giovedì 4 dicembre 2014

La Stampa 4.12.14
A tutto Loach: “Blair criminale. Il Papa spieghi gli anni di Videla”
Il regista polemico alla presentazione di “Jimmy’s Hall”
di Fulvia Caprara


Ballare per essere liberi, in un vecchio locale abbandonato, nel mezzo della campagna irlandese, all’alba degli Anni Trenta, mentre fuori infuria la Grande Depressione. L’ultimo apologo di Ken Loach, presentato in anteprima al Festival di Cannes e ora in arrivo nelle sale (dal 18 con Bim), ruota intorno alla storia vera di Jimmy Gralton (Barry Ward) che, dopo un decennio di esilio negli Stati Uniti, ritorna nel suo Paese per stare vicino alla madre anziana e accetta, sollecitato da vecchi e giovani amici, di riaprire quello spazio dove tutti possono incontrarsi, discutere, danzare, studiare. L’iniziativa riscuote un gran successo, troppo grande per essere tollerato dalla Chiesa, dall’amministrazione pubblica e dai proprietari terrieri che considerano Gralton un pericoloso portatore di idee progressiste. Alla fine la storia si ripete, la «Hall» viene bruciata, Jimmy arrestato e ricondotto al porto dove dovrà imbarcarsi di nuovo per l’America. A salutarlo, però, tra lacrime e sorrisi, ci sono i ragazzi che frequentavano la sala e che non potranno mai dimenticare il valore di quell’esperienza di crescita e autonomia: «Era una piccola storia che nessuno conosceva - dice Loach -, un irlandese che venne espulso dal proprio Paese per aver avuto il coraggio di sfidare la Chiesa insegnando il ballo e la poesia. Praticamente un alieno». A dieci anni dalla guerra civile, spiega l’autore, «i rappresentanti dell’autorità, religiosa ed economica, sentivano forte il bisogno di ristabilire la loro supremazia e la gioia di vivere era percepita come fonte di grave pericolo».
Dopo «Il vento accarezza l’erba», è tornato a raccontare storie del passato. Perché?
«La maggior parte dei miei film ha ambientazione contemporanea. Il passato, però, ha un vantaggio, serve a mostrare le cose in modo più chiaro».
In «Jimmy’s hall» la Chiesa fa una pessima figura. Che cosa pensa di Papa Francesco che, con il suo operato, ne sta rilanciando l’immagine?
«Non ho gli strumenti per giudicare le sue azioni, però posso dire che parlare in favore dei poveri è molto facile, più complicato è, invece, proporre qualcosa di concreto per risolvere i loro problemi. E poi mi piacerebbe sapere qualcosa di più sul ruolo che l’attuale Papa ha avuto in Argentina, durante la dittatura, e sui suoi rapporti con i sacerdoti che hanno promosso la teologia della liberazione».
In Italia, ora, si usa molto un termine inglese, il «jobs act», che cosa ne pensa?
«Penso che non c’è niente da fare, la socialdemocrazia tradisce sempre, perché punta a difendere il lavoro e non la classe lavoratrice. In Gran Bretagna abbiamo lo stesso problema, è un errore storico che si ripete, quando il profitto si abbassa ecco che si riduce la forza lavoro e si tagliano gli stipendi. Trovo incredibile che questo stia accadendo in Italia, dov’è finita l’opposizione?».
La sua opinione su Blair?
«È un criminale di guerra che, invece di ritirare premi, dovrebbe essere esiliato, il conflitto in Iraq era illegale e le uccisioni sono state dei veri e propri crimini».
Da pochi giorni è finito il Tff, due anni fa lei rinunciò a un riconoscimento per sostenere i lavoratori della Rear. È rimasto in contatto con loro?
«Sì, e so che molti hanno vinto la causa intentata davanti al Tribunale del lavoro perché guadagnavano troppo poco».
Il cinema può avere ancora una funzione di denuncia?
«Certo, il segreto è trovare storie narrativamente semplici, che costano poco, ma possono aprire la discussione su problemi importanti».

Repubblica 4.12.14
Escono i racconti più “cattivi” e autobiografici che l’autore pubblicò solo sulla sua rivista
Il Natale non buonista di Dickens
di Valeria Parrella


SE ORMAI non si torna più a casa per le vacanze di Natale, è perché il tempo è trascorso, e si è fatto adulto, e gli si preferisce la settimana bianca o la mostra di Rembrandt a Londra. Oppure nulla: si è divorati dal lavoro fino alle 19 della vigilia, alle casse della grande distribuzione o ai desk dei quotidiani. «Se», scrive Dickens nel 1850 su The Household word , il magazine letterario da lui stesso fondato, «ormai io non torno più a casa per le vacanze di Natale: finché il mondo esisterà, continueranno a tornare a casa altri ragazzi e altre ragazze». Allora il fatto che si festeggi il Natale ci riporterà a casa tutti: prosegue: «o almeno lo dovremmo fare».
E, in assenza di viaggi veri, quello che Dickens propone in questi brevi racconti che aveva destinato alla sua rivista (e che sono rimasti fino a oggi inediti in Italia: li ha tradotti Mattioli 1885), è un viaggio al contrario: la possibilità fantastica di estrarre da un albero di Natale doni e decorazioni così come i ricordi: l’albero in questione cresce al contrario, perché cresce il ricordo, ma decresce fisicamente perché l’uomo si fa grande e ciò che da piccoli ci pareva grande da grandi ci pare piccolo.
Il Natale si ama o si odia, è un fatto, e non è necessario avere il cuore avido di zio Scrooge o il desiderio di futuro di David Copperfield per provare uno dei due sentimenti: essi possono esistere insieme perché si animano dello stesso fuoco: l’infanzia. L’infanzia, la fanciullezza non è un tempo: è un luogo, il luogo verso cui si torna. Dickens nel 1850 può permettersi di addobbare davanti agli occhi adulti dei suoi adulti lettori il suo albero. E si ama o si odia il Natale a seconda della distanza dall’infanzia che si vuole, o si riesce a tenere. E della modulazione che di essa si è avuta. Esiste un fanciullino in Dickens adulto che, come i bambini, vive di pensiero magico, e trasforma e anima ciò che vede, e anche quando lo rilegge, perché gli occhi sono malinconicamente rivolti al passato, e lo fa rileggere ai suoi lettori, ( ché di quasi centocinquant’anni fa si parla) trova in ciò che vede “la sua bellezza primitiva”. Quindi fuori dal tempo. È solo una delle dicotomie che rendono unico il Natale di Dickens, cioè il tempo tranciato a metà: da un lato il fanciullino, e dall’altra l’età adulta. Il Natale si consuma nel suo giusto mezzo: si può vivere se si riesce a filtrare l’epoca adulta con gli occhi dell’infanzia. Quanto più ci si allontana dal fanciullino tanto meno ha senso il Natale. Ma il gioco è questo: dell’adulto che si può permettere di essere fanciullino, e del fanciullino che intravede nelle maschere e nelle paure del Natale ciò che sarà per sempre perduto. Allora nessun Parlamento in cui può essere invitato Sir Charles Dickens avrà mai una facciata bella quanto quella della casa delle bambole – non sua, ma aveva il permesso di giocarci–; e la “nobile mosca” dell’arca di Noè era appena più piccola dell’elefante. E però la maschera appesa all’albero, quella faccia senza occhi appesa lì, senza alcuna intenzione di spaventare, da un adulto ormai incapace di scorgervi alcun lato inquietante: «chissà quale oscura anticipazione e quale terrore del cambiamento universale che inevitabilmente riguarderà ogni volto, e lo rende per sempre muto e inespressivo»: questo è il concetto che ha Dickens dell’età adulta. Ed ecco che all’interno di un momento estremamente rassicurante si scatenano le tensioni clandestine. Intorno a quei fanciulli quale mondo piove e precipita? L’inventario c’è quasi al completo: tensioni famigliari, tra parenti fortunati, ovvero ricchi e pieni di compalo gnia, versus quelli sfortunati, ovvero poveri, o senza più nessuno, che solo al desco natalizio hanno la possibilità di immaginarsi vite diverse. Le prepotenti tensioni sociali nello spazio di un college, dove un vecchio lettore di latino povero e “lento” viene sbeffeggiato dai rampolli ricchi in un nonnismo capovolto. Ma se ne trovano di più dolorose e laceranti ancora: Dickens attua una “correzione” del Natale per cui colui che viene indicato dal curatore (che qui si firma Boz, come lo pseudonimo che Dickens usò per i suoi bozzetti) come l’inventore del Natale , in realtà è lo stesso che lo tinge di vernice realistica. Se ha un senso ripescare i racconti inediti di Dickens è proprio perché non sono ancora passati nel depuratore Disney. E allora può capitare di rincontrare la cosa che letterariamente più assomiglia alla verità dei fatti: la cronaca. Nel racconto che dà il tito- alla silloge Le ultime parole dell’anno vecchio, l’Anno 1850, personificato, ricorda sul suo letto di morte che (durante se stesso) due bambini trovati a rubare delle pagnotte e che si sono difesi dicendo che «stavano morendo di fame» sono stati condannati alla fustigazione presso la Casa di Correzione. E poi più avanti, ricordando che era nato un principe, immagina quel pargolo reale, privato di tutte le cure di corte e messo nella stessa situazione dei piccoli ladri, rubare anche egli, e derivarne la fustigazione. Cose che accadono, e narrazioni in cui gli strati sociali vengono anche essi confrontati come piccolo/ grande. Sono i conflitti sociali di cui Natale è detonatore. Un Natale che fa paura, che semina sconcerto, che fa ripiombare in antiche vertigini, che lascia sgomenti. Un Natale urticante. Il Natale che oggi è dei mendicanti e dei detenuti: il Natale con tutto il senso che il Natale porta, non con il senso unico liberista. Piuttosto il senso profondo che può dischiudere la doppia possibilità: amarlo oppure odiarlo. È il lessico famigliare, sono le household words del titolo della rivista (a sua volta tratto da un verso dell’ Enrico Vdi Shakespeare: “Familiar in his mouth as household words”).
Infatti, tra i detrattori del Natale, aleggia sempre un motivo: è che troppo ricorda loro chi non c’è più. Chiunque abbia vissuto un lutto stretto sa di cosa qui si parli. E anche Dickens lo sa, e anche per questo trova la giusta collocazione sull’abete: «spazi vuoti tra i tuoi rami, sui quali gli occhi che ho amato hanno brillato e hanno sorriso; e da cui si sono accomiatati».
RTV-LAEFFE Oggi alle 13,45 su RNews (canale 50 del digitale terreste e 139 di Sky)
IL LIBRO Le ultime parole dell’anno vecchio (Mattioli 1885)

Corriere 4.12.14
Vite straordinarie e scontri di idee
La matematica (re)inventa il mondo
di Edoardo Boncinelli


«La verità non è un cristallo che ci si possa infilare in tasca, bensì un liquido infinito nel quale si precipita» dice Robert Musil. E vi si precipita, si badi bene, non passivamente e per accidente, ma in gran parte a seguito di enormi sforzi intenzionali e quasi disperati. Tali sforzi caratterizzano la scienza, cioè il complesso delle scienze sperimentali più la matematica. E di matematica parla prevalentemente Claudio Bartocci nel suo Dimostrare l’impossibile. La scienza inventa il mondo , appena uscito da Raffaello Cortina, in una successione d’incisivi interventi che costituiscono altrettante incursioni nella storia millenaria di tale disciplina.
Sempre Musil rilevava un centinaio di anni fa che «tutti vanno in visibilio per il sentimento e danno addosso all’intelletto», proprio come oggi, quando sembra che la nostra vita debba necessariamente fare il pieno di sentimenti e di «emozioni». «Questo vi emozionerà…» è il ritornello di ogni propaganda e promozione, trascurando a cuor leggero il fatto che le emozioni ci accomunano agli animali, mentre è la ragione che ci distingue, e dovrebbe rappresentare un po’ il nostro vanto. È la matematica, in realtà, che ci dovrebbe appassionare secondo Musil, perché il pensiero matematico rappresenta per lui una vera «ostentazione di audacia della pura ratio». Il motivo di tanto entusiasmo non è la constatazione che «tutto ciò che esiste intorno a noi, che si muove, corre o se ne sta immobile non soltanto sarebbe incomprensibile senza la matematica, ma è effettivamente nato dalla matematica», quanto piuttosto il fatto che i matematici abbiano l’ardire di mettere in discussione, «con orgogliosa fiducia nella diabolica pericolosità del proprio intelletto», i fondamenti stessi della loro disciplina. Presto si accorgeranno «che alle basi stesse di tutta la faccenda c’è qualcosa che non torna» e che l’intero «edificio è sospeso in aria». Siamo ovviamente negli anni in cui la cosiddetta critica dei fondamenti stava mettendo in crisi tutta la «fabbrica» dell’assiomatica matematica. Oggi sappiamo bene che l’impresa scientifica era ed è volta a ripensare continuamente tutto. Altro che comode certezze e riposanti pantofole! Che peraltro sono sempre in agguato. Sentite che cosa dice il grande fisico Wolfgang Pauli sotto l’influenza delle sue frequentazioni con lo psicologo analista Carl Gustav Jung: «Negli uomini di scienza la diffusa aspirazione a una maggiore unità nella nostra immagine del mondo è acuita dal fatto che oggi abbiamo sì le scienze della natura, ma non abbiamo più una immagine del mondo». Ma è necessaria? E cosa siamo disposti ad accettare supinamente per averne una?
Il libro presenta molti gustosi ritrattini storici di figure e di idee rilevanti. Come la discussione sulla realtà delle rivoluzioni scientifiche che tanto appassionano i profani, e la distruzione en philosophe dell’idea dell’esistenza degli atomi che probabilmente costò la vita al grande Ludwig Boltzmann, morto suicida a Duino.
Un’ultima considerazione. Si può avere a che fare con l’impossibile, a magari dimostrarlo? Secondo il poeta Paul Valéry, «on peut», si può. E diremmo, si deve, anche nel quadro di quanto Kant arriva a dire dell’attività matematica, da lui considerata «pura poesia». Sul fatto poi che la scienza inventi il mondo, per la matematica non c’è alcun dubbio, con buona pace degli spiriti platonici; per le scienze sperimentali un forte sospetto.

Corriere 4.12.14
Corruzione, il record italiano Nessuno peggio di noi in Europa
di Luigi Offeddu


BRUXELLES «Siamo corrotti ma non in maniera così devastante — esorta l’imprenditore alimentare Oscar Farinetti —. Guardiamo al bello...». Da guardare, oggi, c’è però la classifica mondiale di Transparency International, che bolla l’Italia come il Paese più corrotto dell’eurozona e dell’Europa insieme con Romania, Grecia, Bulgaria. O anche le immagini televisive che mostrano cricche di presunti mafiosi arrestati sotto l’accusa di aver gestito gli affari del Comune di Roma. Un quadro malinconico, a poche settimane dalla fine della presidenza italiana della Ue. L’indagine di Transparency, come ogni anno, misura il grado di «percezione della corruzione» in ciascuno dei 175 Paesi selezionati: cioè il grado di consapevolezza, insicurezza, disagio, o paura, di fronte ai cicloni di bustarelle che frullano negli uffici pubblici o in qualunque ambiente. Una situazione così grave che in Europa «è a rischio una crescita pulita», dice l’organizzazione. L’Italia, al 69° posto, sta peggio di Ghana e Ruanda. La Danimarca sta meglio di tutti, come Paese più pulito del mondo.

il Fatto 4.12.14
Mafia Capitale: esonda la corruzione
risponde Furio Colombo


CARO FURIO COLOMBO, la mia domanda è: come si ritrovano a vicenda? C'è un punto, un modo, un percorso per trovare ed essere trovati, nella banda dei corrotti?
Fausto

LA DOMANDA appartiene a una lettera sull’intervento del 2 dicembre della Procura di Roma: decine di arresti e almeno cento imputazioni di corruzione o organizzazione della corruzione. Al centro c'è l'ex sindaco di Roma, Alemanno. E c'è la risposta, sorprendente nella sua apparente semplicità, che il magistrato Cantone ha dato a una intervista del Tg3 (3 dicembre). “Come si forma un universo così esteso e così compatto? Attraverso la corruzione”. Cantone intendeva dire qualcosa di ovvio e di terribile: il terreno è pronto, ciascuno è predisposto e – come dire – in attesa. Una frase intercettata infatti dice “li stiamo comprando a uno a uno”. E non include dubbi. La “nuova corruzione unita” , al momento delle indagini e delle imputazioni di cui sono autori magistrati prudenti e non noti per il desiderio di esporsi, risponde, a quanto pare, alle seguenti caratteristiche (anticipate finora solo dal magistrato-scrittore De Cataldo nei suoi romanzi). 1) L'organizzazione si fonda sulla sicurezza che tutti siano corrotti e stiano immediatamente al gioco. Resta accertato che se corrompi ottieni molto più che con violenza o minacce. La corruzione è la nuova mafia. 2) L'organizzazione ha invaso molti campi diversi, da quelli dei grandi appalti a quelli di cose che apparirebbero a prima vista piccole o marginali, contando sulle risorse delle imprese grandi e sull'accumulo di attività (la spazzatura delle foglie) che diventano grandi con il diligente accumulo. 3) I magistrati hanno scoperto, e ci fanno scoprire, che con “i campi rom e gli immigrati ti fai più soldi che con la droga”. La frase è enorme, ignobile e registrata in una intercettazione. 4) Il male e il bene non si dividono lungo linee di destra e sinistra, e questo lo sentiremo ripetere in centinaia di dichiarazioni e talk show. Tuttavia resta il fatto che la “Alemanno & Co.” aveva piantato radici in un terreno di antica e nuova militanza di estrema destra. Questo deve essere notato non per faziosità politica (i corrotti sono tutti spregevoli nello stresso modo) ma perché, proprio mentre i giudici stavano firmando il più drammatico mandato di arresti e incriminazioni in molti anni, una organizzazione di estrema destra, CasaPound, aveva schierato cinquecento giovani nel percorso tra un campo rom e una scuola, con l'impegno guerriero e patriottico di terrorizzare i bambini rom e impedire loro di entrare in classe. Impossibile non notare e far notare a quei cittadini romani che hanno paura dei rom che quei campi “rendono più della droga”. Ma i ladri, è bene ricordarlo ai molti italiani carichi di pregiudizio, non sono i rom. È un vasto gruppo di giovani e anziani di destra che hanno marciato uniti insieme al sindaco ex fascista. Parola della Procura di Roma. S'intende che tutti potranno dimostrare la loro innocenza. Ma i rom assediati erano innocenti anche mentre hanno spaventato i loro bambini e poi distrutto (“rende più della droga”) il loro misero campo di via Lombroso, a Roma Capitale, detta adesso dai giudici “mafia capitale”.

Corriere 4.12.14
Roberto Morassut
«Inquinamento nel Pd, non sono casi isolati»
intervista di Monica Guerzoni


ROMA «Nessuno sospettava niente? Come si fa a dirlo quando io ci ho scritto sopra due libri?». Roberto Morassut, deputato pd che è stato assessore a Roma con Veltroni, non è lieto di aver gridato al vento per denunciare l’impasto lurido tra malaffare e politica romana.
È una vittoria per lei?
«Per me questa inchiesta è dolorosa, ma non mi sorprende. La qualità della nostra vita interna si è molto abbassata ed era chiaro da tempo».
Colpa delle primarie?
«Un confronto tra tribù, si reggono solo sul potere. Nel tempo si sono incrostate di elementi di inquinamento».
Renzi lo affronterà il 14 all’assemblea nazionale.
«Dobbiamo riscrivere le regole. Ci vuole l’analisi patrimoniale degli eletti e dei nominati. Non mi sorprende che in questa inchiesta ci siano pezzi del Pd, non sono casi isolati».
Luca Odevaine?
«Pronto ed efficiente. L’ho conosciuto così, fino al 2008. Poi l’ho perso di vista».
Di chi è la colpa?
«Dopo la sconfitta nel 2008 nel Pd tutto è scaduto sul piano del potere. Dobbiamo azzerare il tesseramento e le assemblee elette col porcellum interno».
Ma il cuore del malaffare è a destra. O no?
«Con la destra di Alemanno abbiamo avuto un atteggiamento consociativo».
Problema solo di Roma?
«No. Le primarie in Emilia dimostrano lo scollamento del nostro rapporto col territorio. Col trentennale di Berlinguer abbiamo perso un’occasione».
I suoi colleghi la ringraziano per le sue denunce?
«C’è chi apprezza e chi mi accusa di infangare il partito. Do fastidio, ma non importa».
M. Gu.

Repubblica 4.12.14
Ministro, ci spieghi quella cena
Poletti deve rispondere al Paese Non basta dire “non sapevo”
Non si tratta di una semplice foto scattata, ma di un rapporto continuativo durato anni
di Roberto Saviano


“A DOMANDA risponde” è l’espressione usata nei verbali per differenziare una dichiarazione spontanea da una dichiarazione sollecitata da una domanda degli inquirenti. Il ministro Giuliano Poletti non deve rispondere ai magistrati perché non è indagato.
NÉ COINVOLTO nell’inchiesta “Mafia capitale”. Quindi la sua dichiarazione non dovrebbe essere trascritta come “a domanda risponde” ma, piuttosto, come dichiarazione spontanea. Perché dovrebbe spiegare non ai pubblici ministeri che si occupano di reati, ma al paese, il rapporto che pare esserci tra lui e Salvatore Buzzi, presidente di un grande consorzio di cooperative legate alla Legacoop e braccio destro del boss Massimo Carminati. Che ci faceva, Poletti, quando non era ancora ministro ma presidente di Legacoop Nazionale, nel 2010, a una cena di ringraziamento organizzata proprio da Buzzi per tutti «i politici che ci sono a fianco»?
Salvatore Buzzi ha ucciso ed è stato condannato a 24 anni per omicidio. Ex impiegato di banca vicino all’estrema sinistra, è diventato uno degli uomini più rilevanti dell’imprenditoria capitolina. Massimo Carminati, formazione di estrema destra. Il suo uomo più fidato, Salvatore Buzzi, formazione di estrema sinistra. Ma con l’ideologia i due non hanno più nulla a che fare. Loro unico obiettivo sono i soldi. Dopo aver scontato la pena, Buzzi si è reinventato come geniale organizzatore del “terzo settore”: gestisce una galassia di società che raccolgono ex detenuti. Ma non solo, perché così definisce la sua Onlus: «La 29 Giugno è cooperativa sociale di tipo b nata a Roma nel 1985 ed ha come scopo sociale l’inserimento lavorativo delle persone appartenenti alle categorie protette svantaggiate, disabili fisici e psichici, tossicodipendenti ed ex, e più in generale delle persone appartenenti alle fasce deboli della società (senza fissa dimora, vittime della tratta, immigrati)».
Attraverso rapporti diretti con la politica e con la mediazione criminale di Carminati, Buzzi arriva a mettere le mani sugli appalti che contano. In questa intercettazione la sintesi del suo business: Buzzi: «Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno». Il bilancio pluriennale 2012/2014 di Roma Capitale è condizionato dall’organizzazione mafiosa per ottenere l’assegnazione di fondi pubblici, per rifinanziare i campi nomadi, per la pulizia delle aree verdi e per minori per l’emergenza Nord Africa. Ribadisco la domanda: perché Poletti era a quella cena? Era presidente di Legacoop? Non è risposta sufficiente. Quella era una cena di ringraziamento: e la presenza del presidente non era necessaria. In quella foto si vedono molti altri invitati. È una classica cena sociale organizzata in un centro d’accoglienza della cooperativa 29 Giugno. C’è l’ex sindaco Gianni Alemanno, c’è l’ex capo dell’Ama Franco Panzironi (arrestato con Buzzi), c’è un esponente del clan dei Casamonica, c’è il dimissionario assessore alla Casa Daniele Ozzimo (al tempo consigliere Pd e pure lui indagato), c’è il portavoce dell’ex sindaco Sveva Belviso e c’è Umberto Marroni, parlamentare Pd (Buzzi in un’intercettazione dichiara che proverà a lanciarlo alle primarie democratiche per il sindaco di Roma). Il ministro non conosceva Buzzi e il suo modus operandi ? Da presidente della Legacoop immaginiamo non potesse conoscere il dna di tutte le cooperative: ma nemmeno di questo impero da 60 milioni di euro? Eppure la Onlus apparteneva proprio alla realtà Legacoop. Poletti non si è reso conto di come la gestione degli appalti sia stata quantomeno disinvolta? Degli appalti che la giunta Alemanno concedeva e del flusso di denaro che la beneficiava? C’è bisogno di inchieste della magistratura, quando a Roma si sapeva da anni che Buzzi era un dominus nell’assegnazione alle sue cooperative degli appalti? Perché la politica deve rispondere solo se interrogata da un giudice?
In questo caso è la legittimazione politica e sociale che il ministro Poletti ci deve spiegare. Buzzi apre nel maggio 2014 l’assemblea di bilancio “Gruppo 29 Giugno” con un discorso. Prima però ringrazia alcune persone. Tra i presenti ringrazia il direttore generale dell’Ama Giovanni Fiscon che, secondo le accuse, sarebbe stato nominato grazie all’organizzazione mafiosa. Ringrazia Angiolo Marroni, garante detenuti del Lazio e padre di Umberto Marroni, capogruppo Pd presente alla cena di cui sopra. Ringrazia Salvatore Forlenza, responsabile rifiuti (indagato: il gip ha rifiutato la richiesta d’arresto proposta dai pm). Ringrazia Mattia Stella del gabinetto del sindaco Ignazio Marino (nelle intercettazioni, Buzzi dice che occorreva “valorizzare” Mattia e “legarlo” di più a loro). Poi ringrazia anche chi non ha potuto partecipare all’assemblea. Ringrazia i consiglieri comunali Anna Maria Cesaretti e Mirko Coratti (e Buzzi nell’intercettazione indicava le persone che lo avrebbero aiutato a vincere la gara proprio in Cesaretti e Coratti, per parlare con il quale avrebbe dovuto elargire 10mila euro, indicandoli quali «assi nella manica per farci vince la gara»). Ringrazia Cosimo Dinoi (e l’organizzazione vuole sostituire al “gruppo misto” il capogruppo Dinoi e ottenere la presidenza della commissione trasparenza del Comune di Roma). Saluta l’assessore Daniele Ozzimo — e nell’inchiesta si legge che «il 19 giugno 2013 a bordo dell’autovettura Audi veniva intercettato un dialogo tra Buzzi e le sue collaboratrici Chiaravalle Piera e Bufacchi Anna Maria, nel corso del quale i tre interlocutori discutevano di quelli che sarebbero potuti essere i ruoli in Municipio per i loro ‘amici’ Marroni Angelo o Ozzimo Daniele, sperando che il sindaco avrebbe lasciato loro un posto nel campo del sociale, di fondamentale importanza per le attività economiche delle Cooperative e, di conseguenza, del sodalizio».
E chi saluta per ultimo Buzzi a quel convegno? Ecco il passo: «Concludo, infine, con un augurio di buon lavoro: al ministro Giuliano Poletti, nostro ex Presidente nazionale che più volte ha partecipato alle nostre assemblee; al Governo Renzi affinché possa realizzare tutte le riforme che si è posto come obiettivo, l’unico modo per salvare il nostro Paese dalla stagnazione e dall’antipolitica; in particolar modo a tutti voi soci che con il vostro lavoro quotidiano avete contribuito a raggiungere questo risultato così soddisfacente». Salvatore Buzzi è accusato di essere il ministro dell’economia della cosca e «si occupa — secondo i Ros — della gestione della contabilità occulta della associazione e dei pagamenti ai pubblici ufficiali corrotti». Il ministro del lavoro Poletti è finito in copertina proprio con Buzzi sul magazine della cooperativa 29 Giugno. Non si era informato su come queste cooperative vincessero gli appalti? Su come i disperati che ci lavorano non fossero altro che bacini di voti, strumenti di pressione sociale, oggetti per riciclare? Non si tratta di una foto con uno sconosciuto, di una cena elettorale dove non sai con chi parli e a fianco di chi sei seduto. Non sono imboscate. Qui si tratta di non aver monitorato, capito come agivano le maggiori cooperative a Roma. Possibile?
Dice in tv il premier Matteo Renzi che «non si può mettere in mezzo Poletti perché ha partecipato a una cena». Giusto: non c’è, ripetiamo, nessun reato che viene contestato. Ma è politicamente che questo rapporto può essere considerato grave, anzi gravissimo. È di questo che il ministro deve rispondere al Paese e in Parlamento. Non basta dire “«non sapevo, non potevo sapere, non c’entro». Non si tratta di una semplice foto scattata, ma di un rapporto continuativo, durato anni. Perché?

Repubblica 4.12.14
E spunta il finanziamento per l’elezione di Marino
di Giovanna Vitale


ROMA . Non solo i finanziamenti a Gianni Alemanno, sindaco uscente a caccia del bis e perciò propenso ad accettare le elargizioni della Cupola. In quella tarda primavera del 2013, vigilia elettorale, il sodalizio criminale guidato dal Nero e dal Rosso, l’ex Nar Massimo Carminati e il “compagno” Salvatore Buzzi, aveva pensato bene di “coprirsi” pure con lo sfidante. Sovvenzionando la campagna elettorale del chirurgo genovese uscito vittorioso dalle primarie del Pd.
Dal rendiconto sulle spese e i contributi ricevuti in campagna elettorale — depositato per legge in Campidoglio, alla Corte dei Conti e presso la corte d’Appello di Roma — il candidato Ignazio Roberto Maria Marino risulta aver preso soldi dalle coop guidate dall’ex detenuto che volle farsi imprenditore. Due i versamenti intestati al candidato sindaco del centrosinistra a ridosso delle elezioni: uno da 10mila euro effettuato dalla “29 giugno”, un altro da 20mila bonificato dal “Consorzio Eriches 29”. Tutti soldi provenienti dalle tasche di Buzzi, dunque. Che, una settimana prima del voto, al telefono con Carminati teorizza: «Tu devi essere bravo perché la cooperativa campa di politica, perché il lavoro che faccio io lo fanno in tanti, perché lo devo fare io? Finanzio giornali, faccio pubblicità, finanzio eventi, pago segretaria, cene, manifesti. Lunedì c’ho una cena da ventimila euro, pensa... Questo è il momento che paghi di più perché stanno le comunali, poi per cinque anni… Noi spendiamo un sacco di soldi sul Comune».
Investimento necessario, ne è consapevole la Cupola di mafia capitale. Che ha le sue preferenze («Se vinceva Alemanno ce l’avevamo tutti comprati», dice ancora Buzzi al telefono) e dopo il cambio della guardia si dà da fare per infiltrarsi nella nuova amministrazione. « E mo vedemo Marino, poi ce pigliamo e misure tramite Luigi Nieri (vicesindaco di Sel, ndr)», chiacchiera il boss delle coop.
Il problema è che avvicinare il chirurgo dem non è facile, l’unico contatto concreto è il suo capo segreteria Mattia Stella, «che dobbiamo valorizzare e legà di più a noi», dice non a caso Buzzi. Arrivando addirittura a vagheggiare un’imboscata del Pdl sulla manovra di Bilancio per farlo cadere. Ma il “destro” Carminati lo riporta alla realtà: «No, loro stanno facendo un’operazione direttamente con Zingaretti per sistemarsi Berti (avvocato nominato da Alemanno nel cda di Ama, ndr), questi qua, pe sistemasse... perché deZingaretti se fidano, de Marino non se fida nessuno». Il governatore del Lazio con cui la “mafia capitale” avrebbe stabilito un rapporto — sostiene Buzzi in un’altra intercettazione — mettendo a libro paga uno dei suoi in Regione. Ma «se avevano bisogno di qualcuno per avere contatti con me, è perché forse sapevano che con me non potevano averli», taglia corto il presidente. «Mai avuta una percezione di questo tipo».

il Fatto 4.12.14
Nella polvere
Voti e inchieste: Roma e il Pd “infiltrato”
di Eduardo Di Blasi


I rapporti tra Matteo Orfini e i democratici della Capitale non sono buonissimi: “Pensi che non mi hanno neanche invitato all’assemblea programmatica del Pd romano di domenica alla quale ha partecipato il procuratore Pignatone. E sono pur sempre il presidente del partito nazionale”. Orfini è stato chiamato a commissariare le tribù del partito romano (da sempre sufficientemente affamate), dopo che l’inchiesta sulla “mafia capitale” ha lambito un bel pezzo dei potentati locali venuti su all’ombra del Cupolone. Lui ha già chiarito che il male peggiore sono state le preferenze (anche quelle raccolte con le primarie), perchè le preferenze stimolano l’appetito, di chi cerca l’elezione e di chi offre pacchetti di voti per arrivare a mettere un piede nella macchina pubblica. A vedere quanti voti hanno ricevuto i consiglieri comunali pd alle ultime amministrative, si capisce che Mirko Coratti (6.565), Daniele Ozzimo (5.317) e Antonio Stampete, rappresentante della corrente di Marco Di Stefano (4.754), hanno avuto un impatto importante nella raccolta dei voti del partito. Niente di penalmente rilevante, questo. Però indicativo anche per il commissario Orfini.
Ozzimo era del resto un promettente politico locale. Dalla Tiburtina, sponda Ds-Pd, era arrivato in Campidoglio nel 2008 con 3.349 preferenze, balzate come visto a 5.317 cinque anni più tardi, quando aveva stretto un’alleanza politica con Umberto Marroni, dalemiano volato a Montecitorio. Si era sempre occupato di sociale, Ozzimo, anche durante la sua prima consiliatura in Comune sedeva nella commissione dedicata. Tanto che, al momento di costituire la giunta Marino, il Pd lo voleva collocare all’assessorato ai Servizi Sociali. Poi Marino, questo narrano le cronache, gli preferì la cattolica Rita Cutini, ben voluta dalla Comunità di Sant’Egidio cui apparteneva.
ANCHE DOPO I FATTI di Tor Sapienza, il nome di Ozzimo ballava sulla casella che la Cutini, questa l’opinione del pd romano, avrebbe comunque dovuto abbandonare per un rimpasto considerato dai democratici capitolini “sufficiente”. Se Ozzimo fosse diventato assessore ai Servizi Sociali di Ignazio Marino, oggi che l’inchiesta sulla “mafia Capitale” è divenuta nota, Ignazio Marino non sarebbe più sindaco di Roma. E quindi, si direbbe, il primo cittadino ha avuto fortuna. E il Pd no.
Del resto il partito è lacerato da anni da lotte interne che spesso travalicano i confini propriamente politici. Per giorni i maggiori esponenti locali hanno fatto a gara a commentare la scorrettezza di Marino su una manciata di multe non pagate. Poi sul partito è calato un certo torpore quando uno degli esponenti di peso come Marco Di Stefano è piombata l’accusa di una tangente milionaria, con tanto di contorno di un suo assistente misteriosamente sparito (e mai più ritrovato).
NELLA SOLA ordinanza d’arresto che la Procura di Roma ha emesso ieri nei confronti di 37 persone, ci sono i nomi di tre indagati dell’acquario democratico: oltre ad Ozzimo, il presidente del consiglio comunale Mirko Coratti ed Eugenio Patanè, attualmente consigliere regionale. I tre sono finiti nelle intercettazioni di quello che la Procura ritiene la figura con cui Massimo Carminati controllava i propri affari “a sinistra”: Salvatore Buzzi. Dai democratici romani Buzzi viene incasellato in una precisa posizione: “È l’uomo di Umberto Marroni”. L’ex capogruppo del Pd all’epoca di Alemanno spiega che è evidente che lui conoscesse Buzzi poiché la cooperativa che quello gestiva, l’aveva fondata con il padre Angiolo, oggi garante dei detenuti del Lazio e figura non minore della politica laziale a sinistra, in cui è stato eletto per 30 anni. E certo c’è differenza tra l’avere un amico in una potente coop rossa o in un’associazione mafiosa.
A Marroni, del resto, il pd romano avverso (praticamente la maggioranza), contesta una politica al limite del consociativismo in epoca Alemanno. E lui deve difendersi: grazie a noi sono stati cacciati Panzironi e Bertini da Ama e Atac. Una giustificazione politica. In attesa che la procura non scodelli altre carte e metta a rischio carriere politiche più o meno lunghe.

il Fatto 4.12.14
L’affare-zingari vale 24 milioni ogni anno
Il business dell’emergenza profughi
E gli stranieri cacciati dalla rivolta di Tor Sapienza sono finiti in un centro legato alle società sotto inchiesta
di Silvia D’Onghia


Ventiquattro milioni di euro in un anno per 4.400 persone. Il business dei rom a Roma vanta cifre da capogiro. A fare i conti, per il 2013, è stata l’Associazione 21 luglio, che nel dossier “Campi nomadi spa” ha calcolato quanti soldi entrano nelle tasche delle coop che lavorano “sui zingari”, come direbbe Salvatore Buzzi, e delle municipalizzate che avrebbero il compito della sicurezza e della pulizia. Avrebbero, perché basta farsi un giro nel “villaggio della solidarietà” – così li hanno chiamati, peccato che la solidarietà si sia persa per strada – per essere travolti da cumuli di immondizia e da colonie di topi. Nessuno pulisce, men che meno l’Ama (la municipalizzata del Campidoglio), e nessuno vigila, perché le guardianie non esistono e le telecamere sono rotte.
PRENDIAMO il campo di Castel Romano, quello per cui le coop che fanno capo a Buzzi – e quindi a Carminati – pretendono il pagamento di oltre 2 milioni di euro annui dal Comune. Il campo, in cui vivono circa 900 persone, costa 5,3 milioni l’anno. Di questi, 2 milioni servono alla gestione ordinaria, affidata – appunto – al consorzio Eriches 29. All’interno manca l’acqua potabile – le condutture non possono essere fatte perché l’area è sottoposta a vincolo –, e gli abitanti restano spesso senza corrente. L’associazione 21 luglio ha calcolato che, dal giorno dell’inaugurazione, Castel Romano è costato all'amministrazione 270 mila euro a famiglia. Il campo della Barbuta, inaugurato nel 2012, è costato invece 10 milioni di euro, e nel 2013 il Comune ha dovuto tirar fuori 1,7 milioni per la sola manutenzione. L’Ama ha intascato 160mila euro, ma – come ha spiegato un servizio di Piazza-pulita – “passa una volta al mese per la sola pulizia straordinaria”. Infatti gli abitanti vivono tra la “mondezza” e l’amianto. Per il villaggio di Candoni, 820 abitanti e 2,3 milioni spesi nel 2013, sono andati 756 mila euro a Risorse per Roma – la spa partecipata di Roma Capitale –, 230 mila all’Ama e 86 mila alla cooperativa 29 giugno per la bonifica fognaria. Tutto, per tutti i campi, ad appalto diretto, tranne la scolarizzazione, unica voce per cui è previsto un bando.
LA MUSICA non cambia se si parla di profughi. Nel 2012, la direttiva del Viminale stabiliva un rimborso di 46 euro a persona al giorno (40 per vitto e alloggio e 6 per l'assistenza). Save the Children ha denunciato però che nelle 14 strutture controllate a Roma, otto delle quali gestite dalla coop Domus Caritatis, arrivano rimborsi di 80 euro al giorno per l’accoglienza di minori stranieri non accompagnati. La Domus Caritatis è un nome che non torna direttamente nelle carte dell’inchiesta sulla mafia capitale, ma che fa parte del consorzio “Casa della solidarietà” di Tiziano Zuccolo, colui cioè che, parlando al telefono con Buzzi, gli chiede: “Noi l’accordo... l’accordo è quello al cinquanta, no? ”. E la Domus Caritatis è anche la coop che gestisce il centro di via Salorno, all’Infernetto, dove sono stati portati i rifugiati sgomberati da Tor Sapienza, il quartiere in cui – poche settimane fa – è scoppiata la rivolta. Ancora una volta, a beneficiare degli immigrati è stato uno dei componenti dell’accordo al cinquanta.
Ulteriore capitolo, non meno remunerativo, è quello dell’emergenza abitativa, per la quale le cooperative si danno tanto da fare. Secondo una stima approssimativa, il Campidoglio spende 30 milioni di euro l’anno per l’affitto di immobili da destinare alle famiglie senza casa. Per locazione e gestione, si va da un minimo di 1.200 euro al mese a un massimo di 3.500 (nel popolare quartiere di Pietralata, non ai Parioli). A portare a casa gran parte del guadagno è l’Arciconfraternita San Trifone, che per una sola palazzina intasca oltre 800mila euro e che – dal Giubileo in poi – ha gestito tra l’altro il centro polifunzionale Enea: 400 profughi per 55 euro al giorno pro capite. Un fatturato medio totale di 20 milioni annui. Sotto l’Arciconfraternita gravita, neanche a dirlo, la stessa Domus Caritatis.

Articolo 21  3.12.14
L’Unità, “newco” con Veneziani, Pessina e Pd

qui
segnalazione di Francesco Maiorano

Corriere 4.12.14
Le complicità da sradicare nei partiti
di Fiorenza Sarzanini


Due giorni prima della «retata» di Roma il procuratore Giuseppe Pignatone aveva lanciato un preciso monito. Intervenendo alla conferenza del Partito democratico aveva detto: «Il rischio più alto che corriamo è quello del contatto fra il mondo criminale e quello politico, con un aumento esponenziale della pericolosità dell’uno e dell’altro». In realtà, leggendo gli atti giudiziari dell’inchiesta sull’associazione per delinquere di stampo mafioso che farebbe capo all’ex estremista dei Nar Massimo Carminati, quel rischio sembra essersi già concretizzato. Lo sa bene l’alto magistrato e lo sanno soprattutto gli amministratori pubblici che si sono messi al servizio di chi lucrava su ogni appalto, su ogni emergenza, persino sulle calamità naturali come la neve.
Le indagini svolte a Roma sulle cosche locali non erano mai arrivate a scoprire un sistema di complicità tanto ben strutturato e soprattutto così invasivo. Neanche la ‘ndrangheta e la camorra, che pure hanno coltivato interessi economici perfettamente radicati sul territorio, avevano raggiunto un risultato tanto eclatante. E proprio questo dovrebbe far riflettere su quanto alto sia ormai il livello di permeabilità della politica. Ci sono uomini delle istituzioni sistemati nei posti strategici che hanno accumulato «tangenti» da centinaia di migliaia di euro individuando come interlocutori privilegiati gli imprenditori disponibili a pagare il prezzo più alto.
Assessori e consiglieri che impunemente
hanno continuato
ad amministrare la cosa pubblica, semmai spostandosi da un ufficio all’altro, da un incarico all’altro. Lo hanno fatto spesso utilizzando per i propri interessi funzionari altrettanto corrotti, disponibili a truccare
le carte pur di compiacerli e di soddisfare ogni richiesta in un intreccio illecito difficile da sciogliere. La soglia
di tolleranza dei cittadini, che sgomenti assistono
al «sacco» delle città, sembra essere stata raggiunta. Adesso tocca
ai leader di partito rassicurarli, cambiare
gli uomini e i metodi, intervenire in maniera drastica. Sono moltissimi gli esponenti della destra e della sinistra che in queste ore chiedono alla magistratura di andare fino in fondo. Bene, è giusto che i pubblici ministeri svolgano verifiche e accertamenti senza subire alcun condizionamento. Ma il compito principale spetta alla politica, che deve guardare al proprio interno per rompere i vincoli illeciti e fare finalmente pulizia senza sconti o indulgenze. Per essere credibile, prima che sia davvero troppo tardi.

Corriere 4.12.14
Case, versamenti, stipendi fissi
Il manuale delle tangenti ai politici
di Fiorenza Sarzanini


ROMA Nel «libro mastro» delle tangenti ci sono nomi e cifre. Un lunghissimo elenco di politici e funzionari pubblici che i carabinieri del Ros guidati dal generale Mario Parente hanno trovato durante la perquisizione a casa di Nadia Cerrito, la moglie di Salvatore Buzzi, anche lei finita in carcere. Tutti avevano un prezzo e la regola era chiara: bisognava pagare per avviare la pratica e versare altri soldi quando l’affare era chiuso. Poi c’erano gli «stipendiati» fissi e quelli che pretendevano un compenso extra per l’interessamento. Ma anche quelli che avevano richieste extra e chiedevano un appartamento oppure altri benefit. Buzzi li soddisfaceva e poi si sfogava: «I i nostri sono molto meno ladri di quelli della Pdl. Te lo posso assicura’ io che pago tutti». Uno è Luca Odevaine «che gli do 5 mila euro al mese e io ne piglio 4 mila».
Patanè vuole 120 mila
La richiesta di denaro per il consigliere regionale del Pd Eugenio Patanè, arriva da Franco Cancelli, della cooperativa Edera, per «pilotare» la gara sullo smaltimento dei rifiuti indetta dall’Ama. Annotano gli investigatori dell’Arma: «Il 16 maggio 2014 veniva intercettato un dialogo di estremo interesse investigativo, nel corso del quale Buzzi informava i presenti circa la richiesta di 120.000 euro avanzata da Patanè. Buzzi si mostrava restio: “A Panzironi che comandava gli avemo dato il 2 virgola 5 per cento, 120 mila euro su 5 milioni... mo’ damo tutti sti soldi a questo?”». Poi però ci ripensa, spiega che «martedì incontro Patanè e una parte dei soldi io comunque gliela darei, gliela incomincerei a da’, quando vado all’incontro gli dico già i 20 te li ho dati». E dieci giorni dopo, di fronte all’ennesima richiesta sbotta: «Gli abbiamo dato 10 mila euro per carinerie e lì finisce, non gli diamo più una lira».
«Trova l’appartamento»
Angelo Scozzafava è direttore del dipartimento Promozione dei Servizi Sociali del Campidoglio, da lui passano le pratiche relative ai campi nomadi. I pubblici ministeri sottolineano come «le indagini hanno evidenziato l’ipotesi di una remunerazione della sua attività funzionale da parte del gruppo criminale con la promessa dell’assegnazione di un appartamento in una cooperativa».
Il 30 dicembre del 2013 Buzzi parla con Paolo Di Ninno e «accenna all’acquisto di un appartamento per Scozzafava. Ho il prezzo con Scozzafava e va bene l’ipotesi per lui, perché noi, vuol dire risparmiare 200.000 euro. Devi trovare una cosa piccola che per 130.000 euro lui». Di Ninno chiede: «Vanno bene questi due?» e Buzzi precisa: «Associazione cooperativa che aderisce a Eriches che s’intesta l’appartamento... un appartamento che stia molto vicino a 130».
Bonifici per Alemanno
Nella sua ordinanza il giudice evidenzia come «le erogazioni di utilità verso Alemanno» siano sempre successive a una decisione favorevole all’organizzazione.
Oltre a un «pagamento di 75.000 euro per cene elettorali» si ricostruisce che cosa avviene durante la sua permanenza in Campidoglio. «Il 22 novembre 2012 Buzzi inviava un sms ad Antonio Lucarelli (capo della segreteria del sindaco ndr ), Luca Gramazio e Gianni Alemanno: “Problema risolto per il nuovo campo grazie”, ricevendo in risposta da Alemanno il seguente messaggio: “Ok”». Il 27 novembre Buzzi prenota due tavoli da 5 mila euro l’uno «per una cena elettorale in favore di Alemanno, per il giorno 6 dicembre».
Quello stesso 6 dicembre «a pochi giorni dall’approvazione dell’assestamento di bilancio 2012-2014, dai conti correnti delle società riconducibili a Buzzi, venivano effettuati ulteriori bonifici per complessivi 30.000 euro in favore della “Fondazione Nuova Italia”. E il 17 aprile 2013 risulta effettuato un bonifico di 15 mila euro in favore di Fabrizio Pescatori, mandatario elettorale di Alemanno».
Soldi per l’incontro
Quando in Campidoglio arriva Ignazio Marino e bisogna trovare nuovi referenti viene contattato Franco Figurelli, segretario del presidente dell’Assemblea capitolina Mirko Coratti «per l’aggiudicazione della gara Ama sulla raccolta del Multimateriale; per sbloccare pagamenti sui servizi sociali; per pilotare nomine».
Scrivono gli investigatori dell’Arma: «A tal fine, rivela Buzzi nella conversazione del 23 gennaio 2014, Figurelli veniva retribuito con mille euro mensili, oltre a 10 mila euro per poter incontrare Coratti, mentre a quest’ultimo venivano promessi 150.000 euro per sbloccare un pagamento di tre milioni».
Analogo trattamento veniva riservato a Claudio Turella, direttore del Servizio Giardini. Il 19 giugno 2013 «Buzzi affermava che per “l’emergenza neve” avrebbero dovuto dargli ancora 15 mila euro, a fronte di una somma pattuita di 40 mila euro. E poi imprecava sui 100 mila richiesti, poi ridotti a 30 mila».

Corriere 4.12.14
«Devi stare attento, sei sotto indagine»
Quelle soffiate degli agenti al boss
L’ossessione di Carminati per le microspie. L’arresto anticipato per evitare che fuggisse
di Giovanni Bianconi


ROMA L’hanno preso con quasi quarantott’ore d’anticipo, perché temevano che potesse scappare. Dalle intercet tazioni degli ultimi giorni Massimo Carminati pareva consapevole dell’arresto imminente, e forse stava organizzando una fuga preventiva. Per questo la Procura ha fatto eseguire ai carabinieri del Ros un fermo per ipotetico possesso di armi, completo di perquisizione, in attesa di procedere con l’arresto per «Mafia capitale» insieme agli altri inquisiti. Una mossa per evitare la beffa da parte di un personaggio che nei colloqui registrati ha mostrato una specie di fissazione per i controlli nei propri confronti; sapendo di essere il principale bersaglio di un’inchiesta durata anni e che a Roma era da tempo sulle bocche di tanti.
La targa della questura
Il 4 ottobre dello scorso anno, gli investigatori che tenevano sotto osservazione la stazione di servizio di corso Francia — zona nord di Roma, considerata da Carminati una sorta di ufficio — hanno visto arrivare un’Alfa Romeo 156 con una targa risultata intestata alla questura di Roma. Ne sono scesi due uomini, non ancora ufficialmente identificati; presumibilmente due poliziotti che sono stati intercettati mentre parlavano con l’ex estremista nero riciclatosi nelle file della criminalità comune, e oggi accusato di essere a capo di un’associazione mafiosa.
Nel corso della conversazione uno dei due dice a Carminati: «Perché adesso, te stai sotto indagine...». E l’altro: «Oppure, per dire, che devi... devi evita’... devi evitare». Commento dell’interessato: «È un casino...». Poi la conversazione prosegue sui burrascosi trascorsi di Carminati, quando era «un pischello», un soldato della destra sovversiva che combatteva lo Stato, e lui conclude: «Adesso so’ un vecchietto...». Uno dei due interlocutori gli chiede se è vero che sparò a un poliziotto, e quando Carminati conferma si lascia andare: «Però so’ affascinato...». L’ex «pischello» rivendica: «quella è la storia nostra... hai capito? Erano altri tempi», e l’altro, sempre più rapito dai ricordi del guerrigliero tramutatosi in bandito, confessa: «Io starei due giorni a sentirti...». Anche perché «non sei stato un santo, però manco sei stato...». E salutando dice: «Massime’, è sempre un piacere».
Massimetto la guardia
Un rapporto cordiale, come quello con un altro agente di polizia soprannominato «Massimetto la guardia» il quale — riassumono i magistrati — «si rendeva spesso disponibile al reperimento di materiale elettronico di consumo e di piccoli elettrodomestici, che spesso venivano consegnati alla stazione di rifornimento». Un anno fa di questi tempi, dopo aver trattato con «Massimetto», Carminati riferiva a un presunto complice «di avere la possibilità di ordinare 10 iPad e 10 iPhone, da usare per dei regali di Natale ad alcuni dirigenti comunali compiacenti».
Le segnalazioni di possibili arresti ai suoi danni, in quello stesso periodo, portarono qualche amico a fargli sapere che era meglio restare in Inghilterra dov’era andato a trovare il figlio, ma lui volle rientrare per rendersi conto di quel che stava succedendo, come riferisce il suo «socio occulto» Buzzi in una telefonata: «È dovuto rientrare di corsa perché sembrava che lo dovevano arresta’... per la storia delle bische clandestine, che lui non c’entra niente». Allora preferì affrontare direttamente il rischio, che evidentemente riteneva basso; a maggio scorso, invece, sempre Buzzi racconta che «Massimo s’è fatto già la tomba... poveraccio... Lui è sicuro che lo arrestano... il pubblico ministero ha fatto la richiesta per l’arresto di settanta persone e tra le settanta c’è pure lui... l’hanno avvisato.... però... non si vuole fa’ trova’ a casa».
Le bonifiche
Una riprova dell’attenzione quasi maniacale ad evitare le intercettazioni (senza riuscirci) sono le ripetute «bonifiche» ordinate nei luoghi in cui sospettava ci fossero microspie: dallo studio dell’avvocato Pierpaolo Dell’Anno (dove la cimice fu effettivamente scoperta e lasciata al suo posto per non mettere in guardia gli investigatori che ne avevano piazzata un’altra nel corridoio, grazie alla quale registrarono tutto), all’utilizzo nell’ufficio di Buzzi del jammer, il «disturbatore di frequenze» che doveva impedire eventuali intercettazioni. «Intanto ti porto un coso... un jammer... — diceva Carminati all’amico —. Lo mettiamo qua lo attacchiamo così quando uno è... lo accende e vediamo... qui i telefonini pure se son accesi...». Perfino un furto perpetrato nella sede di un altro ufficio frequentato dagli indagati fa temere al presunto boss un pretesto per nascondere microfoni: « Faglie fa’ una bella bonifica... guarda dentro le cose, dentro tutte le placche... faglie smonta’ le plastiche».
Per i cellulari il presunto boss aveva predisposto schede «dedicate», un numero riservato per ogni interlocutore, in modo da ridurre al minimo il pericolo di farsi registrare. E temeva microspie anche in macchina lanciandosi nella ricerca nei posti più nascosti della vettura: «Devi smontare là sotto e guardare — spiegava a un amico coinvolto nell’indagine —. Mandi la cosa.... poi quando lo voi... me lo dici... annamo dall’amicuccio mio...». E si lamentava di dover fare i conti con tutte queste precauzioni: «È pazzesca ’sta cosa, sta diven tando un brutto vivere qua...».

Repubblica 4.12.14
Il darwinismo criminale
La politica è per pezzi interi al servizio della delinquenza e non viceversa, con l’esclusione doverosa di quei tanti che la fanno perché veramente ci credono
di Alberto Statera


MANAGER e killer, assessori e spacciatori, imprenditori e rapinatori, ministri e assassini. Sì, assassini. Perché mentre fu data per scontata ma mai provata in giudizio la partecipazione di Massimo Carminati all’omicidio Pecorelli, Salvatore Buzzi uccise una prostituta.
FU condannato e si fece ventiquattro anni a Rebibbia. Questo è l’uomo che circolava come un padrone nei corridoi del Campidoglio e delle grandi società municipalizzate dispensando ordini per conto dell’ottavo “re di Roma”, l’erede della banda della Magliana Carminati, detto “er Guercio” o “er Cecato”. Assassino e anfitrione dell’ormai famosa cena nella quale fu fotografato con Gianni Alemanno, un nugolo di reduci fascisti assurti affamati al potere dopo lustri indelebili di emarginazione nell’eversione nera, con il presidente della Lega delle Cooperative, oggi ministro, Giuliano Poletti, e buona parte del centrosinistra romano. Colletti bianchi, camicie nere e fazzoletti rossi. Ma badate, non ha più senso censire il colore politico, la tessera di partito, men che meno l’ideologia, in questo sordido minestrone di delinquenza e affari, fatto di appalti, usura, droga, estorsioni, armi, in una sinergia criminale — dalla strada dei plebei ai palazzi dei potenti — che fa impallidire Scarface e la Chicago degli anni Venti e rimanda piuttosto al darwinismo sociale di Cesare Lombroso. Il quale oggi, tralasciando le bozze occipitali, forse direbbe che sì il delitto ha perduto la crudeltà dell’uomo primitivo, ma per sostituirvi quella dell’avidità. La truffa gigantesca alle spalle dei gonzi è «garantita — come scriveva in Sui recenti processi bancari di Roma e Parigi — coi nomi più altisonanti e più e più venerati se non venerabili». Scorri i nomi degli arrestati e degli indagati nell’inchiesta sul “Mondo di mezzo”, in cui tutto s’incontra e si mischia, e rabbrividisci per la quantità di pregiudicati della banda che manovrava i fili dei burattini, politici e alti burocrati, li pagava o li minacciava: terroristi dei Nar, cui furono attribuiti 33 omicidi, con precedenti per rapine in banca come Riccardo Brugia, ex fidanzato di Anna Falchi considerato il capo del braccio militare, o Fabio Gaudenzi, riciclatori di soldi sporchi. Molti di loro vengono dal Fungo dell’Eur, dove tanti anni fa si riunivano, ma dopo lo sdoganamento della destra con l’era Berlusconi si misero a loro agio nei palazzi e si trasferirono nei quartieri alti prediletti dal “Cecato”, con le loro signore “mesciate”: Vigna Stelluti e i Parioli, vicini alla base logistica nel distributore di benzina tra Corso Francia e via Flaminia Vecchia. Cerchi di collegare i nomi alle decine di nomignoli con i quali si riconoscono tra loro — “er Cane”, “er Cicorione”, “Kapplerino”, “Rommel”, “er Paletta”, “er Mandrillo” — e li immagini nel gazebo del bar Vigna Stelluti, al Malibù, al bar Euclide, o — per gli incontri di più alto livello — da Celestina ai Parioli, di cui risulta prestanome il commercialista del boss Marco Iannilli, e da Assunta Madre in via Giulia, formalmente di Gianni Micalusi, detto Johnny, accusato di riciclaggio. Fu lì che, registrato dalle cimici sotto il tavolo, Alberto Dell’Utri studiava la latitanza del gemello Marcello in base ai consigli di Gennaro Mokbel, il fascio adoratore di Hitler che infeudò la Finmeccanica al tempo di Guarguaglini, insieme a Massimo Carminati. Buzzi in un’intercettazione esulta: «Ma lo sai che mi dice Massimo? Lo sai perché Massimo è intoccabile? Perché era lui che portava i soldi in Finmeccanica. Bustoni di soldi! A tutti li ha portati Massimo».
Non solo neri, per carità, in questo canovaccio che conferma una verità ormai consolidata, non solo a Roma, a Napoli, a Reggio Calabria, a Milano o a Venezia, ma in tutta l’Italia: la politica è per pezzi interi al servizio della delinquenza e non viceversa, con l’esclusione doverosa di quei tanti che la fanno perché veramente ci credono.
Strepitosa, nella sua funesta perversione, è la storia di Luca Odevaine, detto lo “Sceriffo”, raccontata nei dettagli da Claudio Gatti sul Sole 2-4 Ore. In realtà, questo si chiamava Odovaine, ma si è cambiato il nome con una “e” probabilmente per nascondere i suoi precedenti da avanzo di galera. Iscritto da giovane alla sezione del Pci di Ponte Milvio, la stessa dei Berlinguer, nel 1989 viene arrestato per stupefacenti e condannato a due anni e nove mesi. Passa poco e viene di nuovo condannato per emissione di assegni a vuoto. Fa il vice nel gabinetto del sindaco Walter Veltroni e poi con Nicola Zingaretti diventa capo della Protezione civile e della polizia provinciale, da cui il nomignolo di “Sceriffo” per confondere ulteriormente i mondi contigui delle guardie e dei ladri nel “Mondo di mezzo”. L’ultima capriola dello “Sceriffo” è quella che ne fa il presidente della Fondazione Integra/Azione, che si occupa di accoglienza dei profughi e degli immigrati, dove può far felice il Buzzi, che nella “dimensione etica” dell’assistenza ai rifugiati con la cooperativa “29 giugno” ha scoperto l’America: «Ma tu c’hai idea — dice in un’intercettazione — su quanto guadagno con gli immigrati?». Decine di milioni, più che con la droga, come sa Odevaine-Odovaine, che riceve 5mila euro al mese dall’ex carcerato Buzzi.
Ora è piuttosto chiaro che Gianni Alemanno, che non è un cuor di leone come sa chi era presente quando lo “corcò” (così si dice a Roma) Gennaro Mokbel, dopo l’elezione a sindaco si circondò per amore o per forza nei posti chiave degli antichi camerati dell’eversione nera, che sapevano troppo di lui fin dai tempi in cui lanciava bombe carta e chissà che altro. Ma siccome continuiamo a distinguere, non possiamo non chiederci come è possibile che Veltroni e Zingaretti possano aver affidato ruoli così delicati a un noto “sòla” — per stare ancora al linguaggio del Mondo di mezzo — di cui dai tempi del Pci molti dovevano conoscere le gesta.
Ci vorrebbe un altro libro, che forse qualcuno sta già scrivendo, per raccontare le mille storie di un network criminal-politico che sembra oscurare la Tammany Hall newyorkese di Plunkitt, la lobby che fino agli anni Settanta sfornò i sindaci di New York basandosi, tra l’altro, sull’assistenza agli immigrati irlandesi e sull’occupazione manu militari delle cariche pubbliche. Ma c’è già quanto basta per certificare, attraverso le parole del capobanda Carminati, il capestro steso da anni e anni sulla capitale d’Italia, che ha bruciato miliardi di euro di risorse e innescato una tensione sociale che non si sa bene dove andrà a sfociare.
Le grandi municipalizzate ne sono state uno degli snodi, come provano le vicende criminali di Franco Panzironi e Riccardo Mancini, i due alani da Alemanno che più che al sindaco rispondevano al capobanda Carminati: sono “sottoposti”, ringhiava “er Cecato”, e “gli imprenditori devono essere nostri esecutori, devono lavorare per noi”, perché sono loro che li hanno messi nei posti dove si decide e si spende. Dell’anello debole della politica, come lo ha chiamato ieri il commissario Anticorruzione Raffaele Cantone commentando i dati di Transparency International che ci confermano il paese più corrotto d’Europa e tra i più corrotti del mondo, il network del malaffare capitolino neanche parla, perché l’asservimento totale è scontato.
Un dubbio nasce ora che i magistrati hanno scoperchiato scientificamente il termitaio: non sarà che la campagna della Panda Rossa contro il sindaco Ignazio Marino, fomentata a destra e a sinistra, nasce nelle spire del Mondo di mezzo che non ha gradito qualche altolà? Perché Marino non sarà il miglior sindaco possibile per la capitale d’Italia, è alquanto gaffeur e certe volte sembra il cugino di Forrest Gump. Ma non è uomo di malaffare.

Repubblica 4.12.14
E nei palazzi del potere scoppia il panico da arresto “Può toccare a chiunque”
Dalle strade dove gli ex detenuti della coop “29 giugno” al lavoro si chiedono “cosa succederà adesso?”
Dal Campidoglio sotto assedio (“ci hanno detto di stare attenti”) fino al “mondo parallelo della parentopoli dove Alemanno metteva i suoi”(Ama), tra improbabili soprannomi di malavita e avvisi di garanzia in arrivo
di Francesco Merlo


ROMA CHE faceva prima?, chiedo al “raccogli foglie” in tuta arancione. «Il ladro». E quanto tempo è stato in galera? «Ahò, io so’ Pelosi, quello de Pasolini», risponde l’operaio-giardiniere “evaso” da un’altra Roma, capelli a spazzola, l’aria da futuro dietro le spalle.
«SO’ stato vent’anni in galera, in manicomio e anche in casa custodia, ma ancora mafioso non me l’aveva detto nessuno».
Ex detenuti, disabili, sbandati, i dipendenti della Cooperativa 29 giugno non sono abituati a ricevere le visite dei giornalisti e tuttavia non si nascondono per timidezza, ma perché si sentono umiliati. «Ci hanno arrestato presidente e vicepresidente. Pare che anche le segretarie in ufficio siano indagate. Io guadagno 920 euro al mese per pulire i giardini. Adesso che succederà? Gli italiani pensano che questo è un covo della mafia. Dobbiamo tornare a delinquere?». La signora che si è appena sfogata ci sta cacciando sullo stradone di periferia, fuori dai cancelli della Cooperativa, un complesso di prefabbricati bassi circondato da un muro di cemento: peggio di una caserma, meglio di una galera. Indossa un tailleur blu e un cappotto rosso e sembra sconvolta dall’emozione. «Di solito — ci dice Pelosi — quella è tutta un sorriso».
Anche Ignazio Marino in Campidoglio è sconvolto e si nasconde, ma per prudenza politica: «Sta ancora studiando le carte». Tutti qui studiano le carte ma già pensando alle altre carte, quelle del secondo tempo annunciato dal procuratore Pignatone: indizi di pena, ma anche mappa dell’aporia e molliche di difesa. «Ci sono ancora una ventina di nomi che devono saltare fuori», spiega l’ex capogruppo del Pd Francesco D’Ausilio. E aggiunge che «potrebbe toccare a chiunque. È come una roulette capricciosa. Chi può sapere cosa ha millantato al telefono quel Buzzi parlando col suo capo? Buzzi me lo ricordo, sempre presente a tutte le sedute del consiglio comunale. L’altro invece, il fascista mafioso, Carminati, quello non l’ho visto mai».
Oggi i politici romani vivono dunque nel presagio. Alle 16,43 le agenzie battono la notizia che un uomo è stato gambizzato in strada nel quartiere San Lorenzo. Non c’entra nulla, ma tutti vorrebbero sapere il nome perché anche nei saloni più solenni d’Italia l’atmosfera è carica di ioni negativi, quelli della suburra. «È come un film dell’orrore», mormora Luca Galloni il capo della segreteria di Mirko Coratti, il presidente dell’Assemblea capitolina che si è dimesso quando ha saputo di essere indagato. Giovane e tormentato, Galloni dice: «Buzzi a me neppure mi salutava. E l’altro, Carminati, è di quelli che io, solo per la faccia che ha, non l’avrei mai incontrato».
E Marino in clausura cosa cerca in quelle carte? Al terzo piano del Campidoglio lo chiedo a uno che gli è molto vicino ma non vuol comparire e neppure vuol farsi vedere insieme a noi: «Le avete lette voi? Ci sono così tanti omissis! Per tutti noi gli omissis sono come le sciarade della Settimana Enigmistica. C’è la possibilità, risolvendoli, di uscire dannato o, al contrario, risorto». Saliamo perciò una scala stretta che conduce, per così dire, dietro le quinte. È un po’ come ritrovarsi in un teatro. A ogni angolo, però, c’è qualcuno che ci controlla. Chiedo a una gentile signora bionda: «Ma in quanti siete nello staff del sindaco, e come mai state sempre in giro appresso a me?».
Adesso siamo noi che, in cima alla scaletta, mostriamo un foglio, firmato da Ignazio Marino, «il candidato», con l’elenco dei suoi finanziatori e l’ammontare dei finanziamenti. Ebbene, anche la campagna di Marino fu sovvenzionata, 30mila euro, dalle cooperative sociali guidate appunto da Buzzi, quello che comprava appalti, l’ex detenuto per omicidio diventato presidente della cooperativa di ex dannati della terra in via Pomona, lo stradone dove avevamo lasciato Pelosi che gli altri operai chiamano, per rispetto al rango, «il signor Pino». Pelosi vuol mettersi in proprio e propone anche lui una cooperativa, con biglietto da visita, numero di telefono e logo libertario.
In via delle Vergini nella stanza 303 al terzo piano del palazzo dei gruppi consiliari, tutti si muovono dentro il labirinto del minotauro Pignatone. A chi toccherà? Il risultato è che anche qui si nascondono, ma solo perché stanno in un’altra “terra di mezzo”, dove si incontrano ladri e derubati, morti e morituri.
Almeno Marino, in Campidoglio, si fa proteggere dai vigili urbani che piantonano la sua porta continuamente attraversata da uscieri affaccendati. Riusciamo a bloccare un vigile che è una specie di Maciste: «Ci hanno detto di stare attenti perché qui girano giornalisti camuffati», dice a noi che camuffati non siamo.
Non si nasconde invece — almeno non subito — il nuovo amministratore delegato dell’Ama che è la società carrozzone che non riesce a pulire Roma. Si chiama Daniele Fortini. Parente del poeta? «No, ahimè, solo cugino di quel matto che per strada disturba le tv». Paolini? «No, diciamo il suo successore, che almeno non è molesto, Mauro Fortini. Lui è il matto della tv, io il matto dell’Ama». E ci dà un po’ di numeri: «7.340 dipendenti, 830 milioni di fatturato, serve tre milioni di abitanti, ha appalti e forniture per 250 milioni l’anno, 650 milioni di debiti con le banche, 1,8 milioni di tonnellate di rifiuti gestiti, 5 autoparchi con 2.400 automezzi». E ora descrive benissimo il tumore del parastato dove allignano ancora i parassiti, « il mondo parallelo della parentopoli dove Alemanno collocava i suoi». E dove, ammette, «l’ex amministratore delegato ora arrestato, Franco Panzironi, ha ancora i terminali funzionanti». Qui c’è una certa idea di Roma, perché dalle finestre vedi pure il Terminillo ma dentro tutto è triste, è il mondo del travet crocifisso in sala mensa: tetti bassi, speranze strette e luci al neon, non i labirinti di Buzzati che era del Nord e neppure l’ambientazione di Paolo Villaggio, ma la Roma piccola piccola di Cerami, con il il bubbone però della “Mafia Capitale”, che è una formula a cavallo tra esercitazione di stile e tragedia sociale. Anche i soprannomi sono a cavallo tra la malavita e Dagospia, un po’ Totò u curtu e un po’ la Santadeché. Fortini, che da giovane era funzionario berlingueriano del Pci e ha una moglie sindacalista della Fiom, ammette che dentro l’Ama suonano più tribali che mafiosi er Cecato , er Guercio , er Maialetto , il re di Roma, il Nero, er Pirata, er Cane, il Tanca , er Caccola , Cicorione , Rommel , Forfora, er Miliardario. Fortini guadagna «79mila euro lordi l’anno», contro i 545mila del suo predecessore Panzironi, meno degli stipendi concessi ai camerati che Alemanno assunse come quadri.
Se l’aspettava? «Sapevo di star seduto su una bomba». E non poteva fare qualcosa, intervenire prima? È la domanda che gli fa anche Natale Di Cola, giovane segretario della Cgil (funzione pubblica) che ci racconta di avere portato lì anche Camusso «l’11 novembre 2013, ma Fortini ha lasciato tutti gli uomini di prima, forse avrebbe potuto fare di più, sicuramente deve ancora fare il più». Fortini, che è di Orbetello, («ne sono stato il sindaco comunista») ha un bel piano industriale e viene dall’azienda municipalizzata di Napoli, «poi mi chiamò Marino e la chiamata è stata irresistibile». Differenze con Napoli? «Sì. Lì ho incontrato la camorra e qui ho incontrato la politica. E non sto certo dicendo che sono uguali che sarebbe una corbelleria, ma dal consigliere municipale al deputato tutti si sentono autorizzati a dire ad Ama cosa deve fare». Fortini ha l’aria di un bel manager che non ha paura dell’assedio ma dal Campidoglio qualcuno lo chiama e alla fine, anche lui, vorrebbe essersi nascosto, cancellare o rinviare l’intervista.
E voliamo nel quartiere San Lorenzo a cercare la sede dell’Opera Nomadi, la più antica cooperativa sociale a favore dei migranti. Ma il presidente, Massimo Converso, è in Transilvania. Lo chiamiamo al telefono: «È terribile — dice — che in Italia si diffonda l’idea che gli immigrati e i rifugiati sono gestiti dalla mafia. Sono calabrese e combatto la mafia da tutta la vita. È odioso quello che succede». Anche la cooperativa Sorriso, gli dico, quella del palazzo assediato a Tor Sapienza, fa capo al terribile Buzzi, l’elemosiniere della Mafia Capitale. E poi c’è quell’Odevaine che riusciva a intervenire sul ministero e aumentare il numero degli immigrati assegnati al Lazio. Povero Converso, si sente anche lui assediato: «Mi viene quasi da piangere». Abituati alla Roma falsaria, quella della Stangata con i biglietti falsi del bus, adesso questa ci sembra Kobane, la città curda sotto assedio. Soffia dal Campidoglio un’aria da Medio Oriente e da sfascio tribale. Tutti attendono i nuovi avvisi di garanzia come i bramini attendono i prescelti per le pire.

La Stampa 4.12.14
Lo spettacolare fallimento della Destra
di Mattia Feltri


Il declino della destra italiana, disastroso fino all’insospettabile, risiede anche nelle parole dell’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno: «Ne uscirò pulito». Ad Alemanno sembra sfuggire che l’aspetto penale riguarda lui soltanto (e ci si augura che sia innocente); ma è un po’ più generale, e un po’ meno appellabile, la sua prestazione al governo di Roma.
Uscirne puliti è una bella speranza e niente più. In sei anni - da quando il centrodestra si prese la capitale nel 2008 - il mondo si è ribaltato; c’era Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, Gianfranco Fini era fondatore del Pdl. Il consuntivo sarebbe inutile se la cronaca non riproponesse, sotto forma di intercettazioni e ordinanze di arresto, il folle sistema di potere messo in piedi in Campidoglio, e già raccontato mille volte per l’alzata di spalle dei protagonisti. Così folle che importa sino a un certo punto se Alemanno ne sia stato il fulcro o l’inconsapevole vittima, e nel secondo caso per l’ex sindaco sarebbe persino più umiliante. Perché l’aspetto politico - senza tirare in ballo impegnative questioni morali - è l’incredibile tracollo del semplice buon senso, e anche del minimo buon gusto.
Per quarantanove anni, dal 1945 al 1994, alla destra italiana rappresentata dal Movimento sociale fu impedito di mettere mano alle amministrazioni, esclusi per indegnità di stirpe. Quando la Seconda repubblica riconsegnò a Gianfranco Fini e ai suoi il diritto alla competizione, le aspettative erano alte. Loro vivevano nel mito delle mani pulite, che potevano esibire anche per mancanza di occasioni, e nell’entusiasmo di chi aspettava il proprio turno da sempre. Vent’anni dopo il fallimento è spettacolare, verrebbe da dire wagneriano ma è un aggettivo profondamente immeritato: il partito non c’è più, i semileader sono divisi in partitini senza consenso, Fini vive in esilio volontario, uscì da Palazzo Chigi nel 2011 senza gloria e senza passione, e la riconquista di Roma - dopo sessantacinque anni a guardare - ha per epilogo questo guazzabuglio di criminali, ex terroristi, seconde file col pallino della mascella, il tutto subito dopo la crapula di periferia della quale Franco Fiorito è diventato il simbolo. Nessun mondo - comunista, socialista, democristiano - si era inabissato in modi tanto miserabili e piccini. Per dire: un avversario dichiarato come Pietrangelo Buttafuoco, che definì Verona l’unica città romana ben amministrata, oggi si rifiuta di aggiungere sillaba: «Il ve l’avevo detto non mi si confà». E del resto si tratta di un mondo - nostalgie a parte - che alle origini aveva dentro di sé la cultura e il respiro di gente come il poeta Ardengo Soffici o come l’ambasciatore Filippo Anfuso. Col tempo è andato tutto perduto, l’ostracismo ha portato il Movimento sociale al ghetto, alla piccola guerra sotterranea fra correnti o, meglio, fra quartieri romani, ognuno col suo capetto a costituire l’ossatura di una classe dirigente nata male, completamente distaccata dalla realtà perché la loro realtà era nient’altro che la logica di sezione e la partita interna, come il caso di Alemanno dimostra spettacolarmente. Non hanno studiato le lingue, non hanno imparato a leggere come si deve, al massimo andavano a Cortina per farne una dépendance balzacchiana della Suburra. Sono arrivati al potere già ebbri, incapaci di capire che l’emersione da Colle Oppio richiedeva altra tempra. «Avevano biografie da passeggio», ci dice Marcello Veneziani, e l’espressione è formidabile. Hanno incarnato, ci dice ancora, «una politica inconsistente, infiltrata dalla criminalità perché fragile e senza rispetto di se stessa». Uscirne puliti è l’ultima velleità.

il Fatto 4.12.14
Ora Renzi scarica il Pd di Carminati
Connection tra dem ed ex Nar: il premier prova a cavarsela commissariando il partito romano con Orfini
E a La7 dice: “Non so se il manager rosso Buzzi fosse alla mia cena dell’Eur”.
di Wanda Marra


Sono sconvolto perché vedere una persona seria come il procuratore di Roma parlare di mafia mi colpisce molto. Certo vale la presunzione di innocenza. Ma i politici romani devono fare una riflessione di fondo”. Matteo Renzi, nello studio di Bersaglio Mobile, davanti al direttore del Tg La7, Enrico Mentana, al giornalista dell’Espresso, Marco Damilano e al condirettore del Fatto, Marco Travaglio, va subito al punto. La vicenda è talmente grave da essere ineludibile. “Ho accolto la disponibilità del segretario del Pd romano, Lionello Cosentino, che è una persona seria, a fare un passo indietro, e ho deciso il commissariamento di Roma, nella persona di Matteo Orfini”. Poi, difende il ministro Poletti: “Non c’entra”.
Una scelta, quella del commissariamento, tanto obbligata, quanto tardiva. Perché che il Pd romano fosse fuori controllo da tutti i punti di vista, con questioni di malaffare sempre più evidenti (vedi il caso Di Stefano) il premier e i suoi ne erano consapevoli da tempo. Tanto che l’ipotesi del commissariamento era già in campo. Ma il punto è quanto il segretario ex rottamatore controlli il suo partito. La domanda, diretta, arriva da Damilano: “Il punto è che uomini di Carminati sono arrivati alla cena di autofinanziamento di Roma. Coratti e Patanè hanno organizzato tavoli. Buzzi era alla cena per la raccolta fondiper il Pd all’Eur? ”. Risponde il premier: “Non ne ho la più pallida idea” ma noi “facciamo cene trasparenti”. Se qualcuno tra i coinvolti nell’inchiesta Mafia Capitale c’era, “i nomi si vedono. I nomi sono pubblici e registrati”.
IN REALTÀ L’ELENCO non c’è da nessuna parte. Alle cene di fundraising del Pd, a Roma e a Milano, è arrivata gente senza controllo e senza filtro. Bastava che pagasse. Per sapere davvero chi c’era, serve una liberatoria dei partecipanti, che ancora deve essere chiesta. Quando loro daranno il permesso, allora ci sarà un elenco. Parziale. Solo di chi ha acconsentito. Come è già successo per i finanziatori della Leopolda negli anni.
Mai come in questa vicenda appare evidente che Renzi, segretario del Pd da un anno, poco controlli il territorio. E poco ha potuto o voluto, a causa di accordi pregressi alle primarie che l’hanno eletto segretario, mettere le mani sui vertici locali. Come dimostrano le recenti Regionali (in Emilia di fatto è rimasto in piedi il sistema Errani, in Calabria ha vinto il candidato della minoranza, Mario Oliverio) e le candidature perle prossime, che ancora vedono in primo piano la vecchia guardia. La linea renziana era già tracciata dall’altroieri, quando erano diventati sempre più chiari i confini dell’inchiesta “Mondo di mezzo”. Con il coinvolgimento di molta parte del Pd romano. “Chi ha sbagliato dovrà pagare. La politica intera si deve interrogare profondamente e reagire con forza per fare pulizia dentro e fuori di sé. Il Pd, per parte sua, è al fianco della magistratura in questa battaglia per fermare ogni forma di criminalità organizzata”, aveva detto il vicesegretario dem, Lorenzo Guerini. Linea ufficiale ribadita dal ministro Boschi. Tuonava ieri il renzianissimo responsabile Giustizia dem, David Ermini: “I magistrati devono lavorare senza guardare in faccia a nessuno”.
MA AL DI LÀ delle dichiarazioni formali, i renziani per tutta la giornata convulsa di ieri, ci tenevano a chiamarsi fuori. Perché, spiegavano, il Pd romano coinvolto nell’inchiesta nulla avrebbe a che fare con il segretario-premier. Tant’è vero che da settimane i vertici del Nazareno cercavano una soluzione. Con il commissariamento come soluzione sullo sfondo. In una situazione di guerra tra bande ingovernabile. “Il partito a Roma va rifondato”, diceva ieri l’ancora solo presidente del partito Matteo Orfini, invitando a una “riflessione di sistema” su primarie e preferenze che “rendono la selezione dei dirigenti più permeabile”. Quanto all’ipotesi di azzeramento delle tessere, Or-fini spiegava che “va data una risposta sulle classi dirigenti mentre l'azzeramento riguarda gli iscritti”.
Un altro file, un’altra falla, questa volta tutta politica, che si apre con Renzi che ribadisce: “Difendo le primarie e porto avanti il lavoro per le preferenze nella legge elettorale, non credo che siano una forma di inquinamento”.

il Fatto 4.12.14
Il destino del governo in bilico tra Italicum, Quirinale e Senato
Il premier prova a gestire i troppi tavoli di negoziato con gli altri partiti e offre un anno di tregua
di Wanda Marra


C’è un nuovo giorno indicato per la fine della legislatura: il primo gennaio 2016. È la data che Matteo Renzi ha proposto come entrata in vigore dell’Italicum. Una mediazione politica, che garantendo a tutti (Forza Italia, minoranza dem, vari ed eventuali) un anno in più di legislatura, servirebbe intanto a incassare il sì sulla legge elettorale (senza legarlo alle riforme), e nel contempo a sminare il campo per l’elezione del nuovo Capo dello Stato. Uno scenario possibile?
Difficile dire cosa è realistico in un momento in cui legge elettorale e riforme si legano alle dimissioni del presidente Giorgio Napolitano e all’elezione del suo successore in un risiko di incastri imprevedibile. Tant’è che mentre il premier fa la sua ultima (?) proposta, che peraltro non piace troppo a nessuno degli indirizzari, gli uffici dei ministeri si interrogano su come rendere immediatamente operativo il Consultellum. Perché il sistema elettorale uscito dalla Consulta non è pronto all’uso: bisogna ridisegnare i collegi e stabilire le preferenze. Basta un regolamento, dicono nel circolo stretto del premier. Altri sono convinti che serva un decreto o una leggina. Ma il fatto che ci si stia ponendo la questione spiega come la carta voto sia sempre in mano al premier.
La Commissione bloccata
La Commissione Affari costituzionali della Camera, che schiera i big della minoranza (Bersani, Bindi, Cuperlo, D’Attorre) sta votando gli emendamenti alle riforma della Costituzione. Tutto fermo e tutto impantanato: non c’è l’accordo, che deve coinvolgere anche la legge elettorale (che di qui deve ripassare) né con Forza Italia, né all’interno stesso del Pd. Stamattina si riunirà di nuovo il gruppodemconilministrodelle Riforme Maria Elena Boschi. Vada come vada, il 16 dicembre la riforma arriva in Aula.
L’Italicum della discordia
Il nuovo sistema di voto, che Renzi ha blindato (con soglia di sbarramento per entrare in Parlamento al 3 per cento, premio di lista al 40 e collegi con i capilista bloccati) è fermo in Commissione Affari costituzionali a Palazzo Madama. L’accordo politico finale ancora non c’è, con la minoranza che dà battaglia (vuole la riduzione del numero dei nominati). Il premier punta al sì prima della pausa natalizia in Commissione. I lavori ricominciano il 7 gennaio: obiettivo, l’approvazione in Senato per la fine del mese. Ma in mezzo ci sono le dimissioni di Napolitano.
A Palazzo Chigi e dintorni puntano lavorano per l’approvazione prima dell’inizio dell’elezione del nuovo Presidente, sotto la supplenza Grasso. Secondo l’interpretazione per cui la supplenza non sterilizza i lavori parlamentari, perché non c’è un governo dimissionario.
L’addio di Napolitano a Capodanno?
La data precisa ancora non c’è. Ma dal Colle continuano a far filtrare che Re Giorgio annuncerà l’addio il 31 dicembre. Dovrebbe essere un saluto generico, senza pronunciare la parola dimissioni, per rendere possibile tecnicamente di lasciare materialmente dopo, per facilitare l’approvazione dell’Italicum. Non di molto comunque, e a seconda di come vanno le cose: se si capisce che i lavori sono in alto mare, per esempio, Napolitano lascerebbe comunque.
Grasso, il supplente garante
Dopo le dimissioni di Napolitano, scatta l’articolo 86 della Costituzione, e si arriva alla supplenza del presidente del Senato, Pietro Grasso. Che comunque dovrà svolgere l’ordinaria amministrazione, dalla firma dei decreti in poi. Per questo, l’idea rimane quella di provare a far votare la legge elettorale prima delle elezioni del nuovo Capo dello Stato. Per metterla in sicurezza.
Quel Colle pericoloso
In vista dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica, che presumibilmente inizierà tra fine gennaio e metà febbraio, la guerra per bande è già cominciata: Renzi vuole la prima e l’ultima parola, Silvio Berlusconi almeno l’ultima. I Cinque Stelle vogliono entrare in partita. Le fronde di Forza Italia e Pd sono pronte a giocare ognuna la loro battaglia. Rischio altissimo di stallo e disfacimento finale del quadro politico.
La carta elettorale
Se Renzi si dovesse rendere conto che la palude è ormai definitiva proverebbe a spingere il nuovo capo dello Stato appena eletto a sciogliere le Camere. Per andare al voto con il Consultellum.

Corriere 4.12.14
La debolezza degli ultimatum nel Paese inquieto colpito dalla crisi
di Corrado Stajano


Cominciano a saltar fuori i pentiti di Renzi e del renzismo che non voterebbero più per lui e per il Pd. Nel cambiar giudizio, divenuto negativo in gradazioni differenti, i delusi hanno seguito proprio il criterio della velocità propagandato dal premier: non sono passati infatti neppure dieci mesi, dal 22 febbraio di quest’anno quando, dopo contorte grandi manovre, Renzi si è installato a Palazzo Chigi. Non solo i pentiti, anche i sondaggi calanti offuscano il suo orizzonte.
Un sociologo noto come Ilvo Diamanti è convinto che la catastrofica sfiducia espressa alle ultime regionali, dove sono andati a votare solo un terzo degli elettori, è locale, non nazionale e non sfiora per nulla il governo. Renzi è sempre sugli altari, intoccato dal rifiuto della comunità, quindi. E le elezioni europee? Quelle invece, pare di capire, anche se Diamanti non lo dice, devono essere considerate nazionali. Altrimenti salta il castello del famoso 40 per cento. Nel 1976, per paura dei cosacchi di Berlinguer, Montanelli invitò a votare Dc «turandosi il naso». Occorre sempre il nemico, qui da noi. Alle elezioni europee il nemico era Grillo: quanti allora hanno votato per Renzi rifiutando i suoi schiamazzi! Ora i seguaci del comico, i sub-politici dei movimenti che nascono e muoiono in fretta — sono loro gli astenuti, con i disubbidienti del Pd — si stanno disfacendo, tra una espulsione e una fuga. Il nemico è diventato Salvini populista d’occasione tra Marine Le Pen e Putin. E Renzi, in previsione di quelle future elezioni anticipate sempre sullo sfondo, ammonisce: «Ci penserà due volte il popolo della sinistra a votare per la sinistra radicale rischiando di consegnare il Paese a Matteo Salvini». Il popolo della sinistra, si potrebbe obiettare, cercherà la sinistra, non la destra.
È un gran pasticcio la politica in Italia. Sembra che i giovani politici di governo, spesso inesperti, «creatori» del partito della nazione, dimentichino che sono lo Stato e la Costituzione le nostre fondamenta, non conoscano la società italiana di oggi, le sue angosce, i suoi dolori, le sue paure e non vogliano avere neppure il sospetto che la nostra è una crisi mai vista. Devono probabilmente credere che il loro ottimismo di maniera, il loro slogan, «cambiare l’Italia» come un prodotto di consumo, creino serenità. Non posseggono il dono del dubbio, non gli viene in mente che, soprattutto nei momenti gravi, dire la verità è l’unica medicina capace di dar fiducia e coraggio a chi ha perso la speranza.
Il Paese è inquieto, basta andare a vedere e a sentire. Il clima di conflitto non serve a tenere unita una comunità in crisi. Il dialogo è essenziale, come si può romperlo con i sindacati che rappresentano milioni di persone? Come si può governare con gli ultimatum? L’autoritarismo non è un segno di forza, ma di debolezza nella società dei mille campanili.
L’antipolitica nasce anche dall’incapacità di affrontare i problemi alla radice, di studiare, di mediare, di rispettare i diritti, di nutrire la solidarietà, non di cancellarla, di aver coscienza che è la cultura il fonte battesimale di tutto.
Il presidente Napolitano sta per lasciare il Quirinale, amareggiato, probabilmente deluso dai fallimenti. Quello che sperava non si è avverato, la legge elettorale è in alto mare, le larghe intese tra diversi possono funzionare nei momenti di emergenza se i principi della democrazia liberale sono comuni. Ma come possono esserlo dopo il ventennio berlusconiano in cui la Costituzione è stata nemica, tra leggi ad personam e conflitto di interessi?
Le elezioni presidenziali bloccheranno tutto nonostante l’appello del Quirinale a seguitare nell’opera delle riforme. E i problemi della crisi economico-finanziaria rimarranno irrisolti o si aggraveranno ancora di più. Non è facile far capire le ragioni della politica del possibile, perseguìta al posto della politica del necessario, ai minatori del Sulcis, ai lavoratori della Meridiana e dell’Ilva di Taranto, ai giovani disoccupati, agli operai delle migliaia di piccole e medie aziende che aspettano con ansia di sapere quale sarà il loro destino. Il totonomine per il Quirinale è grottesco. Persino Berlusconi, forse dalla Sacra Famiglia di Cesano Boscone dove sconta la condanna ai servizi sociali, ha fatto sapere di esser convinto che uno come lui «sarebbe il miglior presidente della Repubblica possibile». E l’altro giorno, Renzi si è espresso così sul calendario della politica: «Berlusconi è una persona che sta al tavolo, ma non dà più le carte». L’ex Cavaliere, dunque, tiene ancora il banco. È questo il segreto patto del Nazareno?
Pessimismo eccessivo? No, amaro e deluso realismo. Esiste infatti un’infinità di energie positive, espressione di un’Italia minuta e capace che non si sente rappresentata dai governanti.

il Fatto 4.12.14
Il Jobs act, una legge avvelenata
Fiducia tra gli scontri in piazza
Altro che contratto unico, il mercato del lavoro resterà frammentato
di Salvatore Cannavò


L’approvazione del Jobs Act, la riforma del mercato del lavoro, tramite il voto di fiducia era un fatto scontato. Soprattutto dopo che la minoranza Pd aveva annunciato il suo “sì con riserva”. Una presa di responsabilità da parte degli oppositori di Matteo Renzi che ha chiuso una stagione di scontri interni (anche se un solitario Corradino Mineo ha annunciato il suo “no”): 166 voti a favore, 112 contrari e un astenuto, il conto finale. Matteo Renzi festeggia su Twitter: “L’Italia cambia davvero. Questa è #lavoltabuona. E noi andiamo avanti”.
IL VOTO DI FIDUCIA sulla legge delega – una fiducia al quadrato – non è avvenuto però nel silenzio totale. In mattinata, sulle strade, si è consumata la protesta degli attivisti “per lo sciopero sociale” che hanno provato a “circondare il Senato”. Appuntamento in piazza S. Andrea della Valle per provare a entrare nelle viuzze che immettono al Senato. Di fronte al muro della polizia, i manifestanti, circa 500, hanno improvvisato un corteo alla rinfusa che si è poi diretto al Largo di Torre Argentina per poi confluire in via delle Botteghe Oscure. Qui si è fronteggiato con la polizia per circa un’ora con l’intenzione di dirigersi al Colosseo. Ma sono partite le cariche. Secondo la polizia, motivate dal lancio di uova dei manifestanti. Secondo quest’ultimi, che hanno manifestato a mani nude, solo da un eccesso di zelo. Risultato: due studenti feriti e uno dei leader della protesta, Francesco Raparelli, fermato per poi essere rilasciato dopo. “Ancora una volta, ha spiegato, si è impedito di manifestare e di esprimere l’indignazione per un provvedimento che riguarda milioni di giovani”.
TUTT’ALTRO IL SENSO del discorso pronunciato dal ministro Giuliano Poletti in un’aula del Senato completamente vuota. Difesa della riforma, dichiarazione di “rispetto” per il sindacato e determinazione ad andare avanti con il provvedimento. Poletti, però, è stato uno degli obiettivi principali della manifestazione per via della foto che lo ritrae, in qualità di presidente della LegaCoop, a cena con alcuni dei protagonisti di “Mafia Capitale”, in particolare Gianni Alemanno e Salvatore Buzzi.
Nonostante tutto, però, il Jobs Act è legge. Le modifiche saranno realizzate solo dopo l’emanazione dei decreti attuativi, trattandosi di una legge-delega. Le principali modifiche riguardano, come noto, l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Viene esplicitamente escluso il reintegro per i licenziamenti economici ingiustificati cui, d’ora in poi, spetterà solo, per i nuovi assunti, un indennizzo economico. Reintegro garantito, invece, per i licenziamenti dichiarati nulli o per quelli disciplinari ma solo per specifici casi che saranno elencati dai decreti attuativi.
SU QUESTO PUNTO si verificheranno però problemi e contenziosi. Come ha già fatto notare la Cgil, infatti, che minaccia ricorsi giudiziari, il provvedimento crea una situazione di disparità tra i lavoratori causata solo dalla data di assunzione. Chi è oggi al lavoro, infatti, gode delle tutele dell’articolo 18, chi invece sarà assunto dal prossimo anno – quando, secondo Renzi, il Jobs Act entrerà in vigore – ne sarà privo. Inoltre, come ha fatto notare Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera, il provvedimento inibirà la mobilità del lavoro. Chi oggi, assunto regolarmente, decidesse di licenziarsi per cambiare azienda deve tenere in conto che nel caso di una nuova assunzione, sarà privo delle tutele sui licenziamenti. Una situazione che spacca in due il mondo del lavoro e che si protrarrà ancora per molti anni. Da notare anche quanto segnalato dall’ufficio studi del Senato: per come è scritta, la norma sui licenziamenti economici potrebbe essere estesa anche ai licenziamenti collettivi. Con il risultato, per i nuovi assunti, di perdere il posto di lavoro anche nel caso di un loro annullamento.
IL JOBS ACT produrrà altre novità importanti. Viene modificata la cassa integrazione con l’abolizione di quella in deroga, alcune limitazioni a quella ordinaria e straordinaria e l’istituzione della Nuova Aspi (Naspi), un’indennità di disoccupazione anche per i co.co.co. e per altre forme di disoccupazione involontaria. Si riformano i Servizi per l’impiego con l’istituzione di una Agenzia per l’occupazione nazionale. Si istituiscono i controlli a distanza, sia pure solo sugli impianti e gli strumenti di lavoro modificando ulteriormente lo Statuto dei lavoratori.

il Fatto 4.12.14
Nuove navi da guerra per 5,4 miliardi
Le Camere stanno per approvare l’investimento deciso dal governo
I soldi? Quelli per lo sviluppo
di Marco Palombi


La notizia in sé è la seguente: il governo sta chiedendo il permesso al Parlamento, che è intenzionato a concederglielo a breve, di comprare 14 nuove navi militari per una spesa di 5,4 miliardi di euro in 19 anni. Dove li prendono i soldi? Semplice: dal ministero per lo Sviluppo economico sotto la voce “competitività e sviluppo delle imprese”, “Incentivazione dei settori industriali”, “Investimenti” e altre missioni di spesa. Lo stanziamento, peraltro, si aggiunge ai quasi 6 miliardi destinati al progetto italo-francese delle fregate Fremm. Non ci sono, insomma, solo i 15 miliardi degli F-35, quelli del programma Eurofighter e via dicendo in un elenco che, al netto di questa nuova spesa, contava già programmi pluriennali per l’acquisto di sistemi d’arma per oltre 43 miliardi.
UNA BELLA CIFRETTA, non c’è che dire. Assolutamente giustificata secondo il decreto interministeriale sulle nuove navi da guerra che il governo ha inviato alle commissioni competenti (e come ripete da un paio d’anni il capo di Stato maggiore della Marina Giuseppe De Giorgi): bisogna svecchiare la nostra flotta militare. “Nel prossimo decennio - dice la scheda tecnica del dlgs - si procederà alla dismissione di 51 unità navali, escluso il naviglio minore”. In sostanza quasi tutto quello che mandiamo per mare attualmente ed è ormai lamentano gli interessati - obsoleto e persino pericoloso. Per sostituirlo ci si mosse ai tempi di Letta, che infatti previde uno stanziamento nella sua Finanziaria: quella previsione oggi trova applicazione pratica nel decreto del governo Renzi. Il risultato è che alla fine il settore della difesa non conosce austerità: tra fondi propri del ministero e quelli infilati nel bilancio dello Sviluppo economico la spesa militare complessiva nel 2015 sarà all’ingrosso uguale a quella di quest’anno - 23 miliardi e mezzo - mentre tutti gli altri comparti hanno subito tagli pesanti: all’acquisto di armi tramite i fondi per investimenti del ministero dello Sviluppo l’anno prossimo andranno più o meno 5,5 miliardi, circa 300 milioni in meno rispetto al 2014 (per dire quanta continuità ci sia tra i governi degli ultimi anni sulle scelte di fondo).
E qui torniamo alle nuove navi che la Marina chiede e il ministro Roberta Pinotti intende comprare. I soldi - spiega il decreto - vengono dal ministero dello Sviluppo non solo perché le navi sono attrezzate anche per compiti non militari (anti-inquinamento, soccorso, etc), ma soprattutto perché questo è un importante investimento per la crescita del Pil: “Verranno realizzati investimenti nel settore della cantieristica navale nazionale (Fincantieri e Finmeccanica, ndr), comparto industriale che rappresenta un importante volano antirecessivo” anche perché nell’indotto lavorano molte piccole e medie imprese. Senza contare l’investimento in tecnologia. Tutto vero, ma queste stesse motivazioni non servirono a evitare la chiusura di Irisbus, che produceva autobus ecologici.
UNA DOMANDA corretta l’ha posta durante il dibattito in commissione il deputato Massimo Artini, quello appena espulso dal Movimento 5 Stelle per una faccenda di scontrini: “Sono curioso di sapere se lo sviluppo di un programma navale come quello proposto trovi conferma negli scenari previsti dal Libro Bianco della Difesa. Non vorrei che, com’è accaduto con altri imponenti programmi pluriennali, gli strumenti di cui il nostro Paese si è dotato richiedessero successivamente la necessitàdi essere integrati con altri strumenti”.
La notazione è maliziosa per un motivo molto semplice: il Libro Bianco – chiesto dal Consiglio Supremo di Difesa e annunciato da Pinotti “entro l’anno” - ancora non esiste. Dovrebbe servire a chiarire lo stato dell’arte, indicare le prospettive
delle nostre Forze Armate e gli strumenti per realizzarle: la redazione fu la risposta di governo, generali e industrie della difesa all’inaudito oltraggio del Parlamento, che osò ribellarsi alle direttive votando una moratoria sull’acquisto degli F-35 (una legge del 2012, infatti, consente finalmente alle Camere di mettere becco anche sui singoli investimenti in sistemi d’arma).
Queste navi, sostengono ora i 5 Stelle, hanno “esplicite capacità offensive, persino superiori a quelle delle fregate Fremm, che hanno in dotazione lanciamissili, lanciasiluri, lanciarazzi, cannoni ed elicotteri d’attacco. Francamente riteniamo che un rinnovamento della flotta italiana sia anche necessario, ma è evidente che tali unità navali, pensate e progettate principalmente per scenari di guerra anche in mari lontani, non rispondano in alcun modo alle reali esigenze del Paese”. Magari sì, visto che proteggeranno - per dire - anche i giacimenti dell’Eni in Mozambico o le petroliere di ritorno in Italia. Il dibattito pubblico sul tema, se mai si terrà, avverrà comunque dopo aver stanziato i fondi.

Repubblica 4.12.14
Anthony Giddens
“Ho sempre difeso i più deboli e l’intervento dello Stato” dice il sociologo che ispirò Blair “Ora ci vogliono riforme e flessibilità per creare posti di lavoro”
“Una nuova Terza Via nell’era di Internet così la sinistra batterà i populismi”
Bisogna rinnovare l’ideologia progressista e adeguarla all’epoca digitale
Sta facendo cambiamenti strutturali, ed è quello di cui ha bisogno l’Italia
di Enrico Franceschini


LONDRA “I VALORI della sinistra rimangono gli stessi, ma vanno adeguati a un mondo trasformato dall’innovazione tecnologica». Anthony Giddens torna a parlare della Terza Via, la filosofia politica di cui è stato l’ideatore, che negli anni ’90 portò la sinistra al potere in Gran Bretagna e nella maggior parte dei paesi europei. Un’idea a cui oggi fa riferimento una nuova generazione di riformisti, Renzi in Italia, il primo ministro Valls in Francia, il nuovo leader socialista Sanchez in Spagna, ma che ora alcuni criticano come un’apertura al liberismo. «La Terza Via non è mai stata contro l’intervento dello Stato, ma davanti a globalizzazione e rivoluzione di Internet occorre difendere i lavoratori, non il posto di lavoro in sé, creare nuovi lavori visto che non è possibile salvare quelli vecchi», replica il grande sociologo inglese, ex-direttore della London School of Economics e membro della camera dei Lord, affermando il suo sostegno alle riforme avviate dal leader del Pd nel nostro paese, in questa intervista concessa a Repubblica prima di partire per Bruxelles dove ieri sera ha ricevuto il prestigioso Prix du Livre Européen per il suo ultimo libro, “Potente e turbolenta: quale futuro per l’Europa?” (pubblicato in Italia da Il Saggiatore).
E’ ancora buona la Terza Via, Lord Giddens?
«Intanto viene spesso equivocata. Nacque come idea ispirata dalla socialdemocrazia scandinava e dai New Democrats negli Stati Uniti. Ma per me non è mai stata una versione soft del liberismo. Era la ricerca di una filosofia politica capace di andare oltre socialismo tradizionale e liberismo, le due principali ideologie del ventesimo secolo».
Una via di mezzo o una via comunque di sinistra?
«Un tentativo di continuare a sostenere i valori della sinistra adattandoli a tempi nuovi. La Terza Via non ha cambiato i valori fondamentali della sinistra, che restano l’inclusione sociale, l’aiuto ai più vulnerabili, un certo grado di eguaglianza. Ma i tempi sono cambiati e bisognava innovare l’ideologia progressista per fare i conti con la globalizzazione, termine che credo di essere stato il primo ad usare. All’inizio fu difficile accettare che il mondo cambiava. Poi Bill Clinton e Tony Blair compresero il significato di quei cambiamenti».
Cambiamenti che continuano.
«Meglio: accelerano. Il cambiamento è diventato radicale a causa di Internet, che era appena nella sua infanzia quando formulammo la Terza Via. L’interdipendenza, chiave della globalizzazione, ora è ovunque grazie alla rivoluzione digitale. Stiamo vivendo il mutamento tecnologico più rapido e universale nella storia dell’umanità. Vent’anni fa nessuno lo avrebbe immaginato, certo non io».
Come adeguare la filosofia della Terza Via al mondo di Internet?
«Riformando il mercato del lavoro, che in molti paesi è un mercato disfunzionale: protegge un piccolo numero di lavoratori, lasciandone un gran numero, tra cui i più giovani, senza protezione, concetto sicuramente poco di sinistra».
Ma riformare il mercato del lavoro vuol dire più flessibilità, libertà di licenziare?
«La flessibilità andrebbe interpretata, se posso dirlo, in modo più flessibile. Non significa assumere e licenziare quando si vuole. La Germania, per esempio, ha approvato una vasta riforma del mercato del lavoro introducendo elementi di flessibilità, ma l’ha integrata con il coinvolgimento dei lavoratori nel processo decisionale e una maggiore collaborazione tra azienda e dipendenti».
E’ l’unico modo di difendere i lavoratori?
«L’innovazione tecnologica è tale che entro pochi anni computer e robot faranno il 40 per cento dei lavori che oggi fanno gli esseri umani. Difendere i lavoratori è necessario, ma non difendendo a oltranza il posto di lavoro, il vecchio posto di lavoro, perché questo è destinato a scomparire. Occorre riqualificare i lavoratori, fare in modo che possano passare da un lavoro all’altro».
Qualcuno attribuisce alla Terza Via la colpa di avere aperto le porte al neoliberismo e causato la grande crisi finanziaria del 2008.
«Blair ha avuto delle responsabilità in Gran Bretagna, sosteneva che bastava lasciare lavorare il mercato e non c’era bisogno di un intervento statale sull’economia. Ma era la sua versione di Terza Via. Nella mia formulazione originale ho sempre sostenuto che occorre un intervento statale e oggi ciò è ancora più urgente perché la diseguaglianza è cresciuta a dismisura, come dimostra l’attenzione suscitata dal libro di Thomas Piketty. C’è troppo potere nelle mani delle multinazionali, una delle ragioni della crescita del populismo, perché lo strapotere delle Big corporation diffonde la percezione di un indebolimento della democrazia, tenuto conto che nessuno ha votato per dare alle multinazionali uno smisurato potere».
Cosa altro dovrebbe fare la sinistra?
«Avviare la reindustrializzazione e il re-shoring, l’opposto dell’off-shoring, cioè riportare a casa aziende e investimenti, un fenomeno peraltro già visibile negli Stati Uniti, su cui la Ue deve impegnarsi di più. Poi bisogna chiudere i paradisi fiscali. Senza un appropriato livello di tassazione non sarà possibile mantenere un sistema di welfare, e senza quei capitali nascosti non sarà possibile avere una tassazione sufficiente».
E l’Italia?
«L’Italia ha un ruolo cruciale per spingere la Germania ad abbandonare una politica di austerità che non è negli interessi dell’Europa e in effetti nemmeno della Germania stessa. Guardo con favore a quello che sta facendo il primo ministro Renzi per riformare il vostro paese. Che ha bisogno di profondi cambiamenti strutturali, senza dei quali si ritroverà in guai sempre più seri».
Cenando con Renzi a Roma, nei giorni scorsi, Blair ha ripetuto il suo convincimento che per vincere le elezioni bisogna conquistare il centro dell’elettorato.
«Su questo concordo completamente con lui. Per vincere devi persuadere a votare per te gente che non sarebbe propensa a farlo. Non c’è bisogno di una Terza Via per capirlo».

Repubblica 4.12.14
Il dramma di avere una madre innominabile
Le norme attualmente in vigore nel nostro Paese sul parto segreto pongono l’Italia in una situazione di infrazione in Europa
di Michela Marzano


IL PROBLEMA dell’accesso alle origini da parte dei figli nati con parto segreto è una questione estremamente complessa e controversa. Chiara Saraceno ha perfettamente ragione quando si chiede, sulle pagine di questo giornale, quali potrebbero essere le conseguenze di una cancellazione di questo segreto non solo per donne che hanno scelto, al momento del parto, di non essere nominate, ma anche per tutte coloro che, non sentendosi pronte a diventare madri, potrebbero decidere di partorire di nascosto o abortire. Nessuno, però, intende cancellare l’anonimato.
Lo scopo dei progetti di legge in discussione in questi giorni in Commissione Giustizia della Camera è solo quello di permettere ai figli nati con parto segreto di chiedere al Tri- bunale dei minori, una volta raggiunta la maggiore età, di verificare se la volontà di anonimato della madre sia ancora attuale. La finalità, quindi, è rimodulare, come sottolineato sia dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, sia dalla Corte Costituzionale, lo sbilanciamento oggi esistente in Italia tra due diritti in conflitto: quello dei figli a conoscere le proprie origini e quello delle madri biologiche a mantenere l’anonimato.
Le norme attualmente in vigore nel nostro Paese pongono d’altronde l’Italia in situazione di infrazione. Nel settembre del 2012, siamo stati condannati dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo per il fatto di non rispettare i principi sanciti dall’articolo 8 della Convenzione sui diritti del fanciullo. «La nascita, e le circostanze specifiche di questa, danno risalto alla vita privata del bambino prima e dell’adulto poi», si legge nella sentenza Godelli contro Italia, in cui viene spiegato con chiarezza come la conoscenza delle origini sia, per ognuno di noi, un elemento essenziale del processo identitario. Nel novembre del 2013, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale parte dell’articolo 28 della legge del 4 maggio 1983 sull’adozione, chiedendo al legislatore di introdurre la possibilità di interpellare le madri come accade già in Francia — dove pure esiste la possibilità di nascere anonimamente ( Accouchement sous X).
Dietro l’impossibilità per i figli nati con parto segreto di accedere alle proprie origini c’è il dramma di tutti coloro che, dopo aver contattato il Tribunale dei minori, si sentono rispondere che non possono avere alcuna informazione perché «nati da madre che non vuole essere nominata». C’è la sofferenza di tutti coloro che lasciano sul sito “Appelli dei figli adottivi alla ricerca delle proprie origini” messaggi struggenti pieni di speranza e di dolore, illudendosi che qualcuno possa un giorno aiutarli a capire. Non perché non siano stati amati dai propri genitori. Talvolta l’amore che arriva dai genitori adottivi è veramente tanto. Solo perché anche l’amore più grande non può colmare il bisogno di capire da dove si viene, che è poi una delle condizioni per sapere chi si è, verso dove si vuole andare, quale ferite o fratture ci si porta dentro. Soprattutto quando si è stati adottati dopo essere stati abbandonati. E restano in sospeso tante domande: perché io? Che cosa ha spinto o costretto mia madre a non tenermi con sé?
Certo, la decisione di affidare un figlio alle Istituzioni non è mai semplice o banale. Nessuno si dovrebbe permettere di giudicare chi ha scelto di partorire anonimamente perché non c’erano le condizioni materiali o psichiche per assumere la responsabilità genitoriale. Oppure perché, troppo giovane, una ragazza è stata costretta dai propri genitori ad abbandonare il figlio. Come si fa però a negare il dramma di tutti coloro che cercano disperatamente di avere accesso alle proprie origini? È ovvio che, in caso di volontà da parte delle madri di conservare l’anonimato, il legislatore non può far nulla per i figli nati con parto segreto. Ma perché negare loro anche solo la possibilità della speranza?

Corriere 4.12.14
Su Haaretz

Votare contro Bibi per salvare l’anima di Israele Il governo uscente «è stato uno dei peggiori della storia di Israele». Haaretz elenca i motivi per cui chiede di «votare contro Bibi (Netanyahu)»: ha fermato il processo di pace e accelerato l’annessione della Cisgiordania; ha condotto una guerra inconcludente a Gaza; ha messo a rischio il sostegno Usa e reso l’Europa più incline a sanzioni contro Israele; ha fatto scelte disastrose in economia; ha avallato il disegno di legge che definisce Israele «Stato nazionale del popolo ebraico» e non più «Stato ebraico e democratico».

Corriere 4.12.14
La protesta di Hong Kong
Xi non può giocare al rinvio
di Guido Santevecchi


I tre fondatori di Occupy Central, due professori universitari e un reverendo protestante, si sono consegnati alla polizia di Hong Kong. Li accompagnava il cardinale emerito Joseph Zen, rientrato dopo aver parlato con il Papa a Roma (Francesco gli ha detto «ah, Zen, quello che combatte con una fionda»). Insieme avevano organizzato l’inizio della protesta democratica contro una legge elettorale che pretende l’assenso di Pechino per le candidature e quindi decide il risultato. Ieri questi leader hanno firmato una dichiarazione in cui si assumono la responsabilità di aver «istigato un assembramento non autorizzato» e di aver «ostacolato le forze dell’ordine». Dopo un’ora sono stati fatti uscire dal comando di polizia: «Non ci hanno detto se saremo incriminati», ha detto il professore di Diritto Benny Tai, capo di Occupy Central. Tai, il cardinale e i loro colleghi continuano a supplicare i ragazzi accampati sotto i palazzi governativi di ritirarsi prima di una repressione violenta.
Centinaia di studenti restano in strada. Il diciottenne Joshua Wong e due compagne sono da tre giorni in sciopero della fame. Chiedono alle autorità di Hong Kong di aprire un dialogo politico. Il chief executive CY Leung, proconsole cinese a Hong Kong, dice che non c’è niente da discutere, «la legge elettorale è legge e Pechino non la cambierà».
La partita però è ancora aperta. Visto che il governo di Hong Kong non è capace di prendere alcuna decisione, la sfida democratica presenta un banco di prova per il presidente cinese Xi Jinping: la sua strategia di aspettare, tenersi distante, calcolando che la protesta si sarebbe spenta da sola non ha funzionato. Il movimento è diviso: tra professori che invitano a tornare a casa, studenti che restano accampati, quelli in sciopero della fame, quelli radicalizzati che cercano lo scontro fisico. Ma Hong Kong così è ingovernabile.
A questo punto Xi Jinping deve scegliere: aprire a qualche concessione o ordinare lo sgombero. Il cardinale Zen già qualche settimana fa aveva previsto tutto e ci aveva detto: «Ora vedremo se Xi è davvero intelligente».

Repubblica 4.12.14
Inferno Messico dove la vita di un giornalista non vale niente
Ottanta cronisti uccisi in 14 anni perché indagavano sui narcos
Le loro storie in un docu-film
di Attilio Bolzoni


E’ UN viaggio in un luogo del mondo dove la vita di un giornalista vale meno di niente. Nelle strade deserte del Tamaulipas stavamo seguendo le tracce di un grande reportero che si chiama Diego Enrique Osorno e con lui abbiamo ritrovato anche tutti gli altri, i vivi e i morti.
Li ammazzano i narcos ma soprattutto li ammazza il potere. Trafficanti e governatori che fanno affari insieme, militari corrotti, pubblici ufficiali assassini, stragi di mafia e stragi di Stato che si confondono nel sangue. L’ultima appena due mesi fa nel Guerrero, 43 ragazzi rapiti, uccisi e bruciati da mafiosi con la complicità della polizia e su mandato di un sindaco che nel suo pueblo viveva come un re. Sono loro, i giornalisti messicani, i protagonisti di un film documentario che non poteva avere che un solo titolo: “Silencio”.
Silencio perché nessuno deve ascoltare. Silencio perché nessuno deve parlare. Silencio perché nessuno deve sapere. Chi scrive la verità è «socialmente pericoloso» in quello sterminato Paese che sopravvive nel terrore.
Ne hanno uccisi ottanta di giornalisti in Messico negli ultimi quattordici anni. E altri sedici sono scomparsi, i loro corpi non li hanno mai ritrovati. Più di quanti ne siano caduti in Iraq, 71. Più di quanti ne siano caduti in Vietnam, 66. Più di quanti ne siano caduti durante tutta la Seconda guerra mondiale, 68. E non c’è mai un colpevole per un giornalista che muore in Messico. Mai.
Nessun colpevole per Regina Martinez, corrispondente del settimanale Proceso da Xalapa , la capitale dello Stato di Veracruz. La notte del 28 aprile del 2012 l’hanno trovata morta nella sua casa, torturata e strangolata. Nel suo ultimo articolo aveva scritto di nove poliziotti al servizio di un Cartello di narcotrafficanti. Hanno detto che Regina era stata uccisa per una rapina. Hanno detto che era stata uccisa per «motivi passionali». Hanno detto che se era finita così, in fondo era per colpa sua. Poi non hanno detto più niente. Per le autorità messicane il movente per i delitti dei reporteros è sempre e solo uno: sesso, corna.
Luis Roberto Cruz, reportero, asesinado. Paulo Pineda Guacan, reportero, asesinado. Alfredo Jimenez Mota, reportero, desaparecido. Rafael Ortiz Martinez, reportero, desaparecido. Maria Isabel Cordero Martinez, reportera asesinada. Miguel Morales Estrada, reportero, desaparecido..
L’elenco è lungo, molto più lungo. Tre quelli che hanno ucciso a Oaxaca, sette quelli uccisi nel Guerrero, cinque nel Michoacán, dieci a Veracruz, cinque nel Chihuahua.
Dai confini violenti con il Texas e dai gironi infernali di Veracruz siamo scesi fino alle spiagge bianche della Riviera Maya, dove tutto deve sembrare quieto, tranquillo, divertente. Dove è sempre festa ed è sempre vacanza. Dove i Cartel della droga messicani fanno commercio e fanno traffico con camorristi napoletani e soprattutto con calabresi che riciclano i proventi della cocaina nel lusso di Cancun o a Playa del Carmen, una Little Italy — lì vivono almeno 20 mila nostri connazionali — con tanti ristoranti bar, pizzerie e gelaterie di italiani perbene e poi «loro», i boss che comprano tutto in contanti. Residence, hotel, terreni. Nessuno indaga, nessuno chiede mai niente. E’ facile arrivare a Playa del Carmen, dall’Italia ogni giorno partono tre voli per questa nostra colonia che sta dall’altra parte del mondo.
Cronache violente su nel Nuovo Leon e nel Tamaulipas, denaro e sfoggio di ricchezze sulla Rivera Maya. I due volti della mafia, di tutte le mafie.
E poi, inseguendo le orme di boss e dei loro prestanome, con il regista Massimo Cappello siamo precipitati nella parte più “messicana” del nostro Paese, in quella Calabria dove decine di giovanissimi cronisti sono corrispondenti di guerra a casa loro.
Nei paesi della Locride, fra il porto e le macerie industriali della Piana di Gioia Tauro. E nella Reggio che è non è Sud e non è neanche Calabria, Reggio che è solo Reggio, protesa sullo Stretto con i suoi segreti.
Abbiamo attraversato campagne e città parlando con questi colleghi che sopravvivono in terra di ‘Ndrangheta. Dopo tanto silenzio anche loro diffondono un’informazione scomoda. In cambio ricevono minacce, attentati, pallottole calibro 12. Fino alle intimidazioni dei preti — un’estate fa — quando alcuni giornalisti scrivono di Madonne che pagano il pizzo ai capobastone locali con gli inchini davanti alle loro case. Infami. Comunità religiose, sindaci, comitati civici tutti contro di loro per difendere «l’onore dei calabresi onesti». Altre minacce, altri giornalisti finiti sotto scorta come Michele Albanese. Una notizia in più porta sempre guai.
Alla fine del viaggio che è cominciato a Città del Messico ed è continuato in fondo all’Italia, abbiamo scoperto chi sono in realtà Diego Osorno, Anabel Hernàndez, Jorge Carrasco e tutti gli altri colleghi messicani, sconosciuti e famosi, giovanissimi reporteros e inchiestisti di robusta esperienza. Sono ribelli, sono diventati ribelli per continuare a fare i giornalisti.

Corriere 4.12.14
Giovani del ’77 contestatori consumisti
di Giovanni Belardelli


Per molti italiani il ricordo del 1977 è legato a un’immagine tristemente famosa: la foto del giovane con passamontagna che spara sulla polizia tenendo la pistola con le mani giunte, a Milano. Un’immagine che sintetizza bene l’aggravarsi di una violenza politica che dalle cose si andava spostando sulle persone, ma che non può rendere la complessità degli avvenimenti di quell’anno e di un movimento giovanile che, a differenza di quello del Sessantotto, non nasceva da alcun trascinamento internazionale. Dei caratteri di quel movimento si occupa ora l’ultimo numero della rivista «Mondo contemporaneo» (Franco Angeli, pp. 208, e 25), attraverso i saggi di una dozzina di giovani studiosi che nel 1977 non erano probabilmente ancora nati e possono dunque più agevolmente sottrarsi alle letture consolidate dei testimoni.
Al di là del dato più appariscente e noto, riguardante la permeabilità tra i movimenti giovanili di contestazione e i gruppi terroristici (un saggio è specificamente dedicato ai rapporti tra i giovani del ’77 e le Brigate rosse), merita di essere sottolineato soprattutto come vari autori ritornino su certi elementi culturali di fondo che emergono dalle agitazioni di quell’anno. In primo luogo il rapporto peculiare che i giovani contestatori intrattenevano con la società dei consumi. In una situazione di difficoltà economiche per il Paese, e dopo che la crisi petrolifera del 1973 aveva posto una seria ipoteca sulla ottimistica visione di una crescita inarrestabile, quei giovani cominciavano a percepire che qualcosa stava cambiando. Vale a dire che la promessa nella quale erano cresciuti — un benessere sempre maggiore e per tutti — difficilmente avrebbe potuto essere mantenuta (è indicativo che dal 1973 al 1977 la disoccupazione giovanile fosse triplicata). Su questa base, si alimentò uno scontro con la sinistra tradizionale che era anche uno scontro culturale.
Mentre Berlinguer proponeva la linea dell’austerità e Lama (oggetto nel febbraio di una contestazione violenta all’Università di Roma) dichiarava la disponibilità dei lavoratori a una politica di sacrifici, il movimento del ’77 proponeva una linea inconsapevolmente consumista. Criticava il sistema, accusava il capitalismo di avere fabbricato la crisi, ma soprattutto contestava la linea dei sacrifici e dell’austerità, contrapponendo a essa «il soddisfacimento dei “bisogni” e l’affermazione dei “desideri”, (…) fino alla paradossale rivendicazione dell’accesso ai beni di lusso», come ricorda in uno dei saggi Alessio Gagliardi. All’etica del lavoro in cui si erano formati i militanti del Pci, quei giovani contrapponevano provocatoriamente una sorta di diritto all’ozio.
Come è evidente, si trattava di posizioni culturalmente debolissime, per l’assoluta ignoranza dei più elementari dati dell’economia e delle regole di base della vita sociale. Ma, a ripercorrere il durissimo scontro tra il movimento del ’77 e la sinistra comunista, colpisce come fosse piuttosto debole anche l’analisi che il Pci e una parte della cultura di sinistra facevano della realtà italiana. Al di là del dato — politicamente rilevantissimo — rappresentato dalla netta condanna nei confronti dell’impiego della violenza, non si andava molto oltre la riproposizione del vecchio bagaglio culturale marxista: da Achille Occhetto, che difendeva la necessità di una «dittatura rivoluzionaria» (sia pure, specificava, come forma eccezionale e provvisoria), a Umberto Eco, per il quale la visione marxista della società era ormai un «valore acquisito». Viene allora da chiedersi quanto i problemi strutturali dei quali l’Italia soffre ormai da decenni non siano anche il prodotto di una inadeguatezza culturale, di una consolidata incapacità della classe dirigente e del ceto intellettuale (di sinistra e non solo), che non sono riusciti a leggere adeguatamente la realtà del Paese.

La Stampa 4.12.14
Da Laocoonte a Munch, l’urlo e il dolore
Il personaggio della celebre scultura del I secolo avanti Cristo grida o no?
Una questione che ha pungolato gli studiosi da Winckelmann ai giorni nostri
E che (forse) trova una risposta nel quadro del pittore norvegese
di Salvatore Settis


Ritrovato nel gennaio 1506 (il 10, secondo un documento scoperto recentemente da L. Calenne e A. Serangeli), il Laocoonte oggi nei Musei Vaticani fu immediatamente riconosciuto come la statua di cui parla con altissima lode Plinio il Vecchio, ricordandola «nella casa di Tito imperatore». Forse anche per questo il papa Giulio II la volle per sé, e da subito gli artisti presero a disegnarla e a imitarla, i collezionisti ne ordinarono copie in grande e in piccolo, antiquari e archeologi ne studiarono ogni dettaglio. Nel Rinascimento e nel Barocco, come ha scritto L. Ettlinger, il Laocoonte servì come supremo exemplum doloris: l’intensità espressiva di un padre che muore impotente assieme ai figli inermi apparve un modello insuperabile, un’esplosiva concentrazione di pathos. Creazione di tre maestri di Rodi (ma operanti a Roma) del I secolo a.C., il Laocoonte rientrava così in circolo nel primo ’500 come un’opera «nuova», ma modellizzabile proprio perché antica. Come ha scritto Warburg, «il gruppo dei dolori di Laocoonte il Rinascimento, se non lo avesse scoperto, avrebbe dovuto inventarlo, proprio per la sua sconvolgente eloquenza patetica».
Prestissimo il Laocoonte diventa modello per la passione del Cristo: così è, per esempio, in una placchetta bronzea del Moderno, in una scultura di Cristoforo Solari, nell’Incoronazione di spine di Tiziano al Louvre. Di questa tradizione era consapevole Hegel, che in un passo ben commentato da Federico Vercellone contrappone il «dolore immane di Dio che soffre in quanto è uomo» alla «contorsione di muscoli che potrebbe indicare un grido» del Laocoonte. Ma il Laocoonte della celebre scultura, chiediamocelo, grida o no? Non è una domanda oziosa, se vi ragionarono, da posizioni diverse, Winckelmann, Lessing, Goethe e Schopenhauer, e se vi sono dedicati tanti studi moderni (negli ultimi anni, Vercellone e Meyer-Kalkus). Forse proprio la sua diffusa assimilazione col Cristo influì su questa discussione, che si muove fra due estremi: se Laocoonte stia, nel momento in cui è rappresentato, urlando di dolore, o piuttosto trattenendo la voce ed esprimendo lo spasimo solo mediante il corpo. Per dirlo altrimenti, se la muta eloquenza del marmo rimandi a un grido articolato, o piuttosto a un grido trattenuto.
Il più famoso racconto letterario del mito di Laocoonte, ucciso davanti a Troia dai serpenti inviati dagli dèi, è l’Eneide di Virgilio: ma il Laocoonte di Virgilio, mentre «si sforza di sciogliere con le mani i nodi dei serpenti, innalza al cielo urla terribili». Questo raffronto complica le cose, perché obbliga a confrontare i mezzi espressivi della poesia e delle arti figurative, secondo il detto di Orazio «Ut pictura poesis»; tanto più che non sappiamo se quei versi di Virgilio siano stati scritti prima o dopo il Laocoonte. Ma la ricerca espressiva dei tre maestri rodii (Agesandro, Atenodoro, Polidoro) innescò cento altri filoni d’indagine, fra cui forse il più singolare sono le ricerche di un medico francese, G. B. Duchenne de Boulogne (1862), che scelse il volto del Laocoonte come pietra di paragone per i suoi studi sull’espressione del dolore. Mediante scariche elettriche, egli stimolava i muscoli facciali dei pazienti di un ospedale psichiatrico, documentando le alterazioni in un atlante fotografico che ebbe grande successo. Sulla base dei suoi crudeli esperimenti, Duchenne si spinse anzi fino a «ricostruire» un Laocoonte «fisiologicamente corretto».
Una risposta alla domanda ormai antica, se il Laocoonte del gruppo vaticano stia o meno gridando, viene da un dipinto molto famoso, L’Urlo di Munch (1893). Studi recenti vi hanno individuato una risposta al dibattito sull’urlo di Laocoonte, mediata dall’atlante fotografico di Duchenne. Come ha scritto Svenaeus, «sia per Winckelmann sia per Lessing quello del Laocoonte è un urlo, ma un urlo trattenuto: secondo Winckelmann, perché urlare sarebbe al di sotto della sua dignità, secondo Lessing perché la sua rappresentazione andrebbe oltre l’ambito delle arti visive. La risposta di Munch è una risposta estetica: quello che si era ritenuto non-bello, per lui contiene di fatto la quintessenza della bellezza: la vita stessa, nei suoi vari stadii; l’urlo vero e proprio, nelle sue varie fasi». Insomma, L’Urlo di Edvard Munch è un anti-Laocoonte.
Ma la stessa domanda risuona ancora oggi, ad esempio in una bella pagina del Viaggio in Italia di Guido Ceronetti, recentemente ripubblicato da Einaudi: «Tutta la laocoontosofia di Schopenhauer è per illustrare perché Laocoonte non grida, convinto che l’opera di scultura rifiuta il grido. Ma il Laocoonte di Virgilio grida, e questo grido sembra sia stato raccolto dalla bocca del Laocoonte vaticano. È stato un errore materialistico aver negato il grido a Laocoonte: il suo è un grido di profondità che fa tremare le colonnine del bel portico circolare dove è stato collocato perché si sfogasse. Quell’uomo soffocato e avvelenato a morte da enormi serpenti inviati con urgenza dalla Divinità è un’immagine meditabile dell’umanità d’oggi sulla terra». Ma perché è così importante chiedersi se Laocoonte grida o no? Ceronetti ci offre una chiave importante, che abbraccia il Laocoonte e L’Urlo di Munch: grida che non sono solo una questione di estetica, ma di identificazione dello spettatore nella scultura o nel quadro. Immagini che hanno un valore esperienziale, esistenziale: che ancora interrogano la condizione umana.

La Stampa 4.12.14
Diari postumi di Montale
La battaglia più feroce si sposta su Wikipedia
di Mario Baudino


Sarà proprio vero che Eugenio Montale deformava in Ruboni il nome del poeta e critico Giovanni Raboni, e lo faceva allegramente anche in pubblico, tanto da spingere il dileggiato a una postuma vendetta? L’indiscrezione, che i protagonisti, entrambi scomparsi, non potranno smentire né confermare, ha fatto irruzione nei giorni scorsi per mano di una misteriosa Alice Blomberg su Wikipedia, nella voce dedicata al Diario postumo del grande poeta, ovvero a quelle poesie che sarebbero state lasciate da Eugenio Montale come una sorta di eredità centellinata ad Annalisa Cima, ultima musa, e da quest’ultima pubblicate fra molte polemiche sulla loro autenticità.
Raboni sarebbe proprio colui che dette l’avvio alla lunga querelle, nel 1986, seguito poi da altri critici - ma non da tutti. Un complotto, o giù di lì, nato da rancori personali. Chi però fosse andato ieri sull’enciclopedia online a cercare una pagina in tutto degna di quella «ferocia letteraria» cui anni fa dedicò un ampio saggio il francese Jean-Marie Monod («gli odi letterari - scriveva - sono più feroci di quelli politici perché fanno vibrare le fibre più profonde dell’amor proprio, e il trionfo dell’avversario vi consegna al ruolo di imbecille»), ebbene sarebbe stato assai deluso: non ce n’era più traccia. Oggi chissà. Domani forse. È infatti in corso quella che nel linguaggio della rete si definisce una «edit war», una guerra dove si scrive e si cancella senza quartiere, e la pagina di Wikipedia viene modificata instancabilmente, anche parecchie volte al giorno.
È deflagrata dopo l’intervista di Bruno Quaranta sulla Stampa, nella quale Annalisa Cima contrastava le conclusioni di un congresso bolognese sul tema, dove ilDiario postumo era stato condannato senza appello come apocrifo. Le aveva risposto il professor Federico Condello, fra i partecipanti al convegno e autore di un saggio (I filologi e gli angeli. È di Eugenio Montale il Diario postumo?, Bononia University Press) che fa a pezzi le tesi dell’autenticità, pur sostenuta a suo tempo da studiosi come Gianfranco Contini, Mariella Bettarini, Maria Corti e Cesare Segre. Tutti scomparsi, e quindi anche loro impossibilitati a intervenire.
Lo fa invece con una breve lettera la figlia di Dante Isella, accusato a sua volta dalla Cima, sempre sul nostro giornale, di un inspiegabile dietrofront, per di più fatto, e qui interviene la misteriosa Alice Blomberg su Wikipedia, «per ragioni ancor meno nobili» (rispetto a quelle di Raboni). «Voglio dichiarare - scrive alla StampaSilvia Isella - la totale infondatezza delle affermazioni di Annalisa Cima, a partire dalla tesi della “conversione”, per cui in un primo momento mio padre avrebbe avallato la pubblicazione e poi ne avrebbe denunciato l’inautenticità per pura ripicca accademica: una sciocchezza inverificabile, che offende la memoria di chi non può più rispondere».
Condello rincara la dose: «Si sta cercando ancora una volta di cambiare la storia delDiario postumo. Su Wikipedia Alice sta fornendo una versione dei fatti completamente diversa da quella sostenuta fino a poco tempo fa da Annalisa Cima, che peraltro ha a sua volta mutato significativamente la ricostruzione dei fatti». In altre parole, l’una nel cyberspazio l’altra sulla carta stampa, sembrerebbero rispecchiarsi, anche se sono parecchi gli utenti intervenuti ad aggiungere e cancellare righe o paragrafi su Wikipedia. Lo studioso bolognese fa notare, con un po’ di malizia, che Alice è il nome della nonna materna della Cima, e il cognome Blomberg rimanda all’idea di «cima». Trattandosi di un duello filologico (all’ultimo sangue) non si può negare che le armi paiano appropriate.

La Stampa 4.12.14
Addio a Giulio Questi, regista e partigiano
di Alessandra Levantesi Kezich


è scomparso a novant’anni, reduce dai festeggiamenti dedicatagli dal Torino Film Festival; e a ridosso dell’uscita dell’antologia di racconti-verità Uomini e comandanti, edito da Einaudi (Premio Chiara) e di Se non ricordo male (Rubbettino Editore), schegge autobiografiche raccolte da Domenico Monetti e Luca Pallanch. Ha diretto solo una manciata di pellicole il bergamasco Giulio Questi, ma si è imposto come una di quelle figure di intellettuali prestati al cinema che i cinefili adottano volentieri proprio in virtù dell’alone romantico di una carriera discontinua, di un impegno di regista e sceneggiatore raramente tradotto in opere finite.
Militante nella Resistenza, alla fine della guerra Questi approda a Roma, collabora come aiuto per Zurlini e Rosi, esordisce con un episodio di Le italiane e l’amore, film collettivo da un’idea di Cesare Zavattini, cui ne seguiranno altri. Solo nel 1967 con Se sei vivo spara, western apprezzato da Tarantino, firma il primo lungometraggio; poi, tra il ’68 e il ’72, gira due pellicole di esito altrettanto sfortunato, La morte ha fatto l’uovo e Arcana, che di fatto concludono la sua esperienza nel cinema. Ma senza relegarlo nell’oblio; e in attesa di un recupero che, come attestato dalla retrospettiva torinese, è già in atto.

Repubblica 4.12.14
L’affaire Dupuis l’ultimo eretico messo al bando dal Vaticano
Esce l’autodifesa del gesuita morto nel 2004 accusato per aver sostenuto il dialogo interreligioso
di Giancarlo Bosetti


UN libro postumo costringe a riaprire il dossier di Jacques Dupuis, il teologo cattolico belga del pluralismo religioso, trattato e “notificato” come un eretico dal cardinale Ratzinger, allora prefetto della fede. Era il 2000, lo stesso anno, gli stessi giorni in cui usciva la Dichiarazione “Dominus Iesus”, il più criticato documento pontificio degli ultimi decenni, acclamato solo dagli “atei devoti”. Dupuis è morto a ottantuno anni nel 2004, accasciandosi nella mensa della Università Gregoriana, depresso per le accuse di eresia.
Dupuis era amareggiato per essere divenuto il bersaglio di un procedimento dell’inquisizione e per essere la “bestia nera” proprio di quel testo con cui la Chiesa arretrava di fronte al dialogo con le altre religioni, e umiliato per la sospensione dall’insegnamento. Il libro che appare ora in italiano per EMI (le cattoliche Edizioni missionarie italiane) è stato curato dal suo editor e amico americano William Burrows e contiene due lunghi testi di autodifesa, dello stesso condannato, nei confronti della “notificazione” (la sentenza della Congregazione della Dottrina Fede) e di accusa contro la «Dominus Iesus», che a Dupuis fu chiesto di condividere, come prova della bontà del suo pentimento. Il mite teologo belga non accettò di condividere e di firmare una prima versione della sentenza che lo accusava di «gravi deficienze» e dedicò gli ultimi anni a stendere questi scritti. Firmò poi una seconda versione della notificazione (piegandosi alle esigenze “politiche” di una situazione che lo imbarazzava) in cui il reato era diminuito a «notevoli ambiguità». Quel movimentato cambio dei testi coinvolse Papa Wojtyla in una delle pagine più ingloriose nella traiettoria di Ratzinger.
Il titolo italiano suona Perché non sono eretico , quello inglese Jacques Dupuis Faces the Inquisition . Il primo, più prudente del secondo, rispecchia comunque lo sconcerto di un teologo, che Burrows definisce «revisionista» ma ortodosso, per non essere stato capito e persino non proprio «letto» dal cardinale Ratzinger. Questi si sarebbe malauguratamente affidato — scrive l’autore, cui l’avrebbe confidato personalmente il futuro pontefice, guardandolo negli occhi — ai giudizi e agli scritti del segretario di Stato Tarcisio Bertone e del consultore della Congregazione Angelo Amato, due figure chiave del papato di Benedetto XVI. Il secondo, che è stato poi promosso cardinale ed è attualmente prefetto della Congregazione delle cause dei santi, è generalmente considerato l’estensore della “Dominus Iesus”.
Dupuis è sempre stato consapevole della difficoltà della sua impresa teologica. Il suo obiettivo era quello di riprendere il tema, per eccellenza plurale, delle dosi di verità e di possibile salvezza concesse al di fuori della Chiesa e ai noncristiani, di riprenderlo dove l’aveva lasciato il Concilio Vaticano II, con la dichiarazione Nostra aetate ( 1965). La sua Chiesa come quella di Giovanni XXIII e di Paolo VI «nulla rigetta di quanto è vero e santo» nelle altre religioni e vi riconosce «un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini». Idee rafforzate dalla lunga esperienza asiatica: aveva speso 36 anni in India. Tu non puoi vivere — diceva — a contatto con la fede di milioni e milioni di esseri umani devoti ai loro riti, dotati di morale e senso del peccato, e poi immaginare per loro nient’altro che la dannazione perché non sono entrati a far parte della Chiesa Romana, una opportunità di cui tre quarti dell’umanità non è neppure venuta a conoscenza.
La teologia del dialogo rimaneva per lui strettamente all’interno di una visione “cristocentrica” della salvezza, certo distinta dalla prospettiva “ecclesiocentrica”, di cui non ha trovato le basi nei testi sacri e che riteneva frutto maligno della paura. E ha prodotto in queste pagine un lavoro affascinante anche per i non credenti. L’opera imponente di Dupuis cui è stata destinata la censura del tribunale vaticano è Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso , (Queriniana, 1997). Non è soltanto teologia, è anche una storia del pensiero, interamente ripercorsa attraverso la ricerca del principio di salvezza dai primi alessandrini fino ai giorni nostri. Dupuis individua passaggi lampeggianti, come in Origene di Alessandria, che, forte del suo platonismo, immaginava per tutto il genere umano una finale restituzione o riabilitazione; si soffermava sulle pagine del De Pace Fidei di Nicola Cusano, umanista ma anche potente cardinale del Quattrocento, che immaginava un concilio celeste in cui tutte le fedi del mondo trovavano un accordo sulla unicità della religione «nella varietà dei riti». Per Cusano, in quel sogno, le religioni erano diverse perché Dio aveva mandato diversi profeti in diversi tempi e con diversi linguaggi, ma erano in sostanza «complementari».
L’arditezza, certamente sospetta di eresia, non sfuggiva a Dupuis, e nemmeno a un altro teologo riformatore come Urs Von Balthasar, il quale scrisse che la mossa di Cusano fu così «avventurosa che ci si può soltanto sorprendere che non sia stato messo all’indice». Ce lo racconta lo stesso Dupuis, tenendosi lontano da un possibile peccato di indifferenza o equivalenza, ma questo non gli impedisce di affrontare il tema più ri- levante che per un cristiano, come per qualunque fedele di ogni religione, presenta la comparsa e la vicinanza di tante religioni diverse.
Nell’esaminare l’ampiezza della prospettiva della salvezza nella teologia cristiana Dupuis vede tre tappe storiche: una prima in cui il principio extra ecclesiam nulla salus è affermato in tutto il suo esclusivismo, quello di un cristianesimo minoritario e assediato, nell’Impero romano prima di Costantino; una seconda con una limitata apertura per le altre religioni in quanto primordiale rivelazione; una terza in cui si colgono valori positivi nelle altre religioni in quanto preparatori. E vede poi quello che appare come il compito di oggi, non solo per la teologia cristiana, ma anche per quella delle altre fedi: rispondere alla domanda «che significato le altre tradizioni hanno nel disegno divino?». Ed è questo il terreno della sfida per la «teologia delle religioni» o «teologia pluralista». Quel terreno che gli autori della “Dominus Iesus” immaginavano di cancellare o di «ordinare», nel senso di «subordinare» interamente alla gerarchia di verità dettata dalla dottrina vaticana.
Il testo postumo di Dupuis ci offre oggi anche la più argomentata caccia alle «ambiguità» e agli «errori» di quel documento che intendeva sbarrare la strada a una ripresa delle tesi conciliari e a chiudere il passo al dialogo interreligioso. Questione da riaprire, questione aperta dalla memoria di un gesuita che attende la riabilitazione.
IL LIBRO Perché non sono eretico di Dupuis (Emi, pagg. 224, euro 17)

Repubblica 4.12.14
Lab Expo Veca:“Mangio dunque sono”
Dal Simposio di Platone all’ Ultima cena di Leonardo
Nutrirsi è elemento fondante dell’identità di un popolo e fattore di coesione sociale», dice Salvatore Veca
di Antonio Cianciullo



Il filosofo tiene domani una lecture sul “Patto della Scienza”: il progetto internazionale che anticipa l’appuntamento milanese del prossimo anno

Il dibattito sul cibo, con l’alternarsi di note che affascinano e spaventano, seducono e minacciano, è materia da tecnologi o da filosofi, da biologi o da antropologi? A porsi queste domande è stato il Laboratorio Expo, un’iniziativa della Fondazione Feltrinelli e di Expo Milano 2015 avviata nell’autunno del 2013 e destinata a concludersi a fine aprile. E la conclusione venuta fuori in questo anno di lavoro - sintetizzata domani nel secondo Colloquio internazionale che ha coinvolto più di cento ricercatori - è che una risposta può venire solo mettendo assieme i vari punti di vista.
«Abbiamo sviluppato quattro aree di analisi: il cibo come filiera, il cibo come cultura, il cibo come fonte di squilibri sociali, il cibo in bilico tra campagna e città», racconta Salvatore Veca, coordinatore scientifico del Laboratorio Expo. «Sintetizzare le conclusioni non è facile perché ognuno di questi temi meriterebbe un libro, ma si può provare a estrarre alcuni elementi del ragionamento per misurare l’importanza dell’alimentazione e il suo ruolo strategico. Partiamo dalle radici: dal Simposio di Platone all’ Ultima cena l’atto della nutrizione si configura come un elemento fondante dell’identità di una popolazione o di un gruppo».
Il mantenimento delle tradizioni gastronomiche costituisce un aspetto centrale della stabilità culturale di un Paese o di una regione. E tuttavia il cibo è anche un brand formidabile capace di penetrare nuovi mercati. Dunque lo scambio, la contaminazione (fusione se vogliamo usare un termine più adatto al tema), è parte ineludibile del presente; ma il rispetto delle tradizioni alimentari è necessario per il mantenimento degli equilibri sociali e ambientali che su queste tradizioni si sono costruiti nei secoli. Come uscire dalla contraddizione? «La risposta è semplice in teoria, difficile nella pratica: bisogna imparare a far convivere culture diverse senza permettere sopraffazioni «, continua Veca. «Locale e globale devono poter coesistere nello stesso tempo e spazio. Il che vuol dire che non possiamo accettare soluzioni monopolizzanti che cancellino il diverso: una ricetta unica, a livello globale, è un incubo. Bisogna mantenere l’equilibrio tra noi e gli altri, con una linea di demarcazione che passa per un confine mobile, in continuo movimento perché continuamente ci si adatta. Il cibo può essere usato per costruire ponti o per erigere muri. Sta a noi scegliere».
Sul cibo come elemento di coesione sociale si sono schierate con decisione le Nazioni Unite. Nel documento preparato dall’Onu per la partecipazione a Expo 2015 si pone l’accento sull’importanza del sostegno ai contadini che nel mondo difendono le tradizioni dell’agricoltura e una biodiversità creata nei millenni ma oggi a rischio. «Se le filiere alimentari vengono monopolizzate da grandi multinazionali l’effetto può essere negativo sia in termini di stabilità sociale che dal punto di vista della possibilità di mantenere il nostro patrimonio genetico», continua Veca. «Il rischio è perdere una ricchezza costituita da risorse sicure - perché testate da millenni di evoluzione - in grado di dare una risposta ai nuovi bisogni di sicurezza creati dallo squilibrio del ciclo idrico».
La convivenza tra passato e futuro passa anche dalla profonda mutazione del rapporto tra città e campagna. Dal 2007 si è sovvertito un dato costante lungo tutta la storia umana: gli abitanti delle città, storicamente una piccola minoranza, si sono trasformati in maggioranza assoluta. E in questo nuovo contesto si parla sempre più spesso di produzione agricola urbana, con modelli che vanno dagli orti cittadini alle vertical farm. È una prospettiva reale?
«Al momento l’ipertrofia tecnologica urbana appare una prospettiva poco concreta», risponde Veca, «mi sembra più probabile una simbiosi tra le smart cities e le slow cities. Città in cui il livello tecnologico aumenta ma contemporaneamente si sviluppano forme agricole che rilocalizzano il processo di produzione del cibo all’interno delle aree urbane attraverso la riqualificazione di spazi abbandonati o degradati». Una sorta di rammendo dei quartieri che hanno perso vecchie funzioni e possono acquistarne di nuove collegandosi alla domanda di cibo di qualità .