lunedì 1 dicembre 2014

Fidarsi dell’informazione dei grandi quotidiani?
La Repubblica oggi titola: Il Pd evita un nuovo flop ai gazebo, ma mente: in realtà se si guardano i numeri il Pd ha dovuto registrare un crollo del 60 per cento degli elettori - come il Corriere ammette, hanno votato solo in 40mila - rispetto al dicembre 2012
Corriere 1.12.14
Alla Moretti le primarie in Veneto
Ma i votanti si fermano a 40 mila
di Francesco Alberti


PADOVA La terza vita politica di Alessandra Moretti, transitata in un anno mezzo dalla Camera all’Europarlamento e dalle fila bersaniane alle truppe renziane, ha preso forma in un’umida domenica padovana nelle urne delle primarie del Pd veneto, pesantemente segnate da un crollo di votanti — 40 mila contro gli oltre 100 mila del dicembre 2012 per la scelta dei parlamentari — in parte previsto dopo la Waterloo partecipativa di domenica scorsa in Emilia-Romagna, ma non per questo meno bruciante se lo si confronta al dato arrivato ieri dalle primarie in Puglia dove l’affluenza è andata oltre i 100 mila con Emiliano in testa, davanti a Stefàno di Sel e il pd Minervini: a più di un terzo dello scrutinio lo staff di Emiliano ha annunciato: «Abbiamo vinto».
Alessandra Moretti, vicentina, 41 anni e 230 mila preferenze alle ultime Europee, sarà la candidata dei democratici alle Regionali di primavera contro il potente governatore leghista, Luca Zaia. I suoi avversari — la senatrice Simonetta Rubinato, 50 anni, area cattolica, ex sindaco di Roncade, e il consigliere regionale dipietrista, Antonio Pipitone, medico di 52 anni — si sono piazzati a debita distanza dal suo 66,4%. Una vittoria annunciata, quella della Moretti, ora attesa da una sfida che ha il sapore dell’impresa: sottrarre il Veneto alla lanciatissima Lega di Salvini. «Il tempo della battaglia inizia adesso, con Zaia me la giocherò fino alla fine», dice la candidata pd.
Modello Emilia, vade retro. A dispetto di quello che si potrebbe pensare, ieri notte nella sede del Pd veneto si respirava un’aria, se non trionfale, decisamente soddisfatta. Talmente da incubo erano le previsioni della vigilia che il dato dei 40 mila votanti (superiore al numero degli iscritti al partito in regione: 20 mila) è stato accolto come una manna: «Considerando il momento difficile, è andata oltre le aspettative — ha detto il segretario Roger De Menech —: se facciamo il confronto con l’Emilia-Romagna, ce la siamo cavata egregiamente. Non accettiamo lezioni: Zaia è stato scelto da tre persone».
A Bologna e dintorni, in ottobre, le primarie portarono alle urne 50 mila persone (su 70 mila iscritti) e furono il primo indizio del tracollo. Qui in Veneto le premesse erano da brividi. A cominciare da come era andato l’ultimo atto di campagna elettorale quando, per il confronto finale tra Moretti, Rubinato e Pipitone, a fatica si era riusciti a riempire i cento posti a sedere del Crown Plaza, non certo il Madison Squadre. Tutto congiurava contro la consultazione veneta: lo scandalo del Mose, la crisi del mitico «modello Nordest», passando per i tormenti legati al Jobs act con la Cgil a remare contro le primarie e i civatiani del senatore Felice Casson a dir poco tiepidi.

e, per completezza dell’informazione, ecco anche l’”onesto” articolo - senza i numeri! - di Domenico Castellaneta su Repubblica
Repubblica 1.12.14
Il Pd evita un nuovo flop ai gazebo
Scelti i candidati del centrosinistra per le prossime regionali in Veneto e Puglia
di Domenico Castellaneta


VINCONO Michele Emiliano e Alessandra Moretti: saranno l’ex sindaco di Bari e l’europarlamentare Pd a guidare il centrosinistra alle elezioni regionali in Puglia e Veneto nella prossima primavera. E lo fanno spinti dalle elezioni primarie di ieri che allontano il fantasma dell’Emilia e portano alle urne oltre centomila persone in Puglia e 40mila nel Veneto.
Nella regione di Nichi Vendola seggi chiusi alle 22, più di centomila votanti contro i 190mila del 2010 quando il leader di Sel sconfisse per la seconda volta Francesco Boccia. A un terzo di schede scrutinate Emiliano (che sfiderà il candidato del centrodestra non ancora individuato) era al 67 per cento delle preferenze superando il senatore Dario Stefàno (Sel) con il 22,5 e un altro democrat, Guglielmo Minervini con il 10,5. «E adesso lavoriamo tutti insieme», ha dichiarato Emiliano che riesce così ad allontanare lo spettro del flop dopo che alla vigilia Nichi Vendola aveva prima minacciato il ritiro dalle primarie, poi convinto dal sindaco di Bari, il renziano Antonio Decaro.
Sarà invece Alessandra Moretti, eurodeputata del Pd, a cercare di disarcionare il centrodestra che da vent’anni guida la Regione Veneto prima con Giancarlo Galan, poi dal 2010 con il leghista Luca Zaia. La Moretti ha vinto con oltre il 67 per cento dei voti la sfida. Lei, che era andata a Strasburgo forte di 230mila voti di preferenza, nella sfida a tre di ieri ha battuto la compagna di partito Simonetta Rubinato, che ha preso il 28,53% e il consigliere regionale dell'Idv, Antonio Pipitone, con il 4,36%. Negli oltre 600 seggi (chiusi alle 20) hanno votato 40mila persone (anche se erano state stampate circa 70mila schede). «E’ la certezza del merito: il Veneto merita questa vittoria. A vincere non sono io, ma tutti noi veneti», ha dichiarato la Moretti. E adesso la aspetta la sfida con Luca Zaia.

il Fatto 1.12.14
Verso le Regionali
Veneto come l’Emilia Primarie flop del Pd
di Emiliano Liuzzi


Benino in Puglia, male in Veneto. A conferma, come avvenuto in Emilia Romagna, che gli elettori sono disgustati dalla questione della malapolitica: a Bologna e dintorni hanno influito l’inchiesta sul consiglio regionale e la condanna in appello per falso ideologico del presidente, Vasco Errani, a Venezia quella delle tangenti per il Mose. È questo il mondo del Pd alle prese con le primarie, un tempo una grande conquista (secondo Matteo Renzi), oggi uno strumento superato (ancora Renzi).
In Veneto il partito ha puntato tutto su Alessandra Moretti, una delle nuove stelle del partito del nuovo corso. I bookmakers di periferia la davano ampiamente favorita, e così è stato, con una percentuale che ha superato il 64 per cento. Ma l’affluenza al voto è stata molto bassa: qualcosa come 30 mila persone (fonte Pd, ovviamente, e su 20 mila iscritti, ma erano primarie aperte e di coalizione) sono quasi niente rispetto ai 170 mila quando si sfidarono Renzi e Bersani e, ironia della sorte e misteri della politica, Moretti faceva la portavoce dell’allora segretario del Pd. Se si dovesse fare un bilancio e un raffronto fu più brava in quell’occasione. Moretti se l’è vista con la deputata di Treviso, Simonetta Rubinato e contro l’outsider Antonino Pipitone, candidato dell’Idv e consigliere regionale. Alla fine non c’è stata storia, anche grazie alla visibilità che gode l’europarlamentare vicentina.
DIVERSA la situazione in Puglia dove l’affluenza è arrivata a circa cento mila persone. Che devono decidere tra il segretario del Pd, Michele Emiliano, renziano, l’assessore regionale alla Legalità, Guglielmo Minervini (anche lui del Pd), e il senatore Dario Stefano, sostenuto dal Sel. Nessuno canta vittoria, anche perché le primarie sono un gradino, ma poi c’è da vedersela alle urne. In Veneto, soprattutto, una Regione che da anni è governata dal centrodestra, prima con Giancarlo Galan e poi con Luca Zaia, che comunque è uno dei governatori più apprezzati d'Italia, almeno secondo le rilevazioni sul gradimento che vengono fatte periodicamente. Zaia, poi, è della Lega, dunque del partito che in questo momento gode di un’ascesa trainata dalla politica contro gli stranieri. Messi insieme questi due fattori è molto difficile azzardare delle previsioni.
IN PUGLIA il centrosinistra, nonostante lo strappo traumatico e irrimediabile tra Emiliano e il presidente della Regione, Nichi Vendola, cerca di raccogliere l’eredità del governatore uscente, non certo immune da errori e cadute, ma rimasto comunque a piede libero, e di questi tempi è già molto. C’è la questione dell’Ilva e tutto quello che ne è venuto fuori, ma almeno dal punto di vista del turismo estivo (magra consolazione, ma alcune realtà non hanno neanche quella), è cresciuta. Il tasso di disoccupazione è al 19,8 per cento, livelli mai raggiunti in passato, dietro solo a Sicilia, alla Campania e alla Calabria, ma il Pd resta, insieme a Forza Italia, un partito molto strutturato e presente sul territorio. Spaccato in molte correnti, ma strutturato.
Piuttosto difficile, per tornare alle primarie, capire come può andare a finire in termini di percentuale.
IL CANDIDATO che unisce il partito è Emiliano, che ha già vinto la corsa per la segreteria e si aspetta di avere una conferma, ma le percentuali non potrebbero essere così alte come è stato per la Moretti. L’affluenza alta lo aiuta, oltre alla visibilità televisiva della quale ha sempre goduto, anche come sindaco di Bari.

Repubblica 1.12.14
La grande fuga dalle Regioni
di Ilvo Diamanti


IL VINCITORE delle elezioni regionali in Calabria e in Emilia-Romagna è il non voto. Così hanno sostenuto molti osservatori e attori politici. In realtà, chi non vota non vince mai. In modo più o meno consapevole e volontario, sostiene e legittima le scelte di chi vota. Sicuramente, però, l’astensione è un segnale di distacco. Un indice di disagio della democrazia rappresentativa. Ma occorre interpretarlo correttamente.
L’ASTENSIONE alle elezioni regionali è sempre stata più elevata che alle politiche. Anche se mai come questa volta. Soprattutto in Emilia-Romagna, dove storicamente si vota per “appartenenza” politica e sociale. Se molti elettori hanno scelto di non votare, però, è perché non ne hanno sentito la necessità. Non dico il dovere, che ormai è categoria che non si addice al voto. Chi non ha votato (quasi due elettori su tre) l’ha fatto per diverse ragioni. Indifferenza, disinteresse, rifiuto. Molto meno, a mio avviso, contro il PdR. Il Partito di Renzi. D’altra parte, anche alle Europee gli elettori del Pd hanno votato per Renzi “nonostante tutto”.
In questo caso, alle Regionali, cioè, la posta in palio era diversa. Il governo della Regione — “rossa” per definizione. Dell’Emilia-Romagna. E se molti, troppi, non hanno votato è, anzitutto e soprattutto, per sfiducia, disincanto, verso la classe politica e dirigente non “nazionale”, ma “regionale”. Verso gli uomini di governo e di partito che, in Emilia-Romgna, coincidono largamente. Perché sono passati i tempi del “buon governo locale”. La Ditta, ormai, non garantisce più formazione e selezione della classe dirigente, come una volta. Anche perché non è più quella di prima. Il Partito, come organizzazione radicata nella società e nel territorio, non c’è più. Si è centralizzato, burocratizzato, personalizzato. Mediatizzato. Non solo il Pd post-comunista, ovviamente. È il percorso seguito da “tutti” i partiti. Ma il Pd post-comunista, nelle regioni rosse, ne ha sofferto di più. Perché coincideva, largamente, con la società. Insieme alla rete di associazioni e di istituzioni locali, che lo affiancavano, garantiva il sistema di servizi e di relazioni che accompagnavano la vita quotidiana della gente. Costituiva la tela sociale del territorio.
Oggi quel mondo non c’è più. Da tempo. Ma, in aggiunta, non c’è più neppure la classe dirigente che garantiva il funzionamento della società locale. O meglio, non ha la stessa qualità e “popolarità”. E, soprattutto, si è deteriorato il rapporto dei cittadini con il governo del territorio. Per primo, verso la Regione. Ciò non riguarda, specificamente, le “Regioni rosse” (anche se il cambiamento, in rapporto con il passato, appare più acuto). Ma le Regioni in quanto tali. La fiducia nei loro confronti, in pochi anni, è collassata, più che declinata. Nel 2000 era espressa dal 44% dei cittadini, nel 2008 dal 39%, nel 2014 dal 28% (dati di sondaggi Demos).
Questo rapido cambiamento di umore ha più di qualche ragione, più di qualche fondamento. Basti rammentare che, dal 2000, in quasi metà delle Regioni hanno avuto luogo elezioni anticipate. Solo negli ultimi due anni: sette. Oltre a Emilia-Romagna e Calabria, anche Piemonte, Lombardia, Lazio, Molise e Basilicata. Segno e conseguenza degli episodi di corruzione, abuso, irregolarità, inefficienza che hanno interessato le Regioni, in Italia. In particolare, dopo l’avvio dell’elezione diretta dei governatori, nel 2000, e dopo l’approvazione del titolo V, sul Federalismo, nel 2001, che hanno aumentato risorse e poteri delle Regioni.
Per restare agli ultimi mesi, è sufficiente rammentare gli scandali che hanno investito il Veneto e la Lombardia, per le vicende del Mose e dell’Expo. Ma, soprattutto, sono molti, troppi i casi di sperpero e di uso improprio — e indecoroso — dei soldi pubblici — dei cittadini — da parte degli amministratori regionali. A fini personali. Difficile non provare indignazione e disgusto. Difficile tornare a votare — come nulla fosse — per un’istituzione rappresentativa che non si ritiene più rappresentativa. Se non degli interessi personali dei (pochi) eletti. Così, al distacco nei confronti dei partiti e dello Stato, del Parlamento e dei leader politici, si è sommata, in misura crescente, la sfiducia nei confronti della Regione. Che è perfino più lontana e indefinita, agli occhi dei cittadini. E per questo più inaccettabile. L’indifferenza si è cumulata all’indignazione. E, alla fine, solo un terzo degli elettori, in Emilia-Romagna, si è mostrato disponibile a spendere il tempo necessario a recarsi alle urne. A votare.
Difficile, per questo, non pensare alla crisi, se non alla fine, delle attese riposte nel progetto federalista. L’illusione federalista, potremmo dire. Che ha mobilitato molte energie, molte iniziative, molti soggetti, molte persone. D’altronde, negli anni Novanta, due “partigiani” del federalismo, come Giorgio Lago e Francesco Jori, notavano, con un po’ d’ironia, che l’Italia era divenuta «il Paese con il più alto tasso di federalisti per km quadrato». Io stesso, d’altronde, ci ho creduto. Convinto che il trasferimento di poteri e di competenze dal centro alla periferia, dallo Stato alle Regioni, avrebbe allargato e qualificato la nostra democrazia. Così non è avvenuto.
Le Regioni — o, almeno, “queste” Regioni — hanno moltiplicato i centralismi. Non hanno ridotto il peso dello Stato. L’hanno accentuato ulteriormente. Riproducendone i vizi e le inefficienze. Così, oggi, diventa difficile discutere dell’astensione alle elezioni regionali senza ricondurla alla sua origine istituzionale e territoriale: la Regione. D’altronde, il governatore della Campania, Caldoro, ha proposto di sostituirle con macroaree. E perfino la Lega di Salvini, dopo trent’anni di identità nordista, sta diventando “Ligue National”. E, per questo, ha sfondato oltre il Po. La buona partecipazione, ieri, alle primarie del centrosinistra, in Puglia (ma non si può dire lo stesso per il Veneto), non basta a fugare l’idea — inquietante — che, in Italia, sia finita un’epoca della politica e delle istituzioni. Fondata sulla “centralità della periferia” e del Territorio. E ciò proietta un’ombra, che dis-orienta. Perché, di fronte alla “fine del territorio”, fonte di rappresentanza e riferimento dell’identità: com’è possibile non sentirsi s-paesati?

Corriere 1.12.14
La fiducia in Renzi cale sotto il 50%
Sale Salvini, Grillo ora ultimo
Per la prima volta convince meno di metà degli elettori, persi cinque punti in un mese. Nuovo balzo del leghista: piace a un italiano su tre. Berlusconi mantiene il 25%
di Nando Pagnoncelli

qui

Corriere 1.12.14
«Referendum sul Jobs act tra la base? Non ha più senso»
Il bersaniano D’Attorre: ormai i buoi sono scappati. Ma i dirigenti del partito si confrontino con i militanti
intervista di Daria Gorodisky


ROMA «Il referendum è senz’altro uno strumento da valorizzare in futuro per la vita democratica del Pd. Ma sul Jobs act ormai i buoi sono scappati, e non ha più senso». Alfredo D’Attorre, componente bersaniano della minoranza pd, oggi non chiederà alla direzione del suo partito di far partire una consultazione interna sul provvedimento che non ha neppure votato, tanto dissente. Proporrà, invece, l’avvio di «una campagna di ascolto vera su emergenza economico-sociale, lavoro, democrazia. I dirigenti nazionali vadano nei circoli, dai militanti...».
Renzi sarà favorevole?
«Lo spero, non è una proposta ostile. Ed è importante, sarebbe il segnale che si raccoglie l’allarme suonato dall’astensionismo dell’Emilia-Romagna».
Renzi non lo considera un grande problema.
«Mi preoccupa un modello di democrazia in cui non conta più la rappresentanza ma soltanto la vittoria, anche con una base di partecipazione ristretta. E spero che superiamo i toni di supponenza delle ultime settimane».
Il vostro segretario-presidente del Consiglio auspica maggiore disciplina interna.
«Il partito non può diventare un luogo di anarchia. E saluto favorevolmente il fatto che Renzi abbia compiuto un’evoluzione culturale: quando era segretario Bersani, irrideva un modello di partito in cui la direzione centrale decide e tutti si adeguano».
Sì alla disciplina di partito?
«Servono delle regole, però su alcuni temi specifici è giusto lasciare ai parlamentari un margine di valutazione in più. In particolare, su diritti, dignità del lavoro, regole democratiche. Oltre alle questioni eticamente sensibili, ovviamente».
A sinistra pd e sindacati che lo criticano, Renzi risponde che fra il Pd e destra lepenista non esiste altro.
«Sull’idea di sinistra Renzi mostra un impianto contraddittorio. Afferma cose giuste, come l’apertura all’intervento pubblico per salvare la siderurgia italiana; ma dà anche l’impressione di non avere una visione complessiva, mescola istanze di destra e di sinistra».
Si riferisce alla sua indifferenza verso la «piazza»?
«Credo che su piazze e astensionismo commetta drammatiche sottovalutazioni. Se il Pd non parla più al mondo del lavoro, non basterà certo fare conto su un po’ di elettorato in uscita dal centrodestra: si rischia un saldo negativo in termini di consenso e il totale snaturamento del partito».

Repubblica 1.12.14
Il mister X che Renzi sogna al Quirinale
di Stefano Folli


Berlusconi non ha rinunciato a far pesare i suoi voti nella scelta del successore di Napolitano
UN REBUS avvolto in un enigma, diceva Churchill a proposito dell’Unione Sovietica di Stalin. E un rompicapo senza apparente soluzione sta diventando la ricerca del nuovo presidente della Repubblica. Renzi si è reso conto che non sarà una guerra lampo, ma il rischio di una lunga paralisi è troppo alto per il governo.
Nell’intervista di ieri a Repubblica e poi nell’intervento televisivo a “In mezz’ora”, il presidente del Consiglio ha fatto capire di non credere più negli accordi con Berlusconi e di cercare un piano B che può coinvolgere i Cinque Stelle in crisi, o magari i fuoriusciti e i dissidenti del movimento grillino. Ma siamo ancora ai segnali politici, messaggi suscettibili di essere contraddetti il giorno dopo. «Berlusconi non può pensare di dare ancora le carte» dice Renzi. E sulla carta non ha torto: il famoso “patto del Nazareno” non è mai stato una diarchia, bensì un’intesa politica in cui uno era alla guida (il premier) e l’altro ricavava alcuni vantaggi espliciti e impliciti dal trovarsi ancora nel cuore dei giochi.
Cosa è cambiato? Un solo aspetto, ma decisivo: l’uscita di scena di Napolitano è arrivata prima del previsto (nonostante infiniti indizi al riguardo) e il presidente del Consiglio si trova con il cesto delle riforme ancora semi-vuoto. A questo punto anche per un Berlusconi declinante, incapace di tenere a bada un partito sfilacciato, la tentazione è troppo grande. Perché dare il via al candidato di Renzi, ammesso che oggi esista, quando si può alzare il prezzo e negoziare? Del resto, se il “patto” non serve come griglia per eleggere il capo dello Stato, vuol dire che è talmente fragile da risultare inconsistente. Non stupisce che i nodi e le contraddizioni stiano venendo al pettine.
Negli ultimi giorni Berlusconi si mostra più baldanzoso: è tornato a occuparsi di politica in pubblico e ha ripreso uno dei suoi cavalli di battaglia, gli attacchi ai magistrati. Significa che vede Renzi in difficoltà sia sulla legge elettorale sia sull’elezione del capo dello Stato e spera di ricavarne qualche utile marginale. Ma non vuol dire che abbia rinunciato a far pesare i suoi voti nella scelta del successore di Napolitano. Al contrario. Aver messo sul tavolo il nome di Giuliano Amato non rappresenta una scelta definitiva, ma solo un modo per cominciare a giocare. Il problema è che Renzi non accetta, almeno per ora, di trattare da pari a pari con il centrodestra. Perché, appunto, «Berlusconi non dà le carte ».
Detto in altri termini, il premier respinge il metodo di fondo, quello che consiste nel dare la precedenza al suo semi-alleato per individuare insieme un nome di garanzia autorevole e neutrale, accettabile da tutti. Non siamo nel 1985, quando De Mita convinse il Pci a votare Cossiga, che in fondo era cugino di Berlinguer; e nemmeno nel 1999, quando Veltroni costruì un’ampia rete di sicurezza intorno a Ciampi. Oggi Renzi guarda a un presidente della Repubblica che sia, in un certo senso, a-politico: ossia privo di reale autonomia e soprattutto poco propenso a sviluppare una propria iniziativa istituzionale, sia pure nell’ambito della «persuasione morale». Il modello del presidente tedesco, la cui figura non si sovrappone mai a quella del Cancelliere, è ben vivo nella sua mente. Ecco perché è così difficile per lui discutere con altri le possibili candidature: al momento sarebbe un dialogo fra sordi, visto che non tutti — dentro e soprattutto fuori della maggioranza — condividono l’identikit politico-istituzionale del nuovo capo dello Stato secondo Renzi.
Senza dubbio Amato non corrisponde ai requisiti che il premier ritiene debbano essere prioritari. Ma una volta esclusa Forza Italia, è tutto da dimostrare che sia agevole raccogliere i voti necessari in Parlamento, fra un Pd diviso, i centristi e i Cinque Stelle, a favore di un «mister X» o di una «miss X». Ci vuole più forza politica a imporre un candidato imprevisto di quanta sia necessaria per far votare un nome conosciuto e sperimentato. Tuttavia siamo solo ai primi passi della contesa. Aspettiamoci molti colpi di scena.

Repubblica 1.12.14
Ma l’ex Cavaliere scommette: l’addio di Napolitano frenerà l’Italicum
di Goffredo De Marchis


ROMA Adesso anche il gruppo del Senato di Forza Italia, che aveva tenuto in piedi il patto del Nazareno al momento del voto sulla riforma costituzionale, ha recepito il messaggio di Berlusconi: l’Italicum deve rallentare perché prima ci vuole un accordo sul presidente della Repubblica. Non è in programma l’ostruzionismo o qualche palese manovra dilatoria.
«Basta il calendario», dice sornione il capogruppo di Fi Paolo Romani. La melina, la serie di passaggi che fa perdere tempo nel calcio, è nei fatti secondo Romani. Che ha studiato bene le prossime settimane e le tappe della legge elettorale, ancora ferma in commissione. Ad aiutare Berlusconi nella strategia che dovrebbe garantirgli un capo dello Stato non sgradito, l’impegno a evitare le elezioni in primavera e solo dopo a varare la riforma del sistema di voto, c’è persino il tradizionale concerto di Natale a Palazzo Madama. «Per organizzarlo l’aula deve chiudere almeno due giorni», ricorda Romani.
E’ dunque una guerra di nervi quella tra Berlusconi e Renzi, per la prima volta dal 18 gennaio, giorno della sigla sull’intesa istituzionale, impegnati in uno scontro. L’impressione è che il leader di Forza Italia abbia davvero dalla sua parte il calendario. «Mi sembra che Napolitano abbia tolto tutti dall’imbarazzo — spiega l’ex Cavaliere a chi lo ha sentito ieri da Arcore —. Dopo l’incontro con Renzi ha addirittura accelerato sulla sua uscita. C’era il problema se doveva venire prima la legge elettorale o le sue dimissioni. Direi che ha deciso così: non fatevi illusioni, me ne vado prima io». Il 20 gennaio, secondo le indiscrezioni, è il giorno in cui potrebbero riunirsi in seduta comune le Camere per iniziare le votazioni del successore. «Non c’è neanche bisogno di fare ostruzionismo», prevede allora Romani. Al momento il testo dell’Italicum modificato ancora non è pronto. Non c’è nemmeno la calendarizzazione in aula e il 19 dicembre, dicono a Palazzo Madama, il Senato chiuderà per le ferie natalizie. E’ un venerdì. «Giocoforza verrà prima il capo dello Stato », insiste il capogruppo di Fi. Che non esclude l’approvazione in commissione dell’Italicum modificato, ma poi i lavori dell’aula non cominceranno prima del 7 gennaio, ovvero 13 giorni prima dell’ora X.
A Palazzo Chigi sono consapevoli delle difficoltà sui tempi, il calendario lo leggono anche lì. Anna Finocchiaro, presidente della commissione Affari costituzionali, ha messo in guardia sia Matteo Renzi sia Maria Elena Boschi. Ma il premier non rinuncia a provare una corsa contro il tempo. L’obiettivo è non solo approvare il testo in commissione ma riuscire anche a incardinarlo per l’aula alla ripresa dei lavori a gennaio. Si può fare anche nell’ultima mezz’ora utile di di- cembre, con l’ultima conferenza dei capigruppo del 2014. A quel punto ci sarebbero 10 giorni per arrivare al traguardo prima della chiamata dei grandi elettori.
«Tecnicamente è difficile, ma Forza Italia fa un po’ di confusione sulle date. Le possibilità ci sono», dice Renzi ai suoi collaboratori. Evitare l’ingorgo è la sua principale preoccupazione come dimostrano le parole dell’intervista a Repubblica . Si può certamente fare un accordo complessivo con Berlusconi includendo il nuovo inquilino del Colle, ma la partita va giocata sul filo. Non è permesso lasciar credere al leader di Arcore che è lui a dare le carte, bisogna avere un piano B complessivo guardando ai movimenti tellurici dei 5stelle e alla compattezza del Pd che da solo, dalla quarta votazione in poi potrà contare su 440 voti, a 60 di distanza dal quorum necessario per eleggere il capo dello Stato. In questo senso anche la “campagna acquisti” dentro Sel (con dieci deputati di Gennaro Migliore passati al Pd) e dentro Scelta civica ha un peso. La mossa decisiva tocca a Palazzo Chigi, ma sul calendario rischia di avere ragione Berlusconi.

Repubblica 1.12.14
Nichi Vendola
“Al Colle un nome autonomo qui non vale il Patto del Nazareno”
intervista di Umberto Rosso


“C’è bisogno di qualcuno che sappia ancora dare il batticuore agli italianiNon faccio il totonomi, ma se Amato lo candida Berlusconi è ormai bruciato”

ROMA «Per il Colle, c’è bisogno di qualcuno che sappia ancora dare il batticuore agli italiani».
Lei ne vede in giro, presidente Vendola?
«Uno come Prodi aveva fatto battere il cuore. Stefano Rodotà. Anche Milena Gabanelli, perché no. Invece, la volta scorsa, in Parlamento la classe politica consegnò a Napolitano tutto il segno della propria impotenza».
Ne fa una questione “sentimentale”?
«Non soltanto, ovviamente. Ma in quel Palazzo, oggi più che mai, serve una figura capace di ricucire la ferita aperta fra paese reale e paese legale. Sì, anche con una riconnessione sentimentale con gli italiani. Davvero con un supremo garante della Costituzione, oggi che l’attività esecutiva e legislativa camminano sempre più border line ».
Renzi dice che Berlusconi siede al tavolo ma non dà più le carte. E apre anche a Grillo.
«Per il presidente della Repubblica bisogna costruire la maggioranza più ampia possibile. Ma è una ricerca che non si deve confondere con un sigillo al patto del Nazareno. Il capo dello Stato sia una figura autonoma, anche da Palazzo Chigi. Un punto di riferimento e non uno strumento per altri disegni».
Quali disegni?
«Difendiamo il presidente della Repubblica come figura sopra le parti. Cerchiamolo fra le personalità di grande autorevolezza, di grande storia democratica. Con il concorso di tutti. Mi auguro che il Movimento Cinquelle scongeli la propria forza, e che si guardi con grande attenzione a quel che succede lì dentro».
A proposito di Renzi: il premier per l’Ilva di Taranto, nella regione che lei governa, propone un ritorno della fabbrica allo Stato, per rivenderla una volta risanata.
«Era ora. Il ritorno della mano pubblica nell’Ilva può impedire di buttare il bambino con l’acqua sporca. Ambientalizzare apparati produttivi come la siderurgia, si può. E non è detto che debba scattare per forza la seconda fase, con la vendita di nuovo ai privati».
Torniamo al Quirinale. Che spazio può ritagliarsi una piccola forza come Sel?
«In questa legislatura abbiamo giocato un ruolo importante per l’elezione dei vertici delle Camere».
Con il presidente Laura Boldrini, eletta nelle vostre liste.
«E anche con Pietro Grasso. Ora, e ne parlo con imbarazzo perché Napolitano è ancora in carica e non mi va il toto Quirinale, ma il nostro è uno strano paese. Dove si riscopre la modernità di Tony Blair, che in Europa al massimo è modernariato, mentre la storia di Romano Prodi finisce fra le vecchie care cose della Prima Repubblica».
È il Professore il vostro candidato?
«Io cerco solo di raccontare le cose come stanno, senza pregiudizi ».
Berlusconi ha lanciato Amato.
«Se lo ha messo in pista lui, è bruciato».
E Veltroni? Gentiloni?
«Non entro nel toto-nomi. Tutto quello che si può dire adesso è che la partita deve essere trasparente».
A chi tocca cominciarla?
«Al partito di maggioranza relativa, invitando tutti attorno ad un tavolo a discutere».
Da Berlusconi a Grillo?
«Il capo dello Stato non deve essere espressione solo della maggioranza politica né del Patto del Nazareno. Questa che si apre con la corsa al Quirinale è la partita a scacchi più complessa per il paese. Il rischio dello stallo è dietro l’angolo».

Cucchi o non Cucchi...
Repubblica 1.12.14
Veto degli alfaniani e sulla riforma della prescrizione il governo ora frena
Csm, prima di Natale si decide sulla Procura di Palermo e sul caso Milano
di Liana Milella


ROMA Il Csm vuole battere in efficienza il governo sulla giustizia. Legnini sfida Renzi e Orlando. Mentre premier e ministro non riescono a mantenere la promessa sulla prescrizione fatta dopo la sorpresa del processo Eternit nel nulla per la prescrizione scaduta. Oggi se ne occuperà il consiglio dei ministri, ma già Ncd punta i piedi e col vice ministro della Giustizia Costa dice «o vanno avanti anche le intercettazioni, o non se ne fa niente». Finirà con un emendamento al testo Ferranti già in discussione alla Camera. Per un governo che annaspa sulla giustizia, il vice presidente del Csm Giovanni Legnini vuole correre. In vista del plenum con Napolitano del 22 dicembre, Legnini vuole chiudere i fascicoli su Palermo, la nomina del procuratore, e su Milano, lo scontro Bruti-Robledo. In settimana sviluppi caldi.
Sulla prescrizione invece siamo a un punto morto. Chi dopo Eternit si aspettava una riforma ad horas dovrà fare i conti con molti passaggi parlamentari. Un inghippo che colpisce un tema che i magistrati vogliono, ma che la politica teme. Oggi Andrea Orlando porta il caso in consiglio dei ministri. Il testo è quello già approvato il 29 agosto — prescrizione bloccata in primo grado ma poi due anni per l’appello e uno per la Cassazione — nell’ambito di un corposo ddl sul processo penale. Testo mai arrivato in Parlamento. Alla Camera invece hanno marciato le proposte Ferranti, M5S e Sc, e il 16 dicembre sarà pronto il testo bano. se. Il governo è a un bivio, o fa un emendamento, oppure un nuovo ddl con la sola prescrizione che si affiancherebbe alle altre proposte. Ma Ncd punta i piedi e vuole le intercettazioni, con una stretta sulla pubblicazione. Dice Enrico Costa: «Anticipiamole e mettiamole nel ddl sulla diffamazione ». Ieri sera lo stralcio era divenuto improbabile. Non resta che l’emendamento del governo al testo della Camera. Tra i vari passaggi, Camera, Senato e forse una nuova Camera, ci vorrà almeno un an- Nel frattempo i processi continueranno a “morire”, e le promesse pure.
Proprio i tempi lunghi infastidiscono Legnini al Csm. Ai suoi consiglieri indirizza un messaggio chiaro: «Dobbiamo chiudere entro Natale la partita della procura di Palermo e il caso Milano. Ci aspetta un anno difficile, con 500 nomine da fare, e non possiamo perdere un solo minuto». Nomine frutto del pensionamento anticipato (da 75 a 70 anni) deciso dal governo. Legnini non chiede slittamenti, anche se al Csm si rincorrono voci di una possibile proroga invece che al 2015, al 2016 o al 2017. Improbabile che Renzi dica sì.
Palermo e Milano. Oggi i tre candidati per la procura di Palermo, il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, di Messina Guido Lo Forte, e Franco Lo Voi di Eurojust, saranno “interrogati” dalla quinta commissione. Entro mercoledì, come ha chiesto Legnini, il voto. È probabile che tutti e tre siano votati, sarà decisivo il plenum del 10 dicembre. La gara è tra Lari e Lo Voi. Potrebbe vincere Lo Voi che è ben visto dai laici.
Anche la partita di Milano si gioca in settimana. Legnini, che ha visto Bruti e Robledo, ha chiesto di chiudere perché Bruti è in proroga alla procura e il Csm deve decidere sulla richiesta di restare fino alla pensione. Incombe la decisione del procuratore generale Ciani sull’avvio di un’azione disciplinare che, stando a “radio Csm”, potrebbe riguardare Robledo e non Bruti.

La Stampa 1.12.14
Travaglio e gli articoli per la Padania : “Usato pseudonimo e scritto gratis”
Il giornale della Lega chiude e svela firme illustri.
Il giornalista : “Favore a un amico, mai collaboratore”
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di Flavia Amabile

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La Stampa 1.12.14
Fuga dei militanti M5S
Democrazia diretta addio
Quasi dimezzati i voti espressi sulle espulsioni dei dissidenti Metà delle proposte di legge non raggiunge i 200 commenti
di Gabriele Martini

C’era una volta la rivoluzione della democrazia digitale a Cinque Stelle.
Nelle piazze della cavalcata elettorale Beppe Grillo intonava il mantra della «Rete sovrana». Dopo il voto Gianroberto Casaleggio e collaboratori impiegarono mesi, ma alla fine partorirono una piattaforma internet per permettere ai cittadini di discutere le proposte di legge di iniziativa parlamentare. «Un esperimento senza precedenti», si disse. Oggi di quel sogno resta ben poco: un forum online sempre meno partecipato, poche centinaia di militanti attivi, un confronto spesso sterile.
I numeri non mentono: in oltre un anno i testi dibattuti sul sistema operativo del M5S sono stati 90, di questi solo 7 sono stati poi presentati in Parlamento. E va da sé che il numero di quelli approvati è zero. Le prime proposte di legge raccoglievano però migliaia di interventi. I temi erano quelli più cari al popolo grillino: abolizione dei finanziamenti pubblici all’editoria, libero accesso a Internet, reddito di cittadinanza. Quest’ultima iniziativa tenne banco per settimane e vide la partecipazione di 8.153 iscritti al Movimento.
Negli ultimi mesi la musica è cambiata. I temi affrontati sono marginali, oltre metà delle proposte non raggiunge i 200 commenti, mentre per una legge su quattro gli iscritti coinvolti sono meno di 100. Pochi, anzi pochissimi se rapportati ai circa 100 mila militanti che vengono invitati a partecipare via mail ogni volta che sul sito arriva una nuova legge.
Nella base grillina serpeggia inoltre una lamentela ricorrente: i cittadini non hanno mai potuto presentare le loro proposte sulla piattaforma online. È vero. Agli iscritti, infatti, viene concesso solo di integrare e modificare i documenti dei parlamentari. E la qualità della discussione - per la verità - lascia spesso a desiderare. La senatrice Montevecchi propone «l’istituzione della figura professionale dell’insegnante di lingua italiana»? In un mese arrivano 70 commenti, molti si limitano a un laconico «favorevole», altri vanno fuori tema. C’è chi chiede misure a sostegno dei prof di musica e chi mette in guardia dal rischio di «un’invasione islamico-africana». Claudio Piscopo spariglia: «Propongo di insegnare tra i banchi anche la lingua napoletana».
Il crollo del coinvolgimento in rete testimonia una disaffezione crescente dei militanti. La (ex) diarchia Grillo-Casaleggio ha di fatto dilapidato un patrimonio digitale. La ragione è semplice. Al di là della retorica dell’«uno vale uno», la vera rivoluzione promessa dal Movimento 5 Stelle era proprio questa: la partecipazione diretta dei cittadini alla cosa pubblica, con i parlamentari nel ruolo di portavoce delle istanze della collettività. Se questa idea sia ancora in cima ai pensieri del leader pentastellato, non è dato sapere. Di certo c’è che, dei cinque fedelissimi del nuovo direttorio, hanno sperimentato la piattaforma online solo Carla Ruocco (in due occasioni) e Carlo Sibilia (una). Mentre gli iscritti al Movimento non hanno mai avuto l’onore di discutere proposte di Di Battista, Di Maio o di Fico.
I visitatori del blog di Grillo sono in picchiata. Mancano numeri ufficiali, ma rispetto a un anno fa i lettori sarebbero più che dimezzati. I dati dei servizi online che monitorano il traffico Internet ci dicono infatti che dai 2 milioni e 800 mila accessi mensili via Google del dicembre 2013, il sito del capo del M5S è precipitato ai 972 mila di ottobre. Certo, restano numeri da primato tra i politici italiani. Ma il calo è consistente. Anche sui profili Facebook e Twitter da qualche mese l’incremento di seguaci si è fermato. C’è poi il fronte delle votazioni online. In parecchi - da ultimo anche il deputato Tancredi Turco - chiedono invano che vengano certificate da una società esterna. Intanto l’astensionismo cresce: se a febbraio in 43 mila si espressero sull’espulsione di Orellana, Campanella, Bocchino e Battista, solo in 27 mila hanno votato sulla recente cacciata di Pinna e Artini. La consultazione sul “direttorio” dei magnifici cinque ha invece scatenato polemiche perché gli iscritti sono stati chiamati ad esprimersi in blocco sui prescelti. Prendere o lasciare, impossibile proporre nomi alternativi. E tanti saluti alla «Rete sovrana».

Corriere 1.12.14
Le poche rinunce degli eletti di Grillo
Non intascano solo il 5% dei rimborsi
di Sergio Rizzo

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La Stampa 1.12.14
La deriva dei populismi
di Cesare Martinetti


Uno ascolta Marine Le Pen e si chiede: ma davvero il destino della Francia e dell’Europa può essere questo?
Un discorso semplice, di quelli che si ascoltano al bar: frontiere chiuse, niente euro, niente Europa, niente stranieri, la Francia ai francesi, com’era una volta. Noi non abbiamo responsabilità, siamo l’ultima speranza. Loro sono il vecchio mondo, i falliti, noi siamo il futuro. «Loro» e cioè Hollande e Sarkozy. Dice Marine Le Pen che ha punteggiato il suo discorso di riferimenti alla coppia di avversari nelle presidenziali 2012: «Messieurs, signori, avete sbagliato tutto».
Madame Le Pen guarda alle prossime presidenziali dall’alto del 25 per cento ottenuto in primavera alle europee, primo partito di Francia.
Nel dibattito politico la domanda ora non è più se la signora sarà o non sarà al ballottaggio, ma chi sarà il suo avversario, dando per scontato che lei sarà la prima. Sembra insomma che il destino politico della Francia sia ormai su un piano inclinato, niente e nessuno riesce a fermare la corsa della figlia di un leader residuale e caricaturale che vivacchiava ai margini di un sistema politico giocando con tutti i luoghi comuni più frusti del razzismo colonialista e persino con macabra ironia sulle camere a gas di Auschwitz.
Marine ha aggiornato il suo discorso e portato nel partito giovani militanti, aperto teste e prospettive, ma alla fine siamo sempre lì, al vecchio patriottismo lepenista che rincuora delusi e rancorosi. Ma cos’è successo a questo Paese scintillante di cultura e di educazione civile perché un simile precipizio sia ormai uno scenario concreto? La risposta sta in quello sferzante: «Avete sbagliato tutto». E il sospetto è che abbia ragione. Per Hollande sono gli ultimi due anni. Ma il vero caso di scuola per politici e politologi sono invece i dieci anni di Sarkozy, cinque come ministro dell’Interno e leader del partito e cinque da presidente della République. Dieci anni trascorsi all’inseguimento di Le Pen (che nel 2002 si era sorprendentemente qualificato al secondo turno delle presidenziali) sul suo terreno muscolare, declamatorio, guascone e volgare. Aveva promesso – tra le mille altre cose - di ripulire dalla feccia le banlieues con il «karcher» (la pompa degli spazzini di Parigi), ma la feccia è lì e le banlieues anche, più inquiete e inquietanti che mai.
La lezione è che se si insegue l’avversario sulla sua agenda di politica-cultura-comunicazione il risultato è che si legittima quell’agenda, si scredita la propria e alla fine, com’è logico, gli elettori scelgono di votare l’originale, non l’emulatore. La stessa cosa sta succedendo al premier inglese David Cameron che sta varando una durissima legislazione anti-stranieri per rispondere alla crescita del Le Pen inglese, Nigel Farage leader dell’Ukip che cresce nei sondaggi ed ha vinto le ultime due elezioni parziali, mandando i suoi primi due deputati al Parlamento.
In Italia la faccenda è un po’ più complicata perché a differenza dei suoi «alleati», Matteo Salvini non può rivendicare la verginità dal potere: governa due regioni come Lombardia e Veneto e il suo partito ha condiviso tutto il lungo potere di Silvio Berlusconi che non si è mai smarcato dalle politiche europee, anzi, nel drammatico finale del suo regno, in un estremo tentativo di salvarsi, a Bruxelles ha trangugiato più di quanto non dovesse.
Certo l’Europa deve cambiare faccia e facce, le politiche devono essere riconoscibili, l’immagine non può essere quella delle caricature che ne fanno Le Pen e Salvini – un’élite di banchieri e grand commis della finanza - altrimenti quel piano inclinato su cui si trova la politica francese, ci riguarderà tutti. I soldi di Putin (e ieri si è scoperto che oltre i 9 milioni per Madame Le Pen, da Mosca sono arrivati anche due milioni per il vecchio Jean-Marie) sono a disposizione per i populisti d’Europa. È davvero un destino ineluttabile quello che ci aspetta?

Corriere 1.12.14
I fasciocomunisti sono tornati tra noi
di Pierluigi Battista


E così, il (quasi) comunista Vladimir Putin piace tantissimo ai (quasi) fascisti dell’area antieuro (ma non antirublo), tanto quanto i (quasi) fascisti fanno impazzire il (quasi) comunista Putin. Che ne è così infatuato, da riempirli di rubli e non di euro, come ha fatto con il Front National di Marine Le Pen, peraltro accendendo di invidia il putinista Matteo Salvini, ancora incerto tra CasaPound (fascista senza il quasi) e l’ultimo Gulag (comunista senza il quasi) della Corea del Nord. Antonio Pennacchi potrebbe proporre un sequel del suo profetico Il fasciocomunista , raffigurando i nostri Limonov da pianerottolo che combinano il saluto romano con l’ammirazione per un leader che si è formato nel Kgb e che oggi a Mosca impone ai manuali scolastici la piena e obbligatoria riabilitazione di Stalin.
   Questo vigoroso fascio-comunismo, peraltro non inedito (ricordate l’aggressività rosso-bruna del nazional-comunista Milosevic?) si fonda su una comune piattaforma di odio. L’ideologia è confusa e nebbiosa, e del resto anche «fasciocomunismo» è definizione necessariamente imprecisa, non meno di «populismo» distribuito indiscriminatamente però. Non è confuso l’odio. L’avversione istintiva per la democrazia parlamentare e la fascinazione ipnotica per il leader autoritario dai modi spicci e sbrigativi. L’odio per il liberalismo, con tutte le sue fisime formaliste, incomprensibili per i «popoli». La pulsione ostile per il libero mercato, la mentalità capitalistica, la finanza, l’anomia delle grandi città. L’avversione per i ludi cartacei, per l’arte moderna, per lo Stato di diritto, per le libertà individuali, per le pretese della cultura gay, per il disordine delle famiglie, per la mescolanza culturale, per le élite urbane, per l’America, per tutto ciò che è lib-lib-lib, liberale, libertario, liberista. La tentazione fasciocomunista è ribelle quando non è al potere, è invece autoritaria, imperiale, intollerante, militarista quando è al potere come il nuovo zar Putin. Perciò si annusano e sentono un’atmosfera comune, anche se i custodi delle rispettive purezze ideologiche vivono come un affronto questa contaminazione. La fine della Guerra fredda ha spezzato le rigidità di un tempo e ha dato al fasciocomunismo, alimentato dal fallimento di un’Europa senz’anima, una linfa insperata. Si diffonde anche una vaga nostalgia per il muro di Berlino: purché sotto il tiro della Stasi ci siano sempre gli altri.

Repubblica 1.12.14
“Bologna peggio di Reggio Calabria” Ecco la mappa del rischio-banlieue
Conflitti sociali, studio della Fondazione Moressa
Emergenza anche a Milano, Genova e Roma
di Vladimiro Polchi


ROMA Bologna è più pericolosa di Reggio Calabria. Milano di Napoli. La mappa del rischio banlieue disegna un’Italia sottosopra, con le città del Nord più “calde” di quelle del Sud.
A classificare i comuni italiani sull’orlo del conflitto sociale è la fondazione Leone Moressa, che incrocia tre fattori di rischio: la marginalità socio-economica degli stranieri (concentrazione in periferia, disoccupazione, diseguaglianze di reddito), i livelli di criminalità e la spesa pubblica per l’integrazione. Il risultato? Bologna è il comune più a rischio. Forte la differenza di reddito tra italiani e stranieri (oltre 11mila euro nel 2013). Abbastanza alti il tasso di delittuosità (66 arrestati ogni mille immigrati residenti) e la percentuale di detenuti stranieri sul totale (51,5%). In netto calo, invece, la spesa pubblica per l’immigrazione. Al secondo posto Milano, città con la più alta presenza straniera (17,4%) e concentrazione di immigrati in periferia (il 95% vive qui). Anche il tasso di detenuti stranieri è molto alto (61,3%). Pur avendo una spesa per l’immigrazione di 13,5 milioni, il grande bacino di utenti determina un spesa pro-capite tra le più basse (82 euro). Ma il valore che pesa di più è la differenza di reddito tra italiani e stranieri (11.300 euro). La terza città a rischio è Genova. Anche qui il differenziale di reddito è molto alto (10mila euro). Forte pure il tasso di delittuosità (ogni mille immigrati, ne vengono arrestati 102) e il livello di detenuti stranieri (54,1%). A incidere è soprattutto la spesa per immigrato: con 46 euro rappresenta il valore nazionale più basso. A chiudere la classifica delle quattro città più a rischio è Roma, sia per le alte diseguaglianze di reddito, che per i reati degli stranieri.
Tre città presentano un livello di rischio vicino tra loro: Venezia, Torino, Firenze. In questi capoluoghi le differenze di reddito non sono molto alte. A Torino, in particolare, è forte la concentrazione degli immigrati in periferia (93,9%), ma bassa la percentuale di detenuti stranieri (41%). Venezia è la città con il più basso tasso di delittuosità degli immigrati (53 ogni mille residenti). Firenze è quella con la più bassa concentrazione in periferia (76,1%).
Le tre città meno a rischio sono al Sud, caratterizzate anche da una bassa incidenza di stranieri sulla popolazione residente. A Reggio Calabria è alta la spesa per l’integrazione sul totale della spesa per assistenza sociale (il 9,9%). Napoli ha una bassissima percentuale di detenuti stranieri (9%). Infine Bari, pur avendo un alto tasso di delittuosità (140 per mille), presenta la più alta spesa procapite per l’immigrazione (521 euro).
In conclusione, secondo i ricercatori della Moressa, «laddove si riscontra una forte concentrazione in periferia, forti differenze di reddito rispetto agli italiani, alti tassi di disoccupazione, alti tassi di criminalità e scarsi investimenti pubblici a favore dell’integrazione, si crea inevitabilmente terreno fertile per situazioni di disagio e conflitto».

il Fatto 1.12.14
La cattiveria della satira
Avanzi di balera e altri politicanti
di Emiliano Liuzzi


DAL FASCISMO ALLA FINE DELLA PRIMA REPUBBLICA I SOPRANNOMI SI SPRECAVANO: SEMPRE AZZECCATI E MAI POLITICAMENTE CORRETTI

Ritrovarne la paternità a volte è difficile. Certe cose nascevano in osteria, dove lo snobismo degli inviati si faceva volgare perché - spiegava Ennio Flaiano - la satira non può che essere volgare. Cattiva e volgare. C'era del vero anche in Mario Melloni, passato ai posteri col nomignolo shaekespiriano di Fortebraccio: “Sono un giornalista d'élite. Scrivo solo per i metalmeccanici”. Per Forte-braccio i politici erano lor signori, manco si degnava di pronunciare la parola parlamentare. Memorabile - ripresa poi anche da Roberto Benigni - la battuta fulminante sull'onorevole Antonio Cariglia, già segretario dei Social democratici: “Si aprì la portiera dell'auto e non scese nessuno: era l'onorevole Cariglia”. Oppure Giuseppe Saragat che Fortebraccio chiamava Diger selz. Un centometrista del trafiletto, disse Indro Montanelli, nonostante non lo avesse mai amato e che era suo nemico. Un nemico stimato e temuto.
La premiata ditta Pansa e Scalfari
Ma in quegli anni prosperosi di vezzeggiativi, ne vennero fuori di memorabili. Gianni De Michelis, socialista, grande appassionato di discoteche, era diventato “avanzo di balera”. Non conosciamo la paternità, ma resta uno dei più azzeccati, anche e soprattutto perché a chiamarlo così erano negli anni dello splendore socialista, quando potevi dirlo all'osteria che i socialisti rubavano, ma se ti capitava di ammiccarlo in televisione veniva estratto il cartellino rosso. Forse di più. Craxi sorseggiava a Milano e si mangiava Roma in un sol boccone. Prudente esserne amico. Guai rivolgersi a Bettino, per un ventennio l'uomo più potente e tenuto d'Italia, chiamarlo come sussurravano nei corridoi, il “cinghialone”, creato su misura da un giovane e già rampante Vittorio Feltri. Neppure Gianpaolo Pansa che lo sfotteva, eccome se lo sfotteva, poteva permettersi una cosa del genere. Neanche Sandra Bonsanti che era tra le poche giornaliste a presentarsi in via del Corso, storica sede del Psi, con domande vere. Poi Bonsanti arrivava da una storia, quella del Mondo di Pannunzio, dove i giornalisti erano austeri. Non era il suo stille affibbiare nomignoli.
Poi c'erano i corridoi delle redazioni dove si fumavano le sigarette e si urlava, tipo l'Espresso, la stessa Repubblica, Il Giorno, per un certo periodo. E dove inevitabilmente qualche capo diventava, tocca scomodare ancora Flaiano, il redattore cupo. Questione d'irriverenza, ironia. Difficile che qualcuno, a suo tempo, sia andato a riferire a Vittorio Emanuele III che, per via della statura, lo chiamavano sciaboletta (nomignolo che anni dopo sarebbe stato affibbiato a Claudio Scajola), allo stesso modo, in epoche diverse e successive, era improbabile dare dell'acido russico a Giancarlo Pajetta. Non aveva un carattere facile e l'ironia l'aveva riposta in un cassetto già da piccolo. Era capace di sfuriate per un niente. Non l'avrebbe presa bene neppure Tonino Tatò, l'uomo ombra di Berlinguer, non a caso chiamato suor Pasqualino, soprannome inventato da Alberto Ronchey per paragonarlo alla monaca occhiuta e invadente che governava Pio XII.
Nell'eterna lotta tra il democristiano Beniamino Andreatta e il socialista Rino Formica, il primo dette del commercialista di Bari al collega di governo. Che, di rimando, lo nominò a Comare-Lord dello Scacchiere. Nelle tangenti alla amatriciana, quella della Roma un gradino più in basso, Sbardella era invece lo squalo Giubilo. Parliamo di pianeta Democrazia cristiana e non si può fare a meno di Giulio Andreotti, oltre mezzo secolo di potere da protagonista assoluto: negli anni era diventato Belzebù, il gobbo, il papa nero, la volpe, l'indecifrabile, divo Giulio e zio Giulio, con malizioso riferimento al processo dal quale venne assolto per il famoso bacio a Totò Riina.
Non la prese bene nemmeno Gianni Agnelli quando Eugenio Scalfari, in prima pagina su Repubblica, gli dette dell'avvocato di panna montata. Gli venne bene, ma barbapapà, come lo chiamavano i suoi cronisti con velo di reverenza e timore, sapeva e sa bene ancora oggi quando essere allusivo o molto diretto. Sempre in casa Fiat, fu Susanna Agnelli a definire Luca Cordero di Montezemolo, libera e bella, dalla marca di uno shampoo. Non venne salvato, a suo tempo, neppure Raul Gardini, che quando era potente fu uno degli uomini
più viziati (dai giornalisti) d'Italia. Era il “contadino” per via delle origini non nobili e perché contadini lo sono anche i romagnoli. Poi divenne il condottiero e, alla fine, il contadino-condottiero. Quando Tonino Di Pietro lo accusò tornò e il cognato Carlo Samma lo estromise dalla Montedison, torno a essere il contadino.
L’irriverente Dagospia
Non sarebbe piaciuta a nessuno. Neppure Silvio Berlusconi ha mai preso bene le caricature che nel tempo ne ha fatto Marco Travaglio: era il cainano, bellachioma, al tappone e, in tempi più recenti, papi, per via di quella storia delle Olgettine, ragazze che abitavano in un residence di via dell'Olgettina, appunto, a Milano, zona San Raffaele.
E a proposito di Milano, per anni, ci fu il sindaco cognato, che altri non era che Paolo Pillitteri, colpevole e meritevole di aver sposato la sorella del cinghialone, appunto. Fu Pansa, invece, ad affibbiare i nomignoli di dottor sottile e coniglio mannaro rispettivamente a Giuliano Amato e Arnaldo Forlani. Romano Prodi è stato semplicemente mortadella, per via delle origini emiliano-bolognesi e per il carattere apparentemente molle.
In tempi più recenti è stato l'irriverentissimo Roberto D'Agostino a spararle su tutti. Così Fausto Bertinotti è diventato Berty Night, Alessandra Mussolini la duciona, Concita De Gregoria la sora Cecioni (il compagno si chiama Cecioni davvero), Pierferdinando Casini Pierfurby, Maria De Filippi la sanguinaria, Simona Ventura la mona (serve un vocabolario dal veneto), Ferruccio de Bortoli flebuccio, Daniela Santanchè è la santandechè, Alemanno-Aledanno, Gru-ber è lillibotox e, solo per citarne alcuni, D'Agostino ne ha per tutti, Signorini è diventato Alfonsina la pazza.
Da quando ha accentuato la passione per la politica, anche Beppe Grillo ne ha scoperti e rispolverati di vezzeggiativi. Sempre molto diretto, viaggio su un pericoloso bilico tra l'ironia e l'offesa. Se Mario Monti era diventato rigor montis e Pier Luigi Bersani Gargamella, per via della somiglianza col personaggio dei cartoni animati, Matteo Renzi è da subito, nel gergo grillesco e grillino, l'ebetino, Berlusconi psiconano o testa aflatata, Renato Brunetta è brunettolo, causa statura, Roberto Formigoni forminchioni, Maurizio Gasparri la fattucchiera, e per chiudere con Giorgio Napolitano Morfeo o vecchia carampana, dipende dai giorni.
Le stagioni del grillismo
Con gli anni della normalizzazione anche i nomignoli si sono ammorbiditi. Nelle redazioni dei giornali, con l’eccezione di Travaglio, il tono si è fatto più interlocutorio, meglio non avere troppi nemici, spiegano gli editori. Figuriamoci per un soprannome.
Per mancanza di coraggio, ma anche perché per essere cattivi bisogna essere geniali. E di talenti in giro ce ne sono pochi. Maria Elena Boschi è diventata semplicemente la Pantera della Leopolda, causa un paio di scarpe maculate. Ma il nomignolo, seppur banalotto e sicuramente non offensivo, lo hanno lasciato per strada quelle penne che alla Leopolda vanno e gli garba assai essere chiamati dai renzisti per nome di battesimo. C’ è anche da dire che gli ultimi governi sono degni di poca nota, i ministri ormai vanno e vengono, difficile è ricordare il nome, figuriamoci il nomignolo. O il soprannome.

il Fatto 1.12.14
Non sono le idee a fare paura ma le loro facce
di Pino Corrias


E meno male che esistono i soprannomi. Lanciabili come (non innocue) lattine di vernice fosforescente contro questa arrogante, insonne, spesso ignorante masnada di maschere ribattezzate Er Mascella, Il Gobbo, Lo Squalo, che poi sono uomini sovralimentati da vertigini d’arbitrio, che vorrebbero rendersi invisibili nella loro seconda occupazione – di solito la principale – che tante volte il soprannome svela. Quella di triturare le leggi, i territori e il buon senso sulla nostra pelle, ma sempre fischiettando un motivetto d’ideali che ci tenga buoni mentre loro distribuiscono veleno etico e sociale, arraffano poltrone, regalano sanatorie, pretendono medaglie d’Onorevole e vitalizi in euro. Come ciascun popolo che li mantiene sa o dovrebbe sapere. Popolo bue, d’accordo. Ma che almeno ogni tanto si toglie lo sfizio di chiamarli con il loro vero nome, cioè il soprannome. Tanto per dire: va bene, ci state coglionando con l’amor di patria, l’inno in-cantabile e i valori condivisi, ma noi almeno stavolta vi abbiamo sgamato, sappiamo chi siete. Scriveva il colto Longanesi: “Non sono le idee che mi spaventano, ma le facce”.
Così ecco spuntare – dall’apoteosi di un intero ventennio di mignotte, miracolati e bugie - un disgraziatissimo Berluscaz che per due dozzine di tristi scopate a pagamento si gioca l’onore e l’intera corona. E poi quel bocconiano austero, Rigor Montis, che si pettinò tutta una vita davanti al suo specchio d’allori, ma che quando toccò a lui comandare sulle nostre vite per quei 15 minuti di potere che ormai non si negano a nessuno – tanto sono sempre le banche centrali a comandare - lasciò macerie umane e contabili dietro le spalle, più le lacrime a perdere di una ministra Cuorinfranti che a forza di calcolare pensioni per finta, dimenticò il dettaglio di un mezzo milione di esodati veri, in carne, ossa e famiglie. O così ci lascio credere, il che sarebbe pure peggio. Ai sorprendenti tempi di Mani Pulite, oltre a tanta sovreccitata confusione d’arresti e confessioni, si aggiunse l’euforia dei soprannomi. Sbocciata dopo anni di frustrazioni redazionali, timori reverenziali e obbedienza silente, quando ancora tutti (quasi tutti) facevano finta di ridere alle battute di Andreotti, detto il Divo, detto Zio Giulio, detto Belzebù, eccitanti come mentine in sagrestia. Tra i più svelti il solito Vittorio Feltri, re degli opportunisti, che intuito il momentaneo liberi tutti, saltò al collo del povero Bottino Craxi per trascinarlo davanti alle acque tristi di Hammamet, guardarlo annegare e poi rammaricarsene coi figli e con l’erede. Giampaolo Pansa, da quelle anime cupe, estrasse una intera zoologia e uno stile, ammirandone da lontano il naufragio che ha rallentato il suo. Guzzanti Paolo addirittura un laticlavio, prima incensando e poi bestemmiando l’identico Di Pietro.
Di questa nuova e tragica Commedia che nel frattempo è diventata la Seconda Repubblica, il sommo poeta è Roberto D’Agostino, con il suo sito Dagospia nato da molte insofferenze all’eterno conformismo dei cartacei e da una censura: s’azzardò a scrivere che l’avvocato Agnelli “porta sfiga”, apriti cielo, non si fa, non si dice.
Addestrato dalla palestra delle notti romane passate tra cinematografari, perdigiorno, musicisti e Arbore che facevano gare di soprannomi – Sergio Leone detto Fort Caccola era il più bello – e poi dall’estensione di un enciclopedico Chi è, chi non è, chi si crede di essere (Mondadori), D’Agostino ha perfezionato gli inchiostri al punto da riassumere una intera biografia in un soprannome e il soprannome in un destino. Pierfurby – riferito all’Azzurro Casini – è maestria di sintesi educata, mentre Ruby Rubacazzi – riferito alla bimba arcoriana – è il suo corrispettivo d’alta d’efficacia, sebbene in versione opportunamente triviale. Identico binomio di stile per la new entry dell’anno, rinominato contemporaneamente Pittibimbo e il Tosco Cazzaro. Per poi scendere ai gironi più bassi dove ancora s’aggira la Santadechè con così tanti tacchi da far rumore anche quando non cammina, tra le macerie di Manicomio Italia, i Sinistrati, i Grillomaoisti, gli Scilipoti, la Boldrinova e Bella Napoli che sovrintende lassù, sul Colle.
Ma sì, meno male che esistono i soprannomi contro la noia. Ovvio che i cerchiobottisti, gli autorevoli soloni e i pompieri di pronto intervento non li amino, giudicandoli così infantili, così poco educati e in fondo anche disdicevoli. Ma c’è da capirli. La loro fervente disponibilità a prendere la masnada dei politici sul serio e a trattarla con amichevole deferenza, presuppone (sempre) quella promessa di reciprocità che è il più prezioso dei loro desideri. Essere almeno un po’ ricambiati. Magari con un seggio, oppure la poltroncina in una fondazione tascabile, o almeno una meringa a Natale. Sono mogi, sono grigi, sono ligi, ma non se lo dicono. E tra loro si stimano.

il Fatto 1.12.14
Fiumicino

Le trivelle e l’aeroporto
Tanti misteri intorno all’affare del millennio
di Alessio Nannini


Immaginate di trovare all’improvviso, davanti alle vostre case, dei pozzi di trivellazione e operai intenti a realizzare dei lavori di carotaggio dove poche ore prima c’era appena un semplice appezzamento adibito a coltivazione. Il tutto senza avviso alcuno, senza richiesta, senza soprattutto autorizzazione da parte delle autorità competenti. Come sarebbe possibile, chiederete voi. Ecco, tutto questo è avvenuto tre settimane fa nei terreni subito fuori dell’aeroporto di Fiumicino, nella parte nord verso Maccarese e per giunta nella Riserva naturale del Litorale Romano. Ed è soltanto l’ultimo dei “misteri” che circondano un progetto imponente, tra i più grandi mai realizzati in Italia, e che pertanto può muovere tanto, tantissimo denaro. Stiamo parlando del raddoppio dell’aeroporto Leonardo da Vinci e di un totale stimato in circa 20 miliardi di euro: quasi quattro volte i costi del famigerato Ponte di Messina. Facciamo però un passo indietro di qualche anno per capire cosa sta accadendo alle porte della Capitale.
SIAMO NEL 2009, mese di ottobre. Aeroporti di Roma presenta a governo ed Enac un piano di sviluppo ambizioso che prevede l'ampliamento del traffico aereo a Fiumicino. Obiettivo: 55 milioni di passeggeri nel 2020 e 100 nel 2040, da ottenersi, spiega Fabrizio Palenzona, presidente di AdR, in virtù di “un grande patto tra investitori e istituzioni”. Tradotto: vuol dire un aiuto dello Stato ai privati, che passerà attraverso un allargamento della struttura e una revisione verso l’alto delle tariffe aeroportuali. Da “passerà” a Passera Corrado: è lui che nell’ultimo giorno del Governo Monti, come ministro dello Sviluppo economico e Infrastrutture, fa arrivare nelle tasche di chi gestisce il Leonardo da Vinci un aumento delle tasse da 16 euro a passeggero a 26,50 e dà l’avallo per il raddoppio dello scalo romano, più infrastrutture esterne quali autostrade, ferrovie, parcheggi. I cittadini delle aree interessate, cioè Fiumicino e Maccarese, insorgono, il Comitato Fuoripista continua una battaglia nata ai primi segnali dell’opera. Questo perché l’ampliamento non sembra innanzitutto necessario, dicono dati alla mano, avendo già l’aeroporto la grandezza del londinese Heathrow. Per incrementare il traffico basterebbe ottimizzare le operazioni in entrata e in uscita, e non creare nuove piste, le quali andrebbero a ledere le attività economiche locali e il patrimonio ambientale e archeologico. A maggior ragione, non convincono il giro di interessi e i nomi non proprio casuali che si muovono nella faccenda. Mille dei 1.300 ettari interessati sono di proprietà dei Benetton, che li gestiscono attraverso l’azienda agricola Maccarese Spa. I quali Benetton sono sia in Gemina, che possiede il 95 per cento di AdR, sia in Cai come quarti azionisti, cioè Alitalia. Nell’acquistare quelle terra nel 1998 (per 93 miliardi di lire) si erano impegnati in accordo a mantenerne la destinazione agricola, a meno di un esproprio, che è ciò che potrebbe accadere. Riassumendo, i Benetton andrebbero a rivendere allo Stato con notevole vantaggio (si parla di 200 milioni di euro) un terreno preso dall'Iri, società statale, per avere finanziamenti per qualcosa amministrato anche da loro. Praticamente, la famiglia famosa nel mondo per il suo abbigliamento fa pagare Pantalone.
TORNIAMO PERÒ al fatto di cronaca: com’è stato possibile che di queste trivellazioni nessuno abbia saputo nulla se non a cose fatte? L’autorizzazione per queste operazioni è necessaria in base alla legge costitutiva della Riserva, e in particolare agli articoli 7 e 8, che vietano lavori di questo tipo se non previo permesso, e questo non è stato concesso né dalla commissione della Riserva né dal Comune di riferimento, Fiumicino. Il sindaco Esterino Montino, che si professa contrario al raddoppio dello scalo, nel consiglio comunale straordinario ha riferito di avere parlato con Lorenzo Lo Presti, amministratore delegato di AdR, chiedendo se le operazioni fossero illecite. Che è come domandare all’acquafrescaio se l’acqua è fresca. Ed ecco qua: “Da AdR ci hanno assicurato che i lavori non erano per la quarta pista, ed erano finalizzati solo alla verifica della sismicità del territorio”, spiega Montino. E l’autorizzazione? “Ci hanno detto che per queste indagini non servirebbe, anche perché non c’è stata modificazione del territorio. Si sarebbe trattato di un foro di una decina di centimetri”. Morale: nella riserva di Fiumicino si può comunque costruire un pozzo e trivellare, ma per tirare su un pollaio bisogna attendere anni e mille timbri. I cittadini del Comitato Fuoripista, primi a intervenire sul posto e a denunciare l’episodio, non credono che si sia trattato di analisi sulla sismicità e dicono di avere prove fotografiche della quantità e della profondità delle trivellazioni, materiale che sarà allegato all’esposto alla Procura della Repubblica. I carotaggi, affermano, servono per fare analisi geognostiche e verificare l’altezza della falda, la costituzione del terreno, la quantità d’acqua presente. Ossia rilievi funzionali a un progetto miliardario e fondamentali, perché lì al Leonardo da Vinci, durante l’inaugurazione per le Olimpiadi di Roma del 1960, la pista principale era sprofondata a causa del terreno inadatto. Che fosse tale, e che la costruzione sopra un’area paludosa bonificata sia stata una forzatura, lo sancì la commissione parlamentare d’inchiesta nel 1963. Ora sulla stessa si vuole raddoppiare l’aeroporto, dove non distante è già fallito il progetto di interporto per, indovinate un po’, un terreno argilloso che ha mandato giù i capannoni di cemento. Ma è noto, la storia si ripete e la seconda volta come farsa.

Corriere 1.12.14
Sulcis, la protesta delle Marie «Allatto qui in miniera»
di Alberto Pinna


IGLESIAS «Siamo 37, tutte donne. Non ce ne andremo dalla miniera. Che non credano di illuderci ancora con promesse... Abbiamo un nome solo: chiamateci tutte Maria». Chi parla dall’imboccatura della galleria di Villamarina, casco calato sulla faccia coperta da una sciarpa, un nome ce l’ha. Si chiama Valeria: «Ma abbiamo deciso che la nostra battaglia non ha volti né cognomi». Lavorano all’Igea, società della Regione Sardegna, 254 dipendenti, i «sopravvissuti» dei 40 mila che un tempo lavoravano nel polo minerario del Sulcis Iglesiente. Da mesi non ricevono lo stipendio. «E dopo l’ennesima assemblea di tutto il personale, la scorsa settimana, noi donne — così dice Valeria, 47 anni — ci siamo riunite da sole. E subito ci siamo trovate d’accordo: mai una donna prima d’ora ha occupato una miniera? Lo facciamo noi: oltre ogni colore politico e ogni tessera sindacale. Siamo 37, unite e decise, come fossimo una sola persona».
La prima galleria della miniera di Villamarina è lunga più di 800 metri, venerdì si son chiuse alle spalle il cancello. Erano 35, le altre 2 sono andate a dar man forte ai loro compagni nella vicina miniera di Campo Pisano. Da lì arriva l’acqua per Iglesias, i minatori hanno interrotto le forniture, ripristinate dopo qualche ora dalla polizia. «Non vogliamo creare disagi, ma quando si sta per morire si è disposti a tutto». A Iglesias hanno capito: «Sono venuti tanti a dirci: ”Siamo con voi” e ci hanno portato cibo e dolci». Le donne hanno scritto sui caschi bianchi: «Noi non abbiamo paura» e con lo stesso motto hanno aperto una pagina su Facebook.
Accanto a Valeria c’è Maria1, 62 anni, lavora da più di 40: «Vado in pensione fra due mesi, questa è la mia ultima lotta e spero che finisca bene. Sono stata assunta dopo uno sciopero e me ne vado dopo uno sciopero. Possibile che si debba ricorrere a questo per lavorare?». Maria3 ha quasi dieci anni di meno, ma è già nonna, due nipoti. Maria4 ha un figlio di 8 mesi. «Me lo porta mio marito, ogni 6 ore. Lo allatto ancora al seno e non potrei rimanere senza averlo fra le braccia». Arrivano anche i figli. Parla ancora Valeria: «Ho cominciato nel 1987, avevo 20 anni. Per fortuna lavora mio marito, anche lui nel settore minerario, e a casa a fine mese arriva almeno una busta paga. Mio figlio ha 18 anni e fa il liceo scientifico. Quando viene mi bacia e mi dice: “Mamma, tieni duro, sono orgoglioso di te”».
L’Igea ha 25 milioni di debiti, da pochi giorni la Regione ha nominato un commissario, ma con la Carbosulcis — società che ha in carico altri 700 «reduci» del comparto minerario — naviga a vista. «Facciamo accordi ma dopo pochi giorni la Regione li disattende» lamenta Mario Cro segretario territoriale della Uiltec. Ieri messa con il vescovo davanti alla galleria.
Domani altro incontro a Cagliari, in Regione uno spiraglio: «Stiamo preparando un piano per il riequilibrio finanziario». Ma le donne in miniera insistono: «Non ci muoviamo».

Repubblica 1.12.14
La rivolta delle donne.
Da tre giorni si sono auto-seppellite e rivendicano il lavoro Una sola riemerge per allattare il figlio neonato
“Siamo dure, resisteremo, stavolta non vogliamo solo promesse”
La resistenza dolce delle Marie del Sulcis “Così occupiamo la nostra miniera”
di Maria Novella de Luca


IGLESIAS . Si sono date un nome di battaglia uguale per tutte, “Maria”. Si presentano con il volto coperto e l’elmetto in testa, come fossero guerrigliere senza armi, e da tre giorni vivono barricate nel ventre scuro di una delle più antiche miniere di zinco della Sardegna, alle porte di Iglesias. Nel cuore del disastro post-industriale di quest’area un tempo produttiva, quarantamila disoccupati e cinquemila cassintegrati su centoventimila abitanti. «Ecco, entrate, state attenti, in miniera ci vuole cautela». Sedute su blocchi di polistirolo dentro la “Galleria Villamarina” di Monteponi, infinito cunicolo costruito a metà dell’Ottocento dove il vero nemico è l’umidità che s’infiltra nelle ossa, le “Marie del Sulcis” dicono che da qui sotto loro non usciranno. Né oggi, né domani, né chissà.
«Da sei mesi siamo senza stipendio, le nostre famiglie sono alla fame, abbiamo mariti disoccupati e in mobilità, resteremo in miniera fino a che non avremo certezze sui nostri posti di lavoro». Sono in trentasette, hanno dai ventotto ai sessant’anni, tutte dipendenti dell’”Igea”, il grande consorzio di bonifica delle aree minerarie finanziato e voluto dalla Regione Sardegna. Società in liquidazione che avrebbe dovuto salvare, riqualificare e rilanciare queste straordinarie aree di archeologia industriale, e invece oggi rischia di fermarsi per sempre, travolta da debiti, spese opache e cattiva gestione.
Assiepate dietro il grande portone di ferro della “Galleria Villamarina”, le “auto-carcerate” salutano attraverso la grata figli, mariti, padri e madri.
Mani che si stringono, baci, lacrime. Ma anche vita quotidiana: «Fai i compiti», «Ubbidisci a papà». Passano pasti caldi e vassoi di dolci, una giovane mamma esce per allattare il figlio di otto mesi e rientra, a pochi metri dalle sbarre il vescovo di Iglesias, monsignor Zedda, celebra all’aperto la messa della domenica, il coro canta l’Ave Maria, da dietro il passamontagna le occupanti della miniera leggono il libro di Isaia.
Dentro si sta sedute a cerchio, vicine, così il freddo sembra meno pungente. Un po’ più in là dove la Galleria si allarga c’è il “dormitorio”, coperte, sacchi a pelo, teli per fare da barriera all’umidità che gocciola dappertutto. «Ci siamo chiamate “Maria” per un fatto simbolico, perché qui stiamo occupando abusivamente e potremmo essere identificate e denunciate. Anche se — scherza Ornella, che invece dà il suo nome — tutti sanno chi siamo, visto che indossiamo caschi e giubbotti dell’Igea, ossia il nostro datore di lavoro». «Noi siamo forti, siamo dure, possiamo resistere a lungo, quello che ci tratteneva dal seppellirci qua sotto era il pensiero della famiglia. Ma di fronte al baratro, di fronte alle prese in giro dell’azienda e della Regione, abbiamo deciso di agire. Magari anche per sfatare il pregiudizio che le donne dentro le miniere portano sfortuna ».
C’è angoscia, ansia, fatica. Il Sulcis è oggi la regione più povera della Sardegna, alla disoccupazione si somma il disastro ambientale dei residui minerari e degli scarti dell’ormai ex polo industriale di Portovesme.
Le polveri micidiali dei famosi fanghi rossi.
«Attenta, c’è un topo dietro di te». Lo scherzo riesce subito e in quattro saltano su come molle dalla panca improvvisata, suscitando risate collettive. Ilaria: «Ogni tanto cerchiamo di scherzare, ci facciamo coraggio, qui dentro ormai c’è una situazione particolare, discutiamo, votiamo, poi cambiamo idea, rivotiamo... Poi la sera però giochiamo a carte, ci confidiamo, alcune di noi sono nonne, altre da poco madri, è la vita, ma oggi tirare avanti è durissimo». Si chiama complicità. Tra le donne nasce anche nelle situazioni più estreme. Elena: «Noi siamo il welfare italiano, per anni abbiamo supplito alle carenze dello Stato, adesso veniamo anche private della sopravvivenza. Per questo vorrei che una delle ministre che tanto parlano di maternità e famiglia, la Madia per esempio, che ha appena avuto un figlio, o la Guidi, venissero qui, scendessero in miniera per vedere cos’è la vita vera ». Arriva un altro vassoio di dolci. «Aiuto, basta, guardi che solidarietà, qui finisce che ingrassiamo, questi sono i nostri amaretti, sono speciali...».
Domani, martedì, i sindacati incontreranno a Cagliari l’assessore regionale al Lavoro. Ma le “Marie” non si fidano. «Questa volta non può finire come sempre, ci danno un’elemosina, uno o due stipendi, e poi non succede più nulla, anzi continuano a smantellare posti di lavoro. Noi vogliamo certezze. Diteci voi come si fa a vivere, se in una famiglia non c’è più nemmeno uno stipendio. Fa freddo, piove, è umido, ci sono i topi, ma noi restiamo qui. La miniera la conosciamo, non ci fa paura, le donne ci sono sempre state, facevano le cernitrici, un compito durissimo, dovevano dividere e lavare le pietre, nell’acqua gelida, a mani nude... Questo per dire che sappiamo resistere. Il lavoro è tutto».

Jean-Pierre e Luc Dardenne: Due giorni, una notte, ulla condizione umana nel tempo del lavoro difficile o negato
Repubblica 1.12.14
Quel film sul lavoro e la dignità da ritrovare
di Stefano Rodotà

SI SCRIVE e si parla molto della dignità, ma questa parola scompare immediatamente proprio quando i fatti quotidiani imporrebbero di tener conto del principio che essa evoca. Troppi politici si rifugiano in un realismo ipocrita per sostenere che si tratta di un principio che impone oneri troppo gravosi; i giuristi scoprono che siamo di fronte ad un riferimento troppo generico perché si possa invocarlo come base di interventi concreti. E allora serve un altro occhio, capace di guardare a fondo nella società e nelle sue dinamiche, per mostrarci quanto possano essere grandi i guasti prodotti dall’abbandono di quel principio fondativo di libertà e diritti. Lo hanno fatto Jean-Pierre e Luc Dardenne con un film — Due giorni, una notte — sulla condizione umana nel tempo del lavoro difficile o negato. La storia è nota, ci racconta della perdita e della riconquista della dignità ed appartiene alle “scelte tragiche” di cui ha parlato un giurista come Guido Calabresi e che si stanno moltiplicando nella vita d’ogni giorno. Un’operaia viene chiusa in un meccanismo infernale. I lavoratori della sua fabbrica vengono messi di fronte ad un dilemma: riceveranno un premio di mille euro solo se voteranno a favore del suo licenziamento. Per guadagnare i voti necessari a salvare il posto di lavoro, la protagonista comincia una laica via crucis, le cui stazioni sono le case dei compagni di lavoro. Lì, nella durezza e meschinità di esistenze insidiate dalla povertà, incontra rifiuti imbarazzati o violenti e consensi faticosi e generosi. È un calvario, al quale cerca di sottrarsi dicendo di non voler comportarsi come una “mendicante”.
Cogliamo qui la perdita della dignità, l’obbligo di comportarsi perdendo il rispetto di se stessi. Tutto è ridotto al calcolo economico, al non potersi permettere la perdita di mille euro o, all’opposto, alla consapevolezza del sacrificio fatto col proprio voto favorevole all’operaia. Solo una volta, nelle parole del più debole tra gli interlocutori, un operaio con contratto a tempo determinato che sa di rischiare il licenziamento, compare una consapevolezza diversa. Quel giovane nero dice di sapere che Dio gli chiede di guardare all’altro e ai suoi bisogni. Un principio, e non una convenienza, ispirano la sua scelta.
Il voto finale sarà negativo, ma il dirigente della fabbrica convoca l’operaia e le dice che potrà tornare a lavorare, quando vi sarà il posto lasciato libero da una persona alla quale non sarà rinnovato il contratto. La protagonista capisce e rifiuta. Esce dalla fabbrica, telefona al marito dicendo «ci siamo battuti bene, adesso ricomincio» e, dopo due giorni di disperazione, sul suo volto torna il sorriso — il segno della ritrovata dignità. È una storia semplice, che descrive un mondo nel quale la retribuzione non risponde più alla garanzia di una “esistenza libera e dignitosa”, secondo le belle parole dell’articolo 36 della nostra Costituzione, nelle quali si coglie l’eco della “vita degna dell’uomo” di cui parlava la Costituzione di Weimar e l’anticipazione del riferimento all’esistenza dignitosa che ritroviamo nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Il nesso tra retribuzione, libertà e dignità è spezzato, la garanzia offerta dal lavoro declina verso il grado zero dell’esistenza. E questa deriva travolge un altro principio — quello di solidarietà.
Passo dopo passo, infatti, il film dei Dardenne descrive la distruzione dei legami sociali, l’impossibile produzione di solidarietà. Praticare la solidarietà diventa un lusso che non tutti possono permettersi. E questa vicenda non può essere descritta come “guerra tra poveri”, perché vi è molto di più: la fine della coesione sociale, di una condizione essenziale perché la contrapposizione molecolare tra le persone non divenga l’unica via praticabile, con effetti che mettono a rischio la stessa democrazia. Non è proprio questo il rischio che stiamo correndo?
Ma la coesione sociale non è un prodotto spontaneo, esige la costruzione di un ambiente propizio da parte delle istituzioni. E questa deve muovere da quello che Lorenza Carlassare ha chiamato “il valore dignitario del lavoro”. Ma questo valore appare ignorato quando, per esempio, si attribuisce al datore di lavoro il potere di controllare l’apparato tecnologico a disposizione del dipendente, cancellando le garanzie per i controlli a distanza previste dallo Statuto dei lavoratori. Il lavoratore diviene così disponibile per il datore del lavoro, perché è segno di inadeguatezza culturale l’ignorare che la tecnologia trasforma le modalità stesse in cui si stabiliscono i rapporti tra persona e “macchina”, tanto che la Corte costituzionale tedesca ha riconosciuto un “diritto fondamentale alla riservatezza e alla integrità dei sistemi informativi tecnologici”. Siamo di fronte ad una indebita espansione del potere imprenditoriale che confligge con il riconoscimento della libertà e dignità d’ogni persona. Siamo di fronte a mutamenti strutturali, che vanno nella direzione opposta al riconoscimento della dignità che l’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue definisce “inviolabile”, aggiungendo che va “rispettata e tutelata”. Non si può invocare un’Europa rinnovata rifiutando solo le politiche di austerità, se poi si trascura la dimensione dei principi e dei diritti che costituisce lo strumento più forte per determinare un mutamento di passo e un recupero della legittimazione dell’Unione che può venire solo dal riconoscimento dei suoi cittadini.
La protagonista del film dei Dardenne vive in Belgio, ma Bruxelles, capitale dell’Unione, incarna oggi un’assenza che sta distruggendo i fondamenti stessi della cultura di un’Europa che ha bisogno di tornare ad essere terra di diritti, luogo di dignità e di legami solidali.

Corriere 1.12.14
La guerra che abbiamo dimenticato
Quei 500 italiani in Afghanistan
di Franco Venturini

qui

Repubblica 1.12.14
“Io, psichiatra dei Taliban Così curavo le loro nevrosi”
Il dottor Alemi era diventato un punto di riferimento per i guerrieri afgani colpiti da depressione
di Giampaolo Cadalanu


IL POTERE logora anche i fondamentalisti islamici, e la guerra ne corrode lo spirito. Gli anni in mezzo alla neve delle montagne afgane, i combattimenti e le fughe, la lontananza dalle famiglie, la visione dei compagni caduti: tutto colpiva nel profondo i Taliban, durante l’ascesa verso la realizzazione dell’emirato islamico e persino dopo, sotto la guida del mullah Omar. Dietro l’apparenza di guerrieri indomabili, anche gli “studenti coranici” nascondevano anime ferite e coscienze inquiete, a sentire il racconto del dottor Nader Alemi, psichiatra a Mazar- i-Sharif già al momento della conquista delle milizie integraliste, nel 1998.
«Venivano con un pezzo di carta dov’era scritto il mio nome », ha raccontato lo specialista alla Bbc, «mi dicevano che avevo curato un loro amico, potevo dare una mano anche a loro. Molti non avevano mai visto un medico prima di allora», tanto meno uno che parlasse il pashtu. Voglia di farla finita, depressione, pianti: in migliaia hanno raccontato al medico le loro ansie.
Persino il braccio destro del mullah Omar, il governatore Akhar Osmani, aveva chiamato il dottor Alemi per farsi visitare: «Sentiva delle voci, delirava. Le sue guardie del corpo raccontavano delle sue farneticazioni notturne». A volte il numero due dell’emirato non riconosceva nemmeno i collaboratori: «Era stato al fronte per chissà quanto tempo, aveva visto innumerevoli persone uccise. Quelle esplosioni e quelle grida continuavano a risuonare nella sua testa, persino quand’era seduto nella tranquillità del suo ufficio », racconta Alemi. Ma gli impegni continui nella gestione dell’emirato impedivano ogni continuità nella terapia: lo psichiatra poteva vederlo solo raramente, fra una missione e l’altra, fino a quando, nel 2006, il mullah Akhar è morto in un bombardamento.
La sofferenza senza fine ha messo alla prova la salute mentale di tutti gli afgani: secondo il ministero della Sanità di Kabul, due terzi della popolazione soffrono di problemi mentali. Nel 2002 un rilevamento del Centro Usa per il controllo e la prevenzione delle malattie ha registrato alti livelli di depressione, ansia e sindrome da stress posttraumatico. Fra i più colpiti, le donne e le persone disabili.
Il disagio era tanto evidente che i Taliban accettavano di spedire da Alemi persino le mogli e le figlie, violando la consuetudine dell’apartheid di genere per dare alle donne di casa, anch’esse provate dalla lontananza, una qualche assistenza psicologica. E la famiglia di Alemi approfittava della posizione per correre qualche rischio in più, con la moglie del dottore che gestiva a poca distanza una scuola clandestina per ragazze, in pieno regime di divieto. «Se pure ci avessero scoperto, non credo che avremmo corso pericoli. Avrebbero accettato tutto, in fondo volevamo solo aiutare gli altri», dice il medico.
Anche adesso il dottore dei Taliban vede file di pazienti in attesa davanti al suo studio: persone che lamentano incubi, depressione, sbalzi d’umore. Le ferite nell’anima degli afgani non sono rimarginate.

La Stampa 1.12.14
“Era nazista”
Una biografia smentisce Helmut Schmidt
di Tonia Mastrobuoni


Possono tre attestazioni di fedeltà all’ideologia nazionalsocialista, formulate con frasi di rito da ufficiali della Wehrmacht, fornire una prova certa sull’adesione al culto di Hitler? Non in maniera definitiva, probabilmente. Ma sono imbarazzanti perché riguardano un personaggio amatissimo e simbolo della rinascita democratica postbellica tedesca come Helmut Schmidt. Il problema, oltretutto, è che l’ex cancelliere socialdemocratico, di cui era noto il passato nell’esercito nazista, ha sempre sostenuto di aver preso però le distanze molto presto dalla dittatura.
Invece, a febbraio del 1942 il suo capo gli attestò «talento organizzativo», «capacità di imporsi in situazioni difficili», soprattutto una «visione del mondo nazionalsocialista, che è in grado anche di trasmettere al prossimo». Un anno più tardi, a settembre del 1943, un altro ufficiale gli riconobbe «un atteggiamento nazionalsocialista impeccabile» e l’anno dopo ancora, nel 1944, i superiori di Schmidt scrissero di lui che la sua fedeltà all’ideologia del Führer era «priva di macchie».
Tre giudizi inediti, nascosti negli archivi militari di Friburgo, che la biografa Sabine Pamperrien ha trovato assieme ad altre prove che mettono in discussione la versione dei fatti raccontata sinora dal politico novantaseienne. Ma che l’autrice stessa, in una biografia sugli anni giovanili dell’ex cancelliere che sta per uscire ed è stata anticipata dallo «Spiegel», non attribuisce alla malafede, piuttosto alla sua cattiva memoria e a una ricostruzione, a tratti, approssimativa.
Le ricerche di Pamperrien smentiscono ad esempio la vulgata - diffusa da Schmidt stesso - che vuole che da ragazzo non si fosse lasciato ammaliare dal Führer: nel 1933 aderì tra i primi studenti della sua scuola alla Gioventù hitleriana. E la sua insegnante di tedesco, Erna Stahl, che si unì più tardi al movimento di resistenza della Rosa bianca, dopo la liberazione lo collocò tra coloro che stavano «nella fazione opposta». Nel 1979 Schmidt stesso, che aveva un nonno ebreo, ammise in una lettera ad un compagno di partito che mentre i genitori erano stati «chiari oppositori di Hitler e nel partito», nei primi anni della dittatura lui era stato «sotto l’influenza» dei nazisti.
Anche il suo biografo più accreditato, Hartmut Soell, ammette che non è chiaro quando l’ex cancelliere si sia davvero distaccato da Hitler. Nel 1937 cominciò il servizio militare e già nell’anno successivo si trovano degli appunti in cui, dopo il pogrom, Schmidt sostenne di vergognarsi della persecuzione degli ebrei. Ma «Hitler personalmente», notò, «è ancora escluso da questo giudizio». Solo nel 1941, dal fronte orientale, la sua fede nel Führer crollò. Ma fino alla fine della guerra nascose bene questa delusione, a giudicare dalle rivelazioni di Pamperrien.

il Fatto 1.12.14
Referendum
Svizzera: no alle quote immigrati
E restano i privilegi per i super ricchi


La Svizzera non chiude completamente le sue frontiere. Il 74,1% degli elettori ha respinto la proposta del gruppo ecologista Ecopop di ridurre allo 0,2% della popolazione (pari a circa 16 mila unità contro le attuali 100 mila) la quota di immigrati che può entrare nella Confederazione. E’ questo il risultato definitivo del referendum. Bocciati anche gli altri due quesiti sulla proposta di abolire i privilegi fiscali per i super ricchi residenti in Svizzera ed è stato detto un altro no alla richiesta di aumentare le riserve auree della Banca centrale.

Corriere 1.12.14
La marcia di Oprah Winfrey produttrice del film su Luther King
“Un monito per tutti, il razzismo esiste ancora”
di Giovanna Grassi


LOS ANGELES «Oggi un film su Martin Luther King ci ricorda che il razzismo è ancora un cancro per l’America», spiega Oprah Winfrey, produttrice (con Brad Pitt) di Selma , città dell’Alabama da cui partì, diretta a Montgomery, la storica marcia del leader pacifista nero. «Sullo schermo vedrete tre mesi cruciali del 1965, importantissimi ieri come oggi perché quella manifestazione per i diritti civili degli afroamericani rimanda alle ingiustizie di oggi. Basti citare il recente caso Ferguson con l’assassinio del 18enne Michael Brown da parte di un poliziotto. Selma racconta una pagina di storia fondamentale, non solo le battaglie e il peso della figura di Martin Luther King», spiega la celebre conduttrice che ha presentato con orgoglio all’American Film Institute Festival la pellicola diretta da Ava DuVernay.
Oprah si è riservata una piccola ma intensa e significativa parte. «È quella di un’attivista, donna di colore che va a fare richiesta di diritto di voto e viene insultata, sbeffeggiata dal burocrate che stampa con protervia sul suo modulo il timbro denied , rifiutato». Elogia la regista afroamericana DuVernay, premiata al Sundance per la migliore regia nel 2012 (con Middle of Nowhere ) e ribadisce: «In un momento come quello di oggi in cui negli Stati Uniti si assiste a una recrudescenza di intolleranza nei confronti della vastissima comunità afroamericana, Selma è una lezione di storia, coraggio, una battaglia in nome della civiltà».
Il film, sugli schermi Usa a Natale, si vedrà dal 12 febbraio 2015 in Italia con il titolo Selma - La strada per la libertà distribuito da Notorious Pictures.
La Winfrey si dice entusiasta dell’attore inglese David Oyelowo che per interpretare il leader nero è ingrassato di venti chili. Spiega il protagonista: «Per me le parole di Martin Luther King “I have a dream” sono state uno slogan e ancora lo sono. È stato molto impegnativo, e un autentico onore, impersonare il leader dei diritti civili anche con le sue contraddizioni. Sì, il film affronta anche le sue infedeltà coniugali condensate in una forte scena di confronto con la moglie, che lo interroga e gli chiede quanto l’amore per lei e per la loro famiglia abbia ancora un peso tra i numerosi tradimenti e il totale impegno politico e attivista».
Racconta la regista: «Abbiamo messo a fuoco i tanti aspetti della personalità di quest’uomo, assassinato quando aveva solo 39 anni e che poco prima della marcia di Selma aveva ricevuto il Nobel per la pace. Un ruolo chiave è anche quello dei politici repubblicani pro o contro ogni mossa di King. Tom Wilkinson impersona il presidente Lyndon B. Johnson dando voce e peso alle sue aperture per i diritti degli afroamericani. La stesura del copione, scritto a quattro mani con Paul Webb, ha richiesto un lungo lavoro di ricerche anche perché nel film ho voluto utilizzare alcuni spezzoni originali della marcia e le testimonianze di alcuni orrendi crimini razziali in Alabama e nel Sud degli Stati Uniti. Oprah è stata grande nel concedermi piena libertà di scelta dei protagonisti, al di là di ogni ingerenza della Paramount che era interessata all’acquisto del film per gli Usa».
«Il significato della marcia di Selma — affermano all’unisono Oprah e la sua regista — è attualissimo e il lavoro fatto per riportare ogni esatta parola degli incontri politici tra Johnson e King è stato minuzioso. Tim Roth ha reso magnificamente il complesso ruolo del Governatore dell’Alabama George Wallace, un democratico contrario all’inserimento nelle scuole bianche di studenti neri. King lo chiamò in causa personalmente come colpevole del clima di odio di quegli anni».
Oprah non ha dubbi: «La platea potrà vedere nel film un appello alla pace, all’eguaglianza, contro ogni violenza. Da tempo sto lavorando alla miniserie di HBO sulla vita di Martin Luther King. Selma è solo una pagina della lotta per i diritti e nel 2015 la grande manifestazione celebrerà il suo 50° anniversario. Vorrei che il film riaccendesse ogni giorno la speranza per un’America e un mondo migliori».

La Stampa 1.12.14
Uruguay, le tv: “Vázquez di nuovo presidente”
Secondo le prime proiezioni il candidato socialista ha battuto lo sfidante nazionalista. L’ex presidente, il primo di sinistra della storia dell’Uruguay, torna alla guida del Paese
qui


La Stampa 1,12.14
Israele, il nuovo capo delle forze armate è il generale che vuole fare la guerra a Hezbollah
Netanyahu sceglie Eizenkot. Sua la dottrina Dahiya, che prevede di radere al suolo i villaggi libanese del “Partito di Dio”
di Maurizio Molinari

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Corriere Tv 1.12.14
In Israele si frantuma un tabù
Al convegno universitario sul Ruanda, l'unicità della Shoah, i genocidi e le distorsioni sulla memoria
di Antonio Ferrari

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Corriere 1.12.14
Hamas e Al Fatah. Due famiglie palestinesi
risponde sergio Romano


Chi governa attualmente nella Striscia di Gaza? Le chiedo anche se in quel Paese il ruolo di Abu Mazen è ancora determinante.
Piero Cazzani

Caro Cazzani,
Gaza è ancora la roccaforte di Hamas. L’ultimo conflitto con Israele, dall’8 luglio al 26 agosto di quest’anno, e le circa 2.200 vittime dei bombardamenti israeliani hanno avuto l’effetto di rendere la città, agli occhi dell’opinione pubblica palestinese, ancora più «martire» di quanto già fosse in passato. Ma potrebbero pregiudicare l’intesa che Abu Mazen e l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) avevano concluso con Hamas in aprile per la creazione di un governo comune.
Il governo esiste, quanto meno sulla carta, è presieduto da un esponente dell’Olp, Rami Hamdallah, e ha prestato giuramento il 2 giugno. Ma Abu Mazen, presidente dell’Autorità palestinese, ha deplorato i missili lanciati da Hamas contro la popolazione civile israeliana e ha dimostrato in tal modo che fra le strategie delle due organizzazioni vi sono ancora importanti differenze. Un breve riepilogo può forse aiutarci a ricostruire la natura dei rapporti fra le due anime della società palestinese.
Quando nacque, all’inizio degli anni 70, Hamas era il braccio palestinese della Fratellanza musulmana e rappresentava quindi l’alternanza religiosa al nazionalismo laico, con venature marxiste, di Al Fatah, l’organizzazione di Yasser Arafat. Sotto la guida dello sceicco Ahmad Yassin, Hamas si dedicò principalmente a iniziative educative e assistenziali. Molti anni dopo, nel 2004, Yassin fu vittima di un assassinio mirato dei servizi israeliani, ma in una prima fase la sua organizzazione poté contare sulla benevolenza di Israele, a cui piaceva contrastare in questo modo l’organizzazione laica di Arafat.
La svolta militare di Hamas risale all’inizio degli anni Ottanta quando ogni soluzione politica della questione palestinese sembrava sempre più lontana; e la sua popolarità nella società palestinese crebbe sino alla vittoria nelle elezioni del 2006. Furono elezioni libere, difficilmente contestabili, ma il loro risultato non piacque né all’Olp, né a Israele, né agli Stati Uniti, né ad altre potenze occidentali. Accadde così per certi aspetti quello che era accaduto in Algeria alla fine del 1991, quando il governo, dopo i risultati favorevoli al partito islamico nel primo turno delle elezioni politiche, aveva bruscamente soppresso il secondo turno. Con una aggravante: i Paesi che non vollero riconoscere il successo di Hamas, si consideravano maestri di regole democratiche e avrebbero dovuto mettere alla prova la conversione alla democrazia dell’organizzazione islamica.
Sono stati necessari otto anni perché le due parti riuscissero a ricucire lo strappo e ad accordarsi, nello scorso aprile, su un governo comune. Alla fine di settembre, un mese dopo la fine dell’ultimo conflitto di Gaza, i rappresentanti di Hamas e Fatah si sono incontrati al Cairo e hanno annunciato di avere raggiunto un accordo per estendere alla Striscia le competenze e responsabilità del nuovo governo palestinese. Ma la storia di questa lunga crisi ci ha insegnato che troppo spesso gli annunci sono soltanto buone intenzioni .

La Stampa 1.12.14
Borsa e boom di Internet, la Cina si apre agli investitori
Nuove regole a Shanghai e quotazioni hi-tech attirano gli stranieri
di Sandra Riccio


Finora il mercato azionario cinese era difficilmente praticabile dagli investitori esteri. I titoli si potevano acquistare attraverso vie traverse solo sulla piazza di Hong Kong oppure negli Usa. La maxi Ipo di Alibaba, colosso cinese dell’e-commerce che si è quotato a Wall Street facendo segnare i record di tutti i tempi, ha dimostrato che anche le azioni cinesi possono scalare le grandi vette. Probabilmente il fenomeno Alibaba ha anche contribuito a far cadere il muro sui mercati della Cina. Da metà novembre l’accesso agli investitori stranieri che vogliono puntare su questo Paese non è più così sbarrato. Il cambiamento è arrivato con «Shanghai Hong Kong Stock Connect», il programma di connessione tra la Borsa di Shanghai e quella di Hong Kong.
In pratica gli investitori stranieri potranno, attraverso Hong Kong, negoziare oltre 500 titoli del listino di Shangai. Tuttavia rimangono limitazioni perché i volumi scambiabili sono ancora bassi con circa 3 milioni di dollari al giorno e occorre aprire un conto in valuta cinese.
Per qualcuno, nonostante le barriere, l’apertura della Cina è un’occasione da non sprecare. Per Massimo Siano, head of Southern Europe per Etf Securities, l’opportunità è da cogliere già subito per non rischiare di pentirsene tra qualche anno. L’attenzione, dopo il furore scatenato da Alibaba, è ancora sulla tecnologia e l’e-commerce. Non sono poche le aziende che potrebbero replicare il successo del colosso appena sbarcato sulla piazza di New York. Tra le promesse che citano gli esperti c’è Tencent che spopola tra i più giovani in Cina. Offre intrattenimento con online games abbinati a un servizio di chat istantanea analogo a WhatsApp. Tra le perle c’è poi Baidu, il motore di ricerca online più grande del Paese. Sia Tencent che Baidu sono cresciuti enormemente negli ultimi anni in Cina, al riparo dalla concorrenza di competitors esteri. Adesso si stanno espandendo nei Paesi emergenti.
Stessa strategia di altri due colossi cinesi, Lenovo e Huawei, che dopo essersi affermati sul mercato interno hanno iniziato a puntare su India, Indonesia e Brasile. Tra i titoli con più opportunità citati dagli analisti c’è poi China Mobile, un colosso con i suoi 800 milioni di utenti. Per chi vuole azzardare il passo cinese ci sono poi altri giganti del settore dell’acciaio del petrolio e delle banche come Baoshan Iron, Sinopec e Bank of China che fanno parte della classifica della aziende più grandi al mondo.
«La creazione dello Shangai-Honk Kong Connect è indubbiamente una pietra miliare nel processo di liberalizzazione del mercato cinese dei capitali» dice Matteo Paganini, chief analyst di Fxcm che poi aggiunge: «Le prospettive sono inoltre ambiziose in quanto a seconda del riscontro del mercato e dell’esperienza dopo il lancio, gli investitori nei prossimi anni potrebbero assistere a un ulteriore alleggerimento dei vincoli sulle quote di investimento e all’ampliamento dell’universo di titoli consentiti. E, ancora, potrebbero essere coinvolti altri attori quali la Borsa di Shenzen».

Repubblica 1.12.14
La disoccupazione sale la crisi dell’eurozona minaccia l’export e la popolazione invecchia. A Stoccolma come in Danimarca e Finlandia, suona l’allarme: il welfare scricchiola e con lui il mito del grande Nord
Addio al modello svedese
di Andrea Tarquini

STOCCOLMA GENTILE e infaticabile, Carl Smitterberg è un quarantenne poliglotta e sportivo, elegante casual, giacca blu di buon taglio e camicia button down: sembra un giovane manager di un’industria d’eccellenza, o di una banca scandinava approdata a Canary Wharf a Londra. Invece no, percorre veloce la città tutto il giorno in Tunnelbana, lo splendido, profondissimo métro-rifugio antiatomico, per occuparsi degli anziani e dei disabili ai quali porta a casa gli allarmi da polso collegati alla centrale di soccorso. «Abbiamo molti fondi, ma oltre 110mila dei 900 mila abitanti di Stoccolma sono over 65, trend in aumento», spiega. Li Jansson, brava e giovane esperta dell’istituto Almega, è in prima linea per l’integrazione dei migranti, «dobbiamo far di più per loro o i populisti cresceranno», mi dice. Kristina Persson, nel nuovo governo di sinistra, è la ministro del Futuro e riprogetta il sistemapaese, non ha dubbi: «Il modello nordico deve cambiare per restare sostenibile, organizzarsi meglio, creare, produrre, integrare di più e dare più lavoro, altrimenti i populisti diverranno una sfida davvero pericolosa». Tempo di riflessioni quiete-amare, a Stoccolma sorridente e gentile, affollata per lo shopping, profumata di candele e ghirlande dell’Avvento, accesa da decorazioni, mercatini di Natale, abeti addobbati: persino il Kungliga Slotten, il Palazzo reale dove presto regnerà l’amata Viktoria, è illuminato a festa. «Il Nord è ancora il paradiso del mondo», dice lo scrittore critico danese Jussi Adler- Olsen, «ma sta cambiando, diventa meno solidale e meno liberal, e noi intellettuali cominciamo a temere di svegliarci un giorno e non trovarlo più, scoprirci all’improvviso in un paradiso perduto, troppo tardi per un attimo».
Andiamo cauti con gli allarmi: non basta ancora qualche sommossa etnica nelle vecchie metropoli industriali del Sud, né il volo degli Sveriges Demokraterna, i nuovi populisti antieuropei di Jimmy Akesson, a far cadere il grande Nord nell’abisso della Francia tra declino industriale e Front National primo partito, o nelle nostre rabbie urbane tra razzismo e povertà giovanile dilagante. Qui nella Svezia potenza- leader regionale, in Finlandia, Danimarca i valori costitutivi dei leader-mito di ieri, da Olof Palme a Urho Kekkonen, vivono ancora, li tocchi con mano. L’export industriale e high-tech d’eccellenza vola, produce la metà del Pil. Le start-up crescono come funghi, anche per i fondi governativi alla musica giovanile. Idee-chiave del mondo come Skype o Spotify sono nate qui. Corruzione e furbetti sono così rari che persino il controllo biglietti sulla Tunnelbana o sul treno da 210 orari che dal lontanissimo Arlanda, aeroporto migliore di Monaco o Zurigo, ti porta in centro in venti minuti, sono eccezione. E anche le più povere ragazze- madri fuggite dalla Siria o dalla Somalia sentono che il welfare non le lascia sole.
«Ma guai a cullarsi sugli allori, la disoccupazione all’8 per cento è già troppo alta. Dobbiamo sbrigarci a ripensare il modello nordico, renderlo sostenibile: più organizzazione e meno burocrazia, più produttività e più integrazione, e più attenzione alle nuove disuguaglianze», confessa la ministro Persson nel suo studio a palazzo Rosenbad, il neoclassico edificio governativo che solo l’acqua del golfo e un ponte separano dalla Corte. «Il mondo corre, non ci aspetta, la mia generazione di baby-boomers invecchia, presto diverremo un costo ». E non è finita: «Siamo in pochi, ci servono più migranti anche per produrre e per finanziare il welfare». Per fortuna, dice reduce da un colloquio con l’ad di Volvo, tra le parti sociali resta viva la concertazione, cuore del “nordic model”. «Insieme ai valori di uguaglianza, priorità al prossimo, fiducia nelle istituzioni ». Può non bastare: «Il domani dell’eurozona cui vendiamo il 70 per cento dell’export appare cupo, molto dipende dalla Germania, certo oggi da noi nessun sì all’entrata nell’euro raccoglierebbe la maggioranza». E appena a Est, jet Gripen e navi invisibili cacciano di continuo bombardieri e U-Boot spia di Putin, ecco l’altro incubo: neutralità in forse.
Problemi simili in Finlandia, dice il governatore della Suomen Pankki, Erkki Liikanen, amico critico di Mario Draghi, dal suo studio dove i trittici di Akseli Gallen- Kallela, il pittore nazionale, ritraggono la leggiadra Aino e gli altri eroi del Kalevala. «In certe aree noi nordici andiamo benissimo, in altre siamo sotto sfida: da noi la base industriale si è fatta più piccola, col calo mondiale dell’industria elettronica e del consumo di carta. E calano le nascite, la gente dovrebbe lavorare di più, accettare riforme delle pensioni. Se la crescita rallenta e la popolazione invecchia, finanziare un ampio welfare non è più come in passato. La questione chiave è qual è la parte essenziale del welfare». Il consenso bipartisan, dice Liikanen, è non rinnegare valori costitutivi: eguaglianza, apertura al mondo, integrazione. E sistemi scolastici decisi a dare chances a tutti. Ma ogni riforma fa male, ammonisce citando Machiavelli: «Chi ha paura di perdere griderà forte, chi pensa di poter vincere starà zitto, è la sfida permanente dei politici, anche qui a Nord».
L’eguaglianza paga, rende competitivi, rammenta l’attiva premier laburista danese Helle Thorning-Schmidt. «Belle parole non bastano contro i populisti », replica Li Jansson. «L’ex premier Reinfeldt prima privatizzò i servizi sociali, un disastro, poi chiese agli elettori di “aprire i cuori” ai migranti, ma senza spiegare come. In provincia è diverso da Stoccolma, la concorrenza per lavoro e servizi crea tensioni, e dalla Siria ci arrivano medici e ingegneri di prim’ordine che non sappiamo integrare», spiega. Ogni strategia appare rischiosa: «Il nuovo governo di sinistra aumenta le tasse, le imprese sono in allarme per il mercato del lavoro». Dati freddi, ma feriscono l’anima. «Negli anni Settanta commettemmo l’errore di pensare che era meglio statalizzare tutto», nota il politologo e giornalista investigativo Henrik Berggren, «oggi l’errore contrario. Non ricordiamo che nel 1989 crollò un sistema dove lo Stato aveva divorato l’economia di mercato, oggi rischiamo un processo opposto».
L’addio al Grande Nord solidale, ecco l’incubo di intellettuali, politici e gente comune, qui a Stoccolma, Helsinki, Copenaghen accese dal prossimo Natale. «Eravamo da decenni società impregnate di valori costitutivi socialdemocratici, senza che nessuno dovesse dichiararsi socialdemocratico », nota triste Jussi Adler Olsen. «Eravamo la terra della tolleranza e del pensiero solidale: prima il prossimo di te stesso. Poi miti e valori comuni sono stati aggrediti alla radice. Crescono nuove generazioni più egoiste, prima che al prossimo pensano al portafoglio, non riusciamo a tramandare i valori. Speriamo nella nuova Svezia di sinistra, viviamo ancora in un paradiso, ma che possiamo perdere », confessa. Sommesse e civili, ecco le paure nell’animo collettivo del Grande Nord, finora dal cuore solidale caldo anche nel gelo. Le cogli con le sfide populiste, con il terrore di un crack dell’eurozona, e col rombo dei Gripen che decollando su allarme a ogni Tupolev atomico avvistato rompono il silenzio della notte.

Repubblica 1.12.14
Lo scrittore Henning Mankell
“Non siamo certo un paradiso, ma alla fine vincerà la solidarietà”
intervista di Roberto Brunelli


Famoso per il commissario Wallander, Henning Mankell è autore di besteller tradotti in tutto il mondo

LA METAFORA preferita di Henning Mankell è la piramide: l’inesausta scalata verso una cima che non è raggiungibile. Lo scrittore svedese per la verità si riferiva ai potenti con cui aveva a che fare il commissario Wallander — il suo personaggio più celebre — ma con una battuta si potrebbe dire che funziona anche con il welfare dei paesi Nord-europei: una società forte che da sempre corre verso la maggiore sicurezza sociale possibile, ma che ora, forse, è obbligata a rallentare. L’inquietudine del grande Nord è una corrente potente nei noir di Mankell. Oggi quell’inquietudine torna di attualità, questa volta sotto forma di proiezioni economiche.
Mankell, sono stati i anche suoi romanzi — così come quelli di Stieg Larsson — a mettere in crisi l’immagine idilliaca che nel resto d’Europa si ha dei paesi del Nord: nazioni ordinate, di grande benessere, dotate di un forte senso di comunità...
«Se è per questo, le leggende sui paesi nordici sono sempre prosperate. Ha ben presente il mito “della bionda svedese”, no? Ma, le devo dire, quei miti non sono stati creati da noi, sono stati creati da voi! La Svezia non è mai stata un paradiso, questo è ovvio. Diciamo che quello che abbiamo fatto io e Larsson è di aver dato sfumature diverse, per così dire, all’immagine classica del nostro paese...».
Ma ora si dice che il modello nordico non sia più sostenibile. Eppure per gli altri europei è sempre stato una specie di icona, no?
«Sa che le dico? Io non sono d’accordo sul fatto che il livello di welfare che si è raggiunto in Svezia, Norvegia, Finlandia e Danimarca non possa essere mantenuto. Le restrizioni finanziarie che ci sono state in Europa negli ultimi anni hanno avuto influenza negativa, certo, ma è un fatto che le nostre economie sono rimaste forti e robuste. Anche se oggi c’è una certa inquietudine, la Svezia e gli altri paesi nordici sono ancora alcune delle società più egualitarie e giuste che si possano trovare. Specialmente, tanto per fare un esempio, se si guarda alla situazione dei diritti delle donne. Non vedo alcun rischio che un paese come il mio possa perdere la sua ambizione di tenersi in piedi sulla base della solidarietà: sono gli stessi cittadini che lo vogliono difendere il loro stato sociale ».
Parlando di welfare è impossibile non tornare con la mente alla tradizione dei socialdemocratici del nord, come Olof Palme. Cosa ne è rimasto?
«Cento anni fa, la Svezia era ancora un paese povero che stava ai margini dell’Europa. Ma quando sono arrivati al governo i socialdemocratici, abbiamo assistito ad uno sviluppo ed un progresso enormi, sia dal punto di vista politico, che da quello sociale ed economico. E poi c’è il fatto, com’è facile capire, che la Svezia ha potuto, per così dire, evitare la seconda guerra mondiale. Il che ha avuto una conseguenza pratica non indifferente: negli anni cinquanta, quando sono iniziati i veri “anni buoni”, noi godevamo di un vantaggio formidabile rispetto agli altri paesi europei. Siamo stati fortunati».
Tema austerity: i governi nordici sono tra i più severi nel giudicare il comportamento dei paesi meridionali. La posizione resta la stessa se la crisi tocca anche voi?
«Ho provato vergogna quando ho visto numerosi politici, scrittori ed economisti svedesi gettare addosso a paesi come la Grecia o l’Italia la colpa dei loro problemi. In realtà, siamo tutti responsabili, soprattutto attraverso il comportamento delle banche, nella creazione di questa incredibile devastazione economica a cui stiamo assistendo. Invece di dare maggiore assistenza ai paesi in difficoltà, ci ergiamo a giudici, ma è un controsenso. Non esistono vie di mezzo: o siamo un’Europa unita o non lo siamo».

Repubblica 1.12.14
“Vi spiego la musica dei numeri”
Manjul Bhargava, medaglia Fields, svela la sua India tra teoremi e poesia
“Mi sono preso molti periodi di studio a Jaipur e ho imparato a suonare la tabla”
“Il trattato di prosodia sanscrita di Pingala anticipò Fibonacci e il triangolo di Pascal”
Con Manjul Bhargava inizia una serie di incontri con i grandi matematici del mondo
di Piergiorgio Odifreddi


MANJUL Bhargava è uno dei quattro matematici che hanno vinto la medaglia Fields a Seul lo scorso agosto. Tipico enfant prodige che brucia ogni tappa, è stato studente del famoso Andrew Wiles, il dimostratore del teorema di Fermat. Nella sua tesi di dottorato ha esteso il lavoro di Carl Gauss, il principe dei matematici. E a soli ventott’anni è diventato ordinario all’Università di Princeton. Ma i suoi interessi spaziano ben oltre i confini della matematica e si estendono alla poesia e alla musica indiana.
L’abbiamo incontrato al meeting di Heidelberg, l’annuale appuntamento che raduna una dozzina di medaglie Fields, e offre a 200 studenti scelti e a qualche fortunato invitato l’occasione di venirle a conoscere più da vicino.
Lei è canadese di nascita e statunitense di formazione, ma sembra essere più indiano dei nativi. L’ho sentita citare l’antico matematico Brahmagupta: ha letto i suoi lavori?
«Sì, quand’ero studente. E sono stati una delle mie ispirazioni: le proprietà dello zero, i numeri negativi, eccetera».
Ma immagino che non glieli abbiano insegnati a scuola, a Long Island.
«Eh, no! Mio nonno era un professore di sanscrito e quando ha visto che mi piaceva la matematica mi ha fatto conoscere alcuni dei classici indiani. Mi ha insegnato a leggerli in originale, anche se non sono mai arrivato a essere autosufficiente. Ma, fin quando era vivo, ogni volta che mi bloccavo potevo consultarlo direttamente e chiedergli aiuto».
Una delle connessioni più note tra la matematica e la poesia indiane è la grammatica sanscrita di Panini, del IV secolo prima della nostra era. Ha studiato anche quella?
«Effettivamente, sì! E parecchio. Quand’ero all’università mi sono preso molti periodi di studio in India, a Jaipur, dove vivevano i miei nonni. È lì che ho anche imparato a suonare la tabla, a cui mia madre mi aveva introdotto da bambino».
La suona ancora?
«Certo. Faccio anche concerti, da solo e in gruppo: in genere negli Stati Uniti o in Canada, ma a volte anche in Europa. Purtroppo ci vuole tempo per preparare un concerto: bisogna avere almeno un mese di tempo per staccare da tutto e dedicarsi solo a quello. E nell’ultimo paio d’anni ho avuto troppo da fare in matematica».
Lei si sente più indiano o più anglosassone?
«A dire il vero, mi sento a mio agio in entrambe le vesti. A casa parlavamo in hindi, mangiavamo cibo indiano, leggevamo letteratura indiana e ne discutevamo tutti insieme. Ci sono immigrati che pensano sia meglio educare i figli unicamente in maniera locale per evitare che crescano confusi. Ma io ho avuto un’esperienza meravigliosa con entrambe le culture e ho cercato di prendere il meglio da tutt’e due. Credo che questo biculturalismo mi abbia aiutato ad aprire la mente in un modo che altri non hanno potuto avere».
È la sua cultura indiana che l’ha spinta a studiare la teoria dei numeri?
«Effettivamente ci sono molte connessioni con la teoria dei numeri: non solo nei Sulvasutra, ma anche nella poesia di Panini e Pingala. È da loro che ho imparato la successione di Fibonacci, ad esempio».
Come si combinano la matematica e la poesia indiane?
«Anzitutto, i testi sono scritti in versi metrici: meravigliosi, tra l’altro. E poi i numeri più comuni sono indicati con espressioni metaforiche: si parla degli occhi, ma si intende il numero due. Leggere e tradurre queste cose è impegnativo, ma mi piacerebbe farlo prima o poi».
Cosa in particolare?
«Il trattato di prosodia sanscrita di Pingala, nel quale si parla per la prima volta di cose che noi chiamiamo la “successione di Fibonacci” o il “triangolo di Pascal”, benché quel lavoro risalga a due secoli prima della nostra era».
Mi sembra ci sia addirittura l’aritmetica binaria, oggi usata dai computer, che interveniva tramite la distinzione fra sillabe corte e lunghe dei versi.
«È vero. Pingala contiene un modo esplicito di trasformare numeri decimali in binari e viceversa. Non è un caso che ci siano molti riferimenti ai precursori indiani nella famosa Arte della programmazione del
computer di Donald Knuth».
Un po’ come nelle grammati-
che generative di Chomsky.
«Si può dire che Panini sia un preludio a Chomsky, mentre il lavoro di Gautama è un preludio alla teoria matematica degli algoritmi, con tanto di dimostrazioni. E questo va contro il pregiudizio che la matematica indiana antica sia un insieme di ricette calate dall’alto, senza dimostrazioni. Purtroppo, queste cose le sanno gli specialisti di sanscrito, che però non sono interessati alla matematica».
Oltre che per la poesia, la matematica serve anche per la musica indiana?
«Certamente, perché i ritmi delle tabla sono un sottoinsieme di quelli per la poesia: quando i cantanti salmodiano i versi, i musicisti devono capire cosa succede per poterli seguire adeguatamente. E questo è ancora più vero per i mridangam e i ghatam del Sud dell’India, che per le tabla del Nord».
Lei è il primo indiano a vincere la medaglia Fields. Come mai un paese con una tale tradizione ne ha avute così poche? E lo si potrebbe dire per i premi Nobel.
«L’antica tradizione matematica risale a prima dell’invasione britannica. E nel periodo successivo all’indipendenza le menti migliori si sono dedicate tutte all’ingegneria e alla medicina. A causa della povertà del paese: se si vuole vivere decentemente e mantenere una famiglia non ci sono molte altre alternative sicure e l’università e la ricerca non sono certo fra quelle».
Negli Stati Uniti, però, ci sono moltissimi studenti indiani (oltre che cinesi) a matematica e informatica.
«Sicuramente hanno molto talento e lì l’università e la ricerca non sono così mal messe come in India. Quegli studenti poi rimangono e non tornano a casa».
Noi li chiamiamo “cervelli in fuga”. Ma resta comunque il problema del perché anche loro non arrivino alla medaglia Fields o al Nobel.
«Effettivamente alcune delle università più prestigiose, da Harvard a Princeton, non hanno mai avuto un professore indiano in matematica pura. In informatica e in matematica applicata è diverso e ce ne sono».
L’India ha invece avuto il campione mondiale di scacchi Viswanathan Anand.
«È un mio amico. L’ho conosciuto a Madrid, dove vive, in occasione del Congresso Internazionale dei Matematici del 2006 e da allora ci teniamo in contatto. Anche perché è interessato alla matematica e legge libri divulgativi».
Pensa che aver vinto la Fields le cambierà la vita?
«Spero di no, anche se certo finora l’ha fatto. Ma all’assegnazione delle medaglie Fields i media e il pubblico mostrano un temporaneo interesse per la matematica ed è sia un’opportunità che un dovere approfittarne: non personalmente, ma per il bene della disciplina. Spero però che non duri molto perché amo sia la matematica che la musica, e non voglio lasciar perdere né l’una, né l’altra».

La Stampa 1.12.14
La Shoah dei bambini
Inghiottiti nei forni crematori, sfracellati contro i muri, centrati a colpi di pistola. Dagli atti del processo Eichmann tradotte le pagine relative alle vittime più giovani
di Elena Loewenthal


Che la memoria sia un valore e ricordare un dovere è cosa ormai assodata. Un dogma che non si discute, valido in assoluto. Ma non sempre è stato così, neppure a proposito di quella memoria divenuta tale per antonomasia, tanto da siglare una giornata apposita. La Shoah non è sempre stata l’oggetto di una commemorazione pubblica, non è sempre stata il simbolo del dovere morale di ricordare, per evitare che succeda di nuovo. Anzi.
Negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, di imperativo ne era in vigore un altro, di segno opposto: lasciarsi tutto alle spalle. Tornare a vivere. E per poterlo fare, per potersi svegliare ogni mattina e prendere sonno ogni sera senza lo sgomento di quel passato prossimo, sembrava necessario dimenticare. Quanto meno, tacere. Israele era allora il Paese con il più alto tasso di incubi notturni e urla dal sonno profondo. Ma i sopravvissuti tacevano, di giorno. Un po’ per continuare a sopravvivere, per non farsi distruggere dalla disperazione. Un po’ per l’indecifrabile vergogna di esserci ancora, mentre tutti gli altri erano morti.
Poi ci fu un evento cruciale, senza il quale la memoria non sarebbe diventata quello che è oggi. Nel 1960 Adolf Eichmann, la mente della Soluzione finale, viene individuato e catturato dagli israeliani in Sud America, dove conduce una vita perfettamente tranquilla. L’anno successivo s’inizia a Gerusalemme il suo processo, in una sala costruita all’uopo. Centinaia di sopravvissuti prendono posto sul banco dei testimoni, sotto gli sguardi della corte e dell’impassibile imputato. Centinaia di giornalisti di tutto il mondo seguono le udienze. Molte sono trasmesse per radio. In Israele e nel mondo intero si ascoltano per la prima volta, da quelle vive ma straziate voci, i racconti della Shoah. In quei mesi, la memoria diventa qualcosa di diverso da ciò che era prima. Parole, sguardi, silenzi. Anche il tonfo del corpo svenuto di Yechiel De Nur, che ha voluto testimoniare con il nome di Ka-Tzetnik (abbreviazione di «prigioniero del campo di concentramento») seguito dal numero che ha tatuato sul braccio, e non ce l’ha fatta.
Livio Crescenzi, archeologo e traduttore di letteratura americana, sta da molti anni lavorando alla traduzione italiana di quel documento indispensabile che sono gli atti del processo. Inspiegabilmente, nella mole financo ridondante di letteratura intorno alla Shoah di cui dispone e in cui ancora si profonde la nostra editoria, mancava questo tassello fondamentale. Forse perché si tratta di un lavoro immenso e minuzioso, che esige passione e commozione nel senso più alto del termine, il desiderio cioè di sentire e inevitabilmente soffrire, lavorando su quelle parole. Più che mai quando il tema sono i bambini della Shoah, come in questo secondo volume degli atti, pubblicato come il precedente dal benemerito editore Mattioli 1885 con il titolo Un fiore mi chiama (pp. 207, € 21,90) e una prefazione di Ernesto Galli della Loggia.
Sono pagine terribili. Non c’è altro modo per definirle. È una lettura che mette a dura prova, che ti provoca continuamente, che ti invita a ogni pagina a chiudere il libro, sbatterlo contro il primo muro, urlare che non è possibile. Eppure è così. Crescenzi ha metodicamente raggruppato le testimonianze per luoghi, momenti. Udienza per udienza. A partire dal ghetto di Varsavia dove più si era piccini più probabilità - per quanto scarsa - c’era di riuscire a contrabbandare un tozzo di pane di qua dal muro, sfuggendo alla sorveglianza. C’è la tacca su un altro muro, quello del dottor Mengele: sopra significava passare dai suoi esperimenti, sotto voleva dire essere troppo piccoli di statura, e finire immediatamente nelle camere a gas.
C’è un’infinità intollerabile di neonati strappati alle braccia delle madri e sbattuti per terra per fracassargli il cranio. Ridendo. C’è quel bambino rimasto un anno nascosto in cantina con la consegna del silenzio, che a distanza di tanto tempo ancora sussurrava invece di parlare, per paura. C’è anche il sedicenne che Eichmann uccise perché aveva rubato due ciliegie dal suo albero. Era in una squadra di lavori forzati al servizio «domestico» e fu probabilmente l’unico caso in cui la bestia nazista ammazzò qualcuno direttamente, con le proprie mani. Il suo avvocato difensore si accanisce contro questa testimonianza, perché tutta la sua strategia è basata sul paradosso di un capo d’accusa fondato sulla responsabilità di più di sei milioni di morti, e nessun (o quasi nessun) omicidio compiuto in prima persona.
Eichmann venne giustiziato il 31 maggio 1962 perché ritenuto colpevole di crimini contro l’umanità, nella piena consapevolezza che la pena, per quanto capitale, non era commisurata all’immensità della colpa. Momento cruciale della storia di tutti noi, chiave di volta del nostro approccio alla memoria, il processo Eichmann è anche, forse soprattutto, la resa di ogni possibile giustizia di fronte a un milione e mezzo di bambini inghiottiti dal fumo dei forni crematori, sfracellati contro il muro, centrati da un colpo di pistola, sepolti dentro una fossa comune.

dall’articolo:
C’è la diffusa convinzione che tutta l’opera di Sade si iscriva «nel pensiero del suo secolo», rielaborando «assunti ampiamente diffusi della filosofia illuministica soprattutto nel suo versante ateo e materialista» (Gorret). Si è parlato di lui come «figlio maledetto dei Lumi» (Deprun), ma anche di un suo collegamento con la «dottrina agostiniano-calvinista-giansenista della totale depravazione dell’uomo» (Crocker), mentre Barthes lo ha accostato a sant’Ignazio e Lacan a Kant
Corriere 1.12.14
Sade non fu mai messo all’Indice
In Francia si fece 28 anni di carcere, le sue opere erano un caso editoriale che dura tutt’ora
di Francesco Margiotta Broglio


Nel 1947, per la prima volta, varie opere di Sade vengono pubblicate a Parigi con il nome e l’indirizzo di un editore, Jean-Jacques Pauvert, che inizia con La storia di Juliette ovvero le prosperità del vizio , apparsa in origine nel 1797 con il falso luogo «In Olanda» e arricchita da cento incisioni. Di essa l’autore negò la paternità, ma i librai non esitarono a tradirlo, mentre du Ravel dichiarò che egli aveva superato se stesso con uno scritto ancora più detestabile di quell’infame «capolavoro di corruzione» rappresentato da Justine (1791), sorella di Juliette, che sarà seguito dai 4 volumi della Nuova Justine . Nel marzo 1801 Sade viene nuovamente arrestato (in tutto saranno 28 i suoi anni di carcere) e il manoscritto di Juliette viene sequestrato dalla polizia, ma i librai parigini nel 1802 fanno a gara per ristampare e diffondere le sue opere. Si trattava, e così sarà fino al 1947, di edizioni clandestine o di tirature molto ridotte.
Pauvert, che aveva sfidato tabù sociali e leggi sulla censura pubblicando 24 volumi di Sade, venne «severamente condannato» nel 1957 dal tribunale di Parigi per aver stampato opere contrarie al buon costume (delle quali vennero ordinate la confisca e la distruzione), denunciate dalla Commissione per i libri prevista dalle leggi: tra i testimoni Paulhan, Bataille, Cocteau, Bréton. L’anno successivo l’editore, difeso da un principe del foro, Maurice Garçon, accademico di Francia, verrà assolto in appello per l’acclarata nullità della decisione della Commissione per l’assenza di alcuni suoi membri.
Come ha scritto lo stesso Pauvert, per la prima volta «veniva riconosciuto il diritto di esistere all’opera più scandalosa di tutti i tempi», ma il 21 dicembre 1958 la Francia di de Gaulle approverà una legge che ripristinava la censura con misure definite da Garçon più dure di quelle di Napoleone, in quanto con la scusa di tutelare l’infanzia esse davano il potere al ministro dell’Interno di predisporre una lista di libri proibiti. Dopo qualche garanzia per gli editori negli anni Sessanta, il nuovo codice penale del 1994 introdurrà pene severe contro libri o audiovisivi che diffondessero messaggi violenti o pornografici violando la dignità umana: ancora Garçon qualificherà le relative norme «il capolavoro della Censura».
Gli ultimi anni Novanta del Novecento vedranno però l’opera di Sade consacrata nella prestigiosa Bibliothèque de la Pléiade di Gallimard, a cura di Michel Delon. Gli studi su di lui si erano, peraltro, moltiplicati, come l’attenzione dei più accreditati intellettuali mondiali.
Colpisce comunque che negli anni trascorsi dal tempo di Sade, scomparso esattamente due secoli fa il 2 dicembre 1814, la Chiesa di Roma non paia essersi accorta dei suoi scritti particolarmente violenti contro la religione. Negli «Indici dei libri proibiti» pubblicati dal papato in questo lasso di tempo (l’ultimo è del 1948, nel 1966 l’ Index verrà eliminato) mai l’autore o qualcuna delle sue opere blasfeme si rinviene nella nota collezione quasi completa di normative, documenti, elenchi di scritti pubblicata a Ginevra e a Montréal dal De Bujanda. Non mancano Voltaire e Rousseau, Casanova e d’Annunzio, Beccaria, Sartre e Simone de Beauvoir, Zola e Balzac, Fogazzaro e Moravia, Gioberti e Rosmini, Croce e Gentile, George Sand e Ada Negri, che certo non appartengono al «mondo alla rovescia» del nostro marchese. Sade peraltro era un grande conoscitore della Bibbia e la sua «religione» appare «molto più complessa e paradossale di una antiteologia che si contentasse di proclamare tutto il contrario dei valori della Chiesa» (Vilmer).
Non si rinviene traccia di Sade nella documentazione conservata negli archivi romani della «Congregazione dell’Indice», soppressa nel 1917 da Benedetto XV con l’attribuzione delle relative competenze a quella del Sant’Uffizio. Non è agevole, quindi, spiegare i silenzi della Chiesa, che non possono essere dovuti né a distrazione dei censori ecclesiastici, né alla scarsa notorietà o alla paternità non immediatamente dichiarata di alcuni scritti, né, ancora, al fatto che le opere lascive sarebbero ricadute in una generica e originaria condanna. Opere del genere infatti, in diverse epoche, si ritrovano tra quelle condannate. Si aggiunga che alla sua morte, nonostante le diverse disposizioni testamentarie, Sade ebbe diritto ai funerali religiosi e venne sepolto nel cimitero del manicomio di Charenton in una tomba senza nome, ma con solo una grande croce di pietra. Le autorità di polizia furono tranquillizzate: metà dei suoi numerosi manoscritti vennero da esse sequestrati e dati alle fiamme, l’altra metà chiusi in un baule e consegnati alla famiglia che, fino alla quinta generazione dei Sade, si guardò bene dall’aprirlo.
Solo di recente è stato ritrovato ed esposto a Parigi al Museo dei manoscritti il famoso rouleau , un insieme di fogli clandestini incollati tra loro sui quali Sade aveva trascritto Le 120 giornate di Sodoma e che restarono nella sua cella alla Bastiglia quando venne trasferito a Charenton e, dopo la presa della fortezza nel 1789, finirono in mani private.
C’è la diffusa convinzione che tutta l’opera di Sade si iscriva «nel pensiero del suo secolo», rielaborando «assunti ampiamente diffusi della filosofia illuministica soprattutto nel suo versante ateo e materialista» (Gorret). Si è parlato di lui come «figlio maledetto dei Lumi» (Deprun), ma anche di un suo collegamento con la «dottrina agostiniano-calvinista-giansenista della totale depravazione dell’uomo» (Crocker), mentre Barthes lo ha accostato a sant’Ignazio e Lacan a Kant.
Di certo il silenzio ecclesiastico sulle sue opere appare tanto più stupefacente se si tiene conto che, proprio in Juliette , egli immagina un episodio nettamente blasfemo e mette in ridicolo papa Braschi (Pio VI) — alla cui «incoronazione» aveva assistito — facendogli scrivere una lunga «enciclica», intitolata Di tutte le stravaganze dell’uomo , piena di dottrina e di riferimenti storici, filosofici e teologici, che esalta l’assassinio e gli assassini. Quel che è più grave è che Juliette negozia con il Papa — che lei provoca in tutte le forme e definisce «fantasma orgoglioso» e «vecchia scimmia» — la dissertazione e i suoi contenuti in cambio di una «immensa orgia, piena di lussuria e di libertinaggio» che si sarebbe svolta intorno all’altare di San Pietro protetto da enormi paraventi. Pio VI, comunque, riconosce che l’elevazione delle idee di Justine è estremamente rara tra le donne e conclude il suo testo con queste parole: «Tutti i popoli hanno sgozzato uomini sugli altari dei loro dei. In ogni tempo l’uomo ha provato piacere versando il sangue dei suoi simili e… talvolta ha mascherato questa passione con il velo della giustizia, talvolta con quello della religione. Ma il fondamento, lo scopo era, senza dubbio alcuno, lo stupefacente piacere che ne provava». Un testo profondamente… sadico (o sadista?) che sicuramente non dovette sfuggire ai censori ecclesiastici, ma che continua, dopo più di due secoli, a poter essere letto senza tema di pene anche solo spirituali.

Repubblica 1.12.14
“La sovranità assente” comprende tre saggi di Barbara Spinelli
Istruzioni per ricominciare a credere nella politica dell’Unione Europea
Una riflessione per cambiare le regole comuni e superare la delusione degli Stati
di Federico Fubini


UNO spartiacque dev’essere stato passato in Italia, se uno dei Paesi più tradizionalmente aperti all’integrazione europea oggi inizia a rispondere in modo sorprendente. All’ultimo sondaggio della Commissione di Bruxelles, della primavera scorsa, risultano gli italiani (con i lettoni) i cittadini dell’Unione più convinti che loro loro voce non conti in Europa. Con francesi, britannici e greci, gli italiani sono anche i più pessimisti sul futuro dell’Unione europea. Con spagnoli, portoghesi e greci, sono ancora una volta loro i più negativi sulla situazione dell’economia. E persino più degli abitanti Paesi visitati dalla troika, sempre gli italiani sono gli europei fra i quali la popolarità dell’euro è scemata di più nell’ultimo anno. A differenza che in Spagna, o in Grecia, ormai la maggioranza risponde ai sondaggi esprimendo la propria avversione.
Dev’essere successo qualcosa, qui più che in altri Paesi colpiti dai traumi di questi anni. Dev’essere stata superata una soglia che rende l’ultimo libro di Barbara Spinelli, La sovranità assente ( Einaudi) materiale di riflessione incandescente e prezioso anche per chi non concorda con le sue tesi. Barbara Spinelli oggi siede nel Parlamento europeo, eletta in quella che in Italia si è presentata come Lista Tsipras, il leader della sinistra radicale oggi in testa ai sondaggi ad Atene. Come Tsipras, Spinelli contesta con forza le politiche economiche dell’area euro e il modo in cui esse vengono decise, e proprio la natura di quella lista è il contesto ideale ai saggi di Sovranità assente : persino all’apice dello stress sociale e del naufragio dell’idea europea, una formazione politica in Italia diventa riconoscibile sotto il nome di un leader di un altro Paese dell’Unione. Lo fa in nome di un dibattito comune, per quanto sofferto esso sia. È su questa tela di fondo che Barbara Spinelli nel primo dei tre saggi del volume (“Un futuro già scritto”) invita a osare un esercizio troppo spesso dimenticato: smettere di pensare al presente e al futuro come dimensioni dominate dalla necessità, anziché dalla possibilità. Qualcun altro lo definirebbe un manifesto contro il “pensiero unico”, Spinelli invece preferisce chiamare in causa il narratore di un’altra fase storica in cui gloriose istituzioni rivelano la loro fragilità e avviene l’impensabile: Robert Musil e l’incrinarsi dell’Impero austro-ungarico. Nell’ Uomo senza qualità, ricorda Spinelli, Musil descrive l’uomo dotato di senso della realtà, che non dice: «Qui è accaduto, accadrà o deve accadere questo oppure quello», bensì: «Qui potrebbe o dovrebbe accadere un certo evento, ma potrebbe benissimo essere diverso».
Il messaggio non potrebbe essere più chiaro: un’Europa dominata dal determinismo, dal rifiuto di ammettere alternative possibili, non può che infrangersi contro gli scogli. Gli europei stessi finiscono per voltarle le spalle. «L’utopia europeista non si accontenta della forza dei fatti, pur ritenendo i fatti degni della massima considerazione – scrive Barbara Spinelli – e reputa deleterio il pragmatismo di chi giudica possibile solo quello che al momento esiste». Nel merito, le posizioni della Lista Tsipras possono rappresentare la maggioranza relativa in Grecia, una minoranza in Italia o non raccogliere adesioni in Germania. Ma questo non libera chi dissente da esse dall’obbligo di misurarsi con quella che Spinelli chiama «la storia virtuale, fatta di bivi e crocicchi», quella dei “criticoni idealisti”. Ritenere a priori che esista una sola risposta possibile alla crisi, sia essa quella preferita dalla Bundesbank o il suo opposto, non può che impoverire le idee e portare a un vicolo cieco. La stessa rivisitazione che Spinelli fa del “Manifesto di Ventotene”, la prima pietra dell’europeismo europeo posata da un gruppo di confinati in pieno fascismo (fra essi suo padre Altiero Spinelli) contiene una lezione attuale: era un messaggio contro il nazionalismo, ma anche contro quel veleno della coesistenza civile che si chiama povertà. Mai come ora ha senso parlare di ieri per capire i pericoli di oggi.

La sovranità assente di Barbara Spinelli ( Einaudi pagg. 78 euro 10)
RTV-LAEFFE Oggi alle 13.45 su RNews (canale 50 del digitale terrestre e 139 di Sky) il servizio

Il Sole 1.12.14
Qualità della vita: vince Ravenna
Ultime Agrigento, Reggio Calabria e Foggia - Migliorano Milano e Roma
La classifica: la provincia romagnola precede Trento e Modena nella graduatoria del 2014
Nei grandi centri manca la sintonia con il «globale»
di Carlo Carboni


La qualità della vita è diventata oggetto di comune conversazione e, quando ci spostiamo o viaggiamo, spesso ci chiediamo dove si viva meglio. Con la modernità industriale, la qualità della vita è divenuta anche un “rompicapo” nelle scienze economiche e sociali, oggetto di definizioni contraddittorie, posta com’è al crocevia tra fattori materiali e postmaterialisti del benessere.
La ”questione settentrionale” dimostra che il malessere può allignare anche in aree di benessere economico (a causa dei suoi “costi latenti”). La qualità della vita si pone anche all'incrocio tra condizioni di vita individuale e collettiva: per questo si lega, a esempio, a un'efficace cura dei cosiddetti commons, beni e servizi comuni. In genere, comporta valutare le componenti non economiche dello sviluppo, in particolare nel Belpaese in cui il made in Italy mescola qualità dei prodotti con lo stile e la qualità della vita. Comunque, tutti conveniamo che la crescita economica è il presupposto per creare benessere, le cui forme realizzate (più o meno qualità) dipendono però dall’efficacia dell'azione politico istituzionale (servizi, ordine pubblico, ecc.), sia in contesti urbani che nelle spopolate periferie della vita.
In Italia, come in tutti i Paesi sviluppati, la qualità della vita implica attenzione soprattutto alle aree urbane. Solo il 16% degli italiani vive in aree a bassa densità urbana (28 % nella Ue). Due terzi di essi abitano in località ad alta urbanizzazione, contro i tre quarti della popolazione degli altri grandi Paesi europei (eccetto la Spagna). Infatti la nostra struttura urbana si caratterizza più per la cintura delle “cento città” provinciali che per presenza di grandi città metropolitane. Non a caso, le indagini del Sole 24 Ore ormai da anni vedono al top della classifica piccole e medie città (del Centro Nord). Oltretutto, la crisi economica ha picchiato più duramente sulla qualità della vita nei nostri due centri maggiori. Con l’avvento della crisi, Milano era scesa al ventesimo posto e Roma al ventottesimo (2008), mentre oggi risultano rispettivamente ottava e dodicesima. Entrambe stanno recuperando in fretta le posizioni perdute, ma i fatti recenti di cronaca testimoniano anche una parallela crescita di tensioni sociali e d'incipienti problemi di legalità e ordine pubblico. Il terreno recuperato negli ultimi tre anni non è dunque sufficiente a cancellare anni di mancanza di una strategia per le nostre grandi città, troppo trascurate in una fase di profonda trasformazione del loro ruolo e della stessa vita urbana. Oggi le grandi città più che espressione di una gerarchia nazionale, sono pezzi di società concentrata che interfaccia un mondo globalizzato: tendono a costituire 'cancelli' simbolici del mondo globale, nodi di una rete metropolitana internazionalizzata. Se compariamo la qualità della vita delle nostre due maggiori città nella rete delle super-città globali, osserviamo che Milano è 41esima e Roma 51esima su 223 (Mercer 2014).
Sebbene Ravenna sia una delle cento piccole e medie città italiane, il suo primo posto in classifica non dipende tanto dai fasti del passato di questa città o dal suo levigato benessere provinciale quanto dal rilievo assunto negli anni come centro portuale adriatico di una regione ricca come l'Emilia Romagna (e non solo di essa): in altri termini, sta diventando un gate vocato a dialogare con territori extraregionali e lontani. È una città in cerca di economia in un mondo globale in cui l'economia internazionale, a sua volta, è in cerca di città attraenti ed efficienti.
In questo nuovo scenario, il ritardo della qualità della vita nelle nostre città medie e grandi è anche il prodotto della mancanza di una strategia in grado di creare sintonie con 'il globale' (in quanto a servizi, affari ecc.): più concretamente, di catturare quel nuovo ceto medio-alto cosmopolita che si muove tra le città globali per affari, turismo, cultura e di attrezzarsi ad accogliere le immigrazioni dalle periferie del mondo. Tuttavia, i nostri grandi centri difettano anche di sintonie interne, più difficili da realizzare in contesti ad alta differenziazione strutturale della popolazione (dai più ricchi ai più poveri). Le tensioni e ruvidi urti interni si creano perché problematiche arcinote come la congestione e l'inquinamento, l'ordine pubblico e l'integrazione di sobborghi, squallidi alvei di nuove povertà, sono state lasciate per anni a marcire, come nei casi eclatanti di Napoli e Palermo, da sempre melanconicamente in coda alla speciale classifica del Sole 24 ore. I palazzi della politica hanno lasciato intere città e periferie in una solitudine senza miti e senza consolazioni, luoghi in cui non c'è nulla per chi voglia imparare o divenire migliore, per quanti non vogliano arrendersi alla povertà e all'illegalità. Siamo entrati da circa un quindicennio nel XXI secolo e riflettere sulla qualità della vita in Italia significa intraprendere soluzioni efficaci (come i 'rammendi' delle periferie di Renzo Piano), all'altezza di un mondo sprovincializzato e cosmopolita. Altrimenti, come i Greci, nello scoperchiare il vaso di Pandora, scopriremo che la speranza non è altro che malcelata rassegnazione.