “perquisito” anche altre case del palazzo. Ma che vita è questa?».
Certo, per molti di quelli che si insediarono nei nuovi palazzoni ai tempi del boom, «prima» era peggio. Lo dicono certi racconti calabresi di Corrado Alvaro («I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali…»), ma anche certe cronache del «Gazzettino» sulle condizioni dei contadini polesani che vivevano in casoni di canna. «C’è un caso di 15 persone costrette in una sola stanza: otto adulti e sette bambini…». Lo conferma, tra gli altri, un reportage di Piero Ottone sulle «Coree» di Cinisello Balsamo, dove molti immigrati fuggiti da quelle periferie medievali del Paese si erano accampati in vecchie cascine diroccate: «La prima impressione che mi colpisce è un puzzo insopportabile; di muffa, di feci, di vecchio e di sporco. Mi guardo in giro: un armadio in rovina, un gran letto di ferro, con rozze coperte a brandelli e senza lenzuoli, un letto più piccolo e una indicibile confusione di casse, di rottami. Due finestrelle, alte nella parete di fronte, sono ermeticamente chiuse. Sul pavimento di mattonelle slabbrate e disuguali, fra le pozzanghere di orina e di altro sudiciume, sono seduti i bambini seminudi, sporchi e pallidi, che di bello hanno soltanto i grandi occhi neri».
L’«appartamento», con l’acqua corrente, la luce e il bagno, per chi aveva vissuto nei tuguri, faceva brillare gli occhi quanto le cartoline degli emigrati coi giganteschi tacchini della festa del Ringraziamento. Bastarono pochi anni, però, a far crescere nell’animo di ciascuno delusione, angoscia, insofferenza… Scriveva nel 1960 Danilo Montaldi in Milano, Corea , grande libro sulle periferie firmato con Franco Alasia: «Per tutti la speranza si arena al capolinea del 15, del 16, dell’8, del 28…».
Non ci misero molto, gli intellettuali più attenti, a capire che quelle periferie costruite senza amore, quei carnai di cemento armato («case-canili», le chiamava Antonio Cederna) tirati su tra una poltiglia di baracche abusive, stavano diventando polveriere di rabbia, di rancore, di odio. Tra i pionieri, c’era Pier Paolo Pasolini, che ne traeva spunto per poesie su quei palazzi, «quasi mondi» dove «ragazzi leggeri come stracci giocano alla brezza». «Per lui l’emarginazione era una categoria letteraria», ricorda don Roberto Sardelli, il prete che lasciò la parrocchia per vivere nelle baracche dell’Acquedotto Felice, «lui era un uomo dedito alla ricerca artistica, non gli interessava vedere la realtà. Anche lui, io me lo ricordo in borgata, era prigioniero di uno schema».
Fatto sta che il tema del risanamento delle periferie, percorse dai cronisti nella scia di questo o quell’episodio di cronaca, questo o quella inchiesta di costume, è man mano uscito dal dibattito intellettuale e politico. Certo, di tanto in tanto, forse per i sensi di colpa, c’è stato un soprassalto di attenzione. Come una paginata sul «Sole 24 ore» del luglio 1991 intitolata: Dai quartieri un Sos per la rinascita . «Riqualificare è inevitabile perché la periferia come l’abbiamo costruita non conviene più a nessuno», scriveva Francesco Perego, «ma in che cosa la riqualificazione debba consistere, non è scontato. Le luminose certezze dell’urbanistica moderna si sono dimostrate infatti un fallimento». E nuovi fallimenti sarebbero seguiti alle promesse di risanamento dettate da motivi di bottega elettorale. «Investiremo 100mila miliardi di lire!». Sì, ciao.
Per questo quando Renzo Piano ha messo sul tavolo il tema del «rammendo» delle periferie, (quel gran tavolo di compensato essenziale e operativo montato nel suo studio in Senato), si è levato intorno un certo stupore: ah, sì, giusto, è vero, le periferie! Eppure il tema era lì, sotto gli occhi di tutti: il risanamento edilizio, urbanistico, civile delle periferie dove vivono almeno 28 milioni di italiani, spalancherebbe la porta al risanamento morale. Perché, come dice Giancarlo Bregantini, a lungo vescovo di Locri, «un ragazzo che cresce in un posto brutto è più facile che cresca brutto». E sempre lì si torna: c’è bisogno di bellezza. Siamo assetati di bellezza.

Repubblica 27.11.14
L’amaca
di Michele Serra


P ER salvare le periferie dall’abbandono, scrive Renzo Piano, ci vogliono «amore e identità», e «piccoli interventi di rammendo che possono innescare la rigenerazione anche attraverso mestieri nuovi, microimprese, start up, cantieri leggeri e diffusi, creando così nuova occupazione». È una visione modernissima (leggera e diffusa, come ogni rete efficace), molto più dinamica e realistica del greve gigantismo urbanistico che ha portato agli interminabili filari di casamenti anonimi: privi di amore e identità, appunto.
Se proviamo a sostituire alla parola “periferie” la parola “campagne”, o la parola “territorio” in senso lato, il risultato non cambia. L’abbandono, il degrado, l’impoverimento dei suoli chiedono, per trovare cura, amore e identità in misura direttamente proporzionale alla ottusa contabilità del “tutto e subito”. E filiere virtuose di piccole imprese, idee nuove, attività consorziate, nuova socialità, rispetto dei ritmi della natura, preveggente valutazione delle conseguenze dei nostri gesti e degli impatti ambientali. Colpisce che nel vivace dibattito in corso su agricoltura e cibo questa stessa impostazione, che è decisamente progressista, sia spesso tacciata di essere “nostalgica” o peggio “reazionaria”. Toccherà anche a Renzo Piano, e alla sua idea di “rammendo delle periferie”, essere accusato di essere un patetico reazionario?

Corriere 27.11.14
Racconto del «tutto» dalle neuroscienze fino all’antropologia

Dal 29 novembre al 6 aprile 2015, al Complesso Monumentale del Broletto di Novara, la mostra In Principio - Dalla nascita dell’Universo all’origine dell’arte , ideata da Sergio Risaliti, a cura di Silvia Bencivelli, Stefano Papi, Sergio Risaliti. Prodotta da Fondazione Teatro Coccia Onlus in partnership con Codice. Idee per la Cultura, promossa da Comune di Novara e assessorato alla Cultura della Regione Piemonte nell’ambito del Sistema culturale integrato novarese, si giova della collaborazione di INAF- Istituto Nazionale di Astrofisica e di INGV - Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, ed è sostenuta da importanti sponsor pubblici e privati, e si avvale di Civita per la comunicazione. Catalogo a cura di Silvia Bencivelli, Stefano Papi e Sergio Risaliti, Codice Edizioni, 2014. Il progetto si articola in sette sezioni dalle neuroscienze all’astrofisica. Per info e prenotazioni: telefono 199.15.11.15, oppure tramite il sito www.mostrainprincipio.it.

Quel testo sacro che sistema il cosmo L’Enuma elish, testo sacro dei Babilonesi di 4.000 anni fa, secondo lo storico Zecharia Sitchin (mai contestato) descrive in forma epica la formazione del sistema solare

Corriere 27.11.14
Ritorno alle origini
Ordine cosmico o big bang?
L’assalto al cielo dei mortali per capire dove fu il principio
Un romanzo che ha inizio con l’Enuma elish, il grande poema di Babilonia
di Giulio Giorello


«La Luna non splendeva ancora, l’oscurità si estendeva dappertutto... Gli dei del Cielo e gli dei della Terra non c’erano». Così un testo di oltre 4 mila anni fa, della Terza Dinastia di Ur dei Caldei, la città di cui si favoleggia fosse originario Abramo. Circa un millennio dopo, il grande poema di Babilonia, l’ Enuma elish , si apre con le nozze tra Apsu, ovvero l’Abisso, e Tiamat, la madre del creato, che si congiungono dando vita appunto agli dei; forgiano il Sole e la Luna; fanno confluire le acque dolci delle profondità con quelle salate di superficie; ma «in alto i cieli non avevano nome, in basso la Terra non aveva parola che l’indicasse».
Con la forza della parola dall’indifferenziato nasce il cosmo, cioè l’ordine del mondo, che si rifletterà nelle istituzioni delle città-stato. Apsu si stanca presto dei suoi rumorosi figli, e con l’aiuto di Mummu, tuttofare a servizio del partito dell’Abisso, cerca il modo per sterminarli. Tiamat difende la prole, e Ea, il più «saggio e scaltro» dei suoi rampolli, si impadronisce del potere, diventa il nuovo Signore del Profondo, spaccia il genitore e butta in carcere il «malevolo» politicante.
Ben prima che compaia un Machiavelli a spiegare al Principe come si deve fare a ribellarsi per istituire un nuovo Stato! Nemmeno gli esseri umani hanno fatto ancora la loro comparsa; ma gli dei (sudditi di chi ora li governa) hanno bisogno di aiutanti che sbrighino per loro le più umili incombenze. Al contrario di quanto potrebbe suggerire il primo libro della Bibbia, donne e uomini qui non sono né dominatori né custodi dell’ambiente, ma creati per essere servi di servi, e le divinità li hanno voluti irrimediabilmente mortali perché non si facciano troppe illusioni.
I miti della Mesopotamia potrebbero sembrarci l’opposto della narrazione scientifica delle origini, per la quale il nostro universo è sbocciato da uno scoppio primordiale, il Big Bang: una densissima «palla di fuoco» avrebbe cominciato a espandersi e a raffreddarsi, prima ancora che le galassie e le stelle cominciassero a ornare il cielo delle configurazioni che noi scorgiamo quando fa buio.
Oggi la cosmologia scientifica ritiene di poter risalire nell’evoluzione dell’universo osservabile fino a pochi istanti da quel «botto iniziale». Ai tempi delle coraggiose congetture di Georges Lemaître e di George Gamow (rispettivamente anni Trenta e Quaranta del ‘900) la maggioranza dei ricercatori trattava tutto ciò come speculazione matematica lontana dalle possibilità di controllo empirico; però, in qualche decennio le cose sono cambiate. Come scrive Martin Rees, Astronomo Reale britannico in uno dei suoi più brillanti libri, Prima dell’inizio. Il nostro universo e gli altri (tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1998), «personalmente sarei disposto a scommettere dieci contro uno che il Big Bang c’è stato per davvero... La maggior parte dei cosmologi accetterebbe scommesse altrettanto forti, anche se credo che ci sia ancora una minoranza che non sarebbe d’accordo».
Ma l’idea dell’ordine cosmico e politico che emerge dal disordine è tutt’altro che morta. Per Rees e molti con lui, il principio non è mai un vero «principio», perché il nostro universo potrebbe essere stato prodotto dal collasso di un universo precedente, o da qualche altra «diavoleria». Il riferimento al Maligno è più che mai opportuno: i mitici creatori del mondo paiono tutt’altro che benevoli nei confronti delle loro creature. Già nei poemi mesopotamici la creatura può persino sfidare i creatori. Agostino di Ippona, alla domanda circa cosa facesse Dio prima di forgiare il mondo soleva rispondere che stava preparando l’inferno per coloro che ponevano tali scomodi quesiti.
Ma la comparsa delle capacità tecnologiche presso i nostri primitivi antenati, l’accoppiamento di tecnica e linguaggio, l’uso astuto della parola (sì, anche per ingannare, come sapevano fare Ulisse e Dedalo!), la pratica artistica che non si limita a copiare ma pretende di arricchire il mondo, la rappresentazione matematica della realtà, che unisce l’immaginazione della geometria e l’efficacia del calcolo, sono tutti aspetti (in un certo senso, potremmo dire da Prometeo in poi) dello sforzo incessante dei mortali di dare l’assalto al Cielo.
Si tratti dell’immaginazione degli scienziati nostri contemporanei o di quella degli antichi cantori di Grecia o di Mesopotamia, la creazione è rivoluzione permanente. Il momento iniziale è sempre adesso.

Corriere 27.11.14
Dall’Atlante a Anish Kapoor
E splendono le lune di Galilei
di Irene Soave


Sette sezioni, la scienza parla in un ambiente «mistico» Che cosa lega Atlante, ritratto dal Guercino in una tela del 1646 mentre si carica in spalla il globo celeste, e le variopinte immagini della radiazione di fondo dell’universo «dipinte» dalla sonda «Max Planck» inviata dall’Esa nello spazio, nel 2009? Parlano delle nostre origini; in particolare dell’aspetto che aveva l’universo quando si formò. Un oroscopo di poche costellazioni secondo il mito di Guercino; una mappa precisa di microonde che ha permesso di datare la nascita del cosmo a 13.810 milioni di anni fa, per la sonda.
«Ma sono le domande, non le risposte a fare la scienza. E la domanda è la stessa, da dove veniamo? . Eterna ma attualissima: la sonda Rosetta, protagonista delle cronache spaziali di questi giorni, è nello spazio proprio per studiare l’ipotesi che la vita terrestre arrivi di lì». Così spiega il fascino delle «origini» il divulgatore scientifico Stefano Papi, che con la collega Silvia Bencivelli e lo storico dell’arte Sergio Risaliti ha curato la mostra In principio: dalla nascita dell’universo all’origine dell’arte , al Broletto di Novara da sabato al 4 aprile prossimo. Un percorso in sette sale (sette come i giorni della Genesi biblica, come di sapore biblico è il titolo) che alterna opere d’arte e videoconferenze di scienziati di fama, a ritroso verso gli inizi della storia dell’uomo, della vita sulla Terra e dell’universo.
E quindi accanto all’Atlante, simbolo della mostra con la sua rappresentazione «paleoscientifica» del cielo (ma anche alle altre 26 opere d’arte, da Kapoor a Pistoletto, da Bruegel a Fontana) sono esposte le Lune originali disegnate da Galileo nel 1609, «che sono a tutti gli effetti un documento scientifico, ma quando le guardi, e pensi che di lì la scienza è cambiata per sempre, ti emozioni come davanti a un quadro», continua Papi. E a pochi metri una videointervista all’astrofisico Amedeo Balbi «fa il punto» su ciò che la scienza sa, ad oggi, dell’universo e della sua formazione.
Ogni sezione segue questo contrappunto: la geologa Claudia Piromallo racconta come si è formata la crosta terrestre, e il suo video sta accanto alla prima edizione del Sidereus Nuncius di Galileo proveniente dalla Biblioteca nazionale di Firenze e al settecentesco Vulcano di Pompeo Girolamo Batoni; il brodo primordiale da cui (forse) è cominciata la vita è l’Acqua dei Quattro elementi di Jan Bruegel il Vecchio, ma anche il fulcro della videointervista al biologo Enzo Gallori; il «ritratto» del bosone di Higgs dell’artista valdostana Giuliana Cuneàz sta accanto a uno stromatolite (cioè a una formazione calcarea) di 600 milioni di anni fa; e così via. «L’arte si è sempre misurata, in modo intuitivo e poetico, con l’origine di tutto — spiega Sergio Risaliti, ideatore dell’esposizione —. E spesso ha attinto a narrazioni creazioniste. Come la Genesi, a cui la struttura della mostra allude, ma non solo. Molte opere in mostra hanno un afflato mistico in senso lato, come il disco di metallo di Anish Kapoor. Però ho voluto che a parlare di questi temi ci fosse, in primo piano, la scienza. Alla poesia, che comunica più di molti trattati, deve aggiungersi il rigore».
In mostra anche questioni che la scienza considera aperte, come quella se la vita sulla terra sia partita dall’acqua (ipotesi del «brodo primordiale») o arrivata dallo spazio («ipotesi Rosetta»), o la composizione della «materia oscura» che costituisce il 96% dell’universo. «Ci sono tante vie per immaginarsi risposte», continua Papi. «E molti reperti in mostra servono a evocare possibili spiegazioni, più che darne. Ad esempio i meteoriti (qui ce ne sono di reperiti in Cina e in Cile, ndr ): arrivati sulla terra come zattere da un altrove, non ci raccontano questo altrove com’è. Ma ci permettono di immaginarlo».

Corriere 27.11.14
Il logos magico, più potente di un «Apriti, Sesamo»
di Roberta Scorranese


L’uomo si identifica con la facoltà di dare nomi. Ma metà degli idiomi sono destinati a scomparire «Per essere forte, diventa un artista della parola: la forza dell’uomo è nella lingua». Così ammoniva Ptahhotep, visir egizio vissuto nel XXV secolo a.C. Siamo all’alba della speculazione intellettuale e il verso che apre il Vangelo di Giovanni, «In principio era il Verbo» è ancora di là da venire. Eppure il potere del linguaggio ritorna come un fiume carsico nella storia del pensiero. Come un mantra (appunto!) dove la preghiera enunciata è capace di miracoli.
Ecco perché «Bla bla bla», la sezione dedicata alla lingua nella mostra In principio, diventa una delle più interessanti: quanta forza ha il linguaggio? Ha un potere creatore, come lascia intuire la formula «Apriti Sesamo», dove due parole sono in grado di compiere imprese titaniche? L’uso delle parole magiche è fondamentale nelle formule alchemiche e le religioni hanno trovato nelle preghiere un canale privilegiato per l’accesso al divino.
Lo spiega bene Andrea Moro, ordinario di linguistica generale presso la Scuola Superiore Universitaria IUSS Pavia e tra gli scienziati che hanno prestato una preziosa consulenza nell’allestimento della mostra. Moro ha scritto diversi libri sulle origini del linguaggio e in uno di questi, Parlo dunque sono (Adelphi) compie un viaggio affascinante nei corridoi dell’oscuro dedalo linguistico.
Partendo da un dio particolare, il dio ebraico che ascolta l’uomo dare dei nomi alle cose . «All’origine della tradizione ebraica, il Dio che fa l’uomo è lo stesso Dio che si ferma e ascolta l’uomo dare i nomi», annota Moro. Il linguaggio dunque sarebbe il primo atto libero dell’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio. E attenzione: parliamo di nomi, non di parole. «I nomi — scrive il linguista — non sono etichette date convenzionalmente». Il nome è identità, sostanza. Il nome crea. Nel Padre Nostro diciamo sia santificato il tuo nome e mai nominare invano il nome di Dio. «E nella tradizione greca il nome che si dà a Dio non è padre , ma Logos », osserva Moro. Logos che è anche parola, o pensiero o raccolta fertile (si pensi al termine «antologia»).
La parola è scritta nelle nostre origini e lo studioso lo dice chiaro: «Per quanto ancora avvolta nel mistero, la facoltà di dare nomi è il vero Big Bang che ci riguarda. Siamo parole incarnate». Ecco perché le opere d’arte della sezione in mostra scelte da Silvia Bencivelli, Stefano Papi e Sergio Risaliti spaziano da una stampa che raffigura la Torre di Babele di Athanasius Kircher (uno che dedicò parte della vita a decifrare geroglifici) all’acrilico Sinapsi in oro di Alberto Di Fabio, del 2007. Passato e presente, ma come cambia la parola?
Si direbbe che oggi quella scritta abbia un potere immenso: pensiamo alle tecnologie che favoriscono la scrittura rispetto alla tradizione orale. Eppure pare che le lingue certificate oggi siano tra le 6 mila e le 10 mila. Nel catalogo (Codice) che accompagna la mostra, Bencivelli scrive: «Si calcola che nel corso di questo secolo scomparirà la metà delle lingue che oggi sono parlate sul pianeta. Con loro, scomparirà gran parte della cultura orale e tradizionale dell’umanità». Che cosa vuol dire? Certamente che le lingue cambiano, si evolvono e, sì, possono anche morire. Ma non muore la capacità di dare nomi . Quella, come abbiamo visto, è un’altra cosa.

Repubblica 27.11.14
Mariana Mazzucato: “Solo riducendo le disuguaglianze ci può essere vera crescita”
Parla l’economista, docente all’università del Sussex, che sabato dialogherà con Ezio Mauro
“I dati sulla povertà sono allarmanti. Bisogna investire risorse e energia su alimentazione e stili di vita”
di Giulio Azzolini


«UNA vera strategia di innovazione richiede di investire non solo sui settori a profitto immediato, ma anche sugli stili di vita. Per questo oggi riflettere sull’industria del cibo è fondamentale». Parola di Mariana Mazzucato, docente di Economia dell’innovazione all’Università del Sussex, autrice un anno fa del fortunatissimo Lo stato innovatore ( Laterza) e protagonista, sabato a Reggio Emilia, di un dialogo con Ezio Mauro. I dati diffusi da Oxfam due settimane fa confermano che la forbice tra ricchi a poveri continua a crescere. «Ma non basta lamentarsi, bisogna capire perché».
Qual è la causa delle nuove disuguaglianze?
«Per tante persone è stato difficile adattarsi agli enormi processi di innovazione e di globalizzazione degli ultimi decenni. Ma il punto cruciale è un altro. La disuguaglianza aumenta quando il settore privato non investe più né sul capitale umano né sulle aree ad alta produttività e, dall’altra parte, un settore pubblico senza coraggio si preoccupa soltanto di tagliare i servizi e di abbassare le tasse. Risultato: chi estrae valore viene premiato più di chi il valore lo crea davvero».
Thomas Piketty chiede di aumentare le imposte sulle grandi ricchezze. Lei è d’accordo?
«Piketty si concentra sulla tassa sulla ricchezza, ma secondo me è ancora più importante capire come dagli anni Settanta in poi molte tasse abbiano contribuito ad aumentare le disuguaglianze. Il capital gains tax , l’imposta sui profitti finanziari. Dal 1976 al 1981 fu abbassata dal 40 al 20 per cento: le lobbies la presentarono come uno stimolo per l’innovazione, invece ha comportato solo una gigantesca redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto. Ma agire sulla leva fiscale non basta».
Come si contrasta la disuguaglianza?
«Ancorando l’azione dello Stato a una nuova teoria del valore e della crescita.
Solo mettendo insieme gli insegnamenti di Keynes sulla domanda e quelli di Schumpeter sul rischio e sull’innovazione, sarà infatti possibile una “crescita inclusiva”, che sia cioè accompagnata da una riduzione della disuguaglianza ».
Ma la crescita da quali fattori dipende?
«Sul breve può anche basarsi sulla finanza e sul debito, ma sul lungo periodo dipende dalla qualità e dalla quantità di investimenti in innovazione. Se analizziamo i paesi cresciuti negli ultimi anni grazie all’innovazione, possiamo imparare almeno tre lezioni eterodosse rispetto alle teorie mainstream: che il tasso di investimenti pubblici è stato enorme, in particolare tramite finanziamenti diretti alle imprese; che lo Stato ha avuto il ruolo di creare il mercato, non semplicemente di aggiustarlo quando questo falliva; e che lo Stato non è necessariamente una macchina mangiasoldi, ma può agire come un buon imprenditore. Dovrà socializzare i rischi, sì, ma anche i ricavi».
Questa ricetta potrebbe funzionare anche in Italia?
«Perché no? Pensi al caso dell’Iri: fino a quando è rimasta indipendente dai partiti, è stata un enorme successo. Il discrimine non è tra pubblico e privato, ma tra un certo tipo di pubblico e un certo tipo di privato. Il problema principale dell’Italia non è lo Stato, che certo andrebbe reso più efficiente. Il problema vero è che da vent’anni non ci sono investimenti né privati né pubblici in tutti i settori chiave che aumentano la produttività e, di conseguenza, la crescita».
Non pensa che la priorità sia “sbloccare” il paese?
«L’idea che lo sviluppo italiano sia frenato solo dalla burocrazia e dalle tasse mi sembra folle. Il patent box appena introdotto nella legge di stabilità (la defiscalizzazione fino al 50 per cento per i prossimi 5 anni su redditi da brevetti e altri beni immateriali, ndr) non avrà alcun effetto sulla crescita. Il governo non può essere solo business friendly. Vanno bene gli 80 euro, ma per rilanciare la domanda il governo deve stare più attento a tutte le parti sociali e discutere con loro su come aumentare gli investimenti, privati e pubblici, in aree fondamentali quali la formazione del capitale umano, l’adattamento alle nuove tecnologie e la ricerca e sviluppo. Altrimenti l’economia rimarrà ferma e la disuguaglianza continuerà a crescere».
Il 9 agosto, con una lettera pubblicata su Repubblica , lei scriveva a Renzi che «è indispensabile rendersi conto di dove sta il problema». Crede sia stato individuato?
«No, ancora no».

il Fatto 27.11.14
L’autunno nero dei libri
di Silvia Truzzi


EDITORIA, IL 2014 SI CHIUDERÀ CON UN MENO 4%
ANCHE IL DIGITALE NON CRESCE COME PREVISTO

Quando ne L’arte del romanzo Milan Kundera nota che si pubblicano libri con caratteri sempre più piccoli immagina la fine della letteratura. “A poco a poco, senza che nessuno se ne accorga, i caratteri rimpiccioliranno fino a diventare completamente invisibili”. È un paradosso, la letteratura non è morta (anche se non si sente molto bene, di sicuro) e comunque poi sono arrivati i supporti digitali con la possibilità di definire la grandezza dei caratteri. E non solo. Ormai da qualche anno l'ossessione del mercato del libro si chiama digitale. Eppure i dati dicono che in Italia cresce ma non troppo. Almeno, non come ci si aspettava: da gennaio a novembre 2014, secondo Nielsen (una delle maggiori società di ricerca), l’incremento del mercato degli e-book è stato del 40% (l’e-commerce invece +29%). E fin qui almeno si parla di segni positivi. Se ci spostiamo sul mercato tradizionale scopriamo che ottobre 2014, rispetto allo stesso mese del 2013, è stato nerissimo: -9,4 per cento a copie, -7,5 a valore (la differenza sta a significare che si vendono meno i libri economici). Nel complesso nei primi 10 mesi dell’anno, sempre Nielsen rileva che le copie totali scendono del 7%, il mercato a valore del 4,6%. E tutto questo rispetto a un 2013 che si era chiuso a -5% circa.
“UN PERIODO difficile come questo l'Italia dal dopoguerra non l'aveva mai visto, e anno dopo anno il peso si sente”, commenta Massimo Turchetta, direttore generale Rcs libri. “Per Gfk (un'altra importante società di ricerca, ndr) però il progressivo a fine anno è un po' meno drammatico: -2,6%. Gli acquirenti di libri in Italia, i lettori forti, sono 5 milioni di persone: il 70% è rappresentato da donne tra 35 e i 55 anni che lavorano e hanno un titolo di studio medio-alto. Spesso sono insegnanti, o fanno mestieri che non implicano situazioni economiche brillanti: non è gente che ha i soldi in Svizzera, per capirci. Soffre la parte migliore del Paese, una specie di cui invece bisognerebbe prendersi cura. Sono sicuro però che ci sarà una ripresa a Natale: la stessa cosa era accaduta l'anno scorso, con un'estate incredibilmente positiva e con un brutto ottobre. Per generi, si salva la narrativa per ragazzi: l'unico segmento che cresce in tutto il mondo – dai libri senza parole fino alla narrativa per giovani adulti – è quello. Tra l'altro i nativi digitali leggono di più e moltissimo su carta. Per noi il fenomeno più macroscopico è stato John Green, che ha venduto 750 mila copie”.
Non un crollo, ma quasi? “Se dovessi dare un titolo a questo scenario sarebbe: il mercato del libro continua a calare, ma continua a non precipitare”, risponde Gianluca Foglia, direttore editoriale di Feltrinelli. “Moltissimi piccoli editori non ce la fanno più. E i principali gruppi hanno ridotto la quantità di titoli: il mercato si sta riassestando, cercando un nuovo equilibrio tra il numero di titoli, le tirature e le copie vendute. Che il mercato continui a calare è la prospettiva più credibile. Quest'anno poi è orfano di grandi best-seller: voglio dire che non c'è stato nessun titolo paragonabile alle Sfumature, a Saviano a Gramellini. I best-seller di questo tipo danno una falsa idea di tenuta mentre in realtà la crisi c’è. Tutti i consumi stanno diminuendo: per certi versi il 2014 è l'anno della verità, nel senso che dà la percezione di come stanno le cose davvero.
IL DIGITALE non compensa questa ulteriore perdita di vendite, perché non sta crescendo come avevamo previsto che potesse crescere”. Si riflette su questo anche a Segrate, dove si è appena costituita la nuova newco che raggruppa tutte le case editrici. “Avevamo previsto una crescita del 110%”, spiega il direttore generale di Mondadori libri Riccardo Cavallero. “Guardiamo le cifre: nel 2011 valeva 3 milioni di fatturato, nel 2012 18 milioni, nel 2013 32 milioni, nel 2014 chiuderà a 40 milioni. È una frenata impressionate. Causata da una serie di circostanze: la prima, e riguarda gli editori, è non aver incrementato la digitalizzazione dei titoli. Oltre ai ragazzi, un segmento che va bene è la narrativa rosa. Cresce in generale e diventa un fenomeno sul digitale perché supera punte del 20 per cento rispetto al cartaceo. La decrescita, però, rallenta: nei prossimi due anni stimo un andamento del mercato sul -2/3%. Certo il 2014 chiuderà con un -4%, ma noi abbiamo una serie di titoli forti in uscita, quindi credo che oltre al Natale, anche solo per quanto pesa Mondadori sul mercato totale, ci sarà un miglioramento”.
Stefano Mauri, presidente e ad del gruppo Gems è cauto, ma non pessimista: “Il mercato dei lettori che amano poter scegliere tra tutti i libri che l'editoria italiana offre (si è venduta almeno una copia di 485 mila titoli nei primi 11 mesi) quest'anno nel suo complesso tiene. La domanda si sposta in parte sui nuovi canali, sia l'ecommerce (+29%) che l'e-book (+40%) dove l'offerta comincia a essere ragguardevole. I titoli dei quali è disponibile la versione e-book coprono circa il 60% dei libri acquistati su carta ma c'è anche il vantaggio che sono sempre disponibili, mai esauriti. E qui va detto che il panorama dell'Europa continentale è più plurale di quello in lingua inglese: oltre a Kindle hanno un buon peso in Italia Kobo, Apple e adesso sbarca anche Tolino, il reader best-seller in Germania (dal terzo trimestre 2014 è leader di mercato). È a due cifre (-14%) la flessione delle vendite nei supermercati. Comunque Gems chiude l'anno in lieve crescita e con un eccellente risultato nel digitale”.

Repubblica 27.11.14
Perché Internet ha bisogno di nuove regole
di Stefano Rodotà


PERCHÉ si è tornati a discutere intensamente di nuove regole per Internet, addirittura di una sua “costituzione”? La spiegazione si trova nel congiungersi di una serie di fattori tecnologici, politici e istituzionali, che hanno modificato un contesto considerato ormai stabile, spingendo più d’uno a sottolineare che siamo di fronte a una possibile svolta storica.
Era sembrato che si fosse consolidata una impostazione che lasciava poco spazio ai diritti. Dalla brutale affermazione del 1999 di Scott McNealy — «Avete zero privacy. Rassegnatevi» — fino alla sbrigativa conclusione di Mark Zuckerberg sulla fine della privacy come “regola sociale”, era emersa una linea caratterizzata dal congiungersi di due elementi: l’irresistibilità tecnologica e la preminenza della logica economica. Da una parte, infatti, si sottolineava come le innovazioni tecnologiche e le nuove pratiche sociali avessero reso sempre più difficile la tutela della sfera privata e dello spazio pubblico, legittimando raccolte di dati sempre più imponenti, soprattutto con la giustificazione della sicurezza; dall’altra, l’affermata “morte della privacy” diveniva l’argomento per affermare che i dati personali erano ormai divenuti proprietà assoluta di chi li aveva raccolti. Gli interessi della sicurezza e del mercato occupavano sempre di più l’orizzonte di Internet.
Queste certezze sono state sfidate dalla forza delle cose. Il cosiddetto Datagate, le rivelazioni di Edward Snowden sulle schedature planetarie operate dalla National Security Agency, ha determinato una reazione diffusa, mettendo in discussione la legittimità di una sorveglianza di massa che non viola soltanto i diritti individuali, ma spinge verso una società del controllo. In questa stessa direzione si è mossa la Corte di Giustizia dell’Unione europea che, con una sentenza dell’8 aprile, ha cancellato una direttiva Ue sulla conservazione dei dati personali che, giustificata appunto con esigenze di sicurezza, violava la Carta europea dei diritti fondamentali sulla tutela dei dati personali. E poche settimane dopo, il 13 maggio, sempre la Corte di Giustizia ha pronunciato una sentenza, riguardante Google, nella quale si legge che i diritti fondamentali riconosciuti dagli articoli 7 e 8 della Carta, che sono norme vincolanti, «prevalgono sull’interesse economico degli operatori dei motori di ricerca».
L’impostazione finora seguita appare capovolta. I diritti fondamentali, sacrificati in nome degli interessi della sicurezza e dell’economia, assumono valore prioritario, e così viene indicata una precisa gerarchia da rispettare quando si opera un bilanciamento tra quei diritti e interessi di altra natura. Viene così definito uno spazio costituzionale, riconoscendo alla Carta dei diritti fondamentali il ruolo che le compete, avendo lo stesso valore giuridico dei trattati. E questo cambio di passo è stato registrato dalla nuova Commissione europea, che ha attribuito al suo primo vicepresidente, Frans Timmermans, una esplicita competenza per l’attuazione della Carta.
È questo il contesto mutato che spiega l’attenzione rinnovata per un “Internet Bill of Rights”. Il “padre” della Rete, Tim Berners-Lee, sta lavorando proprio intorno a una Magna Carta per Internet. E una commissione istituita dalla Presidente della Camera dei deputati ha elaborato una Dichiarazione dei diritti di Internet, per la quale è aperta una consultazione, e che ha una caratteristica che la differenzia da tutte le altre iniziative in materia (il Berkman Center di Harvard ne aveva contate 87): siamo di fronte a un testo nato in una sede istituzionale e che, proprio per questa sua natura, sta destando grande interesse al di là dei nostri confini.
Uno spazio costituzionale, dunque, si è aperto. Come riempirlo? Qui la partita si fa difficile e chiama in causa in primo luogo l’Unione europea, che da due anni discute un regolamento che vuole rinnovare la disciplina sulla tutela dei dati personali. Riusciranno le istituzioni europee a liberarsi da timidezze e pressioni e ad approdare a un regolamento pienamente coerente con i principi e i diritti che esse stesse hanno messo al centro dell’attenzione? La questione è essenziale, perché l’innovazione costituzionale è destinata ad incontrarsi sempre più direttamente con le incessanti innovazioni rese possibili dalla tecnologia.
Ci si interroga intorno agli effetti dei “Big Data”, espressione che non descrive soltanto la crescita quantitativa delle informazioni raccolte, ma nuove modalità della loro gestione, con effetti nelle più diverse dimensioni della vita sociale. Se non si vuole che qui si riproducano, persino ingigantiti, i rischi di concentrazioni incontrollabili di potere, di controlli sempre più capillari e diffusi, è indispensabile disporre dell’attrezzatura istituzionale necessaria che ribadisca la necessità che i Big Data vengano utilizzati in un ambiente che non perde il suo fondamento nelle libertà e nei diritti.
Questa consapevolezza deve farsi sempre più acuta quando si considera il passaggio, ormai in atto, verso l’”Internet delle cose”, che nasce dal fatto che un numero sempre più ampio di cose viene costruito in modo da poter comunicare e ricevere informazioni. Gli esempi si moltiplicano, sono tratti dalla vita quotidiana, dalla possibilità che il frigorifero venga connesso con il supermercato per segnalare la necessità di rifornirmi di ciò che si sta esaurendo. Il mondo materiale viene connesso a Internet. Una possibilità che può essere estesa alle persone e ai loro corpi, tanto che si parla di un Internet “di ogni cosa”, per annunciare l’avvento di una società che si presenta come una rete globale integrata.
Questa descrizione sommaria rinvia a una situazione nella quale i dati, per il modo in cui sono raccolti e possono essere utilizzati, consegnano sempre di più le persone alla concreta possibilità che la loro identità sia costruita da altri. E il vero problema nasce dal fatto che le informazioni raccolte servono non solo a costruire profili che rendono la persona sempre più trasparente e vulnerabile, ma vengono affidate ad algoritmi, trattate con tecniche probabilistiche che costruiscono una identità “al futuro”, ipotetica e persino distorcente, che tuttavia può divenire strumento di conoscenza e valutazione. Di fronte a questa espropriazione, solo il riferimento forte ai diritti indica la via per restituire a ciascuno la sovranità su se stesso.
Si compone così il quadro costituzionale definito dall’intreccio tra dimensione delle regole e dimensione dell’innovazione e che richiede massima attenzione ai principi di riferimento. Lo ha compreso Obama sottolineando l’importanza della neutralità della Rete, riferimento indispensabile per garantire l’eguaglianza e la “generatività” della Rete, cioè la sua capacità di innovazione, altrimenti sequestrata dai soggetti maggiori con evidenti distorsioni delle stesse dinamiche economiche. E nel suo intervento si coglie un riferimento al fatto che soggetti come Google svolgono ormai una funzione di servizio pubblico, che esige un nuovo quadro istituzionale.
A queste dinamiche si torna ad opporre l’affermazione che vuole la Rete come luogo di una libertà “naturale”, messa in pericolo da qualsiasi regola. Ma la realtà è lontanissima da questa rappresentazione. La Rete è tutt’altro che uno spazio vuoto di diritto. È l’oggetto del desiderio d’ogni potere totalitario che impone norme volte a limitare l’accesso, a introdurre discriminazioni e censure, dalla Cina alla Turchia, all’Ungheria. Ma soprattutto la Rete è ferreamente disciplinata dai grandi soggetti transnazionali che la governano, gli “Over the Top”, che con i loro “terms of service”, le condizioni contrattuali, definiscono in maniera unilaterale e incontrollabile la condizione di tutti coloro che stanno in Rete, incidono sulla conoscenza, sull’idea stessa di lavoro. Il governo non solo dei tre miliardi di persone già presenti su Internet, ma dell’intero spazio planetario da esso creato, deve essere ricondotto a una logica costituzionale che comincia ad essere costruita.