domenica 30 novembre 2014

La Stampa 30.11.14
Disoccupazione mai così alta nella storia d’Italia
La serie storica dell’Istat si ferma al 1977, ma guardando i dati del collocamento e i vecchi censimenti si scopre che nella crisi del 1929 e nel 1861 il tasso era inferiore
di Luca Ricolfi

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Repubblica 30.11.14
Il macigno del debito italiano e il buco nero della Grecia
di Eugenio Scalfari

AL PARLAMENTO europeo questa settimana hanno parlato personalità molto autorevoli: il Papa, Draghi, Juncker.
Francesco ha detto testualmente: «Promuovere la dignità d’una persona significa riconoscere che essa possiede diritti inalienabili di cui non potrà essere privata ad arbitrio di alcuni. Occorre però prestare attenzione per non cadere in alcuni equivoci e in un loro paradossale abuso. Vi è infatti oggi la tendenza verso una rivendicazione sempre più ampia di diritti individuali che cela una concezione di persona umana staccata da ogni contesto sociale. Al concetto di diritto non sembra più associato quello altrettanto essenziale e complementare di dovere. Così si finisce per affermare i diritti del singolo senza tener conto che ogni essere umano è legato ad un contesto sociale in cui i diritti e i doveri sono connessi a quelli degli altri e al bene comune della società stessa».
Così il Papa. È evidente che postula un futuro dell’Europa unita, con i singoli Stati strettamente associati tra loro. *** Draghi ha esordito con un’affermazione che, pur avendola già pronunciata in vari luoghi, non aveva mai sostenuto in modo così esplicito: è necessario che l’Europa garantisca i debiti sovrani di tutti gli Stati membri. Il motivo proviene dal rischio delle elezioni politiche in Grecia. I sondaggi danno in testa Tsipras che guida il suo partito Syriza, ma una sua vittoria porterebbe con sé una situazione di estremo pericolo per l’Europa e per la moneta comune perché Tsipras è deciso a ripudiare sia l’euro sia l’Europa.
POTREBBE tuttavia restarci solo ad una condizione: che l’Europa si assuma per la durata di cinquant’anni il debito greco pagando alla Grecia anche gli interessi. Questa richiesta, ha detto Draghi, potrebbe anche essere accolta per la modesta entità di quel debito, se non che essa crea un precedente che può interessare soprattutto l’Italia. Ma adottare per l’Italia la stessa procedura chiesta da Tsipras è assolutamente impossibile: le dimensioni del nostro debito sovrano sono preclusive e per di più si scatenerebbe un’ondata speculativa di lunga durata che porterebbe al default l’Italia e con essa il sistema bancario mondiale.
Ecco perché le elezioni greche sono la dinamite che può mandare in crisi non solo il sistema europeo ma quello bancario del mondo con una crisi anche politica di dimensioni planetarie.
C’è un solo modo di reagire, secondo Draghi: imboccare con celerità la strada dell’Europa unita e sovrana. Ci vorranno anni, ma i primi passi irreversibili vanno fatti subito, le cessioni di sovranità economiche e politiche debbono essere discusse dal Parlamento di Strasburgo, dalla Commissione di Bruxelles e dai singoli Stati membri dell’Unione.
Chi parla ancora, in Italia, di un’ipotesi di Draghi al Quirinale ignora o non valuta l’importanza del compito che il presidente della Bce si è assunto. Altri pensano che sia un personaggio debole, contestato dalla Germania e dai potentati di Wall Street e della City. Direi che chi fa queste valutazioni non ha capito qual è l’importanza e il peso di Draghi presso tutte le altre banche centrali a cominciare dalla Federal Reserve, dalla Banca d’Inghilterra, dalla Banca Centrale del Giappone e da quella della Cina. Questo è Mario Draghi il quale si sta apprestando a dare esecuzione (si pensa che lo farà entro il prossimo febbraio ma forse anche prima) alle misure non convenzionali più volte da lui indicate.
Quando si parla di queste misure gran parte dell’opinione pubblica e degli operatori europei pensa all’acquisto dei titoli del debito sovrano dei vari Paesi membri dell’Unione. È possibile che si tratterà di questo intervento, ma non è detto. Può trattarsi di massicci acquisti di obbligazioni di debiti di aziende private che la Bce è pronta ad acquistare anche se prive di garanzia bancaria. In realtà questi acquisti sono già in corso ma in misura limitata; nelle prossime settimane si tratterebbe invece di acquisti molto rilevanti in tutti i Paesi membri dell’Ue.
Per questo Mario Draghi, a mio personale avviso, è la personalità più importante e non soltanto in Europa.
***
Infine Juncker. Ha proposto alla Commissione da lui presieduta e al Parlamento di Strasburgo un prestito dell’Unione ai vari Stati confederati di 315 miliardi da erogare in tre anni a partire dall’autunno del 2015.
Tuttavia di quella cifra, intestata ad un Fondo europeo, sono attualmente disponibili soltanto 21 miliardi. La differenza è enorme e tutto si riduce dunque ad uno dei tanti annunci cui siamo purtroppo abituati. Però qui la questione è molto diversa dal solito per le modalità con le quali Juncker intende procedere a partire dal prossimo gennaio: per finanziare il Fondo è indispensabile l’apporto dei singoli Stati membri; è aperto anche a Stati stranieri e ad altri Fondi internazionali, ma i “datori” principali sono gli Stati dell’Unione. Naturalmente Juncker chiede di più ai più forti economicamente e quindi alla Germania, ma tutti dovranno contribuire. Di fatto si tratta di quella europeizzazione del bilancio e di quella garanzia dei debiti sovrani della quale ha parlato Draghi che con Juncker ha contatti molto frequenti.
Gli Stati membri contribuiranno ricevendo in cambio, quando il Fondo europeo avrà raggiunto almeno 200 miliardi, facoltà di investimenti che potranno esser fatti utilizzando una politica di deficit spending di tipo keynesiano con una differenza però: dovrà trattarsi di investimenti capaci di creare nuovi posti di lavoro, salari e stipendi in grado di stimolare sia le esportazioni sia i consumi interni. Insomma un cospicuo aumento della domanda, capace di mettere in moto un processo di crescita duraturo. Esso consentirà un aumento delle entrate fiscali e quindi ulteriore disponibilità di risorse finanziarie. Ma il debito sovrano, fin quando non fosse garantito dall’Ue, rimane pur sempre il macigno che non c’è Sisifo capace di spostare rendendo il nostro Paese estremamente vulnerabile. A me non sembra che il nostro governo ne sia realmente consapevole. Lo utilizza come spauracchio per Bruxelles, ma forse non si rende conto che è un macigno che grava sulle spalle di tutti gli italiani (che non se ne rendono conto neanche loro). *** Il nostro presidente del Consiglio, che non è affatto uno stupido, tutte queste cose le sa, ma le usa soltanto per realizzare l’obiettivo di rafforzare il suo potere e quello della sua squadra. Ed è allora che la questione diventa preoccupante per la democrazia italiana. Di queste preoccupazioni ho dato più volte notizia e non ho alcuna voglia di ripetermi. Lo farò, guarda caso, utilizzando alcune osservazioni recentissime di Silvio Berlusconi, con le quali in questo caso mi trovo d’accordo.
È molto singolare, dice Berlusconi, che Renzi insista tanto sul tema della legge elettorale da far approvare entro gennaio. A che cosa serve questa fretta che rischia di creare un ingorgo parlamentare inutile, anzi dannoso poiché impedisce l’esame e l’approvazione di riforme ben più importanti, tanto più se vuole che la legislatura duri fino alla sua scadenza naturale del 2018?
È altrettanto singolare — dice ancora Berlusconi — che non si preoccupi del fenomeno delle massicce astensioni in Calabria e soprattutto in Emilia. Dice che le astensioni non hanno nessuna importanza. Sbaglia di grosso. Io Silvio finché ho potuto e ancora oggi mi sono sempre preoccupato di mantenere e fare aumentare la fiducia degli italiani in me e nella politica popolare da me portata avanti e quando vedevo che quella fiducia si incrinava la mia preoccupazione mi portava a parlare e ad agire per riguadagnarla. L’importante è governare, dice Matteo. Certo, ma si governa se la fiducia non si incrina, altrimenti sei perduto.
Oggi comunque (sempre Silvio) quello che più conta è un Capo dello Stato capace e non uno o una che siano pupazzi con Renzi burattinaio. L’inquilino del Quirinale non può essere nelle mani di un burattinaio. Non è questo che io (Silvio) voglio e farò il possibile perché avvenga.
Naturalmente Berlusconi ha le sue ragioni per fare al suo alleato critiche così penetranti. Lui vuole che la legislatura duri fino al 2018. Con Renzi naturalmente, ma anche con lui. Possibilmente cambiando la legge elettorale e passando dal voto di lista al voto di coalizione. Allora lui sarà di nuovo alla testa di una forza politica importante. Forse non vincerà, ma supererà Grillo e potrà dettare o almeno suggerire riforme che lo interessano, soprattutto economiche e giudiziarie.
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Si discute molto sulla legge delega che riguarda il Jobs Act. Alla Camera è passata con quaranta assenze nei banchi del Pd, ma lì la maggioranza assoluta era comunque nelle mani del governo e quindi non c’era bisogno del voto di fiducia. Al Senato è diverso. Per arrivare alla maggioranza assoluta a Renzi mancano 13 voti e se la sinistra dispone, come sembra, di 25 senatori pronti a votare contro, la fiducia diventa indispensabile e infatti Renzi ha deciso di chiederla. Il voto ci sarà in questa settimana. Ma, ecco il punto, è un voto non in regola con la Costituzione.
Le leggi delega, delle quali si fa ormai grande uso, contengono direttive di principio piuttosto generiche. Ad esse seguono i decreti attuativi che vengono decisi dal governo e esaminati da una Commissione la quale tuttavia emette pareri puramente consultivi. Se quei pareri non piacciono al governo, i decreti attuativi vengono applicati. A mio avviso le leggi delega debbono essere discusse dal plenum delle Camere senza che si possa mettere la fiducia. Altrimenti si ottiene una maggioranza forzosa con la conseguenza che il Parlamento (in questo caso il Senato) approva lo strapotere del governo senza un voto libero.
Credo quindi che la questione debba essere sollevata e la fiducia preclusa, senza di che la Consulta potrebbe rapidamente intervenire se sarà opportunamente richiesta a farlo.

La Stampa 30.11.14
Renzi: “Imprenditori eroi del nostro tempo”.
Il premier in un messaggio alla Confederazione nazionale degli Artigiani:
«Rivoluzione tasse: ridotte per 18 miliardi. Cambiamo Paese”.
Ma la leader Cgil: dimentica i lavoratori

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Repubblica 30.11.14
Intervista a Matteo Renzi
“Voglio una sinistra moderna. La Cgil non ci fermerà, pensa solo al suo sciopero”
“Nel Pd ci sta chi ne ha voglia: nuove regole sulla disciplina interna
Chi minaccia la scissione deve chiarirsi le idee e capire se crede a un partito comunità. La regola dello sgambetto al governo non funziona”
“Il nostro popolo al prossimo voto dovrà scegliere tra noi e Salvini”
“Berlusconi rispetti i patti prima l’Italicum poi il Colle L’Ilva tornerà allo Stato la salviamo e poi vendiamo”
di Claudio Tito


LA CAMUSSO? «Alza i toni in vista dello sciopero generale». Grillo? «Il Pd lo ha rottamato». L’articolo 18? «Bisognerebbe rileggere ciò che scrivevano sindacalisti come Luciano Lama». Prima il Quirinale e poi le riforme? «Non esiste e comunque il mio nome ora per il Colle resta solo Napolitano». Prima di affrontare lo “showdown” di dicembre che per il governo assomiglia a una corsa a tappe forzate tra l’Italicum, il Jobs act e la legge di Stabilità, Matteo Renzi traccia un bilancio di quel che il suo governo e il Pd hanno fatto nel 2014. Chiede al suo partito di abbandonare la vecchia abitudine degli «sgambetti» a Palazzo Chigi e di dar vita ad una «sinistra moderna» senza steccati ideologici.
ALPUNTOd i annunciare il ritorno all’intervento pubblico per risolvere una delle più gravi crisi industriali del Paese: quella dell’Ilva. «Poco fa — è la sua premessa — io ho detto che sono eroi gli imprenditori, gli artigiani, tutti i lavoratori. Chi fa il proprio mestiere. Perché le questioni vere sono queste: avere la possibilità di fare impresa e creare posti di lavoro. Questa è la sinistra moderna. Il resto è polemica inesistente».
Sarà pure inesistente ma il segretario della Cgil, Susanna Camusso, l’ha attaccata pesantemente.
«Il segretario della Cgil ha la necessità di tenere alta la tensione e i toni in vista dello sciopero generale. È legittimo e comprensibile. Ma la mia priorità è un’altra: tenere la discussione sul merito delle cose. Capisco la Cgil ma nel frattempo noi dobbiamo cambiare l’Italia e quindi non cado nella polemica».
Lei si pone l’obiettivo di cambiare l’Italia.
Ma a volte sembra che voglia farlo contro il sindacato.
«No. Io lo faccio contro chi frena. Se il sindacato ha voglia di cambiare e dare una mano, ci siamo. Ma se pensano di bloccarci, si sbagliano di grosso. Il tema vero oggi è creare lavoro, non farci i convegni. Affrontare crisi industriali come quelle di Taranto, di Terni, quella dell’Irisbus. Dare nuove tutele a chi lavora e non la polemica ideologica. Questo è il governo che ha dato 80 euro a chi ne guadagna meno di 1500 al mese, che punta sui contratti a tempo indeterminato. È semplicemente quel che deve fare una sinistra moderna».
Gli ultimi dati Istat sulla disoccupazione, però, ci consegnano la percentuale di disoccupati più alta dal 1977.
«Dopo il decreto Poletti, in sei mesi di governo sono stati creati oltre centomila posti di lavoro. È un primo segnale incoraggiante. Flebile ma incoraggiante. Nei sei anni precedenti ne erano stati persi un milione. Ma c’è un elemento in più: un sacco di gente sta tornando a iscriversi alle liste di disoccupazione perché adesso avverte la speranza di trovarlo un lavoro. Questo fa crescere la percentuale ma è anche un segno di attività che prima mancava».
Lei davvero crede che il Jobs act possa essere risolutivo?
«Risolutivo no. Però so che quella legge dà garanzie a chi non ne aveva, come le mamme con un contratto precario. Estende gli ammortizzatori sociali a tutti. Annulla i co.co.co, co.co.pro e quella roba lì. Dunque, si fa. Però non bastano le regole: l’occupazione si rilancia scuotendo il Paese, facendo la lotta alla burocrazia, alla corruzione, all’evasione. Semplificando l’accesso al credito. Tutto questo è il compito di una sinistra moderna».
Anche l’abolizione dell’articolo 18 è un compito della sinistra moderna?
«La nuova norma servirà a sbloccare la paura. Molte aziende non assumono perché preoccupate di un eccesso di rigidità. Mancava certezza nelle regole. Noi stiamo rimuovendo gli ostacoli. È anche un elemento simbolico perché si dimostra che l’Italia può attirare gli investimenti».
Non tutti pensano che sia proprio una riforma di sinistra.
«Per molti è una coperta di Linus. Bisognerebbe rileggersi un intervento di Luciano Lama del ‘78, allora cambierebbero idea. Essere di sinistra è anche garantire agli imprenditori di fare impresa e creare posti di lavoro. Senza steccati ideologici».
In che senso?
«A Taranto, ad esempio, stiamo valutando se intervenire sull’Ilva con un soggetto pubblico. Rimettere in sesto quell’azienda per due o tre anni, difendere l’occupazione, tutelare l’ambiente e poi rilanciarla sul mercato. Non vivo di dogmi ideologici, non sono fautore di una ideologia neoliberista. Il dibattito sull’articolo 18, invece, è quanto di più ideologico. Il sindacato che non ha scioperato contro Monti e la Fornero, lo fa adesso contro il governo che ha fissato i tetti degli stipendi ai manager, ha dato gli 80 euro e ha tagliato i costi della politica. Noi stiamo sul merito, non sull’ideologia: sono sicuro che molti di loro cambieranno idea quando vedranno i decreti del Jobs act».
Facciamo un passo indietro. Che intende per intervento pubblico sull’Ilva?
«Ci sono tre ipotesi. L’acquisizione da parte di gruppi esteri, da parte di italiani e poi l’intervento pubblico. Non tutto ciò che è pubblico va escluso. Io sono perché l’acciaio sia gestito da privati. Ma se devo far saltare Taranto, preferisco intervenire direttamente per qualche anno e poi rimetterlo sul mercato».
È la teoria sostenuta da molti economisti, a partire da Krugman, negli ultimi anni.
«La vera partita si gioca in Europa. Il Piano Juncker è un primo passo ma al di sotto delle mie aspettative. Glielo diremo al prossimo consiglio europeo. Il paradigma mondiale dovrebbe essere la crescita. Su questo sono d’accordo destra e sinistra: Obama e Cameron, Brasile e Cina. Al G20 in Australia molti di noi lo hanno sostenuto, ma non tutti».
Ce l’ha con la Merkel?
«Io non ce l’ho con nessuno. Ma il dibattito in Europa è molto più complicato rispetto a quanto accade a livello globale».
La flessibilità non può diventare una scusa per aumentare il deficit?
«Senza la flessibilità la politica è finita, morta, inutile. Se governare fosse solo un insieme di regole, potrebbero governare i robot. Se l’Europa non fosse stata flessibile, la prima a saltare sarebbe stata la Germania del post-muro di Berlino. Quanto al deficit, il nostro dato è uno dei migliori al mondo. Preoccupa casomai il debito. Ma in questo caso il problema è la crescita. Solo che la crescita non arriva senza un programma di investimenti pubblici e privati degni di questo nome. Fuori dalla tecnicalità: è un gatto che si morde la coda...».
Ma in questa fase serve o no più mano pubblica nell’economia?
«Dipende. Io ad esempio non sono per la presenza pubblica in così tante municipalizzate come accade da noi. Non vorrei passare da un eccesso all’altro. Bisogna valutare caso per caso».
Una cosa su cui è d’accordo con D’Alema.
«Può accadere persino questo. Ma se penso a come furono fatte certe privatizzazioni in passato non credo che l’accordo reggerebbe molto. Se penso al dossier Telecom, mi rendo conto che l’enorme debito della compagnia telefonica risale a come fu gestita la privatizzazione di quell’azienda. Diciamo che con D’Alema sono forse sono d’accordo sull’intervento pubblico, ma sono un po’ meno d’accordo sull’intervento privato, diciamo».
In ogni caso lo scontro con una parte del suo partito sulla politica economica del governo e sul Jobs act pone a lei, in qualità di segretario del Pd, un problema. Come comporre le differenze in un partito che aspira a conquistare la maggioranza e che per forza di cose contiene al suo interno più anime.
«Dal punto di vista culturale la diversità aiuta e stimola il dibattito. Dal punto di vista organizzativo invece c’è un gruppo di lavoro guidato dal presidente Orfini. Quando poi ci sarà il premio alla lista servirà una gestione diversa dei processi decisionali. Come si vive la disciplina e la libertà di coscienza nel partito del ventunesimo secolo? Come tenere insieme l’idea veltroniana del partito a voca- zione maggioritaria con quello bersaniano che voleva un partito diverso dalla tradizione novecentesca ma più solido?».
E come si fa?
«Ne stiamo discutendo ma questa è la sfida interna del nuovo gruppo dirigente Pd».
Intanto c’è chi le chiede di anticipare il congresso.
«Chi usa strumentalmente questo tema dimentica che alle europee abbiamo preso il 40,8%, abbiamo recuperato 4 regioni su 4 e governiamo l’Italia cercando faticosamente di cambiare linea all’Europa. Il congresso è fissato per il 2017. Se Zoggia o D’Attorre pensano di fare meglio potranno dimostrarlo tra tre anni come prevede lo Statuto. Nel Pd c’è una gestione unitaria. Non è che possiamo fare il congresso perché loro si annoiano».
Veramente c’è chi minaccia anche la scissione.
«Nel Pd ci sta chi ne ha voglia. Chi minaccia la scissione un giorno sì e un giorno pure, deve chiarirsi solo le idee e capire se crede a un partito comunità. La regola dello sgambetto al governo non funziona più».
Lei però deve decidere se il Pd può avere al suo interno tutta la sinistra.
«Una parte di sinistra radicale ci sarà sempre. Ma quando si va a votare, proprio il popolo della sinistra che è già provato da quel che è accaduto in passato, ci penserà due volte a votare per la sinistra radicale rischiando di consegnare il paese a Matteo Salvini. Perché poi si sceglierà tra noi e la destra lepenista. Tra la nostra riforma del lavoro e quella della Troika».
Ha detto Salvini e non Grillo.
«Il Pd lo ha rottamato. Le europee hanno segnato la fine del grillismo. Loro usavano la rabbia, noi abbiamo risposto con un progetto. Ora si tratta di capire come si muoverà la diaspora Cinque stelle. Alcuni di loro sono molto seri, hanno voglia di fare».
Li sta reclutando?
«Non sono per fare campagne acquisti, ma sulla lotta alla burocrazia, la semplificazione fiscale, la scuola, secondo me ci sono i margini per fare qualcosa con una parte di loro. Dovranno decidere se buttare via i tre anni e mezzo che rimangono di legislatura o dare una mano al Paese».
Le ultime regionali hanno rottamato il M5S ma sono state un segnale anche per lei.
«Perché l’astensionismo alle regionali dovrebbe essere messo sul conto del governo? Anche l’idea che ci sarebbe stato lo spaesamento dei lavoratori cozza con la realtà. E allora perché non hanno votato per Sel? Avevano pure la scusa che stava nella coalizione con Bonaccini».
Sarà altrettanto duro con Berlusconi? Al Corriere ha detto che prima si concorda e si elegge il presidente della Repubblica e poi si approva l’Italicum.
«Non esiste. L’Italicum è in aula a dicembre. Lui si è impegnato con noi a dire sì al pacchetto con la riforma costituzionale entro gennaio. Io resto a quel patto».
Berlusconi spesso cambia idea.
«Io no».
Nel frattempo le ha fatto sapere che per il Quirinale vorrebbe Giuliano Amato.
«Io ho un unico nome: Giorgio Napolitano. Non apro una discussione finché il capo dello Stato è al suo posto. I nomi si fanno per sostenerli o per bruciarli. È sempre la stessa storia dal 1955. La corsa è più complicata del palio di Siena. E i cavalli non sono nemmeno entrati nel canapo».
Va bene, ma poiché il problema si aprirà, lei pensa di indicare almeno un metodo?
«È bene che il presidente della Repubblica si elegga con la maggioranza più ampia possibile. E dico “possibile”. Ma non voglio discuterne adesso, sarebbe irriguardoso nei confronti di Napolitano e segno di scarsa serietà verso i cittadini».

il Fatto 30.11.14
Barbarie
La rivolta delle periferie in un Paese che rotola
di Furio Colombo


Vi prego di riflettere sul fatto che non è così facile arrivare a quanto è accaduto il 28 novembre nel quartiere romano di Torrevecchia. Non è facile un precipitare così violento su un quartiere italiano di un fascismo così barbaro e primitivo, fatto di corpi umani (500 aggressori giovani), progetti miserabili (terrorizzare i bambini rom in modo che non vadano a scuola), parole elementari e insensate (dice il leader Gianluca Iannone: “Voglio avere la libertà di rifarmi a Mussolini a livello filosofico”). E la prontezza di negare tutto: nessuna denuncia delle scuole disertate per terrore dai bambini, nessun presidio di sicurezza per il campo rom. I giovani e vili fascisti (500 ragazzi che fanno i bulli e inscenano uno spettacolo di coraggiosa difesa dell’Italia mentre assediano un campetto di meno di 200 rom, metà donne, metà bambini, metà anziani).
TUTTO quello che sappiamo dai volontari che aiutano i rom è che il campo (via Lombroso, Roma) è invivibile. I ragazzi (i guerrieri di Casa Pound, buoni soprattutto a terrorizzare i ragazzini delle elementari e le donne sfiancate dalla vita nel solo luogo che questa gloriosa civiltà post fascista gli assegna) sono il peggio umiliante e vergognoso di un Paese analfabeta che sventola la bandiera italiana che li condanna e li scaccia, se è la bandiera di Manzoni, Leopardi, Pascoli, Carducci (cito i poeti italiani che un tempo, alla loro età, avrebbero dovuto imparare a memoria). Sono anche pronti a mentire e a contraddirsi senza un attimo di riflessione, tanto lo hanno visto fare da celebratissimi personaggi in televisione. Dicono (un tale Fabio Di Martino di Blocco studentesco), che “le scuole romane sono fatiscenti e il sindaco Marino e le istituzioni finanziano i campi rom e i centri di accoglienza”, cercando di far dimenticare che fino a poco tempo fa Roma era governata dal sindaco fascista Alemanno, e il Paese, per almeno dieci anni, era in mano a Berlusconi, Alfano, Borghezio e Giorgia Meloni. Ma torniamo per un momento alla scena madre della giornata italiana di cui parliamo: 500 adulti-giovani terrorizzano poche decine di bambini, e bloccano l'ingresso di due scuole (fatto che, se fosse stato eseguito da persone che hanno perso il lavoro, avrebbe richiamato un universo di ordine pubblico) e mostrano con orgoglio lo striscione: “No alle violenze rom – Alcuni italiani non si arrendono”. A bambini che vanno a studiare. Intanto la città se ne va per i fatti suoi, leader politici inclusi, salvo una volonterosa interrogazione alla Camera (Maria Coscia, Pd), seguita da nessuna risposta di Alfano, il ministro dell’Interno del governo Renzi, che non ha smosso o commosso nessuno. E la notizia che fra un momento si spegne perché non ha a che fare con Renzi (e Civati, Cuperlo, Fassina) con Berlusconi (e Fitto e Biancofiore), con Grillo e il suo storico direttorio. Tutti (e tutti gli altri detti “i politici”) si guardano bene dall’occuparsi dello spiacevole incidente. E soprattutto non vogliono decidere (nessuno di loro) se lo spiacevole incidente sia la troppo poca distanza dei rom (e dei bambini rom) dalla scuola che frequentano, o vorrebbero frequentare. O sia invece il terrore seminato da cinquecento giovani italiani “decisi a non arrendersi”, a pochi bambini bloccati a casa, cioè nel container che, ci dicono gli operatori volontari, sono ormai semi distrutti.
In questo riassunto della vicenda c’è la descrizione del buco nero in cui è precipitata la vita italiana che, in momenti come questi sembra (non può essere vero) irrecuperabile. Infatti si è lavorato sodo a demolire l’uguaglianza, introducendo un “merito” che non può esistere in un Paese dove tutto è truccato, dai risultati dei test scolastici alle elezione di Formigoni, dalla lista delle alte nomine (che poi gli stessi truccatori rifiutano di votare) agli appalti, dove non sempre fa in tempo ad arrivare il giudice.
ORA SI È aperto con furore il secondo fronte, quello per eliminare la solidarietà (che è il titolo di uno splendido piccolo libro di Stefano Rodotà, Laterza editore, recensito cautamente qua e là, ma senza lasciarsi prendere troppo la mano da ingenui entusiasmi). Con un papa come Bergoglio la solidarietà è un valore che potrebbe ritrovare un senso e un seguito e motivare una diversa vita politica, e questo è meglio che non accada. Impedisce sia di governare, attraverso le scorciatoie dei miei strabilianti successi fatti con i sacrifici degli altri, sia di fare una bella opposizione agile ed estrosa, magari anche un po’ fantascientifica, ma senza portarsi dietro per sempre la zavorra dei poveri. Ora gli eventi di Tor Sapienza, dove, sotto la ferma guida dei guerrieri anti bambini di CasaPound, le migliori casalinghe scoprono che “è troppo” che in una casa (sia pure molto in ordine) del quartiere arrivino una quarantina di ragazzini profughi, dopo Corcolle, dopo Infernetto (dove Borghezio è stato accolto con ovazioni) si delinea la nuova strada: un movimento carogna che dà la caccia dovunque ci sia qualcuno più debole che non può reagire.
I cinquecento uomini giovani che alzano una bandiera italiana, con i piedi ben piantati nei liquami del fascismo, è un incubo. Certo lo è per chi ha vissuto certi anni. Ma accade perché adesso può accadere.

Repubblica 30.11.14
L’amaca
di Michele Serra


Ditemi se c’è qualcosa di più vigliacco che colpire una comunità colpendo i suoi bambini e i suoi minori. Ostacolare la scolarizzazione dei nomadi (italiani e stranieri) come ha fatto CasaPound a Roma, significa recidere la sola vera speranza di integrazione e/o di cambiamento per quei bambini, quegli adolescenti che la nascita consegna (incolpevolmente) alla povertà, alla questua, all’emarginazione, all’espediente, al furto. Voler cacciare dalle scuole i Rom è come rovesciare il vassoio della mensa agli affamati, come scoperchiare il tetto del dormitorio agli assiderati. Un atto ripugnante. Colpisce, anzi ferisce constatare che ragazzi — quelli del Blocco studentesco — odiano ragazzi, studenti discriminano studenti. È vero che la prima giovinezza sa essere un’età feroce, ma è anche l’epoca in cui dentro le persone si spalanca una finestra sulla vita, sugli altri, sulla possibilità propria e altrui di cambiare. Che la grettezza e la paura degli adulti trovino ragazzi disposti a incarnarla, scandendo slogan da borghesucci spaventati, è veramente triste. Basterebbe che il peggiore dei fascistelli guardasse negli occhi il peggiore degli zingarelli per riconoscersi, nel tumulto sociale, vittime e fratelli.

il Fatto 30.11.14
La destra europea ora sogna all’ombra di Salvini
Al congresso di Lione il Front National celebra i propri successi e benedice la Lega
Marine: “Matteo è coraggioso, sono entusiasta dalla sua energia”
di Luana De Micco


Parigi Matteo Salvini? È un uomo coraggioso, ha impresso una svolta nazionale che domani rimetterà la Lega Nord al centro della politica italiana. Primo ministro? Perché no? Sono estasiata dalla sua energia e ammiro la sua capacità di lavorare e di convincere”. L’alleanza tra il Front National e la Lega è più che mai sancita. Ancora prima di arrivare a Lione, dove si tiene da ieri il XV congresso del partito di estrema destra francese, Salvini ha incassato gli elogi di Marine Le Pen, leader frontista senza avversari che, dopo le convincenti prove alle elezioni locali di primavera, ostenta le sue ambizioni per le regionali 2015 e le presidenziali 2017. “Anche la Lega, come il Front National, viene spesso tacciata dagli avversari di razzismo - ha aggiunto la Le Pen - Fanno così con tutti quelli che sono contro l’immigrazione. Salvini sta facendo bene, si può essere assolutamente contro la politica di immigrazione senza essere razzisti”.
A 46 anni, la più giovane leader francese non ha infatti quasi più bisogno di dimostrare di aver saputo ripulire il partito paterno, ereditato tre anni fa, dalle sbavature razziste e antisemite. Ormai almeno un francese su tre ha una buona opinione di lei, secondo l’ultimo sondaggio Odoxa che le fa sperare nel ballottaggio alle prossime presidenziali contro la destra moderata dell’Ump, dopo il catastrofico governo socialista di François Hollande. Una volta conquistato l’Eliseo, promette l’uscita della Francia dall’euro e un referendum per l’addio all’Unione europea. Tremila tesserati si sono riuniti a Lione per celebrare la loro eroina. Erano chiamati a rinnovare i rappresentanti del Comitato centrale del partito. Secondo i primi dati, la numero due del FN, ormai un’azienda di famiglia, è Marion Maréchal-Le Pen. La 25nne, bionda e aggressiva come la zia, ha raccolto più voti di Louis Aliot, compagno della leader, e dell’altro uomo forte del partito, Florian Philippot. “Il Front National è il modello dei movimenti nazionali in Europa, vuole costruire un’Europa delle nazioni dall’Atlantico al Pacifico, da Brest a Vladivostock”, ha detto il vecchio leader, Jean-Marie Le Pen, 86 anni, decretando che il FN “salverà la patria” e che sua figlia sarà la “prossima” presidente francese.
A Lione, Marine Le Pen, che non è riuscita a formare un gruppo al Parlamento europeo, ha riunito i rappresentanti di sette partiti della destra euro-scettica. Sul palco anche Geert Wilders, della formazione islamofoba olandese PVV, Hans-Christian Sträche, del FPO, il partito austriaco di estrema destra, e ancora Krasimir Karakachanov, dell'ultra-nazionalista bulgara VMRO. E Matteo Salvini: “Insieme rappresentiamo l’unica possibilità di riscatto dei nostri popoli contro il super Stato europeo, il pensiero unico e il furto della nostra sovranità”, ha detto il leader della Lega. I capisaldi da rispettare per un’alleanza con il FN: no all’euro, nuove politiche dell’immigrazione, matrimonio esclusivamente tra un uomo e una donna, adozioni da parte di un papà e una mamma, rivoluzione fiscale e dimezzamento delle tasse. Il vechio Jean-Marie Le Pen vede in Salvini “l’artefice dell’evoluzione della Lega, che a un certo punto si era rintanata nell’ipotesi utopistica della Padania. Salvini ha capito che la Lega aveva un futuro soltanto come movimento nazionale”.

il Fatto 30.11.14
Hammer, il re del festival nazi
di Davide Milosa


“MIMMO” BOSA GUIDA GLI ESTREMISTI MILANESI CHE IERI BALLAVANO A UN CONCERTO BLINDATO

Milano Il luogo è rimasto segreto fino al primo pomeriggio. Poi la comunicazione riservata: via Toffetti in zona Rogoredo. Stesso capannone dello scorso anno. Periferia est di Milano. Qui ieri si è svolto l’Hammerfest 2014. Concerto nazi rock che ha ospitato decine di band italiane e straniere. Concerto blindatissimo come da copione. Concerto su cui pesava l’ammonizione ai partecipanti da parte della Questura: non mettere in atto comportamenti contrari alla legge Scelba. Si sono presentati in 300. Alcuni hanno organizzato una raccolta fondi per i volontari che in Ucraina combattono contro i filorussi.
L’AFFLUENZA È INIZIATA poco dopo le 16 sotto a un cielo piovoso e pieno di nebbia. Davanti all’ingresso alcuni indossavano la pettorina della Skinhouse di Bollate, la struttura che ufficialmente ha organizzato l’evento. In via Toffetti così hanno fatto la loro comparsa i capi storici del movimento Hammer di Milano. C’erano Stefano Del Meglio e Giovanni Pedrazzoli, che nel 2004 furono coinvolti nell’aggressione armata al centro sociale Conchetta, luogo storico dell’antagonismo meneghino. Oltre a loro, poi, si è fatto vedere il siciliano Domenico Bosa nato a Gela nel 1967, meglio conosciuto come Mimmo Hammer. È lui l’ultimo leader del movimento che inneggia alla “fratellanza bianca”. Lui che sul piatto può mettere rapporti di un certo peso. Rapporti criminali soprattutto. Tanto che il suo nome compare in un’indagine della Guardia di finanza di Milano che nel dicembre 2013 ha fotografato i rapporti tra il narcos montenegrino Milutin Todorovic e uomini della ‘ndrangheta legati allo storico boss di Bruzzano Giuseppe Flachi, detto Pepè. Bosa non risulta indagato nell’inchiesta ma la sua voce finisce in una lunga intercettazione ambientale. Parlano Mimmo Hammer e Todorovic. Parlano di droga e di soldi che i calabresi devono al trafficante che progetta ritorsioni e a Bosa dice: “Mimì vuoi che ti dico una cosa l’unica persona in Italia della quale mi fido sei te”. A quel punto Mimmo Hammer lo avverte sull’opzione omicidi: “Devi avere un approccio giusto, nel senso che magari vieni venduto, hai capito stai attento, io capisco che loro (i Flachi, ndr) sono in debito ed è giusto che lo paghino però ragiona (...). Se ti posso dare un consiglio, non fare le guerre se le puoi risolvere, lascia che le facciano gli altri e così tu avanzi”.
Nell’agenda di Mimmo Hammer compare anche il nome di un altro pregiudicato legato a malavitosi di San Siro imparentati con il serbo Dragomir Petrovic detto Draga, nome storico della mala meneghina, già legato alla strage al ristorante La Strega di via Moncucco del 1979 e arrestato nel marzo scorso, mentre da ergastolano usufruiva di permessi dal carcere per lavorare in una società dove era l’unico dipendente.
UN CONTRATTO D’ORO quello di Draga stipulato grazie ai buon uffici dell’avvocato Carlo Maffei, anche lui arrestato. E con Maffei lo stesso Bosa intrattiene diverse conversazioni. Naturalmente Bosa, che attualmente non risulta indagato, smentisce questi contatti. Dice di aver cambiato vita. Di voler pensare solamente agli Hammer. Politica e malavita. In attesa di capire se questi rapporti produrranno sviluppi, ieri in via Toffetti è andata in scena l’ennesima manifestazione neonazi nella città medaglia d’oro della Resistenza. Tanti decibel e un segnale: l’estrema destra rialza la testa e grida presente.

Repubblica 30.11.14
Svizzera, gli eco-estremisti guidano il voto anti immigrati
di Franco Zanotelli


LUGANO . Ridurre l’immigrazione a percentuali da prefisso telefonico e, contemporaneamente, intervenire nei Paesi del terzo mondo per frenare la crescita demografica. Sono i contenuti del referendum propositivo su cui oggi si esprimono i cittadini svizzeri. L’ennesima provocazione dai connotati xenofobi, che arriva dopo lo sconquasso suscitato, a livello planetario, dal voto dello scorso 9 febbraio, con cui la maggioranza degli elettori elvetici insorse contro «l’immigrazione di massa», denunciando gli accordi con l’Ue sulla libera circolazione delle persone. La consultazione popolare è intitolata “Ecopop”, acronimo di “Ecologia e popolazione”, i cui fautori appartengono all’estremismo ambientalista e non si preoccupano di passare per razzisti pur di preservare la Svizzera dal rischio della sovrappopolazione.
In sostanza chiedono che l’immigrazione non superi lo 0,2 per cento all’anno, non più di 16 mila persone, e che il governo investa, sempre annualmente, il 10 per cento dell’aiuto allo sviluppo, cioè l’equivalente di poco più di 120 milioni di euro, per distribuire preservativi e pillole del giorno dopo alle nazioni più povere. Il ragionamento, in termini crudi, è il seguente: meno figli fanno africani, asiatici e latino americani e più dovrebbe diminuire la pressione alle frontiere svizzere. Per denunciare Ecopop sono stati tirati in ballo sia il Lebensraum , ovvero l’ossessione dello spazio vitale della Germania nazista, come pure il malthusianesimo, che invoca la disincentivazione della natalità, per preservare l’ecosistema terrestre. C’è poi un secondo quesito, nel referendum odierno, che in caso di vittoria dei sì porterebbe al divieto per la Banca centrale elvetica di vendere le proprie riserve d’oro. Un modo per dire «ce lo teniamo tutto in casa». Il terzo quesito prevede l’abolizione dei privilegi fiscali per stranieri ricchi.
«Se passa questa iniziativa — mette in guardia Christoph Blocher, il leader della destra svizzera — la nostra economia subirà dei danni gravi». «Quello 0,2 per cento di limite per l’immigrazione — spiega — si raggiungerà in fretta, con i soli richiedenti l’asilo, con la conseguenza che se un’azienda dovrà assumere un ingegnere straniero non lo potrà fare». Blocher, giusto ricordarlo, è un imprenditore multimiliardario, all’origine di molte delle campagne anti-stranieri che hanno infiammato negli ultimi 20 anni la Svizzera. Insomma, se persino uno come lui afferma che Ecopop è pericolosa, allora vuol dire che si sta superando ogni limite. Stando agli ultimi sondaggi il referendum Ecopop dovrebbe venire respinto. Salvo che nel Canton Ticino dove la destra, maggioritaria con la Lega a livello di governo locale, non nasconde il suo appoggio. Ma il tema incendia il dibattito pubblico. Anche il leader dei Verdi ticinesi, Sergio Savoia, non la avversa con la stessa determinazione dei suoi colleghi degli altri Cantoni. Perché, chiediamo a Savoia, è approdata alle urne una tesi tanto controversa? «Perché in Svizzera il 27 per cento della popolazione è costituita da stranieri. Il che ha conseguenze a tutti i livelli». A chi ha definito l’iniziativa para-nazista, perché evoca il Lebensraum , cosa replica? «Che questi paragoni storici sono rozzi e finiscono per lasciare il tema della migrazione nelle mani degli estremisti veri. Vede, da noi non si è registrato alcun episodio di violenza contro gli stranieri. Italia, Francia e Inghilterra possono dire altrettanto?». Ma non la pensano così i giornali dei Paesi vicini. Il settimanale tedesco Spiegel per esempio titolava ieri: «Dentro l’oro, fuori gli stranieri».

il Fatto 30.11.14
Oggi le primarie Pd in Veneto e Puglia: finisce l’èra Vendola

PURE IN PUGLIA, alla fine, oggi si terranno le primarie del centrosinistra. Il litigio tra Nichi Vendola - che accusa il Pd di aver già stretto un’alleanza con l’Udc per il dopo voto - e il segretario regionale democratico Michele Emiliano (che è pure candidato) è rientrato ufficialmente ieri: “Abbiamo voluto fortemente le primarie in Puglia per salvaguardare il progetto del centrosinistra così com'è”, recita il comunicato congiunto che segna la fine delle ostilità. “Tutto è bene quel che finisce bene”, è il più prosaico commento di Emiliano, che oggi sfida Guglielmo Minervini (Pd pure lui) e Dario Stefano (Sel). Non solo in Puglia, comunque, domani il centrosinistra sceglie il candidato governatore per le elezioni regionali della prossima primavera: al voto si va pure in Veneto. La situazione è meno vivace di quella pugliese, ma almeno un dato di interesse c’è: in corsa c’è infatti Alessandra Moretti, già bersaniana poi renziana, oggi ladylike con estetista settimanale ed eurodeputata eletta con 230 mila preferenze solo qualche mese fa. Dovrà battere Simonetta Rubinato, cattolica anche lei del Pd, e Antonio Pi-pitone, candidato di Italia dei valori.


Repubblica 30.11.14
Cuperlo, Fassina e D’Attorre si vedono tutti i giorni per coordinare le mosse dei dissidenti
“Stavolta Renzi dovrà ascoltare anche noi, in Parlamento contiamo un po’ più di Fitto”
“Siamo almeno cento Prodi è la prima scelta” Il piano per il Quirinale delle minoranze Pd
di Goffredo De Marchis


ROMA «Stavolta dovrà ascoltare anche noi. Contiamo più di Fitto in Parlamento». La minoranza del Pd giocherà la partita del Quirinale di rimessa, aspettando che sia Matteo Renzi a fare la prima mossa, a indicare al partito un nome su cui discutere. Il coordinamento dei dissidenti continua a vedersi praticamente ogni giorno alle 9 di mattina a Montecitorio. Ne fanno parte Gianni Cuperlo, Pippo Civati, Stefano Fassina, Francesco Boccia e Alfredo D’Attorre. Tutte le aree sono rappresentate. Da questo nucleo è nata la rivolta che ha portato alle 30 uscite dall’aula durante la votazione del Jobs Act. Ma loro giurano di essere molti di più e al momento dell’elezione del presidente della Repubblica il loro peso si farà sentire. Tra Camera, Senato e delegati regionali contano circa 100 grandi elettori. «Forse 101», scherzano evocando il voto su Romano Prodi che provocò un terremoto nel centrosinistra, un anno e mezzo fa.
Prodi è ancora nei discorsi dei ribelli in questi giorni. Ancora oggi è il nome che mette d’accordo tutti. Civati in testa. Ma lo appoggiano anche i bersaniani e il lettiano Boccia. Persino Cuperlo non nega una chance al Professore. Del resto, lui, nella squadra dalemiana, è sempre stato un tifoso dell’ex premier, certamente il meno denigratorio, tanto da immaginare una pace tra D’Alema e Prodi qualche anno fa, attraverso la nomina di quest’ultimo alla presidenza della Fondazione Italianieuropei. Il percorso di Prodi appare fin d’ora accidentato, reso difficile dalla sua sbandierata indisponibilità e dal veto di Berlusconi. In più adesso la sponda grillina non è molto sicura vista la tempesta che scuote i 5stelle. Comunque il coordinamento si prepara anche a un piano B. Sul profilo di Prodi: ossia autorevolezza assoluta, nome alto, autonomia dai partiti. Perché il timore è che nel patto del Nazareno si possa realizzare una soluzione al ribasso, con una candidatura debole. «Il capo dello Stato dev’essere libero e forte. Libero dai condizionamenti delle forze politiche e forte nelle istituzioni», spiega Boccia. «Va cercato un garante per il Paese, non un garante di Renzi, una specie di stampella del governo», insiste D’Attorre. Naturalmente, secondo la minoranza, questo risultato si ottiene solo ribaltando l’intesa del Nazareno e depotenziando il potere di scelta di Berlusconi.
Per neutralizzare il dissenso interno e i franchi tiratori Renzi però ha bisogno di patto blindato o con Berlusconi o con Grillo. Dalla quarta votazione basteranno 500 e rotti voti per eleggere il presidente. Se sono veri i 100 della minoranza, è necessario avere la sponda garantita di Forza Italia e dei centristi oppure del comico. Perché nemmeno i dissidenti grillini saranno sufficienti. La via d’uscita più semplice è trovare un nome talmente alto da impedire a chiunque di battere ciglio. Come avvenne ai tempi di Carlo Azeglio Ciampi. Questo nome è unico: Mario Draghi. Berlusconi dovrebbe inchinarsi e la minoranza dem non avrebbe alternative.
Draghi tuttavia è out almeno per il momento. Girano le candidature di Roberta Pinotti e Paolo Gentiloni in cui i dissidenti non riconoscono l’identikit della personalità autorevole e autonoma che invece corrisponde a Walter Veltroni. Più insidiosa, per l’intero Pd, sarebbe l’indicazione di Dario Franceschini. Il ministro della Cultura, nel toto-Quirinale, è ai margini, «ma non va sottovalutato — dice Boccia — . Può avere i voti di Berlusconi e di tutti i centristi sparsi».
I dissidenti cercano di autonomizzarsi dalla vecchia guardia, eppure non negano che Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema vorranno avere voce in capitolo. «Esiste una necessità di condivisione, anche con noi. Non cerchiamo una situazione di stallo e la titolarità della proposta spetta a Renzi. Poi però si discute», spiega D’Attorre. Non sarà una discussione semplice, intrecciata com’è con la legge elettorale e la riforma costituzionale, oggi osteggiate dalla minoranza. Senza contare la prospettiva del voto anticipato. Renzi e i suoi devono ancora trovare l’interlocutore giusto nel fronte dei ribelli. Per ora regna la massima diffidenza e sospetti nemmeno molto celati a Palazzo Chigi di complotti per far inciampare il premier.

Repubblica 30.11.14
Civati: lo schema W.P. serve solo a bruciarne altri due


ROMA «Il nome del prossimo capo dello Stato al Pd non deve certo dettarcelo Berlusconi».
Perché dice così, onorevole Civati?
«Perché la volta scorsa Berlusconi ci disse che se arrivava Prodi, lui se ne fuggiva all’estero e noi Prodi non lo abbiamo votato. Con la congiura dei 101, in quella drammatica notte della Repubblica».
Teme un replay?
«Rischiamo di tornare sul luogo del delitto».
Berlusconi vorrebbe Amato al Colle.
«Io non votato neanche Napolitano, contro le larghe intese. Perciò, con tutto il rispetto per la persona, Amato di sicuro non è in cima ai miei desideri. Sarebbe la conferma dell’attuale schema politico a due, che deve saltare».
Niente Patto del Nazareno per l’elezione del capo dello Stato.
«Ma il presidente della Repubblica può mai nascere nel segreto di una stanza buia, da una firma fra Renzi e Berlusconi?».
Renzi per il Colle dovrebbe mollare l’ex Cavaliere e buttarsi su Grillo.
«Più che Grillo, sul movimento dei Cinquestelle, che si è scongelato, che già sulle riforme aveva mandato segnali di disponibilità, anche se a corrente alternata. Proviamo, allora, a vedere lì dentro».
E Prodi potrebbe tornare in pista?
«Dopo quel che è capitato, meglio non evocare nemmeno il nome di Romano. Diciamo che avremmo bisogno di un Prodi equivalente, che a livello internazionale ed europeo rassicuri sul fatto che l’Italia non è fondata tutta su una intesa a due».
Rodotà?
«Gli voglio un bene dell’anima, ma non mi pare sia nel novero delle cose».
Girano i nomi di Veltroni e Gentiloni, il cosiddetto schema W.P.
«Se ti mettono in pista troppo presto, in genere ti bruci. Non sono appassionato al totonomi ma al criterio politico con cui scegliere il nuovo presidente. Non è che voglio mettermi a discutere su ogni singola candidatura. Ma rompere quel patto a due, questo sì».
Così però saltano tutte le riforme...
«Ma Renzi dice che si può andare avanti lo stesso senza Forza Italia Lo dice anche la Boschi. E al presidente del Consiglio io credo...». (u. r.)

La Stampa 30.11.14
Renzi avverte la minoranza: niente veti sul Quirinale
Sembra comunque esclusa la riproposizione di nomi già “bruciati” dal Parlamento
di Carlo Bertini


Matteo Renzi non accetta veti sulla partita del Quirinale, «avanti dritti con le riforme», è l’input trasmesso dal premier ai suoi uomini in Parlamento. Dove l’arma del voto resta sempre alta, specie per placare tutti i malintenzionati: «A metà dicembre voteremo in commissione al Senato un testo con la clausola sulla durata della legislatura che blocca l’uso dell’Italicum fino al varo della riforma del Senato. Ma non toccheremo il Consultellum, così se si andrà a votare Matteo potrà dire che per colpa di chi ha bloccato le riforme resta questa bella legge», spiega un fedelissimo del premier. Senza dire che a quel punto Berlusconi si ritroverebbe con un sistema con le preferenze, come a dire con il fumo negli occhi.
La road map di Renzi prevede di procedere senza stop: a dispetto dell’ex Cavaliere l’Italicum sarà incardinato in aula al Senato per gennaio. «Napolitano annuncerà le dimissioni a capodanno ma si dimetterà un mese dopo per darci tempo di approvare la legge elettorale», prevede un ministro centrista. Una legge che poi tornerà alla Camera per il timbro finale, ma il cui varo in Senato comunque darebbe l’idea che uno dei compiti assegnati a questo Parlamento sia stato portato a buon punto.
Sul Quirinale poi, «sarà un nome non divisivo anche agli occhi della sinistra, ma nessuno nel Pd deve piantare paletti, perché ciò pregiudicherebbe la ricerca di un’intesa larga», spiega un renziano della prima ora. Sono queste le riflessioni su una partita che ormai è al centro dei conciliaboli in un Transatlantico affollato per le fiducie sulla manovra.
Nel cerchio ristretto del premier non solo c’è chi assicura che «non verranno riproposti nomi già bocciati da questo Parlamento per evitare rischi», ma si accettano scommesse che Renzi seguirà un metodo analogo a quello per il ministro degli Esteri: dando libero sfogo, prima di puntare su un nome che metta davvero d’accordo tutti, alla ridda di candidature. L’ultima in ordine di arrivo quella di Sabino Cassese, «c’è un motto francese che dice che le cariche pubbliche non si sollecitano e non si rifiutano», risponde alla Gruber il giudice emerito della Consulta, aggiungendo pure che «Renzi si sta muovendo molto bene, sta tentando di rifare l’Italia». Mentre il nome di Amato, lanciato da Berlusconi al Corriere, viene stoppato subito da Salvini.
Renzi punterà certo a tenere insieme un Pd già dilaniato dalle spaccature tra le varie tribù della minoranza: con una convocazione preventiva dei gruppi parlamentari ai quali fare un discorso chiaro. Della serie: nessuno può sapere se il nuovo Presidente verrà eletto con i voti del Pd insieme a quelli dei grillini o di Forza Italia, quindi si cercherà un’intesa molto ampia e chi ponesse delle pregiudiziali sbaglierebbe. Un discorso che il premier farà prima di lanciare un appello di coesione a tutte le forze politiche che servirà a dare ai mercati e all’Europa due segnali: che si farà presto e con un’ampia maggioranza, con una figura di garanzia per tutti. Il Pd è già scosso da tensioni, la Bindi dice che «si deve cercare la persona più autorevole e nessuno pensi di proporre un nome funzionale ad un disegno di parte del governo. L’unità del partito è fondamentale, l’altra volta la vicenda fu gestita in modo irresponsabile, nessuno parlava con nessuno». E saranno in molti a chiedere al leader di avviare una fase istruttoria a prescindere dai patti del Nazareno.
Ma Renzi sa che il grosso della minoranza lo seguirà. Proprio ieri una settantina di deputati della corrente Area Riformista sono stati convocati alla Camera da Speranza per far capire a quei trenta che non hanno votato il jobs act che se vogliono giocare allo sfascio possono andarsene dietro a Civati.

Corriere 30.11.14
Scelta casuale di un presidente
di Angelo Panebianco


Con l’intervista di Silvio Berlusconi a Francesco Verderami apparsa ieri sul Corriere , l’agenda politica italiana è cambiata: si è aperta ufficialmente la campagna per il Quirinale. C’è la possibilità che le riforme (legge elettorale, riforma del Senato) vengano congelate in attesa che quella vicenda si concluda. Non sappiamo come reagirà il presidente Napolitano alla mossa di Berlusconi né se ciò influenzerà, e come, le sue decisioni. Sappiamo però che, per certi versi, è un bene che la campagna per il Quirinale sia di colpo diventata aperta e ufficiale. Per troppo tempo, troppi mesi, la politica romana se ne è occupata di continuo ma in modo nascosto, clandestino.
Il Paese, in questa partita, corre gravi rischi. C’è la possibilità che, intorno a quella che è di gran lunga la scelta più importante per il futuro a breve e medio termine della Repubblica, si scatenino gli umori peggiori che circolano entro la classe politica, i tanti rancori e i tanti desideri di rivincita, gli istinti più bassi. Tutti quelli che hanno conti da regolare cercheranno di usare questo cruciale appuntamento per consumare le proprie vendette e indebolire i propri avversari. Con il rischio che, alla fine, esca fuori un presidente selezionato dal caso, anziché scelto con ponderazione e intelligenza, un presidente privo delle qualità — che non si possono improvvisare — necessarie al ruolo. C’è la seria possibilità che si assista (ma in una partita molto più importante) alla riproposizione di quanto è accaduto in Parlamento in occasione dell’elezione dei giudici della Corte costituzionale: continue manovre volte a bruciare i candidati, con lo scopo di impallinarne gli sponsor politici, senza alcun riguardo per la posta istituzionale in gioco. Soprattutto, potrebbe andare in scena una replica, addirittura peggiorata, della brutta vicenda di due anni fa, quando, a causa dell’incapacità dei partiti di gestire quell’appuntamento, l’allora presidente uscente, Giorgio Napolitano, fu costretto dalle circostanze, e dalla richiesta dei partiti, a rimanere al Quirinale .
Tre fattori, combinandosi, fanno dell’elezione del presidente della Repubblica una specie di roulette russa in cui è molto più facile bruciare, uno dopo l’altro, i candidati di prestigio piuttosto che ottenere il risultato, ossia «fare» un presidente: un’elezione a scrutinio segreto (di per sé utilizzabile, e da sempre utilizzata, per imboscate e sgambetti) va a combinarsi con una divisione «tripolare» del Parlamento — sinistra/destra/Cinquestelle — e, soprattutto, con le forti divisioni interne al Pd e a Forza Italia.
Più che un rischio è una certezza: l’elezione del presidente della Repubblica verrà usata dagli avversari interni di partito, di Renzi e di Berlusconi, contro i rispettivi leader: si tenterà di affondare i loro candidati allo scopo di colpirli. Il rischio è quello di una logorante impasse istituzionale destinata a durare settimane e che alla fine potrebbe essere superata nel modo peggiore, estraendo dal cappello il nome di un candidato a caso.
Molto al di là di ciò che la Costituzione scritta prescrive, il presidente della Repubblica è diventato da molti anni, nel nostro sistema politico, l’unico vero punto fermo, l’unico vero fattore di «stabilizzazione» della Repubblica. Lo è diventato senza che ciò sia stato voluto da alcuno, semplicemente a causa della debolezza, della fragilità, delle divisioni della classe politica parlamentare. Si pensi al ruolo che hanno svolto uomini come Ciampi e Napolitano. Hanno dato in molte occasioni stabilità a un Repubblica che rischiava di andare allo sbando, hanno rappresentato al meglio il Paese nelle sedi internazionali rassicurando, grazie al proprio personale prestigio, anche coloro che ne dubitavano, sulla serietà dei nostri impegni, hanno gestito con accortezza certi momenti istituzionalmente difficili della nostra vita pubblica. Che cosa sarebbe accaduto al Paese se, in uno di quei momenti, il Quirinale fosse stato occupato da una persona non all’altezza del ruolo per capacità ed esperienza?
Come tutelarsi? Una possibilità forse è questa: anziché stringere un patto intorno a un singolo nome (con la quasi certezza di mettere in moto le dinamiche sopra descritte), Renzi e Berlusconi dovrebbero accordarsi, in modo trasparente, su una rosa di candidati, tutti dotati, almeno sulla carta, delle qualità necessarie a un buon presidente. Dovrebbero poi sottoporre quella rosa di nomi alle rispettive fazioni dissidenti costringendole a un’assunzione pubblica di responsabilità. Per evitare che l’elezione del presidente si trasformi in un referendum pro o contro Renzi (e, in subordine, pro o contro Berlusconi). Facendo correre alla Repubblica il pericolo di ritrovarsi con un presidente inadeguato.

Corriere 30.11.14
Roberto Speranza, capogruppo del Pd alla Camera
«Troppe cicatrici dopo il caso Prodi. Ora saremo uniti»
di Alessandro Trocino


ROMA «Ognuno di noi ha sulla pelle le cicatrici del passaggio di un anno e mezzo fa e siamo consapevoli che non possiamo permetterci di ripetere quell’esperienza». Roberto Speranza, capogruppo del Pd alla Camera, allude alla vicenda dei 101 franchi tiratori che portarono all’impallinamento di Romano Prodi al Colle. Ora si torna a parlare del Quirinale, anche dopo l’intervista di Silvio Berlusconi, ieri sul Corriere della Sera .
Berlusconi dice: prima il Colle, poi le riforme. In sostanza: mettiamoci d’accordo sul successore di Giorgio Napolitano, altrimenti il patto del Nazareno rischia.
«Penso che sia un errore molto grave mettere in collegamento due questioni così diverse. Credo che né Berlusconi né altri possano avere poteri di veto rispetto a un percorso ineludibile, quello delle riforme che deve andare avanti».
E se venisse meno l’apporto di Forza Italia?
«Noi abbiamo provato a costruire convergenze con tutte le forze politiche. Resta un peccato e un’occasione perduta che i 5 Stelle abbiano deciso di non stare nel merito della discussione. Il mio auspicio è che Forza Italia porti a termine gli impegni assunti. Ma è un auspicio che non può tradursi in poteri di ricatto. La maggioranza ha i numeri in Parlamento: noi pensiamo che sia più corretto coinvolgere tutti nella riscrittura di riforme parlamentari ma sia chiaro che Forza Italia non ha l’ultima parola e non ha il diritto di bloccare le riforme».
Sul Quirinale Berlusconi dice no a candidati «di partito» e sì a Giuliano Amato.
«La discussione mi sembra prematura, molto sbagliata nei tempi. Il presidente della Repubblica è la prima carica dello Stato e quando, io spero il più tardi possibile, ci troveremo di fronte alla necessità di un nuovo presidente, apriremo la discussione».
Il Pd sarà compatto o teme nuovi agguati?
«Sono convinto che lavoreremo tutti per costruire il massimo di condivisione interna».

il Fatto 30.11.14
Contorsioni a sinistra
D’Alema è sempre più intelligente di te
di Gio. Me.


Massimo D’Alema conferma la vocazione samaritana di soccorrere l'avversario in difficoltà. Lo ha fatto con B. in ogni momento critico, e adesso si ripete (forse inconsciamente) con il suo rottamatore. Matteo Renzi fronteggia la rivolta sociale contro la sua deriva liberista e filo-padronale, e lui, con solenne intervista al Corriere della Sera, gli impartisce una lezioncina così saccente che anche il più esagitato militante della Fiom potrebbe provare un moto di simpatia per il carnefice dei suoi diritti. Per D'Alema la ricetta liberista è vecchia di vent'anni e superata. È tempo di riscoprire lo Stato. La prova? “Fu la sinistra al governo che ridusse drasticamente la presenza statale nell'economia (…) e liberalizzò il mercato del lavoro, per certi aspetti perfino troppo, visto che si produssero forme contrattuali che poi sfociarono in una eccessiva precarizzazione”. Per la cronaca, la sinistra al governo era la sua e tutto quello che propone Renzi l'ha già fatto lui e male. Ma D'Alema ha sempre ragione. Quando fa le fesserie e spiega che sei tu che non capisci la genialata. E quando ti rivela da vecchio che erano fesserie e solo lui lo sapeva.

il Fatto 30.11.14
Impossibile votare: la legge elettorale che non c’è
di Wanda Marra


IL CONSULTELLUM, USCITO DALLA SENTENZA DELLA CORTE, NON È PRONTO ALL’USO: MANCANO LE PREFERENZE. E METTERCI LE MANI NON SARÀ PER NULLA FACILE

Se domani mattina si dovesse andare a votare, non si potrebbe fare. Perché una legge elettorale “tecnicamente” non esiste. È praticamente un anno (la sentenza della Corte Costituzionale che bocciò il Porcellum è del 3 dicembre 2013) che la politica e tutto quello che ci gira attorno, ragiona sul fatto che se anche il Parlamento non trovasse un accordo sul nuovo sistema di voto, sarebbe in vigore quello uscito dalla Consulta. Appunto, il Consultellum. Ma non è così vero. Nella sentenza pubblicata il 13 gennaio 2014, per quanto riguarda le preferenze, si legge: “Eventuali apparenti inconvenienti possono essere risolti mediante l’impiego degli ordinari criteri d’interpretazione o rimossi anche mediante interventi normativi secondari, meramente tecnici ed applicativi (...) ”, “in linea con quanto risulta dal referendum del 1991”. Ovvero introducendo la preferenza unica. Cosa che non è così automatica. Con quale strumento si dovrebbe fare? Un regolamento, un decreto, una leggina? Dibattito aperto, problemi garantiti. E poi, la preferenza unica apre ad altre questioni. Tipo: e la parità di genere?
CAVILLI, ostacoli, atti normativi da compiere che mettono l’accento su un vuoto piuttosto inquietante. In un Paese in cui il presidente della Repubblica è quasi dimissionario, il Parlamento semi-commissariato, i partiti in disfacimento e il governo sulla strada della palude, pure votare per ora non si può. E l’Italicum al momento è praticamente impantanato in Senato, con un accordo politico che non c’è. E discussioni infinite di costituzionalisti che discettano se si potrebbe eventualmente votare a Montecitorio con l’Italicum promesso e al Senato con il Consultellum (come affermano da Palazzo Chigi). O se serve una clausola di salvaguardia, secondo la quale, invece, il nuovo sistema di voto entrerebbe in vigore solo a Palazzo Madama abolito. O ancora, se si deve fare una norma transitoria per estendere l’Italicum fino alla Camera Alta, finché dura.
Roba da far girare la testa. Anche perché tutti tirano l’acqua al proprio mulino. Politico. L’Italicum ormai lo vuole solo Renzi, il Consultellum, in fondo, va bene a tutti gli altri. Si avrebbe la rivincita dei piccoli. E non solo. “Quanto vale il simbolo del Pci se lo ripresentiamo? ”, ci si interroga in questi giorni tra i sospetti scissionisti della minoranza dem.
E qui, si torna al punto. Perché il Consultellum non è pronto all’uso. Tra i renziani la convinzione diffusa è che basti un regolamento. Ma diceva ieri Roberto Calderoli a Repubblica: “Le preferenze? Dicono: si inseriscono con un regolamento. Ma se vengono introdotte per via secondaria, si può ricorrere al Tar o al Consiglio di Stato. Che magari emana una sospensiva della legge a elezioni avvenute.... ”.
AVVERTE il costituzionalista, Stefano Ceccanti: “Si tratta di motivazioni strumentali. Perché quello del governo sarebbe un passaggio dovuto, stabilito dalla Corte”. Ma il tema c’è. Roberto Giachetti (Pd), il vice presidente della Camera, nonché il principale sponsor del ritorno al voto anche subito, la mette così: “La discussione è in corso. C’è pure chi contesta che ci vuole la doppia preferenza di genere. E le preferenze nel Consultellum si possono introdurre o ex novo con una modifica legislativa, o attraverso un semplice regolamento, o ancora dando mandato al ministero dell’Interno”. Insomma, si parla di un decreto ministeriale, o un decreto delegato. Giachetti insiste: “Il punto principale, però, è che non può esistere un Paese in cui non si può andare a votare”. Non potrebbe esistere, ma il fatto che ci si debba comunque impelagare in discussioni, interpretazioni, accordi, significa che però esiste. Sullo sfondo di questo scenario, resta il fatto che Renzi sa che con il Consultellum rischierebbe ancora la palude. Ieri, il presidente del Consiglio, che non molla la linea, ha detto: “Gli imprenditori sono gli eroi del nostro tempo”. La Camus-so insorge: “Rispetto per i lavoratori”. Guerra infinita.

La Stampa 30.11.14
Grillo va a casa, Cinque stelle nel caos
di Francesco Maesano

qui

il Fatto 30.11.14
Madri biologiche, addio all’anonimato
Alla Camera la legge che riconosce ai figli partoriti in segreto il diritto di conoscere l’identità di chi li ha generati
di Ferruccio Sansa e Lorenzo Tosa


Anna ha 48 anni e non ha mai conosciuto la propria madre biologica. Aveva solo tre mesi quando i suoi genitori adottivi l’hanno incontrata per la prima volta, in una culla dell’Ipim di Torino. Da allora quella è stata la sua famiglia. “L’unica che conosco, quella vera”. Poi arriva l’adolescenza e qualcosa nella testa di Anna (il nome è di fantasia) si rompe. “Volevo sapere chi mi ha messo al mondo e perché ha scelto di non tenermi con sé”. Per lei comincia un viaggio doloroso e necessario sulle tracce del suo passato. Torna dove tutto è cominciato, all’Istituto per l’infanzia: il luogo dove nascono i bambini di nessuno. Ascolta le storie di ostetriche, neonatologi, assistenti sociali. E, a poco a poco, la rabbia nei confronti della madre si tramuta in riconoscenza. Per il coraggio di non abortire. Per la scelta di partorire in ospedale, in piena sicurezza. Per la consapevolezza di non poterla crescere e la decisione – difficilissima – di sparire per sempre. “Se sono nata – dice Anna – è perché esiste una legge che garantisce il diritto alla segretezza del parto”.
In base a questa norma, lo Stato garantisce le cure di un parto ospedaliero anche a una donna che scelga di non riconoscere il bambino e le consente di rimanere anonima per 100 anni. La madre biologica di Anna è solo una delle 90.000 donne che, dal 1950 ad oggi, si sono avvalse di questo diritto. O, almeno, è stato così sino al dicembre 2013, quando una sentenza della Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il Testo Unico sulla Privacy del 2003, poiché – si legge nelle motivazioni – “non prevede la possibilità per il giudice di interpellare la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, (…) su richiesta del figlio, ai fini di un’eventuale revoca di tale dichiarazione”. Tradotto: non riconosce il diritto dei figli di conoscere le proprie origini.
IL PROVVEDIMENTO obbliga, dunque, a rivedere il decreto legislativo 196, la cui proposta di emendamento sarà presentata domani alla Camera. Dalle cinque bozze di modifica discusse in questi mesi in Commissione Giustizia è stato ricavato un testo unificato che ha raccolto consensi a destra e a sinistra e va al di là della pronuncia della Corte perché riconosce il diritto del figlio a sapere anche quando la madre vuol rimanere anonima.
Ma c’è chi ha manifestato preoccupazione per una proposta che rischia di cancellare oltre 60 anni di diritti civili acquisiti, riportando le lancette dell’orologio al primo dopoguerra. A lanciare l’allarme è l’Anfaa (Associazione delle famiglie adottive e affidatarie), attraverso le parole della consigliera nazionale Frida Tonizzo. “La legge sulla segretezza del parto è una delle misure evolutive nate per contrastare gli abbandoni e salvaguardare la vita del neonato – spiega la Tonizzo –. Lo Stato non può tradire l’impegno assunto nei confronti di queste donne, approvando provvedimenti che, avendo effetto retroattivo, violerebbero il diritto all’anonimato in precedenza assicurato. Se questo testo dovesse essere approvato, rischierebbe di avere conseguenze gravi e irreversibili sulla vita delle madri biologiche, o sarebbe più corretto definire genitrici”.
IL PENSIERO della Tonizzo va, ad esempio, alle donne musulmane che rischiano la condanna a morte, nel caso fosse rivelata l’esistenza di figli al di fuori del matrimonio. O alle pesanti ripercussioni psicologiche su tante donne italiane e sui loro familiari, in molti casi all’oscuro della verità. Non solo. “Se passa un simile principio, in quante per paura decideranno di non rivolgersi all’ospedale, scegliendo l’aborto preventivo o, peggio ancora, abbandonando il nascituro in un cassonetto? ”.
Secondo l’Anfaa, un compromesso possibile è nella bozza di emendamento di Anna Rosso-mando (Pd). La proposta, poi bocciata in commissione Giustizia, prevedeva che, una volta giunta la richiesta, spettasse alla donna la facoltà di decidere se incontrare o meno il proprio nato. “I veri abbandonati, al momento della nascita, non sono i bambini, ma le madri” racconta Anna, che alla fine ha deciso di non sapere e di mantenere intatto quel silenzio durato 48 anni, anche se la ferita brucia e fa male. Da domani, per altre migliaia di donne, il destino potrebbe essere molto diverso. E dagli esiti imprevedibili.

Corriere 30.11.14
Il prezzo del petrolio va a picco, ma la benzina cala a passo di lumaca
Il folle andamento dei prezzi e i cittadini vengono usati come bancomat
Sul banco degli imputati le compagnie petrolifere, lo Stato e i gestori
di Stefano Agnoli

qui

Corriere 30.11.14
Il record dei siti Unesco che la Sicilia può perdere
Il presidente del comitato che promuove i luoghi storici «L’isola non gestisce il suo patrimonio e non investe»
di Gian Antonio Stella


Hanno ragione quanti brindano alla decisione dell’Unesco di riconoscere lo zibibbo come settimo patrimonio dell’umanità siciliano. Prosit! A vedere come usiamo questi tesori, però, c’è da bere la cicuta. Tanto che lo stesso organismo parigino manda a dire: avanti così, e qualche riconoscimento verrà revocato. Ne abbiamo già 50, di «bollini» Unesco. Con la consacrazione ufficiale della vite ad alberello di Pantelleria, la prima «pratica agricola» ad avere il premio, saranno 51. Nessuno ne ha quanti noi. Nessuno: ne ha 38 la Francia, 39 la Germania, 43 la Spagna, 46 la Cina e lassù in vetta, noi.
Sono tantissime, le nostre ricchezze riconosciute come patrimonio universale. Il solo Mezzogiorno sale oggi a 18. Uno in più della Persia dalla storia millenaria o della Grecia, la nazione «madre» europea. Il doppio di Israele o dell’Argentina. Solo tre in meno degli Stati Uniti. La sola Sicilia, con 7 «sigilli», si colloca davanti ai Paesi dal grandioso passato come la Siria o il Siam.
Eppure mancano i riconoscimenti a Palermo, Segesta, Selinunte, Erice o Mozia e la riserva dello Stagnone. Per non dire di Taormina, amatissima da Maupassant («Se qualcuno dovesse passare un solo giorno in Sicilia e chiedesse: “Cosa devo vedere?” risponderei senza esitazione: “Taormina”») ma presa d’assalto con tale prepotenza dai cementieri da rischiare d’essere forse irrimediabilmente tagliata fuori.
Ed è proprio questo che fa arrabbiare: lo spreco di un patrimonio immenso, arricchito da piatti e vini di eccellenza. Spreco turistico, innanzitutto, se è vero come dice l’Enit che l’isola nel 2012 ha avuto poco più di 6 milioni di presenze straniere contro gli 8 milioni della Campania, i 9 e mezzo dell’Emilia-Romagna, i 19 della Lombardia, i 20 del Lazio, i 22 della Toscana, i quasi 26 del Trentino Alto Adige e gli oltre 40 milioni del Veneto. Un disastro, confermato nel 2013 dalla quota di soldi lasciati dai viaggiatori stranieri: 1.100 milioni di euro. Un trentesimo dell’incasso complessivo italiano. Un trentesimo!
Come mai? Trasporti pessimi, infrastrutture scadenti, alberghi spesso indecorosi o al contrario splendidi ma carissimi, musei e siti archeologici troppo spesso chiusi al sabato e la domenica a causa di un balordo accordo sindacale sulle festività, incapacità di far fronte al nuovo mercato turistico incentrato in larga parte sul web. Pochi dati: stando a uno studio della Fondazione Res, la visibilità dei siti museali siciliani è per il 26% accettabile o buona, per il 16 scarsa, per il 24 minima, per oltre il 33% inesistente: «Invisibilità totale». L’abbiamo già scritto ma val la pena di ripeterlo: perfino il portale web del turismo regionale, a dispetto di tutti i bla-bla-bla sempre più stucchevoli, è solo in italiano e in inglese. Quello delle Baleari è in sei lingue. E le isole spagnole fanno undici volte più turisti e quattordici volte più voli charter.
Detto questo (chi è causa del suo mal pianga se stesso...) lo spreco maggiore resta quello archeologico, artistico, paesaggistico. Di ricchezze che dovremmo custodire con amore. «A me sembra che la Sicilia stia facendo di tutto per perdere i riconoscimenti Unesco da noi concessi in questi anni», ha spiegato furente a Isabella Di Bartolo de La Sicilia il maltese Raymond Bondin, presidente onorario del Comitato delle città e dei villaggi storici Unesco dopo esser stato commissario dell’organismo internazionale che sceglie i beni da tutelare della World Heritage List nonché tra i promotori dei «sigilli» dati all’isola.
L’accusa è pesante: «Non capisco in tutta sincerità come i politici siciliani non riescano a gestire il patrimonio dell’Isola in maniera corretta. Anzi, non lo gestiscono affatto. Da tempo». Insomma: «La Regione non riesce neanche a spendere i pochi finanziamenti che arrivano». Un esempio? La Necropoli rupestre di Pantalica, «patrimonio dell’umanità» con Siracusa dal 2005. Nove anni dopo, denuncia il dirigente Unesco, manca un piano di gestione «nonostante questo sia la prima condizione per il mantenimento del riconoscimento. E adesso che la Regione ha ottenuto un milione di euro per la promozione del sito non si riesce a spendere questa somma perché manca il personale per aprire le buste degli appalti. Ma stiamo scherzando?».
In Regione, va da sé, spiegano che no, per carità, l’iter era lungo, occorrevano le necessarie verifiche, ormai ci siamo... Fatto sta che le parole di Raymond Bondin sono scoppiate con tritolo tra quanti amano la Sicilia e arrossiscono di vergogna davanti a queste imputazioni: «Nel mondo intero, non esiste alcun posto con così tanti tesori come la Sicilia. Non esiste un altro luogo con una concentrazione così densa di meraviglie — sospira Bondin —. Eppure, dopo tanti discorsi, continue nomine di assessori regionali, soprintendenti et similia, siamo all’anno zero. L’amara realtà è che la Sicilia non è capace di gestire l’immensa fortuna che ha».
Lo sconcerto, che dovrebbe portare in tempi brevi a una ispezione degli esperti per un monitoraggio dei vari siti, riguarda in primo luogo il teatro di Siracusa: «Non è possibile che un monumento di così immenso valore per la storia possa essere stato dimenticato». Considerato come il più bello e importante di tutti i «fratelli» greci, il teatro sul colle Temenite è in questi giorni al centro di una dura polemica sul tema delle responsabilità per i ritardi di un restauro deciso dall’allora soprintendente Mariella Muti nel lontano 2006 perché già allora erano evidenti molte «criticità». Da allora ad oggi, però, tutti i tentativi di avere dei finanziamenti sono andati a vuoto. Per colpa di chi? Della Regione? Delle procedure burocratiche? Delle leggi e leggine sugli appalti così farraginose da esporre ogni commessa ai ricorsi davanti al Tar? Certo è che il panorama è sconfortante. Nel novembre del 2011 Legambiente pubblicò un dossier che denunciava con parole allarmate lo stato di quelli che dovrebbero essere i tesori dell’isola. Si intitolava «Unesco alla siciliana» e Gianfranco Zanna scriveva: «È inutile nasconderlo, prende davvero lo sconforto davanti a tanta desolazione, degrado, disattenzione, incuria...». Tre anni dopo, nulla o quasi nulla è stato fatto. Cin cin. Ma speriamo che lo zibibbo venga trattato meglio...

La Stampa 30.11.14
Mubarak prosciolto, fine della Primavera
Cade l’accusa per le stragi del 2011, mentre i suoi oppositori sono in carcere e il rivale Morsi rischia la pena di morte
La sentenza di ieri riabilita il Faraone e consolida il potere dell’erede Al Sisi
Chiusa la stagione delle rivoluzioni?
di Maurizio Molinari


«Non colpevoli, non dovevano essere processati»: leggendo questo verdetto nei confronti di Hosni Mubarak, del suo ex ministro dell’Interno Habib El-Adly e dei suoi ex collaboratori, inclusi i figli Alaa e Gamal, il giudice cairota Mahmoud Kamel al-Rashidi sancisce la sconfitta del movimento di rivolta che rovesciò il raiss nel 2011 e suggella la stagione della controrivoluzione del presidente Abdel Fattah al Sisi.
Detenuto dall’aprile del 2011, Mubarak era sotto processo con gli altri imputati per l’uccisione di 239 dei quasi 900 dimostranti caduti sotto i colpi dei militari nei 18 giorni di rivolta.
Condannato all’ergastolo nel 2012 con una sentenza poi annullata, ora Mubarak viene assolto da un verdetto di 1340 pagine perché il tribunale del Quinto Distretto, riunito nell’Accademia di polizia, ritiene che «le prove non sono sufficienti», aggiungendo che «sarà giudicato dalla Storia e da Dio». Mubarak, 86 anni, i figli e l’imprenditore Hussein Salem sono assolti anche dalle accuse di «corruzione» nella vendita di gas naturale ad Israele.
Le grida di gioia dei sostenitori dell’ex Raiss nell’aula, i sorrisi di Mubarak e degli altri imputati riassumono il significato di un’assoluzione che sancisce il capovolgimento politico rispetto alla rivoluzione del 2011: il Presidente autoritario deposto viene di fatto riabilitato mentre nelle prigioni egiziane vi sono migliaia di suoi oppositori. Mubarak e i figli non tornano subito in libertà perché devono finire di scontare tre anni di detenzione per corruzione e manomissione del bilancio, ma la scelta dell’esercito di schierarsi con cinquemila uomini nel centro della capitale - inclusa Piazza Tahrir - svela la consapevolezza della svolta e il timore di proteste.
Il commento dell’ex Faraone è lapidario: «Non ho fatto nulla di male. Ma se i suoi sostenitori ritmano il canto «Dite la verità, non abbiate paura, Mubarak è innocente» i parenti delle vittime della rivoluzione si rispecchiano nel commento di Mostafa Morsi: «Mio figlio è morto invano». L’avvocato dei parenti Ahmed Abed Aljuwad prevede «conseguenze negative perché non ci sono responsabili per le 239 vittime». Hala Shukrallah, leader del partito della Costituzione all’opposizione, parla di un «vecchio ordine che torna in sella, la nostra rivoluzione cancellata e l’Egitto rispedito nel passato». È un’opinione che coincide con la rabbia di Amr Darrag, volto di spicco dei Fratelli Musulmani ed ex ministro del presidente Mohammed Morsi rovesciato nel 2013: «Nessun processo può svolgersi regolarmente sotto questo regime». La reazione dei sostenitori di Al Sisi è di non dare eccessivo valore alla sentenza. «Gli egiziani sono più preoccupati del futuro anziché del passato» afferma Salah Hasaballah, vicepresidente del partito della Conferenza pro-Al Sisi, aggiungendo: «Mubarak ha dato molto all’Egitto ma, dopo due rivoluzioni e un nuovo Presidente, guardiamo avanti».
È un basso profilo che descrive la controrivoluzione egiziana. Al Sisi si è circondato di ex ministri e collaboratori di Mubarak, è protagonista dello stesso pugno di ferro contro i Fratelli Musulmani del predecessore, ha progetti economici faraonici - dalle città nel deserto al raddoppio del Canale di Suez - ed è affiancato da tribunali speciali mai così attivi, presentando il tutto come «la costruzione di un futuro migliore». L’intento è rigenerare il vecchio sistema di potere per fare dell’Egitto un argine contro i movimenti islamici nel mondo arabo, per riportare stabilità nell’intera regione. Per questo l’ex presidente Morsi, incarcerato per tradimento, rischia una sentenza assai diversa da Mubarak. Come spiega un generale che fu compagno di accademia di Al Sisi: «Ciò che lo distingue è la convinzione che i soldati sono migliori musulmani degli imam».

La Stampa 30.11.14
“La dittatura è tornata ma unirsi agli islamisti sarebbe ancora peggio”
L’attivista Raouf: nel 2011 abbiamo solo scalfito il regime
di Francesca Paci


Come si sente un egiziano di 37 anni che pur lavorando alla grande nel business non ha mancato una delle tappe rivoluzionarie segnate al Cairo dal 2011 a oggi? Alfred Raouf ricorda periodi migliori: era a Tahrir nei 18 giorni che liquidarono Mubarak, al palazzo presidenziale di Heliopolis a fine 2012 contro il giogo dei Fratelli Musulmani, alla testa di uno dei cortei oceanici del 30 giugno 2013 sfociati nella cacciata di Morsi e ancora in piazza, nei mesi scorsi, per la libertà degli attivisti arrestati nel frattempo dal neo regime.
Il proscioglimento di Mubarak vi riporta al 2010?
«La dittatura era già ricomparsa. Il verdetto non è un indicatore del ritorno al passato, non più dell’arresto degli attivisti e del controllo totale riaffermato dal regime su giornali e tv. Oggi qui ti puoi esprimere liberamente solo online».
Col senno di poi, la deposizione di Morsi è stata un golpe?
«Per me no, in strada eravamo milioni. Potendo cambiare eviterei gli errori che hanno ridotto gli attivisti all’afasia, non abbiamo saputo gestire il post 25 gennaio 2011 né il post 3 luglio 2013. Ma tornerei in piazza contro Mubarak e contro Morsi».
Se Mubarak è innocente chi è colpevole, la rivoluzione?
«Con Mubarak sono stati prosciolti il ministro dell’interno e i suoi assistenti. Chi ha ucciso allora i dimostranti? Abbiamo 2,5 megabite di video in cui la polizia spara. Il punto è un altro. Molti dei ragazzi di Tahrir che ora tifano Sisi sono furiosi: questo verdetto indigna tutti. C’è chi ipotizza che pure il governo mugugni e che i giudici, vero organo dell’ancien regime, agiscano di testa propria. Mah. Di certo oggi il paese è meno stabile».
Sei andato a Tahrir ieri?
«Perchè, dovevo? C’era poca gente, urlare a vuoto è inutile».
Vedremo un’altra rivoluzione?
«C’è fuoco sotto la cenere. Nessuno è contento. La politica va male e l’economia peggio. Credo però che una seconda rivoluzione sarebbe un disastro, noi attivisti non siamo pronti, il paese finirebbe in una situazione libica. Non voglio questo regime ma temo che se Sisi fallisce nel risanare l’economia lo Stato Islamico dilagherà ovunque».
Il Califfato è frutto del 2011?
«Il virus era già lì e dovremmo farci i conti comunque. Per questo dico che oggi gli islamisti trovano un freno in Egitto e in Libia: se si sentissero vincenti anche qui dilagherebbero».
Alle strette, meglio il fascismo militare di quello religioso?
«Con i Fratelli Musulmani non sarebbe solo fascismo religioso ma militar-religioso, tipo Sudan. Hanno provato a controllare polizia, giudici, servizi».
Invidioso della Tunisia?
«Temo che sia pur meno palesemente anche loro siano intrappolati nella dialettica bloccata vecchio regime/islamisti. Alla fine è tra questi due poli che votano il presidente. Hanno una buona Costituzione ma anche noi, tranne i tribunali militari. Il problema è applicarla».
La rivoluzione è fallita?
«Abbiamo fallito nel rimuove il regime profondo limitandoci a scalfirne la patina. Ma le rivoluzioni impiegano tempo, guardate quella arancione in Ucraina. Dubito che staremo meglio tra un anno, magari tra 5 sì. Oggi i Fratelli Musulmani tornano a chiederci di unire le forze, io dico mai: a meno che non ammettano di averci ingannato e chiariscano che Stato vorrebbero se il regime cadesse di nuovo».


Corriere 30.11.14
Raffaello incantato
Con la Madonna Esterhàzy la svolta del pittore che rivestì di gloria il papato
di Francesca Bonazzoli

Il viaggio che nel corso dei secoli ha portato da Roma a Budapest la piccola tavola della cosiddetta Madonna Esterházy prese avvio per volontà di Clemente XI, all’inizio del Settecento. Chi, se non un papa, poteva permettersi di donare un quadro di Raffaello come gentile omaggio all’imperatrice Elisabetta? Il genio di Urbino è stato infatti, assieme a Michelangelo, il pittore per eccellenza dei papi che ne detenevano quasi l’esclusiva del lavoro.
Ma mentre lo scontroso pittore della Sistina servì suo malgrado ben nove pontefici, detestandoli tutti e con essi il potere temporale della Chiesa; Raffaello, pur lavorando solo per due di essi perché morto precocemente, conferì la forma visiva per eccellenza al programma politico e culturale del papato che poneva in continuità l’Impero con la Chiesa; il mito pagano con la fede cristiana.
Legame affermato in modo sublime fin dalla prima delle Stanze affrescate in Vaticano, con la Disputa del Sacramento che fronteggia la Scuola di Atene . A chiamare l’urbinate a Roma nel 1508 era stato Giulio II in persona che aveva già al suo servizio Bramante e Michelangelo. Diventato papa grazie a un’efficace campagna di acquisto dei voti, Giuliano della Rovere scelse il nome del primo Cesare di Roma e diede subito avvio al suo progetto di imperialismo cattolico attraverso continue guerre ponendosi spesso alla testa dell’esercito.
Come quando entrò a Bologna armato di spada, con le vesti purpuree degli imperatori, gettando monete al popolo che lo sentì gridare minaccioso: «Vederò, si averò sì grossi li coglioni come li ha il re di Franza!». La propaganda protestante lo dipingeva come «Il papa in armatura» e Francesco Guicciardini scriveva che «non riteneva di pontefici altro che l’abito e il nome».
Non fu quindi per la grazia del disegno che un simile uomo scelse il giovane urbinate, né per la profondità del suo sapere. Raffaello fu scelto perché la sua giovinezza era come una spugna; possedeva un’incredibile capacità di assorbire gli stimoli, di intuire i cambiamenti e di dargli forma. Trasferendosi da Firenze a Roma diventò lo strumento di un ambizioso progetto di ritorno alla grandezza imperiale passando con estrema naturalezza «da un’estasi graziosa, tenera e devota, allo stile eroico», come ha scritto Henri Focillon.
La Madonna Esterházy è ancora il frutto garbato della sua «prima vita» passata fra Urbino, Perugia e Firenze, dipingendo piccoli quadri da stanza o pale d’altare per privati. Nel disegno preparatorio conservato agli Uffizi, non compare ancora il paesaggio delle rovine del Foro e questo fa pensare che la tavola fu dipinta all’arrivo a Roma nel 1508 e poi mai terminata.
L’aggiunta dei ruderi rivela come subito Raffaello trovò nell’antichità la sua casa naturale amplificando la maniera dolce verso un respiro monumentale. «Mai l’Occidente si era avvicinato tanto alle sue origini elleniche. Raffaello sembra avere quel retaggio secolare nel cuore e custodirne dentro di sé tutto lo sviluppo, da Fidia fino all’alessandrinismo», ha scritto Focillon.
Inevitabilmente, dunque, la sua fortuna presso i papi continuò anche col successore di Giulio II: Giovanni de’ Medici, il figlio del Magnifico Lorenzo, che aveva fama di letterato ed era stato discepolo del Poliziano e del Ficino. Non ancora quarantenne, disinteressato alle guerre, Leone X fece subito capire come sarebbe stato il suo stile: «Godiamoci il papato, poiché Dio ce l’ha dato».
Si dedicò alle cacce, alle feste, alla vendita di ogni beneficio e ufficio ecclesiastico, al lusso dell’arte. Nemmeno una sfrenata simonia gli bastò per soddisfare i costosi capricci e alla sua morte le casse del papato erano così prosciugate che non si trovarono nemmeno i soldi per pagare il funerale. «Se ‘l viver ancor gli era concesso / vendeva Roma, Cristo e poi se stesso», sentenziò la voce anonima di Pasquino.
In quegli anni di guerre e sovvertimenti, Raffaello, come se vivesse in una bolla d’aria diversa da quella che Michelangelo considerava invece tossica, interpretò i fasti della Chiesa e del paganesimo antico, i due grandi sistemi di pensiero della civiltà mediterranea, come un unico possente compendio.
E forse proprio perché occupato in un’impresa così vasta e virile, il papato non si accorse che intanto il tritolo della Riforma protestante stava per far saltare in aria quella sublime e mai più tentata sintesi.

Corriere 30.11.14
Quel gioco di relazioni rivela l’eredità leonardesca
di Chiara Vanzetto


Il quadro a confronto con i dipinti di Melzi e Boltraffio L’ha portata il vento dell’Est, star dell’arte a Milano durante il Natale: è la Madonna Esterházy , preziosa tavoletta dipinta da Raffaello Sanzio agli inizi del XVI secolo, in prestito alla nostra città dal Museo delle Belle Arti di Budapest. Come da consolidata tradizione, sotto l’albero arriva un dono: l’esposizione gratuita di un capolavoro «ospite» in Sala Alessi a Palazzo Marino. Appuntamento di grande richiamo, a cui il Comune di Milano non ha voluto rinunciare anche se ci sono novità.
Intanto un avvicendamento di sponsor, che vede a fianco del Comune Intesa San Paolo e La Rinascente. Ma anche una nuova prospettiva, come spiega il curatore Stefano Zuffi: «Non solo un focus sull’opera-simbolo, ma anche la ricerca del suo legame con il patrimonio artistico milanese». Legame trovato nelle radici leonardesche della Madonnina di Raffaello, accostata così a due pezzi eccellenti: la Madonna della Rosa di Giovanni Antonio Boltraffio del Museo Poldi Pezzoli e la copia coeva della Vergine delle Rocce di Leonardo, attribuita al suo allievo Francesco Melzi, dall’Istituto Orsoline di via Lanzone.
Entrambe una scoperta: la prima, isolata dal contesto museale, svela una fattura squisita, la seconda è praticamente un inedito, poco conosciuta ai milanesi stessi. «La tela di Melzi ha funzione introduttiva: richiama i prototipi vinciani che Raffaello rielabora. La tavola di Boltraffio invece è a confronto diretto con la Madonna Esterházy , prossime per epoca, soggetto, dimensioni e funzione devozionale». Più le diversità che le similitudini. Boltraffio coglie dei modelli leonardeschi la teoria dei sentimenti, spingendo le figure verso il primo piano in rapporto intimo con l’osservatore. Raffaello invece dà di Leonardo un’interpretazione compositiva: crea un raffinato gioco di relazioni tra i personaggi, disponendoli secondo quello schema piramidale, invenzione vinciana, evocato anche nell’allestimento triangolare della mostra. Semplicità nella complessità, ecco una delle grandi doti di Raffaello, capace di assimilare le fonti trasformandole nella sua «maniera» inconfondibile. Ma arriviamo al minuscolo capolavoro, circa 29 centimetri per 22: un luminoso concentrato di bellezza.
«Nasconde elementi di mistero — racconta ancora Zuffi —. I documenti non ne parlano per due secoli, una stranezza: eseguito intorno al 1508, anno del trasferimento di Raffaello da Firenze a Roma, viene citato per la prima volta quando Papa Clemente XI lo dona alla principessa Cristina di Brunswick, all’inizio del ‘700. In più è rimasto incompiuto nelle figure, fatto inconsueto per un dipinto di piccole dimensioni. Se poi lo si confronta con il disegno preparatorio, conservato agli Uffizi di Firenze, si nota un elemento di novità: nel dipinto compare sullo sfondo un insieme di ruderi classici che non è di fantasia, ma rappresenta il modo preciso il Foro di Nerva a Roma».
Riflettendo su questi elementi il curatore ha elaborato un’ipotesi affascinante: Raffaello concepisce e inizia a Firenze la Vergine col Bambino e San Giovannino, e qui rimane infatti il disegno. Ma non consegna la tavola agli sconosciuti committenti, ci si affeziona, la tiene per sé e con sé, la porta a Roma ancora da terminare nel momento della sua grande svolta, quando su invito di Bramante gli viene affidata la decorazione delle Stanze Vaticane. Si spiega così il non finito, a causa del repentino trasferimento, e anche la presenza delle rovine classiche, descritte in dettaglio. I visitatori ascolteranno questi racconti e molto di più condotti in gruppi dalle guide di Civita. Ma qualcosa in quest’opera va oltre ogni descrizione. È l’unione di vivacità e compostezza, verità e perfezione, intimità ed eleganza.
È l’unicità non dicibile del genio.

Corriere 30.11.14
La dolcezza di mamma che «copre» la tragedia


Nel 1508 Raffaello abbandonò, senza l’ultima finitura, la piccola tavola oggi nota come Madonna Esterházy . Doveva correre a Roma, dove l’aveva chiamato Giulio II. Aveva trascorso quattro anni intensi a Firenze, città dove operavano Michelangelo e Leonardo. A Roma l’attendeva la gloria. Tra Raffaello e Michelangelo correvano 8 anni, molti di più tra lui e Leonardo. Raffaello seguiva il percorso di entrambi. Stimolato da Leonardo, disegnava rapidi schizzi di bambini piccoli in un rapporto giocoso con la mamma, dipingeva incontri dell’intera Sacra Famiglia in spazi aperti, dove il rapporto umano tra i membri scioglieva la fierezza con cui Michelangelo aveva trattato lo stesso tema nel celebre Tondo Doni. Non si trattava di semplici scene di vita quotidiana, bensì di cogliere un momento presago nella vita della Madre e del Figlio. Un gesto, un velo di malinconia dovevano avvertire della consapevolezza di entrambi. L’elaborazione della Madonna Esterházy era stata complessa. Un disegno conservato agli Uffizi dimostra che Raffaello aveva già perfezionato la composizione, tranne il paesaggio, che nella tavola evoca monumenti medievali e rovine di Roma, tanto che alcuni pensano che il giovane maestro avesse portato la tavola con sé per finirla. Nel disegno, il piccolo san Giovannino sembra quasi ritroso di fronte alla vivacità di Gesù, ma nel dipinto, tutto si chiarisce. Gesù indica il cartiglio che attrae l’attenzione di san Giovannino. Sappiamo che cosa vi è scritto: «Ecce Agnus Dei». Così il gioco innocente dei due bambini ci rivela la tragedia imminente. Ne è consapevole Maria, che trattiene Gesù come se questi volesse precipitarsi verso il sacrificio. Anche nel dipinto di Boltraffio, esposto a Palazzo Marino, la Madonna, con un sorriso indulgente, trattiene il piccolo che vuole afferrare una rosa spinosa. Un gioco di azioni contrapposte che risale certamente a un progetto di Leonardo. Diverso è il comportamento di Maria nella Vergine delle rocce , qui presentata in una copia antica. La Madonna non trattiene nessuno e anzi ha un gesto protettivo verso il piccolo Giovanni che s’inginocchia e prega il cugino Gesù.

La Stampa TuttoLibri 29.11.14
Il lessico famigliare delle vite inceppate
Uno psicoterapeuta racconta storie di bambini e battaglie quotidiane di genitori che non s’arrendono
di Fulvio Ervas


A parlare di questo libro comincerò dalla fine. Che non svela nulla. Anzi. «E guarirai da tutte le malattie, perché sei un essere speciale ed io, avrò cura di te». Franco Battiato, la canzone.
La cura, certo non risolutiva, come tema di questo libro che narra di quattro storie (Silvio, Cecilia, Elia e Matteo) di autismo. Autismi, per la verità: menti che sembrano sopra un ottovolante sensoriale.
Le cause dell’autismo sono dibattute ma non chiaramente definite, e in trepidante attesa dell’aggiornamento delle Linee Guida del Ministero della Salute, nel 2015 (e non potranno che essere migliorate rispetto a quelle del 2011), la cura è un bell’argomento con cui svelare parte dei meccanismi della mente autistica. Un modo per narrare esperienze non solo delle persone autistiche, ma anche del mondo di relazioni che li circonda.
Famiglia con autismo, commenta qualcuno, non senza ironia o coraggio. Cioè condizione speciale, un numero civico con una storia diversa, con una luce diversa, con strategie di vita diverse. Resilienza, direbbe un biologo, capacità di rispondere a condizioni difficili, aggrapparsi con le unghie a superfici scivolose, perché quanto vi è di più tormentato che la «diversità» di un figlio?
La cura, le cure, raccontate in questo libro da un terapeuta che affonda le mani, la pancia, le conoscenze, l’intuito, la pazienza, quotidianamente, nelle «stranezze» dell’autismo, nei suoi codici misteriosi, nella sua speciale decodificazione del mondo. Che richiede, a sua volta, la decodificazione di una decodificazione.
Incontriamo Silvio, immerso in un mondo puramente visivo, il bambino che parlava con la luce, proprio come il titolo del libro, il bambino che mangia poche cose, che non usa il gabinetto, che prova poco interesse per il volto dei genitori, che ha problemi con il sonno. E tanto altro. Tutti «inceppi» che rendono la vita di relazione una strada di buche e sassi, un percorso in salita perenne.
Cecilia, la bambina delle corde, riempiva le sue giornate facendo oscillare funi, cinture e sciarpe e poi, non contenta di quei movimenti sinuosi, legava gli arredi della casa con le corde creando fitte ragnatele, simbolo spettacolare di connessioni, intrecci, spazialità, estetica. O, semplicemente, percorsi nella mente di una bambina speciale.
Eppure, come dipanando un intricato gomitolo, per tentativi, con attente osservazioni, con riflessioni, il mondo di un autistico può essere migliorato. Può essere migliorata la sua «gestione» nella relazione famigliare e in quella circostante.
Esige lavoro. Un lavoro che le famiglie faticano a mettere in campo senza un sostegno. Il libro racconta anche questo lato, umanissimo, dell’aiuto che le famiglie riescono a trovare a contatto con dei professionisti.
Nel mondo reale, poi, le famiglie creano reti, come testimoniano certi luoghi «social», dove genitori di ragazzi autistici si scambiano esperienze, informazioni, paure, difficoltà. O dove si rivela al mondo che una sindrome, che richiama una sorta di «distanza» dal mondo, necessita, ancor di più, di una fitta area di connessione con esso.
L’autismo ha bisogno di «compagnia». L’autismo ha bisogno di empatia. Che non avvicinano la ricerca delle cause, né sono, in sé, una cura.
Aiutano.
So che non è poco.
Anche questo ci racconta Il bambino che parlava con la luce (e di numeri, battaglie, madri, padri, insegnanti, scuole…).

La Stampa TuttoLibri 29.11.14
Una storia dell’Urss in cucina
Gli orrori del Gulag avvelenano le madeleines
Tra “pasticci” degli zar e hamburger staliniani così un popolo ha imparato ad arrangiarsi a tavola
di Gianfranco Marrone


Le passioni predominanti della nostra epoca sono note: la cucina e lo storytelling. Fascinose e coinvolgenti, grevi di tangibili perplessità. A meno che, come talvolta accade, non si incrocino fra loro, facendo raccontare fornelli e cucinare storie. Narrativa e gastronomia si rafforzano a vicenda. Un bell’esempio di quest’incrocio produttivo è L’arte della cucina sovietica della food writer Anya von Bremzen, una densa storia dell’Urss raccontata a partire dalla cucina e dal cibo: dalla «kulebjaka» (pasticcio) zarista alle politiche leniniste per il grano, dai pranzi frugali del primo Cremlino alle emulazioni degli hamburger nel gelido periodo del terrore staliniano, dalle timide riabilitazioni gastronomiche di Breznev sino al kitsch alimentare di Putin e soci.
Von Bremzen fugge poco più che decenne da Mosca con la madre Larisa, indomita antisovietica e cuciniera d’eccezione. È il 1974. Da profuga ebrea guadagna fortunosamente gli Stati Uniti dove, superando non poche difficoltà economiche e diversi gap culturali («Nei primi mesi a Philadelphia smarrii il senso del gusto»), finisce per diventare una firma di spicco nell’universo rissoso della critica gastronomica yankee. Nell’America dell’abbondanza l’apolide Anya ha la perenne sensazione di abitare in due universi alimentari paralleli: pubblica articoli su articoli sull’alta cucina internazionale (Alain Ducasse, Ferran Adrià, René Redzepi), ma i suoi bestseller si concentrano per lo più su quella etnica, e in particolare sulle ricche tradizioni culinarie del paese d’origine, riserva inesauribile di manicaretti, ricette, estasi gustative.
A un certo punto, però, non le basta dire di pranzi sopraffini o pietanze prelibate: deve agganciare la cucina alla storia, il gusto alla memoria. Più si occupa di bliny e canachi, gefilte fish e kartocki, più emergono dentro di lei i fantasmi del passato: la rivoluzione d’ottobre e la Nep leninista, gli stermini del compagno Stalin e gli orrori del gulag, le file al mercato nero e le sparizioni dei parenti, i buchi neri dell’alcolismo di massa e false felicità della propaganda via radio. Mastering the Art of Soviet Cooking (questo il titolo originale, evidente strizzata d’occhio al celeberrimo Mastering the Art of French Cooking della grande Julia Child) è il risultato di tutto ciò: un libro tanto gradevole nella lettura quanto duro nei contenuti, refrattario a ogni incasellamento di genere e, forse per questo, pronto ad assumersi in prima persona molte delle contraddizioni del nostro tempo. Incoerenze affettive e antinomie ideologiche, irrazionalità politiche e incompatibilità di gusto.
Che fra le tecniche culinarie, i piaceri della tavola e le memorie dell’infanzia ci siano legami strettissimi è questione assodata. Lo dicono anche le neuroscienze. Più interessante, come nel caso della von Bremzen, è quando questi ricordi infantili sono tutt’altro che piacevoli, quando cioè le madeleines, come scrive lei stessa, potrebbero essere avvelenate. Così, l’assunto di fondo del libro sta tutto in questa potente perifrasi tolstojana: «Tutti i ricordi alimentari felici si somigliano fra loro; ogni ricordo alimentare infelice è infelice a suo modo».
La nostalgia, si sa, è sentimento ambiguo: c’è chi smania per la terra natia anche se vi è stato trattato male. Cosa che accade anche qui: raccontare le vicende sovietiche attraverso il cibo significa ricordare, ben prima dei piaceri del gusto, la fame atavica, dunque le cicliche rivolte per il pane, la penuria costante di generi alimentari, le requisizioni del grano ai contadini, la denutrizione infantile. Ed è solo passando per questo sentimento continuo di privazione, per questa epica di un cibo perennemente insufficiente, che è possibile – con una contraddizione, dice Anya, assunta in generale dall’homo sovieticus – passare ai languori della gastronomia slava, al tempo stesso alta e tradizionale, aristocratica e contadina. Si ha rimpianto di quel cibo, avendo ben presente quanto lo si è desiderato.
Resta aperta la domanda circa il gusto reale di quanto nel libro viene assunto a simbolo dei vari gloriosi decenni socialisti. Le ricette a fine volume servono a rispondere.

Corriere Salute 30.11.14
La terapia familiare e il suo ruolo
di Maurizio Andolfi

Neuropsichiatra Infantile, già Professore di Psicologia dello Sviluppo e delle Relazioni Familiari Università La Sapienza, Roma

Negli anni Settanta un’ intera generazione di psichiatri si è ribellata alla logica del manicomio e di altre forme di contenzione fisica e farmacologica.
La psicoterapia è nata e si è sviluppata sulle ceneri di lager per pazienti, vittime oltre che delle proprie infermità, anche dell’ignoranza e dell’arroganza psichiatrica di fronte all’impotenza della cura.
Abbiamo speso cinquant’anni per ricucire il rapporto tra normalità e patologia e far emergere l’umano che è dentro la malattia e dentro la testa degli esperti del disagio mentale e psicologico. Altrettanto tempo abbiamo dedicato per dimostrare che la cura non va ricercata solo all’interno della persona, ma anche nella famiglia, nell’ambiente dove si manifesta il disagio, nel tessuto sociale, nei luoghi di incontro, nella solidarietà umana.
Abbiamo sperimentato attraverso la psicoterapia che la voce di bambini e adolescenti
va ascoltata in famiglia, a scuola e nei luoghi
di cura. I disturbi psicologici o psicosomatici di un ragazzo sono segnali forti di un disagio familiare che va ben oltre le sue difficoltà attuali; il suo corpo e i suoi comportamenti talora violenti o regressivi ci parlano di crisi di coppia, di disgregazioni familiari o di lutti mai elaborati. Ascoltare la voce dei ragazzi in terapia insieme alla famiglia permette trasformazioni a tanti livelli e una più rapida soluzione di sintomi e disagi infantili , permettendo di intervenire su realtà ben più rilevanti e spesso drammatiche.
Ma oggi la situazione sembra ancora più preoccupante, perché dominata dal business e dal potere di condizionare anche le persone sane alla ricerca di soluzioni magiche per prevenire o eliminare tristezza, infelicità, mancanza di desiderio sessuale, dolore per i propri lutti, invecchiamento, solitudine.
E tutto questo attraverso farmaci scientificamente testati e manuali d’uso come il DSM-V, che tentano di estendere il modello medico fino ad includere virtualmente tutti i comportamenti umani in un delirio classificatorio.
Al di là dell’ efficacia di questi farmaci, ciò che è preoccupante è la filosofia di vita e il modello da «supereroi» che sottende tutto ciò: l’uomo vincente a tutti i costi, senza debolezze o cedimenti.
Ma quali sono le implicazioni etiche di tutto questo?
Quali gli insegnamenti per i nostri figli?

Corriere La Lettura 30.11.14
Non chiamatemi genio
Fabiola Gianotti, al Cern con Schubert: il fisico è paziente, l’anima artistica sopravvive
colloquio di Paolo Giordano


Fabiola Gianotti è stata nominata direttore del Cern. Da gennaio 2016 si troverà a gestire un budget comparabile al prodotto interno lordo di un piccolo Stato, 2.500 dipendenti e più di 10 mila collaboratori di 100 nazionalità diverse. Sua era la voce che nell’estate del 2012 annunciò al mondo la prima evidenza sperimentale del bosone di Higgs dopo una caccia durata più di trent’anni, «Time» le ha dedicato una copertina in cui appare di profilo come in un ritratto di Piero della Francesca e «Forbes» l’ha inserita nelle sue bizzarre classifiche di potere.
Tutto ciò potrebbe dare l’idea di una donna che ormai viva spanne sopra la schiera degli scienziati comuni, come forse avverrebbe in qualunque altro ambito. Ma la fisica è un’eccezione quasi costante alla convenzionalità. E Fabiola Gianotti continua a parlare da rappresentante, non da capo. Ci diamo appuntamento su Skype, troppi gli impegni per organizzare un incontro di persona. Gianotti mi concede il privilegio di considerarmi un collega (seppure ex) e quindi di darci del tu, secondo la prassi trasversale che vige tra i fisici delle particelle a prescindere dai ruoli.
Sottolinea subito come il Cern, oltre a essere un’impresa scientifica monumentale, costituisca «un’avventura umana, dove i giovani crescono tolleranti, aperti». Quando le domando chi siano stati i suoi maestri, ne sceglie soltanto di «indiretti», personalità che l’hanno attirata dentro la fisica «come dentro a una specifica atmosfera intellettuale»: Marie Curie, che l’affascinava già da adolescente, Enrico Fermi, Luciano Maiani e poi Carlo Rubbia, che diresse il Cern per parecchi anni e vinse il Nobel mentre Gianotti era all’università. «Ho sempre ammirato il genio, ma io non sono un genio né mi considero tale. Ho un approccio alla fisica di grande modestia. So di avere dei limiti e so che la nostra conoscenza ne ha, perciò mi accosto alla ricerca con l’umiltà di chi riconosce i passi fatti, ma sa che ce ne sono innumerevoli ancora da fare. Insomma, riconosco il genio di certi fisici e al tempo stesso sono felice di essere un fisico normale».
Di certo, però, è cosciente della responsabilità che l’aspetta, perché risponde alle domande in modo cauto, quasi circospetto, non solo — ho l’impressione — per delicatezza diplomatica, ma perché non si dimentica che gli argomenti di cui parla sono difficili, mai veramente addomesticati, e richiedono il massimo grado di precisione linguistica. Mi racconta del presente e del futuro prossimo del Large Hadron Collider, il mastodontico acceleratore interrato sotto il confine tra Francia e Svizzera: «Negli ultimi due anni Lhc è stato fermato per apportare delle migliorie e per essere in grado, dal prossimo anno, di raggiungere un’energia di 13 TeV, prossima a quella di progetto». Dopo il lungo sonno, la linfa tornerà a scorrere nelle vene del bestione supertecnologico e inizierà una nuova fase di raccolta dati.
Ma il climax , se doveva essercene uno, è passato: il bosone di Higgs era proprio là dove lo si aspettava. I festeggiamenti dei fisici al momento dell’annuncio mascheravano anche un’inquietudine: e se non ci fosse null’altro di interessante ad attenderci alle scale di energia raggiungibili dall’acceleratore? Finora, ciò che Lhc e i suoi precursori hanno fatto è stato confermare senza sosta l’impalcatura teorica che regola la fisica delle particelle dagli anni Settanta, il Modello Standard. Il bosone di Higgs era l’ultima risonanza mancante all’appello. Tutto ciò che Modello Standard non è viene chiamato genericamente «Nuova Fisica», ma per ora non ve n’è traccia nelle collisioni di Lhc. Secondo alcuni, la Nuova Fisica potrebbe manifestarsi a energie così alte da essere irraggiungibili per gli acceleratori e noi ci troveremmo, quindi, a scrutare l’orizzonte dal limite di un deserto sconfinato.
Gianotti respinge con forza il mio scenario pessimistico: «È troppo presto per gettare la spugna. E, comunque, la spugna non la getteremo mai. Intanto il bosone di Higgs è molto leggero, compatibile con un Higgs supersimmetrico (la supersimmetria è il candidato favorito della Nuova Fisica, ndr ). E ci sono molte questioni ancora irrisolte: la composizione della materia oscura, le masse e le famiglie dei fermioni, l’asimmetria materia-antimateria..., domande che nascono da osservazioni sperimentali. Non sappiamo se le risposte siano accessibili alle energie di Lhc o se la Nuova Fisica si trovi in effetti a scale più alte. Per questo è importante utilizzare tutti i metodi di indagine a nostra disposizione, approcci che vanno dai collisori — storicamente quelli che ci hanno regalato i successi più grandi — agli esperimenti sotto terra (come quelli del Gran Sasso, ndr ), dai rivelatori sulle sonde spaziali ai test di precisione. Il fisico dev’essere paziente. La ricerca non si fa in fretta». Nel difendere il futuro degli acceleratori di particelle è quasi inarrestabile: «Lo sviluppo di tecnologie per macchine come Lhc, nel frattempo, continuerà ad avere un impatto importante sulla vita di tutti i giorni, com’è avvenuto per i magneti superconduttori, grazie ai quali oggi disponiamo delle risonanze magnetiche in ospedale», e lo stesso vale per internet, per la radioterapia...
La distraggo, domandandole del suo ruolo come unico membro italiano del Scientific Advisory Board voluto da Ban Ki-moon. «Lo scopo del Board è consigliare il segretario generale delle Nazioni Unite su come utilizzare al meglio la scienza per la risoluzione di problemi planetari e sociali, seguendo modelli di sviluppo sostenibili. E fare in modo che le decisioni politiche che vengono prese siano basate su risultati scientifici». Ride, forse perché vede ridere me sullo schermo del computer, ma immediatamente torna seria: «Ciò che è stato messo a fuoco nella prima riunione, a gennaio scorso (la prossima sarà fra poche settimane), è l’importanza della ricerca fondamentale. Gli investimenti nel privato sono focalizzati soprattutto sulla ricerca applicata, perché mirano a risultati in tempi brevi. E anche i governi sono spesso orientati verso progetti compatibili con la durata dei cicli politici. Ma la ricerca di base ha bisogno di tempo. Senza la meccanica quantistica non esisterebbero i transistor, senza la relatività generale il Gps della nostra auto ci porterebbe continuamente fuori strada. Meccanica quantistica e relatività generale sono intuizioni teoriche dell’inizio del secolo scorso, ma transistor e Gps sono arrivati decenni più tardi».
Fabiola Gianotti viene dal liceo classico e ha studiato a lungo il pianoforte. Per sottolineare come la fantomatica «doppia natura» esista ancora e in perfetto equilibrio dentro di lei, sceglie una similitudine propria della fisica subnucleare: «Il lavoro in fisica non ha “rotto la simmetria”. L’anima artistica sopravvive. La musica è sempre dentro di me. Non mi resta molto tempo per suonare, purtroppo, ma è dentro di me». In questo periodo ascolta soprattutto Schubert («mi trasporta in un’altra dimensione»), legge i saggi di Ennio Flaiano e l’ultimo film che ha amato al cinema è Torneranno i prati di Ermanno Olmi.
Di rottura di simmetria con l’Italia, poi, neppure vuole sentire parlare. Le domando se l’appropriazione dei suoi successi che avviene nel nostro Paese, l’essere considerata un lustrino non la infastidisca, se tutto ciò non sia fuori luogo, considerato che opera da decenni in un contesto extraterritoriale. «Io sono andata al Cern come post-doc, ma ho studiato in Italia, lì mi sono laureata e lì ho preso il dottorato di ricerca. È l’Italia che mi ha formato. Abbiamo una grande tradizione in fisica delle particelle. Negli anni, anche come responsabile dell’esperimento Atlas, ho visto passare centinaia di giovani e gli italiani sono fra i migliori».
I dati Ocse, nei quali tanta eccellenza è diluita, ci danno però in caduta libera nell’apprendimento della matematica e delle scienze, almeno a livello di scuola dell’obbligo... Gianotti ha qualche proposta al riguardo? «Non bisognerebbe affidarsi soltanto alla teoria e ai libri di testo, ma mostrare magari anche dei piccoli esperimenti. Se un bambino di dieci anni dice “io odio la matematica”, c’è qualcosa di sbagliato non in lui, ma nell’insegnante».
Può darsi allora che lo stesso principio valga per dare conto del disinteresse generale verso le scienze: il problema non è del pubblico, ma di chi propone. Il Cern ha goduto di un’attenzione inusuale negli ultimi anni, ma era un’attenzione tutta fondata sull’enormità dell’impresa o sul fatto — irritante per la gran parte dei fisici — che il bosone di Higgs venisse chiamato «la particella di Dio». «Bisogna tenere conto che noi fisici, noi scienziati, abbiamo imparato solo di recente a comunicare ciò che facciamo. Trent’anni fa non ero ancora attiva, ma la scienza era raccontata poco. Ora si tenta di raggiungere tutti, fortunatamente, non solo perché enti come il Cern sono finanziati dalla collettività, ma perché il sapere scientifico è un bene comune. Il problema è che spesso ciò che i media cercano è il sensazionale. Quando Lhc partì, nel 2008, si parlava soprattutto della possibilità ridicola che mini buchi neri potessero inghiottirci. Dovremmo cominciare a trasmettere anche l’aspetto più lento, costante, faticoso e metodico della scienza, che è fatta di molte sconfitte, di errori e di tanta normalità».
Le chiedo di immaginare a chi passerebbe il testimone, se questa serie di interviste a personalità significative dell’anno trascorso funzionasse come una staffetta. Prende tempo, poi dice: «Al presidente Napolitano. Per la sua apertura mentale, per la sua analisi lucida dei problemi e per la continuità che cerca di dare al nostro Paese. Noi italiani dobbiamo tenercelo stretto». E per quanto riguarda il Natale ormai prossimo? «Oh, sarò in famiglia. Vita normale», garantisce. «Vita normale».

Corriere La Lettura 30.11.14
Invecchiare fa bene al cervello
Nel 1932 migliaia di bambini vennero sottoposti ad un test di intelligenza che nel 1947 fu ripetuto su un altro campione
Oggi è stato rifatto. Con un risultato sorprendente. E non del tutto spiegabile
di Giuseppe Remuzzi


Invecchiamo: è una malattia o fa parte della vita? Proprio in questi giorni «Lancet» dedica una nuova serie all’invecchiare bene. Si tratta di una priorità sociale e sanitaria, dal momento che non ci saranno abbastanza soldi per curare tutti. Ma come la mettiamo con il cervello? Comunemente si pensa che l’invecchiamento del cervello abbia a che fare con l’Alzheimer, o con la demenza senile, l’arteriosclerosi, l’ictus. In realtà non è sempre così. Socrate le cose migliori le ha fatte avanti negli anni; ed è stato lo stesso per Leonardo. Piero della Francesca ha continuato a lavorare fino a 76 anni (un’età avanzata per il suo tempo). Le due vincitrici del premio Kavli per l’astrofisica e le neuroscienze di quest’anno — Mildred S. Dresselhaus e Brenda Milner — hanno 83 e 96 anni e continuano a lavorare con un certo successo.
Possibile? Sì. Il nostro cervello si riorganizza durante l’invecchiamento e lo fa grazie alle nuove esperienze che l’età porta con sé. Ma questo — l’aumento delle performance del cervello con l’aumento dell’età — è certamente così per alcuni, ma non lo è per tutti.
Perché? Insomma, qual è la ragione per cui tra persone di una certa età, tutte apparentemente in buona salute, qualcuno mantiene intatte le sue facoltà mentali o addirittura le migliora mentre altri, alla stessa età, le perdono? Gli scienziati hanno cominciato a porsi questa domanda molti anni fa, esattamente nel 1932, con uno studio che ha coinvolto oltre 70 mila scozzesi di 11 anni che sono stati sottoposti nello stesso giorno a un test di intelligenza (71 domande a cui si doveva rispondere in 45 minuti). L’hanno chiamato Scottish Mental Survey test e poi hanno fatto altre misure nel 1947 coinvolgendo un diverso gruppo di giovanissimi.
Quelli che avevano partecipato allo studio del 1932 oggi hanno 93 anni; quelli che hanno partecipato allo studio del 1947 ne hanno 78.
È dunque venuto il momento di tirare le somme. Ed è proprio quello che è stato fatto, ripetendo alle stesse persone i test cognitivi e la risonanza magnetica nucleare. Da alcuni anziani che hanno partecipato ai test gli studiosi hanno anche ottenuto un campione di Dna con l’idea che potesse essere un modo per conoscere le basi genetiche dell’invecchiamento del cervello.
Il risultato? È stata osservata una grande variazione tra le performance intellettuali di chi ha partecipato al test, ma molto dipende da com’era il quoziente intellettivo a 11 anni. Proprio così: quello che si vede in chi oggi ha 78 anni — ma anche in chi ne ha 93 — almeno nel 50 per cento dei casi lo si poteva prevedere dal quoziente intellettivo che quelle stesse persone avevano a 11 anni. Al contrario, bere un bicchiere o due di vino (che si dice protegga dall’invecchiamento del cervello) nell’analisi scozzese non sembra dare alcun beneficio. Lo stesso si può dire per la dieta e il caffè: nessuna di queste cose aiuta a essere più svegli da vecchi. C’è poi la convinzione che l’interazione con gli altri e mantenere il cervello in attività aiuti a invecchiare bene. Non è vero neanche questo.
Ma se il quoziente intellettivo dei nostri 11 anni spiega quello che ci succederà da vecchi soltanto nella metà dei casi, a cosa si possono attribuire certe performance del cervello dell’altra metà? Non fumare e la forma fisica, la conoscenza di due lingue, aver frequentato scuole migliori. Tuttavia queste cose insieme non bastano ancora a spiegare i misteri dell’invecchiamento del cervello: deve esserci dell’altro. Nello studio degli scozzesi c’era qualcuno che da bambino aveva un quoziente intellettivo inferiore alla media ma adesso, a 93 anni, è meglio dei suoi coetanei; altri tra quelli che erano partiti con un quoziente intellettuale fra i migliori, nell’invecchiare finiscono con una situazione peggiore della media. Potrebbe dipendere da fattori genetici, o — come si dice sempre in questi casi — dall’interazione di geni con l’ambiente; ma su questo non abbiamo ancora un’idea precisa. Fra i geni verosimilmente implicati ce n’è uno che i medici chiamano Bdnf (brain-derived neurotrophic factor). Quel gene codifica per una proteina che avrebbe un ruolo importante per la memoria. Ma ce ne sono molti altri di geni potenzialmente importanti nell’invecchiamento del cervello; i geni che codificano per i recettori della dopamina per esempio. Geni, ambiente e molto altro — incluse le abitudini di vita e certi comportamenti, come sforzarsi di mandare brani a memoria anche da vecchi per esempio — avrebbero un effetto favorevole sulla capacità di formare nuovi neuroni.
È questa con ogni probabilità la ragione della straordinaria plasticità del cervello secondo un’analisi di tutta la letteratura disponibile appena pubblicata su «Science». I nuovi neuroni creano circuiti di compensazione che vicariano la perdita di tessuto cerebrale dovuto alla senescenza, ma anche a un ictus. I circuiti alternativi — che compensano per altri che si perdono — sono però vulnerabili più di quanto non sia il tessuto di un giovane e quello che può succedere con l’età in questo campo è davvero diverso da individuo a individuo. In qualcuno i processi compensatori funzionano poco e male, in altri il reclutamento di tessuto compensatorio — nella corteccia prefrontale per esempio — è capace persino di limitare gli effetti negativi dell’invecchiare in altre aree del cervello. Forse è l’equilibrio tra i circuiti che si creano e quelli che si perdono che consente a qualcuno di mantenere o migliorare le sue qualità intellettuali, mentre alla stessa età altri le perdono. Non solo, certi studi di neuromodulazione fanno vedere che anziani con le più alte performance intellettuali utilizzano entrambi gli emisferi del cervello per ottenere certi risultati, cosa che non riescono a fare i meno dotati.
Insomma, sappiamo qualcosa dell’invecchiamento del cervello, ma quello che non sappiamo è molto di più. Quello che è certo è che mantenere o addirittura migliorare le performance intellettuali da vecchi è possibile, e se può esserlo per qualcuno dovremmo lavorare perché sia possibile per tutti (o almeno per molti). Fra i bambini scozzesi del 1947 c’era una bimba, Sheila McGowan, che sarebbe diventata un’artista. Dopo essersi laureata in Storia e Filosofia quando aveva già 70 anni, adesso a 75 anni ha ripreso a dipingere e presto farà una mostra. Anche lei come Giovanni Bellini? («Il maestro è molto vecchio — scrisse di lui Albrecht Dürer nel 1505 al suo amico Willibald Pirckheimer — ma resta il migliore»).

Corriere La Lettura 30.11.14
Così le neuroscienze svelano cosa distingue bello e sublime
Uno studio associa l’emozione estetica all’elaborazione biologica
di Pierluigi Panza e Luca Ticini


Quando il Cicerone britannico Edmund Burke, nel 1757, pubblicò la sua Inchiesta sul bello e sul sublime , la distinzione tra i due termini estetici cercava di imporsi come chiara. Il bello era dato dalla completezza formale e dall’armonia tra le parti di un fenomeno; il sublime (definito «eco di un alto sentire») era dato, invece, dalla capacità di sconvolgere l’animo dell’osservatore. «Gli oggetti sublimi sono vasti, quelli belli piccoli; la bellezza è liscia e levigata, il sublime ruvido e trascurato; la bellezza non deve essere oscura, la grandiosità deve essere tetra e tenebrosa…» scriveva Burke.
A partire da questa griglia regolativa fu facile ricavare esempi: è bello l’ Apollo del Belvedere proporzionato nelle sue parti ed è invece sublime il Torso del Belvedere , mutilo e contorto, che lascia immaginare ciò che manca. Bella è la Rotonda di Palladio a Vicenza, sublimi sono le rovine in un parco, le gole delle montagne (vedi l’articolo di Franco Brevini Quel piacevole «orrore» delle Alpi svelato dalla religione del sublime , «Corriere», 12 novembre 2014), i temporali, le marine di William Turner…
Allora, il tema del sublime fu trattato anche da Kant e venne anche riscoperto il padre nobile di questa categoria estetica: lo pseudo Longino il cui trattato Del Sublime (I secolo a.C.) venne ristampato infinite volte. Emerse persino una città luogo dell’anima del sublime: Palmira (attuale Siria), la mitica capitale della Regina Zenobia, con le sue rovine romane e le sue tombe cantate da Volnay in Les Ruines (1791), trattatello che infiammò il cuore di Napoleone. Per l’Estetica, questa intuizione avviò una stagione feconda, che portò anche allo sviluppo della psicofisica di Gustav Fechner (1801-1887), la disciplina che cercò di mostrare il rapporto meccanico tra uno stimolo fisico (un colore, un suono) e la sensazione generata, allontanando l’Estetica dall’idea che il bello fosse soggettivo.
Tutte fantasia da filosofi? Tutt’altro.
In uno studio appena pubblicato su «Frontiers in Human Neuroscience» (11 novembre), i neuroscienziati Tomohiro Ishizu e Semir Zeki dell’University College of London hanno cercato un riscontro a livello neurobiologico della distinzione tra le due esperienze. Nella loro ricerca gli autori hanno chiesto ad alcuni volontari (di entrambi i sessi e di diversi gruppi etnici) di osservare e classificare l’esperienza del sublime evocata da 175 immagini tratte dal «National Geographic Magazine». Queste immagini ritraevano ciò che nella letteratura è comunemente associato al senso del sublime, ovvero monti, cascate, foreste, vulcani, tornado, onde oceaniche, ghiacciai, nuvole e deserti. Con la risonanza magnetica funzionale, che ha permesso di localizzare con precisione l’attività del cervello durante la percezione di ogni immagine, i due ricercatori hanno determinato l’attività cerebrale associata all’esperienza soggettiva del sublime. Inoltre, un altro obiettivo dello studio era di confrontare l’attività associata all’esperienza del sublime con quella del bello. Ovvero, capire se il sublime e il bello tracciano nel nostro cervello un’impronta unica, non presente durante altre esperienze.
Certamente, comprendere il sublime da un punto di vista scientifico sembra un’impresa assai difficile: è un complesso di esperienze emozionali e conoscitive di difficile definizione che coinvolge eventi anche opposti, come il piacere e l’orrore. Nel loro lavoro, Ishizu e Zeki (tra i fondatori della neuroestetica, www.neuroestetica.org) hanno dimostrato che l’esperienza del sublime attiva aree cerebrali quali i gangli della base, l’ippocampo e il cervelletto, la cui attività è associata a funzioni anche opposte, come il piacere e l’odio, la memoria, l’amore romantico, la percezione di stimoli potenzialmente dannosi e persino l’esperienza della bellezza in matematica. Invece, è interessante notare che il sublime non coinvolge quelle aree tradizionalmente associate alla percezione di stimoli emotivi, come l’amigdala e l’insula. Ciò rivela che il sentimento del sublime è caratterizzato non soltanto da componenti emotive, ma anche da quelle conoscitive, funzionalmente a un livello più alto. Se questo dato è abbastanza sorprendente, l’analisi di Ishizu e Zeki offre invece una conferma delle intuizioni di Burke: le esperienze del bello e del sublime sono costruite su meccanismi neurali radicalmente differenti. Infatti, strutture nervose come la corteccia orbitofrontale, che numerosi studi hanno associato alla bellezza, non sono attivate dal senso del sublime e viceversa.
Quali insegnamenti possiamo trarre da questo studio? Intanto che, grazie alle moderne tecniche di neuroimmagine, oggi possiamo ampliare le conoscenze sul funzionamento del cervello e sulla sua «cartografia» ed estenderle alle esperienze soggettive. Inoltre, la comprensione dei meccanismi neurali alla base del nostro comportamento e delle nostre percezioni può contribuire al dibattito filosofico, supportandone le teorie con dati scientifici.
Conoscere le reazioni del nostro cervello di fronte a particolari stimoli può essere utile anche ad artisti e architetti. In recenti teorizzazioni, lo storico dell’architettura Harry Francis Mallgrave ( Architecture and Embodiment ) ha cercato di leggere la storia delle costruzioni come l’evolversi di un rapporto tra stimoli e sensazioni: l’ordine ionico sostituisce il più massiccio dorico perché crea una maggiore empatia con l’osservatore e così via. Ma ciò che vale per il passato, vale anche per il presente e dunque un artista può conoscere a priori quali sensazioni susciterà la sua opera in base a colori o tecniche che usa: la simmetria accenderà le sfere del bello, il camouflage quelle del sublime. E quel che si può sperimentare per i fenomeni naturali e artistici vale anche per la letteratura. Marco Guerini e Jacopo Staiano, ricercatori in Natural Language Processing in Sentiment Analysis, hanno messo a punto una demo (in inglese) sul riconoscimento automatico delle emozioni presenti in un testo, costruita a partire dall’analisi di decine di migliaia di articoli annotati dai lettori con un voto «emotivo» (come quelle che compaiono su corriere.it). Anche da questa demo (http://www.depechemood.eu/index.html) emerge l’idea come a particolari tipi di scrittura e argomenti (stimoli) siano associate delle sensazioni ricorrenti e identificabili, anche appartenenti alla sfera del bello o del sublime.

Corriere La Lettura 30.11.14
Il falso mito dell’inglese: né democratico né redditizio
di Michele Gazzola


L’intervista rilasciata da Tullio De Mauro al «Corriere della Sera» il 3 novembre ha il merito, fra le altre cose, di sollevare la questione della lingua nella costruzione di una democrazia transnazionale europea. Alcuni osservatori ritengono che puntare su un’unica lingua, segnatamente l’inglese, sia la scelta giusta per permettere l’emergere di uno spazio pubblico europeo e di un sentimento di solidarietà continentale. È lecito essere scettici a riguardo. La tesi secondo cui una democrazia ha bisogno di una lingua comune per funzionare, nella filosofia moderna, rimonta a John Stuart Mill. Si tratta però di un’idea che non ha valenza generale e che non si è dimostrata adatta a tutte le circostanze.
Le democrazie per funzionare hanno bisogno di una comunicazione efficace e inclusiva, il che non richiede necessariamente una sola lingua in comune. La Svizzera mostra che è possibile avere una democrazia multilingue solida ed economicamente rigogliosa. Il caso spagnolo e belga mostrano invece che volere imporre una lingua nazionale sulle altre rischia di generare tensioni sociali e politiche.
Nell’Unione Europea l’inglese è la lingua materna di circa il 13% dei cittadini. L’inglese quindi non è e non può essere una lingua «neutra» come il latino medievale o l’esperanto, con buona pace di chi crede nel «globish». In una Europa anglofona i madrelingua inglese godrebbero di vantaggi indiscutibili, e per molti versi inaccettabili. Un esempio? La posizione egemone dell’inglese in Europa frutta al Regno Unito circa un punto di Pil all’anno come esito del risparmio sulle spese di insegnamento delle lingue straniere e sulle traduzioni, ed essa permette ai Paesi al di là della Manica di attirare più facilmente personale altamente qualificato e studenti rispetto agli altri Stati europei. La preminenza di questa lingua a livello europeo comporta inoltre numerosi vantaggi strategici nella comunicazione istituzionale. Il 40% circa dei portavoce della Commissione uscente erano madrelingua inglese, più di tre volte la percentuale dei nativi anglofoni nell’Unione.
Più in generale vi è una fondamentale questione di inclusione, giustizia e partecipazione democratica dietro il tema della lingua nel processo di costruzione di una federazione europea, e nessuno ha mai chiarito in che modo la promozione dell’inglese come unica lingua comune gioverebbe alla causa della democrazia continentale e alla solidarietà fra popoli. Se bastasse una lingua unica come l’inglese per renderci «più europei», i britannici dovrebbero già essere i maggiori sostenitori dell’Europa unita. Il 56% dei tedeschi e 51% dei greci dichiara di avere una conoscenza almeno scolastica dell’inglese, ma ciò non ha impedito che in occasione dello scoppio della crisi del debito nella zona euro sorgesse una reciproca e profonda diffidenza fra le opinioni pubbliche dei due Paesi.
Diversi studi invece mostrano che l’utilizzo prevalente dell’inglese come lingua unica in Europa per le faccende politiche ed economiche ostacola la costruzione di una vera democrazia europea più di quanto non la favorisca. L’inglese è infatti una lingua conosciuta molto bene solo da una esigua minoranza dei cittadini europei. Nonostante decenni di insegnamento nelle scuole solo il 7-8% della popolazione europea non madrelingua inglese dichiara di avere una conoscenza molto buona di questa lingua, cioè una competenza linguistica adeguata a partecipare alle attività politiche in una democrazia anglofona. Non ci sono grandi differenze tra le generazioni, mentre la conoscenza tende a concentrarsi fra i cittadini europei appartenenti alle fasce della popolazione più istruite e con reddito da lavoro più elevato. Insomma una politica monolingue creerebbe diseguaglianze fra Stati membri e fra ceti sociali, alimentando sentimenti di lontananza verso le istituzioni europee.
La politica multilingue dell’Ue, il rispetto delle diversità e un diffuso insegnamento di diverse lingue europee nelle scuole e nelle università, invece, rendono possibile una gestione più efficace e inclusiva della comunicazione transnazionale europea. Non ci si lasci ingannare dalla prospettiva di una immensa e improbabile agorà transnazionale. Gli europei continuano e continueranno a lungo a vivere e lavorare all’interno dei confini geografici e mentali degli stati nazionali. La situazione tipica che si osserva in pratica non è quella di un calabrese che dibatte di austerità fiscale con uno slovacco, ma quella di un calabrese che discute con un campano degli effetti sull’economia italiana del rigore fiscale tedesco. Avere informazioni in italiano su quello che accade nelle istituzioni a Bruxelles o Francoforte e sapere un po’ di tedesco, in questo caso, è quello che serve.
Durante la scorsa primavera, i maggiori candidati alla presidenza della nuova Commissione europea hanno tenuto dibattiti televisivi, a seconda delle circostanze, in francese, inglese, tedesco, e tali dibattiti sono stati spesso interpretati in altre lingue dell’Unione, incluso l’italiano.
Purtroppo dalla scuola italiana non vengono segnali incoraggianti. La politica linguistica adottata nel 2008 dal ministro Gelmini ha introdotto il cosiddetto «inglese potenziato» nelle scuole medie, cioè la possibilità di sottrarre le ore per la seconda lingua comunitaria per aumentare il monte ore destinato all’inglese. Si tratta di una politica linguistica che andrebbe abbandonata perché ostacola lo sviluppo di competenze multilingui.
Investire su lingue quali tedesco o francese è strategico non solo per i motivi legati alla costruzione europea di cui si è già detto, ma anche per motivi commerciali. In primo luogo, Germania e Francia sono le principali destinazioni delle esportazioni italiane. Inoltre, l’inglese non è l’unica lingua a essere remunerata sul mercato del lavoro. Secondo alcuni recenti studi sulla redditività delle competenze linguistiche sul mercato del lavoro europeo, in Italia la conoscenza del tedesco e del francese, in termini di reddito individuale, rende di più in percentuale rispetto all’inglese, e questo accade proprio perché si tratta di competenze più rare e quindi più remunerate.
Va detto che il problema non è l’inglese in sé, ma l’egemonia di una lingua ufficiale dell’Unione sulle altre. Le istituzioni europee nate dopo la fine della Seconda guerra mondiale sono state create proprio con l’intento di neutralizzare le spinte egemoniche di un Paese sugli altri delegando alcuni poteri a istituzioni comuni sovranazionali che rappresentano tutti gli Stati membri. Il multilinguismo istituzionale non è altro che il corollario linguistico di questa idea. A chi obietta che garantire la comunicazione nelle 24 lingue ufficiali dell’Unione è troppo caro va fatto notare che il multilinguismo costa ai contribuenti solo lo 0,0085% del Pil dell’insieme dei 28 Stati membri, meno dell’1% del bilancio delle istituzioni europee e poco più di due euro all’anno a cittadino. È difficile ritenere che si tratti di costi insostenibili, specialmente se confrontati con i costi delle diseguaglianze di un’Europa monolingue.

Michele Gazzola è dottore di ricerca in Gestione della comunicazione multilingue all’Università di Ginevra e ricercatore «Marie Curie» in Economia linguistica all’Università Humboldt di Berlino, dove dirige un progetto sulle politiche linguistiche e la giustizia linguistica nell’Ue (www.michelegazzola.com). Sulla questione linguistica «la Lettura» del 5 ottobre ha intervistato Claudio Marazzini, presidente della Crusca, e ospitato un intervento del presidente onorario Francesco Sabatini

Il Sole Domenica 30.11.14
Questioni linguistiche
Inglese, idioma per l'Europa?
Tullio De Mauro propone l'adozione comune per tutto il Continente. E il modello dell'Italia sembra essere quello giusto
di Franco Lo Piparo


Quale lingua per l'Europa?
L'Europa politica che abbiamo finora costruito presenta due vistose assenze che, viste con l'ottica del passato, appaiono delle originali anomalie.
e L'Europa non ha una capitale. Le capitali sono le città-simbolo che nell'immaginario collettivo identificano gli Stati e i popoli: Parigi sta per Francia, Tokio per Giappone, Washington per Stati Uniti eccetera. Nessuno può insegnare a un bambino che Bruxelles è la capitale dell'Europa.
r L'Europa non ha una lingua comune. Una lingua usata da tutti gli europei nella quotidiana conversazione colloquiale e tale da consentire, ad esempio, a un idraulico calabrese di intendersi col collega tedesco o finlandese. Una lingua, anche, in cui e con cui si forma l'opinione pubblica europea.
Le due assenze vivono in simbiosi. L'argomento meriterebbe un ampio dibattito di cui, a parte qualche sporadica eccezione, non si vede traccia
Alla questione linguistica dell'Europa Tullio De Mauro dedica un agile e denso libro dal titolo mozartiano, In Europa son già 103 e dal sottotitolo altrettanto intrigante: Troppe lingue per una democrazia?. Si spera che l'autorevolezza di De Mauro faccia uscire dal letargo i nostri politici e intellettuali e contribuisca a mettere la questione al centro del dibattito politico-culturale.
De Mauro spiega con stile chiaro e accattivante che nei tanti idiomi usati dagli europei vive sottotraccia una comune lingua europea (Leopardi è stato tra i primi a essersene accorto) frutto di interscambi millenari resi possibili dall'uso del latino da parte dello strato colto delle popolazioni europee. È utile tenere d'occhio la composizione anagrafica degli europei latinofoni: «A parlare il latino erano medici, farmacisti, avvocati, giuristi, tecnici, scienziati e, naturalmente, le monache, i frati e i preti delle varie confessioni cristiane» (pagina 65). Sono gli agenti della prima unità linguistica e culturale dell'Europa moderna.
L'uso del latino da parte di questi pionieri dell'Europa unita non impedì il sorgere di tanti idiomi locali, alcuni dei quali diventati lingue ufficiali dei nascenti Stati nazionali. Quale ruolo giocò il latino dalla fine del Medioevo fino a inizio dell'Ottocento? Fu una «lingua transglottica», ossia ponte linguistico tra i vari idiomi locali e contemporaneamente modello rispetto a cui quegli idiomi plasmarono la propria grammatica e il proprio lessico.
E adesso? L'erede transglottico del latino è l'inglese. Una sua caratteristica strutturale gli facilita il compito. L'inglese è una lingua germanica e però è anche «la più rilatinizzata e rineolatinizzata delle lingue europee. Il 75% del vocabolario inglese è composto da parole prese in prestito o dal francese o direttamente dal latino classico, medievale e moderno, che è dominante anche nell'apparato morfologico, dal momento che suffissi e prefissi per formare nuove parole inglesi sono in larga misura latini» (pagine 65-66). Da ciò il paradosso che «l'attuale enorme influenza dell'inglese in tutte le lingue europee porta in esse parole latine e greco-latine rifluenti non dall'Ilisso o dal Tevere, ma dalle rive del Tamigi (o dell'Hudson)» (pagina 66).
La proposta di De Mauro è che l'adozione dell'inglese come lingua transglottica non comporti «un rifiuto, dannoso e improponibile, della ricca diversità linguistica che ereditiamo dal passato, che abbiamo esportato negli altri continenti e che ci caratterizza nel mondo» (pagina 82). Il modello da seguire è la storia recente dell'Italia linguistica: «Negli ultimi cinquant'anni abbiamo imparato l'italiano senza cancellare i nostri diversi dialetti» (pagina 82). «Lo stesso come europei dovremo fare con l'inglese, portare nel suo uso tutta la ricca varietà di culture, di significati e di immagini delle diverse lingue, senza abbandonarle, e portare nelle nostre lingue il gusto della concisione e della limpidezza dell'inglese» (pagina 83).
Si spera che le riflessioni di De Mauro suscitino un salutare dibattito politico sulla questione. A noi rimane un dubbio che, nonostante sia di matrice demauriana, il libro non chiarisce.
Una polis democratica può funzionare con una lingua transglottica? Non sarà un caso che nessuno Stato nazionale europeo abbia adottato il latino come lingua comune in cui e con cui colti e incolti, operai e borghesi, governanti e governati si intendono per accordarsi o dissentire. L'inglese come il latino medievale, imparandosi a scuola e non dalla nutrice (per dirla con Dante), va bene per comunicare ragionamenti astratti ma non può avere la flessibilità semantica delle lingue in cui e con cui si forma un'opinione pubblica. E questa è fatta di sentimenti argomentati e verbalizzati più che di ragionamenti asettici.
Sulla questione linguistica si gioca anche il destino, democratico o tecnocratico, dell'Europa che verrà. Alla politica la parola.

Tullio De Mauro, In Europa son già 103, Laterza, Bari, pagg. 86, € 10,00

Corriere La Lettura 30.11.14
Iran, dove l’altro Medioevo è nostro contemporaneo
Dal deserto del Beluchistan al bazar di Teheran, un Paese nascosto
di Antonio Armellini


A Kerman, la capitale del Baluchistan persiano, l’aria del deserto è ovunque: ti sta intorno, la respiri, ne cogli gli odori. Il bazar riporta la memoria sbiadita delle antiche carovaniere lungo cui si snodava la Via della seta ai tempi di Marco Polo. Si vedono le prime torri del vento: sono costruzioni simili a campanili che grazie a un sistema tanto complicato quanto ingegnoso, indirizzano all’interno delle case ogni piccolo refolo di vento e rendono sopportabile l’afa.
L’Iran è per quasi due terzi fatto di deserto: da qui viene il petrolio che ne garantisce la ricchezza. Il Lut, che comprende il Baluchistan iraniano, pachistano e afghano, non è più il deserto misterioso e crudele della Via per l’Oxiana di Robert Byron: una strada asfaltata permette di fare in meno di una giornata quello che solo una cinquantina d’anni fa era un percorso difficile e pericoloso. Il fascino non è cambiato, però: pianure apparentemente sempre uguali si interrompono senza preavviso per dar vita a fantastiche formazioni di sabbia e roccia, kaluts , che sembrano castelli. E che a volte si rivelano tali o quasi; resti di antichi caravanserragli che testimoniano di un sistema di comunicazioni che oltre duemila anni fa collegava fra di loro le province più lontane dell’impero. I pochi turisti disposti ad accontentarsi di infrastrutture primitive possono godere lo straordinario privilegio di passare una notte sotto un cielo come solo i deserti riescono a offrire, scandita dal richiamo di qualche sciacallo o — al massimo — dal passaggio di contrabbandieri intenti ai loro affari.
La notte, nel Dasht-i Lut, le vecchie carovaniere si animano di traffici nuovi: armi e soprattutto droga. Su questi panorami vegliano le rovine delle antiche città fortificate, costruite lungo le alture con un impasto di paglia e fango e i cui palazzi, alti a volte cinque o sei piani, si vanno disfacendo nel deserto. Prima fra tutte Bam, la città che fu il set del Deserto dei tartari diretto da Valerio Zurlini dal romanzo di Dino Buzzati. Distrutta nel 2003 da un terremoto che causò moltissime vittime, è stata in parte restaurata (ma meglio sarebbe dire ricostruita, con il metodo tradizionale). Ci vuole davvero un piccolo sforzo di fantasia per farsi apparire dinanzi agli occhi il dedalo di case, viuzze, porticati e piazze su cui dominava la cittadella, concepita per trasmettere un forte messaggio di potere.
Lì vicino c’è Rayen — la «piccola Bam» — meno danneggiata dal terremoto e in parte intatta, che può dare anche a chi non voglia troppo esercitare la fantasia un’idea della ricchezza architettonica e urbanistica di queste città-sentinella. Yazd è una «Bam vivente»: è l’unica città di fango e paglia a essere ancora interamente abitata e conserva un’aria di mistero, accentuata dal dipanarsi di un bazar che si disperde in una miriade di vicoli e passaggi che fanno pensare a Sheherazade . Attraversare il deserto senza passare per Yazd vorrebbe dire sprecare una grande occasione di capire come un medioevo molto diverso dal nostro possa essere vissuto, e bene, anche in chiave contemporanea.
L’acqua non si vede ma c’è. I canali sotterranei che la trasportano a grandi distanze evitandone la dispersione si chiamano in Iran qanat : li si riconosce dall’alto per i pozzi di aerazione che si susseguono per centinaia di chilometri in file ordinate e solo apparentemente senza senso. All’interno, una rete complessa e perfettamente mantenuta assicura la distribuzione. È anche per questo che non ci sono molte oasi, ma qua e là si vedono fattorie e campi verdissimi nel mezzo di quello che si direbbe un nulla arido. Non rispecchiano alcun ordine e a prima vista la loro dislocazione sembra incomprensibile: è invece dettata dal percorso dei qanat .
Attraversando in auto l’Iran da est a ovest, si rimane su un altopiano compreso fra i mille e duemila metri: si sale a Quetta, in Pakistan, e si scende dopo Ankara, in Turchia. Quelle che si ergono a separare una pianura desertica dall’altra sembrano colline, ma in realtà sono montagne di tre, quattro, cinquemila metri. Esse danno al paesaggio un tono drammatico accresciuto dal caleidoscopio della stratificazione di rocce diverse: si passa dal grigio al nero, dal verde a un rosa dalle tonalità dolomitiche, con qua e là qualche spruzzata di bianco che, da lontano, sembra neve (e d’inverno diventa neve davvero).
La grande ricchezza di colori della natura è una delle sorprese più inattese. La strada che da Kerman va verso Shiraz è un susseguirsi di vallate separate da montagne che le celano sino all’ultimo alla vista: la vegetazione via via meno rada si fonde con le rocce per offrire un campionario di colori che a volte ha dell’irreale.
A Neyriz, il letto asciutto di un lago salato manda riflessi bianchissimi, in cui i miraggi fanno a gara con i djinn (quei piccoli vortici d’aria cui gli iraniani attribuiscono un valore magico) nel trarre in inganno un tempo il viaggiatore e oggi nel sedurlo. Quando si pensa all’Iran la mente va subito al colore, soprattutto al meraviglioso blu e turchese delle moschee di Isfahan e Shiraz. Il colore di queste valli è più segreto ma, forse per questo, non meno prezioso. A Pasargade, la tomba di Ciro domina solitaria la pianura che fu testimone della sua prima vittoria, nel 590 a.C. Ampliata in stile greco da Alessandro Magno che voleva così onorarne la memoria, essa dà una straordinaria sensazione di potenza e, a un tempo, di solitudine. Il tempo sembra fermarsi davanti a questo mausoleo, alto su un piedistallo privo di fregi e bassorilievi, intorno al quale senti fluire una storia lontanissima e straordinariamente vicina. Poco più in là sorgono le rovine di quella che era la sua città: poche colonne contro uno sfondo ocra e un cielo azzurro che fanno pensare a de Chirico. O forse a Magritte.
Poco lontano sorge lo splendore di Persepoli, la città voluta da Dario il Grande per sottolineare un fasto e una potenza che avrebbero dovuto sfidare i secoli ma non resistettero alla devastazione di Alessandro Magno: era in gran parte in legno e il fuoco la distrusse lasciando in piedi rovine che sono arrivate sino a noi. Sorge sopra una piattaforma di pietra alta più di una decina di metri e questo ne aumenta l’effetto teatrale: davanti si stende una pianura coperta in parte da un bosco di pini siriaci voluto a suo tempo dallo scià per ricreare, disse, il paesaggio del tempo di Ciro. Aveva deciso di tenere a Persepoli una celebrazione alla presenza dei leader del mondo, per sottolineare la pretesa continuità fra la recentissima dinastia dei Pahlavi e l’eredità millenaria del Paese. Lo sfarzo fu leggendario ma le polemiche che ne seguirono contribuirono non poco alla caduta di Reza Pahlavi: oggi di quei fasti restano gli scheletri malinconici della grande tendopoli eretta a suo tempo. Il tutto coperto dal bosco che, nel frattempo, è cresciuto e ha mutato il paesaggio.
Persepoli è una delle meraviglie del mondo: i bassorilievi lungo la scalinata dell’Apadana, che descrivono le 23 nazioni venute a rendere omaggio all’imperatore, lasciano senza fiato. La circolarità della storia trova qui una delle sue espressioni più evidenti e tutto — pietre, colonne e palazzi — lo ricorda. Così come lo ricorda la tomba rupestre poco distante di Shapur I, con il bassorilievo che mostra l’imperatore romano Valeriano, nel 259 d.C., fare atto di sottomissione al re sassanide. Persepoli è grandezza e potere; ma è davanti alla tomba di Ciro, alla sua nudità e alla sua solitudine orgogliosa, che l’emozione ti travolge facendone forse il punto più alto di un viaggio che pure è capace di suscitare meraviglia ed evocare magie lungo tutto il suo percorso.
Al di là del deserto si estende un altro Iran. Quello dei giardini safavidi di Shiraz, che prefigurano lo splendore di quelli dell’India moghul. Quello del trionfo di forme e colori di Isfahan. Quello della città santa di Qom, con la sua cupola d’oro. Dei palazzi khajar di Kashan. Dei bazar di Teheran e Tabriz. Del Mar Caspio e degli Assassini. Del tempio zoroastriano di Takht-e-Suleiman e della cupola di Soltanieh, che forse servì da modello a Brunelleschi. Sono altre seduzioni e scoperte: e sono un altro viaggio.

Corriere La Lettura 30.11.14
Libia, i vandali dell’Islam
Statue distrutte, pitture rupestri deturpate, moschee e pulpiti sufi demoliti: la «pulizia religiosa» degli ultrà musulmani
di Francesco Battistini


«Non adorate i morti! E guai a chi si leva all’altezza di Allah!». Di solito, i guardiani del religiosamente corretto si muovono la sera. Chiudono presto le botteghe da cambiasoldi e s’organizzano in piccole ronde per la medina. Alla moschea Mizran, numero civico 222, l’estate scorsa hanno fatto il lavoro in pochi minuti. Vai di martello: via l’antica sura in marmo nero che da duecento anni stava scolpita proprio sull’entrata e che i sufi tripolini — «quei sedicenti musulmani, quegli eretici debosciati!» — venivano a recitare. Pochi giorni dopo se la sono presa coi morti: i sepolcreti della Karamanli e di Gurgi, due moschee di stile andaluso maghrebino coi mosaici e le sculture, li hanno rivoltati nella notte. Basta con le tombe dell’epoca ottomana. A pezzi le lapidi sbiancate dai secoli. Sfrattati gli ossari, perché il Corano non tollera che s’idolatri un defunto: meglio metterci una bella aiuola, o anche niente.
In settembre è toccato ai mimbar , i pulpiti in legno con gli scalini che servono alla predica del venerdì. Hanno divelto e portato chissà dove quello di Basha, una rarità ottocentesca di marmo e legno intarsiato, coi rosoni in rilievo. Hanno sfondato i pulpiti della moschea di Draghut: ai nuovi muftì non piacciono le scalinate introdotte dalla tradizione musulmana libica, troppo alte, e il Profeta made in Qatar esige che gli scalini siano tre e non più di tre. Si tolgano dunque quei mimbar blasfemi. E se ne mettano di più moderni e di più modesti e soprattutto di più bassi…
Non avrai altro islam all’infuori del mio. A colpi di punteruolo e di graffito, senza escludere le mitragliate, la nuova Libia sta sfasciando quella antica. Qualche burocrate dell’Unesco, umorista più che tempista, aveva deciso di dedicare il 2014 a «Tripoli capitale della cultura araba». I nuovi padroni della città, i fratelli musulmani d’Alba libica che sono alleati alle milizie di Misurata, l’hanno accontentato e il 2014 lo renderanno memorabile per quel che è successo alla Fontana della Gazzella, la bronzea ragazza nuda del Vannetti che dal 1932 abbelliva il lungomare di Tripoli. Nuda, troppo nuda. In agosto l’hanno presa a colpi di Ak47, bucandole lo stomaco. Una notte d’inizio novembre l’hanno staccata dalla rotonda e fatta sparire. Imprigionata? Distrutta? Quando un’ong libica ha chiesto lumi al sindaco di Tripoli, Mehdi al Harati, «ci ha indicato un magazzino dove la Gazzella era stata portata “per essere restaurata”: ci siamo andati di corsa, sembravamo personaggi d’un cartone di Tom&Jerry, ma non abbiamo trovato nulla». I pezzi del basamento sono ancora lì, buttati nelle aiuole spartitraffico.
E lo stesso destino è toccato a un monumento dell’eroe nazionale Omar Mukhtar: «Demolizioni come queste richiedono organizzazione, tempo e soprattutto il consenso delle autorità — dice al “Libya Herald” uno studioso dell’arte che vuole rimanere anonimo —. Ma noi vogliamo che il mondo sappia quale disastro si sta prospettando: le milizie non stanno facendo nulla per fermare la distruzione del nostro patrimonio. Anzi. Sfasciano le moschee sufi e ottomane. Vandalizzano l’arte preistorica, in quanto preislamica. Stanno cominciando a prendersela con le rovine puniche, greche, romane, a cancellare l’epoca coloniale… Questi di Alba libica danno spazio ai fondamentalisti di Ansar al Sharia o dell’Isis che vogliono demolire pezzo per pezzo la cultura. Credono che le statue siano un male. E che l’arte “non pura” allontani la gente da Dio. Anche se la Gazzella era un simbolo su tutte le cartoline della città. Anche se Mukhtar è un simbolo patriottico della nostra libertà».
Alba tragica. «L’arte è un patrimonio di tutti e lo proteggeremo — promette il sindaco Harati, uomo della Fratellanza e del premier Omar al Hassi —, non saremo noi musulmani a danneggiare la rivoluzione che abbiamo fatto». Qualcosa resiste e certe libertà rivoluzionarie, impensabili sotto Gheddafi, si continuano a respirare: da Fergiani, la libreria tripolina più rinomata, s’espone senza problemi Cirenaica pacificata del generale Graziani. Un’altra fontana dell’epoca italiana, pure nel mirino, al momento resta nella piazza dei Martiri, la piazza Verde d’un tempo.
Nel mezzo d’una guerra civile, però, la cultura è solo una rottura e se le milizie non hanno deciso di cancellarla, è perché non ci hanno ancora pensato. L’Onu ha abbandonato il campo, come quasi tutte le ambasciate e le organizzazioni internazionali, ma ha chiesto ai governi di Tripolitania e Cirenaica un elenco dei tesori minacciati dal 2012 a oggi: nessuna risposta. Il Museo nazionale, dopo tre tentativi di saccheggio, rimane sbarrato. I pezzi più pregiati dell’epoca adriana sono sigillati in un deposito. A Cirene, sull’antica necropoli greca si stanno costruendo case e strutture militari. A Misurata e a Sabratha, sono spariti i lucernari romani e qualche resto fenicio. Chiuse tutt’e tredici le missioni archeologiche italiane che lavoravano in Libia dai primi del Novecento.
Ma è giù giù al confine con l’Algeria, nel Sahara più arido e irraggiungibile, infestato di check-point militari e jihadisti, che si sta consumando lo scempio peggiore: le pitture neolitiche di Tadrart Acacus — 250 chilometri quadrati d’animali e di uomini danzanti, colorati con l’ossido di ferro e il latte, l’urina e il sangue, petroglifi unici dell’arte che precedette non solo l’islam ma perfino l’uso del cammello —, questa meraviglia unica al mondo che s’è conservata dodicimila anni, in pochi mesi è stata danneggiata.
Almeno dieci siti sono stati sfregiati, denuncia il giornalista locale Aziz al Hachit, l’unico che sta mappando il disastro: «È dal 2011, l’anno della cacciata di Gheddafi, che la gente gira indisturbata e incide il nome sulle pitture preistoriche. Da qualche tempo sono comparsi anche altri tipi di vandali. Più ideologici. Quelli che non tollerano qualsiasi forma d’arte preislamica e s’incaricano di cancellare i dipinti con solventi e detergenti chimici».
(Dis)impara l’arte. Più di quindici anni fa ci capitò di visitare lo spettacolo di Leptis Magna: era ben tenuta, ordinata, molto più dei nostri scavi di Pompei. Adesso, la sabbia si sta riprendendo l’area dell’antico mercato, una colonna dell’anfiteatro è stata buttata giù non si sa da chi, un’iscrizione all’ingresso del proscenio è bucherellata di proiettili dov’è scritto “IMP CAESARE DIVI”. L’anno scorso, è stato sorpreso un medico ucraino con tasselli di mosaico in tasca: denunciato, tutto finì lì. «Nessuno sa chi comandi davvero — spiega il professor Hussein Ildaly, 40 anni, da dieci a disseppellire le terme e il decumano —. Il risultato di quest’anarchia è che tutti fanno quel che vogliono». Sulla cinta originaria, hanno costruito negozi e un’officina da gommista. Accanto al cippo «scavi archeologici», sull’A2 da Tripoli a Misurata, i muratori stanno ruspando le antiche mura per gettare le fondamenta d’una villetta a due piani. «La gente aspetta che piova e poi s’infila tra le rovine — racconta una guida —, perché nella terra bagnata è più facile trovare monete o frammenti da rivendere al nero».
Dalla spiaggia, ogni notte salgono a gruppi per ubriacarsi di nascosto (bottiglie e lattine dappertutto) e accendere falò tra le metope. Nell’aiuola della caffetteria c’è da quest’estate una piccola bomba inesplosa, che nessuno tocca e nemmeno segnala. Di fianco, le guide fumano noia e shisha ai tavolini. Appesi ai negozi di paccottiglia, scoloriscono al sole i cappelli da Indiana Jones per turisti che non arrivano mai. «Gli ultimi, li abbiamo visti quattro mesi fa». Ottanta dei centoventi custodi in servizio sono stati licenziati. Quelli rimasti, è da un anno che non ricevono i cento euro di stipendio. Dalla parte dell’arco di Traiano, guardie e bottegai si sono fatti un pollaio e una piccola stalla per le pecore. Uova e latte, ogni tanto arrostiscono qualcosa. Giusto: mica si mangia, con la cultura.

Corriere La Lettura 30.11.14
La famiglia, il partito e il Sudafrica: i traditori di Mandela
La povertà avanza, figli e nipoti litigano e si contendono l’eredità
Mentre i politici dissipano il patrimonio etico del padre della patria
di William Gumede


A un anno dalla scomparsa di Nelson Mandela, padre fondatore della democrazia in Sudafrica, lo spirito della sua eredità politica, improntata a moralità, democrazia e integrazione razziale, sembra affievolirsi sempre di più nel Paese che lui ha condotto verso la libertà e, più in generale, in Africa.
I primi a tradire quello spirito sono stati i suoi parenti. Subito dopo la morte di Mandela, la figlia Makaziwe e il nipote Mandla si sono contesi aspramente, e sotto gli occhi di tutti, il ruolo di capofamiglia, sebbene fossero entrambi palesemente indegni di prendere il posto dell’illustre congiunto. Mandla Mandela è stato processato più volte per non avere versato gli alimenti per il mantenimento dei figli, per un’accusa di aggressione ai danni di una donna in seguito a un incidente d’auto e per bigamia. Al capezzale di Mandela, Makaziwe, nata dal suo primo matrimonio, e Zenani, nata dal secondo, hanno avviato un’azione legale per assumere il controllo di un fondo fiduciario istituito dal padre nel 2005 e destinato ad assicurare sostegno finanziario alle figlie, ma solo se si fossero trovate in difficoltà. Mandela voleva che figli e nipoti si rendessero indipendenti col proprio lavoro, senza prosciugare i beni di famiglia, come invece sembra accada.
Il partito dell’African National Congress (Anc) ha abbandonato il cammino esemplare avviato da Mandela. Governa sempre più per favorire gli interessi della piccola élite vicina ai vertici del partito, anziché per il bene del Paese. Valga ad esempio il fatto che l’Anc e il presidente del Sudafrica, Jacob Zuma, sono stati accusati di avere sperperato l’equivalente di oltre 22 milioni di euro pubblici per costruire la villa privata dello stesso Zuma. Molte famiglie di poveri di colore che abitavano nelle vicinanze sono state costrette ad abbandonare le proprie case e trasferirsi altrove perché costituivano «un rischio per la sicurezza» del presidente.
Prima di essere eletto presidente di Anc e Sudafrica, Zuma era stato accusato dello stupro della figlia sieropositiva d’un amico. Si era difeso affermando di avere avuto con la ragazza un rapporto consensuale non protetto, dopo il quale si era fatto una doccia per evitare il contagio: che l’Anc abbia voluto come presidente un personaggio di moralità così discutibile dice molto su quanto il partito sia lontano dall’esempio di Mandela.
In questi ultimi anni il Sudafrica è stato percorso da ondate di proteste violente, perlopiù di gente di colore e di sostenitori dell’Anc, contro il malfunzionamento dei servizi pubblici, la criminalità diffusa, la corruzione, l’indifferenza e l’inaffidabilità di esponenti politici e funzionari. Non considerando le sollevazioni nei Paesi nordafricani degli ultimi anni, e forse anche la Cina, il Sudafrica è il Paese a più alta intensità di proteste popolari del mondo.
Mandela si era adoperato con vigore per inculcare il rispetto delle nuove istituzioni democratiche, delle regole e delle leggi, così come per dare corpo a una cultura di democrazia politica nel Sudafrica gravato da un lungo passato di autocrazia. In diverse occasioni, in veste di presidente, si era inchinato alle indicazioni della magistratura, per dimostrare che anche come capo di Stato doveva rispondere alle istituzioni democratiche. Mandela non risparmiò energie per affermare il rispetto del parlamento come simbolo della nuova democrazia fondata su istituzioni rappresentative. Allo stesso tempo fece il possibile per mostrare rispetto all’opposizione, impegnandosi per farne partecipare i gruppi al governo di unità nazionale. Zuma sembra preoccupato solo di piazzare gli amici nelle posizioni di potere, mentre si rifiuta di comparire in parlamento per rispondere alle domande dell’opposizione, sostenendo di essere al di sopra del parlamento. Mandela, forte della sua filosofia di integrazione politica e della sua onestà, libero da ogni ombra di corruzione, seppe restituire dignità ai sudafricani, neri e bianchi, che indistintamente e con orgoglio lo riconoscevano come loro leader.
Per ironia della sorte, ora Zuma e l’Anc, a forza di malgoverno e corruzione, dividono il Sudafrica e accrescono la povertà dei neri, generando rabbia e razzismo. Per le elezioni del maggio scorso, Zuma e l’Anc sono arrivati a pregare gli elettori disillusi di dare fiducia al partito un’ultima volta in onore di Mandela. L’approccio all’integrazione tipico di Mandela, la sua umanità e la sua onestà erano il collante che teneva insieme l’Anc, ma ora che Mandela non c’è più — e che anche la sua impronta democratica è scomparsa — è probabile che il più vecchio movimento di liberazione dell’Africa si frammenti. Da quando Zuma è diventato presidente nel 2009, l’Anc ha già vissuto tre grosse scissioni: nel 2009, rappresentanti del ceto medio dell’Anc si sono staccati per formare il Congress of the People (Cope); nel 2013, diversi membri della Lega Giovanile dell’Anc hanno dato vita agli Economic Freedom Fighters; ed entro fine anno l’Unione dei Metalmeccanici (Numsa), il maggiore sindacato del Paese, finora schierato con l’Anc, si costituirà in partito, dopo aver dichiarato guerra a corruzione, cattiva gestione interna e mancanza di democrazia nell’Anc.
Sono sempre più numerosi i giovani sudafricani che, scontenti dell’operato dell’Anc, accusano ora Mandela di avere mediato troppo. Julius Malema, ex leader e agitatore della Lega Giovanile dell’Anc che, dopo la rottura con Zuma, ha fondato il nuovo partito populista Economic Freedom Fighters, accusa Mandela di avere svenduto i principi di fondo mettendo l’accento sulla riconciliazione fra neri e bianchi e permettendo a questi ultimi, che si erano arricchiti durante l’apartheid, di mantenere le proprie ricchezze anziché nazionalizzare le loro terre, fabbriche e miniere, come in Zimbabwe.
Mandela si era concentrato sui fondamenti della nuova democrazia: dare corpo al nuovo sistema politico, creare nuove istituzioni, rivedere l’impianto dell’apparato legislativo e costruire fin da subito un clima di fiducia fra la comunità nera e quella bianca. Riuscì così a mantenere il seguito che la maggior parte della gente di colore aveva nell’Anc ma anche a sopire le paure della classe media bianca, che si sentiva minacciata dal governo a predominanza nera.
In ogni caso, è sbagliato incolpare Mandela se il Sudafrica non è riuscito a creare un efficiente sistema di servizi e a creare lavoro e opportunità per la comunità nera. Con tutto il denaro pubblico sperperato negli ultimi vent’anni dai governi dell’Anc o svanito nella corruzione, il Sudafrica avrebbe potuto facilmente creare milioni di posti di lavoro per i neri meno abbienti, riducendo così povertà e diseguaglianze. Stando a dati del Council for the Advancement of the South African Constitution, il Paese perde ogni anno il 20% del Pil a causa della corruzione. Cifre fornite dallo stesso governo mostrano inoltre che, dal 1994 a oggi, il Sudafrica ha perso l’equivalente di 80 miliardi di euro a causa della corruzione nell’apparato pubblico. E il Paese ha bruciato molto probabilmente altri 40 miliardi di euro in sperperi e inefficienze.
Anche le politiche sbagliate hanno avuto dei pesanti costi. Il governo ha varato misure di sostegno all’economia nera, per cui le compagnie dei bianchi devono garantire ai neri delle compartecipazioni e devono inserirli nei loro direttivi. I beneficiari di queste misure, tuttavia, sono pochissimi neri — forse non più di una trentina — legati a doppio filo con l’Anc. Il ministero dell’Industria e Commercio (Dti) ha evidenziato che, con le politiche di sostegno all’economia nera, 40 miliardi di euro sono finiti nelle mani di pochi individui tra il 1994 e il 2005 (il periodo 2005-14 non è conteggiato). Se tale cifra fosse stata destinata all’istruzione della popolazione di colore, avrebbe prodotto notevoli cambiamenti.
La mia tesi è che, pur tenendo conto che nel 1994 Mandela doveva fare compromessi con i bianchi per favorire la pace, se le risorse economiche ereditate dal governo Anc in quello stesso anno fossero state utilizzate meglio e fossero state distribuite in modo più equo tra i neri, il Sudafrica avrebbe ridotto in modo significativo la povertà.
Anche nel resto dell’Africa l’eredità democratica di Mandela è sott’attacco. Lui riteneva che i leader africani dovessero far valere i diritti umani, la democrazia, l’inclusione etnica, e combattere la corruzione. Voleva che si comportassero in modo democratico, attento, onesto. S’oppose alla proroga del proprio mandato presidenziale, un modo per far capire agli altri capi di Stato che una prolungata permanenza al potere è un grave problema della leadership africana, che contribuisce a un’immagine negativa del continente.
Mandela restò profondamente deluso quando Robert Mugabe, presidente dello Zimbabwe, anziché far tesoro di quest’importante lezione, continuò a restare al suo posto, rafforzando così l’immagine negativa secondo la quale i leader africani preferiscono morire al potere piuttosto che abbandonare la poltrona. Oggi Mugabe sta brigando perché a succedergli a capo del partito di governo Zanu-Pf e dello Zimbabwe sia sua moglie. I tipi alla Mugabe sono considerati come eroi dai loro pari africani, che mostrano apprezzamento anche per omofobi come Yoweri Museveni, presidente dell’Uganda. Persino in Botswana, un tempo faro di democrazia per l’Africa, Ian Khama, il presidente, vuole che a succedergli sia il fratello.
Sembra poi che l’Unione Africana intenda proteggere i leader corrotti. Nel 2013 ha stabilito che nessun capo di Stato africano può essere sottoposto al giudizio della Corte penale internazionale (Icc) per i reati commessi, consentendo così a personaggi colpevoli di crimini contro l’umanità di farla franca. L’unica consolazione è che nei cuori di molti cittadini normali, di esponenti dei gruppi civili e delle popolazioni oppresse del Sudafrica, dell’Africa e del mondo, Mandela rimane un modello da imitare, malgrado gli attacchi che la sua eredità democratica subisce sia nel suo Paese che nel suo continente.
(traduzione di Laura Lunardi)

Repubblica 30.11.14
Grothendieck verso l’astratto andata e ritorno
di Piergiorgio Odifreddi


IL 13 novembre scorso è morto Alexander Grothendieck, considerato uno dei più importanti e influenti matematici della seconda metà del Novecento. I media si sono concentrati sugli aspetti folcloristici della sua vita, presentandolo come l’esempio archetipico del binomio “genio e sregolatezza”: anche perché sarebbe stato difficile descrivere in parole semplici le nozioni da lui introdotte.
Grothendieck è stato infatti il campione dell’astrattezza e dell’astrazione, che pure la scuola francese aveva portato a livelli stratosferici. A partire dagli anni ’30 il fantomatico gruppo Bourbaki aveva infatti già prodotto i monumentali Elementi di matematica , che dispiegarono le ali dei professionisti, ma tarparono quelle degli studenti di mezzo mondo, imponendo la “nuova matematica” nelle scuole.
Fu così che ai ragazzi si ammannirono insiemi invece di numeri, e spazi vettoriali invece di geometria, generando più confusione che comprensione. Perché l’astrazione, in matematica come in musica e pittura, dev’essere il punto d’arrivo, e non quello di partenza. Se ne accorse lo stesso Grothendieck, che dopo aver creduto di poter risolvere i grandi problemi generalizzandoli selvaggiamente, fu sorpassato dai propri allievi e scaricò su di essi la propria furia, per nulla astratta e molto concreta, in una sorta di tardivo ripensamento.

Repubblica 30.11.14
Piergiorgio Bellocchio
“Sono un intellettuale privato che bello non contare niente”
I pugni in tasaca. La sceneggiatura per me era pessima, ma il film lo trovai bellissimo
Mia madre e mia sorella si imbarazzarono
colloquio con Antonio Gnoli


Critico letterario e scrittore una passione mai sopita per editoria e politica, racconta come ha aperto e chiuso due storiche riviste e a 83 anni crede ancora che nella vita bisogna “limitare il disonore”

IL TASSISTA che dalla stazione di Piacenza mi porta al Circolo dell’Unione — un luogo sobrio e fuori dal tempo dove si mangia, si leggono i giornali, si gioca a carte, e dove ad attendermi c’è Piergiorgio Bellocchio — dice che è per Matteo Salvini. Dice che non vuole più i «negri dentro casa». Dice che ora che è morta la vecchia madre vorrebbe trasferirsi a Santo Domingo, dove c’è «tanta gnocca e la vita è meno cara di qui». Dice che non può farlo. Per colpa della Fornero non potrà andare in pensione. Aggiunge parole irriferibili. Un fiume in piena: di stracci ideologici, di pregiudizi a buon mercato, di risentimento profondo, di protesta che nasce da un dissesto lontano e mai sanato: «Quella voce non è rappresentativa della città. Ma ci avverte che qualcosa di irrecuperabile è avvenuta nelle fratture che attraversano la società», osserva Bellocchio. Sono andato a trovarlo perché come intellettuale e scrittore è un’eccezione. Un provinciale dallo sguardo lungo. Coerente. Appartato. Un moralista senza moralismi. Senza paraocchi.
L’avvocato Bellocchio che figura tra i fondatori del Circolo?
«Era mio padre. Se avessi chiesto l’ammissione al Circolo quarant’anni fa (ma non ne avevo la minima intenzione) sarei stato sicuramente respinto, come traditore della mia classe. Ora prendono tutti, purché paghino la quota. Preferisco quella vecchia borghesia, che sapeva distinguere. Oggi non esiste più».
Com’è la vita a Piacenza per uno come lei?
«Quella di un ultraottantenne che, oltre alla naturali offese all’età, patisce quelle supplementari dell’amministrazione e dei servizi. Chi è più in grado di decifrare una bolletta del gas, telefonica, un bilancio condominiale, una tassa? Io non ho la forza di provarci, e la cosa mi avvilisce e mi nausea. Numeri, sigle, formule misteriose. Non riesco neanche più a leggere i giornali, vedere la televisione, andare al cinema. Bombardati dalla pubblicità. Assediati telefonicamente da offerte che si spacciano per convenienti. Il libero mercato ha scatenato il nostro peggio. Rimpiango i monopoli».
Com’erano i rapporti con suo padre?
«È morto che avevo 24 anni. Fu una relazione ovviamente conflittuale. A cominciare dalle delusioni scolastiche».
La immaginavo uno studente modello.
«Tutt’altro. Un liceo classico tirato via. L’insofferenza per il ron ron scolastico e il conformismo culturale. Il desiderio di scrivere e fare altre letture».
Scrivere cosa?
«Pensavo di fare il giornalista. Anzi, all’inizio, vista una mia predisposizione al disegno, avrei fatto volentieri il vignettista».
E invece?
«La mia passione giornalistica, nonché editoriale, mi ha portato a optare per l’autogestione (sia nel caso di Quaderni piacentini che di Diario): che è poi ciò di cui vado più orgoglioso».
Cominciamo dai Quaderni. Come avvenne la loro nascita?
«Farei un piccolo passo indietro. Con alcuni amici avevamo dato vita a un circolo per dibattere argomenti di politica e di cultura. Riuscimmo a invitare personaggi come Danilo Dolci, Paolo Grassi, Carlo Bo, Ernesto De Martino, Franco Fortini».
Soprattutto Fortini fu importante per i Quaderni.
«Con lui il rapporto fu decisivo e difficile. Era inviso al potere politico e culturale: ai miei occhi, un valore. Mi piaceva la sua capacità di dare una versione del marxismo meno scontata e ortodossa».
Più Brecht che Lenin.
«Una volta — cinquant’anni fa — mi chiese cosa preferissi di Brecht. L’opera da tre soldi, risposi. Si vede che non sei marxista, replicò. Santa Giovanna dei macelli è il suo miglior testo, aggiunse con enfasi. In fondo la mia incapacità di essere marxista fino in fondo equivaleva per lui a un brutto voto».
E per lei?
«Un po’ anche per me, allora. Ma non mi sono mai vietato frequentazioni sospette. E presto ho capito che proprio in questa indisciplina stava la mia salvezza».
L’anno prima dei Quaderni Piacentini, ossia nel 1961, uscì a Torino Quaderni rossi, la rivista fondata da Raniero Panzieri. Fu un modo di rispondere a certe ipotesi nate nel seno della sinistra?
«La sinistra, soprattutto comunista, aveva subito due grosse crisi: la sconfitta del 1948 e il trauma del 1956. Ma tra noi e i Quaderni rossi la distanza era notevole. Loro avevano messo al centro la fabbrica. Noi, la società, gli individui, la vita, le idee».
Ha conosciuto Panzieri?
«Ho fatto in tempo a incontrarlo prima che morisse nel 1964. Un uomo di qualità politiche del tutto singolari. Niente a che fare con i partiti. Aveva lavorato in Einaudi. Ne uscì nel 1963 in maniera traumatica. Di fatto venne buttato fuori».
Perché?
«Panzieri aveva commissionato a Goffredo Fofi un libro inchiesta su cosa era l’immigrazione meridionale a Torino. Il libro fu letto e cassato da gran parte dei responsabili e consulenti della casa editrice. Fu uno scontro aspro. Panzieri ci rimise il posto. Renato Solmi, per solidarietà, si dimise a sua volta».
Ma Einaudi non era una casa editrice di sinistra?
«Non era totalmente infeudata al Pci. C’era una parte liberal-azionista che pesava: Bobbio, Mila, Venturi ecc. Ma quella inchiesta era un pugno sferrato in pieno volto alla città di Torino, dominata dalla Fiat. E poi, diciamo la verità, Giulio Einaudi — che considero un grande editore capace di circondarsi di collaboratori straordinari — non aveva una vera autonomia finanziaria. Dipendeva dalle banche (Raffaele Mattioli), dal Pci, da Giovanni Pirelli. Non aveva i soldi di Feltrinelli, da cui in seguito il libro di Fofi uscì».
Chi l’ha affiancata nel lavoro redazionale fu Grazia Cherchi. Che ricordo ne ha conservato?
«Il lavoro organizzativo toccava a me. Ma nei rapporti con i collaboratori il suo contributo fu straordinario. Sapeva stimolare e blandire. È merito suo se la rivista è durata così a lungo. Grazia aveva un’intelligenza affettiva. Si rivelò poi molto adatta al lavoro che andò a svolgere in varie case editrici».
Quaderni Piacentini chiuse nel 1984. Qualcuno disse che la rivista morì in buona salute.
«La gestione autonoma finì nel 1980. Eravamo passati da 12 mila copie, nel 1968, a circa 5 mila. Che era ancora un bel capitale. Ma era venuta meno la funzione “agitatoria” e cresciuta la quota di accademia: ottima, ma pur sempre accademia».
L’anno dopo, nel 1985, con Alfonso Berardinelli, dà vita a Diario.
Colpivano le prime parole del primo numero: “Limitare il disonore”. Cosa volevano dire?
«Dura meno di un decennio. Con Alfonso immaginammo una rivista che colpisse valori e luoghi comuni della sinistra, che continuava a sognarsi diversa e immune dal contagio della cultura dominante».
Fu, come la chiamaste, un’”opera a puntate” (nel 2010 ripubblicata integralmente in edizione anastatica da Quodlibet).
«Giornalismo inattuale. Per otto anni fu un esperimento sia letterario in forme raramente praticate sia editoriale, fuori dalle convenzioni e dai pregiudizi degli editori. Proponemmo autori — come Kierkegaard e Leopardi, Herzen e Thoreau, Weil e Orwell — da leggere senza cautele interpretative. Non avemmo l’approvazione di molti dei vecchi compagni, a cominciare da Fortini e Cases. Solidali invece Renato Solmi, Timpanaro, Jervis, Edoarda Masi, Luca Baranelli e altri. Fu una confortante sorpresa la sintonia di Carlo Ginzburg e Cesare Garboli».
«Prendere atto di una sconfitta storica e inappellabile, senza passare dall’altra parte».
Da quale educazione proviene?
«Blandamente cattolica. Le prime simpatie politiche a 16 anni per il Pci. Ma venendo dall’Azione cattolica non avevo nessuna voglia di entrare in un’altra chiesa».
Su quali letture si è formato?
«Molta narrativa otto-novecentesca. La letteratura può essere una infatuazione, un lusso inutile. Ma anche un insuperabile strumento di conoscenza sociale e storica. Un libro che mi sconvolse fu Lettere di condannati a morte della Resistenza , lo lessi nel 1952. La mia fedeltà politica ha la sua origine in quelle storie tragiche di partigiani fucilati. Finita la guerra non sapevo niente di ciò che era accaduto».
C’era stato il processo di Norimberga nel 1946.
«È vero. Mancavano tuttavia le proporzioni dell’accaduto. Le dimensioni della persecuzione contro gli ebrei erano insospettabili. Non è un caso che Primo Levi non trovasse un editore. Einaudi rifiutò Se questo è un uomo , uno dei libri capitali della cultura del ‘900. Solo dopo che fu pubblicato da De Silva, Einaudi ci ripensò. Un altro libro che mi ha formato è stato Minima moralia del 1954».
A tradurlo fu Renato Solmi, uno degli uomini più intelligenti
e tormentati.
«Secondo me un genio purtroppo anche nel rigore con cui si è autorepresso. A lui dobbiamo il più bel testo che sia uscito su Quaderni piacentini: un saggio di quasi cento pagine dedicato alla Nuova sinistra americana. Uscì nel 1965. Solmi seguì gli sviluppi di una sinistra le cui radici non erano comuniste ma radical».
Un altro suo obiettivo polemico fu il “Gruppo 63”. Anche lì c’erano delle belle intelligenze.
«A me non piacque l’autopromozione del gruppo. Occuparono la Feltrinelli, cacciarono Bassani. E pure Fortini. Dopo Poesia ed errore e il bellissimo Dieci inverni , fu costretto a bussare altrove».
Torniamo alla sua famiglia.
«Era numerosa. Eravamo otto figli. Io ero il terzo. Marco, nato nel 1939, l’ultimo».
Marco regista. L’esordio, con I pugni in tasca, fu folgorante.
«Sì, fu incredibile. Mi fece leggere la sceneggiatura e gli dissi che era pessima. Ma quando vidi le prime scene del girato, restai sbalordito. Era un film bellissimo».
I pugni in tasca che uscì nel 1965 era un atto di accusa contro la famiglia borghese, le sue nevrosi, le sue malattie. Bellocchio sembrò prendere a modello la propria. Come reagiste?
«Come crede che reagimmo? Mia madre e mia sorella non lo accettarono volentieri. Perfino io ho avvertito qualche disagio. Poi, col tempo, ho capito che i film di Marco sono sempre un po’ imbarazzanti».
In che senso?
«Si ha spesso l’impressione di sentirsi coinvolti, additati, messi sotto una lente di ingrandimento. È la sua maniera di agire liberamente anche di fronte al proprio privato. Ma le sue scelte nascono da un’onestà assoluta e da una coerenza che mi piace».
Ancora una volta tentare di “limitare il disonore”?
«Ma sì. Guardarsi dal diventar delle puttane».
Ce ne sono molte in giro?
«Una quantità industriale».
Che genere di intellettuale ritiene di essere stato?
«Non lo chieda a me. Comunque ormai da tempo sono un intellettuale quasi totalmente privato. Non ho un editore ormai da vent’anni. Non scrivo su nessun giornale. Finito Diario nel ‘93, non ho smesso di scribacchiare noterelle, appunti, e, quando capita, appiccicare ritagli di giornali — minimi documenti di quotidiano orrore e squallore — intercalati con riproduzioni di immagini di un passato che visto da oggi sembra migliore».
Più vicino a Montaigne che a Marx?
«Di Marx mi restano soprattutto il materialismo e il moralismo nel vedere che i conflitti sociali sono dovunque e forse politicamente insuperabili. Tra le mie letture degli anni Sessanta ci furono La Rochefoucauld, La Bruyère, Chamfort. Sì, i moralisti francesi sono stati un modello».
E Karl Kraus?
«L’ho letto più tardi. Non appartiene alla mia formazione. Semmai Adorno e Horkheimer. Mi chiedo cosa ne capissi allora. È un mistero. Evidentemente quando sei digiuno e affamato assimili anche quello che non capisci o che capisci a modo tuo».
Chi è un maestro?
«È chi sa trasmettere qualcosa e sa dare anche l’esempio».
I tempi che viviamo sono anni di finis sinistrae. Che giudizio ne dà?
«Quella sinistra che abbiamo conosciuto è finita e forse non è un male».
Non è troppo orgoglioso e sprezzante?
«Perché? Dopotutto a pochi è concesso il privilegio di “non contare niente”».


La Stampa 30.11.14
Sessantalgia, la nostalgia di quando c’era speranza
Gli Anni Sessanta sempre più fanno da sfondo ai nuovi romanzi da Hornby a Colombati, tra idealizzazione e fuga dal presente
di Paolo Di Paolo


Che fossero anni favolosi, o «formidabili», lo sapevamo già. Che diventassero un fondale privilegiato per molti romanzieri nati troppo tardi per viverli appieno, era più difficile prevederlo. Circola una strana forma di nostalgia per i Sessanta, una esplosiva e puntuale «sessantalgia»: e dilaga mentre scocca, dagli eventi di quel decennio, il mezzo secolo tondo. Dove va a cercare Nick Hornby la protagonista del suo romanzo appena uscito in Italia, Funny Girl (Guanda)? La cerca non nella Londra odierna, ma in quella degli Anni Sessanta: la città scintillante e «swinging», già parecchio costosa («Quasi tutto lo stipendio lo spendeva in cibo, affitto e biglietti d’autobus». Ma per quelle strade può accadere di tutto, e la ex Miss di provincia se ne accorge inseguendo il suo sogno di attrice comica.
Hornby puntella il suo romanzo di indizi anche fotografici: ragazze in bikini viste di spalle, maggiorate da pubblicità e da rivista patinata, un giovane e splendente Mick Jagger, giovani danzatrici in minigonna o zampa d’elefante. E poi quella misteriosa accelerazione della vita quotidiana, abiti, telefoni, automobili, lo sfolgorio del cinema e della tv neonata, una strana elettricità sessuale che si respira sui set: «Sophie cominciava a capire che non ci si poteva far niente: attori e attrici sarebbero sempre finiti a letto insieme». Hornby evoca un gran numero di divi dell’epoca , lo fa anche per raccontare una distanza che – allora sì – pareva incolmabile fra la vita di ogni giorno e l’essere star, era come entrare in un mondo parallelo.
Non è un caso se dalla copertina di 1960 (Mondadori), l’ultimo romanzo di Leonardo Colombati, ci guarda una giovane Catherine Spaak. Fotogramma da I dolci inganni di Lattuada, film di quell’anno, stretto fra la Dolce vita e l’Avventura di Antonioni. E se fossero un «dolce inganno», questi Sessanta? Colombati getta lo sguardo dietro e oltre la mondanità, ricostruisce inquietanti trame politiche – i servizi segreti impegnati a scongiurare un colpo di stato – e ci fa sentire come l’invenzione dei «giovani» come categoria sociale abbia prosaiche ragioni di consumo. Ma intanto le ragazze romane Olimpia e Valeria, come la Sophie di Hornby a Londra, uscendo da scuola «con le loro camicette bianche e le gonne blu» si affacciano in un mondo carico di novità, si preoccupano d’amore e psicanalisi, di sesso e deodoranti. Tutto ha un’aria promettente: la Roma delle Olimpiadi, le cene intellettuali, gli incontri nei caffè, Pasolini sfiora John Fante, Moravia che strabuzza gli occhi, Arbasino che parla inglese e Elsa de’ Giorgi che estrae champagne da una borsa-frigidaire. E Fellini, certo, c’è anche Fellini. Tutti i grandi ingegni si sono dati appuntamento in quel decennio?
Parrebbe così, a leggere rievocazioni come Addio a Roma (Neri Pozza) di Sandra Petrignani, che pure ha provato a difendersi dalla nostalgia. A proposito: si può essere nostalgici di ciò che non si è vissuto? Bisognerebbe chiederlo ad Andrea Gentile, classe 1985, che ha da poco pubblicato Volevo tutto (Rizzoli), dove immagina un sé stesso trapiantato negli Anni Sessanta, pronto a lavorare nel Corriere della Sera di Montale e Montanelli. È dolce perfino l’inverno milanese, le giornate sono luminose, e lui, mentre Mina canta, sente di camminare insieme alla Storia. Ottimista come il giovane Italo – non un personaggio di fantasia, ma lo scrittore Calvino – che viaggia in America fra il ’59 e il ’60, si stupisce scoprendo un televisore a colori e si interroga sulla felicità guardando le ragazze di New York. Nelle pagine appena mandate in libreria da Mondadori sotto il titolo Un ottimista in America, c’è il fresco autore dei Nostri antenati a passeggio nella Grande Mela «impregnata di elettricità, dove ci si carica di corrente a ogni passo, dove si prendono scosse ovunque si posi la mano». È la città che fa da sfondo alla fortunata serie tv statunitense in costume Mad Men, da noi alla sesta stagione, dove un gruppo di pubblicitari vede cambiare gli Usa e il mondo a gran velocità, fra Kennedy e Nixon. O prova a cambiarlo: a colpi di fantasia, immaginazione, sfida sociale. Come fa il vecchio mago dell’illustrazione Norman Rockwell – in mostra a Roma – che scopre una sua vena civile, e nel ’64, cinquant’anni fa esatti, dipinge The Problem We All Live With: una bambina nera scortata dai poliziotti in una scuola di New Orleans. Il grande sogno americano non era privo di ombre. Nemmeno quello italiano, fra Autostrada del Sole, jukebox, Fiat Seicento e le trame del «Piano Solo».
Enrico Finzi, nel recente memoir La vita è piena di trucchi (Bompiani), lo dice con nettezza: la differenza chiave fra l’oggi e quello ieri è «la speranza, che allora dilagava e ora latita». Non tanto il presente, ma «il futuro atteso» aveva tinte meno cupe. Il punto è proprio questo: quanto siamo disposti a rinunciare – nell’Italia del 2015 – al passo del gambero? A guardare avanti e non indietro, come angeli della storia esposti a un paesaggio di macerie? Le schegge dello specchio «anni Sessanta» rifrangono – scrive Colombati – «minuscole porzioni di un Paese che in realtà non c’è mai stato, ma che avrebbe potuto esserci: un Paese più felice, più ricco, più coraggioso e spensierato». Davvero dobbiamo arrenderci all’idea che il futuro non sia più quello di una volta? O al Flaiano che dice «Coraggio, il meglio è passato»? Mentre il Nobel Patrick Modiano cava da un taccuino nero, guarda caso, degli Anni Sessanta la sua ennesima, sfuggente, elegiaca storia di un tempo perduto (L’erba delle notti, Einaudi), non riuscendo più a sincronizzarsi con il calendario dell’oggi, qui ci tocca il compito di reimpostare gli orologi. Di ridare un po’ di carica alle sveglie.

Repubblica 30.11.14
Indagine sull’origine degli anni di piombo
Dalla frustrazione per le aspettative deluse al terrorismo Gabriele Donato ricostruisce le cause che portarono alla violenza politica
di Silvana Mazzocchi


DALLA contestazione radicale alla lotta armata, dalle manifestazioni di piazza dell’autunno caldo ai morti. Dopo tanti libri, saggi, autobiografie e testimonianze sugli anni comunemente definiti di piombo, un giovane storico, Gabriele Donato, ha scelto d’indagare sulla nascita della violenza e del sangue, e di ricostruire le motivazioni che spinsero tanti militanti dell’estrema sinistra ad abbandonare le lotte alla luce del sole per imboccare la strada della clandestinità e delle armi. Alla domanda del perché venne scelto il terrorismo per «farne territorio di pratiche collettive», aprendo quel tragico decennio che avrebbe cambiato per sempre il Paese, Donato tenta di dare una risposta in La lotta è armata, Sinistra rivoluzionaria e violenza politica in Italia 1969-1-972 ( DeriveApprodi), un saggio che centra l’obiettivo e che, forte di centinaia di testi e documenti consultati (biografie, testimonianze, opere storiche, inchieste giornalistiche e atti giudiziari), punta a raccontare come venne proposto, discusso e assorbito il tema della violenza politica da tutte le componenti di quella piccola folla che costituiva la sini- stra più estrema.
Non c’è una tesi univoca nella ricostruzione di Donato, ma un mosaico di ragioni possibili, di cui una centrale. In quegli anni si era fatta spazio l’idea che presto il Paese sarebbe insorto grazie alla radicalizzazione delle lotte e i militanti dei gruppi e gruppetti extraparlamentari consideravano l’esito rivoluzionario quasi un’evoluzione naturale dell’aspra conflittualità sociale che avevano vissuto. Ma il 12 dicembre 1969 la doccia fredda della strage di Piazza Fontana mostra il volto buio delle istituzioni. Ne seguì una repressione diffusa e sempre più dura da contrastare fino al 1972 quando l’uccisione del commissario Luigi Calabresi rese evidente di quanto l’asse politico della sinistra conflittuale si fosse ormai spostato verso l’illegalità. Fu però soprattutto la rinascita dei partiti riformisti a contribuire al disincanto di quanti di quelle “illusioni insurrezionaliste” si erano nutriti. E la loro egemonia ebbe la meglio sul movimento operaio e sulle lotte sociali, tanto che la forbice tra le aspettative rivoluzionarie e la capacità di recupero delle forze moderate si allargò al punto da risultare incolmabile..
Fu dunque la frustrazione per le aspettative rivoluzionarie deluse a provocare la violenza terroristica? Lo scenario ricostruito da Gabriele Donato fa emergere questa ipotesi. Si parte dai due gruppi di maggiore impatto dell’epoca , Potere Operaio e Lotta Continua, con i loro dibattiti, percorsi e prese di posizione, spesso contigue alla violenza politica; ma è la nascita del Collettivo politico metropolitano a Milano a dare la spinta maggiore a un dibattito interno che farà prevalere l’organizzazione, l’illegalità e la clandestinità finalizzate alla lotta armata. Anticamera delle Brigate rosse.

LA LOTTA È ARMATA di Gabriele Donato DERIVEAPPRODI PAGG . 384 EURO 23

Repubblica 30.11.14
Tutto in 5 minuti
Benvenuti nella cultura della “parte per il tutto”
García Marquez? I suoi incipit. “Casablanca”? La scena finale. Seneca? Bastano gli aforismi
È l’epoca del pensiero corto, ci illudiamo di conoscere un’opera gustandone solo un pezzo
Rischi? Come disse Woody Allen, “Ho letto in due minuti Guerra e pace con la lettura veloce. Parlava della Russia”
di Maurizio Ferraris


IL 7 novembre 1785 Goethe scrive a Charlotte von Stein: «Continuo a leggere Linneo: vi sono costretto, dato che non ho altri libri. Del resto è il miglior modo per leggere coscienziosamente un libro, un modo nel quale devo esercitarmi spesso, dato che non mi accade facilmente di leggere un libro sino in fondo». Se quello era Goethe, figuriamoci noi, oggi, nell’epoca del pensiero corto, del pensiero contratto e della lettura frammentaria non per mancanza di tempo (che a ben vedere è l’unica cosa al mondo che non possa diminuire), bensì per eccesso di offerta. E per l’abitudine internettiana di far durare qualcosa — la visione di un video, così come la lettura di una pagina web — per un tempo brevissimo, i classici cinque minuti.
Per far ascoltare ai suoi estimatori tutto L’anello del Nibelungo già Wagner li dovette sequestrare in un apposito teatro a Bayreuth. Oggi i loro pronipoti ascoltano La cavalcata delle Valchirie su YouTube, possibilmente nella versione di Apocalypse Now, più breve e movimentata. La parte sta per il tutto, lo sovrasta e lo cancella. Quando morì García Márquez i siti di tutto il mondo pubblicarono gli incipit dei suoi libri più famosi. Questo contribuirà all’oblio di Marquez più che un rogo di libri: conoscendo le prime due righe, i più avranno pensato di aver letto i romanzi, proprio come, un tempo, chi aveva fatto montagne di fotocopie si convinceva di aver letto anche gli ardui articoli fotocopiati. Lo stesso accade per i trailer cinematografici. Quello dell’ultima parte della trilogia tolkeniana dello Hobbit, La battaglia delle cinque armate , ha fatto protestare i fan perché è troppo completo; il che, a ben vedere, non è problematico ma emblematico: se un trailer di qualche minuto rischia di sostituire un film di tre ore, è lecito pensare che nel film ci siano due ore e cinquantasette minuti di troppo. Sapere che il film può ridursi al trailer non manca di condizionare la sceneggiatura. È probabile che Michael Curtiz, il regista di Casablanca, fosse consapevole delle scene madri presenti nel film. Ma non sapeva che oggi ben pochi si metterebbero su YouTube a vedere il film intero, preferendo l’estasi del frammento, e che tra costoro i più giovani non sapranno neppure che la parte rinvia a una totalità, senza la quale non è chiaro perché Ingrid Bergman tenga tanto a riascoltare As Time Goes By.
Bene, un regista di oggi questo lo sa, e costruisce il racconto in vista, prima di tutto, di ciò che metterà nel trailer — il resto non è principio attivo, ma eccipiente.
In altri casi ancora, il gusto del frammento si trasferisce da wikiquote al libro. Ad esempio, in una collana di Chiarelettere, Feelbook, Kafka ridotto ad alcuni suoi frammenti diventa guru della dieta ( In forma con Kafka; c’è, anche, meno sorprendentemente, un Più saggi con Seneca : ma credetemi, è più facile diventare magri con Kafka che saggi con Seneca). E il quasi arcigno quotidiano The Guardian ha elaborato una serie di microcommedie da 5 minuti, però a onor del vero non c’è molto di nuovo sotto il sole: Achille Campanile si era portato avanti con le sue Tragedie in due battute , e sono passati sessant’anni da quando Augusto Monterroso ha scritto il romanzo più breve di tutti i tempi: «Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì».
In altre parole: la parte per il tutto, il frammento per l’intero. Con la conseguente illusione di padroneggiare una qualsiasi opera complessa — libro, concerto, film — gustandone solo un pezzo. E con un’intera generazione, quella dei nostri figli, che conosce e conoscerà i grandi capolavori di ogni settore dello scibile solo così, a piccoli pezzi. I rischi del pensiero corto sono sintetizzati (accorciati?) nella battuta di Woody Allen: «Ho letto in due minuti Guerra e pace con un sistema di lettura veloce. Parlava della Russia».
Tuttavia vorrei spiegare perché quella del pensiero corto, della citazione esemplare e spesso sbagliata, dello stereotipo fuorviante, sia una tentazione così forte. Non solo per noi, ma anche per i nostri antenati. Dopotutto, il Kafka nutrizionista non è più bizzarro dell’uso di Virgilio nel Medio Evo, quando l ’ Eneide veniva adoperata come un libro sibillino da cui trarre profezie (di qui un possibile volumetto della collana di Chiarelettere: una antologia della Divina Commedia intitolata Viaggiare con Virgilio ). La frammentarietà, cioè non solo il breve, ma l’incompiuto, può essere una scelta estetica, per esempio nel Romanticismo — un romanticismo eterno e non ancora concluso: fedele all’elogio del frammento in Schlegel, il Passagenwerk di Benjamin consiste in una incompiuta (dunque frammentaria) raccolta di frammenti tratti dalle fonti più disparate. Altre volte può essere un modo per trasmettere il sapere in modo compatto anche se compendiario. Le sette meraviglie del mondo sono le antenate delle compilation “le dieci canzoni più belle di sempre”; il resto è destinato all’oblio. Inoltre, spesso si legge sotto stress, per consultare, passando da un testo all’altro, e anche qui non da oggi. Nella Biblioteca Palafoxiana di Puebla, in Messico, fondata nel 1646, ricordo di aver visto un curioso marchingegno: una serie di ripiani disposti a ruota, come le pale di un mulino ad acqua. Su ogni pala si poneva un libro, e questo permetteva allo scrivente di disporre di più libri contemporaneamente, facendo girare la ruota. Ricordo di aver mandato la cartolina che raffigurava questo antenato del web a Jacques Derrida, che per parte sua aveva escogitato vari sistemi ingegnosi per consultare più libri contemporaneamente, e che alla domanda di rito del giornalista «Ha letto tutti i libri che ha in casa?» rispose: «Solo due o tre, ma molto molto bene». Altre volte il frammento non è una scelta, ma una necessità: è tutto quello che abbiamo. Si pensi ai famosi (e famigerati) frammenti dei Presocratici, di fronte ai quali il lettore deve comportarsi come il paleontologo, che dall’osso cerca di risalire allo scheletro, e poi di immaginarsi l’animale tutto intero. Di Anassimandro ci restano in tutto due righe, su cui si è strologato per millenni ricavandone un manuale di zoologia fantastica.
La logica della parte per il tutto illustra così almeno tre meccanismi implacabili che accompagnano la trasmissione dello scritto dalle piramidi al web: il frammento nasconde e cancella l’intero; la censura e la rimozione eccitano la curiosità, come nel caso dei testi degli eretici che sopravvivono nei libri degli inquisitori; e, soprattutto, “dai nemici mi guardo io, dagli amici mi guardi Iddio” (c’è la concreta possibilità che, col tempo e per complesse circostanze di trasmissione, di Zizek restino soltanto le barzellette, tradotte in italiano da Corbaccio).

Repubblica 30.11.14
Da Proust a Wilde la lunga strada delle scorciatoie
È un atteggiamento che nasce insieme alla letteratura e coincide con l’intento di impadronirsene ma evitando ogni fatica
di Valerio Magrelli


L’IDEA di una letteratura in pillole parte dall’assunto che sia possibile spremere il succo di un libro buttandone la buccia, come da un frutto si estraggono le vitamine per una compressa. Si tratta di un atteggiamento che nasce insieme alla letteratura, e coincide con l’intento di impadronirsene, sì, ma evitando ogni fatica. Lunga, dunque, è la strada delle scorciatoie. Sin dall’antichità, la passione per i libri è andata di pari passo con la speranza di riuscire a leggerli senza sforzo. In apparenza paradossale o perverso (perché fare sesso più in fretta del necessario?), questo desiderio dipende in realtà da un fatto preciso: l’opera d’arte produce vantaggi anche extra-letterari — basti vedere l’amore delle citazioni nei discorsi politici. D’altronde, proprio per mostrare gli indubbi benefici legati all’ostentazione della cultura, il sociologo Pierre Bourdieu ha parlato di come il gusto crei una “distinzione” sociale. Ma che senso ha cercare di ottenerla senza attraversare le forche caudine del tempo, dello sforzo, della dedizione?
La lunga strada delle scorciatoie inizia con la mnemotecnica, cioè con un insieme di sistemi per imparare a ricordare meglio e più in fretta. Da Quintiliano a Giordano Bruno, una pratica simile serviva sia ai filosofi, sia agli oratori. In certo modo, è quanto promettono oggi i metodi di “lettura diagonale”, oppure una nuova app volta a risparmiare quell’80 per cento del tempo che la retina dissipa durante la lettura di un libro (visto che solo il restante 20 per cento risulta effettivamente dedicato alla sua comprensione). In attesa che queste tecniche diano qualche risultato, ci si continua a esercitare sugli autori considerati più difficili.
Sia chiaro: c’è anche chi rifiuta la lettura in toto. Prendiamo l’incontro con l’opera di Proust (che, seppure a suo modo, resta fra le esperienze più avvincenti). Un poeta come Paul Valéry ammise di averla letta «appena appena» — il che, riferito a un romanzo di sette volumi, pone seri problemi di interpretazione. Ben più perentorio, Anatole France scrisse: «La vita è troppo corta, e Proust, troppo lungo». Snobismi. Tornando ai nostri lettori in cerca di scorciatoie, come assaporare capolavori che esigono grande impegno? Senza citare quelli che il critico cileno Jorge Edward chiamò I tentativi impossibili ( da Finnegans Wake di Joyce, a Paradiso di Lezama Lima), come avvicinarsi a certe vette narrative? Esiste un uso “omeopatico”, ovvero per minime dosi, dei testi sacri? Possiamo spizzicarli, cioè attingervi in forma metonimica, secondo la figura retorica che indica “la parte per il tutto”?
Dipende. In Leopardi, ad esempio, la sintesi delle poesie e la densità della prosa nelle Operette morali , giustificano una lettura parziale dello sterminato Zibaldone , anche perché questo diario intellettuale (integralmente letto solo da pochi studiosi) consiste di sezioni spesso autonome. Con un romanzo-fiume, tuttavia, le cose si complicano. Cosa fare per poter dire di averlo letto? estrarne qualche passo? scorrerlo velocemente? La risposta più acuta e provocatoria è di Pierre Bayard, che nel saggio Come parlare di un libro senza averlo mai letto ( Excelsior, 2007), sostiene: «Essere colti, significa sapere orientarsi all’interno di un libro, e tale orientamento non implica la sua lettura integrale, bensì il contrario. Si potrebbe addirittura affermare che maggiore è questa capacità, minore sarà la necessità di leggere quel libro in particolare».
Per Bayard, un libro non si limita a se stesso, ma è costituito dal mobile insieme di tutta una serie di scambi suscitati dalla sua circolazione. Pertanto, ancor più che leggerlo, impadronirsene significherà prestare attenzione a tali scambi. Così, ha precisato Umberto Eco, si potrò scoprire di conoscere libri mai letti, poiché nel frattempo se ne erano letti altri che ne parlavano, li citavano, o si muovevano nello stesso ambito. D’altronde Oscar Wilde spiegò che, per riconoscere la qualità di un vino, non occorreva bersi un’intera botte. Ciò detto, non-lettori di tutto il mondo, unitevi!, e fate vostra un’altra celebre frase del medesimo autore: «Non leggo mai libri che devo recensire; non vorrei rimanerne influenzato».

Repubblica 30.11.14
Rembrandt
La vecchiaia bella e feroce diventa l’ultimo capolavoro
“The Late Works” alla National Gallery di Londra
La splendente stagione creativa di un genio in tarda età
di Antonio Pinelli


LONDRA IN CAMPO artistico – ma il discorso vale per ogni attività umana – vige una regola: la vecchiaia porta con sé mestiere ed esperienza, ma la vena creativa, inevitabilmente, s’inaridisce. Le eccezioni sono limitatissime, ma anch’esse costituiscono una norma: solo i maestri veramente sommi riescono a mantener vivo il gusto dell’invenzione, rinnovandosi fino all’ultimo. Ne sono prova Mantegna, Leonardo, Michelangelo, Tiziano, Goya, Monet, Picasso e pochi altri.
Rembrandt van Rijn (1606-1669) appartiene di diritto a questa ristretta categoria dei Phares – come li chiamò Baudelaire – e desta perciò sorpresa che la mostra Rembrandt. The Late Works (Londra, National Gallery, fino al 18 gennaio), sia in assoluto la prima interamente dedicata all’estrema e strepitosa stagione creativa del maestro olandese, mentre non stupisce che un simile, irresistibile richiamo, per di più sostanziato da una felicissima selezione di oltre cento tra dipinti, disegni e acqueforti, abbia un po’ rubato la scena al pur importante debutto sul palcoscenico londinese del grande pittore lombardo Giovan Battista Moroni, cui la Royal Academy dedica in questi giorni una magnifica monografica.
Viene spontaneo usare un lessico teatrale parlando di Rembrandt. Le sue composizioni sono sempre guidate da un’invisibile regia che manovra la mobilissima tastiera delle luci e delle ombre, facendo emergere con la massima intensità i trasalimenti e le emozioni che s’irradiano dal nucleo drammatico del dipinto. Per non parlare del notevole tasso di istrionismo che traspare dalla sua strabiliante galleria di autoritratti, forse la più disinibita e nutrita dell’intera storia dell’arte (un’ottantina, secondo le ultime e più restrittive stime, che escludono la miriade di repliche e varianti uscite dalla bottega).
Il serrato e ininterrotto dialogo che, autoeffigiandosi, Rembrandt intrattenne con se stesso ha forse qualcosa a che fare, com’è stato affermato, con la pratica protestante dell’impietoso esame di coscienza compiuto in nome della responsabilità individuale, ma per capirne le motivazioni più profonde sono particolarmente eloquenti i suoi ultimi autoritratti: sia quelli in cui si traveste e posa da San Paolo o da Zeusi per attingere la verità di un’espressione del viso o di un moto dell’animo, sia quelli, sconvolgenti, che ce lo mostrano stoicamente impassibile, in abiti da lavoro, mentre con occhio inquisitorio scruta, per registrarli sulla tela, ogni segno di sfaldamento, ogni ruga impressi sul suo corpo da una vecchiaia precoce, accelerata dalle angustie di un’esistenza divenuta, inaspettatamente, grama. Rembrandt, insomma, usava se stesso come interprete e come cavia, perché dipingere era il suo modo di riflettere e d’impossessarsi della realtà, sia interiore che esteriore.
Questa stretta connessione tra autoritratti ed evoluzione stilistica è confer- mata dal fatto che il pittore si autoeffigiò con insistita regolarità lungo tutto l’arco della sua vita, tranne che dal 1543 al 1551, otto anni nei quali non produsse neppure un autoritratto. Nel 1542 era morta l’amatissima moglie Saskia, ma in quegli stessi mesi Rembrandt, all’apice della fama, dava le ultime pennellate alla Ronda di notte, il capolavoro che riassumeva nel modo più organico e polifonico il suo stile maturo, portandolo al più al più alto grado di complessità compositiva e di orchestrazione chiaroscurale. Proseguire su quel sentiero, che aveva cominciato a esplorare in gioventù e aveva percorso fino in fondo, sarebbe equivalso a gettare la spugna, a girare in tondo come un criceto nella gabbia. Occorreva dunque intraprendere un nuovo corso, ma al trauma per la morte della moglie si era sommato un rapido tracollo economico da cui l’artista, di fatto, non riuscì più a risollevarsi e ne paralizzò, ma solo per pochi anni, la capacità di autorinnovarsi. A partire dal 1552, infatti, la sua vena autoritrattistica riprese a fluire abbondantemente e, in parallelo, il suo stile si rinnovò in modo profondo e audace, divenendo più intenso, scabro ed essenziale.
Incurante di muoversi talmente controcorrente da sconcertare gran parte della sua clientela, Rembrandt accentuò il suo distacco dalla pittura specchiante e perfettamente levigata che molti, sulla sua scia, continuavano a proporre, dando avvio a quella maniera «ruvida», che vantava qualche precedente solo nel congenialissimo Tiziano e, per certi aspetti, in Franz Hals. Una pittura fatta di pennellate dense e intrise di colore, che esaltano i valori materici con la corposa e tattile evidenza di una pasta cromatica che sembra gonfiarsi e fermentare quasi vivesse di vita propria: una materia così spessa e deposta, strato su strato, a colpi di pennello, da provocare, anche nei contemporanei e non solo nel positivistico Ottocento, dubbi su un inesorabile declino della vista del pittore, clamorosamente smentiti dalle minuziose finezze che quel pennello mostrava ancora di saper distillare, dove e quando era necessario. Una pittura che fa deflagrare il colore e arroventa le forme, esponendole a strali di luce che le estraggono da nebbie caliginose e ombre dense come la pece.
Ma tanto sono spesse e ruvide le pennellate dell’ultimo Rembrandt, quanto rarefatto e ottenuto più per «via di levare» che per «via di porre» è il modo con cui egli esprime nei suoi quadri tardi i conflitti interiori dei personaggi. Precorrendo la tematica del «momento pregnante» teorizzata nel Settecento da Diderot e Lessing, al maestro olandese ormai, basta uno sguardo perso nel vuoto, una mano esitante, una posa in bilico per esprimere il dramma che si scatena nell’animo di Betsabea nel ricevere l’invito all’adulterio inviatogli dal suo re.
LE OPERE
Da sinistra,
Giovane donna al bagno in un ruscello ( 1654),
Autoritratto
(1669) e La sposa ebrea (Isacco e Rebecca) ( 1666)
LUCREZIA
Il dipinto del 1666 è in prestito alla National Gallery dal Minneapolis Institute of Arts

Repubblica 30.11.14
Udine
Viaggio adriatico nel Neolitico
di giuseppe M. Della Fina


Adriatico senza confini. Via di comunicazione e crocevia di popoli nel 6-000 a. C., al museo archeologico del Castello di Udine (fino al 22 febbraio 2015), è un’esposizione coraggiosa: racconta il Neolitico, periodo caratterizzato dall’introduzione dell’agricoltura e dell’allevamento.
L’iniziativa, voluta dai Civici Musei di Udine con il Museo Friulano di Storia Naturale, ha visto la collaborazione tra archeologi italiani, sloveni e croati. La documentazione esposta offre un’idea esauriente della vivacità del mare Adriatico. Emergono i contatti tra la Dalmazia, l’Istria, il Carso triestino, la pianura friulana, ma anche la Puglia. I manufatti ceramici, con le loro forme e le decorazioni, riescono a illuminare bene tali motivi d’incontro promossi da uomini che si muovevano portando – quale bagaglio prezioso – le proprie conoscenze.

Il Sole Domenica 30.11.14
Adda venì Carlo quinto!
Lo studio di Elena Bonora descrive il clima d'attesa antipapale dei prìncipi italici per la discesa nella Penisola dell'imperatore
di Massimo Firpo


Quando fu eletto imperatore del Sacro Romano Impero, il 28 giugno 1519, Carlo di Gand, il figlio primogenito di Filippo il Bello d'Asburgo (morto nel 1506) e di Giovanna la Pazza, non aveva ancora compiuto vent'anni. Mai più fino a Napoleone la storia europea avrebbe visto un potere così esteso in ogni angolo del continente, da Gibilterra a Lipsia, da Anversa a Tunisi. Fu il più spettacolare successo della sagace politica matrimoniale degli Asburgo, poiché una serie di morti premature e di casi fortuiti lo portò a ereditare i domini di tutti i suoi quattro nonni: da Massimiliano I le terre ereditarie di casa d'Austria e la corona imperiale; da Maria di Borgogna le ricche Fiandre e la Franca Contea; da Ferdinando il Cattolico l'Aragona e le corone di Napoli, Sicilia e Sardegna; da Isabella di Castiglia i regni di una Spagna ormai liberata dai mori e protesa sugli oceani verso gli sterminati dominii d'oltremare recentemente scoperti.
Era una miriade di regni, principati, ducati, città, feudi sui quali Carlo esercitava poteri molto diversi, talora quasi nominali, che trovavano unità solo nella sua persona e che lo costringevano a passare la sua vita in continui viaggi, per mostrarsi ai suoi sudditi, accettarne l'obbedienza, chiederne il contributo finanziario. Questa frammentata disarticolazione costituì una delle più gravi debolezze dell'impero sul quale non tramontava mai il sole, come si disse, dal quale lo stesso Carlo V avrebbe infine abdicato nella consapevolezza di non poter reggere la sfida alla sua egemonia europea da parte della poderosa Francia di Francesco I e di un altro impero in grande espansione, quello ottomano di Solimano il Magnifico, che dopo aver conquistato l'Ungheria giunse a porre l'assedio a Vienna nel 1529 e per mare sconfisse ripetutamente la flotta spagnola. Proprio alla vigilia dell'elezione imperiale, infine, la protesta di Lutero aveva dato vita alla frana del cattolicesimo a nord delle Alpi, della quale i principi tedeschi approfittavano per emanciparsi dall'autorità imperiale, mentre la stessa fine della respublica christiana ne delegittimava la sacralità di suprema tutrice della fede e della Chiesa.
Queste tempestose vicende investirono in pieno anche la penisola italiana, la cui debolezza politica era stata messa in evidenza dalla calata di Carlo VIII nel 1492 per rivendicare la sovranità francese sul regno di Napoli. Una nuova stagione di «guerre horrende» (così le definì Francesco Guicciardini) devastò per un quarantennio la penisola, con il loro inseparabile seguito di carestie, pestilenze, saccheggi, violenze d'ogni genere: il sacco di Roma del 1527, perpetrato dalle truppe imperiali, ne fu l'episodio più noto. Al centro dello scontro c'era Milano, il bastione dal quale si controllava la ricca e colta Italia del suo rigoglioso autunno rinascimentale, l'Italia di Machiavelli e Raffaello, di Bembo e Michelangelo, dove una fitta trama di principati feudali, di signorotti e tirannelli, di repubbliche cittadine, di piccole corti cercava di navigare tra i perigliosi flutti di quei decenni, di muoversi tra Francia e Spagna nel solco di antichi lealismi dinastici o alla ricerca di nuove alleanze per districarsi e sopravvivere tra quegli «atrocissimi accidenti», sono sempre parole di Guicciardini. E l'Italia fu allora al centro della politica di Carlo V, «il più saggio imperatore e giusto / che sia stato e sarà mai dopo Augusto», cantava Ludovico Ariosto.
A complicare la situazione c'era poi il millenario insediamento a Roma del papato, coinvolto fino in fondo nelle convulse vicende politiche della penisola, alla ricerca di un'autonomia e di un predominio che induceva a usare le grandi risorse della cosiddetta fiscalità spirituale della Chiesa per arruolare eserciti e liberare l'Italia dai barbari, come soleva dire Giulio II, o per tutelare il proprio potere secolare, come accadde ai papi medicei Leone X e Clemente VII, che solo grazie alla tiara riuscirono a controllare Firenze, o ancora per costruire qualche staterello destinato a perpetuare il potere della famiglia, come non riuscì a fare Alessandro VI Borgia, mentre ci riuscì Paolo III Farnese, utilizzando feudi della Chiesa per creare il ducato di Parma e Piacenza e insignirne suo figlio Pier Luigi, un brutale soldataccio. «Il buon vecchiarello si sguazza il mondo felicissimo», commentò furioso il cardinale Ercole Gonzaga, cui parve «una strana cosa il veder fare un duca di due simili città in una notte, come nasce un fungo». A ciò si aggiunga infine che l'esigenza di convocare un concilio ecumenico per definire l'ortodossia cattolica e varare la riforma della Chiesa contrapponeva papato e impero, proteso l'uno a condannare le eresie protestanti, e l'altro invece a cercare una possibile mediazione con i luterani, sperando che un incisivo rinnovamento dell'istituzione ecclesiastica ne avrebbe frenato i successi in terra tedesca. Il concilio si riunì finalmente a Trento alla fine del 1545, e lo scontro esplose nel '47 quando, dopo aver incassato l'approvazione di alcuni importanti decreti teologici, con il pretesto di un'epidemia Paolo III lo trasferì a Bologna, in terra della Chiesa, con furibonda collera dell'imperatore, che non tardò a vendicarsi facendo assassinare Pier Luigi Farnese. «Io so la via di Roma – tuonava Carlo V – guardisi papa Paulo di non far ch'io vada a trovarlo!».
Ed è appunto negli anni cruciali del pontificato di Paolo III (1534-1549) che si immerge il denso e affascinante studio di Elena Bonora che, sulla base di una ricchissima documentazione d'archivio, ricostruisce la fitta trama del partito filoimperiale in Italia, tra principi e feudatari, cardinali e ambasciatori, spie e agenti d'ogni tipo, ricostruendone attraverso straordinarie corrispondenze private le istanze, i progetti, le speranze, le delusioni. Ne emerge tutta un'Italia fieramente antipapale e antifarnesiana, desiderosa di farla pagare cara a quel pontefice che aveva «oltraggiato tutti i principi d'Italia», di ficcare «un stecco perpetuo nelli occhi di Sua Santità», di togliersi «questo sterco dai piedi», di «empoderarse de Roma», anche in vista di una riforma della Chiesa tale da assumere in alcuni casi connotati eterodossi, nella convinzione che spettasse a Carlo V e non a Paolo III il compito di «aconchiar el mundo i reformar la Iglesia». A popolare la scena sono personaggi spesso di alto rango e vivida personalità, come il cinico cardinal di Ravenna Benedetto Accolti, a dire il vero poco disposto a credere nella fede cristiana, l'ambasciatore spagnolo don Diego Hurtado de Mendoza, la cui vastità di esperienze politiche e il cui acuminato giudizio si nutrivano di straordinaria cultura e spirito di libertà, don Ferrante Gonzaga, plenipotenziario di Carlo in Italia, e suo fratello Ercole, cardinal di Mantova, principe della Chiesa e di fatto principe dello Stato gonzaghesco, l'abilissimo duca di Firenze Cosimo de' Medici, il potente e imprudente Ascanio Colonna. E con essi si intrecciano le passioni e la smagata lucidità politica di una generazione che, se riusciva a sopravvivere in quei terribili frangenti, lo doveva solo alla propria capacità di capire uomini e cose, di cogliere il senso degli eventi, di prevedere il futuro.
Di grande interesse, nella forma e nella sostanza, è il linguaggio affidato ai fitti scambi epistolari imposti dalla lentezza delle comunicazioni, dal bisogno di ricevere e trasmettere informazioni, di far conoscere le proprie opinioni sugli eventi e di sentire quelle degli altri. Un linguaggio talora ironico, ma più spesso carico di indignazione e talora rabbioso, che il timore delle spie rende talora criptico, cifrato («il nostro gramuffo», lo definiva il cardinal Gonzaga), basato su parole in codice e pseudonimi nella cui labirintica trama l'autrice guida il lettore. Per esempio, Carlo V è Sansone, Paolo III Cerbero, Cacco o Polifemo, l'alleanza antifarnesiana l'imperio anticacchico, i cardinali sono i ciclopi mentre Roma è il ciclopico antro o la spelonca (o meglio la speloncaccia di Cacco) e andare a Roma è speloncare, cosa che i cardinali antifarnesiani devono guardarsi bene dal fare (mai, mai, mai, mai, dico mai speloncar mentre che vi è l'Orco!). E poi gli aspri libelli polemici contro papa Farnese, «razza sgualdrina», «ingiustissimo et iniquissimo patre et indebitamente detto pastore universale», «questo Antichristo, questo mostro horrendo», «pontefice malvagio et ignorante», «inimicissimo di Dio». La durezza dello scontro e i sentimenti di rabbia e di indignazione che si manifestano in questi scritti risaltano con crudezza dalle parole con cui nel 1544 il cardinal Gonzaga si rallegrava di poter dire che il papa «non solo sia fritto, ma mangiato et caccato senza reverenza et ridotto già in polvere». Nelle illusorie speranze e negli inestinguibili odi che vi traspaiono, essi consentono di capire in presa diretta l'incalzare di uno scontro politico denso di valenze religiose e di passioni ideali. Uno scontro destinato a esaurirsi dopo il conclave del 1549-50, con il fallimento delle candidature imperiali alla tiara a causa delle divisioni interne del partito filosburgico e con il rapido delinearsi negli anni seguenti del primo tracollo finanziario della corona spagnola, che avrebbe indotto Carlo V a rinunciare a una politica duramente antipapale, a dividere i suoi domini, a inserire l'Italia tutta nell'orbita spagnola e infine ad abdicare. È anche negli esiti di queste vicende che affondano le radici del lungo predominio cattolico e papale nella penisola italiana, dove l'imperatore a lungo invocato e atteso, come ai tempi di Dante Alighieri, alla fin fine non sarebbe mai arrivato.

Elena Bonora, Aspettando l'imperatore. Principi italiani tra il papa e Carlo V, Torino, Einaudi, pagg. VII-286, € 32,00

Il Sole Domenica 30.11.14
La storia è una maionese impazzita
Ogni testimonianza oggi è verità rivelata
Il passato è ridotto a un serial televisivo o a un trekking in alta montagna
di Sergio Luzzatto


Le cose sonoandate in fretta. O comunque più in fretta di come io avrei mai immaginato. Nel volgere di una generazione – quella che separa me dai miei figli – la maionese della storia è impazzita. E non perché la mia fosse una generazione chissà quanto presa dal passato, mentre la generazione dei miei figli sarebbe chissà quanto ignorante o indifferente. Non si tratta di questo. Nelle scuole e nelle università, oggi come allora si incontrano ragazzi appassionati di storia. Ragazzi che vincono la tentazione, così naturale per la loro età, di vivere in un eterno presente o in un futuro anteriore, e che scelgono di guardare anche indietro: ragazzi che per aggiustare la loro visuale sull'oggi cercano una profondità di campo estesa allo ieri o all'altroieri. Sono una piccola minoranza, ovviamente. Ma erano una piccola minoranza anche quelli di trent'anni fa.
La maionese della storia non è impazzita a livello di domanda, è impazzita a livello di offerta. E la responsabilità di questo non può ricadere, evidentemente, sulla generazione dei quindicenni o dei ventenni di oggi. A esserne responsabile, semmai, è la generazione dei loro padri. Cioè la mia. Quella del famoso «riflusso» seguito al famoso «impegno» degli anni Settanta. Quella di adolescenti che dopo avere perso (senza troppi rimpianti) l'ultimo autobus della rivoluzione, scoprivano l'insostenibile leggerezza del compiere vent'anni durante gli anni Ottanta. Nell'Italia spensierata della Milano da bere, ma anche nell'Europa acuminata della Lady di Ferro. E nell'Occidente che si disponeva a prendere per buona, dopo la caduta del muro di Berlino, la bufala all'americana sulla «fine della storia». È stata la mia generazione, quella di chi ha adesso cinquant'anni o giù di lì, la prima del secondo Novecento ad avere sorriso della grave massima di Cicerone, historia magistra vitae. Salvo trovarsi a dover misurare, ora, le estreme ricadute di quel sorriso di condiscendenza.
Per carità, evitiamo di farci incantare dalla retorica ciceroniana del De Oratore, che nella citazione completa del passo suona così: «historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis» (e nella traduzione di Wikipedia: «La storia è veramente testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita, messaggera dell'antichità»). Lasciamo stare Cicerone. Ma teniamo aperta la citazione dal De Oratore, sulla schermata di Google, abbastanza per notare come la maionese della storia sia impazzita, da una ventina d'anni a questa parte, proprio nella misura in cui i diversi elementi della definizione ciceroniana sono stati mischiati e rimischiati senza criterio, come in un cocktail dell'assurdo. Niente Bellini o Rossini, niente Margarita o Bloody Mary: al cinema come in libreria, sui media come sul web, nell'attuale offerta pubblica di historia gli ingredienti e i valori della ricetta di Cicerone – testimonianza e verità, vita e memoria, magistero e messaggio – sembrano usciti dallo shaker di un barista ubriaco.
Che si tratti di un kolossal hollywoodiano o di un documentario di History Channel, di un romanzo storico francese o del saggio di un divulgatore italiano, delle pagine culturali di un quotidiano o del sito di un museo civico, non c'è oggi testimonianza che non venga contrabbandata come verità; non c'è messaggio che non venga spacciato per magistero; non c'è memoria che non venga confusa con la storia. Il passato bussa spesso alla porta del nostro mercato culturale, che sia sotto la forma di un film sui gladiatori o sotto quella di un serial sui Borgia, che sia come proposta di un trekking lungo le trincee della Prima guerra mondiale o come organizzazione di una gita scolastica ai forni crematori di Auschwitz. Il passato bussa, attira, e perfino fa cassa. Ma è un passato – paradossalmente – dimentico di storia, se per storia si intende qualcosa di più che le quinte di una coreografia o le sorprese di una sceneggiatura, che il brivido di un'emozione o la vertigine di uno spaesamento.
Intellettuali avvertiti avevano segnalato per tempo il rischio di un corto circuito "post-ideologico" fra ricerca e immaginazione, interpretazione e scrittura, non fiction e faction. Fin dal 1979 uno dei maggiori storici inglesi si era interrogato sui possibili effetti distorsivi di un «ritorno alla narrazione», dopo che per decenni la storiografia internazionale si era soprattutto affidata alla modellistica delle scienze sociali. Nel 1998, una studiosa francese della Shoah ragionava dell'avvento di un'«èra del testimone» in cui l'assunzione del punto di vista di un singolo personaggio della storia – la testimonianza, per l'appunto – aveva ormai assunto il carattere, prima ancora che di una necessità interiore, di un imperativo sociale. Oggi, la contaminazione dei generi intorno all'uso pubblico della storia è talmente diffusa che quasi nessuno, là fuori, sembra più intenzionato a porsi il problema.
Raro, per non dire eccezionale, è il caso del collettivo italiano di scrittura Wu Ming, che ha accompagnato e accompagna la propria attività letteraria – quasi tutti romanzi o racconti storici – con una riflessione insistita quanto acuta sulle forme e sulle implicazioni di una «New Italian Epic». Nella stragrande maggioranza dei casi, in Italia come all'estero, la maionese della storia impazza senza fare notizia. E senza che i critici letterari provino davvero a distinguere, se non l'olio dall'uovo, il grano dal loglio: l'impressionante cultura storica (oltreché l'invidiabile qualità stilistica) di un Javier Cercas o di un Emmanuel Carrère o di un Jonathan Littell, dalla finta confidenza con la materia dell'uno o dell'altro narratore travestito nei panni di un buono o di un cattivo del passato, partigiano polacco o gerarca nazista, alchimista del Rinascimento o terrorista delle Brigate rosse.
Gli storici di mestiere, per parte loro, esitano fra due strade. I più reagiscono all'invasione di campo di cuochi maldestri e baristi ubriachi trincerandosi nel ridotto dell'accademia. Scrivono libri illeggibili per chiunque non sia un loro collega d'università o un loro studente coatto. E li pubblicano con quanto resta loro a disposizione di fondi pubblici, il libero mercato editoriale non essendo più in grado di assorbire monografie destinate a poche decine di lettori. Ma così facendo, gli storici di mestiere allargano il fossato tra il sapere e il trasmettere, oltreché il fossato tra lo scrivere e il farsi leggere. Sempre più vengono percepiti dalla nuova generazione – quella dei loro studenti, che può coincidere con quella dei loro figli – come i patetici ufficiali di una Fortezza Bastiani (se soltanto i ragazzi di oggi leggessero Buzzati) arroccati a difendere il deserto dalla minaccia di un nemico inesistente. Un piccolo numero di storici professionisti, invece, reagiscono all'invasione di campo invadendo a loro volta il campo altrui, le cucine dei cuochi come i banchi dei baristi. Quasi fossero sospinti da un rigurgito marxiano di ostilità verso la divisione sociale del lavoro, abbandonano i luoghi e accantonano i ferri del loro mestiere – sale manoscritti delle biblioteche, buste degli archivi – per impugnare mixer e brandire shaker: si improvvisano artefici di intingoli e cocktails basati sulla contaminazione tra storia e letteratura. Senza rendersi conto che il talento narrativo è come il coraggio di don Abbondio, chi non ce l'ha mica se lo può dare. E senza sospettare che le loro divagazioni extra-storiografiche possono finire per gettare un'ombra, al limite, sul profilo stesso della loro produzione di storici.
È di altro che oggi si avverte il bisogno. Di un sapere storico saldamente ancorato alle regole del mestiere, eppure impaziente di uscire dalle secche di una comunicazione del passato tutta interna alla disciplina, riservata agli addetti. C'è bisogno oggi, da parte degli storici, di una rinnovata assunzione di responsabilità civile. Perché la domanda di historia che variamente emerge dal mondo della scuola, dal mercato dell'intrattenimento, dagli intrecci del web, non merita né di essere stroncata come imperdonabilmente superficiale né di essere vellicata con imperdonabile superficialità. A quella domanda di storia – quand'anche ristretta per vocazioni studentesche, confusa nei criteri culturali, caotica dentro l'orizzontalità della rete – merita di rispondere con un sovrappiù di investimento sulla qualità dell'offerta.
In effetti, l'intero problema dell'uso pubblico della storia rimanda a qualcosa di urgentemente contemporaneo, e di intrinsecamente politico: la grande questione dei common goods. Perché anche la storia – intesa sia quale scienza di un passato condiviso, sia quale tecnica di una memoria collettiva – deve essere oggi ripensata e tutelata quale «bene comune». Ma per valere da bene comune, la storia deve essere sottratta a chi vuole farne un bene indifferenziato: uno story-telling altrettanto spendibile alla fiera della creatività letteraria quanto nell'arena della propaganda politica. La storia è un bene troppo prezioso per essere lasciato in pasto a praticoni più o meno abili nella contaminazione dei generi e a liquidatori più o meno seduttivi di ogni cultura dei «professoroni».

Questo testo costituisce la premessa del libro di Sergio Luzzatto, Storia comune. Nuovi interventi, manifestolibri, Roma, pagg. 228, € 22,00, che propone una scelta ragionata di suoi articoli pubblicati sulla «Domenica» dal 2012 a oggi

Il Sole Domenica 30.11.14
Neuroscienze
Parlare con le mani
Da studi svolti con Rizzolatti è emerso il ruolo cruciale dei gesti manuali nell'evoluzione del linguaggio
di Michael Arbib


Mentre frequentavo l'Università di Sydney, mi capitò di leggere il testo di Norbert Wiener, Cybernetics: Or Control and Communication in the Animal and the Machine. Ne fui convertito: da matematico puro divenni un matematico affascinato dalla sfida di comprendere il cervello. Mi iscrissi al dottorato del Mit, dove Wiener lavorava, e nel 1964 pubblicai il mio primo libro, Brains, Machines & Mathematics. Nei decenni successivi continuai a lavorare alla teoria matematica della computazione e del controllo, e alla teoria del cervello che contribuì a spostare l'attenzione nella scienza cognitiva dal processamento di simboli astratti al ruolo del cervello e del corpo nella cognizione.
Nel corso degli anni, con colleghi e studenti a Stanford, all'Università del Massachusetts e oggi all'Università della California del Sud, continuai a scoprire modi affascinanti in cui modelli del cervello illuminano la cognizione umana. In che modo studiare le rane che acchiappano le mosche può aiutarci a capire i movimenti oculari degli esseri umani? Cosa ci dicono le ferite da arma da fuoco dei veterani della Prima guerra mondiale sul modo in cui il cervelletto produce movimenti aggraziati? Influenzato dal neuropsicologo francese Marc Jeannerod, esplorai come il cervello connette la visione all'azione manuale, e da lì emersero nuove idee sulle basi neurali del linguaggio.
Negli anni novanta, io e Jeannerod unimmo le forze con Hideo Sakata a Tokio e Giacomo Rizzolatti a Parma, integrando studi di neuroimmagini sul comportamento umano con registrazioni neurofisiologiche su singoli neuroni nel cervello dei macachi. Quando Rizzolatti e colleghi scoprirono i neuroni specchio nelle scimmie (neuroni che si attivano sia quando l'animale compie un'azione sia quando la vede compiere da altri), il mio gruppo ne sviluppò il primo modello computazionale, mostrando come potessero emergere durante l'apprendimento.
Sorprendentemente, studi di neuroimmagini in California e a Milano localizzarono il sistema specchio nel cervello umano all'interno o in prossimità dell'area di Broca, un'area associata al riconoscimento delle parole. Che ci facevano neuroni legati ad azioni manuali in un'area dedicata alla parola? Io e Rizzolatti notammo che l'area di Broca è coinvolta non solo nella lingua parlata, ma anche in quella dei segni, e ipotizzammo che ciò indicasse un ruolo cruciale dei gesti manuali nell'evoluzione del linguaggio. Nel 1998 pubblicammo l'articolo Language within our grasp, e le mie ricerche successive sul tema si tradussero nel 2012 in un libro, How the brain got language.
Ancora oggi, comprendere le interazioni fra cervello, azione e linguaggio resta una sfida formidabile. Ma ora sappiamo, al di là di ogni ragionevole dubbio, che la predisposizione al linguaggio tipica del cervello umano può essere spiegata esclusivamente in termini di cognizione incorporata. Il cervello da solo non parla, ma il cervello in azione di un soggetto sociale può essere molto eloquente.

Il Sole Domenica 30.11.14
Le ragioni di Tommaso d’Aquino
Prove dell'eternità del mondo
di Umberto Eco


L'idea di una eternità del mondo era considerata una pericolosa eresia: infatti, se il mondo fosse eterno allora non ci sarebbe più bisogno di un Dio creatore, e la Bibbia avrebbe mentito quando diceva «In principio Dio creò il cielo e la terra».
Tommaso non può asserire che il mondo sia eterno, ma nel suo tentativo di conciliare fede ragione compie nel De aeternitate mundi una operazione quasi spericolata: ragionando secondo onestà e secondo logica, senza farsi influenzare dalla sua fede, arriva a una conclusione sconvolgente. Egli crede a un mondo creato perché glielo dice la rivelazione, ma filosoficamente non può dimostrare che il mondo non sia eterno. E siccome presumere che il mondo esista da sempre, senza che debba la sua esistenza a qualcosa che possiede l'essere in massimo grado è – sostiene Tommaso – errore abominevole anche per un filosofo, egli tenta una sua soluzione. Infatti sostiene che una cosa è dire che il mondo dura da sempre nel tempo e una cosa dire che dura da sempre per natura.
Tutte le cose di questo mondo, per esempio un fiore, nascono perché nella materia preesistente esse sono in potenza, poi sopraggiunge la forma-fiore e sboccia il fiore come sostanza. Se dunque Dio avesse dovuto imporre le varie forme su una materia preesistente questo significherebbe che il mondo, come materia informe, ovvero pura possibilità, esisteva prima del suo atto creatore, il che è impossibile. Tuttavia Dio ha creato gli angeli senza che ci fosse materia preesistente (infatti l'angelo non ha materia ed è pura forma), quindi non è necessario che Dio crei da una materia preesistente. Dio, allora, può avere creato qualcosa che era stato da sempre? Si dovrebbe sostenere che ciò non è possibile. Se prima il mondo non c'era e poi Dio l'ha creato, allora il mondo è nato dopo il gesto creatore di Dio.
Ma questo è vero secondo il modo di pensare di noi uomini, abituati a vedere la sequenza delle cause e degli effetti che si dispiegano nel tempo: prima c'è il calcio e dopo la pietra rotola per la pianura. Ma ci sono cause che non precedono il loro effetto in termini di durata nel tempo: per esempio la luce, che è sì effetto del sole, ma nel preciso momento in cui appare il sole, c'è la luce. Parimenti il fuoco è certamente causa del calore, ma il calore appare nel preciso istante in cui appare il fuoco. Oppure si immagini un piede che dall'eternità abbia impresso la sua orma nella sabbia, nel senso che non prima ci fosse il piede e poi qualcuno lo abbia posato sulla sabbia, ma che il piede sin dall'eternità sia nato come piede-sulla-sabbia. La sua orma sarebbe effetto del piede, ma non sorgerebbe dopo che il piede si è impresso sulla sabbia, bensì apparirebbe nel momento stesso in cui apparisse il piede.
In questi casi il rapporto tra causa ed effetto, movente e mosso, necessario e contingente, e così via, non dovrebbe essere visto come durata nel tempo, come il prima e dopo di una clessidra. Il tempo è un incidente del mondo, ma non ha nulla a che fare con Dio, che è eterno.
È vero che, se Dio ha deciso che il mondo esista, ciò è dipeso da un moto della sua volontà. Ma non è necessario che un atto della volontà preceda il suo effetto nel tempo. Immaginiamo che Dio a un certo momento abbia ritenuto opportuno creare il mondo. Se si ammette che il mondo sia una perfezione, Dio come essere perfetto sarebbe restato per una eternità privato da questa perfezione e si sarebbe deciso solo dopo a crearla? È impossibile.
Dunque Dio potrebbe aver voluto il mondo sin dall'eternità. Questo sembra cozzare contro l'obiezione che Dio ha creato il mondo ex nihilo, dal niente. Ma dire che lo ha creato dal niente non significa che prima ci fosse niente e poi ci sia stato il mondo. Se fosse stato così, questo niente sarebbe stato eterno, e in qualche modo si sarebbe dovuto decidere se veniva prima o dopo Dio. Creare dal niente non significa che prima c'era il Niente e dopo qualcosa, come se il Niente fosse qualcosa che viene prima di qualcosa d'altro. Creare dal niente significa che ogni cosa creata riceve il suo essere da altro, senza cui non sarebbe niente, non esisterebbe. Dio ha creato le cose ex nihilo certamente, ma non post nihil, (ossia «dopo un niente preesistente»). E così il mondo riceve il suo essere da Dio, sua causa necessaria, ma coeterna, senza che si debba pensare che prima del mondo ci fosse qualcosa di eterno che si chiamava il nulla. Non è che l'aria sia luminosa perché prima del sole non era nulla. È che senza il sole l'aria non sarebbe niente, non esisterebbe neppure.
Né tiene l'obiezione che se il mondo esistesse da sempre ci sarebbe una infinita quantità di anime, in paradiso o all'inferno. Il mondo può essere esistito dall'eternità senza gli uomini.
Pertanto dal punto di vista filosofico non si può negare l'eternità del mondo. Si crede che il mondo non fosse eterno solo per ragioni di fede.