venerdì 28 novembre 2014

Corriere 28.11.14
Lo ha denunciato recentemente anche la Laiga (Libera associazione italiana dei ginecologi per l’applicazione della legge 194), ricordando come molte donne vengano di fatto costrette ad andare in un’altra regione per interrompere una gravidanza indesiderata. I disagi riguardano l’intero Lazio, che infatti vanta percentuali bulgare di obiettori di coscienza (oltre il 90%)
Policlinico, solo medici obiettori
Stop alle interruzioni di gravidanza
All’Umberto I in pensione l’unico medico che garantiva il servizio. Sospese le prenotazioni. Le associazioni protestano
di Ambra Murè

qui

il Fatto 28.11.14
Il premier bastona, Squinzi felice
“Molto gradite le nuove regole sui contratti”
di Sal. Can.


Il copione di giornata rispecchia ampiamente la prima pagina di ieri del Fatto. Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, ammette di gradire molto il Jobs Act di Renzi, anche se nella versione prima maniera, mentre Matteo Renzi, confermando un “rispetto” formale per il sindacato, torna a bastonarlo senza pietà. “Vedo due sindacati, Cgil e Uil, - ha detto il premier nel corso della trasmissione Matrix - che faranno uno sciopero generale contro il nostro governo. Gli stessi sindacati si sono dimenticati di fare lo sciopero contro la Fornero e Monti”. Un modo per “buttarla in politica” che rappresenta un tasto utilizzato a piene mani dal presidente del Consiglio. Così come l’altro refrain: “La verità vera è che la riforma del lavoro sta dando più diritti a quelli a cui il sindacato, in questi anni, non ha parlato, a quelli di cui non si è occupato nessuno”.
LA SFIDA DI RENZI alla Cgil (e alla Uil) sta in queste parole: io rappresento meglio di voi il lavoro nuovo, quello senza diritti, senza garanzie, senza futuro stabile. “Il Jobs Act - sostiene il premier - è la grande occasione per dare diritti a chi non li ha mai avuti. Invece, Cgil e Uil faranno “uno sciopero generale contro il nostro governo che ha dato gli 80 euro a chi guadagna meno, che dà la maternità a chi non l’aveva, che concede i co.co.co. e i co.co.pro”. La contraddizione, insomma, sarebbe tutta in casa sindacale, il governo va spedito per la sua strada e non si ferma per nessuna ragione. Ieri, il testo, è stato approvato senza alcuna modifica in commissione Lavoro al Senato dove si voterà da martedì. L’obiettivo è licenziare la legge-delega il prossimo 4 dicembre. In terza lettura, infatti, si discutono e votano solo le parti modificate dalla Camera, visto che a palazzo Madama la legge è stata già approvata.
Il sindacato questa partita l’ha già compresa e infatti pensa ad attrezzarsi per una “lunga marcia” come dimostra la scelta di ricorrere alla Corte europea per far valere la Carta dei diritti europei. Il ricorso in sede Ue la Cgil lo ha già fatto a proposito della legge Poletti - il primo stralcio del Jobs Act, già approvato - che prevede una maggiore flessibilità e liberalizzazione dei contratti a tempo determinato. Ora si passa ai principi generali stabiliti, in particolare, dall’articolo 30: “Ogni lavoratore - si legge - ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”.
IL RICORSO non è stato materialmente redatto e quindi non è ancora presentato. Se ne parlerà dopo l’approvazione dei decreti delegati per cogliere la lettera del provvedimento. Un punto che sta a cuore al sindacato è la disparità di condizioni in cui si troveranno i lavoratori italiani. A cominciare dal 1 gennaio, infatti, non ci sarà più, per i nuovi assunti, il tradizionale contratto di lavoro a tempo indeterminato ma solo quello a tutele crescenti. Occorre capire ancora quali tutele saranno garantite e quali no ma il punto è che nei luoghi di lavoro si troveranno, fianco a fianco, lavoratori con diritti molto diversi motivati solo dalla data di assunzione. Una “differenza” che, per il sindacato, avrà una natura costituzionale. E dunque, in nome di quel ricorso e di queste considerazioni, si ricorrerà ai tribunali del lavoro. Come ha fatto la Fiom con la Fiat.

IL JOBS ACT
La legge delega del Jobs Act riprende in modo letterale un documento di Confindustria, le “Proposte per il mercato del lavoro e per la contrattazione” di Pierangelo Albini, direttore dell'area Lavoro e Welfare di Confindustria
Abbiamo chiesto a uno dei sindacalisti al vertice della Cgil e a uno dei principali esponenti della minoranza del Pd cosa cambia dopo questa notizia.

il Fatto 28.11.14
Il sindacalista Danilo Barbi (Cgil)
La riforma copiata da Confindustria
“Renzi è più a destra degli industriali”
intervista di Salvatore Cannavò


“Avete colto nel segno”. Danilo Barbi, emiliano, Cgil di lungo corso e membro della segreteria confederale, non ha dubbi sul titolo del Fatto di ieri che rendeva nota la similitudine tra il Jobs Act e le direttive di Renzi. “Solo che io penso che Renzi vada addirittura oltre la Confindustria”. Parole secche, sintomo di un rapporto consumato per sempre. La Cgil è consapevole del fenomeno anche se oggi il tema è il Jobs Act e i modi in cui fermarlo. “Renzi, comunque” afferma Barbi, “ha sbagliato i conti: per noi inizia una nuova ‘Stalingrado’”.
Barbi, lei condivide quanto da noi pubblicato?
Assolutamente, avete colto nel segno. Buona parte delle idee programmatiche del governo vengono dal documento di Confindustria. E questa cosa, del resto, è stata subito percepita dai lavoratori che infatti si sono mobilitati. Però io penso che Renzi sia andato anche oltre.
In che senso, oltre?
In quel documento si parla di flessibilità mentre il governo ha modificato l’articolo 18 e lo Statuto dei lavoratori.
Pensa che Renzi sia al di là di Confindustria?
Esattamente. E penso che il cambiamento sia avvenuto tra il 27 agosto, quando per Renzi l’articolo 18 non era né “un” problema né “il” problema, e metà settembre, in cui ha cambiato idea.
Cosa è avvenuto in quel lasso di tempo?
È avvenuto l’incontro riservato con Mario Draghi. In quel frangente, Renzi ha deciso di sposare la linea europea dell’austerità-flessibile come dimostra lo scontro, poi rientrato, con l’ex presidente della Commissione europea, José Barroso e le briciole del piano-Juncker.
Draghi ha più volte sottolineato di non sentirsi accostato all’austerità europea e di incalzare i governi a favorire la crescita.
È vero. Non sostengo che Draghi sia l’architetto dell’austerità-flessibile, che resta la finanza. Penso, però, che lui abbia suggerito a Renzi di produrre un atto simbolico che potesse funzionare da segnale per i mercati e da calamita per gli investitori esteri. Ricordo che quando presiedeva la Banca d’Italia questo era un suo pallino. Del resto, anche Mario Monti provò a fare la stessa cosa.
Non è un paradosso criticare l’austerità europea e rivolgersi alla Carta europea per frenare il Jobs Act?
No, nell’Europa attuale ci sono cose negative e cose positive. Generalmente le direttive europee sono più avanzate delle legislazioni nazionali mentre il problema sta nel patto di stabilità e nella politica economica della Ue.
Quali saranno gli effetti del ricorso alla Carta europea?
Stiamo preparando un menu molto complesso.
Che comprende?
Un’azione sulla giurisprudenza, sui tribunali del lavoro, sulle aziende, sui contratti nazionali. Abbiamo molte carte da giocare. Suggerisco al governo di farsi le feste in santa pace perché dopo ci sarà da correre.
Siete tornati davvero combattivi?
Sono i lavoratori a esserlo, non i sindacalisti. Perché si giocano la vita, la famiglia, la dignità. Per noi c’è una dura battaglia da compiere. È iniziata (dice ridendo) una nuova Stalingrado.

il Fatto 28.11.14
Il bersaniano Alfredo D’Attorre (Pd)
“Le sue leggi? Scritte per la grande impresa”
intervista di Ma. Pa.


Non è sorpreso, Alfredo D’Attorre, dalla somiglianza tra le Proposte di Confindustria e il Jobs Act di Matteo Renzi: “È evidente che la delega sul lavoro come alcune norme della legge di Stabilità – ad esempio la detrazione Irap sul costo del lavoro – sono state disegnate su misura per un pezzo dell’impresa italiana, quella grande e in particolare quella che vive di esportazioni”. Sono questi i legittimi interessi che il premier ha scelto di privilegiare da Palazzo Chigi, tutto qui: “Non c’era mai stato – dice il deputato della sinistra Pd – un governo così subalterno alla retorica confindustriale”. D’Attorre sembra prenderla con filosofia, forse perché di lavoro fa proprio il filosofo o meglio, dopo la laurea in Normale, il ricercatore alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa.
Nessuno stupore?
No, perché il risultato di questi mesi di governo è che non è stato messo in discussione il paradigma europeo. La linea – e lo spiega bene il documento di Confindustria che avete pubblicato – è sempre la deflazione salariale, il taglio degli stipendi, che ovviamente ha la controindicazione di uccidere la domanda interna. Ci sono studi di economisti che dimostrano come un calo di un punto della quota salari ha effetti depressivi per almeno l’1,3 per cento del Pil.
E allora?
E allora puntare sulla libertà di licenziamento per togliere agli imprenditori un alibi a investire non mi pare una scelta intelligentissima: si fa pagare tutto il conto ai lavoratori senza che questo alla fine produca benefici.
E il risultato quale sarà?
Si alimenta il conflitto sociale proprio mentre sarebbero necessarie coesione e fiducia, magari un aggiornamento del Patto dei produttori di cui si parlava anni fa con l’obiettivo di rilanciare la domanda interna e gli investimenti.
Perché, secondo lei, Renzi ha scelto di privilegiare la grande industria contro sindacati e Pmi?
Faccio un passo indietro. Io, a febbraio, pensavo che l’impegno diretto di Matteo Renzi al governo fosse positivo per portare a una rottura degli equilibri a livello europeo. La rottura, invece, l’abbiamo avuta col mondo del lavoro.
Perché?
Perché il governo ha fallito. Ora, al termine del semestre italiano, si può dire che l’Italia a Bruxelles non ha ottenuto nulla. Anche il famoso piano Juncker si riduce a poca cosa: ci vuole uno sfrenato ottimismo per immaginare che 21 miliardi di garanzie statali ne producano 300 di investimenti.
Insomma, il programma è sempre la lettera della Bce a Berlusconi del 2011?
Siamo sempre lì intorno: solo che per quel tipo di politiche i governi Monti e Letta erano più attrezzati...
Stante questo c’è un dubbio legittimo: il Pd è ancora a sinistra?
Diciamo così, ci sono vari temi su cui si percepisce uno strappo culturale: in politica estera ad esempio non abbiamo mai avuto un governo così schiacciato sulle ragioni di Israele, e in economia mai uno così incapace di dialogare col sindacato o così subalterno a una certa retorica confindustriale. Lo snaturamento del partito mi preoccupa, è ovvio.

il Fatto 28.11.14
Gli evasori votano, meglio tenerseli buoni
Chi falsifica i conti non inserendo il “nero” non commette frode fiscale
Significherebbe colpire le partite Iva, 8 milioni di contribuenti
di Bruno Tinti


SIAMO l’unico Paese al mondo che fa la lotta all’evasione fiscale strizzando l’occhio agli evasori. Il preannunciato decreto in attuazione della delega fiscale ne è la prova.
Cominciamo dal peccato originale, l’occhio di riguardo per il “nero”. È come per il falso in bilancio, anzi peggio. B. se l’è abolito (di fatto) nel 2002 e ancora niente è cambiato; il “nero” lo hanno declassato a peccato veniale nel 2000 e adesso c’era l’occasione di rinsavire.
Per la legge vigente, se uno si mette in tasca i soldi e non annota in contabilità quello che ha ricevuto (dunque fa una contabilità falsa), commette “dichiarazione infedele”, punita fino a 3 anni (niente carcerazione preventiva, intercettazioni e prigione) e non “frode fiscale” (6 anni, carcerazione preventiva, intercettazioni e prigione). Eppure, se inserire in contabilità fatture false, dunque affermare che ci sono costi inesistenti, è frode fiscale; perché diavolo non lo è non inserire fatture vere, dunque affermare (falsamente) che si è incassato meno del reale?
Si poteva modificare la legge; invece non solo non l’hanno fatto ma hanno ribadito che chi falsifica la contabilità non inserendovi il “nero” non commette frode fiscale. Perché? Semplice: perché il “nero” è praticato dall’universalità del popolo dell’Iva, un po’ più di 8 milioni di contribuenti. E qual è il politico che rinuncia a 8 milioni di voti?
Sull’elusione fiscale, altro prudente riserbo. Che l’elusione consista nella mancanza di reali ragioni economiche a supporto dell’operazione effettuata e nella realizzazione di un vantaggio fiscale che, senza quell’operazione, non vi sarebbe stato è nozione acquisita dalla notte dei tempi. Aggiungere che l’elusione non costituisce reato è non solo inutile ma fuorviante. Per fare un esempio: Dolce & Gabbana hanno costituito in Lussemburgo una società (Gado) e le hanno poi venduto i loro marchi; così tutte le royalties, invece di arrivare ai due stilisti persone fisiche in Italia (con tasse al 40 per cento) arrivavano in Lussemburgo (con tasse al 4 per cento). La sede della società era in una stanzetta presso uno studio di commercialisti; dapprima non c’era nemmeno un impiegato, poi ne hanno assunta una.
La Cassazione li ha assolti, la Commissione tributaria li ha condannati (si è in attesa della decisione della sezione tributaria della Cassazione), nessuno comunque gli ha contestato la frode fiscale perché, al più, si sarebbe trattato di elusione. C’era l’occasione di specificare che elusione ed evasione sono concetti distinti e che risparmiare sulle imposte utilizzando società inesistenti come schermo giuridico è frode fiscale, altro che illecito amministrativo.
ULTIMA chicca: si vuole aumentare la soglia di punibilità a 200.000 euro di imposta evasa; se uno evade 190.000 euro non commette reato. 200.000 euro di imposta significano 400.000 euro di “nero”. Quanta gente in Italia ha un giro d’affari di questo tipo? Non lo sanno, all’Agenzia delle Entrate, che il 90 per cento dell’evasione proviene dai piccoli-medi contribuenti?
Alla fine, la domanda è: quando indicheranno, a copertura di qualche mirabolante riforma, 4, 5 6, N miliardi provenienti dalla lotta all’evasione, saranno coscienti di raccontare una palla?

il Fatto 28.11.14
L’abuso di premier in diretta tv
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, oggi un po' di stupore benché si viva in un Paese che non può più stupire. Il Tg delle ore 14 di Sky Tg 24 è stato interrotto alle 14:07 per “collegarci in diretta con il presidente del Consiglio”. Era Renzi, infervorato in un suo discorso politico e non nel destino della Nazione. Secondi me è un’iniziativa impropria che crea confusione. Non distingui più fra emergenza e normale sequenza delle notizie del giorno.
Lucio

IL GIORNO era il 20 novembre e l’evento che ha provocato un’interruzione di 13 minuti nel Tg di Sky (dove la corrispondente, che stava parlando della sentenza dell’amianto, ha perduto all’improvviso il collegamento), era un discorso rigorosamente politico (e ovviamente una vera e propria esaltazione delle convinzioni dell’oratore infuocato e del torto marcio degli altri) e non conteneva nessuna di quelle caratteristiche che consentono di definire istituzionale l’intervento di un leader politico in televisione. Credo che valga la pena di richiamare l’attenzione dei nostri bravi colleghi su un principio che è sacro da sempre nella Tv americana, che da sempre vive il problema del come regolare la concorrenza, fra reti, ma anche del come dosare l’invadenza politica e del potere di Presidenza e Congresso, nell’informazione che i cittadini desiderano libera ed equilibrata. Il principio, adottato negli anni Sessanta che, più o meno bene, funziona ancora, è la differenza fra interventi tv del presidente giudicati politici e interventi considerati istituzionali. Nel momento in cui il presidente annuncia che parlerà al Paese, le reti chiedono di sapere perché, non il testo ma il senso dell’evento. Se necessario, si impegnano a non rivelare o anticipare nulla. Ma restano titolari del diritto di trasmettere o non trasmettere, aseconda che l’iniziativa appaia di un tipo o dell’altro. In situazioni come queste, le Tv americane di portata nazionale hanno due giudici: la Federal Communication Commission, che sanzionerebbe e punirebbe tanto una decisione sbagliata (per esempio, rifiutare un intervento di evidente natura generale e nazionale) quanto un criterio di giudizio futile (un intervento decisamente privo di interesse generale). Ma entra in campo anche l’opinione pubblica che potrebbe ritirare la fiducia (e dunque gli indici di ascolto) a una rete che è ritenuta incapace di questa delicata decisione. Ricordiamo comunque che tutto si basa sulla differenza, almeno formale, fra interesse di governo (che dovrebbe riguardare tutti i cittadini, anche coloro che affermano di non avere votato per quel presidente) e ragioni politiche di partito. C’è una regola ferrea che separa il primo dal secondo messaggio. Solo il presidente, e solo per ragioni istituzionali, può chiedere di trasmettere, anche subito e anche a reti unificate, un messaggio. Non c’è bisogno che sia drammatico, basta che sia di interesse pubblico e generale. Tutto il resto è sempre ammesso e bene accolto, ma a pagamento. Ricordo che a Reagan, che amava parlare a tutti, bravo e persuasivo com’era, per aggirare il Congresso, è successo almeno tre volte di essere rifiutato da tutte o da alcune delle reti nazionali. E ha dunque trasmesso il suo discorso a pagamento. Mi sento di dire che questo era il caso di Renzi quando, il 20 novembre, in diretta, ha interrotto Sky e ha tenuto un comizio politico strettamente renziano, con molta enfasi e nessun fatto di interesse nazionale, alla Camera di Commercio di Roma.
Furio Colombo

Corriere 28.11.14
Jobs act appeso a 7 voti Primo sì al Senato, ma c’è l’ipotesi fiducia
di Alessandro Trocino


ROMA Un percorso a ostacoli, a difficoltà crescenti. Il cammino delle riforme resta accidentato e dopo il sì al Jobs act alla Camera, segnato dall’uscita dall’Aula di ben 29 deputati del Pd (oltre a due astensioni e due voti contrari), ora si pensa con qualche timore al Senato. Dove per evitare guai è probabile che venga posta la fiducia. Ma mentre si smina un terreno, arrivano possibili fonti di guai su altri campi. È spuntato infatti un emendamento della minoranza del Pd, inserito nelle norme transitorie al disegno di legge di riforma del bicameralismo e del Titolo V, che prevede la possibilità di chiedere che l’Italicum possa essere sottoposto a un giudizio preventivo della Corte Costituzionale. Tra i firmatari, nomi noti della minoranza, da Rosy Bindi a Gianni Cuperlo, fino ad Alfredo D’Attorre. E sullo sfondo c’è la partita del Quirinale, nella quale la minoranza intende far sentire il proprio peso.
Ieri il Jobs act ha incassato il via libera della commissione Lavoro del Senato, senza modifiche (sono stati bocciati tutti gli emendamenti). Viatico positivo per il governo, anche se resta il dubbio se verrà posta o meno la fiducia. Martedì il testo arriverà in Aula (il voto è atteso mercoledì o giovedì). Il renziano Andrea Marcucci non ha dubbi: «I tempi sono stretti, serve la fiducia». Ma per il ministro Maria Elena Boschi «il tema è prematuro»: «Aspettiamo gli emendamenti, capiamo gli umori, vediamo la discussione e poi valuteremo». Ci sono già tre senatori pronti a votare no: la civatiana Lucrezia Ricchiuti, Corradino Mineo e Walter Tocci. Poi c’è Felice Casson, in corsa per una candidatura a sindaco di Venezia, che potrebbe decidere di astenersi. La maggioranza c’è, anche se non corposa: sette voti. Ma la cifra è ballerina e dipenderà da molti fattori. Nella maggioranza si possono contare, per esempio, tre senatori di Gal ma a volte confluiscono i voti anche di alcuni ex 5 Stelle.
Resta da capire quali saranno i movimenti della minoranza. Federico Fornaro ha intenzione di raccogliere le firme su un documento che ricalchi quello già presentato in prima battuta e sottoscritto da 27 senatori: «Rimane aperta la questione degli ammortizzatori sociali, che dovrebbe avere la precedenza temporale rispetto alle modifiche contrattuali. Altrimenti succede come per la Fornero, che le risorse passano in cavalleria. E poi resta il fatto che, a fine percorso, il contratto prevederà tutele inferiori alle attuali». Il timore dei piani alti del Pd è che i senatori dissenzienti escano dall’Aula, facendo mancare il numero legale: «Sarebbe la caduta del governo e questo certo non lo vogliamo — spiega Fornaro — Ma ognuno ragionerà con la sua testa».
Il nervosismo si deduce anche dalle dichiarazioni di Lorenzo Guerini, vicesegretario: «Rispetto le decisioni diverse che sono stata assunte dai colleghi del nostro gruppo, ma non le capisco». Le stesse parole usate dal ministro Maurizio Martina. «Polemiche sterili», le definisce invece Francesco Boccia, uno dei ribelli: «Il non voto sul Jobs act? Mi auguro che i nullafacenti della politica, in servizio permanente quando si polemizza, inizino a confrontarsi sul merito».
Intanto Pippo Civati, il più movimentista di tutti, prepara per il 13 dicembre un evento importante a Bologna, insieme a Rosy Bindi. A un giorno dallo sciopero generale, si pensa di celebrare un incontro nel nome del «centrosinistra», ma con una chiara evocazione dell’Ulivo di Romano Prodi. Che è invitato alla kermesse, insieme a Nichi Vendola. Il nome dell’ex premier è visto ancora da molti in quest’area, nonostante i 101 franchi tiratori, come un buon candidato al Colle.

Corriere 28.11.14
Cuperlo amaro: questo non è il Pd che abbiamo pensato
intervista di Al. T.


ROMA Gianni Cuperlo è tra i leader della minoranza pd: al voto sul Jobs act, insieme a 28 deputati, è uscito dall’Aula.
Ernesto Galli della Loggia, nell’editoriale del «Corriere» di ieri, parla di «vocazione al minoritarismo permanente».
«Non votare il Jobs act è stato un gesto forte e anche doloroso. I visi di chi sceglieva di non votare li ho guardati uno per uno e so che se solo avessero potuto, quel passaggio se lo sarebbero risparmiato. Non per calcolo, ma perché all’unità del Pd credono quanto gli altri».
Se al Senato verrà posta la fiducia, che succederà? La minoranza uscirà dall’Aula?
«L’obiettivo è sempre stato quello di migliorare la riforma, non di far cadere il governo. Spero che l’esecutivo abbia la sensibilità di capirlo».
Quello dell’altro giorno è sembrato un atto fondativo di una nuova opposizione.
«Non è la start up di un metodo. Non è nato un sottogruppo pronto a fare di testa sua. Credo nelle regole ma qui erano in gioco convinzioni profonde sulla dignità della persona e sulla civiltà del lavoro».
Siete il partito dei no?
«Le correzioni le ho riconosciute come un fatto positivo, anche se insufficiente. E dico guai a non vedere la generosità di tanti. Ma in questi mesi a mancare non è stata la disciplina, casomai la capacità di ascoltare. Io l’Italicum nella sua pessima versione l’ho votato, nonostante il dissenso. Non puoi liquidare ogni voce diversa dicendo che vuole sfasciare il Paese o il partito. “Lo abbiamo deciso con le primarie” è un modo di dirigere che non ha grande respiro».
Per Renzi il voto è stato un successo e l’astensione «secondaria».
«Definire l’astensione un accidente secondario è sbagliato. Milioni di elettori possono decidere di tornare ai seggi solo se trovano un’offerta che li convinca. Questa mi pare la scommessa di Salvini. Vorrei fosse la scommessa del Pd».
Preparate una scissione?
«Sono stanco di sentire evocare o minacciare una scissione. Io vivo il Pd come il mio partito. Gli voglio bene e non si minaccia qualcuno quando si vuole bene. Renzi è anche il mio segretario. Però questo partito non è quello che abbiamo pensato. A me non importa nulla di fare la minoranza di sinistra in un partito di centro che guarda a destra. Mi batto per il partito di una sinistra rinnovata in contenuti, forme, linguaggio. Questa è la nostra casa. E non ci stiamo per fare agguati al governo ma per tornare a parlare alle persone dopo uno sconquasso che ha minato mura portanti. Che sinistra è quella che non riparte dai più colpiti e soli?».

La Stampa 28.11.14
Nel Pd parte la guerriglia sul Colle
La sinistra avverte Renzi: serve un presidente garante per il Paese. No ad accordi al ribasso con Berlusconi
di Carlo Bertini


C’è un Parlamento che ribolle: tra i mille emendamenti alla Camera sulla riforma costituzionale ora spunta pure una trappola per l’Italicum: che dovrebbe essere sottoposto a giudizio preventivo della Corte costituzionale, come chiede una norma transitoria proposta da Bindi, Cuperlo e D’Attorre. Tutte le strade sono buone e fa niente che l’Italicum sia in Senato.
Dove due senatrici della minoranza si fanno sostituire in commissione Lavoro per non essere costrette a votare il jobs act. Che passa però liscio nella Commissione guidata da Sacconi e arriva martedì in aula, con il timore di un non voto dei civatiani come Tocci, Mineo, Ricchiuti e Casson. Ma il governo non se ne preoccupa, la volta scorsa finì con 165 voti a favore malgrado l’uscita dall’aula di tre civatiani. «Sento parlare di fiducia, non so cosa faremo noi, ma non si può andare avanti a strappi, asfaltando tutto», dice Mineo. Ma la trentina di bersaniani (sui cento senatori del Pd), voterà comunque senza fare scherzi, specie se verrà posta la fiducia come ombrello per garantire tutti. «La fiducia passerà anche per le dinamiche interne e non visibili tra il Pd e la sedicente opposizione berlusconiana», prevede caustico l’uomo forte di Bersani in Senato, Miguele Gotor. Tradotto, «se servirà, qualcuno uscirà dall’aula per far scendere il quorum».
E poi c’è la partita cruciale del voto per il futuro inquilino del Colle, il campo di gioco più insidioso per Renzi. E già parte la guerriglia della minoranza Dem con l’avvertimento di non scodellare un nome secco concordato con Berlusconi. Perché - e questo non lo dicono - potrebbe franare sotto i colpi dei nuovi franchi traditori. «Sul Quirinale ci faremo sentire», minaccia Stefano Fassina intervistato da QN, alludendo a quel correntino di una trentina di deputati che non hanno votato il jobs act alla Camera: «Siamo in molti dentro il Pd a condividere l’idea che serva una figura autorevole e indipendente, non subalterna al governo e ai suoi interessi». Insomma, la minoranza non vuol essere tagliata fuori dalla partita per il Colle. Ne sono un segnale le parole di Speranza a questo giornale, sul metodo di «condivisione» che Renzi dovrà seguire per ottenere la «massima coesione». Concetto rilanciato brutalmente da Alfredo D’Attorre. «Mi auguro che Renzi non immagini un percorso in cui si concordi con Berlusconi un candidato che non abbia caratteristiche di autonomia e autorevolezza. Noi dobbiamo eleggere un Presidente che deve essere il garante per il Paese per sette anni, non per il governo Renzi. No ad accordi su un nome al ribasso». Toni più soft da Davide Zoggia: «Napolitano ha garantito credibilità e forza al paese anche a livello internazionale, serve una figura con uno standing alto. Renzi deve lavorare per creare intese sia con il Pd che con altre forze, ma sapendo che spetta al Pd fare la prima mossa. Un Pd che deve presentarsi unito».
È chiaro che tutte le partite si tengono, Italicum e abolizione del Senato sono terreno fertile per la guerriglia anti-premier. «Se Renzi vuole andare al voto anticipato potrà farlo solo con il Consultellum alla Camera e al Senato», si compiace Gotor. Sì perché ormai a palazzo Madama tutti danno per scontato che l’Italicum passerà in Commissione a dicembre, diretto verso l’aula, solo se conterrà una clausola di salvaguardia sulla durata della legislatura, a cui il governo dovrebbe dare il suo placet: che il nuovo sistema di voto maggioritario sia valido solo quando sarà stata votata la riforma costituzionale. E che ci dovrà essere una norma che aggiusti il Consultellum inserendo la parità di genere, per renderlo subito applicabile in caso di bisogno. Un’arma spuntata dunque in mano al premier: un sistema proporzionale senza premio di maggioranza, con il rischio di doversi acconciare a urne chiuse a larghe intese con Berlusconi...

Repubblica 28.11.14
Non c’è ancora un metodo per il Quirinale
di Stefano Folli


Il precedente di Ciampi e il bivio di fronte a Renzi per il dopo-Napolitano
SI DICE che la storia non si ripete mai. Ma talvolta il passato ha qualcosa da insegnare. Nel 1999, in una condizione politica molto tesa, dopo anni di guerra intestina fra il centrosinistra e il fronte berlusconiano, Carlo Azeglio Ciampi fu eletto alla prima votazione presidente della Repubblica.
Il prestigio dell’uomo era indiscutibile, ma pochi avevano previsto un accordo trasversale così sollecito ed efficace. La persona giusta al posto giusto nel momento giusto: come dire una congiunzione astrale sorprendente per il costume politico italiano. Senza andare troppo a ritroso nel tempo, negli anni Ottanta c’era già stato il caso di Cossiga, anch’egli eletto subito grazie all’intesa fra Dc e Pci. Tuttavia nel ‘99 lo scenario era assai diverso: il sistema era sfibrato dalla lunga transizione seguita alla crisi di Tangentopoli e il quadro appariva incerto. Il rischio delle sabbie mobili in Parlamento, ossia di una lunga, estenuante battaglia senza un nome in grado d’imporsi, appariva reale. Era accaduto sette anni prima, quando alla fine al Quirinale andò Scalfaro. Prima ancora nel ‘71 (Leone) e in parte nel ‘78 (Pertini).
In quella primavera di quindici anni fa, viceversa, i fili vengono annodati con rapidità grazie a un’iniziativa di Walter Veltroni che lavora d’intesa con Gianni Letta e Gianfranco Fini. Si parla di un metodo vincente e si pensa che sia l’esordio di una nuova stagione della politica italiana. L’ottimismo sul futuro si rivelerà mal riposto, ma l’elezione di Ciampi resta un esempio di come si può superare una grave difficoltà con intelligenza e rispetto delle posizioni altrui. Oggi, a poche settimane dalle dimissioni di Giorgio Napolitano, da lui stesso annunciate e via via confermate, non c’è traccia di un «metodo Ciampi». Anzi, non si ha notizia di alcun genere di strategia. C’è qualcuno che sta tessendo la tela dietro le quinte? Non si direbbe. Tuttavia è presto per dire che la prossima riunione delle Camere in seduta congiunta, è destinata a trasformarsi inevitabilmente in un Vietnam. C’è ancora tempo per mettere a punto una rete protettiva. In fondo, le forze politiche sono state prese alla sprovvista dall’imminente rinuncia del capo dello Stato. Lo si sapeva o lo si intuiva, ma si faceva finta di niente. Ora che il tempo del commiato è arrivato, le reazioni sono ancora titubanti.
Al presidente del Consiglio, anche per il ruolo centrale da lui occupato sulla scena politica, tocca fare la prima mossa. Spetta a lui individuare il metodo adatto al 2014, che potrebbe essere identico a quello del 1999 oppure diverso. In ogni caso ci vorrà un colpo d’ala di cui per ora non si vede alcun indizio. D’altra parte non conviene a nessuno, e a Renzi meno di ogni altro, andare in Parlamento con gli occhi bendati e affidarsi alla buona sorte. Il rischio di rivivere i fallimenti che hanno scandito l’elezione dei due giudici della Corte costituzionale è molto alto e crea inquietudine.
Comunque sia, il discorso sul metodo porta a due ipotesi. La prima si richiama a Ciampi e significa definire una cornice in grado di tenere insieme il Pd, compresa la minoranza interna, il resto della maggioranza e Forza Italia (al netto delle spaccature interne che hanno minato la credibilità di Berlusconi). Richiede notevole capacità di mediazione e la pazienza di individuare un candidato in grado di essere votato da un ampio arco di forze, pur sapendo che non c’è in giro un «garante» indiscusso. Difficile arrivare a un simile accordo senza estenderlo al complesso delle riforme istituzionali e in particolare alla legge elettorale.
L’altra ipotesi consiste nel rafforzare la maggioranza, estenderla ai fuoriusciti dei Cinque Stelle — un rivolo che rischia di trasformarsi in torrente — e su tale base procedere all’elezione dopo il quarto scrutinio, quando basterà la maggioranza assoluta. Ma in tal caso è essenziale che Renzi stabilisca prima i termini di una tregua con la minoranza interna, individuando un candidato che sia gradito a Bersani, a D’Alema e a qualcun altro. Anche questo è un metodo, non si sa quanto favorito dal premier.

La Stampa 28.11.14
Pd e Fi
I generali non controllano più le proprie truppe
di Marcello Sorgi


La recrudescenza delle minoranze interne e la riscossa di capicorrente maturi e neonati, specie nei due maggiori partiti, Pd e Forza Italia, hanno una stretta relazione con l’approssimarsi della scadenza del Quirinale. Come già avvenne nel 2013, quando l’impennata dei franchi tiratori silurò le candidature di Franco Marini e Romano Prodi (abbattuto, quest’ultimo, dal cecchinaggio dei famosi 101 deputati e senatori, dopo l’ovazione all’unanimità che aveva salutato la sua candidatura all’assemblea dei gruppi), la sensazione è che i leader dei partiti non siano in grado di controllare le proprie truppe, e corrano il rischio di dover scontare sorprese che alla fine si ribalterebbero su di loro, logorandoli.
Bersani uscì dimissionario dalla partita del Colle. Renzi non corre questo pericolo, ma tra i suoi si fa strada il timore di un’elezione a dispetto di un candidato non renziano, come era accaduto varie volte alla Dc nelle precedenti votazioni per il Capo dello Stato (l’ultima, nel ’92, con Scalfaro dopo l’abbattimento di Forlani e Andreotti). Stavolta più di altre infatti i capicorrente si preparano a trattare in proprio, portando pacchetti di voti che alla fine, dopo una serie di votazioni a vuoto, potrebbero risultare decisivi. Il prototipo di questa fase nuova è il capo della minoranza interna di Forza Italia Raffaele Fitto, che ieri ha rifiutato una nuova pace con Berlusconi e si muove ormai autonomamente con un pacchetto di una cinquantina di voti strategici dalla quarta votazione in poi, quando il Presidente potrà essere eletto con la maggioranza semplice dei Grandi elettori, poco più di 500 voti. Fitto punta a rompere l’asse tra l’ex-Cavaliere e il premier, ma soprattutto vuole giocare da interlocutore in prima persona nelle trattative che si sono ormai aperte.
Non è il solo. Con energie più limitate, anche dentro Ncd c’è Il coordinatore Quagliariello che punta a consolidare i rapporti con il centrosinistra (anche attraverso un accordo per la Regione Campania), mentre il ministro Lupi guarda più verso Berlusconi. Al Senato si muove allo stesso modo il gruppo delle Autonomie, all’interno del quale manovra Paolo Naccarato. Quanto al Pd, è ormai diviso in tre parti, i renziani, i bersaniani (cioè la parte dialogante della minoranza) e i fuorusciti (non dal partito, ma dall’aula della Camera che votava il Jobs Act).
Le combinazioni tra questi numerosi tronconi dei partiti tendono all’infinito, ma tutti sanno di dover trattare con Renzi: il quale, privo ormai della leva del voto anticipato, dovrà mettere in conto che se il Presidente della Repubblica sarà eletto con una maggioranza diversa da quella che attualmente sorregge il governo, ad elezione avvenuta un riequilibrio, e forse un rimpasto, potrebbero diventare inevitabili.

La Stampa 28.11.14
Il nuovo incubo di Micromega: “Matteo peggio di Silvio, è più bravo”
Il direttore Paolo Flores D’Arcais all’attacco del premier
intervista di Giuseppe Salvaggiulo


Incipit del comunicato che presenta il nuovo numero della rivista Micromega: «Renzi peggio di Berlusconi». Il direttore Paolo Flores d’Arcais ne racconta la genesi: «Un mio collaboratore aveva scritto un comunicato molto ragionato, gli ho spiegato che scritti così servono a poco, senza una frase che colpisca quella vil razza dannata che sono i giornalisti. Così è nata quella frase. Deduco che ha funzionato».
Era un’esagerazione?
«No. Che il renzismo sia la prosecuzione e il compimento del berlusconismo ormai non è un’opinione ma un fatto acclarato, tanto da essere rivendicato da Berlusconi e Ferrara».
In che cosa consiste l’essere peggiore?
«Renzi, più capace, riesce in ciò che Berlusconi voleva ma non riusciva a fare, realizzando ad esempio l’aspetto marchionnista del diritto del lavoro. In tal senso Renzi è meglio da un punto di vista berlusconiano (Ferrara ne è entusiasta: l’erede fa meglio del padre); peggio da quello di un democratico anche tiepido».
Il tema della giustizia è centrale per l’antiberlusconismo: lo è anche per l’antirenzismo?
«È il tema che condiziona tutti gli altri da un quarto di secolo. Renzi sta portando a compimento il programma di Berlusconi, in modo più sottile ed più efficace. Anziché smettere la lotta alla mafia proclamando che Mangano è un eroe, la indebolisce annunciando di condurla senza quartiere. Ma effettivamente realizza misure berlusconiane».
Per esempio?
«Tutti gli operatori dell’antimafia sostengono che è ineludibile l’introduzione del reato di autoriciclaggio. Eppure non segue nulla. E se si comincia a discuterne, spuntano dieci emendamenti che lo rendono insignificante. Anche sulla prescrizione, cartina di tornasole per chi vuole combattere il crimine, stessa politica di Berlusconi ma più efficace. Basterebbe un decreto di una riga per fermarla dopo il rinvio a giudizio, invece il governo presenta una proposta che è un minestrone farraginoso che non cambia nulla».
Però Berlusconi era anche accusato di voler «normalizzare la magistratura».
«Ma Renzi ha ottenuto un Csm attappetato, cosa che a Berlusconi non era mai riuscita fino in fondo. E si appresta a pensionare in un colpo centinaia di magistrati, azzerando tutte le posizioni apicali con un effetto devastante: un Csm malleabile nominerà tutti i capi degli uffici. E poi la responsabilità civile: il principio “chi sbaglia paga” esiste già ed è sacrosanto, ma qui si vuole intimidire le Procure».
E le nomine di Gratteri a consulente di Palazzo Chigi e Cantone all’Anticorruzione?
«Ecco la triste “genialità”! Renzi chiede a uno straordinario pm antimafia come Gratteri di fare il ministro e poi lo cancella, e gli dà la guida di una commissione per la riforma della giustizia, ben sapendo che le sue proposte sono l’opposto della politica del ministro della Giustizia, che infatti ha rifiutato un confronto pubblico da noi richiesto. Anche Cantone, persona specchiata e valida, non ha nessun potere. Era più efficace come magistrato».
Il paragone con Berlusconi cade di fronte alle leggi ad personam che Renzi non fa?
«Ma non cancella quelle fatte da Berlusconi, il che equivale a ribadirle. Come ci hanno insegnato al catechismo, si pecca anche per omissione».
Altra differenza è il conflitto di interessi, che condizionava Berlusconi sull’informazione e viceversa.
«Ma la forza di Renzi è proprio di non avere il conflitto di interessi, per poter fare come quello che ce l’aveva. Nella Rai vuole rafforzare il peso dell’esecutivo, in un contesto in cui la riforma costituzionale e l’Italicum daranno a una forza politica minoritaria il controllo dell’unico ramo legislativo del Parlamento, con un effetto moltiplicatore su tutti gli altri mali. Finora al massimo la maggioranza prendeva 4-5 posti nel CdA su 7. Renzi vuole consegnarne 4 o 5 su 5 a chi ha un consenso risibile. Questi sono fatti, non opinioni. E ancora discutiamo?».

Corriere 28.11.14
Contrordine del governo: il servizio civile può attendere
Dopo annunci e promesse non ci sono fondi per i giovani
di Giangiacomo Schiavi


Avevano detto: «Torniamo a educare i giovani alla solidarietà e facciamo ripartire la speranza» (Matteo Renzi, premier). «Troppo poche le 14 mila domande accolte contro le centomila richieste dei giovani» (Laura Boldrini, presidente della Camera). «Siamo riusciti a trovare i fondi per far partire 40 mila ragazzi già nei primi mesi del 2015» (Luigi Bobba, sottosegretario al Lavoro). Contrordine. Il servizio civile allargato a una quota significativa di giovani non ci sarà. L’investimento politico ed economico sul volontariato diffuso è rimandato a data da destinarsi. Mancano i fondi, le coperture e forse anche la volontà. In una notte, l’emendamento firmato da Edoardo Patriarca che ribadiva quanto annunciato sopra, è stato sepolto dal niet del viceministro all’Economia Morando: «Non è possibile esprimere parere favorevole in quanto la variazione degli stanziamenti è rilevante...». Altro che momento di svolta: per l’economia sociale c’è un altro buco della cintura da stringere. Dopo i tagli alle Fondazioni bancarie, le mancate agevolazioni fiscali alle imprese che fanno solidarietà e l’assurda tassazione dell’Iva sulle donazioni in caso di calamità, anche la riforma del Terzo settore galleggia sulle coperture di bilancio. È difficile evitare il lamento quando le promesse vengono disattese. E si fatica a ricostruire la fiducia quando l’interesse della politica sembra rivolto altrove. Nella stessa giornata di mercoledì l’Unione italiana ciechi non ha avuto garanzie sulle risorse destinate alle persone con disabilità visiva. Lavoro, scuola, mobilità, cultura, assistenza, servizi importanti per chi vive in una condizione di svantaggio sociale rischiano di essere azzerati, spiega il presidente Mario Barbuto. Era accaduto anche per i malati di Sla: dopo le proteste c’è stato un ripensamento. Ma si può far ripartire un Paese facendo continuamente passi indietro sulle buone pratiche?

Repubblica 28.11.14
“Human Factor”
Vendola convoca i ribelli democrat “Battere il premier con Landini e Prodi”
Civati sarà a “Human”
Stefano Fassina, l’ex vice ministro dell’Economia del governo Letta, oggi uno dei dissidenti dem, ci sarà
di Giovanna Casadio


ROMA . «Altro che andare a vivere all’estero come dissero che avrei fatto dopo la scissione di Sel...». Nichi Vendola lancia la riscossa della sinistra con lo slogan “Battiamo Renzi” e chiama un pezzo di Pd, i sindacati Cgil e Fiom, i movimenti. In tutto sono 450 gli inviti per “Human factor” dal 23 al 25 gennaio a Milano. Una anti Leopolda o una Leopolda rossa - spiega - «per fare politica e cultura, abbassare il rumore e accendere il pensiero, federare le esperienze alternative a Matteo Renzi e batterlo». Tutto online, interattivo, con un grande sforzo organizzativo e la possibilità per chi vorrà di proporre le ricette per la nuova sinistra.
I nomi che il leader rosso vuole coinvolgere sono tanti, ma due sopra tutti: Maurizio Landini, il segretario della Fiom e Romano Prodi, il padre dell’Ulivo. Speranze un po’ velleitarie? Intanto Vendola mira a rappresentare tutto quel mondo di lavoratori e di disagio sociale che ritiene quella renziana una «svolta a destra». «La sinistra si è addormentata socialdemocratica e si è svegliata alfaniana o sacconiana », attacca. Il gioco del “chi ci sarà e chi non ci sarà” è ancora incerto. Stefano Fassina, l’ex vice ministro dell’Economia del governo Letta, oggi uno dei dissidenti dem, ci sarà. «Andrò con interesse, perché dobbiamo condividere l’analisi e proporre un progetto che poi parli a tutta la sinistra e il centrosinistra. Però noi siamo e rimaniamo nel Pd. Discuteremo di temi importanti e non di contenitori». Quella parte di sinistra del Pd che fa capo a Cuperlo e a Fassina non prevede di abbandonare la “ditta”.
Diversa è la posizione di Pippo Civati e della sua corrente. Civati sarà a “Human”, ma batte a sua volta un colpo. Il 13 dicembre ha organizzato una convention a Bologna. Titolo: «La sinistra? Possibile». Anche qui tanti inviti, soprattutto a pezzi di sindacato, a Sel, ai Verdi che stanno riunificandosi, anche alle “partite Iva”. Civati dice di puntare a un contro-Patto del Nazareno. L’accordo tra Renzi e Berlusconi sulle riforme va smantellato e sostituito con una sorta di «Carta» di programma di sinistra. Da proporre per primo allo stesso Pd di Renzi. «per vedere cosa risponde - osserva il dissidente dem più ostile al renzismo - Non credo che allo stesso Renzi può fare piacere avere una forza del 10% alla sua sinistra». Civati non trae ancora le conseguenze, ma da settimane lascia intendere che potrebbe anche andare via: «Non è possibile che qualsiasi raggruppamento non renziano sia subito bollato come residuale, allora è un po’ difficile restare».
Sembra esserci un’accelerazione a sinistra. La piazza dei lavoratori, gli scioperi sociali stanno evidentemente facendo da detonatori. Tutto da vedere poi, se il movimento avrà respiro o resterà una ridotta minoritaria. Vendola è combattivo e convinto di non rischiare «una ridotta di duri e puri, che contesti Renzi standosene all’opposizione», bensì di avere avviato un’operazione politica ricca di futuro. «Contro la cortigianeria e il conformismo», rivendica il leader di Sel. Utilizzando il social network Medium dedicato alla condivisione di documenti, come sperimentò Obama in America. Il riferimento a Prodi è sibillino. Se Blair è considerato da Palazzo Chigi un profeta del futuro, mentre non c’è nulla di «più archiviabile come modernariato politico», non si vede perché - ribadisce Vendola - Prodi debba essere trattato «come protagonista della preistoria».

La Stampa 28.11.14
Fattore umano
di Massimo Gramellini


Il progetto intorno al quale Nichi Vendola intende rifondare la sinistra italiana si chiama «Human Factor» e non è una battuta, come sulle prime mi ero augurato, soprattutto per lui. Chi arriccia il naso quando Renzi va da Maria De Filippi ha scelto un nome che strizza l’occhio a un programma televisivo di successo e lascia immaginare selezioni di candidati affidate ai compagni Morgan e Mika (molto più autorevoli degli attuali addetti alla compilazione delle liste elettorali). Chi combatte gli algidi sacerdoti del capitalismo finanziario ha deciso di ricorrere alla stessa lingua universale e impersonale che quelli usano per tagliare teste e spostare denari. Il classico esempio di un’iniziativa politica che nell’atto stesso della sua nascita riconosce di avere già perduto la partita culturale, scimmiottando l’avversario che vorrebbe sconfiggere. 
I nomi non sono un’etichetta delle cose. Sono le cose. E «fattore umano» è espressione talmente forte. C’era davvero bisogno di tradurla nel latinorum parlato da una società che di quel fattore fa sistematicamente strame? L’inglese va bene per strappare un applauso nei convegni delle élite. Ma per chi ha bisogno di ritrovare consensi nei supermercati sarebbe auspicabile rivolgersi ancora all’italiano, come ha imparato a fare persino Salvini. Se il modello di riferimento restano i greci di Syriza e gli spagnoli di Podemos, il primo passo potrebbe consistere nell’accorgersi che si chiamano Syriza e Podemos, mica Left Coalition e We Can.

Repubblica 28.11.14
L’alternativa europea al populismo
La diffidenza nei confronti dell’ostinato bisogno di avere partiti di identità è spesso diffidenza verso la loro dissoluzione in movimenti
di Nadia Urbinati


LA LUNGA marcia dei partiti verso l’erosione di credibilità sembra senza fine, come dimostrano anche le recenti consultazioni regionali, dove la vittoria dei candidati del Pd è stata ottenuta al prezzo di un’astensione che fa impallidire quella proverbiale degli Stati Uniti. L’accusa di molti astensionisti (lo si capisce dai social network) è che i partiti occupano le istituzioni senza riuscire a portare giovamento alla società. Accuse che sembrano dare ragione a quel che un secolo fa sosteneva Roberto Michels: la fatale trasformazione oligarchica dei partiti. Ma se l’anemia della partecipazione è scritta nel dna del governo rappresentativo, allora perché parlare di declino di legittimità della democrazia dei partiti?
La diffidenza nei confronti dell’ostinato bisogno di avere partiti di identità e partecipazione è spesso diffidenza verso la dissoluzione dei partiti in movimenti. La parabola del M5S sembra giustificare questa diffidenza. Vi è però un caso in Europa di un nuovo partito, Podemos, nato dal movimento e approdato a un’organizzazione strutturata (a detta dei suoi critici centralistica e perfino autoritaria). Podemos (il cui leader Pablo Iglesias è stato intervistato da Repubblica ) ha così interrotto il movimentismo anti-partitico degli indignados dai cui è nato. Qui sta la differenza rispetto ai suoi fratelli americani di Occupy Wall Street e italiani del Movimento 5Stelle. Diversamente dai primi non ha rinunciato alla rappresentanza politica e alla partecipazione elettorale. Diversamente dai secondi non ha esorcizzato il partito ma ne ha voluto creare uno nuovo, ben sapendo che questo avrebbe comportato rischiare di diventare come gli altri partiti. Come ha spiegato Iglesias, il problema della debilitazione delle nostre democrazie non sta nel fatto che esse si reggono sui partiti, ma che gli esistenti partiti non hanno più credibilità. L’alternativa a loro sta nel creare nuovi partiti, non nel movimentismo anti-partitico.
Podemos fa riflettere sulle possibilità di creare nuovi partiti politici nel vuoto la- sciato dai vecchi. Con una politica meno potente e una classe politica meno rispondente ai bisogni dei cittadini. Si può essere partito politico senza ignorare questi problemi e nello stesso tempo senza capitolare di fronte al realismo cinico delle cassandre dello status quo? È a questa sfida che Podemos cerca di rispondere. Quale che sia il suo destino futuro (e a dispetto delle critiche di riproporre il vecchio centralismo democratico), si deve apprezzare la sua coraggiosa decisione di andare oltre il lamento e la denuncia, per fare i conti con il principio di realtà.
Podemos è spesso definito populista, come se allo status quo non ci possa essere altra soluzione che il populismo. Eppure, la sua politica sembra voler dimostrare che non c’è bisogno di diventare populisti per essere rappresentativi della critica sociale. Si può essere realisti senza inginocchiarsi allo status quo. Le proposte di Podemos hanno poco di populistico: mettono la libertà civile e politica al primo posto e non sono intolleranti delle minoranze; si appellano al sentimento della solidarietà di cittadinanza; e criticano la gestione tecnoburocratica dell’Europa ma non il progetto europeo, per il quale anzi hanno il coraggio di chiedere quel che il Pse non ha il coraggio di chiedere: un’assemblea costituente europea, ovvero il superamento della politica dei trattati per un’Europa che si fondi direttamente sul consenso dei suoi cittadini. Si tratta a tutti gli effetti di un nuovo partito politico, nato in un paese dell’Europa e che si propone di rilanciare valori di libertà e di solidarietà a livello continentale, non solo nazionale. È in questo senso un ritorno alla politica costituente, perché non trasforma l’insoddisfazione verso i partiti e la rabbia sociale per la disoccupazione in una requisitoria nazionalista e populista contro la democrazia liberale. Infine, ma non da ultimo, nella sua breve ed elettrizzante esperienza elettorale Podemos ha dimostrato di riuscire a sconfiggere il male sordo dell’astensionismo, non quello fisiologico degli indifferenti, ma quello causato dai partiti esistenti che dominano senza attrarre consensi, che vincono con i numeri ma a costo di tenere molti cittadini lontani dalle urne.

Repubblica 28.11.14
Se il giudice è legislatore
di Giuseppe Maria Berruti


CARO Direttore DIO non paga il sabato. Ciò che accade nei tribunali dimostra che non si esce senza danni da un tempo durante il quale la giustizia è servita a regolare conti politici. Lo sfascio del processo penale è questo. Le regole generali che fondano un sistema coerente, un codice appunto, sono state triturate da interventi episodici indirizzati a risolvere una specifica vicenda. Il meccanismo della prescrizione ne è la prova. Dovrebbe servire a non infliggere la pena del processo in modo inconcludente. Se la giustizia non riesce a concludere il suo lavoro in un tempo accettabile il processo muore. E l’imputato non è assolto, come stupidamente si ripete, é prosciolto. Non è più tenuto ai vincoli del processo. Il tempo della prescrizione dovrebbe essere calibrato alle necessità di una istruttoria, alla possibilità dell’inquirente di lavorare in modo attendibile, all’esercizio della difesa. In modo da non dovere essere l’obbiettivo dell’avvocato. Perché se al difensore si propone oggettivamente la possibilità di togliere il suo assistito dai guai con la morte del processo, egli deve pensare a questo esito.
Ma la vicenda prescrizione è il segno di una scollamento più grande. Tutta la giustizia ha bisogno di una strategia. Deve essere pensata nel suo insieme, non a pezzetti e a bocconi. Occorre capire che il sistema giudiziario, inteso come meccanismo che rende il giudice prevedibile, è condizione della credibilità del governo, dentro e fuori Italia. Il processo civile è stato abbandonato alla funzione di discarica sociale. Ciò che la legge non affrontava, come le scelte bioetiche di fondo, oppure, scendendo apparentemente più terra terra, il sistematico ritardo delle amministrazioni nel pagamento del loro dovuto, è stato lasciato alla lite inutile. Nella quale non vi é da risolvere una problema: solo dire che il debitore deve pagare il debito. Il diritto del cittadino di accedere alla giustizia deve servire a stabilire cosa è la legge vigente e come essa deve essere attuata. Invece al giudice si chiede di dare vita alla regola che il legislatore non ha saputo fondare, oppure di ripetere in modo frustrante che il creditore ha diritto di essere pagato.
È stato necessario fare un legge per dire che la legge deve essere osservata, come è accaduto con la norma che ha spinto le amministrazioni a pagare il loro debiti. Se ciò fosse stata normalità delle relazioni di affari, avremmo evitato il formarsi di una spaventosa economia della inefficienza. Che deve essere tolta. Ma che siccome è economia anch’essa, trova difensori. La giustizia mostra uno Stato privo di strategia. Regge sulle memorie di una struttura giuridica ogni giorno più debole. In una fase del mondo che dopo l’epoca dei Parlamenti e quella degli Esecutivi, sempre più si caratterizza come l’epoca delle Corti. Alle quali si lascia precisare il principio fissato dalla legge. Per seguire il cambiamento che la dominanza dell’economia rischia di rendere selvaggio.
Ai giuristi, e ai magistrati, oggi spetta di fare una parte nuova. Seguire il nascere di nuove debolezze. Comprendere i diritti da difendere dentro un sistema giuridico sempre meno nazionale. Credo che la politica debba, anche senza abbandonare le tattiche contingenti, mettere a punto una filosofia della giustizia. Un sistema di principi, ai quali le Corti, gli operatori, i cittadini possano guardare. Se Dio, o la Storia, non pagano il sabato, certamente non perdonano il ritardo.

il Fatto 28.11.14
L’arsenale nel cuore della Roma nera. E ultrà
di Valeria Pacelli


ALTRI DUE RITROVI DI DESTRA NELLA ZONA IN CUI LA POLIZIA HA SCOVATO 143 BOMBE CARTA, A DUE PASSI DALLO STADIO OLIMPICO
Quando si sono trovati davanti un “arsenale” di 150 bombe carta gli agenti della Digos di Roma, guidati da Diego Parente, non sono rimasti sorpresi. “Siamo abituati simili quantità di ordigni, ormai si usano come se fosse una cosa normale”, spiega un investigatore. Eppure quell’arsenale trovato due giorni fa nel palazzo dell’ex Cral della Zecca dello Stato è l’immagine della violenza, ma anche di quel mondo ultrà e fascista, che a Roma alcune volte diventa tutt’uno.
Il palazzo in questione era stato occupato mesi fa da movimenti di estrema destra che lo chiamavano CampoZero. Si tratta di un centinaio di persone la cui identità politica non è ancora ben definiti, estranei a Casa Pound e a Forza nuova. Quando lo hanno occupato, i militanti spiegavano che lo facevano perchè non si poteva lasciare quell’edificio nel degrado assoluto. Poi il 17 novembre, su sollecitazione della Digos, la polizia li ha sgomberati. Sono passati pochi giorni e quando gli agenti sono tornati sul posto per effettuare perquisizioni più approfondite hanno trovato appunto i 143 ordigni, confezionati in bustine con polvere nera pressata e miccia e nascosti sotto un palco. Il dubbio degli investigatori è che si tratti delle stesse bombe carta utilizzate dagli ultrà, da ultimo lo scorso sabato sera nei pressi di Ponte Milvio prima di Lazio-Juventus.
Chi siano realmente i proprietari degli ordigni forse non si saprà mai, anche se gli accertamenti sono già in corso: la Digos effettuerà sta lavorando sulle impronte digitali.
PIÙ CONCRETO è il collegamento con il mondo ultrà. Il palazzo dell’ex Cral già sede dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, infatti, si trova sul lungotevere dell’Acqua Acetosa, nella zona nord di Roma, non lontano dallo stadio Olimpico, in un’area che ha sempre visto una certa presenza dell’estrema destra che oggi trova lì alcuni punti di riferimento importanti. Da via dell’Acqua Acetosa, sulla sponda sinistra dove c’è il quartiere Flaminio, basta attraversare il Tevere e si ci trova subito in via di Tor di Quinto, che da qualche mese significa anche “Ciak Village”, punto di partenza degli ultrà romanisti protagonisti, lo scorso maggio, della rissa con i napoletani che costò lo vita a Ciro Esposito, giovane partenopeo, poco prima della finale di Coppa Italia Napoli-Fiorentina. A sparare quel 24 giugno è stato, secondo la Procura di Roma, Daniele De Santis, ultrà giallorosso ma anche estremista nero. Nel circolo erano ben visibili croci celtiche e poster di Mikis Mantakas, lo studente greco legato al Msi ucciso nel 1975. Poco lontano dall’edificio perquisito della Digos, sempre sulla sponda destra del Tevere, c’è un altro centro di ritrovo fascista, l’Area 19, alle spalle dell’Olimpico, nei pressi della stazione metropolitana Farnesina.
È QUESTA la mappa dell’estrema destra nell’area intorno allo stadio. Ma non si esaurisce qui, non è lontana dai Parioli dove i fascisti trovano soprattutto palestre di pugilato, né da Prati che si trovano in quella zona, né da altre zone tradizionalmente segnate dall’estrema destra come il quartiere Trieste Salario, il rione Prati e la Balduina. Ma la posizione dell’edificio della Zecca dello Stato fa ritenere che quell’arsenale fosse destinato a creare dei disordini durante le partite di calcio. Per questo i militanti, che sarebbero un centinaio, potrebbero essere sentiti dalla Digos.

Repubblica 28.11.14
Conti fuori controllo
Capitale brucia-miliardi “Così Roma affonda in un default pagato da tutta Italia”
di Federico Fubini


La relazione della Ragioneria generale: continua a spendere troppo, lo Stato si è accollato i suoi debiti ma la città ha fallito il risanamento E divora oltre cinquecento milioni l’anno dei contribuenti nazionali

L’OPERAZIONE di salvataggio per ora ha fallito nel suo obiettivo più importante: voltare pagina. Quattro miliardi di aiuti in cinque anni da parte di tutti gli italiani non sono bastati alla città di Roma per iniziare a bruciare meno denaro pubblico e a offrire servizi più efficienti. I fondi dello Stato sono stati incassati, hanno tamponato le emergenze in serie della capitale, ma non hanno mai indotto un cambiamento nella gestione finanziaria di un’amministrazione cittadina che già nel 2008 era al default.
GLI ISPETTORI
Anche se molti dei problemi più seri sono concentrati negli anni del centrodestra di Gianni Alemanno, la Ragioneria generale dello Stato non fa sconti a nessuna delle giunte di questi ultimi dieci anni. Al Campidoglio non c’era più Alemanno ma Ignazio Marino il 4 ottobre del 2013, quando due ispettori della Ragioneria hanno avviato una «verifica amministrativocontabile » consegnata poi mesi fa. La loro relazione, oltre trecento pagine, era destinata ad atterrare su un numero ristretto di scrivanie al ministero dell’Economia e nella giunta. Ma le conclusioni hanno un’evidente interesse pubblico, per la dimensione crescente dei trasferimenti incondizionati da tutte le regioni d’Italia verso la giunta della capitale.
La relazione mostra nel dettaglio i conti di questi anni. Per liberare l’amministrazione di Roma dall’assillo dei suoi debiti, dal 2009 al 2012 i contribuenti italiani si sono accollati oneri da 580 milioni di euro l’anno. Durante lo stesso periodo, hanno trasferito a Roma Capitale - la nuova entità libera dai debiti partita nel 2008 altri 885 milioni di euro solo perché l’amministrazione potesse continuare a funzionare. Infine nel 2013 i contribuenti di tutto il Paese, attraverso governo e parlamento, hanno mandato alla città di Roma altri 485 milioni di euro e si sono accollati debiti per ulteriori 115 milioni nella gestione commissariale che funziona ormai da bad bank della città eterna: l’entità ( governativa) che gestisce i debiti e le poste finanziarie più intrattabili raccolte in eredità dalle ultime due o tre amministrazioni. Nessun altro comune italiano, fra le centinaia oggi dissesto, ha mai goduto di un trattamento tanto privilegiato.
LA REQUISITORIA
Si legge nella relazione degli ispettori della Ragioneria: «L’esame dei dati di bilancio del periodo 2009-2012 (quelli della giunta Alemanno, ndr ) dimostra come l’ente, nonostante le difficoltà finanziarie che hanno indotto lo Stato nel 2008 ad accollarsi il debito pregresso del Comune di Roma, abbia continuato ad aumentare progressivamente la spesa corrente». In sostanza, malgrado la mole dei sussidi dal resto d’Italia, non si è mai cercato di cambiare i comportamenti che hanno già schiacciato Roma sotto una montagna di debiti: «È stata evitata ogni decisione volta ad adeguare il livello e il costo dei servizi forniti dall’ente alle reali disponibilità di bilancio, riproducendo quei comportamenti che avevano portato a uno stato di sostanziale default nel 2008». In certi passaggi la relazione della Ragioneria assume i toni di una vera e propria requisitoria: «Per il proprio risanamento - si legge - Roma Capitale ha fatto totale affidamento sull’intervento statale, senza realizzare in proprio alcuno sforzo per riportare in equilibrio i conti, nemmeno quando si trattava di far cessare comportamenti palesemente illegittimi».
Del resto le responsabilità non solo ascritte solo al centrodestra. Secondo gli ispettori della Ragioneria, anche la giunta di centrosinistra di Ignazio Marino ha riprodotto gli stessi meccanismi: «A seguito del cambio di amministrazione, la situazione non sembra aver fatto registrare particolari miglioramenti - continuano gli ispettori -. L’attuale gestione, in linea con i comportamenti precedenti, ha dimostrato una notevole celerità nell’avanzare richieste di supporto allo Stato, mentre ben poco ha fatto per attivare le entrate proprie».
IL CASO GRECIA
In fondo è all’opera fra Ragioneria, ministero del Tesoro, contribuenti e città di Roma la stessa dinamica che divide i Paesi di Eurolandia. I governi europei hanno accettato di finanziare la Grecia, ma chiedono in contropartita che Atene risani i conti per non aver bisogno di nuovi aiuti in futuro. Questo passaggio è mancato a Roma Capitale, secondo la Ragioneria: i sussidi dei contribuenti, offerti senza porre alcuna condizione, hanno prodotto nuovi comportamenti irresponsabili incoraggiando l’idea che altri salvataggi dello Stato sarebbero arrivati comun- que in futuro. Così è stato nel 2013. Scrivono gli ispettori: «L’assegnazione di risorse, senza la richiesta di puntuali interventi per ridurre la spesa o sanare i comportamenti irregolari, è una modalità operativa che difficilmente può innescare comportamenti virtuosi da parte di un ente ». Per legge ogni comune in dissesto sarebbe tenuto a tagliare la spesa fra il 10% e il 25% ma, visto il suo status di capitale, a Roma non è successo. Secondo le stime della Ragioneria, quegli interventi avrebbero prodotto risparmi per più di 400 milioni di euro l’anno e rimosso la necessità di sempre nuovi aiuti da parte dello Stato.
DALL’ATAC AGLI APPALTI
La realtà della giunta capitolina e delle sue società partecipate resta invece un mondo a parte. Con il comune in default, la spesa corrente è cresciuta al galoppo dai 4,1 miliardi del 2009 ai 5,1 miliardi del 2012. Secondo gli ispettori di via XX Settembre, non è neanche attendibile il lieve surplus nei conti presentato nel 2012: se si tiene conto dei debiti spazzati fuori bilancio e dei crediti in realtà inesigibili, dunque posticci, emerge «un reale disavanzo di amministrazione di circa 485 milioni di euro».
Tra i casi più estremi indicati nel rapporto della Ragioneria risaltano alcuni grandi appalti e la gestione della grandi controllate al 100%, a partire dalla società di trasporto locale Atac. Dal 2004 (giunta di Walter Veltroni) al 2013, l’azienda dei bus e del metrò ha registrato in media una perdita di 130 milioni l’anno e ha chiuso in utile solo il 2005, mentre nel 2010 è riuscita a perdere oltre 300 milioni di euro su circa mille di ricavi. I costi per il personale pesano per oltre metà delle spese totali, l’azienda è passata da 37 dirigenti nel 2008 (ultimo anno di Veltroni) fino a ben 97 dirigenti nel 2010 (dopo due anni di Alemanno). Ancora due anni fa, l’allora amministratore delegato Carlo Tosti ha ricevuto compensi da 377mila euro per la sua guida di un’azienda municipale capace di bruciare quasi un miliardo e mezzo in un decennio. Quasi nessuno di questi problemi oggi è risolto: il contratto di servizio del comune all’Atac è stato ridotto, senza però affrontare nessuno dei problemi di spreco e malagestione dell’azienda. In queste condizioni, la Ragioneria prevede che perdite per circa 150 milioni l’anno continueranno e dovranno essere ripianate poi dall’azionista. Tutto sarebbe stato diverso se la Legge di stabilità per il 2015 avesse introdotto regole che obbligano i comuni non ricapitalizzare a ciclo continuo le controllate in perdita, obbligandole così a trovare investitori privati o a ristrutturarsi: ma questa norma per adesso non è stata presentata né dal governo, né in parlamento.
Ancora peggio (se possibile) il caso di Roma Multiservizi: secondo la Ragioneria, quest’impresa continua a ricevere l’appalto di gestione delle scuole comunali di Roma senza averne titolo («in violazione delle disposizioni») con un «enorme incremento» del costo del servizio a 52 milioni di euro. Finisce così che fra i pochi risparmi davvero trovati nella città eterna ci sono quelli per «interventi urgenti di manutenzione stradale in caso di eventi meteorologici eccezionali »: fondi tagliati da 16 a 1,3 milioni di euro. Gli italiani pagano quattro miliardi, la spesa corrente di Roma aumenta di un miliardo, ma appena piove nel traffico di Roma sarà alla paralisi.

«Israele: “Nazione ebraica”?
Sarebbe esattamente come se una legge da noi volesse definire ufficialmente l’Italia una “Nazione cattolica”!
Più o meno cioè come ai tempi del fascismo quando la cattolica era ufficialmente definita come "Religione di Stato"»
La Stampa 28.11.14
La scelta di Leicester: “Al bando tutti i prodotti made in Israel”
È la prima città dell’Unione Europea che ha deciso il boicottaggio dei prodotti israeliani. La mozione è stata presentata da un consigliere musulmano: “Ci battiamo contro le discriminazioni che colpiscono i palestinesi”.
di Maurizio Molinari

qui

da boicottare
continuano a fare “affari” con Israele:

L’elenco è lungo è va da Armani a Timberland a Versace per quanto riguarda l’abbigliamento. Barilla, Buitoni, Campari, Carmel-Agrexco, Coca Cola, Danone, Ferrero, Findus, Yaffa, Illy, Lavazza, Levissima, Loacker, Motta, Nestlè, Pepsi-Cola, Rio Mare, San Bernardo, San Benedetto, San Pellegrino, Segafredo e Bismara per quanto riguarda gli alimentari, per i cosmetici e igiene Colgate, l’Oreal, Palmolive, Ahava-Sephora. De Longhi, Merloni, Scavolini, Soda Stream nel campo degli elettrodomestici; Clementoni Bburago per i giochi; Teva per i medicinali; McDonald’s per la ristorazione; Marlboro e Philip Morris per le sigarette e infine Motorola e Nokia e Telecom Tim per la telefonia.

il Fatto 28.11.14
Petrolio a picco
L’Opec non taglia la produzione


L’Opec, il cartello dei Paesi produttori di petrolio, si è riunito ieri a Vienna e ha deciso di non ridurre la produzione, come chiedevano i membri più piccoli che stanno soffrendo per un prezzo al barile ormai sotto i 70 dollari. La produzione resterà a 30 milioni di barili al giorno, e subito sul mercato il prezzo ha ricominciato a scendere. L’Opec, comunque, oggi conta meno di una volta, quando le sue decisioni potevano creare shock geopolitici di portata mondiale: il cartello, su cui ha grande influenza l’Arabia Saudita, controlla soltanto il 40 per cento della produzione. Gli Stati Uniti e altri Paesi non membri dell’organizzazione, come Russia e Messico, sono diventati sempre più importanti. E oggi hanno forte incentivo a produrre di più proprio perché i prezzi sono bassi e quindi i ricavi sono quasi dimezzati rispetto ai picchi del 2008 quando il prezzo al barile del greggio era il doppio di oggi, 140 dollari. Poi la crisi ha ridotto la domanda, la tecnologia ha aumentato l’offerta (e conta anche il surplus di gas in circolazione). E i Paesi dell’Opec sono stati spiazzati.

Corriere 28.11.14
«Combatto il terrorismo anche per voi Se vince in Libia arriva fino a casa vostra»
Parla il leader degli anti-islamici: «Non sono un uomo della Cia, ma ora mi servono armi»
intervista di Francesco Battistini


DAL NOSTRO INVIATO AL MARJ (Libia) Generale Haftar, state per conquistare Bengasi?
«Lo spero. L’importante è che il parlamento libico lasci Tobruk e torni a lavorare nella città liberata dalle milizie islamiche. Il mio compito è di portarcelo. Mi sono dato una deadline: il 15 dicembre…».
Di colpo, salta la luce e gli uomini della sicurezza gli sono subito addosso. Nel buio, il generale dice «è la guerra a Bengasi, afwan »: scusate… L’unico sorriso che ci concede è di sollievo, quando la stanza si riaccende. Vecchio uomo nuovo della rivoluzione libica, una faccia socchiusa alle emozioni, a 71 anni Khalifa Haftar sa maneggiare la paura. Il più osservato dai lealisti di Tobruk e dalle milizie di Zintan, che sospettano della sua ambizione. Il più odiato dai fratelli musulmani di Tripoli, che hanno messo una taglia su di lui temendone i grandi protettori al Cairo e nel Golfo. Vive nascosto tra questa casamatta color senape dell’eliporto di Al Marj, l’antica Barca alle porte di Bengasi, e decine di rifugi che cambia ogni notte. Sospettoso di tutti, irraggiungibile da molti. Ci vogliono due settimane d’appuntamenti mancati, i fedelissimi della brigata 115-S che ti svitano pure la biro, e controllano ogni pulsante del fotoreporter Gabriele Micalizzi, prima d’arrivare a stringergli la mano e chiedergli un’intervista in esclusiva per il Corriere . Tre figli al fronte con lui. Due figlie all’estero sotto copertura. Dopo vent’anni d’America, a metà fra la guerra lampo e il golpe, lo scorso febbraio il generale è spuntato dal nulla e ha lanciato la sua Operazione Karama (dignità) contro gl’islamisti di Alba libica e Ansar al Sharia. Alle spalle ha un piccolo mappamondo. In mente, una Libia senza barbe fanatiche. Nel cuore, un antico condottiero dell’Islam: «Khaled Ibn Al Walid. Lo conosce? E’ il più grande stratega della storia. Prima combatté i musulmani, poi si convertì e si mise con loro. Senza perdere mai una battaglia. Ancora oggi uso certe sue tattiche…».
Come quella su Tripoli? Ha appena lanciato un’offensiva pesante…
«Con Tripoli è solo l’inizio: ci servono più forze, più rifornimenti. Mi sono dato tre mesi, ma forse ne basteranno meno: gl’islamisti d’Alba libica non sono difficili da combattere, come non lo è l’Isis che sta a Derna. La priorità resta Bengasi: Ansar al Sharia è ben addestrata, richiede più impegno. Anche se non ha grandi strateghi militari e ormai siamo in vantaggio: controlliamo l’80 per cento della città».
A Vienna i leader mondiali hanno detto che il vuoto di potere, in questa guerra civile, fa paura.
«Finalmente se ne accorgono. Il parlamento a Tobruk è quello eletto dal popolo. Quella di Tripoli è un’assemblea illegale e islamista che vuole portare indietro la storia. Ma la vera minaccia sono i fondamentalisti che cercano d’imporre ovunque la loro volontà. Tripoli s’affida a loro, lascia che combattano contro di noi a Bengasi. Ansar al Sharia usa la spada in tutto il mondo arabo ed è appena finita nella lista Onu del terrorismo. Se prende il potere qui, la minaccia arriverà da voi in Europa. Nelle vostre case».
Vuol dire che lei sta combattendo per noi?
«Certo. Combatto il terrorismo nell’interesse del mondo intero. La prima linea passa per la Siria, per l’Iraq. E per la Libia. Gli europei non capiscono la catastrofe che si rischia da questa parte di Mediterraneo. Attraverso l’immigrazione illegale, ci arrivano jihadisti turchi, egiziani, algerini, sudanesi. Tutti fedeli ad Ansar al Sharia o all’Isis: quanti italiani sanno che davanti a casa loro, a Derna, è stato proclamato il califfato e si tagliano le teste? L’Europa deve svegliarsi».
S’aspetta un sostegno in armi, come quello dato ai curdi?
«Non c’è bisogno di venire e dirvi: per favore, aiutatemi. Siete voi che dovete capire se è il caso di aiutare Haftar. L’Egitto, l’Algeria, gli Emirati, i sauditi ci mandano armi e munizioni, ma è tecnologia vecchia. Non chiediamo che ci mandiate truppe di terra o aerei a bombardare: se abbiamo le forniture militari giuste, facciamo da noi. Il mondo vede i nostri soldati decapitati, le autobombe, le torture: potete accettare tutto questo?».
Vuole ricacciare in un angolo i fratelli musulmani: Haftar si candida a essere per la Libia quel che è stato il generale Al Sisi per l’Egitto?
«L’Egitto e Al Sisi sono una cosa molto diversa dalla Libia. L’unica cosa in comune è che finalmente sono i popoli a scegliere. Poi, c’è la mia posizione politica. Ho iniziato Karama per rispondere alla richiesta dei libici che non ne potevano più. Se sarà necessario, continueremo insieme la nostra battaglia militare e poi politica».
Operazione Dignità: l’ha inventato lei, questo nome?
«Certo. Ci sono due parole: operazione, che significa il percorso militare per raggiungere un risultato; karama, che nasce dalla domanda “di che cosa abbiamo bisogno?”. L’ho chiesto ai miei ufficiali. Molti suggerivano il nome d’Omar Mukhtar, l’eroe libico. Ma quello che stiamo affrontando è più di quel che affrontò Mukhtar. Dignità è una parola che dà la speranza in qualcosa che i soldi o il petrolio non ti possono dare».
Amnesty ha avuto parole molto dure sulle sue milizie. E si dice che lei sia pagato dagli Usa: gli americani che la liberarono da una prigione del Ciad, quando Gheddafi l’aveva mollata; la Cia che le diede casa a pochi chilometri dalla sua sede di Fort Langley…
«Karama non è legata ad altri Paesi. Nasce dai libici. Io sto combattendo una guerra chiara e trasparente a pochi chilometri da dove sono nato. Ho fatto molte campagne, dal Kippur al Ciad, sono abituato alla vita militare, ma questa è la mia sfida più dura. Purtroppo, ci sono politicanti che mestano nel torbido, m’associano alla Cia per screditarmi».
Si può dire almeno che gli americani l’apprezzeranno, se riuscirà a vendicare l’uccisione del loro ambasciatore a Bengasi, Chris Stevens…
«Deborah Jones, l’ambasciatrice Usa, non mi sponsorizza, tutt’altro. Quando l’ho sentita parlare, ho pensato che piuttosto sostenesse i Fratelli musulmani: Washington sta giocando una partita ambigua e doppia, come gli europei…».
Ha parlato della sua guerra del Kippur: accetterebbe un aiuto da Israele?
«Il nemico del mio nemico è mio amico. Perché no? Ma non credo che Israele mi appoggerebbe, sono troppo impegnati a destabilizzare la Libia attraverso il terrorismo».
Sa che si dice in Italia? Che piuttosto di questo caos, era meglio tenersi Gheddafi.
«Questo caos è figlio di Gheddafi. Del suo regime. D’una certa mentalità in cui ha cresciuto i libici. Io ero molto amico suo. L’ho aiutato a salire al potere nel 1969, gli ho insegnato molte cose militari. Poi mi sono distaccato e non lo volevo più al potere, ma non mi è piaciuto com’è stato eliminato. In quel modo barbaro. Senza un processo, che invece sarebbe stato un esempio da dare al mondo. Ci sono popoli che non hanno un leader e ci sono leader che non hanno un popolo: l’avessimo processato, avrei voluto chiedergli perché aveva rinunciato al popolo».
Lei ce l’ha, un popolo?
«In Libia molti mi amano. Ma tengo sempre a mente che un leader dev’essere come un genitore o un buon insegnante: si fa rispettare, senza seminare il terrore».

il Fatto 28.11.14
Stati Uniti
Guerra di razza contro Obama
di Furio Colombo

Barack Obama, primo presidente nero degli Stati Uniti, primo “Comandante in capo” che non comanda guerre, primo politico in capo che accetta, senza scusa e senza social network, di affrontare problemi irrisolvibili, non si ritira (l’industria dell’auto, le banche, l’occupazione, il bilancio federale) e li risolve, si trova adesso a essere inseguito e braccato dal problema della razza, e si trova prigioniero di una alternativa malefica.
Se, dopo Ferguson, dopo l’uccisione del ragazzo nero (vent’anni) e poi di un altro ragazzo nero (12 anni) e la protesta che dilaga un po’ dovunque nel Paese, interviene in difesa delle vittime e delle loro famiglie esasperate, appare come il presidente nero che sta con i neri e divide il Paese. Se sceglie la mano pesante con chiunque si ribelli, dando la precedenza all’ordine sull’ingiustizia, appare come uno che tradisce la sua gente. Se decide di restare fuori, lasciando il tremendo problema ai governatori e ai giudici, è uno che non sa controllare il pericoloso conflitto, una spaccatura tante volte coperta e mai sanata, che continua ad attraversare l’America.
Gli americani che si sentono vicini a Obama devono sfuggire all’idea complottistica della trappola ben preparata einevitabile per braccare e delegittimare il presidente nero, e dimostrare che, per stare dalla parte dei suoi, abbandona i bianchi del suo Paese. Oppure il contrario.
La conclusione sarebbe comunque che Obama non era degno di tutto l’entusiasmo che ha suscitato la sua elezione e non è degno di tutta la fiducia che ancora lo sostiene. Ma poiché ciò che è accaduto e sta accadendo sta segnando comunque la storia americana, dobbiamo guardare a ciascuno dei fatti che stringono Obama alla gola. Prima viene il delitto. Come spesso accade, molto di ciò che accade, specialmente sul versante disastroso della vita politica, dipende dalla legge elettorale. La legge americana richiede la registrazione prima del voto, espediente intelligente di classe e di razza: i poveri tendono a non registrarsi. I neri sono la maggioranza dei poveri.
LA PICCOLA città di Ferguson, come tante altre nel Sud americano, ha il 70 per cento di cittadini neri, ma l’intero apparato dirigente della città, dal sindaco al giudice allo sceriffo, e tutti i poliziotti meno uno, sono bianchi. Bianco è il poliziotto che ha sparato, bianco l’investigatore, bianco (tranne tre su dieci) il Grand Jury (una specie di giudice preliminare collettivo, con il compito di formalizzare l’imputazione) che decide che il poliziotto non deve essere processato.
Si tratta di cattiva giustizia? C’è un’altra interpretazione (che in altri tempi è stata detta anche da Martin Luther King e da Robert Kennedy): si tratta di una riuscita trovata di classe: i neri, maggioranza dei poveri, non votano. E per i bianchi è più facile vincere con i voti di pochi, giocando la carta dei pericolo violento (che, per caso, è nero e povero). Il non voto è perciò un importante strumento politico se usato con bravura da parte di buoni organizzatori che vincono bene dentro quote minime di elettori fidati.
La vita politica americana sa che non tutte le astensioni dal voto vengono per nuocere. E se qualche evento drammatico le favorisce, basterà giocarselo come un pericolo per tutti. Ovviamente non può esserci niente di preordinato nella tragedia del ragazzo Michael Brown ucciso da un agente di polizia bianco e spaventato. Ma può esserci nella gestione abile delle conseguenze. La prima sono le ribellioni e i disordini di neri che invadono le strade e vandalizzano, diventati presto “il problema”, non la conseguenza tragica del problema. L’America si era liberata da tempo di episodi gravi e pericolosi di conflitto razziale. Ma perché i tanti nemici di Obama, il presidente “di sinistra” che oltre ad avere imposto (almeno in parte) la sua legge per le cure mediche garantite anche ai poveri e la legalizzazione di 5 milioni di immigrati illegali (5 su 10: “Noi che siamo un Paese di emigranti non possiamo rimandare intere famiglie che vanno a scuola, lavorano, pagano tasse, a un destino di fame”) ha rilanciato banche, industria e occupazione, dovrebbero rinunciare a spingere Obama dentro il conflitto perfetto: presidente nero e rivoltosi neri da una parte e polizia e giudici bianchi dall’altra?
CERTO, se incontrastate, le rivolte nere si moltiplicheranno. Contrastarle vuol dire solo due cose: o repressione (che non può essere la strada di Obama e significherebbe comunque moltiplicarsi dei disordini, con il rischio di altre vittime) ; o uso della legge Kennedy-Johnson sui diritti civili, il Civil Rights Act, che consente di rifare il processo al poliziotto di Ferguson, non in base a una imputazione non più proponibile, ma per l’accusa di violazione dei diritti civili del giovane Michael Brown. Lo stesso potrebbe accadere per l’omicidio del dodicenne. La prova resta difficilissima per il primo presidente nero degli Stati Uniti. Ma è una prova a cui Obama – io credo – non potrà e non vorrà sottrarsi.

Corriere 28.11.14
Se la logica del Far West domina (ancora) gli Usa
di Massimo Gaggi


Dopo la rivolta di Ferguson per l’assoluzione del poliziotto che ha ucciso Michael Brown e con l’America scossa da centinaia di manifestazioni di denuncia del presunto razzismo della polizia, l’eterna discussione sulla repressione dei crimini in base al colore della pelle e sulla maggiore propensione a delinquere degli afroamericani imperversa ovunque, con un’asprezza di toni mai vista prima. Accuse roventi supportate, sui due fronti, da dati impressionanti.
   Il diciottenne di Ferguson, il ragazzino di 12 anni abbattuto a Cleveland perché puntava contro i poliziotti una pistola giocattolo, il nero ucciso per errore da un agente nella scala senza luce di un edificio di New York, sono tutti neri. E non sono casi isolati: un’inchiesta del sito di giornalismo investigativo ProPublica ha dimostrato che gran parte dei 112 mila americani uccisi dalla polizia tra il 1980 e il 2012 ha la pelle nera. Un afroamericano ha 24 volte più possibilità di essere abbattuto da un agente rispetto a un bianco. È impressionante, ma chi difende la polizia vede un’altra realtà: benché rappresentino solo il 13% della popolazione, i neri sono responsabili della maggior parte degli omicidi commessi in America. E il 93% delle vittime di colore vengono uccise da altri afroamericani: si può, allora, definire razzista il commissario che manda più auto a pattugliare i ghetti neri rispetto ai quartieri residenziali bianchi?
   Ma questa macabra contabilità dice anche altro sul rude comportamento della polizia che, comunque, non colpisce esclusivamente la gente di colore (il 44% dei cittadini abbattuti dagli agenti sono bianchi): anche se non esistono statistiche complete, l’Fbi sostiene (dati 2011) che in un anno le polizie d’America hanno commesso 404 omicidi «giustificabili». Aggiungendo quelli «ingiustificabili», come il giovane ucciso per errore a New York, si arriva intorno quota 600. In un anno in Germania gli agenti uccidono, in media, sei persone. In Gran Bretagna, Paese certamente non privo di tensioni razziali, gli omicidi della polizia sono otto l’anno. Una disparità impressionante. Ora tutti si chiedono se a Ferguson l’agente Wilson aveva il diritto di sparare per fermare un aggressore disarmato. Nessuno si chiede se era proprio necessario esplodere 12 colpi mirando alla testa. Anche questa è delusione-Obama: prometteva nuove frontiere kennediane, ma alla fine è impotente davanti alla logica spietata della vecchia frontiera del West.

Repubblica 28.11.14
Cleveland, dieci secondi per uccidere un bambino il video che indigna l’America
Tamir, 12 anni, giocava con una pistola giocattolo. La polizia si avvicina e un agente fa fuoco. Ora la famiglia chiede giustizia
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON NEL plumbeo silenzio di un video muto in grigio, un bambino e la polizia giocano al game della morte e il bambino perde. Ora possiamo vedere, nella ripresa di una telecamera di sorveglianza, come si può morire per colpa di una pistola giocattolo da 20 dollari.
Guardate bene quella clip di 60 secondi, registrata per caso. Assorbite il senso di solitudine e di noia che trasmette, la vertigine di un vuoto urbano che risucchia un ragazzino solo che si credeva un “gangsta” da telefilm e il proiettile vero del poliziotto che lo riporta alla realtà, solo per ucciderlo. Guardiamolo perché il video che la famiglia di Tamir Rice, la vittima, ha chiesto alla polizia di diffondere per mostrare gli ultimi 60 secondi della vita del loro figlio, racconta molto più dell’ormai consueta tragedia della strage di giovani e giovanissimi uomini neri.
Narra di una giornata qualsiasi di fine novembre, inaspettatamente mite sulla rive dei Grandi Laghi grigi del nord, che scioglie i resti della neve caduta abbondante poche ore prime. Ma non popola quel giardinetto squallido e novembrino ancora troppo fangoso e umido perché le madri portino i più piccoli a giocare e i vecchi vadano a scaldarsi le ossa.
Ci sono, nel vuoto della sequenza, soltanto due attori. Un uomo, probabilmente non più giovane a giudicare dalla sua voce roca e stanca che sentiremo nella chiamata al 911, il centralino per le emergenze, seduto sulle panche nel gazebo centrale. E Tamir, il bambino con la pistola giocattolo comperata in un mercatino per 20 dollari, alla quale, sapremo poi, aveva tolto quel tappino arancione sulla levata, dalla canna, che segnala il suo essere, appunto, un giocattolo e non gli dava street cred , come dice lo slang, la credibilità della strada fra i più grandi. Tra quei due protagonisti, ai quali si aggiungerà una comparsa, una donna che passa in fretta sul marciapiedi e ignora il ragazzino che le brandisce contro il giocattolo, comincia un balletto a distanza che condurrà alla tragedia.
Il vecchio sotto il gazebo nota Tamir, chiama il centralino, con voce stanchissima avverte che c’è qualcuno che agita una cosa che sembra un’arma, che «la gente se la sta facendo addosso» (la «gente» è solo lui) ma che sembra — e lo ripete per due volte — finta. Mentre parla, il bambino continua il proprio balletto, una sorta di danza rituale, macabra, come certamente lui ha visto fare non soltanto in tv o nei video giochi, ma nella realtà del quartiere, da qualche amico più grande, fino alla posa rituale della pistola impugnata a due mani. I due, il vecchio con il telefonino e il bambino con il giocattolo, non si parlano, non riconoscono l’esisten- za l’uno dell’altro, vivono due esistenze parallele nella loro opposta solitudine sotto la neve che si scioglie nell’erba e sul gazebo. Lui immobile, l’altro agitato come un folletto con la felpa e il cappellino militare “camouflage”. Vivono nel nulla, come attori di un film di Ingmar Bergman. Soli con le loro paure, le loro fantasie. E con la morte che incombe come un presagio certo.
La recita parallela si interrompe quando l’autopattuglia del CPD, il Cleveland Police Dept, irrompe a tutta birra sul marciapiedi e i destini del vecchio, del bambino e di un poliziotto che mai si erano incrociati prima, si congiungono nella Smith&Wesson — vera — dell’agente Tim Loehman, poco più di un ragazzo anche lui, a 26 anni, con pochi mesi di servizio. Il vecchio che aveva messo in moto il destino, è sparito dal set. Per qualche secondo, dopo avere chiamato con il telefonino qualcuno che chiaramente non risponde perché lo ripone subito, Tamir si siede al suo posto, con la testa abbandonata sul braccio appoggiato al tavolo del gazebo, nella fulminea stanchezza dei bambini. E’ l’unica figura umana nel campo grandangolo della telecamera fino a quando arriva l’auto che lo scuote e riaccendo il suo spirito infantile e letale. Nel finale, restano Tamir e la bestia, il macchinone nero della polizia, divisi da pochi passi. Il bambino con la pistola inspiegabilmente, se non pensiamo al gioco, non fugge, ma si avvicina baldanzoso alla bestia. Si vede, dalla statura, che è un ragazzino, ma anche i bambini, qui, hanno pistole vere. L’agente Loehman, seduto alla destra del guidatore che è un veterano di 46 anni, Franck Garmback, racconta di avere intimato di gettare quell’arma che lui non sa essere fasulla e di alzare le mani, ma Tamir non lo ascolta.
Sta giocando, ricordate? Non è vita vera, lui è in un film, è in tv, è in un videogame, in un’altra dimensione, poi sa di non essere armato, che cosa mai gli può succedere? L’agente Lehman, per recluta fresca che sia (appena sei mesi nella “Forza”) non può sbagliare: spara un colpo, uno solo, non i dodici, ripeto, dodici, che l’agente Wilson nel Missouri aveva esploso contro Michael Brown. È seduto, spara dal finestrino, per uccidere perché mira al petto. Si capisce che ha paura, il ragazzo poliziotto, perché a quella distanza, se il ragazzino spara, lui non ha scampo, dunque «shoot to kill». Il video, che non è un film, mostra come si muore davvero senza contorsioni e sbracciamenti da attore: Tamir si affloscia di schianto, trapassato al cuore. Game over.

Repubblica 28.11.14
Il verdetto di Ferguson spiegato a mio figlio
di Michelle Alexander


COLUMBUS (OHIO) MIO figlio vuole una risposta. Ha 10 anni e vuole che gli dica che non ha motivo di preoccuparsi. È un ragazzo nero cresciuto in un contesto protetto e sa poco del mondo al di fuori del nostro quartiere, così sicuro e tranquillo. Ha gli occhi spalancati e mi guarda fisso, supplicandomi perché gli dica: “No, tesoro, non hai motivo di preoccuparti. La maggior parte dei poliziotti non sono come l’agente Wilson. Non sparerebbero, né a te né a nessun altro, mentre sei disarmato, stai correndo via o stai correndo verso di loro”. Le parole fanno fatica a uscirmi dalla bocca.
Negli ultimi anni ho raccontato gli orrori del nostro sistema di ingiustizia penale a chiunque fosse disposto ad ascoltare. Ho scritto e parlato a profusione delle guerre dichiarate contro le comunità povere di colore — la “guerra al crimine”, la “guerra alla droga” — della militarizzazione delle nostre forze di polizia, del percorso obbligato scuolaprigione, delle milioni di persone spogliate dei loro diritti, di un sistema penale che non ha precedenti nella storia umana. Eppure sono qui e non riesco a parlare.
Mio figlio vuole che gli dica che Darren Wilson andrà in galera. A 10 anni, sente nelle ossa che l’uccisione di Michael Brown da parte della polizia è stata ingiusta. «Ci sarà un processo almeno, vero mamma?». Mio figlio mi sta facendo una domanda semplice e io conosco la risposta. Wilson non andrà a processo né in prigione. Il sistema è truccato legalmente per fare in modo che poveri colpevoli di reati minori vengano condannati a decenni di prigione, mentre agenti di polizia che uccidono neri disarmati non vengono quasi mai incriminati, né tantomeno finiscono dentro.
Guardo mio figlio negli occhi e mi ascolto mentre comincio a mentire: «Non hai nulla da temere. A te una cosa del genere non potrà mai succedere ». La sua faccia si illumina mentre mi dice che a lui la polizia piace e che saluta sempre gli sbirri che passano nel nostro quartiere. È felice di vivere in un mondo in cui può dare per scontato che la polizia è lì per proteggerlo.
Ho la faccia rossa per l’imbarazzo di avergli mentito. E sono arrabbiata di dover dire a mio figlio che ha motivo di preoccuparsi, che Wilson non andrà a processo, perché un poliziotto non viene quasi mai incriminato quando uccide uomini neri disarmati. Devo dirglielo adesso, prima che lo senta da qualcun altro o lo veda nei notiziari, prima che molte persone nella città di Brown saranno così traboccanti di dolore e rabbia, che potrebbero reagire facendo cose che non dovrebbero, come appiccare incendi, rompere vetrine o scatenare scontri.
So che devo spiegare questa violenza, ma non approvarla. Devo aiutarlo a capire che gli adulti spesso non riescono a gestire bene il loro dolore, proprio come lui. Comincio a dirgli la verità e l’innocenza che gli illuminava il volto sparisce mentre i suoi occhi lampeggiano, prima di paura e poi di rabbia. «No!», esplode. «Ci dev’essere un processo! Se uccidi un uomo disarmato non devi almeno essere processato?». Mio figlio ora mi sta dicendo che la gente a Ferguson dovrebbe reagire. Un minuto fa mi raccontava che saluta sempre il “poliziotto gentile”. Ora vuole spaccare tutto.
Gli dico che a volte anch’io provo questi sentimenti. Ma ora sono orgogliosa delle migliaia di persone di tutte le razze che scendono in piazza a manifestare in modo non violento, facendo sentire la loro voce con audacia e coraggio. Gli racconto storie di giovani attivisti che si sono beccati i gas lacrimogeni sventolando cartelli con su scritte tre parole: Black Lives Matter, la vita di un nero vale. Ne ho conosciuto alcuni, dico. Credono, come te, che dovremmo poter vivere in un mondo in cui si possa aver fiducia nella polizia e dove tutte le persone, non importa quale sia il colore della loro pelle, siano trattati con dignità, compassione e attenzione. Questi giovani coraggiosi sanno che la guerra, la violenza e la vendetta non costruiranno mai una nazione giusta.
Mio figlio dice: «In questo momento penso solo che voglio che una cosa del genere non succeda mai più». Sono tentata di dirgli che succederà; anzi, è già successa. Dopo il 9 agosto, quando Michael Brown è stato ucciso, la polizia ha sparato a molti altri uomini neri disarmati. Ma non dico altro. È molto più semplice raccontare la verità su razza e giustizia in America a degli estranei che a mio figlio, che presto sarà costretto a viverla.
(© 2-014 The New York Times Traduzione di Fabio Galimberti)

La Stampa 28.11.14
Marx più Heidegger. Ecco il comunismo 2.0
È uscito il saggio di Gianni Vattimo e Santiago Zabala sull’idea d’una società alternativa. A differenza dal passato però la violenza rivoluzionaria è esplicitamente rifiutata
di Franca D’Agostini


Comunismo ermeneutico, di Gianni Vattimo e Santiago Zabala, è un libro che è necessario leggere, per chiunque sia interessato alla filosofia, alla politica, e ai rapporti tra l’una e all’altra. Non perché sia ineccepibile (al contrario avrei da eccepire a diverse tesi presentate dai due autori) ma per un’altra ragione, più seria e profonda.
Dal punto di vista ideologico-politico viviamo in un’epoca di morti viventi: teorie già morte e finite, che però continuano a fare danno (si possono tralasciare gli esempi: chiunque potrebbe citare due o tre casi, da destra o da sinistra). Ma viviamo anche in un’epoca di sepolti vivi: teorie e ipotesi che sono state affrettatamente tumulate, prima che riuscissero a svilupparsi pienamente e a manifestare i loro meriti e le loro ragioni. E uno di questi sepolti vivi è precisamente, io credo, quella variante dell’ermeneutica che Vattimo pensò come «pensiero debole»: una posizione filosofica che è stata troppo rapidamente liquidata, quando aveva ancora qualcosa da dire, o anzi (mia opinione) non aveva ancora incominciato a dire il meglio di quel che doveva-poteva dire.
Uno degli aspetti centrali del debolismo ermeneutico era la sua ricaduta politica, e in particolare l’idea che l’ermeneutica (la filosofia dell’interpretazione elaborata da Hans Georg Gadamer, Paul Ricoeur, Luigi Pareyson) potesse configurarsi non tanto come «pensiero debole», ma come «pensiero dei deboli»: voce delle parti più sfortunate della società, e parola pronunciata in loro difesa. Questo aspetto legava il pensiero debole di Vattimo al Cristianesimo, creando l’idea paradossale ma plausibile di un Gesù «nichilista», pronto a mettere in discussione le (false) verità degli scribi, dei sacerdoti, dei farisei.
In Comunismo ermeneutico i due autori non sviluppano molto le basi filosofiche della loro prospettiva. E non c’è molto, nel libro, delle posizioni originarie di Vattimo. C’è invece una rapida liquidazione delle problematiche della verità, del realismo, della metafisica, semplicemente identificati come i tre costituenti della «politica delle descrizioni» che secondo gli autori starebbe alla base del capitalismo. E per tutto il libro con ostinazione si ripete che «l’imposizione della verità e la difesa del realismo» sono i grandi nemici della giustizia globale. L’ermeneutica, in quanto pensiero interpretativo e non descrittivo, si contrapporrebbe a tali nemici, in una guerra che è la nostra attuale «emergenza», secondo gli autori. Si tratta allora di contrastare il ferreo ordine capitalistico mondiale con un pensiero che non aspira né alla verità né all’oggettività, e neppure alla forza rivoluzionaria, ma si concede libero al conflitto delle interpretazioni.
Non so se davvero il capitalismo in questa fase storica terminale debba davvero descriversi (interpretarsi) come «politica delle descrizioni». Non so se i nemici che i poveri del mondo devono combattere siano davvero la metafisica, il concetto di verità, o quella astrazione che gli autori chiamano «realismo», e che a me sembra una specie di caricatura del cosiddetto «realismo ingenuo». Dubito che sia così. Inoltre, i due autori citano la politica di Chávez come «la grande novità della politica mondiale». Ma ci chiediamo: davvero il «nuovo» di Chávez, e di Morales, Correa, Mujica e dei Kirchner, e «persino Papa Bergoglio» ha come sfondo filosofico il rifiuto della verità e il contrasto tra descrizioni e interpretazioni? L’aggancio tra l’ermeneutica debolista e il decisionismo forte, veritativo e descrittivo, necessario per una politica concreta (specie di stampo comunista) sembra delineato nel libro in modo piuttosto vago.
Ma è ovvio che Vattimo e Zabala lavorano in un linguaggio speciale, che hanno ereditato da interpretazioni e reinterpretazioni di Rorty, Derrida, Heidegger, Nietzsche; e per capire la loro proposta occorre entrare in questo linguaggio, e condividerne le regole. Per esempio, ciò che unisce Marx e Heidegger, dicono, è la critica della metafisica, ma «metafisica» non è la disciplina filosofica che ha questo nome, bensì un modo di vedere la realtà funzionale agli interessi dei potenti della Terra. Ciò che chiamano «descrizioni» non è il semplice descrivere cose più o meno reali o immaginate, ma la pretesa «oggettivistica» di catturare il mondo «dall’alto», con le parole i discorsi i concetti, e imprigionare in tale cattura anche le libere esistenze dei singoli umani. E il comunismo a cui pensano Vattimo e Zabala non è ciò che canonicamente si può intendere per comunismo ma il principio della comunanza, quale si esprime nel vangelo di Matteo: «Dovunque due o tre sono radunati nel nome mio, quivi son io in mezzo a loro». E «nel nome mio», spiegano gli autori, significa «nel nome della giustizia, della fraternità, e della solidarietà».
Iniziamo dunque a vedere la ragione per cui occorre leggere Comunismo ermeneutico: per riprendere il discorso sul rapporto tra filosofia e «pensiero dei deboli», e se mai confermare che la filosofia (anche nella variante quasi «anti-filosofica» delineata da Vattimo e Zabala) in definitiva è sempre stata e dovrebbe continuare a essere, come diceva Jean-François Lyotard, la force des faibles.

La Stampa 28.11.14
Vattimo
“Uno, cento, mille conflitti sociali contro la democrazia bloccata dall’alto”
intervista di Claudio Gallo


Professor Vattimo, secondoComunismo ermeneutico, l’attuale democrazia sarebbe l’ultimo bastione di quella metafisica che una parte cruciale della filosofia del Novecento ha dichiarato inconsistente: è per questo che la chiamate democrazia bloccata?
«La chiamiamo democrazie bloccata perché è condizionata da di un sistema di equilibri internazionali dominati dall’alto. Come sempre, non pensiamo che la situazione politica dipenda da un qualche errore filosofico, ma semplicemente ci sembra che la filosofia, in questo caso l’ultima sopravvivenza della metafisica, faccia parte della situazione politica e non la determini».
Talvolta il libro sembra suggerire una società anarchica piuttosto che comunista
«Una politica “anarchica” sembra oggi l’unica possibilità di emancipazione e quindi anche di preparazione di una futura società comunista. Realisticamente non possiamo pensare a una rivoluzione comunista a breve scadenza. Disturbare il sistema capitalistico avviato al suicidio è per ora il solo modo di combatterlo, “hagan lio”, fate casino, come dice il Papa».
E’ curioso che pur individuando enormi disagi sociali nelle società capitalistiche poi diciate di voler evitare una prospettiva rivoluzionaria, di mutamento radicale.
«Anche qui è questione di realismo. La prospettiva rivoluzionaria è in questo momento velleitaria o avventuristica. Uno cento mille conflitti sociali sono la sola cosa a cui possiamo realisticamente mirare per spingere i governi a una politica meno disumana».
Nel marxismo il cambiamento verso una società più giusta era spinto delle contraddizioni del capitalismo che avrebbero dovuto portare gli sfruttati a rovesciare i rapporti di classe: qual è il motore del comunismo ermeneutico?
«Il motore è lo stesso. L’ermeneutica lavora di più per limitare l’influenza addormentante dei mass media che sono il vero oppio di cui parlava Marx».
Come mai questo libro, che pure è stato molto tradotto all’estero, arriva in Italia tre anni dopo l’edizione inglese?
«Dipende un po’ dalla scelta di averlo pubblicare anzitutto in Inglese, “colpire il centro del impero.” Il resto dipende dal normali scelte editoriali».

«Togliatti, nel solco dei Quaderni di Gramsci, pensò la storia d’Italia in quanto strumento del rinnovamento della società italiana»
Corriere 28.11.14
Gentile e Togliatti, vite parallele
Entrambi scelsero di essere organici a un disegno politico, con Mussolini o con Stalin
di Luciano Canfora


Può apparire a taluno singolare o addirittura «provocante» che di Giovanni Gentile e di Palmiro Togliatti escano in contemporanea presso Bompiani, nella stessa collana, «Il pensiero occidentale», due ampie sillogi miranti a fornire al lettore una nutrita esemplificazione del loro pensiero (Giovanni Gentile, L’attualismo , introduzione di Emanuele Severino, pp. 1486, e 40; Palmiro Togliatti, La politica nel pensiero e nell’azione , a cura di Michele Ciliberto e Giuseppe Vacca, pp. 2330, e 55). Come si sa, Gentile fu ucciso da un commando dei Gap a Firenze circa alle ore 13 del 15 aprile 1944 e qualche giorno dopo, su «l’Unità» di Napoli, Togliatti, da poco rientrato in patria dall’esilio, ne avallò l’esecuzione capitale con un articolo di estrema durezza, sprezzante nel tono almeno quanto lo erano gli attacchi rivolti a Gentile da Radio Londra (Paolo Treves) e da Giustizia e Libertà (Carlo Dionisotti) subito prima e subito dopo l’attentato. Eppure, ritrovarli l’uno accanto all’altro in questa importante iniziativa editoriale non dovrà ritenersi né casuale né immotivato. Gentile e Togliatti condivisero un punto di vista, o meglio una scelta, che li coinvolse entrambi personalmente in quanto intellettuali organici ad un forte progetto politico. Una scelta, ideale e pratica, che per entrambi risultò decisiva. Non stupisce perciò la dilatazione che entrambi operarono della nozione di «pensatore», richiamandosi l’uno a Mussolini, l’altro a Stalin come a leader intellettuali e politici al tempo stesso.
Nel caso di Gentile si potrebbero citare scritti suoi quali L’essenza del fascismo (1928) o Origini e dottrina del fascismo (1929) nonché il contributo suo alla voce Fascismo ( Dottrina del fascismo ) firmata da Mussolini per l’Enciclopedia Italiana (1932) e pensata da entrambi. Ma si possono ricordare anche scritti, meno originali certo ma intenti ugualmente a chiosare Mussolini come pensatore, di altri coevi cultori di discipline dello «spirito». La sezione filosofica della voce enciclopedica firmata da Mussolini fu infatti riedita e commentata, come «classico» per i Licei, da Emilio Paolo Lamanna ( La dottrina del fascismo. Commento , Le Monnier, 1940) e già prima da Antonino Pagliaro ( Il fascismo. Commento alla dottrina , ed. Universitaria, 1933).
Quanto a Togliatti, che definì alla Camera dei deputati (6 marzo 1953) Stalin «un gigante del pensiero», si può osservare che gli scritti filosofici di Stalin ( Questioni del leninismo ) erano stati da lui tradotti e inclusi tra i «Classici del marxismo» per le Edizioni Rinascita (Roma 1945, collana diretta da Cantimori, Luporini, Donini, Pesenti). Peraltro ancora negli anni Settanta, nella grande Storia del pensiero filosofico e scientifico di Ludovico Geymonat (Garzanti, vol. VI, 1972), un paragrafo viene dedicato al pensiero di Stalin, e anche di Mao Zedong. Nel 1974 un capitolo dell’ I ntroduzione alla sociolinguistica di Marcellesi e Gardin (Larousse, trad. it. 1979) è dedicato a Il marxismo e la linguistica di Stalin .
Croce si mostrava infastidito quando la pubblicistica comunista gli presentava Lenin e Stalin come suoi «colleghi in filosofia», per adoperare una sua ironica espressione. Resta il fatto che, nel Novecento, si è determinata una consapevole rottura degli argini della tradizionale nozione di «pensatore politico». E non è un caso che chi tale rottura ha inverato, in costante sintesi di pensiero e azione, si sia richiamato all’archetipo per eccellenza di tale «rottura degli argini», cioè a Machiavelli: sia Gramsci che Mussolini. Tale rottura comportò che uomini i quali avevano guidato rivoluzioni di durevole effetto venissero, nel vivo dell’azione, percepiti, o avversati, anche come «pensatori». È soprattutto nel fuoco dei grandi rivolgimenti politico-sociali che la identità Theoria / Praxis si manifesta in tutta la sua forza. Croce, pur estraneo al milieu accademico e anzi spregiatore delle sue sclerosi, vedeva in ciò una sorta di «profanazione» del «filosofare». È comunque curioso osservare la disparità dei suoi giudizi. Nel suo diario ( Quando l’Italia era tagliata in due , Laterza, 1948), al 2 dicembre 1943, parla di Mussolini come «uomo di corta intelligenza» e dalla «personalità nulla», mentre di Lenin e di Stalin parla come di «uomini dotati di genio» ( Russia ed Europa , «Città libera», 23 agosto 1945, largamente ripreso dalla stampa inglese).
Si può ben dire dunque che Togliatti e Gentile ci appaiono, anche grazie a queste due nuovissime corpose sillogi, segnati dall’esperienza, da entrambi vissuta in prima persona, che abbiamo voluto definire «rottura degli argini»: accomunati dal convincimento secondo cui filosofare è, a pieno titolo, l’agire politico sorretto dalla consapevolezza di tradurre in atto una concezione del mondo. In quanto essa prende forma e si precisa, e si evolve, nel suo stesso farsi azione concreta. Per questo entrambi respinsero la separatezza del filosofare.
Ma in che misura, nel caso di Togliatti, può parlarsi di un suo pensiero politico? A pieno titolo egli può annoverarsi tra i maggiori «revisionisti», rispetto al marxismo, al pari di un Bernstein e di un Turati. Tale egli fu, nell’azione concreta, mai disgiunta dalla riflessione storico-politica (si pensi al suo uso di Giolitti come metafora), attore e teorico.
Nel solco dei Quaderni di Gramsci, egli pensò la storia d’Italia in quanto strumento del rinnovamento della società italiana. Alla sua linea d’azione e al suo pensiero, al di là della quotidianità e delle scelte contingenti, si adattano le parole di Gentile nella sezione La storia (Storia come storia dello Stato) di Genesi e struttura della società riferite al concetto di «Rivoluzione». Lì Gentile — proprio per chiarire il concetto di «rivoluzione» — spiega la forza delle Costituzioni, delle carte costituzionali, come «mito» indispensabile e da tutelarsi come tale, ma al tempo stesso la loro mutazione costante nel concreto e quotidiano farsi della vita dei popoli: «Scritte sì, ma lette — egli scrive — intese, vissute nella coscienza politica del popolo che viene rinnovandosi».
Nell’Introduzione generale alla silloge, Ciliberto e Vacca riprendono il paragone con Cavour che fu già caro a Giorgio Bocca, narratore intelligente della biografia togliattiana. Ciliberto — credo che quelle parole siano sue — racchiude felicemente la figura di Togliatti in una immagine: quella di «un politico che aveva particolari virtù di statista anche se non riuscì ad esserlo in modo compiuto come, forse, avrebbe potuto».

La Stampa 28.11.14
La ricerca delle origini tra scienza e arte
Si apre domani a Novara una grande mostra che sposa linguaggi a lungo separati. La presenta il curatore Sergio Risaliti
di Manuela Gandini


Si apre domani a Novara, al Complesso Monumentale del Broletto, «In principio. Dalla nascita dell’Universo all’origine dell’arte», una mostra che coniuga la sfera scientifica a quella artistica. Ideata da Sergio Risaliti, co-curatore con Stefano Baldi e Silvia Bencivelli, è un tentativo di riunire linguaggi normalmente separati. Ne parliamo con Risaliti.
Perché il titolo biblico “In principio …” ?
«Perché ci riporta subito ai primordi e, in una mostra scientifica, non poteva mancare la tradizione basilare fondante la nostra cultura occidentale che è quella dell’inizio, della creazione. È un titolo importante che deve comunicare al pubblico una cultura non solo scientifica ma anche un’idea basata su figure forti che hanno fissato nel nostro immaginario l’inizio del mondo, del cosmo dell’universo, come ad esempio la volta della Cappella Sistina».
Nel testo in catalogo, lei cita un pensiero di T.S Eliot : «Non finiremo mai di esplorare / E dopo tanto esplorare saremo di nuovo / Al punto di partenza /E conosceremo finalmente/ Il posto per la prima volta». Continuiamo a rigirare su noi stessi?
«Volevo dare il senso di un viaggio ciclico, circolare che partendo dal macrocosmo, dall’infinitamente lontano, da quasi l’irrappresentabile come il Big Bang, giungesse poi al microcosmo, alle cose che abbiamo più vicine e che comunque sono altrettanto distanti da noi, inconoscibili e difficilmente rappresentabili, come le strutture più infinitesimali della realtà. All’inizio avevo immaginato come sottotitolo “Dal Big Bang al giardino di casa”. Poi siamo andati dall’origine dell’universo al taglio di Fontana e all’origine dell’arte. La mostra è un tour de force, un’esperienza di iniziazione alla scienza e all’arte o alle nostre domande più antiche e ripetute sull’origine dei pianeti, dell’uomo, del linguaggio, della paura. L’origine delle nostre sensazioni più perturbanti: le paure, le angosce, che dall’antichità abbiamo fissato in certi miti, in certe figure da Medusa a Cerbero. E infine ci si interroga sull’origine dell’arte, del primo gesto umano di un uomo-scimmia che ha raccolto nel greto di un fiume un ciottolo su cui ha fissato lo sguardo e ha riconosciuto una testa umanoide: due occhi, le narici e la bocca».
Vi sono anche interviste a scienziati che danno una visione interdisciplinare. Come è articolata la mostra?
«Con me hanno lavorato Stefano Baldi e Silvia Bencivelli, due autorevoli studiosi di scienza. Insieme abbiamo deciso di dare voce a sette importanti firme che accompagnano, sezione per sezione, il visitatore con delle piccole interviste, piccoli focus che sintetizzano i singoli argomenti. Le sezioni sono: Big Bang con Amedeo Balbi, astrofisico; Terra e Dintorni con la geologa Claudia Piromallo; Comincia la vita con Enzo Gallori che si occupa di biologia; La sfida di Prometeo con Giorgio Manzi, antropologo; Il buio oltre la siepe con Giorgio Vallortigara esperto di neuroscienze; Bla bla bla con Andrea Moro, linguista; e infine Perché non parli? con Achille Bonito Oliva, sull’estetica».
Come sono stati scelti gli artisti e quali sono i rapporti tra opere e documenti scientifici?
«Questo è un viaggio alla scoperta di misteriosi argomenti che riguarda l’origine del mondo e dell’opera d’arte. Per questo ad esempio c’è un’opera di Anish Kapoor come origine. Si tratta di una mostra diacronica trasversale dove giocano le assonanze, le suggestioni i rimandi tra un’opera d’arte e un mito, tra un volume antico e un documento scientifico. Non c’è solo il contemporaneo, perché preferisco spaziare. La mostra è volutamente didattica, si pone le grandi domande sui misteri della natura e l’arte in modo semplice e suggestivo con l’uso di tutti media. Vi sono i disegni originali di Galileo Galilei prestati dalla Galleria Nazionale di Firenze, vicino a fumetti didattici che hanno il compito di informare sull’origine dell’Universo. È una mostra apparentemente complessa ma in realtà molto semplice. Si parte da un’opera di Guercino, un capolavoro che raffigura il mito di Atlante. C’è Dudreville con le Quattro stagioni della collezione Giannone del museo di Novara. Vi sono delle riproduzioni ad alta definizione di Jan Brueghel il fuoco e l’acqua, stampate in dimensioni molto più grandi. Opere di Thomas Ruff, Mimmo Paladino, Giulio Paolini, Alberto Burri, Lucio Fontana, Alberto di Fabio, Sabrina Torelli e Giuliana Cuneaz. Questa mostra potrebbe diventare un museo permanente realizzato in sette grandi sezioni che di volta in volta potrebbero cambiare opere e argomenti e riproporre le nostre eterne domande: chi siamo?, da dove veniamo?, dove andremo?».

Repubblica 28.11.14
Il Rom non esiste torniamo a chiamarli zingari
di Guido Ceronetti

SI FA presto a diventare un linguista disperato o un filologo maledetto: basta tentare di sradicare dall’uso una parola sbagliata che ti procura intolleranza. La lingua, dice il proverbio, uccide più della spada, in specie quando si è imparato ad usarla troppo bene.
UNA massima talmudica lo conferma: «La vita e la morte sono in mano alla lingua». Io vorrei sradicare dall’uso pubblico vulgato l’insulso Rom e ristabilire il perfetto italiano zingari.
Se ne parla tanto e non sappiamo neppure come chiamarli.
Si dà il caso che questo linguista disperato sia stato, nella sua remota giovinezza, uno ziganologo dilettante (cioè, che ci pigliava gusto nel farlo) e che gliene sia rimasto qualcosa. Per una rivista di automobilismo avevo fatto una memorabile inchiesta su zingari e l’Automobile — avevano abbandonato le roulottes a cavalli e le famiglie nomadi si spostavano in roulottes tirate da enormi auto americane usate, le sole che si vedevano in giro — e ci lasciarono fotografarli, con modica spesa. C’era una regina, in quegli anni, italiana, Mimì Rossetto, che credo avesse su tutti i gruppi d’Europa giurisdizione. Ebbi anche, da una roulotte, un invito a cena, ma accusai dolori di stomaco, l’odore della marmitta era troppo energuméno.
Una zingara di Saint Quen mi fece lettura di mano e trovò, misero me, che mai una donna mi avrebbe amato. Era in un bistrot tutto verde e la zingara aveva le pupille ardenti come quelle della tribù prophétique di Baudelaire.
C’era un rimedio: mandare giù una pillola miracolosa di sua fabbricazione che pareva una pallina di scarabeo, e dare a lei in cambio trecento franchi.
Mentii: negai di possedere una tale somma, che mi avrebbe permesso di vivere a Parigi una settimana. Le pupille ardenti mi frugarono: Eppure io vedo che tu hai in tasca trecento franchi! — Li avevo, e li tenevo nascosti bene, se non proprio al sicuro. Ma guardate il bel cavaliere gagiò a cui la giovane strega zingara, mentre lo chiromanteggia, stacca dolcemente la borsa piena di scudi d’oro dalla giubba, nella pittura del sommo Merisi da Caravaggio, ai Musei Capitolini o nella galleria degli Italiani al Louvre, detta “La buona ventura”. Pretendere che zingari e zingare non rubino è come volere che un’ape, posandosi sulla tua palpebra, non ti faccia vedere il Planetario. Un giorno che ziganeggiavo sui lungarni di Pisa una zingara mi chiese elemosina. L’accompagnava una deliziosa bambina che non avrebbe certo tardato molto a metterne al mondo un’altra. Faccio un’affrettata elemosina (ma per loro, lo so, è come il tributo a Cesare) e resto stupito: la ragazzina mi getta le braccia al collo per la gratitudine, mentre la sua probabile madre mi benedice con l’augurio di Venti (venti, senza sconti) Figli... Ringraziai a mia volta, con qualche scongiuro di malthusiano sfuggito alla pillola di Saint Quen.
Il più lontano documento di presenza balcanica di alcuni atzincani (nome assunto nel transito greco) è di un laconico monaco georgiano che li descrive come «ladri e indovini». Abbiamo scarse smentite di queste loro caratteristiche etiche nel tempo, e il documento citato, del Monte Athos, è dell’anno Mille. Ma circa la loro storicità leggendaria discenderebbero da Caino col nome di Cheniti, portatori del segno biblico dell’intoccabilità, il tatuaggio della lettera Tau; ma da se stessi si dicevano discendenti di Cham, il figlio maledetto che rise della nudità di Noè ubriaco. (Da Cham sono fatti discendere gli Africani). Vuoi vedere che la misteriosa amata del Cantico dei Cantici è una zingara? «Io sono nera ma sono bella, figlio di Ierushalem » (Cant. 1,5). Quando investirono l’Europa, con armi, carri, cavalli e voivodi, il tipo zingaro era di pelle nerissima, per la non più contestabile loro origine indiana dai fuori casta.
Posso ziganeggiare a lungo, rivoltando letture e memorie, e provare che il termine Rom, volendo designare una comunità zingara, è del tutto inutilizzabile. È improprio e di uso limitato nella loro stessa lingua.
Traducibile con maschio, marito, genericamente uomo, la nostra eufemizzazione forzata è, nell’ostinarsi a ruttare Rom Rom, di una madornale insipienza. Se poi viene chiamata Rom una donna (romnì) sarebbe come dire che la regina Cleopatra è di genere maschile e Venere si è riinventata gli ormoni.
In Italia (a Roma i primi gitani sono segnalati dal 1422 e subito, presentandosi come cristiani perseguitati in Egitto, ottennero una bolla papale di benevolenza da Martino V), il loro nome fu a lungo incerto, per lo più proveniva dal greco; cingàni, atzingàni, tzigani, egiziani; alla fine prevalse la derivazione dal tedesco Zigeuner, italiano zingari. Non li chiamiamo Tzigani, come in Francia, perché da noi il meraviglioso tango “Violino tzigano” evoca musica e orchestre della «dolce terra d’Ungheria » ma a un secolo dalla migrazione europea cingàni era il nome più diffuso, specie nel nord-est e nei domìni veneziani. E qui ci sta bene una piccola riflessione sul dipinto più enigmatico e d’impronta neopagana dell’arte italiana.
Quando l’onnipotente mano di Giorgione da Castelfranco fece “La Tempesta” oggi alle Gallerie dell’Accademia, l’artista la chiamò La Cingàna (o L’Acingàna). Dunque l’anonima figura seminuda che sta allattando è una zingara di pelle chiara o voluta bianca ed è il cuore della visione. La radiografia ha rivelato che al posto del soldato in simmetria a sinistra c’era una precedente figura nuda, ma il soldato è là per proteggere la madre e il bambino che tetta da una sciagura incombente, alla quale la folgore in mezzo al cielo allude.
Nel 1510 Giorgione morì, poco più che trentenne, per la folgore pestofora che vediamo nel cielo tempestoso, funesto presagio, che si riflette nel volto impressionante della Cingàna, triste, allarmato, angosciato, indicibile.
La spaventosa strage mondiale di mestieri ereditari, oggi con pochi superstiti ha tolto agli tzigani sedentari i redditi più onesti (calderai, ramaioli, impagliasedie, maniscalchi, fabbri di forgia, lustrascarpe, aurari o setacciatori d’oro) e accresciuto il numero dei nomadi, dediti alle attività illegali. A certe famiglie migranti la Romania monarchica non permetteva il soggiorno, nei villaggi, al di là di tre giorni (Popp-Serboianu, storico e grammatico tuttora molto autorevole). Amati dal popolo, e in maggioranza sedentarizzati, sono invece i Lautari (violinisti, mandolinisti, cembalisti), ma da noi non vengono che poveri strimpellatori, ai quali io dò vistose elemosine. Famosi erano gli Ursari, domatori d’orsi che ballano, animali bramosi di estinzione, sazi di uomo. Sui diritti delle donne, stendiamo un velo.
Terribile è la novella verghiana “Quelli del colèra” del 1884: là una misera famiglia zingara, sospettata di portare perfidamente il contagio, viene orrendamente massacrata, da un villaggio gagiò, a colpi di schioppo e d’ascia, nella sua tenda. Cadendo sotto i colpi, una ragazzina che allatta fissa con occhi indimenticabili il suo ebete assassino; occhi dove qualcosa dallo sguardo della cingàna inquieta della «Tempesta» risuscita per morire, magicamente.