martedì 2 dicembre 2014

il Fatto 2.12.14
Cercando le radici essiccate del Pd
di Vittorio Melandri


Gramsci coglieva nel “cattolicesimo popolare” la maggiore novità politica dopo il Risorgimento. È lo stesso fenomeno politico che è stato prima sterilizzato dalla dittatura fascista, e poi tutto riassorbito da un lato dall’interclassismo “vaticano” della Dc, capace persino di far fuori De Gasperi nel momento in cui sembrò che lo statista trentino potesse essere di ostacolo, e dall’altro da quella illusione che fu di Togliatti e del suo gruppo dirigente, che si è tragicamente cristallizzata nel secondo comma dell’art. 7 della Costituzione. “Illusione” tuttora viva e vegeta, anche se una sorta di metamorfismo non geologico ma politico, l’ha mutata prima in compromesso storico e poi in Pd. L’art. 7, è l’unico articolo della Costituzione votato a “stretta” maggioranza: 350 vs 149. Insieme a 203 democristiani, 25 qualunquisti, e 11 liberali più alcuni rappresentanti di gruppi minori che assommarono a 16, a favore votarono anche 95 comunisti. Se ai 149 che furono i contrari, si sommano i 95 comunisti, fa 244, sempre meno dei 255 che avrebbero votato a favore senza i comunisti stessi, ma è di tutta evidenza che un articolo della Costituzione non si sarebbe potuto approvare 255 vs 244, cioè a “strettissima” maggioranza, perchè tutta la Costituzione si regge su una forte visione di insieme, e se i 95 comunisti avessero optato per il no all’art. 7 nella forma che conosciamo, si sarebbe dovuto cercare ben altro compromesso. Sono per ripetere con Vittorio Foa: “Quello fu un giorno cupo, era la svolta del Pci che ci umiliava”. Così è accaduto anche che quella che Gramsci considerava la maggiore novità politica del Novecento, attutita sin dal 1929 dal comune interesse di Stato Vaticano e Stato Fascista non è stata d’aiuto al popolo italiano per favorire, dopo la liberazione dal fascio-nazismo, anche un’altra liberazione, quella “liberazione, sistematicamente negata, dal giogo di quel cattolicesimo che dal Concilio di Trento in poi ci inchioda a un’arretratezza e a una subordinazione senza scampo”. (Ermanno Rea da “Il caso Piegari”, Feltrinelli 2014). E così è anche andato in fumo il “Compito prioritario del partito operaio (che) per Gramsci sarebbe stato quello di fornire ‘la base di un laicismo moderno, e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume’. Tra gli anni venti e trenta in molti paesi europei vince proprio la soluzione cesaristica.
La chiesa ricorre ovunque al concordato con le potenze autoritarie. Per Gramsci i patti lateranensi con il fascismo furono una capitolazione dello Stato poiché ‘il concordato è il riconoscimento esplicito di una doppia sovranità in uno stesso territorio statale’.” Michele Prospero nel Dossier Il nostro Gramsci: a 70 anni dalla morte – apparso su l’Unità del 15 aprile 2007.

ULTIM'ORA
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In corso nella Capitale numerose perquisizioni tra uffici di consiglieri della Regione Lazio e abitazione dell’ex primo cittadino
Carabinieri notificano ordini di custodia cautelare a politici e imprenditori
Sequestrati beni per 200 milioni


Repubblica 2.12.14
La classifica della corruzione
di Alessandra Longo


QUANTO è corrotto il tuo Paese? Transparency International Italia, organizzazione anti-corruzione nata dentro la cosiddetta società civile, ci farà sapere domani a che punto siamo della classifica. L’Indice 2013 di Percezione della corruzione nel settore pubblico e nella politica, applicato a 177 Paesi nel mondo, ci metteva al 69esimo posto, in compagnia di Montenegro e Lesotho. Un anno fa, in Europa, svettava la Danimarca, ultima la Grecia. Corruzione: una malattia che uccide ogni sforzo di sviluppo e toglie ossigeno ad ogni prospettiva etica di crescita. Nell’incontro di domani, a Roma, cui parteciperà anche il magistrato Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale Anticorruzione, verrà presentato un nuovo servizio di allerta per quei cittadini che volessero segnalare un caso di corruzione di cui siano venuti a conoscenza. Già si prevedono centralini intasati.

La Stampa 2.12.14
Il giorno del giudizio
In tribunale la Rimborsopoli nel Pd
In aula i consiglieri indagati per peculato
di Alessandro Mondo


La nuova Rimborsopoli arriva al dunque. Questa mattina comincerà l’udienza preliminare per i dieci consiglieri regionali, alcuni cessati dalla carica, per i quali il gup Roberto Ruscello aveva disposto l’imputazione coatta con l’accusa di peculato. E questo, nonostante per le medesime persone i pubblici ministeri avessero chiesto l’archiviazione. Stessi scontrini: interpretazioni diverse.
Gli indagati
Il perimetro della vicenda è quello della precedente legislatura regionale, con riferimento all’utilizzo dei rimborsi del Consiglio: spese che, stando a Ruscello, non erano legate all’attività istituzionale (le voci contestate rimandano essenzialmente a pranzi, cene e omaggi).
Da qui l’accusa di peculato per due assessori della giunta Chiamparino - Aldo Reschigna (Pd, Bilancio) e Monica Cerutti (Sel, Pari opportunità) -, l’attuale segretario regionale e capogruppo dei democratici Davide Gariglio, il senatore del Pd Stefano Lepri (in Regione fino al 2013), i consiglieri Angela Motta (Pd), Eleonora Artesio (Federazione della Sinistra), Fabrizio Comba (Fratelli d’Italia), Luca Pedrale (FI), Gian Luca Vignale (Forza Italia), Giampiero Leo (Nuovo Centrodestra). Gariglio, Motta e Vignale sono gli unici consiglieri rieletti nella legislatura vigente.
Confronto in Tribunale
Tutti e dieci hanno chiesto un nuovo confronto di fronte al gup, che in questa udienza sarà rappresentato da Daniela Rispoli: alcuni si faranno interrogare, come già accadde di fronte ai pm; altri presenteranno una nuova memoria difensiva. Comune la volontà di controdedurre le motivazioni che spinsero Ruscello a disporre l'imputazione coatta, risucchiandoli in una partita dalla quale pensavano di essere usciti indenni. Cerutti: «Avevo già fornito dettagliate spiegazioni ai pm, ora intendo controdedurre le argomentazioni che hanno portato alla decisione del gup». Artesio: «L’ordinanza del gup estrapola alcune valutazioni, si tratta di precisare su quelle». «Ai pm avevo presentato una memoria giustificativa di ogni singola spesa, con 15 allegati - interviene Vignale -. Domani (ndr: oggi per chi legge) ne presenterò un’altra».
L’accusa
Come si ricordava, nei loro confronti l’accusa è di peculato. La stessa accusa che, in questo caso su richiesta della Procura, ha già portato al rinvio a giudizio di 24 ex-consiglieri e dell’ex-governatore Roberto Cota i quali, a differenza di quanti hanno scelto il rito abbreviato o il patteggiamento, sono attesi al dibattimento. La prima udienza è fissata per il 26 gennaio. Udienza importante, quella che comincerà oggi e si protrarrà per il resto della settimana (il gip ha già chiesto alle parti la disponibilità a tenersi libere), foriera di implicazioni non solo giudiziarie ma politiche.
Le ipotesi
Due le ipotesi. Prima: il gup, dopo aver sentito la pattuglia di assessori e consiglieri, affiancati dai rispettivi avvocati, dichiara il non luogo a procedere. Seconda ipotesi: dispone il rinvio a giudizio. In questo caso tutte le articolazioni del processo Rimborsopoli verrebbero accorpate e confluirebbero nell’udienza fissata a fine gennaio: soluzione unica.
Implicazioni
Parlavamo delle implicazioni di carattere politico. Decisamente più pesanti le conseguenze che si verificherebbero nell’eventualità di rinvio a giudizio, con particolare riferimento a Reschigna, Cerutti e Gariglio. Significativo il ruolo di Reschigna, costretto a misurarsi con un quadro finanziario per molti versi drammatico e impegnato con il presidente nella trattativa per ottenere dal governo un aiuto straordinario. Altrettanto delicato l’incarico di Gariglio, che rappresenta il Pd regionale e guida il principale gruppo di maggioranza a Palazzo Lascaris. Comunque vada a finire, è partito il conto alla rovescia.

il Fatto 2.12.14
Furbetti
Prima dell’articolo 18, Renzi cambi la norma della sua pensione
di Marco Lillo


Matteo Renzi ha sbagliato mira. Nel Jobs act il premier ha puntato l’articolo 18 rendendo più facili i licenziamenti, poi ha sparato sull’articolo 4, permettendo il controllo a distanza e infine ha dato una botta all’articolo 13 per facilitare il demansionamento. Però, guarda caso, non ha sfiorato l’articolo 31 dello Statuto dei lavoratori che riguarda i politici e un politico in particolare: Matteo Renzi.
Se ci fosse ancora una sinistra, se il M5S fosse un movimento di opposizione e non una fabbrica di espulsioni, se i giornali facessero il loro mestiere, Renzi non potrebbe toccare gli articoli 18, 4 e 13 senza prima mettere mano all’articolo 31. Invece, grazie alla distrazione generale, un sedicente ‘leader della sinistra’ può abbattere i diritti dei lavoratori senza toccare i privilegi della Casta. E nessuno fiata.
LA NORMA tabù della quale il Jobs act non si occupa dispone: “I lavoratori che siano eletti membri del Parlamento nazionale o europeo o di assemblee regionali, ovvero siano chiamati ad altre funzioni pubbliche elettive possono, a richiesta, essere collocati in aspettativa non retribuita, per tutta la durata del loro mandato. I periodi di aspettativa di cui ai precedenti commi sono considerati utili, a richiesta dell’interessato, ai fini del riconoscimento del diritto e della determinazione della misura della pensione (…) l’interessato, in caso di malattia, conserva il diritto alle prestazioni”. La norma si applica anche in caso di distacco sindacale ed era nata per favorire l’accesso alla politica del lavoro dipendente. L’operaio eletto per fare gli interessi della classe operaia non doveva essere soggetto al ricatto del padrone delle ferriere e la legge gli concedeva il diritto all’aspettativa e ai contributi figurativi.
Questa conquista dei lavoratori, purtroppo, è stata usata spesso dai furbetti di ogni parte politica per farsi assumere pochi giorni prima dell’elezione o (in caso di elezione sicura) della candidatura per poi ottenere, a spese dei contribuenti, il diritto a pensione e cure. Matteo Renzi era solo un collaboratore nella società Chil fondata dal padre Tiziano. Il 27 ottobre 2003, proprio un giorno prima che il suo partito lo candidasse alla presidenza della Provincia di Firenze, come abbiamo scritto sul Fatto: mamma Laura assume in Chil il figlio. Tre giorni dopo l’assunzione, l’Ansa racconta ‘la positiva accoglienza degli alleati della candidatura del giovane Renzi’. Il 4 novembre, otto giorni dopo l’assunzione, arriva l’ufficializzazione. La Chil assume Renzi a rischio zero: il candidato presidente del centrosinistra è come se fosse già eletto a Firenze e comunque, dopo una quasi impossibile trombatura, Matteo Renzi poteva pur sempre tornare a fare il collaboratore della Chil per non pesare sulle spalle di mamma e papà. A giugno 2004 Renzi come da copione è stato eletto prima presidente. Nel 2009 è stato rieletto sindaco e così per una decina di anni i suoi contributi li ha pagati la collettività. Solo dopo l’ascesa a Palazzo Chigi, su richiesta del Fatto e nel disinteresse della grande stampa, Renzi si è dimesso dalla Chil con un bel gesto del quale gli abbiamo dato atto.
Questa complicata ricostruzione era noiosa ma necessaria per comprendere perché è vergognoso che Renzi tocchi prima l’articolo 18 dell’articolo 31 dello Statuto. Con quale faccia uno che non ha mai lavorato da dipendente vero di una società, si permette di toccare i diritti dei lavoratori prima di avere toccato il privilegio ingiustificato che oggi gli permette di avere 10 anni di anzianità?
RENZI non è stato un caso isolato. L’articolo 31 è stato usato in circostanze diverse anche da Josefa Idem (indagata) e da tanti altri politici. Si dirà: l’articolo 31 dello Statuto è una norma giusta e non sarebbe corretto abolirla per tutti solo perché qualcuno se ne approfitta. Si può però prevedere una norma anti-furbetti: l’articolo 31 potrebbe scattare solo se il politico eletto era già dipendente della società almeno un anno prima dell’elezione. Inoltre si potrebbe prevedere una sorta di verifica del diritto per evitare trucchi e truffe. Illustri giuristi renziani si esercitano ogni giorno sull’articolo
18. Provino a trovare la formula giusta per l’articolo 31. Non è una questione tecnica né una questione politica. Questa è una questione di giustizia: prima di toccare i diritti dei lavoratori, Renzi e i suoi devono far sparire dal tavolo tutte le furbate e i privilegi della Casta.

il Fatto 2.12.14
In difesa di rom, sinti, zingari e fratelli
Furio Colombo risponde a Dijana Pavlovic


CARO FURIO COLOMBO, di fronte al dilagare della campagna d’odio contro i rom e i sinti, alla sua strumentalizzazione della vecchia e nuova destra che si candida a un ruolo politico non più marginale, all’effetto profondo sul senso comune che vede nelle nostre comunità un capro espiatorio del loro malessere, noi sentiamo il bisogno di opporci, di trovare interlocutori, di mantenere un livello di civiltà. Credo che non basti più denunciare la consigliera che offre il suo forno, l’assessore che ci assimila ai maiali, perché questo ormai avviene in un clima deteriorato anche dal silenzio delle istituzioni.
Dijana Pavlovic

CREDO CHE I LETTORI ricordino che questa è la seconda lettera al “Fatto” di Dijana Pavlovic, laureata a Belgrado, attrice a Milano e protagonista volontaria del dramma che sta assediando la sua gente, che è anche la nostra gente per almeno due motivi, prescritti nel diritto oltre che nel senso comune che Dijana invoca nella sua lettera. Rom e sinti sono (in parte non irrilevante) cittadini italiani da secoli. Rom e sinti sono (tutti) cittadini europei e vengono continuamente cacciati ed espulsi da luoghi europei che appartengono a loro come a noi. Ma la lettera di cui ho pubblicato l'inizio è un invito che, spero, verrà raccolto almeno da alcuni fra coloro che leggono questa pagina. Ecco l'invito: “A Roma l'11 e il 12 dicembre si terrà un seminario con la partecipazione dei ministri della educazione europea. Il tema è l'inserimento della storia dei rom e dei sinti nei programmi scolastici”. Scrive Dijana: “Questa importantissima iniziativa europea è tanto più necessaria di fronte alle ferite profonde che questa campagna d’odio produce soprattutto nei giovani”. E poi c’è un appello che non possiamo (ognuno di noi) fare nostro: insistere perché non continui questo inspiegabile silenzio delle istituzioni che, di fronte a episodi continui di spregio e aggressione, prestano molta meno attenzione che alle intemperanze del tifo sportivo. E mostrano di non avere alcuna intenzione di far sentire la loro voce. Poiché c’è una evidente vena di codardia e di viltà in chi suscita, organizza o affianca manifestazioni come quella di CasaPound che “ha il coraggio di” schierare cinquecento giovanotti contro il pericolo di pochi bambini rom che vanno a scuola, è evidente che il silenzio delle istituzioni è grave, ed è grave il calcolo, insensato dal punto di vista di un Paese civile, di deputati e senatori che tacciono perché le elezioni sono sempre dietro l’angolo e hanno paura di non essere approvati dagli elettori, dove il fascismo spregevole alla Le Pen e alla Salvini si allarga. È evidente che stiamo attraversando uno di quei momenti della storia in cui tacere è delitto. Spero che tanti lettori di questo giornale si uniscano alla preghiera di Dijana Pavlovic (che faccio mia senza riserve): che questo delitto (il silenzio delle istituzioni e delle voci che contano) non si compia ancora una volta in Italia e in Europa. La lettera di Dijana mi serve anche per ricordare un articolo di Guido Ceronetti (“Il rom non esiste”, Repubblica 28 novembre) bello come sempre, ma a cui offro due obiezioni. La prima è che sono le minoranze a scegliere come devono essere chiamate (un principio sacro per l'America anti-razzista, che è passata rapidamente da “negro” a “black” non appena la comunità afro-americana ha scelto la nuova definizione). La seconda è che il significato letterale della parola prescelta per individuare un gruppo (rom significa “maschio”o“uomo”) non ha niente a che fare con l'uso pubblico, politico o giuridico di quella parola. Ricorda Ceronetti il celebre “Mister Tambourine Man” di Bob Dylan? Dylan usa subito la parola “man” per dire “persona”, “individuo”, “gente”, “uno”, “qualcuno” (senza badare che sia uomo o donna) che stava diventando, in poco tempo, negli anni Sessanta, il modo di chiamare qualcuno, frammento di conversazione, enunciazione, esclamazione, richiamo (oh man, please, oh uomo, per favore) che si usa tuttora fra i giovani americani senza riguardo al genere e senza che vi sia mai stato alcun risentimento femminile o femminista. Dunque rom è rom, anche perché non piace a Salvini, a Le Pen e a CasaPound. Posso sperare, data la stima e l’amicizia, nella comprensione di Ceronetti?

La Stampa 2.12.14
Vicini di casa
di Massimo Gramellini

qui

il Fatto 2.12.14
Noi e loro
La memoria corta di Europa e Stati Uniti
di Maurizio Chierici


NAZISMO e fascismo perdonati. Stati Uniti, Canada e Ucraina riabilitano un passato che torna a inquietare. La terza commissione delle Nazioni Unite rifiuta di condannare chi minimizza crimini e stragi etniche, Olocausto compreso, e implicitamente rilancia xenofobia ed esclusione quale rimedio alla disperazione di chi affoga nella società impoverita. La proposta al palazzo di vetro veniva da Putin, proposta maramalda per dar forza alla propaganda che attribuisce ai neo nazisti istigati dalla Nato la rivolta all’annessione di Mosca delle regioni russofone dell’Ucraina. Italia, Francia, Gran Bretagna, perfino la Germania, insomma quelli che contano, si nascondono nel limbo: né sì né no. Non votano con l’aria annoiata di chi considera inopportuno ricordare le atrocità della Shoah. Vergogna fino a ieri impossibile da immaginare: adesso si può. Possono gli Stati Uniti che hanno salvato l’Europa dagli stivali di Hitler consolare il delirio del ritorno delle maschere nere? Per riaffermare il rifiuto all’orribile passato bastava allargare la condanna alle atrocità di stalinismo e neostalinismo. Invece, l’occidente si arrende alla trappola e per la prima volta 60 anni dopo Auschwitz, Washington e Canada trascurano l’orrore. E gli avanguardisti di CasaPound si sentono autorizzati a radicalizzare la persecuzione contro zingari, rom, sinti, gitani, insomma figli del vento. La “sacrosanta difesa degli ariani“impedisce di andare a scuola ai ragazzi di un campo nomadi romano esasperando la provocazione inaugurata a Bologna da Matteo Salvini enfant gaté di Marina Le Pen, fiamma bianca, rossa e blu regalo dal Msi. La Lega ha saldato l’alleanza con CasaPound alla destra francese, asse razzista Parigi-Roma che attraversa la Padania.
ORMAI non più sola nei deliri, CasaPound apre la caccia a extracomunitari e rom. Revival di antiche paure: quei 2 milioni di zingari bruciati nei lager della Germania nera. Adesso Washington, Canada e Roma autorizzano a seppellire la memoria mentre Putin semina zizzania nell’Europa che inciampa. La First Czech Russian Bank presta 9 milioni di dollari alla signora Le Pen lanciata verso l’Eliseo col suo Front National dalle casse vuote. Anche a Salvini non ballano i soldi. Dopo l’abbraccio milanese con Putin si è lasciato andare: “Se arrivassero non li rifiuterei”. In fondo, Mosca ripercorre i passi Cia del Dopoguerra: aggirare l’avversario resuscitando il Mein Kampf. Quando nel 1955 gli alleati abbandonano l’Austria attorno alla cortina di ferro, Washington schiera la cortina degli ex gerarchi di Hitler. Non importa se hanno insanguinato la storia: bisogna pur difendere l’occidente cristiano. E la Carinzia diventa il buen retiro dei nazi perdonati. E Jörg Haider viene eletto governatore incensando il ricordo di Hitler. Immigrati sloveni nei ghetti con la proibizione di parlare la loro lingua, scuole chiuse, polizie che li sorvegliano mentre gli assassini scampati a Norimberga passano da una riverenza all’altra. Nel giugno 1989, incontro a Klagenfurt Marian Sturn, segretario dell’Unione Centrale Slovena: avvilito per “quel passato subito dimenticato“. Tornava dal funerale di un ex generale SS. I vecchi camerati lo hanno accompagnato con le vecchie divise cantando le vecchie canzoni. “Da Roma è arrivato anche Fini…“. Non so se i libri dei ragazzi fanno capire quali tragedie hanno travolto milioni di famiglie. Adesso imparano che non è successo niente: nazismo e fascismo assolti dalle grandi democrazie. Pasolini ripeteva: “L’Italia non ha mai avuto una destra democratica perché non ha avuto una cultura capace di esprimerla. La nostra destra resta quella ridicola e feroce del fascismo“. Stiamo preparando la classe dirigente del 2000 a ricominciare da lì?

Repubblica 2.12.14
Jürgen Habermas
“Ora in Europa il populismo sta conquistando anche i governi”
L’analisi del filosofo tedesco
“Ci si aggrappa ormai sempre di più alla sovranità degli Stati-nazione quando sarebbero necessarie politiche concertate per contrastare le crescenti diseguaglianze sociali ed economiche A Bruxelles, invece, è rissa continua”
di Pascal Ceaux


IL FILOSOFO Jürgen Habermas sostiene l’idea di un rafforzamento dell’Unione tra i Paesi del Vecchio Continente e analizza in questo colloquio le contraddizioni dell’Ue, auspicando un cambiamento di rotta. A suo parere, solo un governo economico comune ai Paesi del nocciolo duro europeo sarebbe in grado di combattere le crescenti disuguaglianze sociali in seno all’eurozona.
Habermas, sembra che ovunque l’euroscetticismo stia guadagnando terreno. Siamo in presenza di una crisi dell’Unione europea?
«Sì, l’euroscetticismo guadagna terreno in tutti gli Stati dell’Unione, in particolare in seguito alla crisi in atto da cinque o sei anni: che è bancaria e finanziaria, ma è al tempo stesso una crisi del debito pubblico. Se l’eurozona si rivela fragile, è soprattutto perché a Maastricht, al momento della fondazione dell’Unione monetaria europea, i politici in carica non trovarono il coraggio di trarre le conseguenze da quel passo, e di porre le premesse perché dall’unione monetaria potesse sorgere un’unione politica. Al momento le politiche fiscali, economiche e sociali rimangono prerogative degli Stati nazionali. Ma di fatto, solo un governo economico comune a quello che è il nocciolo duro europeo, impegnato a portare avanti una politica concertata, sarebbe in grado di appianare le non ottime condizioni che incontra l’Unione monetaria europea. Allo stato attuale non si fa abbastanza per evitare almeno che i divari tra le diverse economie nazionali continuino ad aumentare».
Non pensa che l’impasse politica finisca per dar ragione ai liberisti, che auspicherebbero un semplice spazio di libero scambio commerciale?
«Si tratta di vedere se siamo pronti a rassegnarci all’asimmetria che ormai caratterizza i rapporti tra politica e mercato. Una scelta in questo senso comporterebbe non solo l’abbandono del progetto di una democrazia sovranazionale, ma anche la rinuncia al modello sociale che ancora diciamo di voler difendere. Stiamo attenti a non invertire le cause e gli effetti. È in seguito alla liberalizzazione mondiale dei mercati finanziari che i margini di manovra dei governi nazionali si sono ristretti sempre più, e la pressione economica è aumentata a tal punto che gli Stati non dispongono più di livelli di copertura sufficienti per i sistemi di sicurezza sociale. Basterebbe questo a giustificare un’accelerazione dell’integrazione europea. Se ancora esiste una sinistra non rassegnata, il suo impegno andrebbe in questo senso».
Come interpreta la volontà d’indipendenza che si manifesta in Scozia, o in Catalogna?
«Quando le crescenti sperequazioni sociali fanno montare l’angoscia e il senso d’insicurezza nella popolazione, sorge la tentazione di un ripiegamento all’interno dei confini familiari, in cui si crede di poter confidare; e la voglia di aggrapparsi a ciò che è “nativo” — la lingua, la nazione, la storia, ereditate o anche acquisite. Visto in quest’ottica, a mio parere il ritorno di fiamma del regionalismo, in Scozia come in Catalogna o nelle Fiandre, è di fatto, almeno sul piano funzionale, l’equivalente del successo del Front National in Francia…».
Non le sembra che oggi il ripiegamento degli Stati-nazione su se stessi sia all’ordine del giorno?
«Certamente. Nell’Ue stiamo assistendo a un ritorno dei nazionalismi, che non coinvolge solo le popolazioni ma anche i rispettivi governi. Certo, il senso di declassamento, la paura del degrado non si trasformano automaticamente in pregiudizi anti-europei; e non si può neppure dire che questi ultimi siano necessariamente associati a pregiudizi nei confronti di altre nazioni. Questa sindrome, che possiamo definire populismo di destra, nasce innanzitutto da una certa interpretazione della crisi bancaria e del debito pubblico, che anche vari partiti di governo leggono a modo loro. Secondo quest’interpretazione, il fatto che una nazione sia collettivamente “colpevole” o meno del proprio indebitamento si spiegherebbe con le differenze in materia di cultura economica nazionale. Oltretutto, è un modo per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dal “destino di classe” — che certo non conosce frontiere — di coloro che in questa crisi sono i vincenti e i perdenti. A riprova di questo ripiegamento sugli interessi nazionali basta osservare il clima sconfortante di rissa del Consiglio europeo. Tutti contro tutti, sembra che il termine solidarietà appartenga a un altro continente. Non c’è da stupirsi che da quel Consiglio non provenga alcun impulso per il rilancio dell’unificazione europea».
Il ritorno a una forma di egemonia impone alla Germania una responsabilità particolare?
«A causa della sua preponderanza economica e demografica, in questi ultimi anni di crisi la Germania ha assunto in Europa un ruolo di leadership che in parte le è stato imposto. Un ruolo che dovrebbe incuterle timore. Certo, questa posizione — anche se si tende a non dirlo — è vantaggiosa dal punto di vista dei suoi in- teressi nazionali. Così, a poco a poco, la Germania viene a trovarsi nuovamente di fronte al dilemma di quella “posizione semi-egemonica” in cui già era venuta a trovarsi a partire dal 1871, e che riuscì a superare solo dopo due guerre mondiali, e grazie all’unificazione europea. Ma proprio la Germania ha il massimo interesse a far uscire l’Unione europea da questa fase del suo sviluppo, in cui le decisioni possono o devono essere prese da un potenza dominante».
I tedeschi pensano che gli altri Paesi debbano fare gli sforzi di austerità che loro hanno compiuto, i francesi preferirebbero una politica di rilancio dell’economia...
«Il fatto che Germania e Francia siano oggi ai ferri corti, non è di buon auspicio per il futuro dell’Ue. In nome dei propri interessi, il governo di Berlino rifiuta di recuperare i ritardi in materia di solidarietà, e non sa decidersi a correggere la propria ostinata politica di risparmio, mentre gli stessi economisti tedeschi chiedono più investimenti. Il governo francese esige a buon diritto questa solidarietà, ma lo fa nell’intento di coordinare tra loro le politiche nazionali in senso tecnocratico. I capi di Stato e di governo dovrebbero superare le schermaglie e mettersi d’accordo su alcuni punti: 50 miliardi di risparmi da un lato contro 50 miliardi di investimenti dall’altro. Ma le due posizioni si bloccano reciprocamente. Da un lato il diniego della solidarietà, dall’altro il rifiuto di pagare il prezzo richiesto per un cambio di politica. E dall’una come dall’altra parte ci si aggrappa a una sovranità dallo Stato-nazione, svuotata di ogni significato».
Ma come conciliare lo spazio europeo comune con l’affermazione crescente di una sfera pubblica mondiale?
«Non dovrebbe essere un problema, se l’Europa mettesse in campo la sua potenza anche a livello mondiale, per civilizzare il capitalismo e instaurare i diritti umani».
Che dovrebbe fare l’Europa per rappresentare ancora un’idea di futuro?
«Non sembra vi sia negli Stati membri un dibattito reale sui problemi concreti dell’Unione, né sulle sue effettive possibilità d’azione. I molti partiti politici e i cittadini che trovano solo da ridire sull’Ue dovrebbero superare il loro disfattismo e avere il coraggio di affrontare una controversia tra posizioni chiaramente definite. Solo un dibattito chiaro, franco e senza sconti sulle diverse possibilità di futuro dell’Ue potrebbe restituire un futuro all’Europa».
© Pascal Ceaux / L’Express ( traduzione di Elisabetta Horvat)

il Fatto 2.12.14
Autunno
Sondaggi e riforme, ora Matteo ha paura: in commissione ha tutti contro
E ammette: “Ho smesso di parlare all’Italia”
di Wanda Marra


“Chiedo un voto sulla convinzione di proseguire il disegno delle riforme per capire se la direzione del Pd è convinta che le riforme vadano accelerate e non rallentate”. Il vero motivo della convocazione della direzione del Pd arriva a metà dell’intervento di Matteo Renzi. Doveva essere una riunione per discutere il risultato delle regionali, per fare un’analisi dell’astensionismo. E invece no, il segretario-premier coglie l’occasione per provare a blindarsi un’altra volta. Il voto sull’Italicum in Senato arriverà a metà gennaio. Quadro politico franato, Forza Italia dissolta, minoranza Pd sul piede di guerra. E pure Anna Finocchiaro che si gioca la sua battaglia per il Colle. “L’Italicum 2.0, come uscito dal vertice di maggioranza e da Forza Italia non si tocca”, dice Renzi un attimo prima del voto, rintervenendo dopo Alfredo D’Attorre, che paventa un voto negativo. Ma poi c’è la Camera. Dove prima, il 16 dicembre, arrivano in Aula le riforme costituzionali. E poi, torna la legge elettorale.
IN UNA SITUAZIONE non esattamente semplice: in Commissione Affari Costituzionali, ci sono tutti i big della minoranza, da Bersani, a Cuperlo, passando per la Bindi e D’Attorre. Gli unici renziani sono Matteo Richetti (su posizioni ormai sempre più critiche rispetto al governo) e Luigi Famiglietti. Oggi a Montecitorio ci sarà un’Assemblea del gruppo, proprio in attesa del passaggio sul Senato: il comitato ristretto, che ha lavorato nelle ultime settimane con il ministro Boschi, alla fine più che conclusioni ha evidenziato differenze di posizioni. Non sarà facile. E Renzi lo sa. Per questo ha chiamato a raccolta il partito, citando Marx e scagliandosi contro la destra populista. A questo punto c’è lui, affidabile, contro Salvini, eversivo. Per questo si è attribuito il merito del crollo elettorale dei Cinque Stelle. Il parlamentino del Pd ieri ha detto sì al suo odg con 2 soli no. Ma la minoranza non ha partecipato al voto. E dunque, basterà? Ieri il Corriere della Sera dava il buongiorno al premier con un titolo d’apertura piuttosto forte: “La fiducia in Renzi cala sotto il 50%”. Lui taglia a zero, quasi per esorcizzarli: “Non mi preoccupano i sondaggi. Quelli del Pd vanno bene”. La discussione in direzione è stata vivace. Proprio a partire dal dato delle elezioni regionali. Renzi è passato da definirlo “secondario” a “preoccupante”. Ma, soprattutto sull’Emilia, è sembrato giocare in difesa: “Respingo la tesi che l'astensionismo in Emilia Romagna derivi da una disaffezione nei confronti del Jobs Act. Credo che in Emilia Romagna si sia prima di tutto vinto”.
IN REALTÀ la critica più forte a come sono andate le elezioni arriva dal presidente del partito, Matteo Orfini: “Se vogliamo fare una discussione approfondita sul voto in Emilia Romagna, dobbiamo evitare due errori: riversare su quel voto il nostro dibattito nazionale; e rivendicare con orgoglio un modello, che qualche problema evidentemente ce lo aveva”. Ma va oltre: “Serve un partito diverso da quello che abbiamo sui territori. Dobbiamo costruire meglio la nostra classe dirigente”. L’aveva accennato pure Davide Zoggia: “Non si capisce bene se i vertici locali le primarie le vogliono o no”. Il problema si fa sempre più evidente: quelle dell’Emilia Romagna (con un meno 85%) sono ormai storia. In Veneto a votare sono andati in 30mila: per le primarie di Renzi contro Bersani furono 170mila. In Puglia è andata meglio: 100mila. Ma poi il punto non è solo l’affluenza: ma che le primarie vanno a ratificare decisioni di fatto prese a livello nazionale. Emblematico il caso della Campania: consultazioni rimandate all’11 gennaio. Per ora ci sono in corsa Vincenzo De Luca, Andrea Cozzolino e Angelica Saggese. Nomi su cui i mugugni sono tali che è dovuto andare sabato il vice segretario Lorenzo Guerini a cercare di metterci una pezza. Si cerca una figura che convinca tutti per evitarle. Come in Toscana si confermerà Enrico Rossi. “Ho smesso di fare il racconto agli italiani. Io per primo ho smesso di parlare all’Italia e agli italiani. E ho parlato di più con le forze politiche”, ha ammesso ieri Renzi. Ma non è solo questione di racconto.

il Fatto 2.12.14
Poteri forti?
Il Corriere sempre più contro il premier “Fiducia in calo”
Mentre De Benedetti diventa filo governativo a Repubblica, nuovo attacco da via Solferino
di St. Fe.


Le scelte editoriali del Corriere della Sera finiscono sempre per essere lette in chiave politica, le idee dei poteri forti (o di quel che ne resta), declinati in titoli. E allora ecco quello di ieri: “La fiducia in Renzi cala sotto il 50 per cento, persi 5 punti in un mese sale Salvini”. Il tracollo, raccontato dall’articolo del sondaggista Nando Pagnoncelli, non è drammatico: il premier è pur sempre al 49, che non è il 54 per cento di ottobre ma non è neanche male. Ci sono poi attacchi più sottili, che forse fanno soffrire di più il presidente del Consiglio Matteo Renzi (un suo predecessore,
Mario Monti, si sarebbe imbufalito): l’economista Francesco Giavazzi sostiene dalle colonne del giornale che il Jobs Act ingesserà il mercato del lavoro invece che renderlo dinamico. Il ragionamento è semplice: se chi cambia lavoro perde l’articolo 18 alla successiva assunzione, nessuno si muoverà più. Gli replicava ieri Pietro Ichino, ma l’obiezione di Giavazzi può essere contraddetta soltanto dai dati ex post, sulla teoria è inattaccabile. L’editoriale del direttore Ferruccio de Bortoli sul “nemico allo specchio”, quello sul pato del Nazareno e lo “stantio odore di massoneria”, resta ineguagliato per violenza polemica. Ma come si spiega questo nuovo affondo? L’ipotesi più giornalistica è che da luglio Renzi non concede un’intervista al Corriere, mentre due giorni fa ne ha data una (non precisamente densa di notizie) al giornale concorrente, Repubblica, che offre ai suoi lettori colloqui con il premier su base mensile o quasi. Guardando ai soci e al mondo di riferimento del Corriere, c’è qualcuno che spinga per una linea filo-governativa? Nessuno, neanche banca Intesa o la Fondazione Cariplo di Giovanni Guzzetti (piuttosto seccato per le tasse imposte dalla legge di Stabilità). Dall’altra parte, invece, l’editore di Repubblica Carlo De Benedetti è assai positivo su Renzi, “è un fuoriclasse”, ha detto domenica. Anche perché pare i suoi pareri siano molto ascoltati a palazzo Chigi. Mentre quelli di un azionista di peso di Rcs, Diego Della Valle, sono stati vistosamente ignorati.

Repubblica 2.12.14
Direzione Pd
Renzi: accelerare sulle riforme Sì del Pd, assenti Cuperlo e Civati
di Giovanna Casadio


ROMA Si accelera sulla legge elettorale che Renzi vorrebbe fosse approvata in Senato prima dell’addio di Napolitano. Blinda l’Italicum, il premier-segretario, nella Direzione dem, che diventa alla fine una conta sulle riforme istituzionali e sul loro tabellino di marcia. Ma una parte della minoranza del partito si smarca e chiede di prevedere altri ritocchi all’Italicum. Renzi non ci sta, teme il trappolone, l’ennesima tela di Penelope, non accetta le correzioni indicate da Alfredo D’Attorre: «L’accordo sulla legge elettorale non è rinegoziabile - avverte - Non si tratta di fare trattati filosofici, il tema delle riforme se lo rimetti in discussione corri il rischio di azzerare tutto». Quindi «avanti e senza indugio». Sono una decina perciò i dem, da Cuperlo a Fassina, Zoggia, Pollastrini, Agostini che non partecipano alla conta e due civatiani votano contro.
Il premier-segretario la spunta. Però il clima nel Pd è molto teso. Renzi ricorda la situazione di rilancio di cui l’Italia ha bisogno urgente e assoluto. Il ministro dell’Economia Padoan del resto parla di situazione molto preoccupante per via della «ripresa debole, dell’andamento della dinamica dei prezzi che ci fa ballare pericolosamente sul sentiero della possibile deflazione». Nella Direzione del Pd è un giocare di fioretto spesso. Basta la battuta di Renzi su Marx («Parlo da una lettura marxiana se non marxista... no a una discussione sull’interpretazione del mondo, il mondo bisogna cambiarlo») per scatenare repliche e ironia. Cuperlo nel suo intervento, esordisce: «Se Renzi cita Marx, divento renziano». Francesco Boccia ancora più sarcastico: «Ci siamo fermati ai titoli...Marx si rialza dalla tomba». Boccia, lettiano, è tra quelli che non hanno partecipato al voto: «Il problema è vedere se il Patto del Nazareno esiste, il voto in Direzione è inutile». Zoggia contesta: «Perché ogni volta ci sono votazioni? Matteo ha bisogno di fare vedere a Berlusconi che ha il partito dietro? Ma se è Berlusconi stesso a non rispettare il Patto del Nazareno, non ha senso blindare una cosa che non c’è».
È molta la carne al fuoco del Pd. Il premier rivendica la vittoria su Grillo e fa una esplicita offerta ai grillini “fuori dal blog”: «Grillo salta grazie al Pd e oggi è possibile un percorso di coinvolgimento di quella parte del M5Stelle che non ritiene più il blog come la bussola propria». Poi la difesa del Jobs Act. Renzi nega che le politiche per il lavoro del governo possano essere state la causa dell’astensionismo record che si è registrato alle regionali dell’Emilia Romagna. «Il livello di disaffezione nell’intera classe politica emiliana ha portato a quel risultato, respingo la tesi dell’astensionismo per colpa del Jobs Act», attacca. Sulla stessa lunghezza d’onda è l’affondo di Roberto Balzani sconfitto da Bonaccini alle primarie emiliane: «Sono d’accordo sulle letture endogene, è uno sciopero del voto mai visto dall’Ottocento e sulle schede nulle non c’erano richiami all’articolo 18, ma c’era scritto “ladri”». È il “neo governatore” Stefano Bonaccini che prova a equilibrare la discussione: «Sull’astensionismo il Jobs Act ha pesato, però non scarichiamo su Roma... certo la condanna di Vasco Errani ci ha fatto male». Errani sarà del tutto scagionato, aggiunge, e comunque è un mix di cose che ha provocato l’astensionismo.

Corriere 2.12.14
Direzione Pd
La tregua è apparente
Ma solo i due civatiani diranno no al Jobs act
di Monica Guerzoni


ROMA Per dire che il mondo va cambiato e non solo interpretato, Renzi ha citato Marx. Ma non ha convinto la sinistra del suo partito. La tregua è apparente, la minoranza pd non rinuncia a criticare il leader. E adesso che il patto del Nazareno è incrinato, l’opposizione interna chiede di riscrivere le regole del gioco. Fassina, Cuperlo, Bindi e compagni vogliono che i nominati spariscano del tutto dalla legge elettorale e chiedono modifiche alla riforma del Senato, che invece Palazzo Chigi considera blindata. E se domani i dissidenti voteranno il Jobs act a Palazzo Madama, sarà solo per non far cadere il governo.
A sera, quando la direzione nazionale vota l’ordine del giorno pensato dal Nazareno per ricompattare il partito sulle riforme, l’ala dura si smarca. Gli esponenti della sinistra lasciano la sala all’ultimo piano, mentre due civatiani votano contro. Ancora uno strappo, per marcare la distanza dalle politiche del premier. «Riunione surreale — commenta Alfredo D’Attorre —. Per lanciare un messaggio a Berlusconi ci viene proposto di votare le riforme come le vuole Berlusconi. È una contraddizione». Ancora una volta la minoranza di Area riformista si divide, con i membri del parlamentino vicini a Speranza che votano a favore. Il leader assiste seccato alla scena in cui Cuperlo, Zoggia, D’Attorre, Pollastrini, Agostini, Fassina, Boccia e Miotto escono alla spicciolata, inseguiti dai commenti velenosi dei renziani che li accusano di sabotare le riforme. Ma i dissidenti assicurano che l’intento è costruttivo: migliorare l’Italicum e salvare la Costituzione.
La sinistra boccia una analisi del voto che giudica «consolatoria», accusando il segretario di «minimizzare». Per Cuperlo «il divorzio dalle urne di un numero così alto di elettori non è un accidente secondario» slegato dalle scelte di governo. Ma il punto nevralgico è la legge elettorale. Fassina invoca il «superamento pieno delle liste bloccate» e sprona Renzi a «chiarire il quadro politico», visto che i rapporti con Berlusconi sono cambiati: «Che senso ha un odg sui tempi delle riforme quando non è chiaro il contesto politico?». E se Renzi ha detto che l’astensionismo non nasce dal Jobs act, l’ex viceministro attacca: «Larga parte del nostro mondo non vede nella delega un avanzamento su diritti e tutele».
I civatiani Mineo e Ricchiuti non voteranno il provvedimento, sottraendo (pochi) ma preziosi voti al governo. Il dissenso non dovrebbe andare oltre. Casson sembra orientato a votare e Tocci ha firmato il documento con cui 7 bersaniani hanno chiesto di poter discutere dei nodi ancora aperti, per non lacerare il Pd. Civati teme che sia il preludio a un sì e polemizza con le altre anime della minoranza. Ma il senatore Fornaro, che ha promosso il documento e si appresta a scriverne un altro assieme a Cecilia Guerra, aspetta il pronunciamento del governo: «Saremo responsabili anche in caso di fiducia, però non si abusi della nostra responsabilità». E Boccia teme che gli «effetti distorsivi del Jobs act provochino conflitti sociali». L’ultimo affondo è l’ordine del giorno di Zoggia per «promuovere una diffusa campagna d’ascolto» della base: il primo passo verso una conferenza programmatica in cui si discuta di statuto e natura del Pd. Il presidente Orfini ha disinnescato la miccia, accogliendo l’ordine del giorno. Civati non ha firmato e ironizza: «È un documento troppo duro».


il Fatto 2.12.14
Pure i Pessina nella cordata Pd per salvare l’Unità


NUOVO ALLEATO per l'editore Guido Veneziani per riportare in edicola l'Unità. Oltre alla Fondazione Eyu, formata da Europa, Youdem e l’Unità e voluta dal Pd, a sostenere la ricostruzione, è proprio il caso di dirlo, del quotidiano fondato da Antonio Gramsci, è arrivato anche il gruppo di costruttori lombardi Pessina. Il socio di maggioranza rimarrà comunque l’editore Veneziani . Il piano d’investimento, garantito da un grosso gruppo bancario, sarebbe di circa 10 milioni di euro. Il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi si è detto soddisfatto: per lui la proposta è “estremamente migliorativa rispetto alla precedente”. Adesso per l’approvazione del piano si aspetta l’ok dei liquidatori Emanuele D’Innella e Franco Carlo Papa.

Corriere 2.12.14
Consenso e dialogo. Ascoltate chi sta sul campo
di Giuseppe De Rita

qui

La Stampa 2.12.14
Il vero obiettivo del premier
di Marcello Sorgi


Una corsa contro il tempo, oltre che contro le numerose resistenze che l’Italicum ancora incontra sulla sua strada. Nel giorno in cui Napolitano spiega che non si dimetterà, né annuncerà l’intenzione di farlo, prima della conclusione del semestre europeo, Matteo Renzi prova ad accelerare, per far approvare la legge elettorale prima che il Parlamento cominci a votare per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica.
Che questa fosse la sua intenzione, si sapeva da un po’. Ma il tono perentorio con cui s’è presentato alla direzione del Pd ieri, sollevando riserve nella minoranza, ha confermato che Renzi non intende affrontare una scadenza complessa come quella del Quirinale senza avere la «pistola carica» dell’eventuale scioglimento delle Camere, lo sbocco più temuto da deputati e senatori che rischiano di perdere il posto. Dunque, no secco a Berlusconi, che propone il percorso inverso, accordo sul successore di Napolitano, e solo dopo la pratica dell’Italicum.
E nessuna concessione (ma neppure preclusione, semplicemente non ne ha parlato) alle richieste della minoranza Pd, che vuole ancora discutere le modifiche al testo approvato alla Camera e attualmente in discussione al Senato.
In una sessione parlamentare già affollata di scadenze (approvazione definitiva del Jobs Act e della legge di stabilità) la possibilità di far passare tra Natale e Capodanno anche l’Italicum, che arriva in aula a Palazzo Madama il prossimo 22 dicembre, per poi rispedirlo alla Camera, esiste tecnicamente, ma politicamente è un’altra cosa. La speranza di Renzi è che, una volta ottenuto il voto del Senato, anche quello finale di Montecitorio possa rientrare, sia pure per il rotto della cuffia, nel calendario che ancora non si conosce - ma che l’interessato ha ben chiaro in mente - delle dimissioni di Napolitano.
Il comunicato del Quirinale, il primo in cui si fa esplicito accenno al problema, precisa solo la data entro la quale il Presidente non si dimetterà: il 31 dicembre, giorno della conclusione del semestre europeo di presidenza italiana. Diversamente da quanto si pensava, questo vuol dire che Napolitano, anche se la sua riflessione è matura, non farà annunci in nessuno degli appuntamenti previsti dalla sua agenda a dicembre, e neppure nel tradizionale messaggio tv di fine anno. Dall’indomani, però, ogni giorno è possibile, e il comunicato precisa non a caso che la decisione sarà presa autonomamente e indipendentemente dagli impegni del governo e del Parlamento. È in questo stretto lasso di tempo che Renzi prova a inserirsi. Tra la riflessione e l’annuncio, immagina il premier, ci sarebbero ancora un paio di settimane a gennaio per completare l’iter dell’Italicum e consentire al Presidente di concludere il suo secondo mandato e uscire di scena in uno scenario più soddisfacente dal punto di vista delle riforme realizzate.
In realtà - Renzi è il primo a saperlo, ma più di lui ne sono consapevoli le opposizioni e l’(ormai ex) alleato Berlusconi - dopo l’annuncio del Presidente sarebbe difficile, anche se le dimissioni fossero formalizzate successivamente, far continuare a lavorare le Camere quasi come se nulla fosse. In questo senso, nel programma che il premier ha presentato alla direzione del Pd, è implicito, se davvero l’Italicum venisse votato al Senato entro fine anno, l’invito a Napolitano ad aspettarne - e forse sollecitarne - il varo definitivo da parte della Camera, prima di lasciare. Un’impostazione che tuttavia non coincide con l’appello ad evitare forzature, a prendersi tutto il tempo che ci vuole, e a confrontarsi con un arco di forze politiche il più largo possibile, diffuso dal Capo dello Stato appena una settimana fa, subito dopo l’ultimo faccia a faccia con il premier.

Corriere 2.12.14
Napolitano
Una mossa che cerca di puntellare il governo
di Massimo Franco


Continuavano a girare voci secondo le quali il 16 dicembre, durante il saluto alle alte cariche dello Stato, Giorgio Napolitano avrebbe potuto annunciare che si dimetterà. Il comunicato diffuso ieri sera dal Quirinale lo smentisce, richiamandosi al semestre di presidenza italiana dell’Europa. Significa che prima di fine anno non succederà nulla. Ma ormai l’attesa per le sue decisioni sovrasta e condiziona i lavori parlamentari.
E viene perfino usata come alibi per rinviare le scadenze che il governo ritiene tuttora di dover rispettare.
La volontà di Silvio Berlusconi di rimandare
il «sì» di Forza Italia alla riforma elettorale a dopo la partita per il Quirinale si comprende meglio su questo sfondo. Tra l’altro, gli consente di non accettare un compromesso che ritiene poco favorevole. Sostenendo che tutti sono già con l’occhio rivolto alle urne di primavera, lascia capire di essere pronto ad avallare la fine anticipata della legislatura senza cambiare sistema elettorale. «Tutte le volte che si usa questo argomento si vuole buttare la palla in tribuna», obietta il vicesegretario del Pd, Lorenzo Guerini.
Probabilmente è così. Ma sull’atteggiamento del centrodestra influisce anche il sospetto, mai del tutto rimosso, che il premier voglia accelerare su questa riforma per poi andare
a votare. A sentire Guerini, le condizioni per siglare un’intesa prima di Natale rimangono
in piedi. Il testo esaminato dalla commissione Affari costituzionali cammina «sotto la regia di Anna Finocchiaro», ricorda. Il vice di Matteo Renzi rammenta anche che la riforma era un impegno preso da tutte le forze politiche dopo le elezioni del 2013. E infatti il presidente del Consiglio chiede al Pd di accelerare, e non di rallentare.
La proposta di Berlusconi di scegliere prima il capo dello Stato «va restituita al mittente;
e la legge elettorale calendarizzata il prima possibile». Si delinea dunque una guerra sui tempi del Parlamento tra i contraenti del patto del Nazareno: a conferma che, seppure nella confusione, gli interessi cominciano a divergere. L’attacco sferrato ieri dal premier contro Beppe Grillo dimostra la volontà di utilizzare la crisi del M5S. «È una questione istituzionale da non buttare via», spiega a una Direzione del Pd nella quale ha dovuto usare anche toni difensivi. La novità della «stanchezza» di Grillo e del suo passo indietro può consentire un confronto tra Pd e dissidenti del M5S per il Quirinale. È la consacrazione di una variabile che fa passare in secondo piano ogni altro tema, per quanto importante: la vera ipoteca che potrebbe frustrare la volontà di trasmettere alle Camere il senso di urgenza delle riforme, condiviso con diffidenza.

Repubblica 2.12.14
Il rebus del Colle va sciolto nel Pd
Perché serve un accordo Renzi-Bersani sul Quirinale
di Stefano Folli


L’IPOTESI che Giorgio Napolitano lasciasse il Quirinale ai primi di dicembre non era in alcun modo credibile. Il capo dello Stato ha sempre fatto capire che la scadenza del secondo mandato è collegata alla fine del semestre italiano di presidenza Ue. Una data che evoca il 31 dicembre e ha in sé una doppia valenza: politico-istituzionale ma anche simbolica.
Le aperture ai grillini servono al premier per negoziare con Berlusconi da una posizione di forza.
FINO ad allora il presidente della Repubblica sarà nel pieno delle sue funzioni e svolgerà i suoi compiti, alcuni dei quali hanno a che fare proprio con la chiusura del semestre italiano. Subito dopo, all’inizio del nuovo anno, Napolitano comunicherà in via ufficiale, attraverso le procedure previste dalla Costituzione, la sua volontà di dimettersi e si ritirerà nella quiete della casa romana di via dei Serpenti. Questo tragitto era noto da qualche tempo, ma ieri sera il presidente ha sentito la necessità di ribadirlo per la prima volta in modo esplicito e circostanziato. Tanto che la nota diffusa dagli uffici è insieme una smentita e una conferma. È una smentita alle voci infondate raccolte da alcuni organi di stampa circa un frettoloso anticipo delle dimissioni.
Al tempo stesso è una conferma definitiva del percorso già stabilito: anche con l’indicazione della data chiave del 31, giorno di San Silvestro. Il che significa che la presidenza della Repubblica sgombra dal tavolo, una volta per tutte, anche l’altra ipotesi poco verosimile circolata nei giorni scorsi: quella secondo cui Napolitano avrebbe potuto accettare di posticipare l’uscita di scena di un paio di mesi, così da permettere alle forze politiche di sistemare alcune questioni pendenti, a cominciare dalla legge elettorale. Il capo dello Stato, a quel che si sa, non ha mai avuto la minima intenzione di accogliere una simile richiesta, dal sapore anche vagamente offensivo, visto che i partiti di maggioranza e di opposizione hanno avuto diciotto mesi di tempo per fare le riforme. Le quali invece sono sempre lì, un ammasso semi-lavorato piuttosto informe.
Non a caso Matteo Renzi, parlando alla direzione del Pd, non ha avuto altra scelta se non chiedere di accelerare sul progetto riformatore. Ma la riforma che in questo momento sta veramente a cuore al presidente del Consiglio è soprattutto una: la legge elettorale. L’altra che fino a qualche tempo fa sembrava molto urgente — la trasformazione del Senato — adesso rimane un po’ in penombra, soverchiata dall’attualità. In definitiva ieri Renzi non ha detto molto di nuovo. Tuttavia ha voluto fare un richiamo alla coesione interna, ha chiesto lealtà e compattezza al suo partito. E si capisce perché. Lo sfilacciarsi del patto del Nazareno, rispetto al quale il premier usa toni cauti, rischia di determinare una divaricazione ulteriore all’interno del Pd. Tutti coloro che nella minoranza non intendono agevolare il cammino del presidente del Consiglio, si sentiranno incoraggiati dal venir meno, magari solo temporaneo, della sponda berlusconiana. Del resto la figura di Salvini — l’uomo nuovo, l’avversario che se non ci fosse qualcuno vorrebbe inventare — non costituisce oggi una minaccia abbastanza incombente per stringere il partito intorno al suo leader. Quello che appare chiaro è che dietro il sipario della legge elettorale si staglia il tema cruciale: l’elezione in gennaio del nuovo presidente della Repubblica. È pensando a tale ostacolo che Renzi pretende compattezza dal suo partito. È questo che ha in mente quando lancia un amo in direzione dei tanti «grillini» che escono dai Cinque Stelle o ne vengono espulsi. Ma in fondo tutta questa compattezza, ammesso che riesca a ottenerla, gli servirà per andare da Berlusconi allo scopo di negoziare da posizioni di forza sul nome del capo dello Stato. E l’intesa con Berlusconi, se e quando riuscirà a coglierla, gli sarà utile per tornare dai suoi e bloccare la fronda pronta a manifestarsi in Parlamento. Un va-e-vieni estenuante, ma anche un bagno di realismo. Difficilmente Renzi otterrà il suo scopo, se non tratterà con il vero leader della minoranza interna. L’uomo che può aiutarlo a non incagliarsi sul Quirinale è Pierluigi Bersani. In fondo gli accordi di pace si fanno con gli avversari, non con gli amici.

il Fatto 2.12.14
Ieri in Cdm
Un’altra palude: la prescrizione
di Antonella Mascali


Fino all’ultimo le voci si sono rincorse affannosamente: sì, si discuterà in Consiglio dei ministri di prescrizione. No, non si discuetrà. Forse. Tutto questo trambusto perché nella maggioranza c’è maretta, Ncd vuole trattare in concomitanza prescrizione e intercettazioni. Alla fine resta fermo il progetto proposto dal ministro Andrea Orlando il 29 agosto scorso, che non piace ai magistrati: la prescrizione si blocca se c’è una condanna di primo grado al massimo per due anni e in Appello e in Cassazione al massimo per un anno. Se i processi non si celebrano in quei tempi la prescrizione torna a correre. Resta da capire, quando arriverà in Commissione Giustizia della Camera, dove il Governo è forte, come e se il ddl verrà modificato anche con suggerimenti dell’Anm perché la legge “abbia maggiore efficacia”.
PROPRIO DOMANI in Commissione si discuterà di prescrizione: ci sono tre testi: del Pd, di M5s e di Scelta civica. Per il 16 dicembre promettono un testo base. I tempi per l’approvazione della legge, quindi, si prevedono lunghi.
Al consiglio dei ministri di ieri sera all’ordine del giorno la non punibilità di quelli che il Governo definisce fatti di “particolare tenuità”. Può scattare l’archiviazione in fase di indagine preliminare, o anche in altra fase del procedimento, per reati che non superano i 5 anni di carcere come pena massima, o che prevedono una sanzione pecuniaria senza o con pena carceraria. Tra questi, i reati contro il patrimonio, come furto semplice, danneggiamento, truffa, ma anche violenza privata o minaccia per costringere a commettere un reato. Dopo l’istanza del pm, ci sono 10 giorni per fare opposizione e decide il gip. È sempre possibile la richiesta di risarcimento danni.
Altro punto, molto importante, quello sulla delega sul processo civile ideata dalla commissione presieduta dal presidente del Massimario e della terza sezione civile della Cassazione, Pino Berruti. Per evitare processi dilatori da parte dei debitori, che provano così a farla franca, passano da 3 a 2 gli scambi di memorie tra le parti alla vigilia dell’udienza e soprattutto il giudice prima che cominci la causa fa una “diagnosi” prospettando al debitore, per esempio, che ha un’altissima probabilità di perdere e a quel punto potrebbe pagare senza arrivare a processo. L’incentivo ce l’ha, perché avvisato per iscritto dal giudice, il debitore che non dovesse pagare, preferendo la causa, che ha dei costi, una volta condannato potrebbe essere citato dalla Corte dei Conti per danno erariale. Inoltre ci saranno condizioni più restrittive per Appello e Cassazione.
VENGONO poi estese le competenze del tribunale delle imprese a concorrenza sleale, pubblicità ingannevole, class action a tutela dei consumatori. E si istituisce il tribunale per la famiglia, attribuendogli competenze in particolare su separazioni, divorzi. Ma sulle adozioni per i bambini, per esempio, le competenze restano, contrariamente all’ipotesi iniziale, al tribunale per i minori. Decisa anche una diversa spartizione dei costi per le parti di consulenze e perizie.
Altro ordine del giorno: la revisione del regime di estradizione e delle rogatorie internazionali: sarà prevista una distinzione delle aree di competenza della politica e dell’autorità giudiziaria, per evitare sovrapposizioni. Il Governo sostiene che l’obiettivo è quello di “semplificare e velocizzare le procedure di assistenza giudiziaria (rogatorie) e di estradizione”.

Corriere 2.12.14
Cdm
Nessuna pena per i reati minori ma salta l’intesa sulla prescrizione
di Dino Martirano


ROMA Dopo una pausa di 90 giorni (tanti ne sono passati dalla seduta del 29 agosto in cui fu varata la riforma della giustizia in 12 punti), il Consiglio dei ministri è tornato ad occuparsi a tarda sera di prescrizione e di intercettazioni (tutto rinviato per mancato accordo) e di processo civile (rimandato anche questo tema). E’ passato invece lo schema di decreto delegato per la non punibilità dei reati bagatellari (pena inferiore ai 5 anni) qualora il danno arrecato sia tenue e il comportamento non seriale. Approvato anche il testo sulla nuova disciplina delle rogatorie e sulla collaborazione giudiziaria tra Stati. Infine il governo ha dato il via libera all’agenda per la semplificazione della Pubblica amministrazione 2015-2017, un pacchetto in 38 punti per semplificare il rapporto tra cittadino e burocrazia. Infine è stato nominato il nuovo capo del Dap (Carceri): è il magistrato Santi Consolo.
Il «pacchetto Giustizia» è entrato a Palazzo Chigi alle 21.45 e la discussione è stata molto articolata tra i ministri del Pd e quelli del Ncd. Alla richiesta del Guardasigilli Andrea Orlando di andare avanti senza indugi sulla riforma della prescrizione — con stralcio della proposta governativa da consegnare alla commissione Giustizia della Camera dove il tema è all’ordine del giorno già questa settimana — si è opposta la controspinta netta del ministro Angelino Alfano che ha chiesto di procedere di pari passo con le intercettazioni (limiti alla pubblicazione delle conversazioni), con la nuova udienza preliminare e con il sistema delle impugnazioni più snello. In altre parole, il Nuovo centrodestra cd ha formalizzato il suo veto su fughe in avanti che comportino l’anticipo del tema prescrizione su altre parti del pacchetto varato,«salvo intese», ad agosto.
Inoltre, il Ncd ha chiesto che la nuova prescrizione (meno vantaggiosa per l’imputato che spera sempre nei tempi lunghi del processo) vada comunque intesa come norma di diritto sostanziale che vale (principio del favor rei) per il futuro e non per il passato. Dunque, nulla di fatto su questo tema.
Meno aspra la discussione sulla «non punibilità» dei fatti di lieve entità» che non verrebbero più punti per dare respiro alla macchina ingolfata del processo penale. Il decreto delegato che recepisce le proposte della commissione ministeriale presieduta dal professor Francesco Palazzo inaugura una nuova era per i cosiddetti «reati minori»: sentito il pubblico ministero e la parte offesa, «non sono punibili le condotte sanzionate solo con la pena pecuniaria o con pene detentive non superiori nel massimo a 5 anni». Furto semplice, danneggiamento, truffa, appropriazione indebita, interruzione di pubblico servizio, minaccia aggravata, violenza o minaccia per costringere a commettere un reato e altri reati bagatellari verrebbero archiviati. Ma chi li compie non deve essere «fuorilegge seriale» e non deve essersi macchiato di altri episodi criminosi.
Il nuovo articolo 131 del Codice penale stabilisce che la non punibilità riguarda solo i casi in cui il danno o il pericolo provocato sia esiguo. Il giudice prima di emettere una sentenza di proscioglimento «per tenuità del fatto» deve sentire anche la persona offesa, consentendo così a chi ha subito il danno di interloquire sulla «tenuità». La maggioranza, intanto, ha sbloccato con la legge di Stabilità 50 milioni di euro per il servizio civile.

Repubblica 2.12.14
Cdm
Il governo rinvia sulla prescrizione
di Liana Milella


ROMA Ancora un rinvio del governo Renzi sulla riforma della prescrizione. Termina, a ridosso di mezzanotte, il Consiglio dei ministri e l’atteso annuncio non c’è. A 15 giorni ormai dalle promesse ai familiari delle vittime della Eternit fatte da Renzi in persona («Bisogna cambiare la prescrizione»), palazzo Chigi non trova il tempo, o meglio non trova l’accordo nella maggioranza, per approvare per la seconda volta il disegno di legge sul processo penale che contiene, all’articolo 3, anche le nuove regole per la prescrizione. Bloccata dopo il primo grado, con due anni per l’appello e uno per la Cassazione. Una sorta di processo breve per compensare lo stop alle lancette dell’azione penale. Ma qualcosa non va, molto probabilmente la norma transitoria, l’applicazione ai processi in corso, che lascia perplessi gli alfaniani.
Il Guardasigilli Andrea Orlando, sotto la pioggia, si attarda a parlare con i colleghi. Ma è lui stesso a confermare ai suoi che «la prescrizione è stata rinviata perché non c’è stato tempo per farla». La battuta è, ovviamente, in buona fede, ma si presta a un facile doppio senso. Perché per la prescrizione, che in dieci anni ha “ucciso” un milione e mezzo di processi, il 73% ancora in fase di indagini preliminari, il governo non ha tempo da 90 giorni, da quando il 29 agosto ha approvato, con la formula del “salvo intese”, lo stesso ddl che si sarebbe dovuto ridiscutere ieri. Assieme ai famosi 12 punti della giustizia di cui si era già dibattuto in un altro Consiglio dei ministri, quello del 30 giugno.
Ieri, proprio lo stesso ddl di fine agosto, che non è mai arrivato in Parlamento, avrebbe dovuto essere riapprovato. Invece un nuovo nulla di fatto, dovuto al disaccordo politico sul testo. Sulla giustizia c’è stato il tempo di approvare un provvedimento non certo urgente come la “tenuità del fatto”, un ddl delega per cui non ci sarà più il carcere per tutti i reati che arrivano a 5 anni, ma soprattutto che sono caratterizzati da lieve entità e non rientrano nella categoria dei delitti abituali e ripetitivi. Un vecchio progetto, ereditato da Orlando, che poteva ben attendere. Ugualmente c’è stato tempo, dopo ormai 5 mesi, di scegliere il nuovo capo del Dipartimento delle carceri, l’ex Csm Santi Consolo, che lascia la procura generale di Caltanissetta, toga di Magistratura indipendente, sponsorizzata dal sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri e che riesce a battere il procuratore di Catania Giovanni Salvi. Anche questa, di certo, una nomina che poteva attendere ancora qualche giorno.
Invece la prescrizione non può attendere. Per le promesse dopo Eternit, perché alla Camera, in commissione Giustizia, ci sono tre ddl in discussione (Ferranti, M5S, Sc). Ma il governo è diviso. L’ipotesi più semplice, stralciare dal corposo ddl sul penale la norma sulla prescrizione per mandarla subito in Parlamento, si è arenata di fronte alle proteste di Ncd che a quel punto voleva anche le intercettazioni. Si era ripiegato sul nuovo voto per l’intero ddl, ma si è giunti allo scontro sulla norma transitoria, quando e come applicare la prescrizione corta e bloccata. Dunque meglio discutere ancora, e rinviare.

Repubblica 2.12.14
Se lo Stato rompe il patto di segretezza con le madri
Di fronte alla potenziale rottura del vincolo aumenterà il numero di coloro che ricorreranno all’abbandono tradizionale, partorendo di nascosto
di Chiara Saraceno


FINO a dove può arrivare il diritto a conoscere le proprie origini? Fino alla rottura di quel patto di anonimato che spesso ha costituito la garanzia perché un neonato che una donna non poteva, o voleva, tenere con sé potesse nascere in sicurezza ed essere affidato a qualcuno che ne è diventato pienamente genitore?
Sta arrivando in discussione in Parlamento una norma intesa ad ampliare la possibilità di rintracciare i propri genitori naturali (di fatto pressoché esclusivamente la madre), in ottemperanza, appunto, al principio del diritto di ciascuno a conoscere le proprie origini. Tale nuova norma consente, innanzitutto, alla donna che ha partorito in modo anonimo di cambiare idea, anche ad anni di distanza, dando la propria disponibilità ad essere rintracciata (non già a pretendere di assumere un ruolo, uno statuto, di madre cui ha a suo tempo rinunciato).
Questo va bene. Allarga i gradi di libertà della donne che si sono trovate nelle circostanze di non poter riconoscere il bambino che avevano partorito. Consente quindi a molte persone che non sono state riconosciute alla nascita e sono state adottate di rintracciare, se lo desiderano la donna che li ha partoriti, se questa oggi è d’accordo.
Ciò che non va affatto bene, e rischia di provocare danni irreparabili, è un comma di questa proposta di legge (il 7 bis, lettera d) del testo base, secondo il quale, nel caso la madre naturale non abbia esplicitamente e formalmente revocato il proprio desiderio di rimanere anonima, il Tribunale per i minorenni, «con modalità che assicurino la massima riservatezza, anche avvalendosi del personale dei servizi sociali, contatta la madre senza formalità per verificare se intenda mantenere l’anonimato».
Non occorre molta fantasia per immaginare lo scompiglio che può provocare nella famiglia di questa donna l’arrivo di una lettera del Tribunale dei minori o la visita di una assistente sociale. Non sono cose che capitano normalmente a tutti. Come potrà giustificarla al suo eventuale marito o compagno, ai suoi eventuali figli, al suo intorno sociale? E come sarà garantita la riservatezza nella lunga catena comunicativa dal tribunale fino all’assistente sociale? Con che diritto lo Stato può rompere il patto di segretezza che ha stipulato con lei nel momento in cui lei ha deciso di non abortire, portando invece a termine la gravidanza, partorendo in sicurezza e affidando il bambino ad un destino migliore di quello che lei si sentiva di potergli garantire? Dal 1950 (quando è stata approvata la norma che consente di partorire in modo anonimo) ad oggi sono state circa 900 le donne che vi hanno fatto ricorso. Di fronte alla potenziale rottura del patto di segretezza aumenterà il numero di coloro che ricorreranno all’abbandono tradizionale, partorendo di nascosto e lasciando il neonato in un cassonetto, o nel migliore dei casi in qualche posto ritenuto “sicuro”, perché di frequente passaggio. E dove va finire il diritto alla tutela della privacy e dei propri dati personali? Quanto poco rispetto ci sia per il mantenimento dei patti e per la privacy di queste donne è testimoniato anche da un altro passaggio della proposta di legge, che prevede che se la donna è morta (senza aver dichiarato di voler ritirare l’anonimato), la sua volontà non vale più e la sua identità può essere rivelata senza problemi. Come se nulla contasse l’identità che si era costruita nel tempo, nelle relazioni con le persone che le sopravvivono, alle quali non potrà più dare spiegazioni, dire di sé e del proprio punto di vista. Non credo che quella minoranza di figli adottivi che ricerca le proprie origini sia mossa dal desiderio di rovinare la vita di chi ha avuto tanto rispetto per la loro e per il loro futuro, da metterli al mondo pur senza poterli tenere, assicurandosi che fossero al sicuro, protetti. C’è il diritto a poter chiedere, non necessariamente ad avere risposte. Mi stupisco che parlamentari intelligenti e sensibili che sono tra i firmatari di questa legge, non colgano non solo i rischi per i futuri nascituri in condizioni difficili, ma il necessario equilibrio che occorre trovare tra diritto a conoscere le proprie origini e diritto alla riservatezza, specie quando riguarda la propria sfera più privata e più intima.

La Stampa 2.12.14
“Noi occidentali a Ramallah sfidiamo i fucili israeliani”
Fra i compagni dell’italiano ferito che manifestano con i palestinesi “In strada, nei tribunali, nella case da demolire: così li aiutiamo”
di Maurizio Molinari


In Cisgiordania c’è una «legione straniera» di attivisti che ogni giorno si batte a fianco dei palestinesi contro gli israeliani e per incontrarla siamo entrati nella stanza numero 14 al primo piano dell’edificio «Kuwait» dell’ospedale di Ramallah dove è ricoverato l’agronomo italiano di 30 anni ferito al petto da un soldato durante gli scontri avvenuti venerdì a Kafr Qaddum, vicino Nablus.
Fra bandiere palestinesi, vasi di fiori e strumenti medici l’italiano che si fa chiamare Patrick Corsi è seduto assieme a Sophie, 31 anni di Copenhagen, Malia, 21 anni di Berlino e Karyn, 28 anni dello Stato di New York. Fanno parte di uno dei gruppi dell’«International Solidarity Movement» (Ism) ovvero la spina dorsale di «un centinaio di attivisti internazionali di più organizzazioni giunti qui per aiutare i palestinesi a far diminuire la violenza israeliana» spiega l’italiano. Ascoltarli significa entrare nell’universo in cui vive questa pattuglia di attivisti accomunati dalla convinzione che il conflitto in Medio Oriente abbia come unico responsabile Israele: ciò che dicono e descrivono esprime una difesa estrema delle tesi palestinesi che si spinge fino a contestare la soluzione dei due Stati.
Anzitutto ognuno di loro premette di dare generalità false «perché altrimenti gli israeliani ci metterebbero in una lista nera e non potremmo più tornare dopo la scadenza del visto di 90 giorni» dice Malia. Patrick, con la maglietta «Palestina nel mio cuore» in realtà svelerà presto il vero nome perché vuole fare causa all’esercito israeliano per il proiettile che lo ha colpito nel petto: «L’azione legale vorrà punire il soldato e l’esercito per quando avvenuto, e si svolgerà nella terra del 1948». Il termine «terra del 1948» viene adoperato al posto di «Israele», contestandone la legittimità anche nel vocabolario. «In Danimarca avevo molte amiche ebree e israeliane, amavo Tel Aviv - racconta Sophie - ma poi c’è stato il massacro di Gaza sono voluta venire oltre il Muro e ora non voglio più tornare nella terra del 1948».
Patrick ritiene che «anche Tel Aviv all’origine era un insediamento illegale», imputa «ai sionisti, e non agli ebrei, di aver progettato e realizzato il furto della terra palestinese» e crede che «la soluzione di questo conflitto arriverà quando i sionisti ammetteranno tale colpa e lasceranno ai palestinesi la scelta se vivere assieme oppure farli tornare negli Stati di provenienza». In queste parole la negazione del diritto all’esistenza di Israele diventa palese.
Anche Karyn, Malia e Sophie non credono nella soluzione dei due Stati - Israele e Palestina, secondo la formula di Oslo 1993 - per molteplici motivazioni: dalla «costruzione di insediamenti che sono città coloniali impossibili da smantellare» alla «necessità di vivere assieme, condividendo le stesse scuole anziché separarsi». Tali opinioni sono frutto di settimane di vita con i palestinesi. «Sono stata alle esequie di un bambino di 15 anni ucciso perché aveva lanciato una molotov contro dei soldati e ho assistito alla carica militare contro il corteo funebre» ricorda Karyn. «Ho incontrato la famiglia del palestinese che ha accoltellato un soldato a Tel Aviv ed ho visto la sua casa distrutta dai soldati, è umanità questa?» si chiede Sophie. «Sono stata nell’aula del tribunale militare di Salam dove ad un 17enne è stata rinnovata la detenzione amministrativa senza concedergli di parlare» aggiunge Malia, trattenendo a stento la commozione. «Sono andato a raccogliere le olive con i palestinesi perché gli ulivi sono la loro risorsa più importante ma i militari gli consentono di prenderle solo 2-3 giorni l’anno» afferma Patrick.
Sono esempi di una militanza che si declina in una miriade di interventi - dall’accompagnare i pastori nei terreni militari a dormire nelle case destinate alla demolizione fino a fotografare i soldati sui tetti delle case - per «diminuire la violenza contro i palestinesi» con azioni, assicura Patrick, «non violente, concordate fra noi e guidati da palestinesi». Anche un’altra italiana è stata ferita: Giulia, siciliana, un mese fa a Qalandya. Per questi attivisti gli eroi sono Rachel Corrie, Tom Hurndall e Vittorio Arrigoni ovvero i «caduti di Ism a Gaza»: i primi due morti nel 2003 e 2004 in incidenti con gli israeliani, il terzo ucciso nel 2011 dai salafiti palestinesi.
Ad accomunare questi giovani è tanto la convinzione di «aiutare i palestinesi a far conoscere al mondo le loro sofferenze» quanto un’interpretazione degli attentati anti-israeliani, come l’assalto alla sinagoga di Har Nof in cui sono stati uccisi quattro rabbini, che Patrick riassume così nell’assenso generale: «Chi semina violenza, raccoglie violenza». Ovvero, nella «terra del 48» c’è il nemico.

La Stampa 2.12.14
Mujica lascia, il Sudamerica perde il suo “eroe perfetto”
L’ex presidente dell’Uruguay, è riuscito dove gli altri leader hanno fallito. Riforme, lotta alla povertà, eguaglianza senza mai farsi corrompere
di Mimmo Càndito

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Corriere 2.12.14
Cariche e arresti. A Hong Kong è la resa dei conti
Notte di scontri, decine di feriti tra i giovani
di Guido Santevecchi


PECHINO Sono immagini di violenza quelle che arrivano da Hong Kong. La polizia ora tira raffiche di manganellate, usa gli spray urticanti come pistole, sparando i getti direttamente contro il volto dei manifestanti. E alcuni di questi, con la faccia coperta da mascherine chirurgiche, occhialoni, elmetti da cantiere in testa, rispondono lanciando bottiglie. Nel quartiere centrale di Admiralty ci sono stati almeno 40 feriti l’altra notte, 11 tra gli agenti, e decine di arresti. La protesta democratica, cominciata il 28 settembre per ottenere elezioni libere e non pilotate dal Partito comunista di Pechino, rischia di finire nella repressione violenta.
Il governatore filocomunista CY Leung in televisione dice che la polizia finora ha mostrato «la massima tolleranza e autocontrollo» nella reazione, ma che questo «non deve essere scambiato per debolezza, gli agenti agiranno in modo risolutivo».
Il Tribunale di Hong Kong ha emesso un ordine di sgombero per Admiralty, dove da 66 giorni gli studenti si sono accampati con le loro tende colorate e i blocchi stradali. Una gran parte dei sette milioni di cittadini è per la democrazia e il mantenimento della semi autonomia da Pechino, ma la maggioranza è anche estenuata da quella che sembra sempre più una situazione senza sbocchi, dannosa per gli affari e la vita quotidiana.
Anche i leader del movimento studentesco si sono resi conto che la loro tattica non sta pagando. Domenica notte avevano lanciato un appello a convergere intorno ai palazzi governativi di Admiralty. «Il piano è fallito, la polizia ci ha sgomberato subito», ha detto Alex Chow, capo della «Federation of Students». Il suo compagno Joshua Wong ha annunciato uno sciopero della fame. Questi giovani tra i 18 e i 24 anni, che si sono trovati a guidare un movimento che nei giorni più belli ha portato in strada fino a centomila persone, sono nel guado.
I professori che avevano lanciato Occupy Central si sono defilati e come ultimo gesto vogliono consegnarsi alla polizia. C’è una frangia di attivisti che ora cerca lo scontro a costo di provocare una repressione dall’esito tragico. «Questi giovani capi non hanno il coraggio di fermarsi, temono i fischi della loro piazza», ha detto già qualche settimana fa il cardinale cattolico Joseph Zen al Corriere , supplicando la massa degli attivisti a ritirarsi e riorganizzarsi «seguendo la tattica di Napoleone».
A Hong Kong non ci sono vincitori. «La linea del governo locale sta danneggiando il futuro di Hong Kong, alle richieste del movimento democratico bisognerebbe rispondere con un dialogo politico, ma le autorità della città non lo fanno», spiega Steve Vickers, capo dell’intelligence nella polizia coloniale britannica fino al 1997 e ora alla guida di un’agenzia di consulenza che ha le finestre proprio su Admiralty, la roccaforte di Occupy Central. «Ma anche i manifestanti hanno responsabilità, si sarebbero dovuti ritirare per elaborare nuovi mezzi di pressione. Ormai le decisioni verranno prese da Pechino e questo snaturerà il sistema di Hong Kong».

Repubblica 2.12.14
Taiwan e Hong Kong quelle “isole ribelli” all’attacco di Pechino
Il partito di governo sconfitto, il premier che si dimette E giovani ancora in piazza: il regime prepara la repressione
di Giampaolo Visetti


PECHINO Xi Jinping vuole riconquistare il Pacifico, ridimensionando gli Usa, ma i mari di casa tornano agitati. Le “isole ribelli”, Taiwan e Hong Kong, non si rassegnano ad essere riassorbite dalla super-potenza economica di Pechino. Le più vaste elezioni democratiche della storia, nel fine settimana, hanno scatenato a Taiwan un terremoto politico. Il Kuomintag, partito conservatore di maggioranza, è stato travolto dall’opposizione di riformisti e liste civiche. Il partito del presidente Ma Ying-jeou ha confermato solo sei sindaci su ventidue, perdendo anche Taipei. A trionfare nelle urne è stato Ko Wen-je, 55 anni, docente universitario indipendente, nuovo sindaco della capitale.
Il premier Jiang Yi-huah è stato costretto a dimettersi subito: ieri hanno rimesso il mandato anche gli 81 esponenti del governo. Opposizione e opinione pubblica chiedono in queste ore le dimissioni dello stesso Ma Ying-jeou, due anni in anticipo rispetto alle presidenziali. Domani non è escluso l’annuncio dell’addio anche del leader, in carica dal 2008. Con il voto i taiwanesi hanno infatti bocciato l’avvicinamento del Kuomintag alla Cina, primo partner commerciale dell’isola. In marzo, dopo la firma di un piano di cooperazione economica con Pechino, gli studenti democratici avevano occupato per settimane il parlamento di Taipei, dando vita alla “Rivoluzione dei girasoli”. Solo la resa di Ma Ying-jeou, costretto a congelare il patto commerciale che avrebbe spazzato via piccole imprese e diritti, aveva riportato la calma nella capitale. A Taiwan però la voglia di indipendenza dalla Cina sale da mesi: prima gli scontri sull’arcipelago conteso anche dal Giappone, poi i tentativi di abbraccio economico, infine il pugno di ferro usato dall’autoritarismo di Pechino nell’altra “isola ribelle”, Hong Kong.
Taipei, indipendente dal 1949 e alleata con Washington, teme di fare la fine dell’ex colonia britannica, perdendo la propria democrazia. Destino che, a due mesi dall’esplosione della “Rivoluzione degli ombrelli”, si profila ineluttabile nella capitale finanziaria del Sud. A Hong Kong, nel quartiere commerciale di Mongkok e nel distretto politico di Admiralty, gli scontri tra studenti pro-democrazia e polizia filo-Pechino, sono ri- presi con violenza. Centinaia gli arresti e decine di feriti, anche tra le forze dell’ordine. I leader del movimento, tra cui Joshua Wong, ieri sera hanno annunciato lo sciopero della fame. Poche ore prima gli studenti avevano dato l’assalto al parlamento cittadino e per scongiurare l’occupazione erano stati schierati cinquemila agenti, costretti ad usare manganelli e spray irritanti. Il palazzo del potere è stato chiuso e migliaia di funzionari non hanno potuto raggiungere gli uffici.
Pechino ha avvertito che «la pazienza è finita», ha intimato ai manifestanti di non tornare nelle strade e invitato la popolazione a stare lontana da Admiralty. Nelle prossime ore si annuncia la repressione finale. Il movimento “Occupy Hong Kong” chiede elezioni democratiche a suffragio universale per il 2017, mentre la Cina ha varato una legge che limita la competizione a tre candidati scelti da Pechino. Fino ad oggi il più grande movimento democratico nato in Cina negli ultimi venticinque anni non è stato represso nel sangue, come in piazza Tiananmen. L’Occidente, spaventato dalle minacce economiche di Pechino, ha però voltato le spalle agli studenti di Hong Kong, isolati anche dal grande business della «regione economica speciale».
Pechino ha negato il visto ai giovani che volevano manifestare al vertice Apec e la stessa sorte è stata riservata ieri agli undici membri della Commissione esteri del governo britannico. Per la Cina l’addio alla democrazia a Hong Kong è una «questione interna», come la riannessione di Taiwan. I due simboli asiatici del capitalismo democratico sono di parere opposto: e chiedono al mondo di «non nascondersi dietro la crisi», ignorando la loro lotta per la libertà.

Repubblica 2.12.14
Matrimoni miliardari e operai alla fame
Le nozze vip e l’uomo-casa le due Cine indignano il web
di Gp. V.


PECHINO . Per il matrimonio della figlia, il segretario del partito comunista di Tangshan, nello Hebei, non ha badato a spese. La sposa è stata condotta in un hotel di lusso da un corteo non esattamente di basso profilo. Era composto da trenta Rolls Royce Phantom, sei Ferrari e sei Bentley, oltre che scortato da otto motociclisti in sella ad altrettante Harley Davidson. Cerimonia da oltre un milione di dollari. Bay Yanchun, proprietario di miniere di carbone, imprese edili e agenzie import-export, ha riservato quattro piani per i 400 invitati, tra cui star di cinema e tivù. Pranzo abbondante: valore delle portate, circa 1500 euro a coperto. A sfidare il divieto di «stili di vita stravaganti», emesso dal presidente Xi Jinping, non è un nuovo milionario qualunque. Bay Yanchun vive in una reggia da 2200 metri quadri nel mezzo di uno zoo privato e vanta una delle collezioni d’arte più ricche dell’Asia. Le immagini del «matrimonio del secolo della piccola imperatrice» hanno indignato il web cinese. Alti funzionari del partito prevedono che il magnate sarà la prossima vittima della campagna «contro eccessi e corruzione» scatenata da Xi Jinping.
Nelle stesse ore il China Daily ha infatti raccontato una delle tante storie dell’altra Cina, quella ancora sulla soglia della fame. Liu Lingchao ha 39 anni ed è un migrante della contea di Rongan, nel Guangxi. Come oltre 300 milioni di cinesi, per sopravvivere si sposta seguendo le offerte di lavoro. Da sei anni vive un guscio che si porta sulle spalle, costruito con rami e stracci. Ha scelto di dormire e mangiare in una conchiglia mobile, come una tartaruga o un mollusco, per risparmiare pochi yuan da inviare alla famiglia.
La volgarità del matrimonio di Tangshan e la dignità della casa-conchiglia del migrante del Guangxi in queste ore scuotono la Cina: pochi ricchi e molti poveri, un abisso rispetto agli ideali di uguaglianza della rivoluzione di Mao Zedong.

Repubblica 2.12.14
La tomba del profeta a Mosul, la moschea di Tikrit, le statue dei leoni di Raqqa capolavori della cultura e simboli della fede distrutti dai miliziani del Califfato
La furia dell’Is contro gli “idoli” ecco il martirio dell’arte islamica
di Paolo Matthiae


IN Iraq ormai l’allarme non è più, come ancora alcune settimane fa, per il rischio del patrimonio culturale, ma per il martirio dell’arte. Finora è stato un lungo stillicidio di notizie tremende, incerte nelle fonti e alterate dalla propaganda, di opere derubate, monumenti violati e deturpati, siti storici in balia di scavi clandestini selvaggi e organizzati in Siria e in Iraq. Tutto questo da quando si è indebolito fino a scomparire ogni controllo del territorio da parte di forze dell’ordine, per le tragiche crisi politiche che hanno investito quelle regioni traboccanti di testimonianze della più antica storia dell’umanità.
Mosul, Tikrit, Samarra, per ora, sono i luoghi simbolo, tra altri meno famosi, di sistematiche, predeterminate e intenzionali distruzioni di capolavori dell’architettura islamica, polverizzati dalla furia cieca e inesorabile dei fanatici dell’Is che, in nome della loro fede estremista, usano masse di esplosivi per annientare, in modo irrecuperabile, monumenti eretti nei secoli da spesso illustri committenti della stessa fede religiosa: un’inesorabile iconoclastia moderna per contrastare quella che è ritenuta un’inaccettabile idolatria antica.
È così che il fanatismo intollerante ha raso al suolo, negli ultimi tre anni, dalla Tunisia al Mali, dall’Algeria all’Egitto, dalla Siria all’Iraq, decine e decine di umili segnacoli, di venerate cappelle e di monumentali mausolei che ospitavano, o si riteneva ospitassero, le spoglie mortali di uomini che credenze popolari o fama affermata avevano consacrato come degni di memoria.
Il monumentale mausoleo di Nebi Yunus, il profeta Giona, che la tradizione voleva sepolto sul luogo stesso di una delle cittadelle dell’antichissima Ninive, nella periferia orientale di Mosul, luogo di pellegrinaggio di musulmani, cristiani ed ebrei, è stato fatto saltare in aria nel luglio scorso. Un altro santuario che si tramandava come il sepolcro del profeta Seth, preteso terzo figlio di Adamo, subiva sorte analoga negli stessi giorni. Il celebre minareto “pendente” della Grande Moschea di Mosul, simbolo stesso della città, si è salvato perché una folla di abitanti si è schierata a difesa del monumento, pronta a sacrificare la vita.
Ma nelle ultime settimane le distruzioni hanno assunto un ritmo vorticoso e si sono spietatamente accanite su capolavori dell’architettura medioevale islamica. Cariche di esplosivo sotterranee hanno fatto saltare in aria uno dei più preziosi gioielli dell’architettura islamica di Aleppo, che sorgeva proprio di fronte alla spettacolare Cittadella: la Moschea Khosrofiya, che Khosrof Pascià commissionò nel 1537 al grande Sinan, il “Michelangelo ottomano”, e che era la più antica architettura ottomana di Siria. In Iraq, dopo che a Tikrit, forse l’antica Birtha centro fortificato conteso tra Romani e Parti, era stata distrutta la Chiesa Verde, uno dei più antichi e originali luoghi di culto cristiani d’Oriente risalente agli anni attorno al 700, nella stessa città, oggi nota soprattutto perché luogo di nascita di Saddam Hussein, veniva rasa al suolo la Moschea degli Arbain, “I quaranta martiri”, una delle più significative testimonianze dell’architettura musulmana del XIII secolo.
Di pochissimi giorni fa è la notizia, documentata, che lascia più increduli. A Samarra, una delle splendide capitali del Califfato Abbaside, le cui rovine si estendono per chilometri e chilometri dominate dal celeberrimo minareto elicoidale, è stato fatto saltare in aria e ridotto in polvere l’Imam al-Dur, un famoso mausoleo in mattoni crudi a torre, costruito nel 1085 per l’emiro Uqaylida di Mosul Sharaf al-Dawla Muslim, che culminava in una spettacolare e raffinatissima cupola a cinque settori decorati a muqarnas, i tipici elementi ornamentali a stalattite o ad alveare costituiti di piccoli segmenti concavi delle volte dell’architettura medioevale islamica: questa realizzazione era la più antica e la più audace documentata in Iraq. Un’iscrizione cufica sul monumento tramandava addirittura, insieme al nome del committente, anche quella dell’architetto, Abu Shakir ibn Abi’ l-Faraj, un maestro di tale talento che non se ne doveva perdere la memoria.
Nel territorio oggi controllato dall’Is sono Hatra, la capitale di un regno arabo caduto nel III secolo nelle mani dell’Impero Sasanide di Persia, dove tra rovine imponenti con cinica determinazione si ammassano armi e munizioni per evitare bombardamenti, Ninive, la splendida capitale assira con il Parco archeologico dei palazzi reali di Sennacherib e di Assurbanipal e Nimrud, la capitala assira che precedette Ninive dove sono ancora sculture spettacolari dei grandi sovrani del IX secolo a.C. Saccheggi, mutilazioni, devastazioni sono nel destino anche di questi siti storici unici al mondo?
Di fronte a questi orrori, non si può ignorare che in Iraq, come in Siria, uomini coraggiosi, giorno per giorno e ora per ora, rischiano la vita per proteggere un patrimonio che è loro, ma anche di tutta l’umanità: tre funzionari della Direzione delle Antichità di Siria hanno già perso la vita per questo loro impegno, anche in modi atroci.
Non si può assistere inerti al massacro di opere artistiche che la Convenzione Unesco sul Patrimonio dell’Umanità del 1972 ha solennemente definito patrimonio mondiale perché fonte di ispirazione per la mente umana e riferimento insopprimibile per l’intera umanità. Impegno comune del mondo civile deve essere che questi attentati contro il patrimonio culturale mondiale siano dichiarati crimini contro l’umanità.

Repubblica 2.12.14
Londra la nuova lotta di classe
Stili di vita, istruzione e comportamenti. Mai come oggi la società britannica è spaccata
Un ministro che chiama “fottuto plebeo” un poliziotto, Miliband che non riesce neanche a mangiare il panino dei “proletari”
La gabbia delle élite accomuna laburisti e conservatori e tiene lontani i ceti bassi
Che si sentono sempre più rappresentati dagli ultrà populisti
di Enrico Franceschini


LONDRA «LA lotta di classe è finita», disse Tony Blair quando andò al potere nel 1997. Due decenni più tardi sembra improvvisamente ricominciata. Un ministro conservatore è sotto accusa per avere chiamato «fottuto plebeo» un poliziotto. Un altro deve scusarsi per avere detto a un tassista «lei non sa chi sono io». Un terzo si diverte a infilare mezza dozzina di volta il termine cock (cazzo) in un discorso alla camera dei Comuni, solo per il gusto di vincere una scommessa con i suoi colleghi. E se i Tories sono considerati da sempre il partito dell’aristocrazia, della classe dirigente, degli intoccabili, in questi giorni anche i loro avversari laburisti diventano il bersaglio di analoghe accuse, con una deputata costretta a dimettersi per avere preso in giro il “popolino” e perfino il leader Ed Miliband ridicolizzato perché non riesce a mangiare un “blt”, il sandwich alla pancetta, pomodoro e lattuga, classico panino dell’inglese medio, senza rischiare di farselo andare di traverso.
«Come distinguere le due élite metropolitane», titola il Times fotografando le tribù contrapposte della politica made in Britain alla luce dei succitati episodi: le radici ideologiche sono diverse, slogan, programmi, quartieri dove abitano, usi e costumi sono differenti, afferma il quotidiano londinese, ma in fondo provengono dalle stesse scuole ed università, hanno lo stesso accento e stile di vita, insomma sono più simili di quanto non sembri. Da sempre presente, accettato come la norma o almeno tollerato al parlamento di Westminster, a un tratto l’elitarismo appare più imbarazzante perché coincide con l’ascesa dell’Ukip, il partito populista che si vanta di rappresentare la gente, l’uomo della strada, le persone “normali”. Riproponendo come tema del giorno una vecchia questione: il classismo, visto come il peccato originale della società britannica, comunque come la sua caratteristica più riconoscibile.
È proprio vero? L’accusa può sembrare un falso problema nella scintillante Londra globalizzata e multietnica, calamita di immigrati da tutto il pianeta. Eppure le gaffe in serie commesse negli ultimi tempi da conservatori e laburisti danno maggiore credibilità alla tesi. Andrew Mitchell, ex capo della maggioranza Tory alla camera dei Comuni, ha fatto causa per diffamazione al Sun , autore dello scoop di qualche mese fa sull’insulto da lui gridato a un poliziotto che non voleva lasciarlo passare con la sua bicicletta dai cancelli di Downing Street: «Fucking pleb», fottuto plebeo. Il giudice ha dato ragione al Sun, Mitchell dovrà vendersi la casa per pagare i danni, la sua carriera politica è finita: la gente, inclusa quella che vota partito conservatore, non vuole più vederlo, avverte un sondaggio.
David Mellor, ex ministro dei Tories, prende un taxi per tornare a casa da Buckingham Palace dove sua moglie ha ricevuto un’onorificenza, bisticcia sul percorso con il tassista e comincia a minacciarlo: «Tu sei un nessuno e io sono un consigliere della regina, come osi protestare, te la farò vedere». Il tassista registra tutto sul telefonino, la conversazione finisce sui giornali, Mellor si scusa («avevo bevuto troppo»), l’associazione dei “black cab”, i taxi neri londinesi, lo mette al bando dalle sue auto. Da ultimo una sottosegretaria conservatrice, Penny Mourdant, viene beccata a dire “cock” sei volte in un dibattito in parlamento e poi ammette con un’alzata di spalle: «L’ho fatto per scommessa». Che c’è di male?, sembra dire. Ai politici tutto è permesso.
Peggio di così, a sei mesi dalle elezioni, ai conservatori non potrebbe andare. Senonché i laburisti fanno altrettanto o appunto peggio. Emily Thornberry, ministro nel governo ombra del Labour, mette su Twitter la foto di una casetta con un furgoncino bianco parcheggiato davanti e la bandiera di San Giorgio, simbolo dell’Inghilterra, alla finestra, per ironizzare sulla vittoria dell’Ukip nel voto per un seggio suppletivo ai Comuni. La foto ha un chiaro significato nell’immaginario inglese, non c’è neppure bisogno di commento scritto. Vuol dire: «Avete vinto con i voti dei burini». Cioè col sostegno di quella frangia ignorante, xenofoba, violenta, che detesta stranieri, immigrati, Unione europea. Ma siccome è anche il ritratto del popolino, perlomeno di una parte della classe lavoratrice, scoppia il finimondo. Il leader laburista Miliband costringe la Thornberry a dimettersi. Lei si difende esibendo a sua volta la bandiera di San Giorgio fuori di casa (nel quartiere londinese alla moda di Islington, però) e citando pateticamente il fatto che anche suo fratello è un operaio e guida un furgoncino. «Proviamo rispetto per questo tipo di persone», giura Miliband. Frattanto dalla casa fotografata su Twitter fuoriesce l’inquilino: cranio rasato a zero, tatuaggi. «Non mi basta il rispetto», ringhia, «quel Miliband deve venire qui a scusarsi di persona con me».
Il leader se ne guarda bene, naturalmente. Qualcuno lo accusa di avere ceduto al panico, «doveva giustificare la sua ministra, è vero che per l’Ukip vota il popolino xenofobo con cui non vogliamo avere a che fare», si arrabbia la deputata laburista Diane Abbott. Altri tuttavia ricordano che una gaffe simile (definì «bigotta» un’elettrice che aveva parlato male degli immigrati, senza accorgersi che un microfono della tivù registrava il suo commento), ha contribuito cinque anni fa a far perdere le elezioni all’allora premier laburista Gordon Brown, facendo passare anche lui per un “nemico del popolo”, un freddo intellettuale incapace di capire le preoccupazioni dei suoi compatrioti. E Miliband è l’ultimo che può dare lezione in materia: i suoi gesti per apparire popolare e alla mano gli si rivoltano puntualmente contro, come quando ha provato a mangiare davanti ai fotografi un sandwich “blt” e per poco non si è strozzato, o quando ha fatto l’elemosina a una mendicante ed è saltato fuori che le ha dato soltanto due penny, facendosi pure fama di taccagno.
Morale: la mappa dei leader dei due schieramenti, pubblicata dal Times, li descrive come più simili che diversi. I leader conservatori abitano a Notting Hill (nord-ovest Londra), guidano la Range Rover e hanno un Labrador, i laburisti abitano a Primrose Hill (nord-est di Londra), guidano una vecchia Audi e hanno un gatto, ma come istruzione, gusti, comportamenti e spesso pure reddito appartengono tutti all’ upper class. Nel ’97, quando annunciò «the end of the class war», la fine della guerra o della lotta di classe, Blair prediceva che la mobilità sociale avrebbe frantumato le vecchie divisioni della società inglese in élite, middle-class e working-class, trasformandola in una democrazia delle opportunità in cui tutti possono realizzare le proprie aspirazioni.
Per un po’ è sembrato possibile. Ma dalla crisi del 2008 è emersa una nazione in cui il gap ricchipoveri si allarga invece che ridursi e il 7 per cento dei giovani usciti dalle costose scuole private (25 mila sterline l’anno di retta) vanno poi a formare il 45 per cento della classe dirigente. «Embè, abbiamo fatto delle differenze di classe la nostra esportazione di maggior successo, tutto il mondo ci compra lo sceneggiato Downton Abbey» , scherza la columnist Rachel Sylvester. Di colpo tuttavia politici, sociologi, giornalisti si scervellano sul “white van man”, l’uomo del furgoncino bianco, inteso come nuova figura sociale da cui dipende il destino dell’Inghilterra. O, come minimo, la vittoria alle elezioni della primavera prossima.

Repubblica 2.12.14
La rivolta dell’uomo medio contro la dittatura degli snob
di John Lloyd


L’INGHILTERRA , scriveva George Orwell nel 1941, «è il Paese più classista che esista sulla terra. È una terra di snobismo e privilegi, governata in gran parte da uomini vecchi e stupidi». È quello che pensava lo scrittore inglese più famoso del Novecento della sua terra nativa ed è quello che molti pensano ancora. I molti in questione includono anche i non inglesi, in particolare gli americani, che vedono un Paese con la monarchia più sfarzosa d’Europa, la Camera dei Lord, le costose scuole private (che gli inglesi chiamano public school ), i circoli esclusivi per gentiluomini a poche centinaia di metri da Buckingham Palace, le antiche Università che per secoli sono rimaste riservate a titolati e facoltosi… come la vera Inghilterra.
E lo è davvero? Apparentemente no. Gli eventi del mese scorso, il tweet del White Van Man , il “Plebgate”, e il caso dell’ex ministro ubriaco in un taxi hanno dimostrato quanto noi britannici siamo distanti dallo stereotipo. L’espressione “White Van Man”, l’uomo dal furgone bianco (dal titolo di una sitcom inglese), è diventata sinonimo di un uomo che lavora in proprio svolgendo ogni genere di attività manuale. Non serva che dica cos’è la plebe. Le public school inglesi, dove gli studi classici erano il cuore del programma e la Roma classica la civiltà ammirata, chiamavano gli alunni non aristocratici “plebei” per distinguerli dai figli dei nobili. Pleb diventò un insulto per dileggiare gli strati sociali più bassi.
Il tweet della parlamentare laburista sul “White Van Man”, anche se non esplicito, era probabilmente supponente (anche se lei e suo fratello hanno affermato di essere cresciuti in una famiglia modesta). L’uso di pleb da parte di Andrew Mitchell esplicito lo era di sicuro e aveva lo scopo di dire all’agente di polizia di stare al suo posto. La stessa settimana in cui Mitchell ha perso la sua causa, un ex ministro conservatore, David Mellor — anche lui, come Mitchell, avvocato di grido — si è messo a litigare con il tassista che lo stava portando alla sua casa da 8 milioni di sterline: Mellor si è definito uomo molto intelligente e distinto, a differenza del tassista che era una «piccola merda idiota e puzzolente». Sono scene di lotta di classe clamorose. E hanno attirato da ogni lato critiche severissime. La sentenza contro Mitchell è stata salutata come la vittoria dell’uomo comune. Il Times, un tempo il giornale delle classi alte, ha scritto che l’ex ministro è «un gradasso e tracotante con poco rispetto per il resto della popolazione».
Il leader laburista Ed Miliband ha detto che il tweet della signora Thornberry era «irrispettoso» e che lui era «furioso». Fa bene a esserlo. Il Labour è andato male alle suppletive di Rochester, ma era pronto a rallegrarsi dell’imbarazzo dei Tories, che controllavano quel collegio e sono stati sconfitti dall’Ukip. Invece sotto i riflettori ci sono finiti i laburisti, e per motivi poco graditi.
Quello che è successo in Gran Bretagna è che lo snobismo delle classi alte non è più tollerato, almeno non in pubblico. Le classi alte — specialmente i politici delle classi alte — devono almeno fingere di essere modesti ed egualitari. La deferenza che le classi basse un tempo mostravano nei confronti di quelle alte non è scomparsa del tutto, ma non è più la norma.
Orwell oggi non scriverebbe che l’Inghilterra è «il Paese più classista che esista sulla terra». Nei decenni intercorsi da allora si è rafforzato un aspetto che fa parte anch’esso della cultura nazionale da molto tempo, il sentimento che siamo tutti uguali a prescindere dal rango sociale. Il poeta scozzese Robert Burns un secolo e mezzo fa, nel suo poema Un uomo è uomo, scrisse che il rango è solo questione di denaro, e che il denaro non dice nulla sul valore dell’uomo. Nonostante tutti i suoi re, regine e lord, la Gran Bretagna ha uno spirito piuttosto repubblicano: ora lo ha rammentato alle sue classi alte. ( Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 2.12.14
Pride
Gay e minatori uniti nella lotta
La vera storia di un episodio di solidarietà nell’Inghilterra della Thatcher nel bel film di Matthew Warchus
di Natalia Aspesi


PURE in Gran Bretagna se ne erano quasi dimenticati: non certo del drammatico, interminabile sciopero dei minatori di trent’anni fa (marzo 1984 — marzo 1985), ma di quei “pervertiti”, come li chiamavano allora, che fondando i gruppi LGSM (Lesbians and gays support the miners, Lesbiche e gay sostengono i minatori), riuscirono a raccogliere e a donare 20mila sterline agli scioperanti ridotti alla fame. Quell’episodio ha entusiasmato l’autore teatrale e sceneggiatore Stephen Beresford e il regista d’opera e teatro Matthew Warchus, che ne hanno fatto un film, dato al Festival di Cannes 2014 e diventato il massimo successo di critica e pubblico nel paesi anglosassoni. Pride è fatto benissimo, con grandi attori noti e sconosciuti, capace di rievocare i forti sentimenti degli anni 80, come il senso dei propri diritti, compresa la tutela del lavoro e il rispetto della dignità individuale, ed è soprattutto un divertente e commovente inno a quella solidarietà che oggi pare troppo costosa da praticare.
Il valore del film è anche nella sua verità, raccontando una storia vera con personaggi veri, quella di uno tra gli undici gruppi LGSM, raccolto a Londra attorno alla libreria Gay’s the World in Marchmont Street: che scelse di aiutare i minatori della valle di Dulais nel sud del Galles, seguendo l’entusiasmo del giovane Mark Ashton (Ben Schnetzer), morto nel 1987 di Aids, ricordato nella storia gay come un santo ed eroe. «Siamo due comunità, noi gay e i minatori, prese di mira dal governo, dalla polizia e dai tabloid. Dobbiamo aiutarci a vicenda». Alla televisione Arthur Scargill, presidente del sindacato minatori, incita a non cedere, Margaret Thatcher, primo ministro conservatore, promette, o minaccia, di mantenere fino in fondo la linea dura, «contro il nemico interno», i minatori: arrivando a sequestrare i fondi del sindacato e tagliando il gas alle famiglie degli scioperanti per costringerli ad arrendersi per poi chiudere venti miniere di carbone e far perdere il lavoro a ventimila persone.
In Gran Bretagna l’omosessualità non era più un reato per i maggiorenni dal 1967, ma in quegli anni 80, come ovunque, l’omofobia imperava. Così ogni telefonata del LGSM di Londra per prendere contatto con i minatori del Galles, orrificati, viene da loro interrotta, «Froci di merda!». Finalmente l’incontro avviene: sei ragazzi e una ragazza (nella realtà furono 27), arrivano a Dulais con soldi cibo e allegria, accolti con gentilezza e timidezza dal minatore Dai Donovan (Paddy Considine), oggi sindacalista. A poco a poco i due mondi, e le due generazioni, i ragazzi gay, gli uomini della miniera, si scoprono e si capiscono, e le più amichevoli sono le donne non più giovani, come Hefina (Imelda Staunton) che passa le giornate a spalmare margarina sul pane per le famiglie degli scioperanti, insieme all’elegante vecchio minatore Cliff (Bill Nighy). Una delle mogli dei minatori, Siân James (Jessica Gunning), madre e casalinga esemplare, viene incoraggiata a studiare dal gay, magnifico ballerino, Jonathan Blake (Dominic West), uno dei primi sieropositivi inglesi, che oggi ha 65 anni. La signora James durante lo sciopero preparava i pasti per 1000 famiglie ogni settimana: adesso è un membro del Parlamento per il Labour Party. Il solo personaggio inventato è il minorenne Joe (George MacKay), di buona famiglia conservatrice, che si trova per caso in mezzo al corteo del Gay Pride, si entusiasma alla solidarietà e scopre la propria omosessualità.
Il film inizia con alcune scene di un documentario artigianale d’epoca, in cui si vedono cariche di centinaia di poliziotti anche a cavallo e furenti bastonature sui manifestanti, che noi conosciamo ancora oggi. Ma Pride è un film positivo, se non per la cattiveria della Thatcher e di qualche passante che durante il Gay Pride grida “Disgustosi!”. Buoni gay e lesbiche, buoni i minatori (non tutti), buoni anche i poliziotti e pentita qualche mamma cattolica che ha cacciato il figlio gay. Si sa che dopo un anno di miseria i minatori di tutta l’Inghilterra, non solo quelli del Dulais, dovettero arrendersi facendo vincere la politica antioperaia e privatizzante della Thatcher. Ma oggi non è tempo di ricordare sconfitte passate del lavoro, visto la crudeltà e lo sperdimento del presente. I film, soprattutto quelli inglesi che privilegiano il mondo operaio, devono avere un finale che va oltre la realtà delle sconfitte, per non immalinconire lo spettatore. Così anche Pride lo si guarda come una specie di favola, anche se oggi tutte le miniere di Gran Bretagna non esistono più.
Corriere 2.12.14
Il problema contadino Italia fascista e URSS
risponde Sergio Romano


 C’è un argomento che raramente viene affrontato dagli storici: la «ruralizzazione» dell’intera società e il ritorno alla società contadina voluto da Mussolini. L’inurbamento era visto come la causa dell’abbassamento della natalità e l’origine di disordini sociali. Questo obiettivo fu tale da condizionare le scelte economiche fin dal 1928; tuttavia Mussolini fondò l’Agip nel 1927, inaugurò nuovi modelli di automobili e sostenne la meccanizzazione dell’agricoltura. La «ruralizzazione» della società era forse solo una sorta di pretesto per ammansire le masse? Altrimenti non si spiegherebbero le sue scelte innovative nel campo industriale.
Piero Campomenosi

Caro Campomenosi,
Per rispondere alla sua domanda le propongo un confronto fra due Paesi, l’Italia e la Russia sovietica, che avevano alcuni aspetti comuni. Entrambi avevano fatto una rivoluzione industriale tardiva, all’inizio del nuovo secolo. Entrambi avevano una economia prevalentemente agricola. Entrambi erano recentemente emersi da una conflitto in cui le masse contadine, spesso analfabete, erano state la materia prima dei rispettivi eserciti. I partiti e i governi liberali ne erano consapevoli e speravano che il problema sarebbe stato risolto gradualmente dalla educazione e dallo sviluppo economico. Ma la gradualità, per i partiti autoritari che conquistarono il potere dopo la Grande guerra, non era necessaria.
Alla fine degli anni Venti, dopo avere solidamente installato se stesso al vertice dello Stato, Stalin dichiarò guerra ai kulaki (i piccoli proprietari creati dalla riforma Stolypin nei primi anni del Novecento) e affidò a poco meno di 30.000 militanti del partito il compito d’imporre, con la forza se necessario, la creazione di fattorie collettive (i kolkoz) che divennero da quel momento la lunga mano del partito comunista nella Russia rurale e in Ucraina. Conosciamo le disastrose conseguenze umane di quella politica, ma sarebbe ingiusto negare che la collettivizzazione della terra abbia fatto del contadino russo un cittadino sovietico, indottrinato ma alfabetizzato, servitore di uno Stato padrone, ma destinatario di previdenze e servizi ignoti alle generazioni precedenti. Ogni giudizio che non tenga conto delle condizioni delle campagne russe prima di Stalin sarebbe superficiale e assurdo.
Mussolini agì diversamente. Conosceva troppo bene la valle Padana e i suoi contadini per imitare il modello sovietico. Cercò di creare un cittadino-agricoltore facendone con toni molto retorici il nobile rappresentante di una nazione rurale che conservava e custodiva nella terra le maggiori virtù della sua identità storica. Inventò la battaglia del grano per dare all’agricoltura una missione nazionale nell’interesse dell’intero Paese. Migliorò le condizioni dell’Italia rurale con le bonifiche e la costruzione di nuove città. Si servì del mondo agricolo per giustificare la sua politica di espansione coloniale, ma anche per impedire che il contadino diventasse troppo rapidamente operaio, quindi più facilmente esposto al contagio di altre ideologie.
Il torso nudo, quando partecipava alla cerimonia della mietitura, era l’uniforme che Mussolini indossava per rivendicare le sue origini contadine. Non è vero tuttavia che la politica agricola del fascismo sia stata implicitamente anti industriale. Anche durante il ventennio fascista l’Italia ebbe imprenditori che contribuirono alla modernizzazione del Paese. Ma Mussolini, probabilmente, si fidava dei contadini più di quanto si fidasse degli operai.

Corriere 2.12.14
Fidelio eroe della libertà
L’opera di Beethoven denuncia l’età del Terrore e ricorda Silvio Pellico
di Paolo Isotta

Se il Parsifal è la più grande Opera mai scritta, se i Maestri cantori , il Falstaff e Il cavaliere della rosa sono le più deliziose Commedie musicali (con profonda riflessione sulla tragedia della vita) mai scritte, il Fidelio è l’Opera più celestiale mai scritta. Non ripeterò che si tratta del più potente documento artistico contro il Terrore giacobino pur se ripeterlo giova oggi che si tenta di contrabbandarlo siccome parto rivoluzionario. D’altronde rimandare ai miei minuziosi articoli pubblicati sul tema per i lettori del «Corriere» è poca cosa: intendo invece consigliare di nuovo il più bel libro mai scritto su Beethoven, quello monumentale di Piero Buscaroli che la Rizzoli ha per fortuna, dopo la prima edizione di dieci anni fa, ripubblicato nella Bur. È un’opera che onora la cultura italiana, che non ne è degna e non ha saputo recepirla; ma lo stato della cosiddetta musicologia è miserabile anche all’estero.
Nessuno come il Buscaroli ricostruisce la storia della composizione, del fatto storico che ne è all’origine, degli antecedenti operistici francesi e italiani. Io mi permetto di ricordare che per comprendere come il Terrore sia stato la più perversa macchinazione contro l’uomo mai escogitata occorre conoscere un’opera storica di Manzoni quasi sottaciuta e occultata, La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859. Saggio comparativo .
Non ripercorrerò antologicamente le bellezze della suprema partitura che resta tale a onta dell’appartener il Fidelio all’ibrido genere della Commedia musicale ( Singspiel ), con dialoghi parlati. Ma questi non preponderano e vanno rarefacendosi a grado che l’Opera prosegue. E, per ciò che attiene al Recitativo, Beethoven, con Abscheulicher, wo eilst du hin , nel primo atto, offre uno dei più potenti Recitativi accompagnati mai composti, direttamente rifacentesi alla Scena e Aria italiana Ah, perfido! che il giovane aveva scritta nel 1796 su versi di Metastasio. Ma avviene nel passaggio all’Opera qualcosa di magico: dal Mi bemolle maggiore della composizione giovanile il Sommo trascorre al Mi maggiore, ch’è il tono delle due più incantate Sonate pianistiche, l’op. 90 e l’op. 109, e del sublime Lied corale Opferlied . Leonora canta poi l’Aria con i tre corni soli che, nelle due sezioni, invocando la Speranza, è invocazione sì alta che dal lirico passa all’epos vergiliano; e tale invocazione possiede un inequivocabile accento religioso.
E infatti adesso giova dire che il testo drammatico del Fidelio , basato su di un avvenimento effettualmente svoltosi in Francia, spesso dileggiato dai musicologi e invece di grande qualità e intensità drammatica, viene accolto da Beethoven in una prospettiva che potremmo chiamare solo religiosa. Il Fidelio è il dramma della lotta per la libertà. Non si vuol negare il suo aspetto di viva attualità politica; e tuttavia i prigionieri che vengon portati alla luce dalla segreta nella quale giacciono (e Beethoven introduce il coro con vaganti accordi di dominante su pedale di tonica, giacché i prigioni sono abbacinati e non vedono) anelano alla libertà spirituale, e le catene, come quelle di Florestano, sono loro allestite dal peccato e dall’ignoranza. Il coro dei prigionieri ha inequivocabile carattere religioso; come lo hanno il duetto tra Florestano e Leonora quando ella ha messo in fuga il tiranno Pizarro; e tutto l’ultimo quadro del Fidelio .
Il rapporto stretto tra il Fidelio e la Nona Sinfonia non sfugge ovviamente a nessuno. Ma ciò assevera il mio asserto. Il carattere religioso (e non solo nazionalistico, come vuole il Buscaroli) della Nona Sinfonia mi pare palese: secondo me l’ultimo movimento è il vero e proprio Magnificat di Beethoven. Scrive Wagner: «Non sono le idee espresse dalle parole di Schiller che attirano la nostra attenzione ma il timbro cordiale del coro che ci attrae a unire la nostra voce a partecipare come comunità a un ideale servizio divino, quel che accade all’entrata del Corale nelle Passioni di Sebastian Bach».
Ciò tuttavia non toglie che a me la Missa solemnis paia artisticamente ancor più alta: Beethoven stesso la definisce «la mia opera più perfetta».
Ma carattere religioso e chiave dell’intera opera (torno al Fidelio ) è in un brano breve, prima facie un mero Recitativo, che però i sommi direttori d’orchestra ben hanno compreso affidandolo a cantanti di prima grandezza. Voglio citare soprattutto l’incisione meravigliosamente diretta da Karl Böhm che, se ha come Rocco Gottlob Frick, fa intervenire quale Don Fernando un sontuosissimo Martti Talvela. Del pari fa Karajan che nella sua incisione (uno dei punti più alti della storia del disco) affida il ruolo a Franz Crass. Don Fernando è il ministro di Stato che giunge in apparenza per ispezionare il carcere, in realtà per far trionfare ex alto la libertà: il suo Recitativo Des besten Königs Wink und Wille ( Per cenno e volere dell’ottimo de’ Regi ), che approda a elisia melodia ove si parla dell’umana fratellanza, ce lo mostra siccome autentico inviato divino; e la fratellanza alla quale egli accenna è evidentemente quella in Cristo: significativo, e particolare da solo bastevole a mostrare il continuo sforzo di perfezionamento di Beethoven nella costruzione, che nella Leonore esso manchi.
Di quest’incisione diretta da Böhm esiste un «video»: la regia di Rudolph Sellner ottiene una tale recitazione dagl’interpreti che, anche a non conoscere il tedesco, si comprende ogni parola. Un sol difetto possiede, e purtroppo gravissimo: tra il I e il II atto non fa la necessaria pausa e addirittura durante l’introduzione orchestrale assistiamo alla ridiscesa dei cattivi nelle segrete: anche i grandi commettono leggerezze inspiegabili. Tanto Böhm quanto Karajan non eseguono l’Ouverture Leonora n. 3 prima dell’ultimo quadro: quest’abitudine che io approvavo e venne seguita anche da Muti alla Scala oggi più matura riflessione m’induce a condannare: giacché anche questa grandiosa composizione contiene una tale sintetica rappresentazione drammatica dell’intera Opera da confliggere colla sua rappresentazione drammatica effettuale; né giova a difendere la prassi tedesca, risalente alla seconda metà dell’Ottocento e mettente capo a Hans von Bülow, il fatto che l’Ouverture venga collocata, si dichiara, dopo che tutti i conflitti drammatici sono risolti : ciò è mera apparenza: la risoluzione viene con il Recitativo di don Fernando e lo scioglimento delle catene.
La prima versione del Fidelio è la Leonore , o ur-Fidelio , in tre atti. Occorrerebbe fosse conosciuta assai di più essendo anch’essa celestiale. Il confronto col Fidelio è illuminante; a principiare dalle Ouvertures: quella in Mi maggiore, concentrata e veloce, è davvero l’introduzione in medias res ; quella oggi denominata Leonora n. 2 è un capolavoro d’invenzione, costruzione e ampiezza: è più che un tempo di Sinfonia; ma Beethoven, che non sbaglia mai, ben ha fatto a metterla da banda esaurendo essa in parte l’interesse drammatico medesimo. Dicevo, è celestiale la Leonore : contiene una profluvie di meraviglie che Beethoven, dramatis causa , ha espunte dal Fidelio e che vanno conosciute di per sé, a prescindere dalla posizione drammatica loro. V’è il Terzetto Ein Mann ist bald genommen e il delizioso duetto tra Marcellina e Leonora Um in der Ehe froh zu leben , con violino solo; e una pagina che piangiamo noi per primi a calde lacrime è poi il sublime Recitativo di Florestano con oboe solo (nella Leonore - Fidelio l’oboe sembra avere una funzione d’incarnazione salvifica), prima del Duetto O namenlose Freude (III nella Leonore e II nel Fidelio ), Ich kann mich noch nicht fassen . Più in generale nella Leonore vi è una rifinitura musicale straordinaria: i brani in comune delle due Opere vi durano assai di più ( per esempio, il finale del I atto – II nella Leonore , che diverrà completamente diverso nell’Opera definitiva; e la stessa introduzione del II – III nella Leonore ) e duole che si perdano; ma la scorciatura drammatica del Fidelio è unica.
Una cosa fondamentale mi resta da dire. La Leonora e il Fidelio (le date estreme sono il 1805 e il 1814) in realtà principiano nel 1790, a Bonn, Beethoven ventenne. I musicologi, che capiscono pochissimo, giudicano opere d’occasione i due straordinarî capolavori di quell’anno, i quali dimostrano come non sempre il genio sia pazienza e accumulo ma possa apparire già tutt’intero all’improvviso. Precocità simile fa pensare più a Alessandro Scarlatti che a Mozart (a non considerare l’esplosione del genio quattordicenne con il Mitridate, Rè di Ponto , splendente anticipazione dell’ Idomeneo ); e il fatto che tali opere fossero scritte quando Mozart era ancor vivo mostra il divario fra i due Sommi. Si tratta della Cantata per la morte di Giuseppe II (che ascoltai per la prima volta in un’alatissima interpretazione di Franco Mannino), monumentale, e di quella, di poco successiva, più breve ma pur elisia, per l’intronizzazione di Leopoldo II. Ai nostri fini ci occuperemo della prima. Il testo si deve a uno sventurato di nome Averdonk che ricorda Giuseppe II, in realtà un sovrano meschino e tirannico, quale nemico dell’idra del fanatismo. L’indagine storica del Buscaroli ha chiarito perché l’opera, a causa del disprezzo onde Giuseppe II era universalmente avvolto, venne eseguita solo nel 1885, auspice Brahms. L’introduzione orchestrale già contrappone gli accordi che, in Fa minore e con anticipazione di Wagner, daranno inizio al II atto del Fidelio colla disperazione di Florestano nelle tenebre. Ma quando il testo dice «Allora salirono gli uomini alla luce» si ode una sublime melodia dell’oboe in Fa maggiore: essa tornerà identica al vero scioglimento del Fidelio , quando don Fernando avrà fatto liberare dalla stessa Leonora Florestano dalle catene e verrà cantato O Gott! Welch ein Augenblick! : ossia O Dio! Quale istante!
Quest’articolo si chiuda col ricordare un umile e grande libro che la Scuola italiana aveva quelli della mia generazione indotto a disprezzare senza conoscere per l’enfatico panegirico che ne faceva; un libro nato dalla lotta per la libertà e risalente alla considerazione religiosa della prigionia in quanto tale; di pochi anni al Fidelio posteriore (1832): Le mie prigioni di Silvio Pellico. Ivi la tirannia è absburgica, ma è tirannia non meno.

Corriere 2.12.14
La filosofia del tappeto
Amos Gitai e la tessitura di storie per continuare a credere nel dialogo
di Viviana Mazza


«Uno dei miei primi ricordi d’infanzia — racconta Amos Gitai — sono i biglietti ferroviari del viaggio di nozze di mia madre messi in mostra su una mensola in cucina». Dicevano semplicemente: «Haifa-Beirut». Ma erano gli Anni 50 e, dopo la guerra del ’48 e la chiusura dei confini, quel viaggio era ormai impossibile. Perciò il regista israeliano, allora bambino, chiese alla mamma perché mai esponesse quei biglietti di «un Paese nemico». «Se è stato possibile in passato — rispose lei — potrebbe esserlo in futuro».
Ora nella penombra della Sala delle Cariatidi del Palazzo Reale di Milano, tra i riflessi di specchi antichi e le statue ferite dalle bombe della Seconda Guerra Mondiale, Gitai ci guida attraverso la sua mostra Strade/Ways . «È un dialogo con questa sala, ed è un dialogo di video, foto, tappeti», dice laconico. Tutta la mostra è una tessitura di storie rumorose, un metaforico tappeto, un tentativo di dialogo sul Medio Oriente. Ed è anche un modo di prendere appunti per il suo prossimo film, Carpet , un thriller che ha per protagonista un tappeto, nel cui disegno si nasconde la mappa di una centrale nucleare iraniana che il Mossad vuole bombardare.
Prima di parlare, il regista ci fa sedere a guardare uno dei suo corti più recenti, Il Libro di Amos — tappa fondamentale della mostra -, ambientato nella moderna Tel Aviv con attori ebrei e arabi che recitano un testo biblico sull’avidità e la corruzione. Dieci minuti di un unico piano sequenza: la lentezza senza tagli è il suo antidoto alla «realtà presentata dai media, ovunque nel mondo, in un modo demagogico e frammentario che può solo accentuare la mentalità fanatica anziché portare alla comprensione».
Poi ci conduce in mezzo alla sala, lungo un’esposizione di tappeti appesi accanto a foto da lui scattate in un lungo viaggio da Istanbul a Baku. C’è il monte Ararat, c’è il confine Turchia-Iran: «Qui sono nati i tappeti». Paesaggi militarizzati, spezzati da barriere, deturpati «dall’inquinamento, dal capitalismo eccessivo. Ma trovo che i confini imposti dagli esseri umani siano molto superficiali. Quando arrivi nel nord d’Israele, ti sembra naturale continuare il cammino, ma ti bloccano questi stupidi confini, questi campi minati fisici e mentali che sono un pretesto per politiche megalomani di incitamento all’odio».
Sotto la superficie delle barriere emergono intrecci più profondi. «Nel nordest dell’Iran, tradizionalmente sono le donne musulmane a tessere i tappeti. Invece le donne della comunità ebraica si occupano della tintura, mentre parte del commercio è in mano ai cristiani. Tre religioni monoteiste intrecciate in un modo creativo».
Il regista israeliano, non sempre capito in patria e «ferito» dalla propria regione (vive tra Haifa e Parigi), nota che «l’intero Medio Oriente sta diventando l’arena di una guerra, di una grande competizione per gli armamenti. Credo che si sia perso anche il motivo. Il conflitto è accelerato da tutti i partecipanti, nessuno è innocente. Tutti i Paesi del Medio Oriente hanno un qualche tipo di fanatismo nutrito dall’idea che solo un gruppo abbia ragione. Gli estremisti si sono sempre aiutati l’un l’altro: l’Isis, i fondamentalisti palestinesi, l’ultradestra israeliana forniscono giustificazioni gli uni agli altri. Per questo io cerco di mostrare le contraddizioni: fa capire che, se in qualche modo ognuno ha ragione, invece in altri modi non ce l’ha». L’artista per Gitai è un guaritore, come quelli che danzano per la pioggia, solo che lui vuol farci pensare. Ammette che l’arte non è il metodo più efficiente. «La mitragliatrice lo è di più. Ma qual è l’alternativa? Il nichilismo? Unirsi a Netanyahu e alle sue proposte xenofobe?», chiede riferendosi a una recente proposta di legge del suo premier, che definisce il carattere ebraico dello Stato d’Israele mettendo a rischio i diritti dei cittadini palestinesi.
Ci avverte comunque che non siamo nella migliore posizione per giudicare: «L’Europa ha dovuto bruciare l’intero continente per arrivare alla semplice conclusione che non c’era bisogno di uccidere. Sono sicuro che un giorno ci arriveremo anche noi, spero presto». Ci ricorda di non sottovalutare le utopie: «Dalla Bibbia al Marxismo hanno cambiato il mondo».

Repubblica 2.12.14
“Prostituta e santa vi svelo il segreto della Maddalena”
Lo studioso olandese Bert Treffers ha visionato con Mina Gregori l’ultimo capolavoro di Caravaggio
“È suo al 100%. E la donna ritratta è la senese Caterina Vannini”
di Dario Pappalardo


«SONO contento di non averlo mai avuto appeso sul mio letto. È un quadro aggressivo, spaventoso, ti attacca, ti rapisce. Un terribile capolavoro». La Maddalena di Caravaggio Bert Treffers la descrive così. Tra la meraviglia e l’inquietudine. Treffers è il secondo studioso al mondo ad avere visto da vicino il dipinto attribuito a Caravaggio da Mina Gregori, che ha annunciato la scoperta sulle pagine di Repubblica. Insegna Storia dell’arte alla Katholieke Universitet di Nijmegen ed è stato responsabile degli studi di Storia dell’Arte del Reale Istituto Olandese di Roma. In trent’anni di ricerche sul pittore, ha pubblicato saggi sull’iconografia delle opere di Michelangelo Merisi come Nel segno del Battista e L’ultimo Caravaggio. Il prossimo – Caravaggio e il Sacro. Dall’arte dell’inganno all’inganno dell’arte – sta per uscire da Shakespeare and Company 2, mentre un altro studio interamente dedicato alla Maddalena in estasi verrà pubblicato nel 2015.
Ora Treffers esce allo scoperto per raccontare la sua parte di storia da Amsterdam, dove è tornato a vivere dopo anni di lavoro a Roma.
Professor Treffers, come ha saputo della Maddalena?
«All’inizio non ci credevo. Negli ultimi anni ci sono state troppe scoperte improbabili e deludenti. Un giorno, alcune persone che conoscono i proprietari dell’opera mi hanno contattato, mostrandomi il dipinto in fotografia. Era molto scuro, sinceramente pensavo fosse una crosta. Poi, nel maggio del 2013, sono andato a vederlo con Mina Gregori. Mi sono presentato come avvocato del diavolo, ma mi sono arreso subito. Lei era raggiante. Mina Gregori ci ha visto giusto sin dall’inizio. Si è assunta la responsabilità di fare ripulire il quadro. E ha avuto ragione. Il mio ruolo in questa storia resta di secondo piano. L’incontro con la Maddalena di Caravaggio è stato un momento emozionante, irripetibile».
Quanto è certo dell’attribuzione?
«Ripeto quello che ha detto Mina Gregori: al cento per cento. Di questo soggetto esistono copie in tutta Europa. Come la Maddalena Klain di collezione romana, che è stata esposta in mostra in Vaticano: da lontano è un dipinto interessante, ma da vicino la sua pittura è poco spettacolare. Anche Luis Finson, che morì proprio qui ad Amsterdam nel 1617, dipinse più di una versione. Il confronto con questa Maddalena però non regge. Qui i particolari cadono al punto giusto».
Quali particolari?
«Innanzitutto, il ventre gonfio. Nelle copie è un dettaglio assente o appena accennato. In questo caso, invece, è dipinto con realismo estremo. La donna ritratta soffre di idropisia e rappresenta un riferimento storico preciso».
A cosa si riferisce?
«Come tramandano le fonti storiche, Caravaggio realizza una Maddalena nell’estate del 1606. È un momento cruciale per la sua vita: sta fuggendo da Roma dopo aver ucciso un uomo e sceglie di dipingere la santa del pentimento per antonomasia.Contemporaneamente, a Siena, sta morendo per idropisia una ex prostituta in odore di santità: Caterina Vannini. Dietro la Maddalena di Caravaggio, c’è lei. Già Maurizio Calvesi ave- va accostato la Vannini a Caravaggio per un’altra opera: la Morte della Vergine del Louvre».
Crede che entrambe rappresentino la Vannini?
«Sulla Vergine non sono sicuro. Non voglio mettere in dubbio la tesi di Calvesi, anche perché le due opere potrebbero essere state dipinte in tempi vicini. Ma nella Maddalena, al contrario del quadro del Louvre, la pancia gonfia appare di un naturalismo spietato, quasi crudele. E poi la Vannini, a cui il cardinale Federico Borromeo dedicherà una biografia nel 1616, era considerata una seconda Maddalena e, insieme, un’altra Caterina da Siena».
Perché?
«Secondo la tradizione, sia Caterina da Siena che la Vannini ebbero la visione della corona di spine di Cristo. Parteciparono alla Passione. E, se si guarda attentamente il quadro della Maddalena , in alto sulla sinistra, si nota proprio un crocifisso di legno grezzo con la corona di spine. Un dettaglio di verità rivolto allo spettatore che manca nella Maddalena Klain : è un dipinto che risente del misticismo seicentesco. Caravaggio inserisce attributi sacri nelle sue opere più di quanto si pensi. Il crocifisso torna ad esempio nel San Giovanni della Galleria Borghese e in quello di collezione tedesca: in questo caso, il santo si trova in una grotta come la Maddalena».
Dietro al quadro c’era un biglietto che recita: «Madalena reversa di Caravaggio a Chiaia ivi da servare pel beneficio del Cardinale Borghese di Roma». Pensa sia autentico anche questo?
«Io non l’ho visto. Il biglietto sarebbe caduto dalla rifoderatura della tela. Ora si trova in un cassetto dell’archivio dei proprietari: una famiglia con ramificazioni in tutta Europa. Ma non è un particolare così importante, per me. La scrittura è da valutare. Certo, se si dovesse stabilire che la grafia è seicentesca, potrebbe aggiungere un altro elemento di interesse. Ma l’opera parla da sola».
Non sarebbe giusto esporla,
adesso? Pensa che i proprietari lo accetteranno?
«Dobbiamo aspettare un po’, andare avanti con discrezione. E quindi convincerli a mostrare la Maddalena almeno a un gruppo allargato di esperti. Sono sicuro che l’incontro sarà scioccante. Questo è un quadro chiave, merita di essere esposto. E anche il pubblico ha il diritto di vederlo».
Potrebbe essere venduto?
«Non lo so. Credo di no. Se fossi io il proprietario, non saprei cosa fare per il peso storico del dipinto e la responsabilità enorme che un quadro del genere si porta dietro. Il valore poi sarebbe inqualificabile: cinquantaottanta milioni di dollari? Quale museo potrebbe permetterselo? Per fortuna non sono interessato a comprarlo, né a farlo vendere».
Qual è il suo desiderio adesso rispetto alla Maddalena?
«Di rivederla presto. Ma non avrei mai voluto esserne il proprietario: questo dipinto è allucinante».

La Stampa 2.12.14
La mappa del cosmo quando non c’erano stelle
A Ferrara 200 scienziati presentano gli ultimi dati del satellite “Planck”
“Così sono stati misurati i piani di vibrazione della luce primordiale”
di Marco Bersanelli


Cinquant’anni fa due radioastronomi americani, Arno Penzias e Robert Wilson, erano alle prese con un misterioso segnale registrato al Bell Laboratory. Ben presto si resero conto che lo strumento aveva catturato nientemeno che la prima luce dell’Universo. Questo debolissimo segnale, che oggi chiamiamo «fondo cosmico di microonde», ha viaggiato per l’intera età dell’Universo (quasi 14 miliardi di anni) e ci regala un’istantanea di com’era nella prima infanzia.
Da allora i cosmologi non hanno smesso di investigare questo straordinario fossile luminoso, le cui caratteristiche racchiudono un tesoro di informazioni. Nel 1992 il satellite della Nasa «Cobe» misurò per la prima volta piccole «increspature» nell’intensità della luce primordiale, a testimonianza che quel giovanissimo Universo già conteneva regioni di maggiore o minore densità, veri e propri «semi gravitazionali», dai quali avrebbero preso forma le galassie, le stelle e tutte le strutture che osserviamo oggi.
Sulla spinta di quella epocale scoperta, 22 anni fa, due gruppi in Italia e in Francia proposero indipendentemente all’Agenzia Spaziale Europea un progetto per spingere a grande precisione le misure di «Cobe». Nasceva così il satellite «Planck», lanciato nel 2009, il quale ha prodotto un’immagine ad alta definizione delle increspature primordiali, rilasciata lo scorso anno, di gran lunga superiore a quelle ottenute in precedenza.
Ieri è iniziato un nuovo passo in questa straordinaria storia. A Ferrara, 200 scienziati di tutto il mondo hanno aperto una conferenza, che continuerà per tutta la settimana, nella quale si presentano gli ultimi risultati della missione e, stavolta, analizzando i dati secondo un diverso punto di vista.
La luce - si sa - è un fenomeno ondulatorio. E come un’onda che si propaga su una fune agitata in su e in giù, così ogni raggio di luce «vibra» e si propaga in un piano, chiamato «piano di polarizzazione». «Planck» ha misurato con precisione senza precedenti il piano prevalente di vibrazione della luce primordiale nelle diverse direzioni del cielo. Si tratta di una proprietà finissima, con un segnale equivalente a pochi milionesimi di grado Kelvin, ma di estremo interesse. La statistica della polarizzazione, infatti, contiene una ricchezza di informazione sull’Universo primordiale almeno pari a quella della misure delle increspature di intensità.
Cosa ci dicono i nuovi risultati di «Planck»? Confermano in modo spettacolare il modello cosmologico standard, il quale con soli sei parametri descrive le proprietà globali dell’Universo. Combinando le misure di polarizzazione con quelle di intensità, «Planck» ha migliorato la conoscenza dei parametri che governano l’espansione, la composizione e la curvatura dell’Universo, arrivando alla precisione dell’1%. Paradossalmente, oggi conosciamo meglio l’Universo neonato di quanto conosciamo l’interno della Terra.
La polarizzazione, inoltre, è sensibile alla presenza di forme esotiche di materia ed energia nell’Universo. La materia oscura, in particolare, che costituisce il 26% delle galassie, è uno dei principali misteri della fisica: ora «Planck» dimostra che le misure di polarizzazione possono darci informazioni cruciali sulle sue proprietà. I nuovi risultati, inoltre, impongono nuovi limiti sulla massa dei neutrini e dimostrano che il numero di specie di queste particelle sfuggenti è tre, come previsto.
Ma non è finita qui. Entro il 2015 la «Collaborazione Planck» (sostenuta da una formidabile componente italiana attraverso l’Asi, l’Inaf e le università di Milano, Padova, Ferrara, Trieste, Sissa e La Sapienza) produrrà l’analisi finale dei dati della missione. E le sorprese dal cosmo sono sempre in agguato, come ben sanno Penzias e Wilson.
Ordinario di Astrofisica Università di Milano