mercoledì 3 dicembre 2014

Corriere 3.12.14
«Me lo so’ comprato»
Così la mafia di Roma arruolava politici e “amici” nel Pd
I boss cambiavano perfino il bilancio
di Fiorenza Sarzanini

qui

Corriere 3.12.14
Scossa nella giunta Marino, si apre il caso del Pd
di Alessandro Capponi


Si dimettono un assessore e il presidente del consiglio comunale. Il ministro Boschi: chiarezza nel partito

ROMA L’inchiesta terremoto ha un epicentro esatto, il Campidoglio: decapitata l’assemblea capitolina (il presidente dell’aula Giulio Cesare, Mirko Coratti, Pd, area Popolari, dimesso), mutilata la giunta (l’assessore alla Casa, Daniele Ozzimo, Pd, area Marroni, dimesso), indagato anche il capo anticorruzione del Campidoglio (Italo Politano, teneva i corsi sulla trasparenza per i dirigenti, nominato a novembre sarà rimosso).
E però il sindaco Ignazio Marino adesso può sentirsi più forte nel rapporto col Pd: non è mai stato semplice, non c’è mai stato feeling, ma ora la parte più solida pare essere quella del chirurgo dem. Il quale, per mesi, è stato esposto alle critiche feroci della sua stessa maggioranza. Difficile immaginare cosa accadrà: il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, è da tempo consapevole delle difficoltà sia di Marino sia del partito romano e ieri il ministro per le riforme, Maria Elena Boschi, ha detto che «il Pd romano deve fare chiarezza. Mi sento di chiederla perché evidentemente a Roma c’è un problema».
C’è un rimpasto in ballo, in Campidoglio, del quale si discute da mesi. Anzi, poche settimane fa l’ormai ex presidente del Consiglio comunale aveva pubblicamente chiesto «l’azzeramento» della giunta: non c’è mistero nel fatto che avesse l’ambizione di entrare nella squadra. Non solo: «Se si andasse a votare non sarebbe un problema» avevano gridato al microfono alcuni consiglieri pd. Per Marino, quindi, il fuoco amico non s’è mai risparmiato. Lui ora rilancia: «Questa storia è la prova che bisogna fare pulizia».
Certo, l’inchiesta scuote il Campidoglio: porta anche alla perquisizione dell’ufficio di Mattia Stella, responsabile dell’attuazione del programma che, precisa la Procura, «non è indagato». Nessuno degli uomini più vicini al sindaco pare toccato da Mondo di mezzo. Ma l’inchiesta vale un terremoto: per il Pd, per Marino, per Roma.


il Fatto 3.12.14
La malavita di Larghe Intese
di Marco Lillo


Ci sono intercettazioni che restano nella storia criminale di un paese. Il “mondo di mezzo” evocato da Massimo Carminati entra di diritto nella top ten assieme a grandi classici come “i furbetti del quartierino”. Il mondo di mezzo, secondo il boss arrestato come capo di “Mafia Capitale”, è il luogo in cui “tutto si mischia nel mezzo perché la persona che sta nel sovramondo (politico o imprenditore, ndr) ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non può fare nessuno”. Sarebbe consolante dire che la terra di mezzo in cui sono fioriti 37 arresti è la destra romana. Invece in quel luogo si mischiano non solo i destini di Gianni Alemanno, un sindaco che sembrava volere diventare premier, e Massimo Carminati, condannato per un furto inquietante di miliardi e segreti nel Palazzo di Giustizia e coinvolto (ma sempre assolto) nei fatti più inquietanti della storia d’Italia: dall’omicidio del giornalista Mino Pecorelli al depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna. No. Nella terra di mezzo si mischiano destra e sinistra, oltre che sovramondo e sottomondo. La “Mafia capitale” guidata da Carminati secondo i magistrati aveva a libro paga anche politici di primo piano del Pd. Nella terra di mezzo, il boss che ha ispirato il “Nero” di Romanzo criminale, il “fasciomafioso” Carminati ha come braccio destro un criminale svelto di mano, Riccardo Brugia, e come “braccio sinistro” il re delle cooperative sociali Salvatore Buzzi: già condannato per omicidio e poi riabilitato. Buzzi “il rosso” si vanta di pagare tutti e di dare 5mila euro al mese all’ex vice capogabinettodel sindaco Veltroni, poi nominato capo della Polizia provinciale, Luca Odevaine, anche lui indagato. La notizia non è quindi Carminati, ma Buzzi: un ex detenuto simbolo della resurrezione dal carcere che presiede un impero da 50 milioni. Con la sua cooperativa aderente alla Lega delle coop rosse, già guidata dal ministro Giuliano Poletti, fa soldi nel business dei campi nomadi e dell’assistenza ai rifugiati e poi divide col “nero”. A maggio Buzzi chiudeva così la sua relazione all'assemblea della Cooperativa29giugno: “Un augurio di buon lavoro al ministro Poletti, nostro ex Presidente nazionale che più volte ha partecipato alle nostre assemblee; al governo Renzi, affinché possa realizzare tutte le riforme che si è posto come obiettivo, l’unico modo per salvare il nostro Paese”. La terra di mezzo non ha confini netti. Non è la destra, non è Roma: è l’Italia.

Repubblica 3.12.14
“Ho arruolato sei assessori la scuderia ormai è pronta”

E la cupola infiltrò la sinistra
di Mauro Favale e Giovanna Vitale


ROMA . Giugno 2013, il centrosinistra vince le elezioni: la giunta Alemanno cede il passo alla giunta Marino. Mafia capitale deve riorganizzarsi. Individuare all’interno della nuova amministrazione referenti all’altezza, politici con cui proseguire gli affari, dirigenti e funzionari da corrompere per mantenere i benefici di prima. Ma non si perde d’animo, in fondo parte avvantaggiata. Come Massimo Carminati copriva il versante dell’estrema destra, Salvatore Buzzi è uomo di sinistra, con solide relazioni da Pd a Sel, e tuttavia trasversale: capace di finanziare la campagna elettorale di Alemanno e di cercare voti per le primarie dem. Vantandosi: «Me li sto a compra’ tutti», dal presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti all’assessore alla Casa Daniele Ozzimo, entrambi indagati per corruzione (e ieri dimessi). Pronto a parlare d’appalti con Mattia Stella, capo segreteria dell’attuale sindaco, e col vice vendoliano Luigi Nieri, tramite il quale «prendere le misure a Marino». Persino di condizionare le nomine nei posti chiave della macchina comunale: a cominciare da quella di Italo Walter Politano al segretariato generale, responsabile dell’anticorruzione.
È il 14 giugno 2013, cinque giorni dopo il cambio della guardia in Campidoglio, quando Buzzi chiama Carminati per aggiornarlo sui suoi rapporti con i nuovi inquilini del palazzo: «Sono in giro per i dipartimenti a saluta’ le persone», dice. «Devi vendere il prodotto amico mio, eh. Bisogna fare come le puttane adesso, mettiti la minigonna e vai batte co’ questi», lo incalza l’ex Nar. La preoccupazione è di trovarsi fra i piedi gente poco disponibile. «Noi i nostri desiderati li abbiamo espressi, poi se saremo accontentati... », sospira Buzzi, millantando di avere già arruolato «sei» assessori compiacenti: «La scuderia è pronta», afferma, «e poi si cavalcherà», replica Carminati. Un autentico teorico della contaminazione tra il mondo di mezzo (loro) e il sopramondo (politici e funzionari): nella conversazione intercettata il 20 giugno con il conduttore radio Mario Corsi, il “guercio” spiega come occorresse andare a «bussacchiare» agli uffici del Comune per accreditarsi con i neoeletti e garantirsi gli appalti: «Gli si dice adesso che cazzo... ora che abbiamo fatto questa cosa, che progetti c’avete? Teneteci presenti per i progetti che c’avete, che te serve? Che cosa posso fare? Come posso guadagnare, che te serve il movimento terra? Che ti attacco i manifesti? Che ti pulisco il culo... ecco, te lo faccio io perché se poi vengo a sape’ che te lo fa un altro, capito? Allora è una cosa sgradevole…». Un misto di blandizie e di minacce. Buzzi sa come si fa. In Campidoglio conosce tutto e tutti. Fra i “nuovi” individua tre persone utili alla causa: Franco Figurelli, capo segreteria del presidente del consiglio comunale Mirko Coratti (stipendiato con mille euro al mese, più 10mila sborsati solo per farglielo incontrare); Coratti stesso, accusato di aver intascato una tangente da 150mila euro; il capo segreteria del sindaco, Mattia Stella, che non risulta indagato ma intratteneva rapporti assidui con il boss delle cooperative. Tre link fondamentali per la Mafia capitale: il trait d’union da Alemanno a Marino, senza pagare dazio.


il Fatto 3.12.14
Coop e soldi appalti rossi sotto la lupa “nera”
Il compagno Buzzi procacciatore di occasioni, da Rutelli ad Alemanno
di Paola Zanca


Due settimane fa, mentre il sindaco di Roma Ignazio Marino sventolava in consiglio comunale le ricevute delle multe della Panda rossa pagate, l’altro “re di Roma”, Salvatore Buzzi, si aggirava indaffaratissimo tra i corridoi e la buvette del Campidoglio. Abbracci, parole all’orecchio, sguardi di intesa: il sindaco traballa ma noi restiamo in piedi. Non è un racconto colorito, quello sul presidente della Cooperativa 29 giugno, finito ieri in carcere perché in affari con la banda di Massimo Carminati. Eppure, di colore, nella sua biografia ce n’è parecchio. Condannato agli inizi degli anni ‘80 per omicidio doloso, resta in carcere fino al '91. Durante i giorni in prigione, gli viene un'idea: una cooperativa per reinserire gli ex detenuti nel mondo del lavoro. Organizza, da dietro le sbarre, un convegno per trovare sponde al suo progetto. E l’indimenticata Miriam Mafai firma un articolo che celebra questa storia di riscatto, perchè le “è venuta voglia di scommettere sull' ottimismo, sulla fiducia, sulla capacità di uscire in positivo dalle nostre difficoltà”. Non sbagliava, l'occhio della cronista. Buzzi esce, ingrana la prima e mette su un colosso con un migliaio di dipendenti e 60 milioni di euro di fatturato annuo. E da Rutelli in poi, la 29 giugno si lega a doppio filo con il Comune di Roma.
Chi campa di politica e i soldi sul Comune
Per spiegare bene come funzionano le attività di Salvatore Buzzi basta rileggere le sue parole, alla vigilia delle elezioni comunali del 2013: “La cooperativa campa di politica, perché il lavoro che faccio io lo fanno in tanti, perché lo devo fare io? Finanzio giornali, faccio pubblicità, finanzio eventi, pago segretaria, pago cena, pago manifesti, lunedì c’ho una cena da ventimila euro pensa... questo è il momento che paghi di più perché stanno le elezioni comunali, poi per cinque anni…poi paghi soltanto…mentre i miei poi non li paghi più poi quell’altri li paghi sempre a percentuale su quello che te fanno. Questo è il momento che pago di più… le comunali, noi spendiamo un sacco di soldi sul Comune”.
Le primarie, i compagni e il voto disgiunto
Chiama Massimo Carminati “amico mio”. Ma Buzzi, ufficialmente, è uomo di sinistra. E una distinzione ancora la fa: “Vedi - spiega al sodale Giovanni Campennì -i nostri sono molto meno ladri di... di quelli della Pdl”. Suo grande riferimento è Umberto Marroni, ex capogruppo del Pd in Campidoglio. Marroni (poi si ritirerà) pensa di candidarsi alle primarie contro Ignazio Marino. Nel giro di Buzzi non capiscono: “Macome me tocca votà Marroni - dice Alessandro Montani - questa volta veramente mi incazzo, se non voti Alemanno veramente... ti sputtano a tutto il mondo... l'ho detto a tutti, ho detto guarda che l'unico che ci ha guadagnato qualche cosa da Alemanno è stato Salvatore! ”. E Salvatore non dimentica. Marroni andrà alla Camera e “ormai Umberto colle cose del Comune non c’entrerà più niente, eh! ”, chiarisce Buzzi. Daniele Ozzimo è l’uomo di Marroni ora in corsa per il Campidoglio (è diventato assessore, ieri si è dimesso) e per capire i rapporti stretti con Buzzi, basta vedere un sms che Micaela Campana, responsabile Welfare del Pd, ex moglie di Ozzimo, scrive allo stesso Buzzi: “... bacio grande Capo”. Ma al bando le affettuosità, bisogna pensare agli affari. E coprirsi a destra e a sinistra. Così, Buzzi chiama Claudio Milardi, componente dello staff di Alemanno. Lo chiama “compagno”. Lui sta al gioco: “Compagno Milardi ti passa il compagno Alemanno”. Buzzi ride, Alemanno si fa serio: “Allora? Ma è vera ‘sta storia del disgiunto? ”. Buzzi lo rassicura: “Facciamo il disgiunto, facciamo. Ozzimo ed Alemanno”. Il sindaco uscente ringrazia: “Eh, questo... questo mi onora molto”.
La minigonna per battere e i consigli di Massimo
Nonostante il voto disgiunto, Alemanno perde e in Campidoglio arriva Ignazio Marino. Buzzi non perde tempo e a pochi giorni dall’insediamento del nuovo sindaco è già “in giro per i Dipartimenti a saluta’ le persone”. Lo comunica a Carminati, ben contento dell’intraprendenza: bisogna “vendere il prodotto amico mio, eh. Bisogna vendersi come le puttane ades… adesso”. Ci sono difficoltà, nuovi dirigenti da conoscere e tante cose da spiegare. Carminati fa il motivatore: “e allora - dice a Buzzi- mettiti la minigonna e vai a batte co' questi amico mio, eh... capisci”. Qualche colpo va a segno. “Ohhh... me so’ comprato Coratti”, annuncia Buzzi a un amico, spiegando il nuovo sodalizio con il presidente dell’Assemblea Capitolina, Pd anche lui (pure lui si è dimesso ieri). Racconta che si sono intesi al volo: “Gliel’ho detto ‘guarda, lo stesso rapporto che c’abbiamo con Giordano (il Pdl Tredicine, ndr) lo possiamo aver con te’.. m’ha capito subito! ”.
Nomine, multe e libro paga sempre pieno
C’è un direttore da piazzare, quello alle Politiche Sociali, dove transitano gare e affidamenti. Buzzi lo racconta direttamente a Carminati: “Senti poi forse.. è pure prematuro dirlo però il novanta per cento siamo riusciti a piazzà l’amico nostro al Quinto Dipartimento e quindi avemo fatto bin.. (inc).. lui non ce voleva andà, gli avemo garantito duemila euro al mese in più noi... ‘vacce, te damo duemila euro in più’”. Quello è un posto chiave, spiega ancora Buzzi, “... perché oggi non c’avemo nemmeno informazioni.. non sapemo quello che succede non sapemo niente.. ”. Marino nel frattempo è finito nel caos multe. Buzzi è ancora al telefono con Carminati: “Senti un pò se senti Gramazio (capogruppo di Forza Italia in regione Lazio, ndr) che intenzioni c’hanno loro con Marino perché se fossero abbastanza seri dovrebbero fallo cascà a Marino... ” Carminati però ha un’altra lettura: “No, loro stanno facendo (...)... loro stanno facendo un’operazione direttamente con Zingaretti per sistemarsi Berti questi qua, pe sistemasse... perché de Zingaretti se fidano de Marino non se fida nessuno... ”. Il nome del presidente della Regione Lazio torna anche in un’altra intercettazione, quando Buzzi squaderna il suo libro paga. Scrive il giudice: “a Luca Odevaine (si veda qui in basso, ndr) dava 5mila euro al mese, a Mario Schina dava 1500 euro al mese, ad “un altro che tiene i rapporti con Zingaretti 2500 al mese. Un altro che tiene i rapporti con il Comune1500, unaltroa750….. un assessore a 10mila euro al mese”.
L’eredità del capo ”So’ soddisfazioni”
Ma di tutte le fatiche, per Buzzi, la ricompensa più grossa è la fiducia del Capo, Carminati: che gli affida 500 mila euro. “Io c’ho… c’ho... i soldi suoi - racconta - lui sai cosa m’ha detto quando… c’aveva paura che l’arrestavano (...) è venuto da me dice ‘guarda qualunque cosa succede ce l’hai te, li tieni te e li gestisci te, non li devi dà a nessuno, a chiunque venisse qui da te… nemmeno mia moglie’, non so’ soddisfazioni? ”.

Il Sole 3.12.14
Immigrazione, un affare d’oro
Da Odevaine a Buzzi
Il business dei centri di accoglienza
Per tutti noi quella di Mare Nostrum è stata una tragedia. Per loro un’opportunità criminale
di Claudio Gatti


«In una situazione di crisi, occorre guardarsi dai pericoli ma saper riconoscere le opportunità». Lo ha detto John F. Kennedy nel 1959 a Indianapolis. Ma negli ultimi 40 anni chi ha saputo metterlo in pratica meglio di chiunque altro a Roma è stato Massimo Carminati, l’ex terrorista dei Nar affiliato alla Banda della Magliana che da decenni coniuga politica, affari e criminalità organizzata nella capitale del nostro Paese.
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Per tutti noi quella di Mare Nostrum è stata una tragedia. Per Massimo Carminati un’opportunità. Da un’inchiesta condotta negli ultimi mesi da Il Sole 24 Ore, e convalidata ieri dalla serie di arresti in seguito all’indagine condotta dal Servizio centrale del Ros e dalla sua sezione Anticrimine di Roma per conto della Procura , è emerso che quello dei «barconi della speranza», anziché un’emergenza umanitaria, è stato un grande business. Per Carminati è stata anche un’occasione per rafforzare quella tela di relazioni grazie alla quale nel sottobosco romano è noto anche come «l'ultimo re di Roma».
Carminati si è dimostrato un re magnanimo. Che ha saputo condividere con la sua corte. E in quest’ultima vicenda in particolare con quello che la Procura ritiene sia stato il suo socio occulto, Salvatore Buzzi, presidente di un importante consorzio di cooperative legate alla LegaCoop, le cosiddette «cooperative rosse».
Attenzione, non si sta parlando di attività criminali - di droga, di pizzo o di economia sommersa. No, a predisporre e raccordare l’emergenza migranti è stato il «Tavolo di coordinamento nazionale» presieduto dal più istituzionale dei ministeri, quello dell’Interno, del quale era membro un uomo prezzolato dal duo Carminati-Buzzi. Leggendo gli atti dell’indagine «Mondo di mezzo», diretta dai pm romani Giuseppe Cascini, Paolo Ielo e Luca Tescaroli, torna in mente un altro tavolo, parliamo de «U tavolinu», dove il «ministro dei Lavori pubblici» di Cosa Nostra, Angelo Siino, spartiva appalti e fondi pubblici con aziende e politici. Il ruolo di Siino, secondo le accuse della Procura di Roma, sarebbe stato svolto da Luca Odevaine, l’uomo al servizio del duo criminale membro del Tavolo di coordinamento nazionale, ex direttore di gabinetto del sindaco Walter Veltroni, ex capo della polizia provinciale e Protezione civile con Nicola Zingaretti, ed ex pregiudicato.
Dall’indagine de Il Sole 24 emerge che, per via delle centinaia di milioni di fondi statali e comunitari, quella dell’accoglienza è stata una straordinaria mangiatoia. Per capirlo basta questa frase di Buzzi a un complice: «Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati, eh? Il traffico di droga rende di meno».
A mangiare tutti insieme appassionatamente sono stati i «fascio-mafiosi» di Carminati che secondo la Procura avevano in Gianni Alemanno l’esponente politico di riferimento di maggior spicco e i «rossi» di Buzzi, che avevano invece al proprio servizio uno stretto collaboratore del predecessore di Alemanno al Campidoglio, Walter Veltroni. In una sorta di iper-compromesso storico criminal-clientelare condotto in piena luce del sole e, almeno formalmente, sotto la tutela delle massime autorità dello Stato. Per usare le parole del Gip Flavia Costantini, è infatti emerso «un trait-union tra mondi apparentemente inconciliabili, quello del crimine, quello della alta finanza, quello della politica».La prima fase del «business dei migranti» inizia nell’estate del 2008, quando arriva la prima grande ondata di immigrati. Il 25 luglio di quell’anno, per fronteggiarla, il Governo Berlusconi dichiara lo stato d’emergenza che attribuisce ai prefetti potere derogatorio. Il 6 agosto Angelo Chiorazzo, un potentino trasferitosi a Roma e legato al mondo dell’ex Dc, si reca a Palazzo Chigi per incontrare il sottosegretario Gianni Letta.
Chiorazzo è rispettivamente presidente e consigliere d’amministrazione de La Cascina e di Auxilium, che insieme formano una rete di cooperative «cattoliche». E pensa di avere le carte in regola: la Auxilium già gestisce il Centro di accoglienza richiedenti asilo (Cara) di Bari e quello di Ponte Galeria, a Roma.
Letta lo mette subito in contatto con l’uomo che dal Viminale gestisce l’emergenza umanitaria per il Governo, il prefetto Marco Morcone, già allora capo del Dipartimento Immigrazione del Ministero, il quale apre una corsia preferenziale per Chiorazzo. E, grazie al regime derogatorio previsto da un’ordinanza del Consiglio dei Ministri, nel giro di pochissimo tempo, Auxilium ottiene un appalto da oltre un milione per aprire un nuovo Cara a Policoro, in provincia di Matera (terra di Chiorazzo e di suo fratello Pietro, anche lui impegnato nello stesso business).
Che tempistica e modalità fossero del tutto inusuali lo hanno dichiarato il prefetto di Matera Giovanni Monteleone e il suo collaboratore Michele Albertini, nelle loro deposizioni al pm Henry Woodcock (che sulla vicenda aveva aperto un’inchiesta, conclusasi con l’archiviazione delle posizioni di Letta e Morcone).
«Non risultava nessun tipo di gara» testimonia Albertini, «e il ministero - la direzione centrale - ci diceva anche il prezzo che avremmo dovuto pagare.… In tre mesi abbiamo quantificato circa 1 milione e 200mila euro, per cui capite bene che non stiamo parlando di noccioline. Quindi sollevai questa problema: “guardi io non sottoscrivo nessuna convenzione, fino a quando voi per iscritto non ci dite che lo schema è quello, che la ditta è quella, che il prezzo è quello. Perché almeno che risulti che io sto sottoscrivendo 49 euro perché me lo state dicendo voi, non perché io ho valutato se 49 euro è un prezzo congruo o meno”… Altrimenti, sinceramente con tutte le deroghe della norma io non avrei sottoscritto nulla».
Le stesse perplessità le manifesta il prefetto Monteleone: «Un giovedì mi ha chiamato il prefetto Morcone e mi ha detto: “Abbiamo individuato nella città di Policoro una struttura ricettiva dove sabato arriveranno duecento extracomunitari. Perché c’è un’emergenza nazionale”. Io sono rimasto molto sorpreso, perché mi sono trovato, diciamo, bypassato (…) Mi dissero che (…) che sarebbe seguita di lì a poco una convenzione-tipo che dovevamo far firmare alla Prefettura, senza sapere chi fossero questi qua. Io ho appreso dopo di questa Auxilium. L’ho appreso un giorno dopo, due giorni dopo (…) E' arrivato tutto prestabilito da Roma. Tutto».
La seconda fase del business dei migranti ha inizio nella primavera del 2011, quando il Governo Berlusconi requisisce il «Villaggio degli aranci», un complesso residenziale di 404 unità abitative costruito dalla ditta Pizzarotti e C. Spa, di Parma, su 25 ettari nella piana di Catania appartenente (nulla e che vedere con l’omonimo attuale sindaco di Parma ndr). Occupato fino a poco prima dai militari americani di base a Sigonella, il Villaggio viene trasformato nel Cara di Mineo. Anche lì, sempre grazie al regime di deroga, l’appalto viene assegnato senza gara al ribasso. A prenderlo è un raggruppamento che, oltre alla stessa Pizzarotti, include Legacoop (le ex cooperative rosse), la Cascina, e il Consorzio «Calatino terra di Solidarietà», ente creato dai comuni locali popolato da persone legate all’attuale ministro dell’Interno Angelino Alfano. A occupare la poltrona di presidente del Consorzio è Giuseppe Castiglione, prima presidente della Provincia di Catania, poi deputato del Pdl e ora sottosegretario all’Agricoltura in quota Ncd da sempre legato al ministro, e dopo di lui Anna Alois, neo-eletta sindaco di Mineo, anche lei del Ncd. Esperto del presidente del Consorzio: Luca Odevaine.
Nell’estate del 2012, indagando su Carminati per conto dei Pm di Roma Paolo Ielo e Giuseppe Cascini, i carabinieri del Ros si accorgono del suo coinvolgimento nella gestione di un campo-nomadi alla periferia di Roma. E scoprono il suo legame con Salvatore Buzzi, un pregiudicato divenuto presidente di un consorzio di “cooperative sociali” legate alle Legacoop (vedi box).
«Si erano divisi il mercato distribuendo mazzette. In pratica ogni appalto era diviso in lotti di maggioranza e lotti di minoranza», rivela a Il Sole 24 Ore una fonte che chiede l’anonimato. Il grande salto avviene nel periodo di Alemanno, quando le cooperative controllate dal sistema «Carminati/Buzzi» moltiplicano di oltre 15 volte il proprio fatturato. Ma la vittoria elettorale di Ignazio Marino non cambia nulla. Anche perché, come spiega lo stesso Buzzi in una conversazione captata dal Ros alla vigilia delle elezioni comunali del 2013, l’associazione si era coperta su ogni fronte: «La cooperativa campa di politica. Il lavoro che faccio io lo fanno in tanti, perché lo devo fare io? Finanzio giornali, finanzio eventi, pago segretaria, pago cena, pago manifesti. Lunedì c’ho una cena da ventimila euro (...) C’ho quattro cavalli che corrono col Pd, con la Pdl ce ne ho tre e con Marchini c’è... c’ho rapporti con Luca (Odevaine) quindi va bene lo stesso. Lo sai a Luca quanto gli do? Cinquemila euro al mese. Ogni mese (…) un altro che mi tiene i rapporti con Zingaretti 2.500 al mese. Un altro che mi tiene i rapporti al comune 1.500, un altro a... sette e cinquanta... un assessore diecimila euro al mese… ogni mese, eh! (…) Per le elezioni siamo messi bene… siamo coperti».
Una volta arrivati a Odevaine gli investigatori raggiungono il cuore istituzionale dell’emergenza migranti. In quanto responsabile della protezione civile della provincia di Roma (con Zingaretti), Odevaine era infatti entrato a far parte del Tavolo di coordinamento nazionale istituito dal Viminale per fronteggiare la crisi.
Una circolare del ministero dell’Interno del 13 dicembre 2012 spiega che una della mission del Tavolo è quella di «provvedere all’elaborazione di un’ipotesi di ripartizione» dei compiti. A coordinare la ripartizione delle mazzette secondo la Procura sarebbe invece stato Odevaine. Nell’ordinanza del Gip si legge infatti che costui ha fatto in modo di «orientare le scelte del Tavolo di coordinamento nazionale al fine di creare le condizioni per l’assegnazione dei flussi di immigrati alle strutture gestite dai soggetti economici riconducibili a Buzzi».
I politici avevano anche un benefit collaterale: il ricorso alle cooperative per gli appalti ha infatti favorito la costituzione e il controllo di preziosissimi bacini di voti.
http://gradozeroblog.it

Il Sole 3.12.14
Dal Viminale nessuna risposta
Richieste di documenti senza successo
Solo Bruxelles alla fine dà il materiale


Il Sole 24 Ore ha iniziato a indagare sul business dell’accoglienza mesi fa, quando ha per la prima volta sentito parlare di un giro di mazzette pagate a politici e figure istituzionali per dirottare migranti su centri gestiti da talune cooperative legate alla Legacoop.
Dopo aver appurato che la voce era fondata abbiamo contattato il ministero dell’Interno chiedendo l’elenco dei contratti di appalto assegnati e le copie dei rapporti di “valutazione finale” che il Viminale aveva annualmente inviato a Bruxelles per certificare attività e modalità di spesa dei fondi comunitari ottenuti per far fronte all'emergenza migranti. Parliamo di oltre 214 milioni di euro.
La prima richiesta formale l’abbiamo inviata per posta elettronica all’ufficio stampa del Viminale il 24 settembre scorso. Dopo una settimana circa ci è arrivata una telefonata di Edoardo D’Alascio, collaboratore del Prefetto Morcone, il quale suggeriva un incontro con il prefetto «per orientare al meglio il lavoro di raccolta dati e arrivare con maggiore velocità a fornire i dati stessi». Abbiamo spiegato che un incontro sarebbe stato maggiormente gradito dopo e non prima l’invio dei dati. Da allora - era l’inizio di ottobre - il ministero ci ha bombardato di dati non richiesti ma, nonostante 39 email di sollecito, né il prefetto Morcone né la portavoce del Ministro Alfano hanno provveduto a farci avere risposte. Le copie dei «rapporti di valutazione finale» le abbiamo comunque ottenute. Da Bruxelles. Nell’ultimo rapporto redatto, quello relativo al 2011, si parla di «miglioramento della capacità di interagire con i richiedenti/ titolari di protezione internazionale e orientare questi ultimi verso i diversi servizi di accoglienza, integrazione e cura offerti dal territorio». Le forme di «orientamento» adottate non sono specificate. Dall’indagine dei Ros risulta ora che la più efficiente prevedeva l’uso di mazzette e che a beneficiare dei fondi europei sono stati enti e cooperative accusate di aver operato grazie al sistema Carminati-Buzzi.

il Fatto 3.12.14
“La droga? Meglio i rom e gli stranieri”
Accoglienza d’oro: oltre 2 milioni di euro l’anno per un campo
Casamonica “mediatori culturali”
di Silvia D’Onghia


Il senso di Buzzi per le “persone appartenenti alle fasce deboli della società” - mission delle coop - sta tutto in queste parole: “Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? ”. “Non c’ho idea”. “Il traffico di droga rende meno”. Parlando al telefono con la sua collaboratrice Piera Chiaravalle, il dominus delle cooperative riconducibili al gruppo Eriches-29 Giugno non si fa troppi scrupoli morali. Gli immigrati, come i nomadi, hanno un solo colore: quello dei soldi. Tanti, tantissimi. “A 67 euro ce guadagnamo un sacco de soldi, però chissà quando pigliamo i soldi, questo è il problema”, spiega Buzzi al suo fidato collaboratore Sandro Coltellacci. Buzzi paga tutti, ma “tutti i soldi utili li abbiamo fatti sui zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero”. L’unico problema è che il Campidoglio non paga, e ogni volta per poter ottenere la grana bisogna smuovere il mondo. Perchè il Comune non approva il bilancio, non trova i fondi, addirittura li deve stornare da altre voci o deve aspettare il trasferimento dal ministero dell’Interno: 17 milioni destinati, in realtà, ai minori. È il gioco “delle tre carte”, e allora se cala una voce aumenta l’altra, “e allora i minori? ” “i minori s’attaccamo al cazzo”.
Buzzi fa il matto, perchè ha ricevuto da Carminati 500mila euro del suo patrimonio personale (del resto è l’unico di cui l’ex Nar si fidi davvero) e li ha investiti nel campo nomadi di Castel Romano. E allora quel campo deve fruttare. “I fondi per il 2013 e 2014 per la transazione e il nuovo campo non sono stati messi e sono 2.340.544,92 per il 2013 e 2.240.673,26 vi sono solo i fondi extra per il nuovo campo pari a 455.000,00 il resto e ancora zero”, scrive Buzzi ad Alemanno, Coltellacci, Luca Gramazio, Antonio Lucarelli (capo segreteria del sindaco). A lungo ha tentato di risolvere la faccenda con Angelo Scozzafava, direttore – all’epoca – del dipartimento Promozione dei servizi sociali e della salute del Comune. In cambio, dicono gli inquirenti, gli avrebbe promesso l’assegnazione di un appartamento di una cooperativa. “Io sono andato pure da Scozzi – spiega al telefono con Carminati – Scozzi, perchè mi cachi il cazzo? ”. Il problema principale è che il Campidoglio guidato da Alemanno non ha un euro in cassa: “Ma se il bilancio è già stato fatto, cioè tu non c’hai una lira, chi cazzo te lo finanzia? ”, chiede a Scozzafava. “E lo cerco da un’altra parte, eeh... siamo chiari su questo che lui mi deve pre, eh lui, lui adesso ha fatto un bilancio così, senza sentì le esigenze o meno, chiuderò qualcos’altro”, gli risponde il dirigente. A sbloccare i pagamenti è proprio Gramazio, che Buzzi – in quest’occasione – incontra in un bar. “Dell’esito – scrive il Gip – Gramazio si attribuiva parte del merito”. E meno male, si direbbe sarcasticamente leggendo le parole di Lucarelli (che ha il terrore di Carminati): “Devi accenne un monumento pe’ sta’ storia che ieri sera è successa l’ira de’ Dio, se non sarvamo quella roba dei nomadi... sai che succedeva”. Oltre a quello economico, c’è un problema logistico: il rapporto con i nomadi, il cui campo –Castel Romano – gravita nell’area di interesse del clan Casamonica. E allora quale miglior “mediatore culturale” di Luciano Casamonica, che “parla la stessa lingua” dei rom?
IL CAPITOLO “accoglienza” passa invece per le mani di Luca Odevaine, che siede al Tavolo di coordinamento nazionale sull’accoglienza per i richiedenti e titolari di protezione internazionale. L’ex vice capo di Gabinetto di Veltroni, secondo il giudice, è in grado di smistare il flusso degli arrivi nei centri di accoglienza, “suggerendo” soluzioni e favorendo le imprese a lui amiche. Addirittura, “si attribuiva la paternità di una valutazione del ministero dell’Interno con la quale era stato aumentato il numero dei posti Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, ndr) nell’area romana”. Odevaine ne ha anche per il Prefetto Rosetta Scotto Lavina, direttore centrale per le politiche dell’immigrazione e dell’asilo: “Questa è un’imbecille – dice al telefono con una sua collaboratrice –. Non capisce un cacchio... Lei è in difficoltà perchè... continuano gli sbarchi e non sa dove mettere le persone”. E per questo le fa scrivere un appunto con alcune indicazioni. Anche questi sono soldi. “A 28 euro... ce se rimette”, spiega Buzzi a Odevaine. “Non lo so però magari te alzi i numeri... perchè guarda quanti ce ne stanno già nel Lazio”.

La Stampa 3.12.14
Gli anni della grande bruttezza
di Fabio Martini

qui

Repubblica 3.12.14
La Capitale da rifondare
Un calderone maleodorante nel quale si mescolavano criminalità mafiosa, estremismo neofascista, imprenditoria malata e politica corrotta
di Sebastiano Messina


SCOPERCHIANDOLO il procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone ha svelato il mistero dell’ingovernabilità di Roma. La capitale era in realtà governata benissimo — naturalmente ai propri fini — da questa banda di criminali che sapeva usare la prepotenza della pistola, l’odore dei soldi, la solidarietà tra camerati e la forza del clan per mettere le mani sugli affari che passavano per il Comune di Roma e per le sue controllate, a cominciare dall’Ama, l’azienda dei rifiuti. Quella che faceva capo a Massimo Carminati — l’ex terrorista nero dei Nuclei Armati Rivoluzionari legato alla banda della Magliana, l’uomo che come hanno accertato i magistrati «manteneva i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali, con pezzi della politica e del mondo istituzionale e finanziario e con appartenenti alle forze dell’ordine e ai servizi segreti» — era una creatura mai vista, un intreccio perverso e spietato tra la malavita mafiosa e il governo della capitale, legati da un filo nero — è il caso di dirlo — che passava per l’ entourage dell’ex sindaco Gianni Alemanno, il primo sindaco postfascista dalla caduta del duce.
Si capiscono molte cose, leggendo le 1.200 pagine dell’ordinanza che ha mandato in carcere 37 persone e chiamato in causa più di cento indagati — il più importante dei quali è lo stesso Alemanno. E si scopre che questa banda battezzata da Pignatone “Mafia capitale” gestiva senza problemi non solo i fondi per la manutenzione del verde o quelli per la raccolta differenziata, arrivando a partecipare alla stesura dei bandi per le gare d’appalto, ma aveva messo stabilmente le mani sul flusso di denaro pubblico destinato ai campi nomadi e alle strutture per gli immigrati richiedenti asilo. Rifiuti, nomadi, immigrati: quelli che per la città di Roma erano in cima alla lista dei problemi, per la destra neofascista erano contemporaneamente il facile bersaglio delle sue proteste populiste e la ricca miniera d’oro che alimentava una rete sotterranea di corruzione, quella invisibile ma potentissima cerniera che in questi anni ha tenuto insieme mafiosi, ex terroristi, politici corrotti e imprenditori senza scrupoli. “Capitale corrotta, nazione infetta” fu il celebre articolo di una grande inchiesta dell’ Espresso del 1956 sul sacco di Roma, ma quello che abbiamo scoperto ieri ci dice che la corruzione è penetrata in profondità, e mescolandosi con la forza eversiva dell’estremismo neofascista e con la potenza criminale della mafia ha avvelenato il Campidoglio.
Sarebbe sbagliato identificare la capitolazione della politica alla mafia con la stagione di Alemanno, e non solo perché sarà l’inchiesta a chiarire fin dove arrivavano le complicità politiche, ma perché questa struttura spietata e diabolica agiva anche prima che Alemanno arrivasse ed ha continuato a operare anche dopo che lui se n’è andato. Eppure questo rende ancora più grave la diagnosi: il virus è penetrato in profondità, e ha imparato a resistere agli anticorpi dell’alternanza. Perciò da un sindacochirurgo come Ignazio Marino oggi i romani, e non solo loro, si aspettano un gesto forte, non una cura ma un taglio netto, un colpo di bisturi sul malgoverno infetto della Capitale.

La Stampa 3.12.14
L’Uomo Nero
di Massimo Gramellini

Bisogna pur farsi una cultura. E allora scorriamo insieme la fitta biografia del cinquantaseienne Massimo Carminati, alias Il Nero di «Romanzo Criminale», figura di punta della retata di malviventi che hanno regnato su Roma negli ultimi anni, grazie al silenzio tremebondo e in certi casi al sostegno convinto della classe politica locale. 
Picchiatore neofascista ai tempi della scuola. Terrorista nei Nuclei Armati Rivoluzionari (Nar). Esperto nello spaccio e nell’uso di esplosivi. Accusato dell’omicidio di due giovani militanti della sinistra milanese, Fausto e Iaio. Protagonista di una famosa rapina alla Chase Manhattan Bank dell’Eur. Killer affiliato alla banda della Magliana, tanto che il suo nome ricorre in decine di stragi, assassini e rapine, nonché in due omicidi avvenuti nel mondo delle scommesse dei cavalli (una delle vittime cementificata, l’altra stesa direttamente in sala corse). Accusato per il delitto Pecorelli e per un tentativo di depistaggio relativo alla strage di Bologna. Ferito gravemente alla testa durante uno scontro con la polizia, mentre tentava di espatriare illegalmente in Svizzera. Custode di un deposito di armi nascosto nientemeno che dentro il ministero della Sanità. Dedito nel tempo libero a traffico di stupefacenti, estorsioni e riciclaggio. Imputato, e condannato, per associazione a delinquere di stampo mafioso. Indagato per un furto nel caveau del Palazzo di Giustizia di Roma. Coinvolto nello scandalo del calcio scommesse. Il 2 dicembre 2014 viene arrestato...
Ma perché, fino a ieri dov’era? 

La Stampa 3.12.14
Ex Nar e picchiatori da stadio: la rete attorno al Campidoglio
Dai movimenti di estrema destra ai vertici dell’amministrazione
Stefano Andrini, ultrà laziale, ex naziskin, 20 anni fa massacrò due ragazzi a sprangate

Nel 2009 entrò ai vertici della società di nettezza urbana
di Mattia Feltri

qui

Repubblica 3.12.14
La regola del “mondo di mezzo”:

“Compriamo tutti”
di Carlo Bonini


ROMA Si erano presi Roma. Le sue strade e il Campidoglio. Ne avevano ridotto un sindaco, Gianni Alemanno, a utile pupazzo, né il cambio di maggioranze li aveva sorpresi, perché — dicevano — di “nove cavalli” (gli assessori) della giunta Marino, «sei sono nostri». E se l’erano presa perché Lui, Massimo Carminati, er Cecato, er Guercio , l’ex camerata dei “Nar” figlio ed epigono della Banda della Magliana, protagonista della coda di sangue del novecento “deviato” (omicidio Pecorelli, strage di Bologna), che di Roma era diventato Re e Padrone, di Roma aveva compreso meglio di chiunque altro l’anima. Fino a farne il format del suo dominio. «È la teoria del Mondo di Mezzo compa’ — spiega al suo braccio destro Riccardo Brugia il13 dicembre del 2012, ignaro della cimice del Ros dei carabinieri — Ci stanno, come si dice, i vivi sopra e i morti sotto. E noi stiamo nel mezzo. Perché ci sta un mondo, un Mondo di Mezzo, in cui tutti si incontrano. E tu dici: “Cazzo! Come è possibile che un domani io posso stare a cena con Berlusconi..”. E invece, il Mondo di Mezzo è quello dove tutto si incontra. Tu stai lì. Non per una questione di ceto. Ma di merito. Perché anche la persona che sta nel Mondo di Sopra ha interesse che qualcuno del Mondo di Sotto gli faccia delle cose che non può fare nessuno. E quindi tutto si mischia.. «. Brugia è estasiato da tanta sapienza. E non è dato sapere se colga nell’affresco le reminiscenze di Tolkien e del suo “ Signore degli Anelli ”. Certo, strappa al Maestro un’ultima confidenza. «Sono cose che la gente non sa, non capisce. A me una volta mi fece una battuta il magistrato: “Ma lei la conosce la Teoria?” E io: “La conosco bene”. E lui: ”Lo so che lei la conosce molto bene”. Allora, io: “Dunque, le domande finiscono qui”. E lui: “Vada”».
TRE MONDI, UNA MAFIA
“Il Mondo di Mezzo”, “Il Mondo di Sopra”, “il Mondo di sotto”, dunque. Carminati, la Politica, la violenza di strada. In una sola parola, la Mafia. Che, nelle oltre 1.200 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare del gip Flavia Costantini, diventa “Mafia Capitale”. «Fenomeno criminale originale e originario», chiosa il magistrato. Per Roma, una “prima volta”, almeno nella sua definizione giuridica.
Del Mondo di Mezzo, Carminati è il padrone. E non potrebbe essere altrimenti. «Perché sofisticata figura criminale». Perché «preceduto e inseguito dal mito dell’impunità », figlia di «legami con appartenenti alle forze dell’ordine e dei Servizi». Perché uomo cui non è necessario esercitare la violenza, ma semplicemente minacciarla, o anche solo evocarla. Ora con spaventosi silenzi, ora con improvvise collere («A quello — si lascia andare — bisogna farlo urla’ come un’aquila sgozzata»). Non fosse altro perché porta con se l’epica nera della Banda della Magliana (che pure, in privato, liquida come la «storia di quattro cialtroni»). Perché vanta «di aver portato 4 milioni di euro in borsoni a tutto il Parlamento, Rifondazione compresa, per conto di Finmeccanica». E perché siede da “primus inter pares” al tavolo dei mammasantissima che a Roma trafficano da sempre. I “napoletani” di Michele Senese, i calabresi, Cosa Nostra, gli incartapecoriti eredi delle ricchezze della Banda della Magliana (Ernesto Diotallevi ed Enrico Nicoletti), i Casamonica padroni di Roma-est.
Per dialogare con il Mondo di Sotto Carminati ha deciso che alla sua destra sieda un attempato camerata dei tempi andati, Riccardo Brugia, «che coordina le attività criminali, il recupero crediti» e «custodisce le armi». Mitragliette e “Makarov calibro 9” silenziate («Quelle che fanno “clack” e che prima che se ne accorgono s’è già allagata la macchia di sangue»). Un tipo cui fanno corona Giovanni De Carlo, capobastone a Ponte Milvio, piuttosto che Roberto Lacopo, gestore del distributore Eni di corso Francia, “l’Ufficio” a cielo aperto di Carminati in quel di Roma nord. Dove si danno ordini, si cambiano assegni a strozzo e si innesca la ferocia di tale Matteo Calvio e dei suoi mozza orecchi quando qualcuno prova a dire no, o ad alzare la cresta.
Per fare del Mondo di Sopra un docile esecutore, ci sono invece Fabrizio Testa (già Destra sociale di Alemanno, quindi ex Enav e Technosky), Luigi Gramazio (consigliere regionale Pdl) e Salvatore Buzzi, gestore di una rete di “cooperative sociali” (la “Eriches 29 giugno”), una storia di sinistra alle spalle, una lontana esperienza in carcere (per omicidio) e un presente da traffichino. Il “lobbysta” in Campidoglio, diciamo così, il custode del “libro nero” in cui annota la contabilità della corruzione politica.
I SOLDI AI PARTITI
Alla Mafia Capitale interessa infatti restare attaccati alla mammella della spesa pubblica, degli appalti nel settore dei rifiuti, dell’assistenza ai nomadi e ai minori, del verde pubblico. «In una logica rigidamente bipartisan», scrive il gip e secondo uno schema in cui «Mafia Capitale è un fiume carsico, che origina nella terra di mezzo, emerge in larghi tratti del mondo di sopra, inquinandolo, per poi reimmergersi». E, del resto, con la politica, dove non può arrivare l’intimidazione, c’è sempre la corruzione. Finché dura Alemanno, il gioco è semplice. Dagli appalti alle nomine delle municipalizzate (l’Ama su tutte, dove il presidente, Franco Panzironi «è a disposizione »). Non fosse altro perché nelle mani di Carminati è Riccardo Mancini, già tesoriere della campagna elettorale e della fondazione “Nuova Italia” dell’ex sindaco, nonché ex ad di Eur spa, la società dal grande peso nelle commesse. Lo chiamano ora “er ciccione”, ora “il maialetto”, ora “er porcone”. È un fatto che “stecchi” le tangenti che prende con Carminati. E che quando finisce in carcere per le commesse di filobus della Breda, l’ordine che arriva sia secco: «Se deve tene’er cieco ar culo». Starsi zitto. Cosa che farà.
Né i cambi di maggioranza sono un problema. Come, alla vigilia delle ultime elezioni comunali, dimostra lo sfogo di Buzzi: «Io pago tutti. Questo è il momento che paghi di più perché stanno le elezioni. Poi per cinque anni, i miei non li paghi più. Quell’altri li paghi sempre a percentuale su quello che te fanno. E se punti sul cavallo sbagliato... Mo’ c’ho quattro cavalli che corrono col Pd, poi con la Pdl ce ne ho tre e con Marchini c’ho rapporti con Luca (Odevaine, ex vice capo di gabinetto con la giunta Veltroni, quindi capo della polizia provinciale). A Luca gli do 5 mila euro al mese. A un altro che mi tiene i rapporti con Zingaretti (il Presidente della Regione ndr), 2 mila e 500 al mese. 1.500 a quello che mi tiene i rapporti al comune, 10 mila al mese a un assessore. Mo’ siamo messi bene perché con Marino siamo coperti, Alemanno coperti e con Marchini c’ho Luca che piglia i soldi e per questo non rompesse il cazzo». E in effetti, nessuno “ha rotto il cazzo”. Fino a ieri. Con un solo sopravvissuto alla tempesta. La vecchia conoscenza Gennaro Mokbel. Il gip ha deciso che resti libero.
Corriere 3.12.14
«Mafia capitale», la strana piovra che avvolge la politica debole di Roma
Lo choc di una città che si ritrova in mano a un ex estremista nero e a un ex detenuto
di Giovanni Bianconi

qui

il Fatto 3.12.14
Mafia Capitale
Fascisti e Pd agli ordini del Nar Carminati
37 arresti, indagati Alemanno più 99
di Marco Lillo


Lo avevamo lasciato alla Magliana e lo ritroviamo a Notting Hill. La fotografia di Massimo Carmina-ti, detto “il Pirata” o “il Cecato” per via di una sparatoria del 1981 con la polizia, deve essere aggiornata. Nessuno si permetta di considerarlo “solo” il Nero della Banda di Romanzo criminale. Trenta anni dopo Carmi-nati vola alto. Fa affari con una delle maggiori cooperative rosse, la Coop 29 giugno di Salvatore Buzzi, nel settore dell’assistenza agli immigrati e nomadi e si permette di minacciare (“sono io il re di Roma”) Riccardo Mancini, il potente braccio destro dell’ex sindaco Gianni Alemanno. Voleva investire alle Bahamas e stava comprando casa nel quartiere più bello di Londra.
La sua terra non è più la Magliana ma la “terra di mezzo”, come è stata definita con un richiamo all’Hobbit di Tolkien l’operazione dei carabinieri del Ros. In una conversazione del gennaio 2013 Carminati spiega: “È la teoria del mondo di mezzo compà... ci stanno... come si dice... i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo... e allora... e allora vuol dire che ci sta un mondo .. un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano”. Poi aggiunge “nel mezzo, anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno... questa è la cosa... e tutto si mischia”.
Massimo Carminati incontra tutti. Lo cercano imprenditori, politici e manager del sovramondo che hanno bisogno dei voti e dei soldi di delinquenti e picchiatori del sottomondo. Un costruttore, Cristiano Guarnera, finisce nelle sue braccia e poi viene intimidito dal boss. Non è intimidito, come accadeva un tempo, ma lo cerca lui. Benvenuti nell’era della mafia 2.0, la mafia capitale, come la chiama il gip Flavia Costantini. Guarnera voleva le autorizzazioni per trasformare un asilo storico di Monteverde in un palazzo di 7 piani con 90 appartamenti di fronte a Villa Pamphili. A chi si rivolge? A Carmi-nati. E poiché il Nero ottiene dal Comune in pochi mesi quello che lui non aveva avuto in due anni, Guarnera si consegna al boss. Prima gli amici di Carminati entrano nel movimento terra, poi fanno entrare Guarnera nel business dell’emergenza casa. Guarnera possiede centinaia di appartamenti a Selva Candida e subito gli arriva un’offerta per 14 locazioni tramite il consorzio Eriches di Buzzi.
Quelle buste piene di denaro destinate a tutti i partiti
In un’intercettazione telefonica Alemanno parla con Buzzi dei voti per le Europee e l’ex detenuto che ha fatto carriera dice alla moglie che contatterà qualche ex detenuto del Sud. Sempre il suo braccio “sinistro” Buzzi, intercettato, dice: “Lo sai perché Massimo è intoccabile? Perché era lui che portava i soldi per Finmeccanica! Bustoni di soldi! A tutti li ha portati Massimo! Non mi dice i nomi (...) 4 milioni dentro le buste! 4 milioni! Alla fine mi ha detto Massimo ‘è sicuro che l’ho portati a tutti! Tutti! Pure a Rifondazione! ’. Accuse tutte da dimostrare. Certo Carmina-ti conosce l’ex direttore commerciale di Finmeccanica Paolo Pozzessere ed entra in un’altra partita delicata. Quando il commercialista Marco Iannilli, già arrestato per il caso Enav e ieri perquisito di nuovo, viene minacciato da Gennaro Mockbel per una vicenda relativa a Finmeccanica, l’affare Digint (Mockbel è indagato per tentata estorsione ma il gip ha rifiutato l’arresto), Carminati interviene in suo favore. Iannilli pagherà in comode rate. “Io ti do una mano ma tutto c’ha un costo”, dice Carminati. Poco dopo ottiene il villone di Iannilli alle porte di Roma, a Sacrofano. Canone 500 euro.
Nella vita precedente Carminati è stato processato e assolto per l’omicidio di Mino Pecorelli e per il depistaggio dell’inchiesta sulla strage di Bologna. Secondo alcuni pentiti aveva sparato a Pecorelli insieme a Michelangelo La Barbera, per fare un favore a Giulio Andreotti e Claudio Vitalone, contro il quale Pecorelli conduceva una campagna giornalistica. Altri pentiti avevano raccontato che il mitra trovato sul treno Taranto-Milano nel 1981 per depistare l’indagine su Bologna lo aveva messo lui. È stato sempre assolto con tante scuse. È stato condannato invece per un furto inquietante avvenuto nel 1999 nel caveau della Banca di Roma del Palazzo di giustizia di Roma dove erano conservati miliardi di lire ma soprattutto segreti. Carminati cresce come nero e come criminale all’Eur, sotto al “fungo”. Era stimato da Giusva Fioravanti dei Nar come da Franco Giuseppucci della Magliana ed era il solo dei Nar a poter accedere al deposito delle armi creato dalla Banda all’Eur.
Gli agenti innamorati del boss che ha sparato al loro collega
Storie scritte e recitate più volte. In una conversazione con il suo braccio destro Roberto Brugia, 53 anni, e con il solito costruttore Guarnera, 41, nel gennaio 2013 dà i voti a libri e fiction che lo riguardano. Guarnera: “La storia che si avvicina di più, qual è? ” e Carminati sicuro: “Romanzo criminale, il film però. La serie è una buffonata. Poi il libro di De Cataldo è abbastanza veritiero... ma tu l’hai visto su History Channel ‘Banda della Magliana, la vera storia’? Quella è la storia vera compa’”. I film servivano, secondo i magistrati, a costruire un alone di mito intorno alla sua figura e a rafforzare la forza di intimidazione. Per il gip “un personaggio dalla caratura criminale assoluta, un intoccabile per dirla con Buzzi per aver foraggiato partiti di ogni genere, che rende intoccabili quelli che con lui si associano (per dirla con il costruttore Guarnera) che siede in condizioni di parità al medesimo tavolo con i rappresentanti delle organizzazioni criminali, anche quelle tradizionali, operanti su Roma, che intrattiene rapporti con esponenti di apparati dello Stato e con esponenti delle forze dell’ordine, che con deferenza starebbero a sentirlo per due giorni, invece che interrogarlo per due mesi”.
Basta l’incredibile intercettazione eseguita il 4 ottobre 2013 dal Ros nell’area di servizio di Corso Francia a Roma. Due poliziotti non identificati scendono da un’Alfa 156 di colore grigio metallizzato intestata alla Questura di Roma e prima dicono a Carminati che è sotto indagine e poi cominciano a farsi raccontare cosa ci sia di vero nelle sue gesta descritte nei libri o in tv su una sparatoria con un carabiniere a Prima Porta. Quando il criminale spiega che la vittima dei suoi spari era un collega della polizia, i due vanno in delirio come fossero fan del Nero: “Io starei due giorni a sentirti! ” e l’altro: “Queste cose mi affascinano”. Il boss, l’unico serio, chiosa: “Mi rode il culo che tutto questo sia trasformato in burletta”.
Il nero Mancini e il rosso Buzzi: contano i soldi, non i colori
In realtà anche lui un po’ ci gioca. Quando deve intimidire Riccardo Mancini, ex amministratore delegato della società municipalizzata Eur Spa, gli ricorda che è lui, come ha scritto Lirio Abbate su L’espresso, “Il re di Roma”. Eur Spa non paga Buzzi, presidente della coop 29 giugno. Il nero Carminati e il rosso Buzzi spartiscono gli utili realizzati dalle cooperative nel mondo dell’assistenza a nomadi, immigrati e poveri. I colori politici non contano. L’unico colore che Carminati vede è quello dei soldi.
Mancini è un collaboratore stretto di Alemanno sindaco, che chiama ‘capo, ed è soprattutto l’uomo chiave dell’ex sindaco per la raccolta dei fondi. Così Carminati si rivolge al manager di Eur Spa, Carlo Pucci, anche lui arrestato ieri e considerato “a libro paga” dell’associazione: “C’ho litigato (con Mancini, ndr) sennò viene qua il Re di Roma… tu sei un sottoposto… è il Re di Roma che viene qua, vado io … entro dalla porta principale… vede io che gli combino… a me non mi rompesse il cazzo… a me me chiudesse subito la pratica là già me rode il culo che il guadagno nostro è basso, ha detto che vuole lo sconto… gli ho detto guarda che lo sconto non esiste… c’ho litigato l’altro”. Poi, parlando con il braccio destro Brugia, Carmi-nati aggiunge che a Mancini, “er grassottello, gli ho menato”. E così il “fasciomafioso”, come era stato definito Carminati, o il Nero, arriva a picchiare un ex camerata perché non paga una cooperativa rossa.
Anche questo accade nella terra di mezzo.

il Fatto 3.12.14
Come funziona la Mafia Capitale
di Marco Lillo e Valeria Pacelli


I magistrati la chiamano ‘mafia capitale’. Ci voleva un nome nuovo per un’organizzazione davvero nuova che non ha nulla a che vedere con la Banda della Magliana né con Cosa nostra né con la ‘fasciomafia’ di cui si era letto recentemente. Il Ros dei Carabinieri guidato dal generale Mario Parente ha svelato davvero una realtà sorprendente grazie a tecniche sofisticate e a un impegno massiccio di uomini e mezzi: questa mafia nuova, una mafia 2.0, domina Roma con la forza dell’intimidazione anche se non ha bisogno di usare spesso la violenza, come ogni mafia che si rispetti. Diventa forte con la destra di Alemanno al potere ma è bipartisan e taglia gli schieramenti come le classi sociali. La “Mafia Capitale”, smantellata da un’operazione della Procura di Roma, guidata da Giuseppe Pignatone ha un solo capo indiscusso: Massimo Carminati, classe ‘58, il “Cecato”, un passato tra Banda della Magliana e destra eversiva, che dopo essere uscito indenne da tutti i precedenti guai giudiziari, domenica scorsa è stato arrestato, con l’accusa di associazione mafiosa. Con il “Cecato”, ieri sono state arrestate altre 37 persone, 28 in carcere e 9 ai domiciliari. L’operazione è denominata “Terra di mezzo”, come la regione dell’Ardia dell’Hobbit di Tolkien. Il 13 dicembre 2013, parlando con il suo braccio destro Riccardo Brugia, arrestato anche lui, Carminati spiega: “È la teoria del mondo di mezzo compà. Ci stanno come si dice i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo (...) un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano”.
Alemanno e le nomine nelle municipalizzate romane
È proprio nel “mondo di mezzo” che il sodalizio criminale incontrava la politica, e non soltanto quella di destra. Lo hanno scoperto i magistrati romani che dal 2010 hanno acceso un faro su come il potere veniva gestito a Roma. I pm titolari dell’indagine l’aggiunto Michele Prestipino, e i sostituti Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli hanno iscritto nel registro degli indagati un centinaio di persone. Tra questi anche Gianni Alemanno, l’ex sindaco di Roma, la cui casa è stata perquisita ieri. Alemanno è accusato di associazione a delinquere. Scrive il Gip Costantini nell’ordinanza che esistono “conversazioni telefoniche o ambientali, nelle quali si fa esplicito riferimento a erogazioni di utilità verso Alemanno”. Come quella tra “Salvatore Buzzi e Giovanni Campennì, nella quale il primo parla di un pagamento di 75.000 euro per cene elettorali a favore di Alemanno”. Ma Buzzi, ex detenuto che ha scontato la pena per omicidio ed è stato riabilitato, presidente della coop 29 giugno e ‘braccio sinistro’ di Carminati secondo i pm, pagava anche i politici di sinistra. Intercettato il 23 gennaio 2014 Buzzi si vanta: “Me sò comprato Coratti (presidente del consiglio comunale del Pd, Ndr) lui gioca con me (...) al capo segreteria (Franco Figurelli, indagato, Ndr) noi gli diamo 1000 euro al mese (...) so’ tutti a stipendio Cla’, io solo pe metteme a sedè a parlà con Coratti gli ho portato 10 mila”. Se a sinistra i rapporti erano tenuti da Buzzi, a destra era Carminati in persona a tenere i rapporti con i manager e i politici legati ad Alemanno.
Sono stati arrestati ieri due uomini chiave del sistema delle municipalizzate dell’ex sindaco di Roma Alemanno che si dice estraneo ai fatti dal punto di vista penale ma che porta la responsabilità politica delle sue scelte. Torna agli arresti, dopo il caso delle mazzette sui filobus del corridoio Laurentino, Riccardo Mancini, ex ad di Ente Eur e l’ex ad dell’Ama, la municipalizzata dei rifiuti romana, Franco Panzironi (coinvolto anche nello scandalo Parentopoli ). A Panzironi la procura contesta anche di aver ricevuto “costante retribuzione, di ammontare non ancora determinato, dal 2008 al 2013 e a partire da tale data pari a 15.000 euro mensili; in una somma pari a 120.000 euro (2,5% del valore di un appalto assegnato da Ama) ”, ma anche utilità personali come “la rasatura del prato di zone di sua proprietà” o finanziamenti “non inferiori a 40.000 euro, alla fondazione Nuova Italia, nella quale Panzironi è socio fondatore”, mentre Alemanno nè è presidente. Il solito Buzzi il 16 maggio 2014 dice mentre è intercettato: “Noi a Panzironi che comandava gli avemo dato il 2 virgola 5 per cento... dato 120mila euro su 5 milioni... mo damo tutti sti soldi a questo? ”.
Destra e sinistra: un sistema senza distinzioni
Indagato anche l’ex capo segreteria del Comune di Roma, Antonio Lucarelli. Buzzi, capo di una coop sociale nata dall’impegno di ex detenuti ma aderente alla Lega coop rosse, si fa chiamare da Lucarelli scherzosamente ‘camerata’ e quando c’è bisogno di finanziare la campagna di Alemanno o di trovare voti per lui mobilita la cooperativa. Poi però quando c’è bisogno di sbloccare i fondi per il campo nomadi di Castel Giubileo, Buzzi e Carminati, si rivolgono proprio a Lucarelli. Alla fine i fondi vengono sbloccati e parte un sms di ringraziamento anche per Alemanno. I lavori per il campo poi li farà una società di Agostino Gaglianone, arrestato ieri, segnalata da Carminati. Arrestato anche Luca Odevaine, che è stato vice capo di gabinetto del sindaco Veltroni; indagati l’assessore comunale alla Casa Pd Daniele Ozzimo e il presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti (entrambi dimissionari) e i consiglieri regionali Luca Gramazio (Pdl) e Eugenio Patanè (Pd). Nei guai torna Gennaro Mokbel (tentata estorsione) e Marco Iannilli, il commercialista che per mesi ha ospitato Carminati nella propria villa a Sacrofano.
Armi, appalti, usura e costole rotte a chi non paga
L’obiettivo del sodalizio, come spiega anche Carminati in un’intercettazione, non è quello di fornire protezione in cambio di denaro (“A me mi puoi anche che mi dai un milione di euro per guardarmi”) ma è quello di entrare in affari con gli imprenditori attraverso un “rapporto paritario”. Così si potrebbero avere vantaggi reciproci, anche attraverso l’imposizione di imprese che gravitano nel sodalizio. Insomma come sintetizza il “Cecato”: “Devono essere nostri esecutori”. Al centro degli affari c’erano appalti per decine di milioni di euro vinti da società collegate a Carminati. Una delle commesse nel mirino della procura è quella che riguarda l’appalto del 2011 per la raccolta differenziata di Roma e quello per la raccolta delle foglie. Ma c’è un giro di affari molto più ampio di 5 milioni, dati dall’Ama, sui quali sono in corso accertamenti. La cupola viveva anche di usura, estorsione e violenza. E di un giro di armi, come racconta il collaboratore Roberto Grilli che indica il gruppo facente capo a “Carminati come punto di riferimento per l’acquisizione di armi da parte di altre organizzazioni”. Quando non si pagava, inevitabili erano le intimidazioni, concretizzate da Matteo Calvio (arrestato anche lui). Tra gli episodi di violenza ad imprenditori, quello a Riccardo Manattini che secondo i pm dovevano “restituire una ingente somma di denaro a Lacopo Giovanni, padre di Roberto sodale del Carminati”. Manattini non paga e al telefono racconta: “M'hanno massacrato ieri in via Cola. (...) Avevi detto che non mit occavano (…) M’hanno rotto le costole anche”. I Carabinieri e la GdF hanno sequestrato ieri 200 milioni di euro, oltre a effettuare perquisizioni in Regione e al Campidoglio. A casa di un indagato sono stati trovati una ventina di quadri di valore e opere di Warhol e Pollock, riconducibili a Carminati.

il Fatto 3.12.14
La “Terra di Mezzo” del faccendiere nero che “foraggiava tutti”
L’ex Nar “Portava i soldi per Finmeccanica anche al Prc”
E il poliziotto rapito: “Starei ad ascoltarti per ore”
di Marco Lillo


Lo avevamo lasciato alla Magliana e lo ritroviamo a Notting Hill. La fotografia di Massimo Carmina-ti, detto “il Pirata” o “il Cecato” per via di una sparatoria del 1981 con la polizia, deve essere aggiornata. Nessuno si permetta di considerarlo “solo” il Nero della Banda di Romanzo criminale. Trenta anni dopo Carmi-nati vola alto. Fa affari con una delle maggiori cooperative rosse, la Coop 29 giugno di Salvatore Buzzi, nel settore dell’assistenza agli immigrati e nomadi e si permette di minacciare (“sono io il re di Roma”) Riccardo Mancini, il potente braccio destro dell’ex sindaco Gianni Alemanno. Voleva investire alle Bahamas e stava comprando casa nel quartiere più bello di Londra.
La sua terra non è più la Magliana ma la “terra di mezzo”, come è stata definita con un richiamo all’Hobbit di Tolkien l’operazione dei carabinieri del Ros. In una conversazione del gennaio 2013 Carminati spiega: “È la teoria del mondo di mezzo compà... ci stanno... come si dice... i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo... e allora... e allora vuol dire che ci sta un mondo .. un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano”. Poi aggiunge “nel mezzo, anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno... questa è la cosa... e tutto si mischia”.
Massimo Carminati incontra tutti. Lo cercano imprenditori, politici e manager del sovramondo che hanno bisogno dei voti e dei soldi di delinquenti e picchiatori del sottomondo. Un costruttore, Cristiano Guarnera, finisce nelle sue braccia e poi viene intimidito dal boss. Non è intimidito, come accadeva un tempo, ma lo cerca lui. Benvenuti nell’era della mafia 2.0, la mafia capitale, come la chiama il gip Flavia Costantini. Guarnera voleva le autorizzazioni per trasformare un asilo storico di Monteverde in un palazzo di 7 piani con 90 appartamenti di fronte a Villa Pamphili. A chi si rivolge? A Carmi-nati. E poiché il Nero ottiene dal Comune in pochi mesi quello che lui non aveva avuto in due anni, Guarnera si consegna al boss. Prima gli amici di Carminati entrano nel movimento terra, poi fanno entrare Guarnera nel business dell’emergenza casa. Guarnera possiede centinaia di appartamenti a Selva Candida e subito gli arriva un’offerta per 14 locazioni tramite il consorzio Eriches di Buzzi.
Quelle buste piene di denaro destinate a tutti i partiti
In un’intercettazione telefonica Alemanno parla con Buzzi dei voti per le Europee e l’ex detenuto che ha fatto carriera dice alla moglie che contatterà qualche ex detenuto del Sud. Sempre il suo braccio “sinistro” Buzzi, intercettato, dice: “Lo sai perché Massimo è intoccabile? Perché era lui che portava i soldi per Finmeccanica! Bustoni di soldi! A tutti li ha portati Massimo! Non mi dice i nomi (...) 4 milioni dentro le buste! 4 milioni! Alla fine mi ha detto Massimo ‘è sicuro che l’ho portati a tutti! Tutti! Pure a Rifondazione! ’. Accuse tutte da dimostrare. Certo Carmina-ti conosce l’ex direttore commerciale di Finmeccanica Paolo Pozzessere ed entra in un’altra partita delicata. Quando il commercialista Marco Iannilli, già arrestato per il caso Enav e ieri perquisito di nuovo, viene minacciato da Gennaro Mockbel per una vicenda relativa a Finmeccanica, l’affare Digint (Mockbel è indagato per tentata estorsione ma il gip ha rifiutato l’arresto), Carminati interviene in suo favore. Iannilli pagherà in comode rate. “Io ti do una mano ma tutto c’ha un costo”, dice Carminati. Poco dopo ottiene il villone di Iannilli alle porte di Roma, a Sacrofano. Canone 500 euro.
Nella vita precedente Carminati è stato processato e assolto per l’omicidio di Mino Pecorelli e per il depistaggio dell’inchiesta sulla strage di Bologna. Secondo alcuni pentiti aveva sparato a Pecorelli insieme a Michelangelo La Barbera, per fare un favore a Giulio Andreotti e Claudio Vitalone, contro il quale Pecorelli conduceva una campagna giornalistica. Altri pentiti avevano raccontato che il mitra trovato sul treno Taranto-Milano nel 1981 per depistare l’indagine su Bologna lo aveva messo lui. È stato sempre assolto con tante scuse. È stato condannato invece per un furto inquietante avvenuto nel 1999 nel caveau della Banca di Roma del Palazzo di giustizia di Roma dove erano conservati miliardi di lire ma soprattutto segreti. Carminati cresce come nero e come criminale all’Eur, sotto al “fungo”. Era stimato da Giusva Fioravanti dei Nar come da Franco Giuseppucci della Magliana ed era il solo dei Nar a poter accedere al deposito delle armi creato dalla Banda all’Eur.
Gli agenti innamorati del boss che ha sparato al loro collega
Storie scritte e recitate più volte. In una conversazione con il suo braccio destro Roberto Brugia, 53 anni, e con il solito costruttore Guarnera, 41, nel gennaio 2013 dà i voti a libri e fiction che lo riguardano. Guarnera: “La storia che si avvicina di più, qual è? ” e Carminati sicuro: “Romanzo criminale, il film però. La serie è una buffonata. Poi il libro di De Cataldo è abbastanza veritiero... ma tu l’hai visto su History Channel ‘Banda della Magliana, la vera storia’? Quella è la storia vera compa’”. I film servivano, secondo i magistrati, a costruire un alone di mito intorno alla sua figura e a rafforzare la forza di intimidazione. Per il gip “un personaggio dalla caratura criminale assoluta, un intoccabile per dirla con Buzzi per aver foraggiato partiti di ogni genere, che rende intoccabili quelli che con lui si associano (per dirla con il costruttore Guarnera) che siede in condizioni di parità al medesimo tavolo con i rappresentanti delle organizzazioni criminali, anche quelle tradizionali, operanti su Roma, che intrattiene rapporti con esponenti di apparati dello Stato e con esponenti delle forze dell’ordine, che con deferenza starebbero a sentirlo per due giorni, invece che interrogarlo per due mesi”.
Basta l’incredibile intercettazione eseguita il 4 ottobre 2013 dal Ros nell’area di servizio di Corso Francia a Roma. Due poliziotti non identificati scendono da un’Alfa 156 di colore grigio metallizzato intestata alla Questura di Roma e prima dicono a Carminati che è sotto indagine e poi cominciano a farsi raccontare cosa ci sia di vero nelle sue gesta descritte nei libri o in tv su una sparatoria con un carabiniere a Prima Porta. Quando il criminale spiega che la vittima dei suoi spari era un collega della polizia, i due vanno in delirio come fossero fan del Nero: “Io starei due giorni a sentirti! ” e l’altro: “Queste cose mi affascinano”. Il boss, l’unico serio, chiosa: “Mi rode il culo che tutto questo sia trasformato in burletta”.
Il nero Mancini e il rosso Buzzi: contano i soldi, non i colori
In realtà anche lui un po’ ci gioca. Quando deve intimidire Riccardo Mancini, ex amministratore delegato della società municipalizzata Eur Spa, gli ricorda che è lui, come ha scritto Lirio Abbate su L’espresso, “Il re di Roma”. Eur Spa non paga Buzzi, presidente della coop 29 giugno. Il nero Carminati e il rosso Buzzi spartiscono gli utili realizzati dalle cooperative nel mondo dell’assistenza a nomadi, immigrati e poveri. I colori politici non contano. L’unico colore che Carminati vede è quello dei soldi.
Mancini è un collaboratore stretto di Alemanno sindaco, che chiama ‘capo, ed è soprattutto l’uomo chiave dell’ex sindaco per la raccolta dei fondi. Così Carminati si rivolge al manager di Eur Spa, Carlo Pucci, anche lui arrestato ieri e considerato “a libro paga” dell’associazione: “C’ho litigato (con Mancini, ndr) sennò viene qua il Re di Roma… tu sei un sottoposto… è il Re di Roma che viene qua, vado io … entro dalla porta principale… vede io che gli combino… a me non mi rompesse il cazzo… a me me chiudesse subito la pratica là già me rode il culo che il guadagno nostro è basso, ha detto che vuole lo sconto… gli ho detto guarda che lo sconto non esiste… c’ho litigato l’altro”. Poi, parlando con il braccio destro Brugia, Carmi-nati aggiunge che a Mancini, “er grassottello, gli ho menato”. E così il “fasciomafioso”, come era stato definito Carminati, o il Nero, arriva a picchiare un ex camerata perché non paga una cooperativa rossa.
Anche questo accade nella terra di mezzo.

il Fatto 3.12.14
I fascisti del Fungo volevano Roma
I militanti irregolari dell’Eur, passati anche dalla lotta armata, hanno fatto squadra con i nemici di un tempo
In nome del denaro i vecchi missini si sono presi il Campidoglio
di Eduardo Di Blasi


“Sono amico di Mancini ma con Mancini abbiamo fatto dieci processi quando eravamo ragazzini... stavamo al Fungo insieme... cioè... ma.. con tante altre persone... che magari hanno fatto carriera... che in questo momento magari non sono indagate.. cioè che vuol dì... ognuno fa la vita sua... ognuno fa la sua strada... ”. È Massimo Carminati a ricordare, intercettato in auto nel febbraio 2013, da dove vengono lui e Riccardo Mancini, l’ex ad dell’Ente Eur in epoca Alemanno finito di nuovo in carcere nella giornata di ieri.
Il Fungo, all’Eur, è quella specie di silos col bar alla sommità, che si trova non lontano dal palazzetto dello sport. Negli anni ‘70 lì confluiva la fascisteria romana non allineata, quella della sezione Marconi assediata e quella che poi avrebbe ingrossato le fila di Avanguardia Nazionale, Nar e Terza Posizione.
Tra gli arrestati di ieri non erano solo Carminati e Mancini a frequentare il Fungo. Riccardo Brugia, ad esempio, era conosciuto nella comitiva come “il fascio boro” per via di un certo protagonismo. Fabrizio Testa, l’uomo ombra di Alemanno, non c’era ma al Fungo passava il padre, attivo a Casal Palocco. Era quello, in parte, il regno di Peppe Dimitri, leader indiscusso anche per il giovane Gianni Alemanno, coaetaneo di Carminati e Mancini. Ma questa non è una storia di reduci. Non lo è Franco Panzironi, gestore neanche tanto discreto del potere alemanniano dentro la trincea dell’Ama (la società che gestisce i rifiuti a Roma). E non lo sono nemmeno Domenico e Luca Gramazio, il primo storico missino di piazza Tuscolo (che certo non aveva in simpatia quelli del Fungo), il secondo, figlio di quello, consigliere comunale in Campidoglio per il Pdl. Eppure, per gli inquirenti, a destra erano loro, i due Grama-zio, Fabrizio Testa, Panzironi e Riccardo Mancini a fare da tramitetralerichiestedel“RediRoma” e il sindaco Alemanno, che è indagato dalla procura con l’accusa di associazione mafiosa.
Ha ragione il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone a dire che c’è ancora molto da verificare. Eppure quello che lega questi destini è un rapporto che più che alla giovinezza missina, pare legato da soldi e potere.
Mancini, il facilitatore della prima ora
Per i pm Riccardo Mancini è “a disposizione” dell’associazione criminale di Carminati nel quinquennio della giunta Alemanno. È lo stesso Carminati a chiarire: “È lui che ce sta a passa’ i lavori buoni perchè funzioni questa cosa... ”. Riccardo Brugia, l’amico di un tempo, non lo ha in simpatia. Per lui Mancini non è solo “er ciccione” o “er grassottello” ma anche “un infame”. Il boss chiarisce: “Compà.. lo so, ma io poi .. io... gli ho menato eh? ”. È lui, del resto a cui Carmi-nati fa “avere le steccate”, e passi per qualche screzio dei tempi che furono o delle botte che gli ha dato di fresco. In diversi ritenevano Mancini il vero sindaco di Roma, quello che comandava al posto di Alemanno. Per Carminati, invece, il vecchio compare è un “sottoposto”, e anche un “lobotomizzato”. Quando viene arrestato per l’appalto dei bus della Breda Menarini gli mettono pure l’avvocato per il timore che parli. O, per dirla con Carminati “che si tenesse er cecio ar culo”. È d’accordo che Mancini lasci la guida dell’Eur Spa (per allentare la pressioni), ma quando Alemanno annuncia di volersi costituire parte civile ricorda l’onore di un tempo e sbotta: “... la merda... si costituirà parte civile contro Mancini... ma Mancini è un uomo tuo... ma ma che... sia una merda... o non sia una me... ma quello è uomo tuo... tu non ti puoi comportà così”.
Indovina chi viene a cena? I Gramazio
Quando la luna di Mancini scende, risale quella di Domenico e Luca Gramazio. Carminati vede spesso il secondo. A cena o a pranzo la domenica. Si vedono in bar, ristoranti, case private. Se c’è un problema c’è “l’amico mio” (Luca). Pronto a fare pressione, a detta dei pm, per favorire “l’associazione”. Non c’è bisogno di minacce, qui. Basta la parola.
Panzironi, l’uomo che sussurrava a tutti
Il Tanca è l’altro uomo di raccordo. Per i pm, uno degli uomini simbolo della parentopoli di Roma, controllava l’Ama anche dopo che ne aveva lasciato le redini. È Stefano Andrini, altro post-fascista arrivato al vertici della municipalizzata ai tempi di Alemanno, a chiarire a un consigliere riottoso: “Ma lei ha capito che l’azienda non è la sua è di Panzironi? ”. Oltre agli appalti affidati informa diretta, è lui uno dei facilitatori tra Carminati e il sindaco.
Fabrizio Testa, il telefonista
Nelle carte della procura è un altro che sa sempre dove trovare Carminati. Se ne accorge anche Maurizio Lelli, che la politica ha piazzato alla guida dell’Astral, controllata regionale. Quella sera è a cena con Carminati e Testa lo sa: “Ammazza me controlli li mortanguerrieri”, la reazione. Testa, già raccomandato da Alemanno in Teknosky, controllata Enav, è un altro dei facilitatori di Carminati in Campidoglio. Parlano anche di Marione Corsi, che a Roma è passato dall’eversione di destra alla radiofonia. Carminati racconta che è pronto a “programmare qualche intervista in radio, le cose, mi ha detto che lui è a completa disposizione... ”.

il Fatto 3.12.14
Paga da 5 mila euro a Odevaine, lo sceriffo col cognome camuffato


Ci sono una “e” e 5 mila euro al mese di troppo, nella vita di Luca Odevaine. I soldi sono quelli che, da tre anni, la banda di Carminati e Buzzi versa sul suo conto, macchiando decenni di onorata carriera. La “e” è quella che chiude il suo cognome, ma solo dalla fine degli anni Ottanta: è grazie a quella vocale “comprata” che, Luca Odevain, l’onorata carriera se l’era costruita.
In questo romanzo criminale, c’è spazio anche per un misterioso nascondiglio all’anagrafe. È quello dietro cui per 26 anni si è nascosto lo “sceriffo” del Campidoglio nell’era Veltroni, da ieri agli arresti per corruzione. Scrive di lui il giudice: “Un signore che attraversa, in senso verticale e orizzontale, tutte le amministrazioni pubbliche più significative nel settore dell’emergenza immigrati, che per non compromettere le sue possibilità istituzionali si fa cambiare il cognome a seguito di condanne riportate, circostanza di cui nessuna delle amministrazioni interessate si accorge, a differenza dell’amministrazione Usa, che gli nega il visto d’ingresso per i suoi precedenti penali”.
Si tratterebbe di una vecchia storia di stupefacenti, per cui lo stesso Odevaine ricorda di essere stato “riabilitato”. Ma fa un certo effetto scoprire che sono dovuti arrivare gli uffici americani per accorgersi, ad aprile di quest’anno, che in quel nome che finiva con la “e”, c’era qualcosa che non tornava. Lui si infuria: “... una roba da matti”, “... è veramente una cosa assurda, cioè in una democrazia come quella, cioè che uno abbia avuto una condanna 26 anni fa, che sia stato riabilitato e comunque ha avuto ruoli pubblici e tutto quanto, tu non puoi andà negli Stati Uniti... ”.
LA GITA SALTA ma, fino a ieri, la carriera di Odevaine viaggia a gonfie vele. 58 anni, da ragazzo si iscrive al Pci, sezione Ponte Milvio. Anni di attività in Legambiente, poi la svolta nel 2001: vicecapo di gabinetto di Walter Veltroni. È l’uomo macchina dell’amministrazione capitolina, dai funerali del Papa fino alla lotta all’abusivismo. Ricorda Walter Verini, all’epoca sindaco ombra di Veltroni: “Era l’esecutore di tutte le nostre operazioni di legalità, per prenderlo in giro lo chiamavano lo sceriffo: c’era da fare uno sgombero e si chiamava Luca, c’era da abbattere un abuso e arrivava lui. Gli rafforzarono addirittura la sicurezza, perché faceva operazioni scomode e riceveva parecchie minacce”. Ottima reputazione, ricorda anche Massimo Miglio che in quegli anni dirigeva l’ufficio anti-abusivismo: “Una persona corretta, attenta alle procedure. Ovunque andassimo, dal prefetto al questore, Odevaine era sempre molto stimato”. Dopo l’addio di Veltroni al Campidoglio, resta ancora qualche mese. Poi, va in Provincia, da Nicola Zingaretti. Dirige la polizia, si occupa di protezione civile. Fino alla chiamata dell’Upi, l’unione delle province. È lì che comincia la stagione dell’accoglienza immigrati e richiedenti asilo, gestita in accordo con Salvatore Buzzi: le pressioni per aprire centri e trasferire i migranti in strutture amiche gli fruttano uno “stipendio” da 5 mila euro al mese diviso tra affitti e bonifici sul conto del figlio. Odevaine investe quasi tutto in Venezuela, paese d’origine della moglie, conosciuta nel ristorante di Piazza Venezia che frequentava quando bazzicava i Palazzi del potere capitolino. Secondo il giudice era pronto a scappare lì, per questo lo arrestano. La terza vita finisce in carcere, stavolta non basta nemmeno aggiungere una “e”.
pa.za.

il Fatto 3.12.14
Accendi il Jammer e passa la paura delle intercettazioni


È L’ANTI-CIMICE, il dispositivo che Carminati e i suoi utilizzavano per disturbare le frequenze e ostacolare le intercettazioni degli inquirenti nei luoghi in cui si tenevano le riunioni così come la frequente attività di bonifica di luoghi e veicoli: è il jammer. È stato lo stesso ex Nar a consigliarlo : “Intanto ti porto un coso... un jammer... intanto lo mettiamo qua lo attacchiamo cosi quando uno è.. lo accende e vediamo.. intanto... qui i telefonini pure se son accesi”). E quando a Buzzi - il re delle coop - chiedevano se il jammer funzionasse (“ma sei sicuro che filtra tutto sto cazzo di... (inc)... con questa mafia qua mi sa che ci troviamo nella stessa cella tutti e due!”), lui rispondeva: “ Questo me l’ha portata Massimo... è una cosa seria!!”. Nelle intercettazioni ricorre spessissimo il riferimento all’accensione del jammer: si sentono i click. E soprattutto le espressioni del sodalizio criminale. Ancora Buzzi: “Gli dici... gli devi di’ scusa... glie devi dì a Gramazio se c’è... accendi quel fregno... “. Sempre Buzzi: “Sì però mo accendiamo sto coso se no non si può parla”. E Carminati che un po’ beffardo commenta: “Tanto ormai se semo fatti beve tutti”.

il Fatto 3.12.14
La strategia di Carminati per entrare in affari con aziende e politici
di Antonio Massari


È la teoria del mondo di mezzo compa’... ci stanno… i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo…”. È questa la tesi di Massimo Carminati, il suo manifesto ideologico, ed è in questa e altre intercettazioni che lo spessore criminale, il progetto mafioso di Carminati viene descritto con estrema chiarezza. Intercettato dal Ros dei Carabinieri, parlando con Riccardo Brugia e Cristiano Guarnera, anch’essi arrestati ieri, Carminati il 13 dicembre 2012 espone la sua teoria.
IL SOVRAMONDO E IL SOTTO-MONDO CHE SI MISCHIANO
“Ci sta un mondo…”, dice Carminati, “un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano e dici cazzo come è possibile … che ne so che un domani io posso stare a cena con Berlusconi… cazzo è impossibile... capito come idea?... il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si incontra… le persone di un certo tipo… di qualunque cosa... si incontrano tutti là... tu stai lì... ma non per una questione di ceto… per una questione di merito, no?... allora nel mezzo, anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno… e tutto si mischia”.
“Chi sta nel sotto sotto – interviene Guarnera - sotto, semo tutti uguali sotto, sotto, sotto…”.
“Sono cose che la gente non sa, non capisce…”, risponde Carminati.
LO METTI SEDUTO E GLI DICI: “COMANDIAMO NOI”
Ed ecco come il mondo di mezzo governa il business, nel pensiero di Carminati, che parla con Brugia, spiegandogli che bisogna prima imporre agli imprenditori la protezione, poi entrare in affari con loro, quindi acquisire le loro attività economiche. “Tu lo devi mette seduto (all’imprenditore, ndr) gli devi dì ‘tu vuoi sta’ tranquillo? … allora mettiamoci a … fermare il gioco… perché dopo ci mettiamo d’accordo con quelli che ti rompono’… Noi dobbiamo andare dritto per le cose... cioè questi devono essere nostri esecutori… devono lavorare per noi … Gli dici… ‘.. aho… senti un po’... a me mi dicono che… c'hai un sacco de problemi... ma scusa ma mettegli vicino qualche bravo ragazzo lo fai guadagna’… e si guadagna … ma noi te se mettemo vicino a te, così non si.... vedrà… più nessuno”… però … deve essere un rapporto paritario, je devi dì… non ti pensare che tu... ecco… a me mi puoi anche …dire che mi dai un milione di euro… per guardarmi… tutte ‘ste merde… non mi interessa… dall’amicizia deve nascere un discorso che facciamo affari insieme… questo è il discorso… non ti pensa' che nun ce sta nessuno… la cosa... ‘perché tanto nella strada - glielo devi dire - comandiamo sempre noi… non comanderà mai uno come te nellastrada... Iotiforniscol’aziendaquella bona … glielo dici… ‘guarda che noi c’abbiamo delle aziende pure di costruzioni… a chi t'appoggi?... ce l'avemo noi … capito? ’ .... ma non è che poi noi… dovemo fa’ costruzioni…”.
LA DOMANDA DA FARE AI NEOELETTI: “CHE TE SERVE? ”
Ecco invece la tesi di Carminati per gli appalti pubblici: bisogna “bussacchiare” ai neoletti, spiega il 20 giugno 2013 al solito Brugia, e “gli si dice che progetti c’avete? … come posso guadagnare, che te serve il movimento terra? Che ti attacco i manifesti? Che ti pulisco il culo… ecco, te lo faccio io, perché se poi vengo a sape’ che te lo fa un altro, capito? Allora è una cosa sgradevole”.
FINMECCANICA E LA “BANDA DEI PAGLIACCI”
Carminati viene intercettato mentre parla con Paolo Pozzessere, ex direttore commerciale di Finmeccanica, indagato a Napoli per le inchieste per le presunte tangenti del colosso industriale. Ed ecco la tesi di Carmi-nati: “… una cosa, dove essendo Finmeccanica... questo perché il gruppo, il gruppo di elementi come sempre si mettono a fare la guerra tra loro e in mezzo ce deve anda’... neanche dici sai la cordata che poi ce va dall'altra parte, no... nell'ambito della stessa cosa capito? I Tremontiani con i Lettiani, Adinolfi con quell'altro … si sono massacrati uno con l'altro eccolo là, questo è il risultato... lasciamo sta, va’... ‘sta banda di pagliacci, l'Italia è veramente il paese…”
LIBRO MEGLIO DELLA FICTION E LA SERIE TV UNA BUFFONATA
Guarnera chiede a Carminati quale rappresentazione della storia della “Banda della Magliana” sia la più veritiera. E Carminati: “Romanzo criminale, eh… il film... la serie è una buffonata… il libro è abbastanza veritiero…”.
IL COMUNE PARTE CIVILE: ALEMANNO È UNA MERDA
Quando nel 2013 Alemanno annuncia che il Comune si costituirà parte civile contro Mancini, indagato per una storia di mazzette, Carminati commenta: “Alemanno che ieri sul giornale... ha scritto che... la merda... che si costituirà parte civile contro Mancini... ma Mancini è un uomo tuo … non ti puoi comportà così”.
MOKBEL È UN CAZZONE E A UN COMIZIO MENÒ ALEMANNO
Su Gennaro Mokbel, condannato a 15 anni in primo grado, nel processo sul maxi riciclaggio Telekom Sparkle Fastweb, e indagato anche in quest’inchiesta, Carminati commenta invece così: “Mokbel è un cazzone, però, sai che c’ha lui?.. che ha sem... ha sempre fatto questo però, che lui non è che ha fatto questo perché aveva preso i soldi… da tutti.. sempre è stato... (inc)..., cioè lui mi ricordo ai tempi di... (inc)..., hanno fatto la lega meridionale, è sempre uno che ha fatto politica… ha menato Alemanno… mi ricordo... sotto un comizio hanno picchiato... (inc) …. Alemanno, per questo poi Alemanno si appoggiò al gruppo di terza opposizione, no?.., lui ha sempre fatto politica, Gennaro, non è che lui ha fatto politica perché c’aveva i soldi, capito? Però in questo momento... eh... un voto de scambio,... (inc)... che cazzo, c’hai la truffa, fai il truffatore, che ne so... hai fatto la truffa più grossa che sia stata mai fatta a Roma...... almeno... inc.... a Roma, che cazzo, basta, pijate i soldi, sparisci,... (inc)..., invece loro continuano a fare le loro cose sotto l’occhio dei carabinieri”... ”.
I POLIZIOTTI AVVERTONO: “STAI SOTTO INDAGINE”
Il 4 ottobre 2013 due poliziotti incontrano Carminati al distributore di Corso Francia e discutono del fatto che è sotto indagine, invitandolo a cautelarsi.
Uomo: Perché adesso te stai sotto indagine...
Uomo2: … devi evitare …

il Fatto 3.12.14
Di Stefano dai pm, il legale inquisito
Mentre l’esponente Pd va in  Procura per il caso Lazio Service, l’avvocato invischiato nella retata del Ros
di Rita Di Giovacchino


Storie di corruzione che s’intrecciano all'ombra del Campidoglio. Proprio mentre scattavano le perquisizioni dei carabinieri del Ros, l'esponente piddino Marco Di Stefano, indagato per corruzione e falso, s’è presentato in procura per esser interrogato sulla tangente da 2 milioni di euro che avrebbe incassato, quando era assessore alla Regione Lazio nella giunta Marrazzo, dai costruttori Antonio e Daniele Pulcini.
Colpo di scena, a non presentarsi è stato il suo avvocato Pier Paolo Dell'Anno, già difensore dell' ad di Ente Eur Riccardo Mancini. Assenza giustificata perché i carabinieri del Ros erano nel suo studio. Anche Dell'Anno e due collaboratori dello studio risultano indagati per il famigerato 416 bis contestato ai presunti appartenenti di Mafia capitale. A convincere i pm Ielo e Tescaroli che i rapporti tra l'avvocato e l'ex braccio destro di Alemanno andavano al di là dei corretti rapporti tra difensore e imputato è un intreccio di telefonate tra lui, Carminati e lo stesso Mancini. Per l'accusa il legale difendeva gli interessi dell'organizzazione controllata da Carminati, impedendo che gli appalti venissero affidati a società estranee al giro di affari. Proprio il “cecato” avrebbe convinto Mancini a nominare Dell'Anno e non il legale Moneta Caglio che abitualmente lo assisteva. È un altro tassello nella tela di interessi, ricatti e intimidazioni che sembrano legare gli amministratori della vecchia Giunta capitolina a personaggi della destra eversiva che avevano proprio all'Eur il loro punto di incontro. L'interrogatorio di Di Stefano alla fine c'è stato grazie alla presenza dell'avvocato Francesco Gianzi, e si è parlato soprattutto della scomparsa di Alfredo Guagnelli che, secondo l'accusa, avrebbe svolto il ruolo di collettore di tangenti per conto dell'ex assessore e sarebbe destinatario di una mazzetta da 300 mila euro da parte dei costruttori Pulcini nell'ambito della vicenda Lazio Service. “Non avevo rapporti d’affari con Alfredo Guagnelli, non è mai stato un mio assistente o collaboratore, ma un semplice amico con cui condividevo momenti di vita privata”, ha ribadito ai pm Cugini e Palaia che lo hanno ascoltato per oltre 4 ore. In qualità di testimone, perché il fascicolo sul presunto omicidio è tuttora a carico di ignoti.
L’esponente Pd ha confermato di averlo incontrato la sera in cui è scomparso: “È passato in ufficio a trovarmi, come faceva spesso, ma non sono a conoscenza delle sue attività ed escludo che sia mai stato coinvolto in vicende che potessero interessare la Regione Lazio".

La Stampa 3.12.14
Mattia Feltri
:
Mamma mia che roba a Roma. Politici di destra e di sinistra, da Gianni Alemanno a uomini del Pd e passando per il Pdl, la criminalità organizzata, la destra eversiva, le associazioni mafiose, i servizi segreti, pezzi di istituzioni, piccoli picchiatori e grandi eredi del Libanese. Sconcerto nell’attuale amministrazione. Ignazio Marino: «Ma come diavolo facevano a starci tutti in questa Panda della Magliana? ».

il Fatto 3.12.14
“Per ammazzare Di Matteo, doveva saltare il tribunale”
Palermo: 150 chili di tritolo
Gli inquirenti ricostruiscono il piano stragista di Cosa Nostra contro il pm della Trattativa
di Giuseppe Pipitone e Sandra Rizza


Palermo Volevano farlo saltare davanti al Palazzo di Giustizia di Palermo. La prima versione del piano di morte per uccidere Nino Di Matteo prevedeva l’utilizzo di un’autobomba che doveva esplodere all’arrivo del corteo delle macchine blindate nei pressi degli uffici giudiziari. Sono i nuovi dettagli del racconto di Vito Galatolo, il neo-pentito dell’Acquasanta che ha svelato le fasi di preparazione dell’attentato con il quale Cosa Nostra voleva rilanciare lo stragismo a Palermo e uccidere il magistrato.
UN ATTENTATO spettacolare, che presumibilmente avrebbe fatto numerose vittime, e che poi viene bocciato proprio perché avrebbe provocato una reazione di indignazione collettiva che i boss del gotha mafioso vogliono a tutti i costi evitare. Di questi argomenti, i boss discutono nel corso di numerose riunioni convocate nel dicembre 2012 appositamente per definire i dettagli dell’agguato. Nel summit del 9 dicembre, in un appartamento di via Lincoln, i picciotti dei clan palermitani leggono la lettera con la quale Matteo Messina Denaro ordina il progetto di morte nei confronti del pm che “si è spinto troppo oltre’’, e vengono a sapere che all’attentato sarebbero interessate “anche entità esterne’’ a Cosa Nostra. Le lettere inviate dal boss di Castelvetrano al commando sono più di una, e vengono lette durante le riunioni da Girolamo Biondino, il fratello dell’ex autista di Totò Riina: a un certo punto i boss comunicano al superlatitante di aver già acquistato il tritolo, ma di non essere in grado di confezionare l’ordigno esplosivo, e allora Messina Denaro fa sapere che “non c’è problema’’, perché al momento opportuno arriverà “un artificiere’’. Tra il dicembre 2012 e il marzo 2013 i mafiosi lavorano a tappe forzate: raccolgono i 600 mila euro necessari a pagare oltre 150 chili di tritolo, acquisiscono l’esplosivo, e trovano persino il modo di farsi cambiare una parte del quantitativo, ritenuta “troppo umida’’ e dunque inefficace. Poi passano allo studio delle abitudini del pubblico ministero che in quel momento è ancora un “bersaglio” facile: è scortato solo da cinque uomini dei carabinieri e da due automobili, e soprattutto conduce una vita abbastanza abitudinaria. Per questo motivo, scartata l’idea dell’esplosione al Tribunale, i picciotti si concentrano sulla zona dove risiede il magistrato. Poi, però, a fine febbraio 2013, in procura arriva un anonimo: chi scrive si qualifica come uomo d’onore di Alcamo e dice che già da due mesi segue gli spostamenti di Di Matteo per preparare un attentato ai suoi danni.
È il primo dei messaggi anonimi che avvertono il magistrato di un piano di morte in preparazione per lui. Nello stesso anonimo si fa cenno al fatto che Totò Riina in persona avrebbe avallato il progetto di strage. Pochi giorni dopo arriva il secondo anonimo, quello che fa riferimento agli “amici romani di Matteo’’ Messina Denaro, che non vogliono un “governo di comici e froci’’, alludendo all’escalation del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. I pm della Procura di Caltanissetta hanno chiesto a Galatolo se fosse lui l’informatore che in quei mesi manda a ripetizione avvertimenti al pm della trattativa Stato-mafia, con lettere anonime indirizzate alla Procura di Palermo, ma il picciotto dell’Acquasanta ha negato.
C’È DUNQUE un’altra gola profonda nel commando mafioso che preparava il ritorno allo stragismo? Quel che è certo è che le lettere che arrivano in procura raccontano dettagliatamente la fase preparatoria dell’agguato riferendo particolari sulle abitudini di Di Matteo che già all’epoca di rivelano esatti, e che oggi vengono riscontrati dal lungo racconto di Galatolo.
Per questo motivo, il neo pentito viene sottoposto in questi giorni a continui interrogatori sia da parte dei pm di Palermo titolari delle inchieste sulla riorganizzazione dei clan di Cosa Nostra nel capoluogo, sia dai pm nisseni che indagano sul progetto di attentato a Di Matteo e sulla strage di via D’Amelio: Galatolo, infatti, più volte ha sottolineato che il piano di morte per il magistrato di Palermo doveva essere simile a quello che il 19 luglio ’92 massacrò Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. “Dottore – ha detto il neo pentito nel suo primo incontro con Di Matteo – i mandanti per lei sono gli stessi che hanno voluto la morte di Borsellino”.

La Stampa 3.12.14
Il rischio guerriglia per il Colle
di Luigi La Spina


Il passato remoto non ci conforta troppo e quello prossimo addirittura ci sconforta. La storia delle elezioni per il Presidente della Repubblica, durante la seconda metà del secolo scorso, è costellata di memorabili guerriglie.
Battaglie a Camere riunite, che solo in due occasioni, quella che decise la nomina di Cossiga e quella che portò Ciampi al Quirinale, si arresero a un quasi generale accordo tra i partiti. La tormentata vicenda della scorsa primavera che portò alla rielezione di Napolitano, poi, è talmente vicina nel tempo e sanguinosa nella memoria di tutti per non ispirare tristi presagi. Così, in vista delle probabili dimissioni, durante il mese di gennaio, dell’unico presidente bis della nostra Repubblica, si stanno infittendo le preoccupazioni per il possibile nuovo spettacolo di divisioni, tradimenti, rivalse personali sulla scena della nostra già travagliata politica nazionale. Con il corollario di giustificati e accorati appelli perché si eviti la replica di un copione così squallido.
L’ipotesi di una nuova sequela di scrutini nulli nella giungla di peones imbizzarriti, capi e capetti dediti a vendette trasversali, leader smarriti e impotenti, non rappresenta solamente un incubo per chi teme per il decoro delle istituzioni, per chi paventa l’offesa al bon ton parlamentare e, magari, prevede, in questo caso, la scelta di una persona non all’altezza del prestigio e delle responsabilità di una carica così importante. La vera e propria angoscia per questa prima prova della politica italiana, all’inizio del nuovo anno, deriva dalla congiuntura economica nella quale si svolgerà.
Al di là delle strumentali interpretazioni ottimistiche dei cattivi segnali che, da tutte le parti, piovono sullo stato della nostra economia, è evidente la gravità della situazione occupazionale, specialmente giovanile, di una ripresa dei consumi che ancora non appare all’orizzonte, di una produzione industriale stagnante. Tra tutte queste notizie negative, l’unico dato confortante è certamente quello del famoso spread, un termine che ormai anche gli anglofobi si sono rassegnati a usare, tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi. Una differenza così rassicurante che si può spiegare solo con un motivo: il valore che la stabilità, vera o presunta, del nostro governo assume nella percezione della comunità finanziaria internazionale.
Ecco perché se anche questa convinzione, più o meno fondata, dovesse essere travolta da una battaglia rovinosa per la nomina del nuovo Presidente della Repubblica, una battaglia con conseguenze devastanti per tutti i principali partiti e, quindi, con un inevitabile ricorso ad elezioni politiche anticipate, l’effetto sui mercati finanziari sarebbe drammatico.
Ci sono speranze che questo lugubre scenario ci sia evitato? È ormai pensiero comune, persino scontato, che l’occasione della nuova nomina per il Quirinale potrebbe rappresentare, per Renzi, «la tempesta perfetta». In tanti l’aspettano per scaricare i risentimenti per le sue sbrigative rottamazioni, per i maldigeriti accordi del Nazareno con Berlusconi, per i suoi attacchi ai sindacati e per il generale disprezzo per le liturgie concertative e compromissorie a cui erano abituati.
Tocca al presidente del Consiglio e al segretario del primo partito in Parlamento, quindi, la regia di una partita che si annuncia difficilissima. Non solo perché si tratta della regola consueta in queste elezioni, ma proprio perché l’esito potrebbe determinare il suo destino, arrivato a un bivio decisivo. Se Renzi dovesse perdere, la sua carriera potrebbe restare, nella storia della nostra Repubblica, l’esempio della più folgorante ascesa e della più folgorante caduta di un giovane leader politico. Se dovesse vincere, il suo spietato «ratto» del potere si potrebbe trasformare in un lungo regno al governo del nostro Stato.
Le lezioni del passato non serviranno a molto. L’accordo che De Mita riuscì a concludere per la subitanea elezione di Cossiga al Quirinale, nel 1985, fu l’ultima ingannevole prova di forza di una prima Repubblica che, invece, si avviava al declino. Quello del 1999, con la regia di Veltroni, che scelse Ciampi, sempre al primo scrutinio, fu favorito sia dal prestigio di una personalità fuori dalle etichette di partito, sia dal riconoscimento del ruolo svolto dall’ex governatore della Banca d’Italia e dell’ex ministro del Tesoro per la partecipazione immediata del nostro Paese alla moneta unica europea. Circostanze irripetibili e figure pubbliche troppo lontane dalle attuali per indicare possibili strategie imitative.
L’unico ricordo storico che potrebbe suggerire un parallelo riguarda, forse, un’altra emergenza della nostra vita politica. Quella che costrinse, sotto la minaccia del terrorismo mafioso contro lo Stato, a una repentina intesa dei partiti per risolvere il lungo stallo degli scrutini che dovevano decidere il successore di Cossiga e che portò, nel maggio 1992, alla nomina di Scalfaro. Ora è l’emergenza della nostra economia a non sopportare pure una guerriglia per il Quirinale. Ma il segnale di responsabilità deve darlo subito Renzi, proponendo un nome autorevole, di grande garanzia democratica e di sicura competenza istituzionale. Se avrà paura di una personalità troppo indipendente, anche da lui, troppo ingombrante, anche per lui, quella partita l’avrà persa prima di cominciarla.

La Stampa 3.12.14
Partita a scacchi sulla sorte dell’Italicum
di Marcello Sorgi


Matteo Renzi prova a far quadrare il cerchio della legge elettorale, proponendo una clausola mirata a fugare i timori di alleati e avversari sul desiderio del premier di chiudere in anticipo la legislatura. Anche a costo di far votare la Camera con il nuovo sistema maggioritario, e il Senato (nel caso in cui lo scioglimento arrivasse prima del completamento della riforma) con il proporzionale previsto dalla sentenza della Corte costituzionale che ha cancellato il Porcellum.
La proposta è di stabilire un limite temporale esplicito, ad esempio gennaio 2016, per l’entrata in vigore della nuova legge, che non potrebbe essere adoperata nella prossima primavera, ma verrebbe comunque approvata in Senato entro la fine dell’anno e definitivamente varata dalla Camera a inizio 2015. Renzi è convinto di riuscirci grazie alla disponibilità di Napolitano, resa esplicita dalla nota del Quirinale di lunedì, di non annunciare le dimissioni almeno fino alla conclusione del semestre europeo di presidenza italiana. Il Capo dello Stato ha aggiunto che farà le sue valutazioni indipendentemente dall’attività in corso di governo e Parlamento. Ma basterebbe che l’uscita di scena del Presidente si collocasse nella seconda metà di gennaio, a giudizio di Renzi, per consentire l’approvazione del nuovo sistema elettorale prima che si apra la partita del Quirinale, di cui però tutti parlano come se fosse già cominciata.
La ministra Boschi ieri sera a Otto e mezzo ha confermato che questo è il percorso che Renzi ha individuato per superare le ultime resistenze, e in nessun caso il premier accetterebbe invece l’aggancio della legge elettorale al varo della riforma del Senato. Ufficialmente l’orizzonte del governo resta quello della conclusione naturale della legislatura nel 2018. Ma l’urgenza di Renzi di arrivare al risultato fa pensare ad alleati e avversari che il premier non abbia affatto rinunciato all’idea dello scioglimento delle Camere, una volta incassato l’Italicum. Il testo sta per uscire dalla commissione Affari istituzionali e arriverà in aula il 22 dicembre. Tecnicamente il tempo di approvarla ci sarebbe. Occorrerà vedere quale sarà l’atteggiamento delle opposizioni, quante migliaia di emendamenti saranno presentati, e soprattutto come si comporterà Forza Italia, che aveva chiesto di rallentare l’iter della legge affrontando prima il problema dell’elezione del successore di Napolitano. Renzi ha detto e ripetuto che stavolta non si straccerà le vesti se l’accordo con Berlusconi dovesse venir meno e l’incrinatura del patto del Nazareno ha riportato quasi per miracolo il Pd all’unità. Quei venti o trenta voti che l’ex-Cavaliere garantiva al Senato il premier potrebbe cercarli nelle file del Movimento 5 stelle: la cui diaspora, dopo la sconfitta elettorale e dopo il passo indietro di Grillo, è appena cominciata.

Corriere 3.12.14
Il premier tenta di rassicurare per piegare le resistenze
di Massimo Franco


Matteo Renzi vuole il primo «sì» del Senato alla riforma elettorale entro dicembre: tanto più dopo la sponda istituzionale che gli ha offerto lunedì il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, scansando a gennaio il tema delle proprie dimissioni. Ma sa anche che per ottenerlo deve rassicurare i suoi avversari nel Pd e dentro Forza Italia: deve convincerli che non vuole andare alle urne nel 2015. Per questo, ieri ha proposto «una clausola di salvaguardia che fa entrare in vigore la legge elettorale il 1° gennaio 2016». E’ una mossa abile e obbligata, che può piegare qualche resistenza.
Ma non tutti gli oppositori che vedono il premier in difficoltà appaiono inclini a gesti distensivi, anzi. Non ci si accorge della sconnessione vistosa tra il dibattito tormentato sui tempi delle riforme parlamentari, e gli arresti eseguiti ieri a Roma dalla magistratura contro una quarantina di esponenti della nomenklatura capitolina: una retata trasversale. La determinazione della Procura rivela un mondo politico distratto e prigioniero delle divisioni interne. Si accentua l’impressione di un sistema sovraesposto ai rischi di delegittimazione.
Il Movimento 5 stelle preferisce vedere in quanto accade intorno al Campidoglio i frutti avvelenati del patto del Nazareno tra Renzi e Silvio Berlusconi. In realtà, il malaffare è cominciato molto prima, e dunque l’accusa suona strumentale. Oltre tutto, l’alleanza tra presidente del Consiglio e fondatore di Forza Italia appare in bilico. Il premier insiste per il sì alla riforma elettorale entro dicembre; Berlusconi sta facendo di tutto per impedirlo. Sullo sfondo, ci sono sempre i timori di elezioni anticipate. Ma c’è anche la questione del Quirinale, vero spartiacque non solo della legislatura ma degli equilibri dei prossimi anni.
La quasi certezza che Napolitano si dimetterà tra qualche settimana ha irrigidito tutte le posizioni; e rimesso in forse soluzioni date quasi per certe. Il capo dello Stato ne è così consapevole che l’altro ieri ha fatto ribadire dal suo ufficio stampa il rifiuto di essere utilizzato da chi vuole rinviare le riforme; e con il suo gesto ha voluto tendere la mano a palazzo Chigi. La sponda, tuttavia, potrebbe rivelarsi comunque scivolosa per un Renzi determinato ad approvare il sistema elettorale tra diffidenze diffuse. I berlusconiani intensificano la polemica sul doppio spartito dell’attacco alla politica economica del governo, e del sospetto per la «fretta» del premier.
Trovano alleati oggettivi in una minoranza del Pd decisa alla guerriglia parlamentare e ostile al compromesso raggiunto alcune settimane fa nella coalizione tra Pd e Ncd. Renzi si rende conto dell’insidia: di qui a febbraio si gioca tutto. E capisce che,oltre a forzare i tempi dell’approvazione, deve trovare qualche punto di incontro con gli avversari. Non si può «legare la riforma elettorale a quella costituzionale: sarebbe un atto contro la Costituzione», ha ammonito ieri. Eppure il Pd rimane diviso, e nessuno sembra in grado di ricompattarlo: nonostante le vittorie elettorali.

Repubblica 3.12.14
Quirinale, il premier tende la mano a Bersani
In vista dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica Renzi riannoda i fili del dialogo con l’ex segretario Pd che apre: “La condivisione è possibile sapendo che io non accetto scambi, non è nella mia natura”. La paura dei 101
di Goffredo De Marchis


ROMA Un presidente della Repubblica che parta dalla proposta del Partito democratico. Questa è la base su cui Matteo Renzi sta cercando un dialogo con la minoranza e con quella che considera la guida morale di quel pezzo del Pd: Pier Luigi Bersani. Per questo i suoi interlocutori da alcuni giorni gli sentono ripetere parole che starebbero bene in bocca all’ex segretario: «Se noi troviamo una compattezza interna non ce n’è per nessuno. Passa dal Pd la gestione della partita per il Colle. Quindi adesso lavoro per la tenuta e la consapevolezza del mio partito ». Che si può tradurre così: evitiamo un bis dei 101 di Prodi. «Nel 2013 c’era un Pd in difficoltà mentre Forza Italia e Grillo avevano una linea dura e solida. Oggi è esattamente il contrario. Dobbiamo sfruttare l’occasione ». È questo il terreno su cui Bersani ha più volte richiamato il suo successore: «Partire dal Pd». O meglio: «Da quel 25 per cento che ha segnato una vittoria striminzita ma ci ha permesso di fare ben due governi». Una rivendicazione personale che l’ex leader prima o poi vorrebbe veder riconosciuta dal premier. Se Largo del Nazareno sceglierà una candidatura alta e forte, «non ci sarà nemmeno bisogno di grandi contrattazioni interne », dice un bersaniano doc come Alfredo D’Attorre. «La condivisione è possibile — spiega Bersani ai suoi collaboratori —. Sapendo che io non accetto scambi, non è nella mia natura ». Resta però di fondo la diffidenza dell’ex segretario. «So che Matteo è sempre alla ricerca di colpi di immagine. Il modello Muti per fare un esempio. Però il Paese è ancora su una strada piena di curve e ci vuole una personalità che sappia guidare la macchina». Bersani non solo considererebbe la scelta di marketing come «una stravaganza ». Sarebbe, dice, «un abbassamento del livello politico e istituzionale che comporterebbe un danno per l’Italia». Bisogna studiare un’altra soluzione.
Nei suoi colloqui quotidiani con la minoranza, allora, il vicesegretario Lorenzo Guerini propone un accordo sul metodo e soprattutto sull’unità del Pd. «Poi troveremo il candidato», dice. Ma i colloqui sono sempre più frequenti e ora coinvolgono anche la legge elettorale, un passaggio preliminare all’elezione del capo dello Stato e sul quale minoranza e maggioranza del partito sono sempre distanti.
Eppure anche sull’Italicum da Renzi viene qualche apertura. In vista del voto quirinalizio. Il premier sa che Bersani è il punto di riferimento di Area riformista, la corrente di Roberto Speranza, Maurizio Martina, Nico Stumpo e Guglielmo Epifani che conta parecchi voti tra Camera e Senato. Sa anche che la scelta dell’ex segretario di votare “sì” al Jobs Act, seppure per disciplina, ha avuto l’effetto di contenere il dissenso nel gruppo parlamentare limitandolo a 40 deputati. Per tutti questi motivi oggi è indispensabile guardare ai bersaniani e dimenticare l’affondo della Leopolda quando scaricò «quelli che ci vogliono riportare al 25 per cento », parole che hanno segnato il punto più basso del rapporto Renzi-Bersani e che sancivano uno strappo profondo nel Pd. Tra vecchi e nuovi, tra il passato e il futuro. Oggi Renzi deve ricucire quel filo.
Non è certo una gentile concessione ai rottamati, quella del premier. Il patto del Nazareno fa acqua da molte parti e rischia di trascinare nel caos la corsa al Colle. Non a caso Bersani si incunea nella frizione Renzi-Berlusconi e torna ad attaccare sulla legge elettorale. Il tema sono le preferenze. «Non mollo sull’Italicum », avverte. E sempre di più gli sviluppi del dibattito al Senato diventano fondamentali per vaticinare il voto per il Quirinale. I gruppi parlamentari dei contraenti del Nazareno tengono sull’Italicum? Un bersaniano prevede «mare mosso» a Palazzo Madama. «Il nucleo d’acciaio sono le liste bloccate, nient’altro», racconta. Proprio quello che l’ex segretario vuole intaccare per scendere da 350 nominati a 100-150. «Se il numero è 100 — ha risposto Guerini a Francesco Boccia in una conversazione di ieri — ve lo scordate». Renzi proverà a mediare su una composizione della Camera fatta da 2/3 di eletti (380 deputati) e 1/3 bloccati (250). Ma Berlusconi è d’accordo? «Nel patto adesso — dice il bersaniano — c’è anche il sospetto di Berlusconi sul voto anticipato. Per questo l’esito dell’Italicum al Senato sarà la prova del nove per capire come andranno le cose sul Quirinale». Dentro Forza Italia e dentro al Pd.

Corriere 3.12.14
Berlusconi: Matteo ha bisogno di noi
di Paola Di Caro


Il Cavaliere assicura di non voler ostacolare le riforme: tanto da Grillo non cava nulla Sfida aperta al governo sull’economia (anche per contendere lo spazio di Salvini)

ROMA La linea resta la stessa. Realistica: se si vuole ottenere qualcosa da Matteo Renzi — un nome condiviso per il Quirinale e la durata più lunga possibile della legislatura — non ci si può mettere di traverso su riforme e legge elettorale. E però Silvio Berlusconi, tornato ieri a Roma per fare il punto con i suoi e preparare le prossime uscite, non ha fretta di accontentare il premier.
«I problemi ce li hanno loro in casa, e soprattutto in commissione i numeri non dovrebbero tenerli tranquilli... Non sarà facile per Renzi portare a casa riforme e legge elettorale: dovrà evitare forzature e avrà assoluto bisogno di noi visto che dal M5S non cava nulla...» dice il Cavaliere a quanti, fra i suoi, gli dicono di tenere duro perché l’Italicum ultima versione ha «molte parti che non ci stanno affatto bene». Il segnale mandato da Algeri dal leader del Pd — la possibilità che nell’Italicum sia prevista una clausola che fa entrare in vigore la legge solo dal 2016 — in verità però è letto come la volontà di rassicurare gli avversari, proprio per evitare che gli scontenti dei vari schieramenti si saldino e facciano slittare, se non saltare, ogni intesa.
Così la vede sicuramente il gruppo di senatori che fa riferimento a quel Raffaele Fitto con cui Berlusconi non ha ancora ripreso a dialogare, arrabbiato com’è per la linea di opposizione interna e per l’autonomia con cui la componente si muove, minando l’autorità e la potenzialità a trattare del leader. I 18 fedelissimi fittiani ieri in massa si sono iscritti a parlare in commissione proprio per mandare un avvertimento al premier: niente scherzi, servono garanzie che non vengano sciolte le Camere. E l’idea dell’entrata in vigore dell’Italicum non prima di un anno è «già un passo avanti», dicono.
Ma anche nell’inner circle berlusconiano l’apertura è stata valutata positivamente: «Vediamo cosa proporranno davvero nei prossimi giorni. La clausola? Sentiamo come la vorranno scrivere, se ne può discutere...», dice Paolo Romani. Che insiste sull’importanza di alcuni nodi dell’Italicum, primo fra tutti quel premio alla lista e non più alla coalizione che a FI provocherebbe molti problemi.
Sì perché, con il leader della Lega Matteo Salvini, dopo il momento dei complimenti adesso è arrivato per Berlusconi quello della competizione. Rallegrato dal successo del tax day, il Cavaliere vuole tentare di riprendersi gli spazi perduti di opposizione, contendendoli alla Lega, sui temi dell’economia: giovedì dovrebbe tenersi una conferenza stampa per annunciare la prossima battaglia contro il governo, quella per la flat tax, vecchio cavallo di cavallo degli azzurri. E Berlusconi vuole esserci, in prima fila.

Repubblica 3.12.14
La beffa della prescrizione
I processi a rischio
di Liana Milella

C’È UN processo, guarda caso di Berlusconi, che mette nel nulla le promesse di Renzi e Orlando sulla riforma della prescrizione. I familiari di chi è morto per l’amianto della Eternit ed è rimasto senza giustizia possono aspettare. L’emergenza è un’altra.
ANAPOLI c’è il caso De Gregorio, l’inchiesta sulla compravendita dei voti, dibattimento di primo grado in corso, l’ex premier alla sbarra, ma una prescrizione in agguato, autunno del 2015. Non avremo mai la certezza che non si cambiano le regole della prescrizione col rischio di coinvolgere anche il suo processo. Ma è un fatto, questo sì storicamente compiuto. Lì, squadernato davanti a tutti: da 90 giorni la riforma della prescrizione è bloccata per via di tre righe, sperdute in fondo a una ventina di pagine. Tre righe pesantissime, con un nome che ha dominato il ventennio berlusconiano e che eravamo convinti di aver ormai consegnato alla cronaca del passato. Parliamo della “norma transitoria”.
Sì, proprio lei, il fantasma del passato che torna. Potente al punto da impedire che un disegno di legge del governo, approvato il 29 agosto — quello che contiene all’articolo 3 la nuova prescrizione, o prescrizione bloccata come la si voglia battezzare — possa approdare alle Camere e correre al voto. Niente da fare. Azzoppato prima di spiccare il volo. Zavorrato dalla “norma transitoria”, tre righe che regolano l’applicazione effettiva della futura prescrizione. Righe su cui Renzi e Orlando si giocano la faccia non solo con i familiari delle vittime Eternit, ma con i magistrati che vedono morire i processi giorno per giorno. Come raccontano a Milano, «massacrate decine e decine di inchieste fiscali». Come documentano a Palermo, il caso dell’amianto nei cantieri navali con l’accusa di omicidio colposo passato da 60 a una ventina di omicidi colposi, gli altri prescritti. Come ricordano a Firenze, messo nel nulla l’odioso processo per gli abusi sessuali e i maltrattamenti subiti per 30 anni dai bambini affidati alla comunità del Forteto. O ancora, sempre a Firenze, nessun colpevole per i danni prodotti dai lavori dell’alta velocità nel Mugello, quelli dell’autosole e della variante di valico. A Torino, dopo Eternit, rischia ThyssenKrupp. A Bari non arriverà nemmeno al processo lo scandalo della concorsopoli universitaria.
Però poi ci sono i processi della politica. La compravendita di Berlusconi. Ma non solo. A Napoli molte delle corruzioni contestate all’ex deputato del Pdl Alfonso Papa. Ancora a Bari il processo per corruzione di Raffaele Fitto, condanna in primo grado che potrebbe scomparire proprio grazie alla prescrizione. Inutile chiedersi allora perché servono 90 giorni — tre, lunghi, mesi — per far sì che la riforma della prescrizione compia poche decine di metri, da palazzo Chigi alla Camera. In questi 90 giorni lo scontro sulla “norma transitoria” è stato intestino. Dice il testo che il nuovo sistema — prescrizione bloccata in primo grado, ma poi via al “processo breve”, due anni per l’appello e uno per la Cassazione — «si applica ai procedimenti in cui la sentenza di condanna in primo grado è pronunciata successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge». Se il dibattimento di Berlusconi a Napoli finisce prima che la legge sia approvata, allora Silvio può stare tranquillo perché il suo processo sta per “morire” per prescrizione. Se invece la legge fosse stata approvata prima, allora l’ex Cavaliere avrebbe dovuto preoccuparsi. Adesso può dormire sonni di piombo perché i 90 giorni persi, che diventano 150 se si parte dal consiglio dei ministri del 30 giugno con il primo annuncio della riforma della prescrizione, lo mettono in sicurezza perché il processo di primo grado finirà prima che la legge sia approvata. Tuttavia la destra della politica, Ncd dentro al governo e Forza Italia fuori, non dà tregua, non farà passare la legge se quelle tre righe, cui il Guardasigilli Orlando sarebbe disposto a rinunciare, non garantiranno il salvacondotto ai processi in corso.
Quante colpe ha il Pd? A volerle misurare in anni, sul Pd gravano 8 anni di colpe. La legge ex Cirielli, approvata da Berlusconi per se stesso nel dicembre 2005, avrebbe potuto essere buttata nel cestino da Prodi l’anno dopo. Ma non se ne fece niente. Promesse da marinaio anche allora. Il Pd ne dette garanzia nelle piazze, ma se ne scordò in Parlamento. E la ex Cirielli è ancora lì a mietere vittime, 1.552.435 milioni di processi in 10 anni. Processi di tanti, immolati sull’altare dei processi di pochi, la casta, Berlusconi in testa. Grande delusione. Non c’è altro da dire.

La Stampa 3.12.14
Cuperlo
“Sbagliato forzare i tempi. Sembra voglia votare”
Legge elettorale, Cuperlo punzecchia il premier
intervista di Francesca Schianchi


«Fare le riforme è un dovere: dopo anni di discussioni, superare il bicameralismo attuale e avere una buona legge elettorale è un modo per ridare credibilità alle istituzioni. Il punto è farle bene».
Gianni Cuperlo, lei in Direzione ha chiesto che si discutano altre modifiche.
«Bisogna procedere, certo, ma bisogna tener conto che la riforma elettorale e quella costituzionale sono come i pedali di una bicicletta, che sta in piedi solo se si agisce su entrambi i pedali».
La proposta di Renzi è di fare entrare in vigore l’Italicum dal 1° gennaio 2016.
«Il Parlamento non è un latte a scadenza. La questione è dare una coerenza al modello istituzionale. E se si slegasse la legge elettorale dal destino della riforma costituzionale, allora il sospetto che si voglia accelerare per arrivare al voto somiglierebbe molto a una prova».
Il premier ripete che non vuole andare a votare.
«E io voglio credergli perché penso come lui che l’interesse del Pd sta nel fare le riforme e ridare così una speranza a famiglie e imprese. Dico solo che per fare buone riforme non è necessario stravolgere l’impianto che c’è, però bisogna avere fiducia nel lavoro del Parlamento e nella possibilità di trovare lì le soluzioni convincenti per i problemi ancora aperti».
Finora c’è stata poca fiducia nel lavoro del Parlamento?
«Storicamente la riforma della Costituzione è sempre stata una prerogativa del Parlamento, con i governi che questo ruolo rispettavano. Oggi si è scelto un metodo diverso, ma il ruolo del Parlamento va preservato».
Quali sono le modifiche necessarie?
«Per quanto riguarda la legge elettorale, non convincono i capilista bloccati: con quella soluzione torneremmo a un Parlamento prevalentemente di nominati. Nella riforma costituzionale è ragionevole alzare il quorum per eleggere il capo dello Stato in modo da evitare che chi vince nelle urne si prenda tutto, compresi gli istituti di garanzia. E penso sarebbe saggio intervenire sulle funzioni del Senato risolvendo alcune incongruenze».
Ma il Patto del Nazareno scricchiola o tiene ed è ostacolo alle modifiche?
«Sullo stato di salute del Patto del Nazareno non sono la persona giusta a cui chiedere… Ma sono preoccupato dello stato di salute della nostra democrazia. Non la vivo come una questione tecnica, ma interamente politica, che riguarda la credibilità della rappresentanza, i motivi della partecipazione o della mancata partecipazione…».
Si riferisce all’astensionismo?
«I dati sull’astensionismo parlano anche di questo. Di quanto sia inefficace una concezione del potere che traduce il diritto e dovere di governare in una scorciatoia decisionista».
È una critica a Renzi?
«Non è una critica, è una mia convinzione. Non è vero che ascoltare le forze che agiscono nella società sia un modo per rallentare decisioni e riforme: rinunciare a quella fatica o compensarla con la forza del leader può portare a un’esplosione di consenso ma, se quel consenso non lo consolidi nel rapporto con i soggetti che scegli di rappresentare, con la stessa rapidità quella fiamma si può consumare».
Ma Renzi è disposto a discutere altre modifiche?
«Me lo auguro. Bisogna superare il pregiudizio per cui chiunque esprime un’opinione diversa lo faccia per finalità altre da quelle che vengono dette».
Non rischiate però di rallentare tutto?
«No. Bisogna avere fiducia nella capacità del Parlamento di fare le scelte giuste. La carta del prendere o lasciare non funziona mai in politica, tanto più non è accettabile quando in gioco c’è la Carta fondamentale».

La Stampa 3.12.14
Fisco, la bacchettata della Corte dei Conti:

“Divario eccessivo tra dipendenti ed autonomi, norme contraddittorie sulla lotta all’evasione”
I magistrati contabili: la Tax compliance non funziona, serve una nuova strategia
di Giuseppe Bottero

qui

Repubblica 3.12.14
La legge sullo Stato ebraico affonda il governo Netanyahu “Presto elezioni anticipate”
Duro attacco dell’alleata Livni: “No a una norma razzista e antidemocratica” Cacciati i ministri della Giustizia e del Tesoro. La Francia riconosce la Palestina
di Fabio Scuto

GERUSALEMME Dopo aver minacciato da settimane il ricorso alle elezioni anticipate, il premier Benjamin Netanyahu ha deciso di affondare il suo governo ponendo i suoi alleati del Centro, la signora Tzipi Livni e il leader di Yesh Atid, Yair Lapid, davanti a un ultimatum: sostenere la discussa legge su Israele Stato-Nazione del popolo ebraico, oppure andarsene. Avendone ricevuto un netto rifiuto, su una legge giudicata «razzista e antidemocratica», il premier ne ha tratto le conseguenze e già sta tessendo trame per una futura alleanza con i partiti religiosi e i nazionalisti. La Livni ha avuto parole durissime contro l’esecutivo di cui faceva parte fino a ieri sera. «Le prossime elezioni », ha detto, «serviranno a sostituire un governo estremista, provocatorio e paranoico» che «incita una parte d’Israele contro l’altra». Con il “licenziamento” del ministro del Tesoro e della Giustizia si apre così formalmente la crisi, senza aspettare il voto previsto alla Knesset su una mozione di sfiducia presentata dall’opposizione di sinistra, il Labour e il Meretz. Netanyahu ha annunciato che le elezioni si terranno «il prima possibile», visti tempi tecnici non sarà prima di marzo o aprile del prossimo anno.
Lo show-down nel corso di una riunione lunedì notte dove Netanyahu ha presentato cinque richieste per tenere in vita l’attuale governo a Yair Lapid, che le ha respinte tutte. Il premier ha chiesto il congelamento della legge che elimina l’Iva sull’acquisto delle abitazioni per le giovani coppie, uno dei pilastri del programma di Lapid. Netanyahu ha anche chiesto al ministro del Tesoro di trovare 1,5 miliardi da destinare al bilancio della Difesa per coprire le spese della guerra di questa estate a Gaza, e lo stop alle critiche contro costruzione di case israeliane a Gerusalemme Est. Infine ha richiesto il sostegno al controverso disegno di legge che definisce Israele come “lo Stato nazionale del popolo ebraico” — presentato da tre deputati ultrà del Likud e fatto proprio dal premier — che ha suscitato le proteste e le critiche di un ampio raggio nel mondo politico e sociale israeliano per il suo contenuto “anti-democratico”, dal presidente Reuven Rivlin a quello emerito Shimon Peres, il Procuratore generale Weinstein, ex giudici, giuristi. Ma se Netanyahu vuole sopravvivere come leader e ottenere la nomination alle primarie del Likud il prossimo 6 gennaio, deve pagare “un ticket” alla destra che governa il suo partito: la legge sullo Stato-Nazione.
In carica da un anno e mezzo l’ampia coalizione di governo israeliana era frutto di una Knesset frammentata, apparsa a rischio fin dalla sua nascita. L’Esecutivo riuniva due partiti laici di centro favorevoli al negoziato di pace, Hatnua e Yesh Atid, con tre formazioni della destra nazionalista ostili a ogni trattativa con i palestinesi.
Le trame di Netanyahu per il futuro dovranno affrontare le aspirazioni personali degli altri leader della destra. Il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, leader del partito Israel Beitenu, e Naftali Bennett, capo del partito “Focolare Ebraico” vicino ai coloni. Non a caso i due partiti hanno già annunciato che non faranno una lista unita con il Likud.
Con la crisi politica e le elezioni in primavera il negoziato di pace resterà certamente su un binario morto nei prossimi mesi, mentre la tensione a Gerusalemme Est e in Cisgiordania torna a salire in maniera preoccupante. Cresce anche la tensione diplomatica. Ieri il Parlamento francese ha votato il riconoscimento della Palestina, Italia, Slovenia e Spagna seguiranno tra poco.

La Stampa 3.12.14
Netanyahu licenzia gli alleati di centro e punta a vincere con la destra religiosa
di Maurizio Molinari


Benjamin Netanyahu licenzia i «ministri ribelli», dà inizio allo scioglimento della Knesset e punta a elezioni anticipate in marzo per riuscire a guidare un «governo più forte e stabile». L’accelerazione del premier israeliano nasce dai dissidi con Yair Lapid e Tzipi Livni, leader dei partiti centristi «Yesh Atid» e «Hatnua», divenuti insanabili dopo alcuni incontri burrascosi. Netanyahu li accusa di aver voluto orchestrare «un putch contro il governo» attraverso un’offensiva di duri attacchi pubblici. Da qui la decisione di licenziarli da ministro delle Finanze e della Giustizia, riversandogli contro una valanga di accuse con cui inizia la campagna elettorale. «Lapid e Livni si sono dimostrati in disaccordo sul nucleare iraniano, sulla legge sullo Stato ebraico e sulle costruzioni a Gerusalemme - dice Netanyahu - e in queste condizioni non si può governare».
A due anni dalla formazione dell’attuale governo, Netanyahu apre la sfida elettorale sul terreno della sicurezza. La contesa è particolarmente accesa sul progetto di legge che definisce «ebraica» l’identità dello Stato perché Lapid accusa Netanyahu di «nuocere al carattere democratico della nazione penalizzando le minoranze» e Livni è ancora più dura: «Le elezioni ci consentiranno di scegliere fra uno Stato sionista e uno estremista».
Tanto il presidente Reuben Rivlin che il predecessore Shimon Peres hanno criticato la bozza di legge. È un terreno sul quale Lapid e Livni puntano per allontanare dal Likud gli elettori laici. «Netanyahu ci licenzia per consegnare il Paese nelle mani degli ortodossi», accusa Lapid. Ma i sondaggi suggeriscono che il Likud di Netanyahu resta il partito più forte e, puntando sulla legge «Stato ebraico», può costruire una coalizione con «Bait Ha-Yehudì» di Naftali Bennet, «Israel Beitenu» del ministro degli Esteri Avigdor Lieberman e i partiti religiosi dando vita a un patto di destra, più stabile. Il leader laburista, Yizhak Herzog, ritiene tuttavia che «gli israeliani sapranno scegliere» e parla di «tramonto di Netanyahu» candidandosi a guidare un patto fra le opposizioni di centro-sinistra.
Anche Livni pensa a questo scenario ma il leader che suscita più curiosità è un candidato ancora in fieri: Moshe Kahlun, ex ministro del Likud, ostile a Netanyahu e possibile sorpresa politica. Gli altri interrogativi riguardano Lieberman perché nel centro-sinistra c’è chi ipotizza di sottrarlo a Netanyahu, offrendogli la guida dello schieramento avversario. Da oggi la Knesset inizia la procedura di scioglimento, il voto potrebbe svolgersi in marzo e Lieberman lo vuole il «prima possibile». Anche perché la campagna elettorale comporta il congelamento dei negoziati con i palestinesi.

Repubblica 3.12.14
La scuola simbolo bruciata da fanatici contro la pace
A fuoco
, a Gerusalemme, la scuola arabo-ebraica “Mano nella Mano”
di Sayed Kashua

scrittore

LO SCORSO sabato sera è andata a fuoco la scuola araboebraica “Mano nella Mano”, a Gerusalemme. Due aule di prima elementare sono state completamente distrutte. Ho visto scheletri di seggioline dove bambini ebrei e arabi stavano seduti l’uno accanto all’altro (e dove anche i miei figli erano stati seduti quando frequentavano quella scuola), cappotti semicarbonizzati lasciati in classe dai bambini e libri bruciati in arabo e in ebraico.
«Morte agli arabi» era scritto fra le altre cose sui muri della scuola, «Basta con l’assimilazione» e «Con un cancro non si convive». Chi ha appiccato il fuoco non riesce ad accettare l’idea che alunni arabi ed ebrei possano sedere gli uni di fianco agli altri nella stessa classe, senza distinzioni. Per la prima volta, da quando l’estate scorsa mi sono trasferito con la mia famiglia in Illinois per un anno sabbatico, mi sono rammaricato di non essere a Gerusalemme. Di non poter insistere, nonostante tutto (e forse proprio a causa di questo incendio) a mandare i miei figli a quella scuola insieme ad altri genitori. Mi sono rammaricato di non essere accanto agli insegnanti nell’accogliere i bambini con un rassicurante sorriso e la promessa che andrà tutto bene, che un giorno lo slogan appeso alle pareti delle aule dopo guerra a Gaza — «Arabi ed ebrei rifiutano di essere nemici» — diventerà realtà e che, come viene insegnato loro, l’uguaglianza e la convivenza saranno possibili.
Ma sarà davvero così? È moralmente giusto dare ai nostri figli l’illusione che arabi ed ebrei possano convivere su un piano di parità? Posso davvero guardare i miei figli negli occhi e dire loro che un giorno saranno cittadini di Israele a pieno titolo? Era difficile, se non addirittura impossibile, garantire ai nostri figli l’uguaglianza a livello giuridico anche prima della proposta di legge del governo che decreta che Israele è lo Stato della nazione ebraica. Israele, sin dalla sua creazione, si è posto al servizio esclusivo degli ebrei che vi vivono e, di fatto, anche di quelli che non vi vivono. Viceversa lo Stato di Israele non ha mai voluto essere il mio Paese, non è stato creato per me o per la mia famiglia né per i cittadini arabi che detengono il suo solo passaporto. Io e i miei figli facciamo parte dell’oltre milione e mezzo di cittadini arabi israeliani (da non confondere con i palestinesi di Gerusalemme, della Cisgiordania e della Striscia di Gaza occupate nel 1967) che vive entro la Linea Verde fin dalla sua fondazione nel 1948, costituisce circa il 20 per cento della popolazione, è discriminato rispetto agli ebrei in tutti i settori della vita e deve sopportare enormi disparità. Nessun nuovo insediamento arabo è sorto dopo la creazione di Israele, a fronte di circa 700 ebraici, e l’area di competenza delle municipalità arabe rappresenta meno del tre per cento dell’intero territorio.
L’attuale disegno di legge che stabilisce che “Israele è lo Stato della nazione ebraica” è diretto a garantire che, in caso di conflitto tra il carattere ebraico dello Stato e il principio di uguaglianza, il primo avrà la meglio sul secondo. Dio non voglia che la democrazia garantisca una qualche parità di diritti fra ebrei e non ebrei. «Ancorare per legge» è l’espressione usata dal governo israeliano in riferimento al decreto legge e sta a significare quanto segue: se le cose stanno in ogni caso così, perché non sancirle a livello giuridico? La discriminazione fra arabi ed ebrei in tutti i settori esiste comunque, tanto vale renderla legale. Molti palestinesi con cittadinanza israeliana sono felici di questa proposta di legge. Semplicemente perché, una volta che la legge sarà approvata, l’ineguaglianza non sarà celata dietro alla cortina di fumo di una cosiddetta “democrazia”. Molti pensano che questa legge metterà a nudo “l’etnocrazia” israeliana (una democrazia solo se sei ebreo).
È possibile che la fondazione di uno Stato ebraico fosse indispensabile considerata la terribile storia degli ebrei. Ma è davvero necessario che questo rifugio trasformi milioni di persone in rifugiati indifesi, ostaggi del governo israeliano? Che sia solo ed esclusivamente destinato agli ebrei? Che esseri umani vivano in esso separati a causa della loro etnia? Che scuole che credono nella convivenza vengano bruciate?
Avrei voluto moltissimo essere all’ingresso della scuola bilingue di Gerusalemme questa settimana, accanto ad altri genitori arabi ed ebrei che credono nell’uguaglianza. Avrei voluto moltissimo dire ai miei figli che gli autori di questo gesto sono un piccolo gruppo di stupidi criminali e che un giorno, vedrete, saremo un popolo libero e voi potrete vivere e studiare dove vorrete. Ma non posso farlo. Il primo ministro e le sue leggi razziali mi negano la capacità di sognare un futuro migliore. (traduzione di Alessandra Shomroni)

La Stampa 3.12.14
Palestina, dopo Spagna e Gran Bretagna anche il parlamento francese chiede il riconoscimento
Il via libera dell’assemblea con 339 favorevoli e 151 contrari. Ora deciderà il governo

qui

La Stampa 3.12.14
Pena di morte per un malato di mente, E l’America si interroga
Scott Panetti è stato diagnosticato schizofrenico quando aveva vent’anni, ma questo non è bastato ad impedire la sua condanna a morte per l’omicidio dei suoceri
Domani prevista l’esecuzione
Venerdì scorso l’Onu ha approvato una nuova moratoria delle esecuzioni, proprio per consentire di riflettere su casi come questo
di Paolo Mastrolilli

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La Stampa 3.12.14
Hong Kong, la resa dei leader della protesta
I capi di Occupy si consegnano e chiedono ai manifestanti di ritirarsi. Ma gli studenti non se ne vanno
di Ilaria Maria Sala


Il movimento di protesta che da oltre due mesi blocca alcune delle strade centrali di Hong Kong dà segnali sempre più forti di disunione al suo interno, ma malgrado questo l’occupazione continua e non diminuisce la determinazione con cui gli attivisti lottano per ottenere il suffragio universale.
Ieri pomeriggio i tre fondatori del gruppo Occupy Hong Kong with Love and Peace, fra gli ispiratori dell’occupazione iniziata alla fine di settembre, hanno deciso di volersi costituire e riconoscere il loro «crimine» di assembramento illegale e di aver incitato altri a partecipare, e concludere con questa ammissione di responsabilità l’occupazione.
L’annuncio è stato dato nel corso di una conferenza stampa dai toni drammatici: il reverendo Chu, un pastore metodista, a più riprese è stato incapace di trattenere le lacrime. «Dobbiamo assumerci la responsabilità morale delle nostre azioni, perché alcuni membri della polizia sono fuori controllo, e vorremmo evitare ulteriori violenze», ha detto. Benny Tai gli faceva eco, con la voce a tratti rotta dal pianto, mentre chiedeva «a tutti gli occupanti di lasciare al più presto questo luogo pericoloso, e proteggere loro stessi e il movimento per la democrazia». I fondatori di Occupy dunque intendono recarsi alla polizia, sottomettersi a un eventuale arresto o processo, e promuovere poi la democratizzazione di Hong Kong in altri modi.
Piccolo particolare: le centinaia che continuano a dormire in tenda, malgrado anche Hong Kong sia ormai fredda e piovosa, non hanno intenzione di obbedire al loro appello. «Ho passato gli ultimi 15 anni della mia vita a fare soldi. Poi, è nato questo movimento e mi sono reso conto di non essere il solo a desiderare la democrazia: e ora, non ho intenzione di abbandonare le strade, tornare a casa senza aver concluso nulla, e lasciare che gli studenti se la sbrighino da soli. Il mio posto è qui, a dare loro sostegno e protezione», ha commentato Daniel Chan, un occupante di 37 anni che lavora in televisione. Anche Joshua Wong, uno dei volti più noti del movimento, da due giorni in sciopero della fame per ottenere un dialogo con il governo, non ha intenzione di fare le valige, e ha commentato l’annuncio con queste parole: «Ho tutto il rispetto per Benny Tai e gli altri membri di Occupy. Ma ognuno di noi deve agire come meglio crede. Credo che restare qui, portare avanti il nostro sciopero della fame sia più efficace per mettere pressione sul governo».
Per molti altri occupanti presenti, di nuovo, lo stesso messaggio: «Abbiamo meno sostegno, alcune persone si sono stancate, e tanti ci dicono di andare via. Ma questo è un cammino lungo, che non può essere interrotto così. Se la polizia ci caccerà a bastonate, è un conto. Non saremo noi ad abbandonare le nostre posizioni», ha detto Joey Siu, una volontaria, ribadendo: «Resteremo fino all’ultimo».

La Stampa 3.12.14
Londra, finita l’era degli Oliver
Il nome più diffuso è Mohammed
I musulmani lo scelgono per il primo figlio maschio: nel 2014 è schizzato in testa alla classifica
Oggi i musulmani rappresentano solo il 4% della popolazione britannica, ma diventeranno l’8% entro il 2030
di Vittorio Sabadin


Mohammed è il nome più popolare tra i neonati in Gran Bretagna. Quando gli inglesi lo hanno saputo dai giornali, hanno cominciato a inondare i siti web di commenti. «L’Inghilterra è finita», annotava mestamente un lettore. «Come ha potuto il governo lasciare che accadesse?» si domandava un altro. Dopo pochi minuti, l’«Independent» è stato costretto a chiudere il suo blog, perché le reazioni, incredule e sgomente, stavano diventando impubblicabili.
Tra le notizie del weekend, è stata certamente la più inattesa. Ci doveva essere un errore da qualche parte, non era possibile che nomi tradizionalmente british, come Oliver e Jack, avessero lasciato il passo al nome più diffuso nel mondo islamico. L’annuncio era stato dato dal sito BabyCentre.co.uk, che aveva chiesto a 56.157 coppie che avevano avuto un figlio nel 2014 quale nome gli avessero dato. Mohammed è risultato largamente al primo posto. Il risultato della ricerca sembrava però essere smentito dai dati dell’Ons, l’ufficio nazionale di statistica, che indicava Oliver ancora saldamente al comando. Il contrasto tra i due risultati è stato risolto in poche ore: BabyCentre aveva ragione.
Il nome del Profeta ha una decina di varianti. In Pakistan è Muhammad, in Africa Muhammed, in Arabia Mohammed, in Iran e Afghanistan Mohammad. I burocratici dell’ufficio di statistica hanno considerato queste varianti come nomi diversi. Per loro, tra i preferiti per i neonati inglesi, Muhammad era al 15° posto, Mohammed al 23° e Mohammad al 57°. In questo modo, Oliver poteva mantenere con onore il primo posto. BabyCentre ha invece giustamente considerato che le varianti andavano considerate un unico nome, il più popolare nel 2014 in Gran Bretagna.
Secondo gli esperti non c’è da stupirsi: Mohammed è il primo nome anche in luoghi impensabili come Oslo e Israele. Ogni famiglia musulmana chiama infatti in questo modo il primo figlio maschio, dandogli poi un secondo nome con il quale è di solito conosciuto, come avviene ad esempio per due ex Presidenti egiziani: Muhammad Hosni Mubarak e Muhammad Anwar Sadat. Sarah Redshaw, direttrice di baby Centre, ha detto al «Guardian»: «I nostri dati mostrano la diversità della struttura sociale della Gran Bretagna, così come si è sviluppata negli ultimi anni. Rispetto al 2013, Mohammed è salito dal 27° posto al primo e nella classifica sono entrati anche nomi indiani come Aarav».
I musulmani rappresentano solo il 4% della popolazione britannica, ma diventeranno l’8% entro il 2030 e forse anche prima. Nomi come Omar, Ali e Ibrahim sono per la prima volta tra i primi 100, dove compaiono anche sempre più nomi femminili come Nur (29° posto) e Maryam, salita dal 59° al 35°.
E i vecchi nomi della tradizione inglese? La famiglia reale non sembra più un esempio da seguire. Charlie (6°) e Harry (7°) hanno perso tre posizioni, William è sceso al 12° posto e George addirittura al 18°. Oliver e Jack resistono al secondo e terzo posto, ma non c’è più un collante nazionale che difenda le vecchie tradizioni. La scelta è ondivaga, dipende dalle mode e dalle celebrità. Vanno forte i nomi dei figli dei Beckham, Romeo (+ 67%) e Cruz (+ 400%). Quelli di «Breaking Bad», come Skyler, Jesse e Walter, e quelli di «Game of Thrones», come Emilia. Ci sono molte novità stravaganti, Wren, Indigo, Genesis, Prince e Apollo, ma anche una invasione di nomi biblici come Noah, Jacob, Joshua, Ethan, dovuta al revival di film a tema religioso. A Londra è appena uscito «Exodus: dei e re» di Ridley Scott: Moses e Ramses sono pronti a entrare in classifica, ma per battere Mohammed ci vorrà ben altro.

Corriere 3.12.14
Grothendieck, storia di un matematico ribelle

La creatività è sempre eversiva. Comporta la messa in discussione delle tesi consolidate, l’esplorazione rischiosa di territori nuovi. Vale anche e soprattutto per la scienza: lo dimostra la figura geniale e indocile di Alexander Grothendieck, considerato l’«Einstein della matematica».
A lui, scomparso in Francia lo scorso 13 novembre, il «Corriere della Sera» ha dedicato un libro a più voci, con introduzione di Giulio Giorello, che va in edicola sabato 6 dicembre al prezzo di e 6,90 più il prezzo del quotidiano. Il titolo è Matematica ribelle. Le due vite di Alexander Grothendieck . Racconta la vicenda di un ragazzo ebreo profugo e perseguitato, il cui padre era stato ucciso ad Auschwitz, che diventa nel dopoguerra un eccezionale pioniere degli studi matematici.
Il genio di Grothendieck è universalmente riconosciuto, ma la gloria accademica non fa per lui: nel 1966 rifiuta la Medaglia Fields, il Nobel della matematica, e poi altri premi prestigiosi, rompe con i colleghi, si dedica alla militanza ecologista e pacifista, infine decide di vivere da eremita, votato alla meditazione spirituale.
Una rivolta di cui il libro del «Corriere» esplora le origini e ripercorre le tappe, gettando uno sguardo anche su altre figure di scienziati ribelli.

Repubblica 3.12.14
“Trionfi e soprusi le mie peripezie da matematico nell’era sovietica”
Efim Zelmanov, vincitore della Medaglia Fields nel ’94, svela la sua vita a cavallo tra due mondi
di Piergiorgio Odifreddi


HOINCONTRATOE fim Zelmanov nei primi anni Ottanta in Siberia, quando eravamo entrambi giovani matematici. Dopo di allora ci eravamo persi di vista, ma al meeting di Heidelberg del settembre scorso ci siamo ritrovati immediatamente, nonostante i trent’anni di separazione, e abbiamo subito cominciato a ricordare episodi di quel passato remoto. Poiché nel frattempo Zelmanov ha fatto carriera, vincendo nel 1994 la medaglia Fields, l’occasione era ghiotta per parlare con un protagonista e un osservatore d’eccezione.
Oltre che con un grande studioso russo: nato nel 1955 a Khabarovsk, nell’allora Unione Sovietica, è celebre per le sue ricerche e per le sue scoperte nel campo delle algebre non associative e della teoria dei gruppi. Proprio la sua soluzione di un famoso problema in questo secondo campo, il problema di Burnside ristretto, lo ha portato alla vittoria della Fields.
Direi che possiamo dividere la matematica del suo Paese in tre periodi: prima, durante e dopo l’Urss. Qual era la situazione nella Russa zarista?
«C’erano grandi matematici, come Lobachevskij, uno dei padri della geometria non euclidea. E c’erano forti legami con la matematica europea: anzitutto tramite l’Accademia di San Pietroburgo, in cui Eulero lavorò per più di trent’anni. Era un livello rispettabile, ma niente a che vedere, ad esempio, con la matematica francese di quel periodo. Tutto cambiò con la Rivoluzione: la matematica e la fisica furono percepite come qualcosa di potenzialmente utile».
Come si manifestò questo interesse?
«Fu sovvertita la politica di Alessandro III, che impediva lo studio a quelli che venivano volgarmente chiamati i “figli della serva”. I bolscevichi diffusero l’educazione a livello popolare, e quando Stalin comprese l’importanza pratica della scienza, dal giorno alla notte portò gli scienziati a essere i lavoratori più rispettati e pagati del paese. Per i giovani brillanti, la scienza divenne il modo migliore per fare carriera e ottenere prestigio in maniera “pulita”, diversamente dalla politica».
Ma tutto ciò non si rifletté adeguatamente nei premi Nobel.
«L’Urss aveva i propri premi Stalin. Ma ci furono comunque alcuni premi Nobel: una mezza dozzina in fisica, e un paio in chimica ed economia».
Ci furono anche delle purghe?
«Alla fine degli anni ‘40 si pensò di fare una caccia alle streghe in fisica, analoga a quella in biologia guidata da Lysenko. Ma il direttore del progetto atomico Kurchatov domandò molto semplicemente al Partito: “Cosa preferite, la purezza ideologica o la bomba?”. Naturalmente, fu scelta la seconda».
Se la fisica e la matematica erano tenute in gran conto, perché allora la politica antisemita?
«Quella venne dopo, in realtà. Basta pensare che il progettista della bomba atomica era Khariton, che non solo era ebreo, ma aveva la madre a Tel Aviv, e suo padre era stato espulso dall’Urss come controrivoluzionario».
Quando cominciarono i problemi?
«Con il ritorno al nazionalismo, dopo la Seconda Guerra Mondiale. Poco prima della morte di Stalin, nel 1952. Da quel momento le cose andarono avanti altalenando, tra ondate di antisemitismo e periodi di relativa tranquillità ».
A parte le paranoie di Stalin, qual era la ragione dell’antisemitismo sovietico?
«Dopo la sua caduta, il genero di Kruscev gli domandò perché avesse impedito l’accesso degli ebrei alle migliori università, e lui rispose che le relazioni con Nasser erano più importanti: probabilmente il suo antisemitismo fu un effetto interno della sua politica estera. E lo stesso per Breznev, soprattutto dopo la rottura delle relazioni con Israele in seguito alla Guerra dei Sei Giorni».
Ma gli accademici come la presero?
«Non si lasciarono sfuggire l’occasione di occupare i posti di prestigio degli ebrei. E, soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, gli scienziati e i matematici non ebrei andarono ben oltre quanto gli veniva richiesto di fare ».
A lei, essere ebreo che problemi ha creato?
«Parecchi. Dopo aver finito le superiori con una medaglia d’oro, non passai l’esame di ammissione all’università. E in seguito non ebbi mai un posto all’università, ma solo in un istituto di ricerca: come l’altro ebreo Grigori Margulis, che vinse una delle due medaglia Fields sovietiche nel 1978, e al quale fu impedito di andare a ritirarla».
Quante medaglie furono vinte invece dopo la caduta dell’Urss?
«Sette. Siamo al livello degli americani e dei francesi, anche se molti dei vincitori hanno in realtà studiato all’estero, e sono russi solo di nascita e cultura».
Lei invece fece il suo lavoro in Urss. Come ci riuscì, nonostante gli ostacoli?
«Io non sono religioso, e sono ebreo solo di nascita. L’ebraismo non è mai stato uno dei fattori qualificanti della mia vita, anche se all’università me l’hanno fatto pesare come se lo fosse. Ma in realtà i problemi erano con le autorità, più che con i colleghi».
A parte le medaglie Fields, cos’è successo alla matematica dopo la caduta dell’Urss?
«Come nella termodinamica: il gas si espanse, e quasi tutti i migliori lasciarono il paese. Negli Stati Uniti successe di nuovo ciò che già era successo negli anni Trenta con la fuga dal nazismo: tutti i posti liberi vennero riempiti da gente di altissimo valore, tedeschi in un caso e sovietici nel secondo, con gravi contraccolpi per l’offerta interna».
E quelli che rimasero?
«Quando un professore viene pagato meno di uno spazzino il problema non è soltanto finanziario, ma anche di dignità personale. E se uno vuole mantenere una famiglia, deve rivolgersi altrove nel mercato. Qualche giovane che si azzarda a far ricerca rimane, ma mentre prima tutti quelli brillanti ambivano a entrare nell’accademia, oggi si tratta solo di eccezioni. A parte quelli che vanno a studiare all’estero, e che spesso poi ci rimangono».
Lei voleva emigrare già prima del 1989?
«No, non direi. Sono andato per la prima volta negli Stati Uniti nell’autunno del 1989, e quando mi offrirono un posto in Wisconsin, la mia condizione fu di poter stare un semestre lì e uno in Russia. Ma avevo dei figli piccoli, e tenere un piede da una parte e uno dall’altra alla fine non mi è sembrato né giusto, né comodo per loro».
E nel 1994 è venuta la medaglia Fields. Cos’è cambiato dopo?
«Parecchio. Per il primo anno, ho creduto che non avrei più potuto fare matematica: solo pubbliche relazioni. In seguito, la cosa più difficile è stata trovarsi di fronte a un problema, e domandarsi se è degno delle attenzioni di una medaglia Fields: non si va da nessuna parte, in quel modo, e ho dovuto imparare a non farmi quelle domande».
Ora torna spesso in Russia?
«Ho cambiato cittadinanza, ed è difficile ottenere un visto per gente come me. Sono tornato due o tre volte, e non le dirò come ho brigato per farlo. Ma con Internet sono rimasto in contatto con i miei passati colleghi, anche senza vederli di persona. E a volte ci incontriamo all’estero, ai convegni».
E cosa le dicono?
«Che molte cose sono comunque migliorate: ad esempio, ora c’è una classe media nel paese. Ma nel passato, nonostante i mobili e gli edifici derelitti, c’era la percezione di essere al centro dell’universo. Ora, invece, i mobili e gli edifici sono migliorati, ma la sensazione è di essere finiti alla periferia dell’impero».
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“La politica antisemita ci impediva di fare carriera negli atenei e gli altri ne approfittavano per occupare posti di prestigio”
LA SERIE
Nella foto Efim Zelmanov. La prima puntata della serie sui matematici è stata pubblicata il primo dicembre

Repubblica Roma 3.12.14
“La mia factory si chiama Eliseo” Il teatro pop di Barbareschi
L’attore nella sala di via Nazionale Monaci: “Non ha alcun diritto”
di Sara Grattoggi e Sterfano Petrella


RIAPRIRÀ fra maggio e giugno il Teatro Eliseo. Con una vocazione “pop” e una programmazione aperta anche alla musica, grazie a un accordo con l’Accademia di Santa Cecilia. A delineare il futuro della sala, dopo lo sfratto del 20 novembre, è stato ieri il nuovo direttore artistico, Luca Barbareschi. «Al momento il teatro è inagibile: ci piove dentro, il palcoscenico è devastato e vanno messi in sicurezza gli impianti. Entro 10 giorni cominceremo i lavori per far sì che si possa riaprire nell’arco di 5 mesi ». Gli interventi, ha spiegato Barbareschi, «dovrebbero costare 700mila euro», a cui si aggiungeranno i 600mila per la nuova campagna di lancio. La “macchina” dell’Eliseo, a regime, costerà poi «5 milioni di euro l’anno». Una volta rial-È zato il sipario, il nuovo Eliseo «avrà una collocazione “pop”, ovvero popolare - ha sottolineato Barbareschi - Ma l’accordo con Mibact, Comune e Regione è di farne un ‘Tric’, ovvero un teatro regionale di interesse culturale”. La sala, ha spiegato, «entrerà a far parte della mia Casanova Multimedia e il sogno è di farne una factory di idee». Sì, quindi, a «una compagnia stabile larga» (e all’eventuale “recupero di parte dell’organico della vecchia gestione”), alle «sinergie con gli altri teatri », a «attività di formazione», «alla musica, grazie a un accordo con Santa Cecilia che porterà la sinfonica al Grande Eliseo e quella da camera al Piccolo». E, «perché no?», in prospettiva anche alla possibilità di un ristorante. Il progetto è poi di «aprire il teatro anche d’estate e di far cominciare gli spettacoli alle 19.30».
Ma se Barbareschi guarda al fudei turo, non risparmia critiche alla gestione passata. Auspicando addirittura «una class action da parte degli abbonati di questa stagione teatrale». A ribattere punto per punto, è il direttore artistico uscente, Massimo Monaci: «Ci attrezzeremo per rimborsare gli abbonamenti (circa 400mila euro ndr)». Ultima stoccata sul contratto con la proprietà: «Ho già rilevato le quote di Corsi e Eleuteri (due dei tre soci ndr) - ha detto Barbareschi - Da statuto, il contratto d’affitto del teatro deve ottenere i quattro quinti dell’assemblea dei soci, di cui il trust Monaci detiene il 34% — puntualizza invece l’ex direttore artistico, non escludendo una battaglia legale — Quindi a Barbareschi non sarà sufficiente accordarsi con gli altri due». E incalza: «Il marchio Eliseo appartiene alla gestione e non escludo di ricominciare da capo in un altro teatro della città».
D’altra parte in una nota congiunta protestano le sette compagnie che avevano spettacoli in programma nella sala di via Nazionale, sono gli Stabili di Napoli, Catania, Bolzano e Verona, la Fondazione Teatro Metastasio di Prato, la compagnia Umberto Orsini, l’associazione Teatrale Pistoiese e la Compagnia OffRome. Scrivono: «Invitiamo Barbareschi a ripensare la sua scelta e chiediamo il soccorso delle istituzioni, e del Comune di Roma in particolare, in un grave momento di crisi».