venerdì 5 dicembre 2014

Il Fatto 5.12.14
Uk, “danneggiò il feto abusando di alcol”. I giudici: “Non è crimine contro persona”
Assolta una madre che in gravidanza abusava di birra e alcol
Sua figlia nacque deforme e a sette anni dalla nascita presenta un grave ritardo
Polemiche sulla decisione della corte d'appello
di Daniele Guido Gessa

qui segnalazione di Francesco Maiorano

Corriere 5.12.14
«Vaticano, molti milioni fuori dai bilanci»
Il cardinale Pell sulle finanze della Santa Sede: ci sono più soldi del previsto
di M. Antonietta Calabrò

ROMA «Il lavoro di riforma delle finanze vaticane ha fatto scoprire centinaia di milioni di euro che non comparivano nei bilanci ufficiali della Santa Sede». Il cardinale australiano George Pell, Prefetto della segreteria per l’Economia, lo ha scritto nero su bianco in un articolo esclusivo per il Catholic Herald , periodico cattolico inglese fondato nel 1888, in occasione del lancio del nuovo formato del settimanale.
La notizia, clamorosa, svela anche che, paradossalmente, a motivo di questi fondi extrabilancio, le casse della Santa Sede sono più in salute di quanto si potesse pensare. Per rendersi conto della portata delle affermazioni di Pell, uno dei membri del C9, il «Consiglio della corona» di Francesco, bisogna considerare che il consuntivo consolidato della Santa Sede per l’anno 2013, approvato nel luglio 2014, ha chiuso con un deficit di oltre 24 milioni.
Pell evidenzia che «a parte il fondo pensione, che ha bisogno di essere rafforzato per le richieste su di esso nei prossimi 15 o 20 anni, la Santa Sede sta facendo la sua strada, essendo in possesso di un patrimonio e di investimenti consistenti». E che quindi «è importante sottolineare che il Vaticano non è in fallimento».
D’altra parte la scoperta di centinaia di milioni di euro extrabilancio dimostra che singole «isole» all’interno del Vaticano erano molto più floride della Santa Sede in quanto tale. Secondo Pell, finora, nelle finanze vaticane «Congregazioni, Consigli e, specialmente, la Segreteria di Stato, hanno goduto e difeso una sana indipendenza (il termine «suona lievemente sarcastico», ha commentato il magazine inglese Spectator, ndr)». «I pro blemi erano tenuti “in casa” (come si usava nella maggior parte delle istituzioni, laiche e religiose)», afferma ancora Pell. «Pochissimi erano tentati di dire al mondo esterno che cosa stava accadendo, tranne quando avevano bisogno di aiuti supplementari». A motivo di questo, la struttura del potere vaticano ha visto perpetuarsi, nel settore finanziario, un assetto quasi medioevale. Un fenomeno che il Prefetto dell’Economia descrive così: «Proprio come i re avevano permesso ai loro governanti regionali, principi o governatori di avere quasi mano libera, purché i libri fossero in equilibrio, così hanno fatto i Papi con i cardinali di Curia (come fanno ancora con i vescovi diocesani)» .
Naturalmente, queste riserve di fondi al riparo da una gestione centrale condivisa, è stato humus favorevole per possibili abusi. Il porporato sostiene infatti che «per secoli personaggi senza scrupoli» hanno approfittato della ingenuità finanziaria e delle procedure segrete del Vaticano. Le finanze della Santa Sede erano poco regolate e autorizzate a «sbandare, ignorando i principi contabili moderni». Ma ora non è più così: i cambiamenti in atto porteranno le finanze vaticane nel ventunesimo secolo.

il Fatto 5.12.14
Vaticano: “Centinaia di milioni di fondi neri”
di Antonio Migliore

Nessun pericolo di fallimento per il Vaticano. Anche se la Santa Sede ha chiuso il bilancio del 2013 in rosso per 24,5 milioni di euro. Il pericolo è stato scongiurato dal cardinale George Pell in persona, il “ministro dell’economia” di Papa Francesco. Secondo il cardinale australiano, infatti, sarebbero state ritrovate alcune centinaia di milioni di euro nascosti in particolari conti settoriali, e che non apparivano nei fogli ufficiali di bilancio. I “fondi neri”, come spiegato da Pell al settimanale britannico Catholic Herald, sono emersi dopo il lavoro di riforma delle finanze vaticane, avviato da Papa Bergoglio. Le casse della Santa Sede dunque sono più in salute di quanto apparissero. Il cardinale Pell si è mostrato inoltre molto critico con la cattiva gestione dei conti vaticani dei secoli scorsi. Lo stesso cardinale ha ammesso che molti dicasteri così come la Segreteria di stato troppo spesso “hanno goduto e difeso una sana indipendenza”. Secondo il cardinale, infatti, “i problemi erano tenuti spesso ‘in casa’, come si usava nella maggior parte delle istituzioni, laiche e religiose, fino a poco tempo fa”. Il “ranger australiano”, soprannominato così dallo stesso papa che lo ha voluto a Roma da Sydney, ha anche dichiarato quanto difficile è stato tentare l’attuazione di una riforma finanziaria. Molte perplessità e critiche anche per la recente vicenda Vatileaks che ha gravato molto sulla reputazione della Santa Sede e ha rappresentato un grosso peso per Papa Francesco.

Repubblica 5.12.14
In Vaticano spunta un tesoro nascosto “Milioni di euro fuori bilancio”
Finanze oltretevere nel mirino del cardinale Pell “Scopro che siamo più ricchi, ma troppi dicasteri non rendono conto dei loro soldi. Ora basta”
di Paolo Rodari

CITTÀ DEL VATICANO Piace a Francesco il cardinale australiano George Pell, prefetto della Segreteria per l’Economia vaticana (in sostanza il ministro per l’economia), perché non la manda mai a dire. Così, in un articolo scritto “in esclusiva” per il settimanale britannico Catholic Herald in uscita oggi, egli dichiara candidamente di aver scoperto centinaia di milioni di euro nascosti nei conti di vari dipartimenti della Santa Sede senza che questi soldi fossero registrati nei bilanci degli ultimi anni della città Stato. Una scoperta che significa che le finanze vaticane sono in condizioni migliori di quanto egli stesso avesse ritenuto.
Scrive: «In effetti abbiamo scoperto che la situazione è molto più sana di quanto apparisse, perché centinaia di milioni di euro erano nascosti in alcune sezioni specifiche dei conti e non apparivano nel bilancio». E ancora: «È importante sottolineare che il Vaticano non è in bancarotta. La Santa Sede si sta mantenendo da sola, possedendo importanti attività e investimenti ». Il consuntivo consolidato della Santa Sede per l’anno 2013, approvato nel luglio 2014, ha chiuso con un deficit di 24.470.549 euro. Ma proprio alla luce del deficit le parole di Pell fanno comprendere come le nuove scoperte non siano poca cosa. Seppure queste non riguardino la banca vaticana: «Allo Ior dal 2013 a oggi, da quando è in corso la verifica sui conti, non sono stati trovati fondi non contabilizzati », dice a Repubblica il portavoce dello Ior, Max Hohenberg.
Le parole del porporato mostrano uno stato di cose in parte noto, ma sul quale mai il Vaticano aveva fatto abbastanza luce. Congregazioni, Pontifici consigli «e, specialmente — dice — la segreteria di Stato, hanno goduto e difeso una sana indipendenza», gestendo propri investimenti senza un effettivo controllo centrale. E ancora: «I problemi erano tenuti “in casa”. Pochissimi erano tentati di dire al mondo esterno che cosa stava accadendo, tranne quando avevano bisogno di un aiuto supplementare». E così, se alcuni sono stati capaci di gestire i soldi nel mondo migliore e trasparente, altri ne hanno approfittato, a volte sbandando, altre volte «ignorando i princìpi contabili moderni». I dicasteri hanno anche difeso gelosamente la propria indipendenza, ma ora tutto ciò è destinato a finire. Pell, infatti, ha avocato a sé per volere del Papa il controllo di tutte le finanze tanto che l’autonomia di un tempo dei singoli dicasteri — molti di fatto potevano anche assumere personale — è finita.
Nascono probabilmente anche da qui alcune resistenze interne circa il lavoro di Pell. Resistenze che non scalfiscono la leadership del porporato australiano che continua a lavorare col pieno appoggio del Papa. Tempo fa il cardinale ha spedito una lettera a tutti i dipartimenti informando delle novità su codice etico e contabilità. Dal primo gennaio, ogni dipartimento dovrà attuare “solide ed efficienti politiche di gestione” e preparare rendiconti finanziari “in un modo coerente e trasparente” in aderenza agli standard di contabilità internazionali.

Il Messaggero 5.12.14
Il cardinal Bertone compie 80 anni, party esclusivo tra tartufi e cristalli
di Franca Giansoldati
qui segnalazione di Francesco Troccoli

Corriere 5.12.14
Fondi tagliati del 70% e pochi asili nido
L’Italia si arrende alla povertà dei bimbi
In miseria 1,5 milioni di minori. Le ricerche: cattiva alimentazione e offerta educativa carente
di Gian Antonio Stella

Una spending review implacabile l’han fatta davvero: sui fondi per combattere la povertà. Dal 2008 a oggi hanno tagliato il 69,4%. Proprio mentre crescevano gli affanni delle famiglie: la metà di quelle con tre figli, nel Sud, è in miseria. Lo dicono la Fondazione Zancan e un rapporto della Commissione parlamentare sull’infanzia: la crisi pesa soprattutto sui bambini.
Gli ultimi dati del Centro studi veneto mettono i brividi: tra il 2011 e 2013 «la percentuale di famiglie con almeno un figlio minore relativamente povere è aumentata di quasi 5 punti percentuali, dal 15,6% al 20,2%». A dispetto di tutte le chiacchiere sulla famiglia («Ci vuole ben altro che qualche spot coi cuccioli in braccio, bambini o cagnolini che siano», ha scritto furente il direttore di Famiglia Cristiana Antonio Sciortino) il quadro è drammatico.
«La situazione è particolarmente grave per le famiglie con tre o più figli minori», insiste il dossier: per oltre un terzo sono «relativamente povere». Nel Mezzogiorno, come dicevamo, il quadro è ancora più fosco: è povera più di una famiglia su tre (36,4%) con almeno un figlio minore e poverissimo il 51,2% di quelle che hanno tre o più figli piccoli o adolescenti.
«I bambini sono un segno. Segno di speranza, segno di vita, ma anche segno “diagnostico” per capire lo stato di salute di una famiglia, di una società, del mondo intero», ha ricordato mesi fa papa Francesco. Se è così, allarme rosso: le famiglie con almeno un bambino sprofondate nella povertà assoluta, spiega il dossier «La povertà infantile in Italia» della Fondazione, negli ultimi tre anni sono raddoppiate, dal 6,1 al 12,2%, e sono oggi il triplo rispetto al 2007, l’ultimo anno prima della crisi. E così, conferma l’Istat, sono aumentati i bambini e gli adolescenti che versano in condizioni di miseria: erano 723 mila nel 2011, sono quasi un milione e mezzo oggi.
Ancora più dura però, per certi aspetti, è la bozza del rapporto finale dell’«Indagine conoscitiva sulla povertà e il disagio minorile» della Commissione parlamentare per l’infanzia, che ha come presidente Michela Vittoria Brambilla e come relatrice Sandra Zampa. Dove si riconosce la capitolazione dello Stato in quella che dovrebbe essere una guerra alla miseria, alla fame, al degrado del nostro capitale più prezioso: i bambini.
Dopo avere ricordato il progressivo smottamento della società, compreso il dato che la povertà assoluta è aumentata perfino «tra gli impiegati e i dirigenti» e «anche in vaste aree del Nord», la relazione spiega che «nel 2007 i bambini che non potevano permettersi un pasto proteico una volta ogni due giorni erano il 6,2%, nel 2013 tale numero risultava già più che raddoppiato, raggiungendo la percentuale del 14,4». Un bambino su sette. In un Paese che ancora si fa vanto di appartenere al G8.
Certo, la drammaticità di oggi è diversa da quella denunciata dall’inchiesta parlamentare sulla miseria di Stefano Jacini nel 1880 o da quella analoga ripetuta nei primissimi anni 50 del Novecento. Proprio perché ricordiamo quei nostri nonni bambini ai tempi in cui il medico Luigi Alpago Novello scriveva nel 1900 che nelle famiglie di Conegliano la perdita di un figlioletto causava a volte «minor dolore non dirò di un grosso animale bovino ma di una semplice pecora», riscoprire questa Italia povera getta sale su ferite antiche.
Che cosa hanno fatto i governi per contenere questa nuova ondata di povertà? Risponde la Commissione parlamentare d’inchiesta: troppo poco. Soprattutto rispetto agli altri: «Con riferimento all’anno 2011, la Francia ha ridotto del 17% la povertà dei minori, la Germania del 17,4%, il Regno Unito del 24,4%, la Svezia del 17,5%» e noi solo del 6,7%. Peggio perfino della Spagna (7,6%) che certo meno in crisi non è.
A farla corta: nel 2009 lo Stato stanziava per le politiche sociali, complessivamente, due miliardi e 523 milioni e oggi, come dicevamo, meno di un terzo. Il 7° «rapporto aggiornamento Crc», citato nella relazione, fornisce dettagli in più: il Fondo per le politiche della famiglia, ad esempio, nel 2009 era a 186 milioni e mezzo, oggi meno di 21. Nove volte di meno.
Anche l’ultimo «Report Card» dell’Istituto degli Innocenti, dal titolo «Il benessere dei bambini nei Paesi ricchi», ci inchioda: «Nella classifica generale l’Italia occupa il 22º posto, alle spalle di Spagna, Ungheria e Polonia...». Di più, incalza il rapporto parlamentare: nel Mezzogiorno «tende ad affermarsi un modello nutrizionale sempre più simile a quello esistente nei Paesi del Sud del mondo, in cui si abbandona la tradizione alimentare nazionale a favore di un consumo eccessivo del cosiddetto junk food , il cibo ipercalorico a scarso valore nutrizionale, che però vanta un costo basso».
Per non dire della povertà educativa, strettamente legata a quella economica: la regione più povera sotto questo profilo, «cioè dove si riscontra la minore presenza di servizi educativi, è la Campania, seguita ex aequo da Puglia e Calabria e poi dalla Sicilia».
Nessuno, però, può chiamarsi fuori: «Si osserva che le regioni definite “ricche” di offerta educativa in Italia, vengono qualificate come “povere” nel confronto con altri Paesi europei. Volendo operare un esempio concreto, per la copertura dei nidi, il target europeo è il 33%, mentre in Italia, al di là dell’Emilia Romagna, che risulta la prima Regione, con il 28%, la media nazionale si attesta intorno al 17».
Cosa fare? Forse la soluzione giusta, rispondono sia la Commissione e sia la «Zancan», non sono i «bonus bebè». Cioè la distribuzione a pioggia di manciate di soldi: molto meglio, ad esempio, concentrare gli sforzi e spostare 1,5 miliardi dagli assegni familiari su un progetto per raddoppiare i «nidi» così da accogliere 403 mila bambini. Cosa che consentirebbe, tra l’altro, di «creare oltre 40 mila posti di lavoro».

il Fatto 5.12.14
Corruzione, il Senato reagisce e dà un segnale: salvati due politici indagati
Il voto dei democratici decisivo in aula per respingere la richiesta di utilizzo di intercettazioni contro Azzollini (Ncd), sotto inchiesta per l'affare del porto di Molfetta, e per rinviare in giunta quella contro Papania (Pd), accusato di aver concesso appalti in cambio di assunzioni clientelari
qui

Repubblica 5.12.14
Intercettazioni il Senato salva Azzollini dell’Ncd. È polemica nel Pd
Il senatore è coinvolto nell’inchiesta sugli appalti del porto di Molfetta Decisivi i voti di democratici e Lega
di Liana Milella

ROMA Vince Azzollini, perde la magistratura di Trani. Il potente ex sindaco di Molfetta, prima senatore Pdl ora senatore Ncd, la spunta grazie ai voti del Pd, e dopo un braccio di ferro durato quasi un anno. Niente intercettazioni, l’aula di palazzo Madama nega l’autorizzazione a utilizzarle. Sarebbero preziose per attribuire le giuste responsabilità nello scandalo del porto “fantasma” di Molfetta, 150 milioni di euro ottenuti, lavori affidati alla Cmc di Ravenna colosso delle coop rosse, ma poi utilizzati per far quadrare il bilancio del Municipio, visto che i fondali della cittadina pugliese sono talmente a rischio per via dei residuati bellici da rendere impossibile qualsiasi lavoro. Chi ipotizzò l’opera e chiese i finanziamenti sapeva e tacque. Quindi deve rispondere di una sfilza di reati, dall’associazione a delinquere all’abuso d’ufficio, dalla truffa allo Stato alla frode in pubbliche forniture. Le intercettazioni sarebbero preziose, ma andranno al macero. Sul Pd aleggia il sospetto che il salvataggio, più che per Azzollini, sua per la Cmc.
Una maggioranza anomala sancisce la “morte” processuale delle telefonate. D’accordo il Pd, Forza Italia, Ncd, e pure la Lega. Contro M5S e Sel. Finisce 160 a 36, e tra chi dice no ci sono anche molti senatori del Pd, tra cui Laura Puppato che mette a nudo l’evidente contraddizione. Proprio mentre fa scandalo l’inchiesta su mafia e appalti a Roma, col Pd costretto al commissariamento, ecco che lo stesso Pd toglie alla magistratura uno strumento di prova. Con una motivazione burocratica, le intercettazioni sono state fatte ma i magistrati non hanno preventivamente chiesto l’autorizzazione. Una legge assurda, perché è ovvio che se ti avviso che sto per intercettarti, tu non parlerai più al telefono. Dice Puppato: «Trovo questa decisione profondamente inadeguata a rispondere alla forte richiesta di trasparenza rivolta a chi svolge ruoli politici. Una decisione sbagliata, e per questo con altri colleghi del Pd voto a favore dell’utilizzo delle intercettazioni». Nichi Vendola affida a un tweet ironico la sua rabbia: «Che fa ora Renzi? Azzera il Pd di palazzo Madama?». Duro M5S con Enrico Cappelletti: «Renzi e Salvini vanno in tv a parlare di lotta alla corruzione, nei fatti Pd e Lega in Parlamento vanno a braccetto per non permettere un completo svolgimento delle indagini della magistratura».
Ci si aspetterebbe un dibattito acceso, lungo e sofferto, invece bastano solo 25 minuti — dalle 9 e 59 alle 10 e 24 — per liquidare una pratica che, tra escamotage per ottenere rinvii come la richiesta di altri documenti alla magistratura, va avanti dal 21 gennaio, quando la magistratura di Trani ha chiesto di essere autorizzata a utilizzare 10 intercettazioni a carico del senatore Azzollini, il presidente della commissione Bilancio. In aula non c’è Felice Casson, trattenuto al Copasir, primo relatore sul caso, giunto addirittura a sospendersi dal Pd quando la sua linea, sì deciso alle intercettazioni, è stata platealmente smentita dal capogruppo nella giunta per le autorizzazioni Giuseppe Cucca, favorevole invece alla linea opposta, quella del diniego perché le regole sarebbero state violate. Azzollini adesso è tranquillo, la Cmc pure.

Il Sole 5.12.14
Azzollini, il Senato dice no all’uso delle intercettazioni
Indagine a Trani. Sì solo da M5S e Sel

L’Aula del Senato ha confermato ieri il “no” alla richiesta di utilizzare le intercettazioni relative al presidente della commissione Bilancio Antonio Azzollini (Ncd) avanzata dalla procura di Trani nell’ambito di una vicenda giudiziaria che vede il senatore di Ncd, all’epoca dei fatti sindaco di Molfetta, indagato anche per il reato di associazione per delinquere. L’Aula, con 180 sì, 36 no e 1 astenuto, ha confermato così la proposta della Giunta per le immunità alla quale si arrivò a novembre anche con il voto del Pd. M5S e Sel hanno protestano mentre il Pd, è l’accusa, ha «salvato» Azzollini con i voti anche di Ncd, FI e Lega. L’argomento sul quale si è insistito per respingere la richiesta dei magistrati di Trani è sostanzialmente uno: la non «occasionalità», cioè la non casualità delle intercettazioni. Il fronte pro-Azzollini ha sostenuto che c’è incertezza sulla data di iscrizione nel registro indagati di Azzollini per il reato di associazione a delinquere. E che prima di intercettarlo si sarebbe dovuta chiedere l’autorizzazione. ?Nel Pd, comunque, Laura Puppato ha assicurato di aver votato a favore della richiesta, mentre il capogruppo in Giunta Giuseppe Cucca ha avvertito: «Abbiamo applicato un principio di legalità». Non si può chiedere di usare gli ascolti «non avendone chiesto, a suo tempo, la preventiva autorizzazione in ragione della conoscenza della carica ricoperta dal parlamentare».

Corriere 5.12.14
Il Pd si divide e «salva» due politici sotto inchiesta

Doppio no del Senato sull’utilizzo di intercettazioni in inchieste a carico dell’ex senatore pd Antonino Papania e del presidente della commissione Bilancio di Palazzo Madama Antonio Azzollini (Ncd). Su Papania c’è stato un ripensamento dei dem: in giunta per le Immunità avevano detto «sì» al tribunale di Palermo sull’utilizzo delle intercettazioni in un processo per corruzione; in Aula hanno stoppato tutto e rinviato il «dossier» in giunta. «È grave la scelta del Pd — attacca Maurizio Buccarella (M5S) — soprattutto il giorno dopo la decisione di commissariare il partito romano per fatti di corruzione e mafia». Papania, già definito «impresentabile» dalla commissione di garanzia del Pd alle ultime Politiche, è coinvolto tra Trapani e Palermo in una serie di inchieste, anche sul voto di scambio. La vicenda per la quale i magistrati palermitani hanno chiesto di utilizzare conversazioni telefoniche e sms «casuali» riguarda assunzioni in cambio di appalti. L’Aula di Palazzo Madama ha anche confermato il «no» all’utilizzo delle intercettazioni di Azzollini, avanzata dalla Procura di Trani per una vicenda che vede il senatore di Ncd, all’epoca sindaco di Molfetta, indagato anche per associazione a delinquere. L’Aula, con 180 sì (arrivati da Pd, Ncd, FI e Lega), 36 no e un astenuto, conferma così la proposta della giunta per le Immunità. L’argomento sul quale si è insistito per respingere la richiesta è la non «occasionalità», cioè la non casualità delle intercettazioni. Il fronte pro Azzollini sostiene che ci sia incertezza sulla data di iscrizione nel registro indagati per associazione a delinquere. E che, perciò, prima di intercettarlo si sarebbe dovuta chiedere l’autorizzazione. Il fronte «contro», invece, riprende la tesi sostenuta nella prima relazione di Felice Casson (Pd): il certificato della cancelleria del tribunale confermerebbe che la data d’iscrizione è successiva alle intercettazioni . Dopo aver «azzerato» il Pd romano per lo scandalo «mafia Capitale», commenta Niki Vendola (Sel), ora «Renzi che farà? Azzererà il Pd di Palazzo Madama?».

Corriere 5.12.14
Primarie democratiche, l’ombra del clan
Si indaga sui rom al voto nel 2013
di Rinaldo Frignani e Ilaria Sacchettoni

Il prefetto: a Marino serve la scorta. Zingaretti ferma gli appalti regionali

ROMA Quelle primarie ad alta affluenza di rom e stranieri, ora, fanno nascere il dubbio. Il sospetto è che le code ai gazebo in periferia nel 2013 fossero sponsorizzate dal clan: «Noi oggi alle cinque lanciamo Marroni (Umberto Marroni, ndr ) alle primarie eh!», annunciava mesi prima a un collaboratore il fondatore della «Eriches 29», Salvatore Buzzi. Il gruppo non può permettersi di restare scoperto sul fronte politico.
Vale anche al contrario, ovviamente: la politica romana ha bisogno dei finanziamenti dei boss. Quello stesso mondo travolto ora da un’inchiesta senza precedenti dalle conseguenze imprevedibili. Ieri il prefetto Giuseppe Pecoraro ha incontrato il sindaco Ignazio Marino al quale ha prospettato la necessità di avere una scorta più robusta, a parte quella dei vigili urbani. «Va rafforzata e lui deve smetterla di andare in bicicletta», ha tagliato corto.
Qualche ora prima proprio Marino aveva concordato con il commissario Anticorruzione Raffaele Cantone la creazione di un pool dedicato all’esame di tutti gli appalti pubblici affidati e da affidare («Quelli corrotti saranno commissariati»). E il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti ha bloccato le gare in corso, aprendo un’indagine interna sull’operato di Asl, Ater e dipartimenti. A conclusione della giornata è anche arrivata la notizia dell’arresto di Giovanni De Carlo, personaggio di spicco del clan di Mafia Capitale, preso a Fiumicino al ritorno da Doha. Un altro boss, secondo gli inquirenti, del gruppo che fa affari anche con il centrosinistra.
«Come siete messi per le primarie?», chiede Massimo Carminati a Buzzi. E l’altro: «Avemo dato 140 voti a Giuntella (ex presidente Pd Roma) e 80 a Cosentino (senatore Pd). Lui è proprio amico nostro». Proprio il giorno delle primarie, in un clima di scarso entusiasmo — solo 100 mila votanti —, si contano molte zingare in coda, qualcuno dubita sull’autenticità di quella militanza, ma pochi hanno il coraggio di denunciare. Tranne Cristiana Alicata che dalla direzione Pd rivela: «Sono voti comprati».
Anche su questo indagano i pm Giuseppe Cascini, Paolo Ielo, Luca Tescaroli, che ieri hanno proseguito con gli interrogatori di garanzia. Ascoltato Claudio Turella, che dai vertici dell’assessorato all’Ambiente avrebbe favorito le coop di Buzzi. Nel suo appartamento il Ros ha trovato 570 mila euro. «Non ne so niente», si è difeso.
Dai contanti di Turella al vasellame di Carminati: in casa del Nero c’erano, oltre ai quadri di Pollock e Warhol, anche vasellame e statue antiche per i quali è già stata disposta una perizia. Non si esclude che Carminati abbia fatto spesa da qualche tombarolo delle campagne laziali. Ma le indagini virano anche su fatti più recenti: ad esempio sull’assegnazione sempre all’«Eriches 29» del compito di trovare alloggi agli ex occupanti di strutture sgomberate nella primavera scorsa, come l’ex scuola «Angelo Mai» a Caracalla.

Corriere 5.12.14
Il renziano Zevi: «Tessere gonfiate e circoli fasulli Ho visto di tutto»
di Alessandro Trocino

ROMA «Da candidato alla segreteria pd di Roma, vidi di tutto: correnti, circoli fasulli, tessere gonfiate, interessi.
Ma resto convinto che la maggioranza del partito sia fatto di gente perbene». Tobia Zevi è un giovane esponente del Partito democratico. Nel 2013 concorreva per la segreteria romana del Pd, insieme a Tommaso Giuntella e Lionello Cosentino. Nelle intercettazioni si parla di questi ultimi due: «Stiamo a sostene’ tutti e due … avemo dato centoquaranta voti a Giuntella e 80 a Cosentino».
Se l’aspettava, Zevi?
«Sui singoli occorre ribadire la presunzione di innocenza. Le responsabilità penali vanno prima individuate ed accertate».
Ma che effetto le ha fatto l’inchiesta «Mafia Capitale»?
«Sono sconvolto e inorridito. La magistratura descrive uno scenario di malaffare inquietante, con affaristi all’amatriciana che vengono dal mondo dell’eversione neofascista e che hanno trattato Roma come un Bancomat, gravitando intorno alla giunta di Alemanno».
Il Pd non è estraneo all’inchiesta, anzi è coinvolto con diversi esponenti.
«Non si possono mettere destra e Pd sullo stesso piano. Se però venissero dimostrate responsabilità di dirigenti o eletti sarebbe una cosa gravissima».
Renzi ha commissariato il Pd di Roma.
«È l’extrema ratio, l’occasione per fare pulizia e spazzare gruppi di potere e incrostazioni».
Possibile che nessuno si sia accorto di nulla? Eppure la Madia nel 2013 denunciò «associazioni per delinquere» nel Pd romano.
«La pulizia è iniziata mesi fa, ma c’è uno spread tra la lentezza della politica romana e la velocità del governo».
L’inchiesta getta ombre su strumenti come le primarie e le preferenze.
«Le primarie sono uno strumento utile, ma il rapporto con il territorio non può esaurirsi con il voto. Temo che molti miei compagni di partito non sappiano neanche dov’è Tor Sapienza. Bisogna ripensare i meccanismi di selezione della classe dirigente. Il Pd deve essere contendibile e ripartire dai tanti giovani che faticano a trovare spazio».
Lei parla di tessere gonfiate, di circoli fasulli.
«Sì, è vero. Anche le regole in vigore nel 2013 incentivavano le tessere gonfiate. E poi ci sono ancora circoli con le saracinesche abbassate che ai congressi presentano i verbali con i voti. Bisogna svecchiare, accelerare il ricambio».
Marino è entrato in conflitto con il Pd locale. Tanto che ha rischiato di essere scaricato anche dal nazionale, prima della riabilitazione.
«Le contestazioni che gli sono state fatte erano politiche e non c’entrano con le indagini. Ma, certo, Marino ha toccato interessi consolidati».

Nel Partito democratico danno ormai per imminente, se non proprio una scissione, certamente l’uscita di Civati e Fassina . L’approdo successivo è pronto e si chiama Sel. Tutto è già stato più o meno approntato per l’operazione fuoriuscita. Ci sono almeno due tappe che scandiranno l’operazione: il 13 dicembre, a Bologna, Civati ha convocato la sua area, appuntamento cui assisterà e interverrà Vendola, oltre a Fassina. Poco più di un mese dopo, dal 23 al 25 gennaio, sarà Vendola a ospitare i due dissidenti del Pd, questa volta a Milano, alla conferenza «Human factor», una versione contemporanea delle antiche conferenze programmatiche di comunista memoria. Nell’ultima giornata sono previsti gli interventi del duo Civati-Fassina e, a quel che circola negli ambienti della sinistra, dovrebbe arrivare l’annuncio della fuoriuscita del tandem dal Pd e dell’ingresso in Sel (di Civati si dice da tempo che diventerebbe il vice di Vendola).
Corriere 5.12.14
Corsa di Renzi per l’Italicum
A rischio le ferie dei senatori Il traguardo del 7 gennaio
Civati e Fassina potrebbero lasciare
di Maria Teresa Meli

ROMA Matteo Renzi passa tutta la giornata a Palazzo Chigi, tra telefonate e riunioni ristrette con i fedelissimi. Il commissariamento del Pd romano non ha chiuso definitivamente la questione. Mancano le ultime direttive: «Non possiamo fare di tutta l’erba un fascio, però non dobbiamo negare che ci sono stati atteggiamenti inquietanti. Ci sono realtà che superano l’immaginazione e non possiamo fare finta di niente».
Ma Renzi è Renzi. E la vicenda romana non lo ferma. Sulla sua scrivania ci sono altri dossier aperti. Primo tra tutti quello della legge elettorale. Il presidente del Consiglio spinge per fare in fretta. Più in fretta di quanto si pensa. La legge dovrebbe essere approvata in Commissione in tempi rapidi, entro il 23 dicembre. Tutti, a Palazzo Madama, sono convinti che la riforma passerà in Aula il 15 gennaio. In realtà, il premier avrebbe dei progetti più ambiziosi, che dimezzerebbero le vacanze dei senatori: «Volendo, potremmo mandarla in porto entro il 7», ha confidato a pochi fedelissimi. Dopodiché, secondo Renzi, il resto del cammino sarebbe una passeggiata: «Alla Camera non abbiamo problemi di numeri».
Tanta fretta mette in allarme quelli che hanno paura delle elezioni anticipate, nonostante Renzi abbia assicurato che una clausola di salvaguardia ci sarà. I ribelli di Forza Italia cercano di convincere Berlusconi che questa accelerazione del premier conferma la sua voglia di andare al voto anticipato. E lo stesso leader di FI è dubbioso in proposito: «Certo, lui può rappresentare un pericolo per la democrazia se va alle elezioni anticipate».
Ma la realtà è un’altra. Renzi è riconoscente a Napolitano per il fatto di aver sottolineato che non sarà certo l’elezione del suo successore a bloccare le riforme. Per questa ragione vuole premere sull’acceleratore. Non intende fare nessuno sgarbo istituzionale al capo dello Stato, non vuole metterlo nelle condizioni di dover decidere di andare via in un momento delicato, in cui la riforma elettorale, a un passo dalla meta, non è ancora chiusa. Basta farla approvare dal Senato e poi, almeno di questo è convinto Renzi, il gioco è fatto.
Certo, bisogna raggiungere questo obiettivo senza lasciare morti e feriti — politicamente, ben si intende — sul campo, perché c’è un’altra partita, ancora più importante,che incombe. Quella del Quirinale. E Renzi intende giocarla di fino. Solo il cammino è più periglioso, perché la questione va trattata in Parlamento. Con Berlusconi, innanzitutto (i contatti tra Palazzo Chigi e via del Plebiscito, tramite i soliti ambasciatori, non si sono mai interrotti). E poi c’è anche la minoranza pd. Nel Partito democratico danno ormai per imminente, se non proprio una scissione, certamente l’uscita di Civati e Fassina . L’approdo successivo è pronto e si chiama Sel. Tutto è già stato più o meno approntato per l’operazione fuoriuscita. Ci sono almeno due tappe che scandiranno l’operazione: il 13 dicembre, a Bologna, Civati ha convocato la sua area, appuntamento cui assisterà e interverrà Vendola, oltre a Fassina. Poco più di un mese dopo, dal 23 al 25 gennaio, sarà Vendola a ospitare i due dissidenti del Pd, questa volta a Milano, alla conferenza «Human factor», una versione contemporanea delle antiche conferenze programmatiche di comunista memoria. Nell’ultima giornata sono previsti gli interventi del duo Civati-Fassina e, a quel che circola negli ambienti della sinistra, dovrebbe arrivare l’annuncio della fuoriuscita del tandem dal Pd e dell’ingresso in Sel (di Civati si dice da tempo che diventerebbe il vice di Vendola).
Se questo è il timing della separazione, ci sono però delle incognite costituite da alcuni passaggi politici importanti che potrebbero non inficiare l’operazione, ma forse ritardarla o cambiarne i percorsi. Come, appunto, l’elezione del nuovo inquilino del Colle, innanzitutto, prevista per la metà di gennaio: lo strappo dei due potrebbe anche prodursi in quell’occasione, se non dovessero apertamente votare il candidato deciso dal vertice del Pd.
Per ora, comunque, Renzi adotta il suo metodo: lasciare che alleati e avversari si scannino tra di loro. E fare il «suo» nome all’ultimo momento. Sarà un politico di lungo corso, sarà un pd, ma non di sinistra (come ha chiesto Berlusconi), sarà un cattolico, sarà un esponente di fronte al quale anche ai prodiani sarà difficile dire di no, assicurano dall’entourage del segretario. Sarà Pierluigi Castagnetti, sussurra qualcuno. Ma senza conferma alcuna.

il Fatto 5.12.14
Jobs Act copiato, le bugie le dice Renzi
di Ma. Pa.

Partiamo dalla fine: Matteo Renzi - come dirlo? - ha una certa tendenza a distorcere o omettere la verità nei suoi interventi pubblici. Non diremo che è un bugiardo, ma non ci opporremmo se qualcuno volesse chiamarlo così. Mercoledì sera su La7, per contestare un pezzo del Fatto Quotidiano che individuava inquietanti parentele (al limite del copia e incolla) tra il Jobs Act e le Proposte messe nero su bianco da Confindustria a maggio, ha risposto così a Marco Travaglio: “Il testo della delega sul lavoro è stato presentato dal governo ad aprile: se lei ha un documento di maggio è arrivato tardi”. Renzi omette di dire che la delega di aprile era una scatola vuota, mentre gli emendamenti del governo “copiati” dal testo di Confindustria sono stati presentati rispettivamente in Senato a settembre (demansionamento, controlli a distanza sui lavoratori, estensione dei contratti di solidarietà) e alla Camera a ottobre (addio all’articolo 18). Tutte cose di cui non si parlava nel Jobs Act presentato da Renzi a gennaio ed entrate in ballo solo dopo la pubblicazione dei desiderata degli industriali. Già che ci siamo, il premier farebbe bene a rendersi conto che i dati destagionalizzati sugli occupati tra febbraio e ottobre raccontano di un aumento di 51 mila unità - non centomila o 150 mila - e peraltro in andamento altalenante (in sostanza, trattandosi di stime su 22 milioni e dispari di unità, statisticamente il numero degli occupati è fermo). Pure sui dossier del commissario Carlo Cottarelli sulla spending review Renzi è stato diversamente veritiero: Palazzo Chigi non li ha pubblicati, anzi ne ha impedito la divulgazione. Questo è quanto, presidente, lo tenga a mente per la prossima volta.

il Fatto 5.12.14
Mezzo condono, amnistia piena, via al “rientro dei capitali“
Approvata la legge che consente di autodenunciare al fisco i soldi in nero nascosti in Italia o fuori in cambio di sanzioni minime e reati cancellati
di Marco Palombi

Centoundici voti a favore. Tanti ne sono bastati ad un’Aula del Senato particolarmente disabitata per approvare la legge sul rientro dei capitali illecitamente detenuti tanto all’estero che in Italia e sancire che per il governo Renzi (come a quello Letta, che propose per primo la norma) è lecito proporre ai cittadini uno scambio tra legalità e gettito erariale. Sei miliardi e mezzo, per la precisione, tanto secondo il governo entrerà nelle casse dello Stato. All’approvazione della legge sono seguiti feste e complimenti per tutti: “Non è un condono, si paga tutto”, ha twittato il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan; “è proprio #lavoltabuona”, ha buttato lì Renzi; “da oggi l’autoriciclaggio è legge dello Stato: è un importantissimo risultato, per nulla scontato”, ha esultato il ministro Orlando.
TANTA GIOIA andrebbe contemperata con le facce lunghe dell’Agenzia delle Entrate, i cui vertici non sono contenti del modo in cui la legge è uscita dal Parlamento. Anche un esperto come Vincenzo Visco - tra i maestri dell’attuale direttore del Fisco Rossella Orlandi - l’ha messa giù dura in questi mesi: “Il tema del ‘rientro’ dei capitali illegalmente depositati all’estero è un tormentone che caratterizza il dibattito politico italiano da una decina d’anni. Gli argomenti a favore sono noti e sono sempre gli stessi, una volta (pudicamente) espunto quello reale, vale a dire la tutela degli interessi degli evasori”.
Vediamo come funziona. Chi abbia evaso il fisco accumulando soldi in nero all’estero o anche in Italia (aggiunta che rende bizzarra l’espressione “rientro dei capitali”) può autodenunciarsi all’Agenzia delle Entrate entro il 30 settembre 2015 approfittando della procedura di volontary disclosure: si dice da dove provengono i soldi, dove sono, si forniscono tutti i materiali utili a tracciarli e si paga il dovuto subito o in tre rate mensili. Sotto i due milioni per deposito, ad esempio, l’aliquota è il 27 per cento (più bassa di quella che sarebbe stata pagando le tasse), cui si aggiungono l’assenza di more per i ritardi e il quasi azzeramento delle sanzioni (ridotte fino al 3 per cento della somma evasa) per chi ha i soldi in Italia o in Paesi che hanno accordi fiscali col nostro (la Svizzera, per dire).
Insomma, non si paga proprio tutto come dice il ministro dell’Economia, ma la parte più fastidiosa è senz’altro quella penale, che realizza una sorta di amnistia mascherata: l’autodenuncia, infatti, esclude la punibilità per i delitti di dichiarazione infedele e omessa dichiarazione, per quelli di omesso versamento di ritenute certificate e di omesso versamento di Iva e pure per la dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e per la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici. Questi ultimi sono i classici reati fiscali legati al falso in bilancio (che Renzi ad agosto aveva promesso pure di far tornare reato com’era prima della “riforma” di Berlusconi). Se la passano liscia, ovviamente, anche bancari, commercialisti e altri intermediari che hanno aiutato l’evasore.
UNA PARZIALE buona notizia è l’inserimento nel codice italiano del reato di autoriciclaggio. La formulazione finale però, anche se non è pessima come quella che aveva presentato il governo Renzi, sembra pensata comunque per rendere il nuovo strumento di fatto inapplicabile. Una soglia, infatti, divide in due il nuovo reato: pena da 2 a 8 anni per chi reimpiega i soldi o i beni frutto di un reato da lui stesso commesso, nel caso questo sia punibile nel massimo con 5 anni. Sotto la soglia, pene risibili - da 1 a 4 anni - e relativa impossibilità di chiedere intercettazioni o effettuare arresti. Peccato, a questo punto, che sotto la soglia ci siano cosette come l’appropriazione indebita e la dichiarazione fiscale infedele, reati che sarebbe assai utile perseguire in questo contesto. Depotenziato, invece, un pezzo dell’emendamento del governo che sosteneva che non si dà autoriciclaggio “quando il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla utilizzazione o al godimento personale”. Come dire: autoricicla solo chi lo fa per altri.

il Fatto 5.12.14
Portato dal Pd di Roma
Amici loro
Buzzi, arrestato nella maxi-retata, era alla cena del premier all’Eur
Paura per una prossima valanga di indagati
Il sistema appare troppo permeabile. A chi toccherà adesso?
di Wanda Marra

Salvatore Buzzi, il gestore degli affari della cupola, colui che aveva il libro paga di ‘mafia capitale’, alla cena di fundraising del Pd di Roma c’era. Portato dal partito cittadino. Magari da Mirko Coratti, allora presidente dell’assemblea capitolina, e ora dimissionario, perché tra gli indagati. Anche lui seduto a uno dei tavoli del Salone delle Tre Fontane di Roma.
“UN PARLAMENTARE magari portava due o tre ospiti. I quali a loro volta ne portavano altri. La segreteria nazionale aveva un elenco parziale, dei primi ‘invitati’. Non di tutti”. Classico sistema di scatole cinesi per le cene di fundraising del Pd, organizzate una a Milano, l’altra a Roma, il 6 e il 7 novembre. Evento in grande, con comizio del premier e 1000 euro minimo di sottoscrizione per i partecipanti. Un migliaio e più a serata. Controllo su chi entrava? Sostanzialmente, nessuno. Organizzazione a cura del tesoriere, Francesco Bonifazi e della responsabile Comunicazione del Pd, Alessia Rotta. Con gli elenchi che si aggiornavano ora dopo ora e nessun filtro particolare. “Ci sarà di tutto. Meglio restare fermi al proprio posto e non muoversi. Non sai mai chi ti avvicina, con chi rischi di farti fotografare”, confidavano i dem, prima dell’appuntamento. Soprattutto quello romano, dove ci si aspettava in blocco l’arrivo di palazzinari e personaggi dubbi. A Roma, il misto affari-politica è sempre stato molto presente e molto scivoloso.
Timori e preoccupazioni un mese dopo sembrano più che giustificati. “Non ne ho la più pallida idea”, rispondeva Matteo Renzi a Bersaglio Mobile alla domanda se ci fossero alla cena dell’Eur personaggi coinvolti nell’inchiesta “Mondo di mezzo”. Dallo stesso Salvatore Buzzi, in poi. Ma poi assicurava: “Ci sono gli elenchi. È tutto trasparente”. Ecco, tutto trasparente non è. Il giorno dopo trovare la lista completa è sostanzialmente impossibile. I vertici dem in blocco fanno muro. La lista non si può dare perché serve la liberatoria dei contribuenti, secondo la legge della privacy. Ma gli organizzatori stessi ce l’hanno? Loro provano a dire di sì. Ma per deduzione: perché, i bonifici devono essere stati fatti. “Tutti prima? E davvero da tutti? L’elenco completo non ce l’avrai mai. Se qualcuno si è comprato tutto il tavolo, il tavolo è a nome di un altro. E chi c’era non si sa”, confessavano ieri i renziani. “Buzzi c’era? Non lo so, non so neanche com’è fatto”, la risposta standard a metà giornata. Qualcuno la buttava in politica: “In realtà, essendo il capo delle Cooperative non ci sarebbe neanche stato motivo di tenerlo fuori”.
Renzi, per parte sua, ha difeso la necessità e l’opportunità del fundraising: perché, ha spiegato in diretta tv, le cene servivano a evitare la cassa integrazione per i dipendenti democratici.
Ma a bubbone scoppiato, dimostrano sostanzialmente una cosa: che il segretario e i suoi non avevano il controllo di chi entrava. E di chi pagava. Non c’erano Luca Odevaine e Eugenio Patanè, assicurano adesso dal Pd. Altre presenze scomode, note e ignote, non si possono escludere. Riccardo Mancini? “Non lo so - dicono dai vertici cittadini - chiedete al Pd Roma”. Un modo per sottolineare la distanza, per marcare la differenza. Renzi e i suoi erano consapevoli che lì in mezzo c’erano tante cose che non tornavano. Ma sono arrivati prima i magistrati.
Per esempio, in extremis fu cancellato un tavolo di Marco Di Stefano, indagato dell’ultima ora. Che infatti alla Leopolda moderava un tavolo. Il nervosismo ieri serpeggiava tra dem di vario ordine e grado. Perché - peraltro - l’inchiesta non è finita qui. E tutti si aspettano, che arrivino nuovi indagati e nuovi arrrestati. Dopo il Commissariamento del Pd Roma, si ragiona anche su quello del Pd Lazio.
POLITICAMENTE, c’è un filo rosso che unisce la mancanza di rinnovamento e il mancato controllo del partito a livello locale, che va da nord a sud. E mette insieme varie storie e varie questioni. Dall’Emilia Romagna, dove è rimasto in piedi il sistema politico di Errani, al Pd romano, alla Campania, dove trovare un candidato per le primarie spendibile, diverso da personaggi come Andrea Cozzo-lino e Vincenzo De Luca è molto difficile.

il Fatto 5.12.14
Poletti, rovinato da una coop
Negli anni ha frequentato più voilte la “29 giugno”. Oggi si dice “indignato dell’accostamento”
di Salvatore Cannavò

“Sto male nel vedere il mio nome messo vicino alle schifezze che ci sono. Sono indignato”. La reazione di Giuliano Po-letti di fronte alla foto che lo vede a tavola con una parte dei componenti di “Mafia Capitale”, è netta. L’immagine ha fatto il giro di giornali e tv e raffigura il ministro, all’epoca (2010) presidente di Legacoop, insieme a Salvatore Buzzi, Gianni Alemanno, Franco Panzironi, Daniele Ozzimo e altri protagonisti di questa storia criminale.
“È intollerabile”, dice il ministro, vedersi associato a certe persone e a certe “schifezze”, “è ovvio che chi ha un ruolo pubblico incontri tante persone. Ero convinto che Buzzi fosse una persona perbene”. La reazione è comprensibile, soprattutto dopo la lettura, ieri mattina, dell’articolo di Roberto Saviano, su Repubblica, con cui lo scrittore chiede al ministro di “spiegare quella cena”.
EPPURE, DI FOTO CON SALVATORE BUZZI, Po-letti ne ha fatte altre. Più volte. Basta prendere il Magazine della cooperativa “29 giugno”, la creatura dell’uomo del Pd che, secondo l’accusa, “si occupa della gestione della contabilità occulta della associazione e dei pagamenti ai pubblici ufficiali corrotti”. La foto di Poletti campeggia proprio accanto a quella di Buzzi nel numero dedicato all’approvazione del bilancio 2013. Nell’editoriale di apertura, Buzzi spiega la scelta di dedicare la copertina a Poletti non è casuale, e “all’amico ministro” invia un caloroso saluto. Giuliano Poletti, all’epoca della cena, era ancora il presidente della Legacoop e quindi, come spiegano anche nella potente associazione nazionale, era piuttosto normale che presenziasse alle assemblee delle strutture associate. La cosa curiosa, però, è che anche l’anno precedente, Po-letti abbia trovato il tempo di andare alla “29 giugno”. La Legacoop conta 12.234 cooperative, ma nella struttura romana, che si è rivelata uno dei pilastri del sistema della banda Carminati, i rapporti sono più che buoni. E infatti, la sua foto si ritrova nella prima pagina della rivista, ancora accanto a Buzzi. Questa volta, inoltre, nel numero del Magazine, troviamo anche una sua intervista “esclusiva” in cui indica nel sistema delle cooperative sociali un orizzonte obbligato per tutto il sistema delle cooperative. Il rapporto con Buzzi è così solido che ancora, nel 2014, in occasione dell’approvazione del bilancio 2013, l’uomo, già in cella per omicidio (uscito dal carcere e in grado di creare la nuova attività) non dimentica l’amico, ormai ministro, e conclude la sua relazione con un “augurio di buon lavoro: al ministro Giuliano Poletti, nostro ex Presidente nazionale che più volte ha partecipato alle nostre assemblee; al governo Renzi affinché possa realizzare tutte le riforme che si è posto come obiettivo, l’unico modo per salvare il nostro Paese dalla stagnazione e dall’antipolitica”.
POLETTI NON È INDAGATO e non ha compiuto nessun illecito. Buzzi, probabilmente, lo ha utilizzato come fiore all’occhiello da esibire in pubblico. Particolare che si può desumere da un altro particolare. Nell’ottobre del 2013 il presidente della “29 giugno” scrive all’amministratore del gruppo finanziario Ugf (Unipol), Carlo Cimbri per lamentare il mancato ottenimento di un finanziamento. “Troppo esposti” risponde l’Unipol alla richiesta di un prestito a medio termine di 800 mila euro. I debiti della cooperativa, in effetti, ammontano a 18 milioni e con Unipol la “29 giugno” ha, a quella data, linee di credito già aperte per 18,8 milioni. Buzzi invia la lettera “per conoscenza” a due persone: al presidente della Repubblica (niente di meno) ma anche al presidente di Legacoop, Giuliano Poletti. Per far capire l’importanza della propria situazione, poi, invia a Cimbri la relazione di approvazione del bilancio, sottolineando che questa “si è tenuta alla presenza del presidente nazionale di Legacoop Giuliano Poletti e dell’ad di Banca Prossima, Marco Morganti”. Sarà proprio Banca Prossima, del gruppo Intesa Sanpaolo, specializzata in progetti “no profit”, a mettere a disposizione la propria piattaforma Terzo valore, per un progetto di raccolta fondi da 900 mila euro avviato dopo il rifiuto di Unipol.
Per Poletti non c’è nulla da sospettare, le cose gli accadono intorno “a sua insaputa”. Il ministro, del resto, nella sua presidenza di Legacoop era sembrato sonnecchioso anche nel caso del coinvolgimento di Manuntecoop, e del suo presidente, Claudio Levorato, nelle inchieste relative a Expo 2015. Anche in quel caso, la casa-madre non riusciva a capire cosa avveniva nella, corposa, periferia del sistema cooperativo.
AD ATTACCARE POLETTI non c’è solo la destra ma, soprattutto, il sindacato una volta parte integrante del mondo delle coop. La Cgil sta conducendo da tempo una campagna contro “una progressiva opacità, un’assenza di legislazione sulle cooperative spurie, sul terzo settore” che caratterizza il sistema degli appalti pubblici. In tutti gli incontri sono avanzate richieste in tal senso “ma finora non è accaduto nulla” fanno sapere da Corso Italia. Ieri Susanna Camusso ha ventilato anche la possibilità che Poletti risponda in Parlamento di quanto avvenuto. Anche perché, secondo l’ex assessore della giunta Alemanno, Umberto Croppi, in quella cena si festeggiava “un trucco contabile” tramite il quale il Comune stanziò finanziamenti per le cooperative sociali. Anche di questo Poletti non si è accorto.

La Stampa 5.12.14
Fatture gonfiate e acquisto di terreni
La grande torta dei campi nomadi
Così la cooperativa “29 giugno” lucrava sulla gestione degli spazi per i rom
di Grazia Longo

Quando si dice la scuola del carcere. È proprio dietro le sbarre che Salvatore Buzzi - 59 anni, condannato a 24 anni per omicidio del suo ex socio impiegato di banca che gli riciclava assegni rubati - s’inventa imprenditore per gestire i campi nomadi. Nell’85 - uscirà dalla prigione nel ’91 - crea la cooperativa «29 Giugno» (nome che deriva da una rappresentazione teatrale proprio in quel giorno), coinvolgendo ex detenuti, che fa parte del consorzio Eriches. Una onlus che controlla direttamente tredici cooperative e che - al 31 dicembre 2013, quando si focalizza l’analisi dei carabinieri del Ros - ha un fatturato di 51 milioni di euro e 1200 dipendenti. Con un passato di vicinanza all’estrema sinistra, Buzzi non ha esitato un momento ad allearsi con il Nero Massimo Carminati per macinare milioni di euro attraverso gare d’appalto truccate e fatture gonfiate.
Fiore all’occhiello della gestione criminale dei campi rom è quello a Castel Romano. Ospita 1400 nomadi e dà lavoro a 986 dipendenti di cui il 32% «lavoratori svantaggiati». In altre parole ex detenuti, tra cui anche nomi noti come Pino Pelosi (riconosciuto con sentenza definitiva il colpevole dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini) e il boss Luciano Casamonica, utilizzato come «mediatore culturale» in virtù dei suoi legami con le etnie italo-rom.
Il campo rom ovviamente non risente dell’inchiesta e continua ad essere attivo. Lo stesso vale per la cooperativa «29 giugno», posta sotto sequestro e già affidata ad un amministratore giudiziario.
Impeccabile e collaudata la macchina del crimine messa in piedi da Buzzi, braccio operativo di Carminati, svelata dai carabinieri del Ros di Roma, guidati dal colonnello Stefano Russo. Il giro d’affari intorno a Castel Romano viaggia su due binari. Il primo è relativo alle fatture gonfiate in modo che da un iniziale investimento di 1 milione e 200 mila euro - versati a metà da Buzzi e Carminati - il guadagno finale per la gestione del campo inizialmente raddoppia e poi sfiora i 5 milioni di euro.
Il 24 maggio 2012 la giunta Alemanno deliberò «l’affidamento del servizio di gestione del campo nomadi per un importo di 2.900.000 euro iva inclusa». Ma a questo si deve aggiungere la «variazione di bilancio fatta appositamente per favorire Buzzi: vennero stornati 5 milioni di euro dal capitolo assistenza minori in favore del campo rom». Un regalo all’amico Buzzi, e nel timore di eventuali vendette del killer della Magliana Carminati. Come si evince da un’intercettazione del segretario di Alemanno, Lucarelli (indagato anche lui per associazione mafiosa) che al presidente della quinta commissione Scozzava, dopo l’approvazione della variazione di bilancio confida: «Meno male che è finita bene, sennò chissà come andava a finire». Un’altra registrazione dell’orecchio investigativo spiega invece il ruolo di Carminati per garantire l’appalto a Salvatore Buzzi: «Perché a me ’na grande mano me l’ha data… per quel campo nomadi me l’ha data Massimo perché un milione e due, seicento per uno, chi cazzo ce l’ha un milione e due… cash? [...] le opere di urbanizzazione, d’impresa che poi… ce siamo divisi chi pagava chi. Io me so’ preso le casette mobili, le commissioni… e lui s’è preso tutta la costruzione del campo».
Ma non finisce qui. Non pago della gestione del campo rom - inaugurato nel novembre 2012 con tanto di strette di mano e sorrisi ai fotografi da parte dell’allora sindaco Alemanno - Buzzi tramite un’agenzia immobiliare a lui riconducibile acquista i terreni intorno al campo rom iniziale. Così incassa pure l’affitto del terreno da parte del Comune.
E al capitolo campo rom, si aggiunge quello per «la somministrazione dei pasti al centro profughi». Sempre con Carminati che dice: «... calcola che stiamo parlando di pasti intorno ai due euro e mezzo al giorno, eh, il pasto. Quindi calcola che una persona sono sette, sette e venti, sette e trenta più, però su mezzo... ogni pasto finisce che lui se prende otto e trenta, cioè è un bel ..alla fine sembra una cazzata ma alla fine quando fai grandi numeri so’ soldi eh!».

Repubblica 5.12.14
Il business dell’accoglienza
“Noi fatturiamo 40 milioni l’anno” Il clan si arricchiva su profughi e rom
“In sei mesi famo doppietta”, prometteva Carminati a imprenditori interessati a “fare affari” con l’immigrazione
Così, tra false fatturazioni, insediamenti abusivi e corruzione, guadagnavano “più che con la droga”
di Fabio Tonacci e Maria Elena Vincenzi

ROMA Quello che per l’Italia è emergenza, per Mafia Capitale è business. «In sei mesi famo doppietta », prometteva il “guercio” Carminati agli imprenditori, ingolositi dall’idea di guadagnare il doppio di quanto investivano nell’affare dell’accoglienza dei profughi e dei campi rom. «Abbiamo chiuso con 40 milioni di fatturato, gli utili li facciamo sugli zingari, sull’emergenza abitativa e sugli immigrati», calcolava l’anno scorso Salvatore Buzzi, l’uomo delle cooperative sociali. Quel «fruttano più della droga» captato dalle cimici del Ros, poi, ne era il logico corollario. Eccolo il sacco di Roma, è cominciato così. Lucrando sui posti e sugli spazi che la città non aveva, prima che intervenisse la mano “amica” di Luca Odevaine.
117MILA EURO ALLA FAMIGLIA ODEVAINE
Oggi i profughi e i richiedenti accolti a Roma sono 2.581, nel 2014 costeranno allo Stato circa 35 milioni di euro più altri 7 messi dal Campidoglio. Metà di questa torta è stata, fino al giorno degli arresti, roba loro. Anche e soprattutto grazie al lavoro che Odevaine, ex segretario di Walter Veltroni, ha fatto con il Viminale, lui che, da ex capo della polizia provinciale, sedeva nel Tavolo di coordinamento nazionale per l’accoglienza dei rifugiati. «I posti Sprar che si destinano ai comuni — spiega Odevaine al suo commercialista il 27 marzo scorso — fanno riferimento a una tabella, tanti abitanti tanti posti... Per quella norma a Roma toccherebbero 250 posti.... Un mio intervento al Ministero ha fatto in modo che fosse portato a 2.500». Aggiungendo un dettaglio che dettaglio non è. « Loro... secondo me ce n’hanno almeno un migliaio».
Loro sono Carminati e Buzzi e il “disturbo” di Odevaine si paga. Sul libro nero della contabilità parallela di quella che i pm definiscono Mafia Capitale, risulta percepire uno “stipendio”. «Cazzo gli diamo 5mila euro al mese da tre anni! — si sfoga Buzzi con sua moglie Alessandra in un’intercettazione — c’abbiamo gli appartamenti affittati alla moglie, che paghiamo il figlio e i soldi se li piglia lui! Ma dai...». E infatti, annota il gip nell’ordinanza, la “Eriches 29 giugno”, la capogruppo del consorzio di cui Buzzi è amministratore, «versa sui conti della moglie e del figlio di Odevaine una somma pari a 117.200 euro, senza una plausibile giustificazione economica ». E con false fatturazioni.
OCCUPAZIONI IN PERIFERIA
Ottenuti i profughi, il compagno B. e il “guercio” devono trovare dei campi e delle strutture, e farsi dare poi gli appalti per la gestione. Si attrezzano soprattutto per organizzare Misna, cioè quelli per minori stranieri non accompagnati, perché da tariffario del Viminale, un adulto costa allo Stato “solo” 35 euro, un minorenne invece 91 euro. Più bambini, più soldi. Buzzi arriva addirittura a organizzare un’occupazione abusiva. «Ha individuato un edificio disabitato nella disponibilità del comune di Roma da occupare in via del Frantoio — scrive il gip — risulta essere stata progettata per trasferirvi un numero imprecisato di minori (a partire dal 19 febbraio 2013 saranno circa 230, ndr), previo interessamento del presidente del V Municipio affinché dopo l’occupazione non si sarebbe proceduto allo sgombero». Carminati intuisce subito dove andare a parare. «Al mese c’hai due o tre sacchi di guadagno... capito? Stiamo a parlà deinte-ressi al 40 per cento», dice a uno degli imprenditori collusi, Giuseppe Ietto, “l’ingegnere”, per i sodali di Carminati.
I PASTI PRECOTTI
La galassia di cooperative di Buzzi ottiene, grazie all’intercessione di Odevaine, la gestione dei centri per minori di Anguillara Sabazia (fino al 22 febbraio 2013, poi è stato chiuso dal sindaco per inagibilità dei locali), di via del Frantoio, di via Silicella (dal giugno 2013 in poi, 600 posti), di via Maremmana. Altri due nei comuni di Ciampino e Licenza, fuori Roma. Buzzi lavora anche per organizzare la cucina del carcere femminile di Rebibbia. Appalti su cui i carabinieri del Ros e i finanzieri del nucleo di polizia di tributaria di Roma stanno ancora indagando. Anche perché i pasti in queste strutture, (16.240 al mese solo per quello di via del Frantoio), li prepara sempre, o quasi, un’a- zienda: la Unibar di Giuseppe Ietto, uno degli imprenditori collusi con la Mafia Capitale finiti nell’inchiesta. «Un ragazzo nostro», lo definisce Carminati che gli ha anche fatto assumere sua sorella, Micaela Anna Maria. È proprio il “guercio” a spiegargli il “giochino” per fare di un’emergenza umanitaria, un bancomat per la banda. «Loro (l’amministrazione pubblica, ndr) sono disposti a pagare il pasto 7 euro per dire, invece di 5 o 4... lì devi avere dei margini da spavento». E poi: «Lo so sembra una cazzata ma alla fine quando fai i grandi numeri so’ soldi eh!».
IL CAMPO DI BUZZI
Chi lavora con Carminati, però, sa che il 20 per cento di quello che guadagna sulla piazza di Roma, finirà a lui.
Oltre a Ietto, tra i collusi c’è Agostino Gaglianone, che ha un’azienda di movimento terra, la Imeg. Nelle carte dell’inchiesta i magistrati annotano anche l’esecuzione del parco giochi per bambini fatta dalla Imeg nel terreno di Marco Staffoli, marito di Rosella Sensi, ex presidente della A. S. Roma. È a Gaglianone che la banda affida l’ampliamento e la manutenzione dei fabbricati mobili del grande campo rom di Castel Romano gestito dalla Eriches 29, il più grande della città (989 nomadi, 5 milioni di euro di fondi ricevuti solo nel 2013). L’uomo è «a disposizione », non muove un passo che il guercio non voglia. Nelle cucine, invece, mettono come al solito la Unibar. «Io me so’ prefisso, me deve fa 500mila all’anno », dice Ietto alla moglie. 500mila euro di guadagno, meno i 100.000 per il boss.
Era Carminati a gestire personalmente «la faccenda degli zingari», con la complicità di funzionari del Campidoglio. Il suo gancio era Emanuela Salvatori, responsabile del Coordinamento amministrativo per l’attuazione del piano nomadi. Una figura centrale da avvicinare per mettere le mani sul business e da remunerare facendo assumere la figlia della donna, Chiara Derla, in una delle aziende nelle mani della Mafia Capitale.

il Fatto 5.12.14
Ritorni
Frodo Orfini nella Terra di Mezzo democratica
di Fabrizio d’Esposito

“La Via prosegue senza fine / Lungi dall’uscio dal quale parte. / Ora la Via è fuggita avanti, / Devo inseguirla ad ogni costo / Rincorrendola con piedi alati / Sin all’incrocio con una più larga / Dove si uniscono piste e sentieri. / E poi dove andrò? Nessuno lo sa”.
LA CITAZIONE è del tolkeniano Signore degli Anelli e sembra perfetta per la nuova, ignota missione di Matteo Or-fini. Anche perché è presa alla lettera da un pezzo di una decina d’anni fa del sito Left Wing, di cui Orfini è animatore sin dagli ormai lontanissimi tempi dalemiani. E furono proprio gli attuali Giovani Turchi diversamente renziani e capitanati dal barbudo Matteo a riscoprire da sinistra quel Tolkien adorato dai rautiani missini e da tutto l’universo neofascista. Adesso Orfini è cresciuto, è maturo, da segretario della sezione Mazzini (quella di D’Alema nel quartiere Prati a Roma) è diventato presidente nazionale del Pd, e in questo tardo autunno romano gli tocca pure fare il novello Frodo Baggins di un partito finito nel mondo di mezzo fascio-mafioso, trasfigurazione affaristica della terra di mezzo tolkeniana. Sublime il tweet di ieri dello stesso Orfini: “Mercoledì con @ignaziomarino e con nostri circoli ci vediamo al Laurentino 38, dove il Pd deve stare: fuori dal mondo di mezzo, nel mondo reale”. Sulla missione di Frodo Orfini, ennesimo Matteo che ha quarant’anni e fa politica, però gravano numerose incognite. La prima è decisiva. Chi è l’oscuro signore di Mordor, Sauron, che vuole riprendersi l’anello del potere e contro cui dovrà combattere? Il sospetto che serpeggia dall’altro giorno, quando Renzi ha investito Orfini come commissario del Pd romano, è che l’ex dalemiano della sezione Mazzini sia alquanto isolato. Attenzione: isolato ma non alieno in senso flaianesco come il vituperato sindaco Marino. Per un semplice motivo: Orfini è dentro la storia del Partito della Capitale e alcuni deputati sottovoce s’interrogano in maniera perfida: “Questa scelta non la capiamo. Cosa succederebbe qualora gli schizzi di fango dovessero sporcare quelli più vicini a Orfini in consiglio comunale o alla Regione? ”.
UN MODO DIRETTO, questo, per mi-il cammino dell’hobbit di sinistra. Racconta un esponente romano del Pd: “Matteo si è presentato male, ha detto che era tutto da buttare. Poi nare sin dall’inizio si è corretto, ma l’esordio è stato disastroso”. Le armate antiorfiniane schierate in difesa del loro potere sono note e la più nota di tutta è quella che fa capo a Goffredo Bettini, al quale il ruolo di Sauron calza in modo naturale. Bettini è stato il fine inventore del modello Roma rutellian-veltroniano, sfociato infine nel mortale abbraccio cameratesco con il Carminati del mondo di mezzo.
Oggi il Pd romano è una federazione di potentati, dove spicca un altro capo-corrente inguaiato, Marco Di Stefano, per una tangente milionaria su due palazzi affittati dalla Regione. Un’altra inchiesta devastante per il Pd ma incassata con un grande silenzio di paura nelle settimane scorse. Chiosa un parlamentare democratico, sempre della Capitale: “Se sommiamo le presunte tangenti rosse dell’ordinanza su Carminati non arriviamo a un centesimo di quella di Di Stefano”. Questione di proporzioni, vero. Ma l’impatto di Mafia Capitale va oltre il romanzo e l’immaginazione.
Bettini è stato il grande elettore del sessantenne Lionello Cosentino a segretario del Pd di Roma, dimessosi per fare posto al commissario Orfini. Cosentino venne eletto in una competizione strana, terzo incomodo tra un giovane turco, Tommaso Giuntella, e un renziano, Tobia Zevi. Quando lo seppe, a Massimo D’Alema scappò una battuta delle sue: “Cosentino? È un po’ come se io mi candidassi al circolo Mazzini, diciamo... ”. Bettiniani, il caso Di Stefano e poi la frastagliata area centrista, da Gasbarra a Franceschini. Sono in molti quelli che rischiano di pagare la rottamazione coatta (nel senso di forzata) di Frodo Orfini. E insieme a Bettini, un altro arrabbiato sarebbe il governatore Nicola Zingaretti, da una vita indicato come potenziale leader nazionale. La missione catartica nel mondo di mezzo è al via e il 10 dicembre debutterà in pubblico. Il giorno dopo, però, anche Pippo Civati terrà una manifestazione sulla questione morale. Con Giancarlo De Cataldo e Walter Tocci. “E poi dove andrò? Nessuno lo sa”.

Repubblica 5.12.14
“La colpa è anche nostra, sottovalutati gli allarmi”
Ieri il lungo colloquio con il sindaco Marino: no allo scioglimento del consiglio
Il vizio consociativo: troppe frequentazioni con la destra che governava la città
Il partito è stato preso in ostaggio da gruppi correntizi organizzati protagonisti di faide permanenti
di Giovanna Casadio

ROMA . «Il primo passo sarà rivedere il tesseramento, di certo abbiamo sottovalutato il malaffare ». Matteo Orfini ha trascorso la prima giornata da commissario del Pd nella tempesta tra il Nazareno, la sede del partito, il Campidoglio, la Camera e solo a tarda sera è tornato a casa al Tufello. «Sono stanco sì, è stata una giornata faticosa cominciata alle 8,30 per accompagnare mia figlia a scuola...», e proseguita con il lungo colloquio con il sindaco Ignazio Marino.
«Marino è preoccupato ma tonico, combattivo. È stato l’argine ai fenomeni criminali che cercavano di infiltrare completamente la macchina comunale. Marino l’ha reso difficilmente aggredibile». Orfini difende il sindaco e boccia l’ipotesi di scioglimento del Campidoglio per mafia, come chiedono i 5Stelle. Ma al prefetto che si riserva di decidere se lo scioglimento sia indispensabile, i dem come rispondono? «Il prefetto fa le valutazioni che deve, la mia è una considerazione politica e ritengo al contrario che la richiesta dei 5Stelle sia un favore alla mafia ».
Però c’è stata una sottovalutazione costante dell’allarme che pure veniva dato nel partito stesso. Marianna Madia, il ministro della Pubblica amministrazione, disse che nel Pd romano c’erano associazioni a dequa Fu ai tempi delle parlamentarie, la competizione per scegliere i candidati nelle liste delle politiche. Ebbe ascolto? «Ci sono state sottovalutazioni. Lo spaccato generale colpisce: è agghiacciante. Io ovvia- spero ancora che molti di quelli finiti nell’inchiesta possano dimostrare la loro innocenza ».
Orfini è stato scelto mercoledì da Renzi per raddrizzare la barca di un Pd romano che fa aclinquere. da tutte le parti. Scelto perché presidente del partito e romano, con una conoscenza a 360 gradi della situazione capitolina. «E poi - spiega il neo commissario - dobbiamo mostrare la rabbia ma anche l’orgoglio: il Pd di Roma è fatto di militanti generosi, che in queste ore si sono fatti sentire per dire che bisogna ricostruire, reagire». Non è facile bonificare una situazione in cui il sottobosco di destra terroristica si è intrecciato con la politica trasversalmente, coinvolgendo i Dem, «anche se con alcuni elementi marginali: sono casi isolati ma gravissimi», ragiona Orfini. «Stiamo facendo mea culpa, altrimenti non ci sarebbe stato il commissariamento. Il Pd in questi anni è stato preso in ostaggio da gruppi correntizi organizzati che hanno pensato più a faide permanenti che al partito». Però è una analisi parziale, aggiunge. ««La della criminalità è stata quella di mettere le mani su Roma usando le debolezze di una parte della politica e di una parte dell’apparato dello Stato. Emerge così un sottobosco di funzionari, staff, capi di gabinetto, un pezzo di macchina dell’amministrazione insomma che si è fatta infiltrare».
L’altro elemento che ha scatenato la patologia, secondo il neo commissario, è il consociativismo: «Politicamente ci sono stati anni in cui c’è stata un’eccessiva consuetudine con la destra di Alemanno che governava la città». Da oggi Orfini sarà alle prese con il gruppo consiliare democratici, i presidenti dem dei municipi, i circoli. E intanto ha sentito Goffredo Bettini, Angelo Rughetti, Marianna Madia e tutti i dirigenti cittadini: «Ora usciamo dal mondo di mezzo e rientriamo in quello reale».

Repubblica 5.12.14
L’amaca
di Michele Serra

PARE che il Pd romano, nella persona del suo neocommissario Orfini, voglia ripartire da una “grande assemblea pubblica”, faccia a faccia con iscritti, elettori, cittadini. Non ci credo neanche se lo vedo — viene spontaneo dire — perché il progressivo ritiro della politica (e dei politici) dalle sedi di partito, dalle strade, dalle stanze che furono il suo brodo primordiale, appare ormai irreversibile, come l’estinzione di una specie, come la morte di un’epoca. A parte l’assemblearismo virtuale dei Cinque Stelle, che a dispetto delle migliori intenzioni non è una cura, ma una deriva settaria e dunque la conferma della malattia; la politica nel suo complesso si è ritirata dal corpo vivo della società, come se considerasse una perdita di tempo quel massacrante ma provvido dibattere di tutto e con tutti, come se un non detto “lasciateci lavorare, non abbiamo più tempo per le chiacchiere” avesse diviso per sempre gli eletti dagli elettori. Tanto che oggi la stessa parola “assemblea” odora di anacronismo. Eppure qualcosa ci dice che ripartire da lì, da quel basso così alto che era “la vita di partito”, le sezioni piene, le discussioni accese, le liti appassionate, sia l’unico rimedio percepibile per ciò che i politologi chiamano “crisi della rappresentanza”. Uscire di casa, cercare gli altri, parlare con loro. Oppure rimanere rinchiusi ciascuno nel suo guscio e davanti al suo video, dove leggere (a cose fatte) che tutto va in malora, nonostante noi, senza di noi.

La Stampa 5.12.14
Dal tabaccaio al caldarrostaio
Il sottobosco della politica romana invischiata nell’inchiesta
di Mattia Feltri

Fondamentalmente sono uomini sfortunati. Prendete Tommaso Giuntella, trent’anni, ex boy scout. Faceva parte del terzetto di coordinatori del comitato di Pierluigi Bersani al tempo delle primarie vinte contro Matteo Renzi. Gli altri due erano Alessandra Moretti e Roberto Speranza, che sono diventati renziani e hanno fatto un carrierone: lei europarlamentare e candidata a governare il Veneto, lui capogruppo alla Camera; a Giuntella, poi sconfitto alle primarie per la guida della federazione romana da Lionello Cosentino, era rimasto più nulla, e ora gli capitano pure le intercettazioni in cui la ghenga di Massimo Carminati si vanta di manovrarlo. Uomini sfortunati come Luca Gramazio, 34 anni, ex capogruppo di Forza Italia in Regione, ma soprattutto figlio di Domenico, un tempo missino, in seguito senatore di An noto come il Pinguino, impietoso soprannome per le braccia leggermente corte, e fornitore ufficiale della mortadella che il collega Nino Strano si pappò in aula, a Palazzo Madama, il giorno della caduta di Romano Prodi. Sfortunato, Luca, perché papà lo portò a un pranzo proprio con Carminati al ristorante «Dar Bruttone», zona San Giovanni. Capite? Se il ristorante si fosse chiamato «da Mimmo» ci sarebbe almeno poco terreno per l’ironia.
E invece va così. Il mondo della Cupola o - com’è stato detto - del nuovo Cupolone: è attraversato da personaggi dalle notevoli biografie. Una delle migliori appartiene a Mirko Coratti, quarantunenne di Monte Sacro, presidente del Pd dell’Assemblea capitolina. La cosa è un po’ scomparsa dai profili ufficiali, ma Coratti fu un gran berlusconiano: una decina d’anni fa, sempre dal consiglio comunale, chiese la testa di Antonio Tajani e minacciò di incatenarsi al cancello di Palazzo Grazioli. Non ce ne fu bisogno, Berlusconi lo ricevette e gli disse: «Mirko, i giovani sono il futuro». Niente da fare, Mirko lasciò Forza Italia per passare all’Udeur e da lì alla sinistra, dove ha portato in dote i voti dei tabaccai: lui ne è il leader di riferimento, e infatti si trovano sue ficcanti proposte sulla sicurezza dei tabaccai, gli orari dei tabaccai, i convegni dei tabaccai e così via. Allo stesso modo Giordano Tredicine, trentaduenne consigliere di Forza Italia, è la quinta colonna dei caldarrostai, e in più in genere di ambulanti e camion bar; Tredicine (che compare nelle intercettazioni ma non è indagato) è l’ultimo erede di una dinastia cominciata col nonno Donato, che arrivò a Roma dall’Abruzzo per vendere caldarroste. «Dacce du’ castagne, Tredicine, dacce du’ castagne» è il coro di scherno che talvolta si alza nell’aula Giulio Cesare durante le sedute del consiglio.
Insomma, il mondo è un po’ questo. È il mondo già molto raccontato di Luca Odevaine, prossimo ai sessanta, ex vicecapo di gabinetto di Walter Veltroni; una volta si chiamava Odovaine, ma cambiò il nome per nascondere una condanna indultata per droga. Non se n’è accorto nessuno, tranne il Dipartimento di Stato di Washington - ufficio un po’ meno dispersivo dei nostri - che ancora pochi mesi fa ha negato a Odevaine il visto di ingresso. Di lui vanno ricordati gli anni giovanili in Legambiente, quando guidava assalti alla sede Renault di Roma per protestare contro i test atomici a Mururoa, o si girava l’Italia sulla Goletta Verde, e già terrorizzava i sindaci.

Corriere 5.12.14
Favori, affari e invidie Così il Pd romano è finito nelle sabbie mobili
di Alessandro Capponi

ROMA Non è vero che la politica sia destinata, ormai, ad arrivare sempre dopo la magistratura: «Nel Pd a livello locale, e parlo di Roma, facendo le primarie dei parlamentari ho visto, non ho paura a dirlo, delle vere e proprie associazioni a delinquere sul territorio». Era il giugno 2013, e per quelle parole — pronunciate in un intervento pubblico — l’attuale ministro Marianna Madia fu ampiamente criticata. Due mesi prima uno dei membri della direzione del Pd Lazio, Cristiana Alicata, in occasione delle primarie pd per l’elezione del sindaco, denunciò «le file di rom ai seggi», parlò di «voti comprati». C’erano tanto di foto, con i rom in fila ai seggi, ma il risultato di quelle frasi fu, più o meno, solamente uno: «Mi dimisi dal Regionale — racconta oggi Alicata — perché le polemiche furono feroci, mi diedero della razzista». Dai vertici alla base, il sentimento è lo stesso: «Il problema a Roma — dice il segretario del circolo Trastevere, Alberto Bitonti — è un sistema ormai diffuso, bisogna fare i conti con i gruppi di potere, coi signori delle tessere».
Benvenuti nel Pd Roma, o in quel che ne resta dopo l’inchiesta «Mondo di Mezzo», che ha svelato sì il modo nel quale, secondo i magistrati, il centrodestra guidato da Gianni Alemanno ha governato Roma, ma anche questa prossimità, questo «consociativismo» del Pd, che in quegli anni era, ufficialmente, all’opposizione. Un po’ morbida, si disse in città in alcuni momenti, tanto che l’allora capogruppo pd, Umberto Marroni, vicino alla cooperativa di Salvatore Buzzi, secondo alcuni era «il delegato del sindaco all’opposizione». Lui si indignò a sentire come lo chiamavano, e anche oggi che è deputato protesta per gli accostamenti del suo nome all’inchiesta: «Evidentissimo caso di millantato credito. La mia scelta di partecipare alle primarie nulla ha a che vedere con l’inchiesta». Precisazione forse necessaria, nelle intercettazioni il capo delle cooperative sociali, Salvatore Buzzi, dice: «Noi lanciamo Marroni alle primarie!».
Di certo in molti, oggi, descrivono il partito locale con due sole parole: sabbie mobili. O con una: pantano. Perché «nella migliore delle ipotesi — spiega un deputato vicino a Renzi — il Pd della città non ha avuto né una visione, né gli anticorpi necessari». Le frasi, pronunciate in cambio dell’anonimato, oggi si sprecano: «Non c’è stata una classe dirigente vera, non si salva nessuno, politicamente sono tutti responsabili».
Ecco, è scattato il tutti contro tutti. C’è chi tira in ballo le vecchie gestioni (Rutelli-Veltroni-Bettini): «Furono la migliore classe politica ma non hanno lasciato un’eredità degna di quel passato». Chi accusa la nuova egemonia romana, col patto siglato prima delle Europee tra i turborenziani di Lorenza Bonaccorsi, i popolari, e i marroniani. Da sempre critico è Roberto Morassut, già assessore ai tempi di Veltroni sindaco: «Da anni dico che bisognava uscire dai cda, rovesciare il tavolo senza mediazioni». Morassut ha urlato la sua idea della degenerazione del Pd locale in ogni modo: ha parlato di «partito delle tessere», di «lobby di potere», di «tribù». E le primarie? «Truccate, decidono i capicorrente».
Che la situazione del partito nella Capitale fosse un guaio era ben noto al presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che secondo alcuni, tempo fa, si lasciò andare a una battuta: «Peggio di Marino, a Roma, c’è il Pd locale».
Vera o falsa che sia la freddura racconta un mondo — il Pd Roma che tiene in scacco Marino — che però adesso si è capovolto: perché Renzi ha spedito in città il «commissario» Matteo Orfini, facendolo accompagnare, stando ai rumors, da poche frasi. «Uno, il presidente dell’Aula lo sceglie il sindaco!». Risultato: sarà eletta Valeria Baglio, la preferita di Marino. Sistemato lo scranno che fu di Mirko Coratti (quello del quale Buzzi nelle intercettazioni dice « me lo so’ comprato ») — Renzi pare aver dato indicazioni chiare anche sull’accoglienza da riservare ad Orfini: «Chi si mette di traverso non si candida più neanche a un consiglio d’istituto». Lionello Cosentino, l’ormai ex segretario romano, ha scritto una lettera per salutare: «Vado in pensione, ai giardinetti, con un buon libro in mano». Illusioni perdute , forse.

Repubblica 5.12.14
Quel patto di sangue tra il Rosso e il Nero

“I miei soldi sono i tuoi”
di Carlo Bonini


ROMA Per arrivare al cuore del Mondo di Mezzo, illuminarne le complicità e pesarne gli interessi, conviene sapere cosa dica di Massimo Carminati il cassiere e Grande Elemosiniere di Mafia Capitale, Salvatore Buzzi, in una delle sue tante confidenze catturate dalle cimici del Ros dei carabinieri nel marzo dello scorso anno. «Il rapporto che c’ho con Massimo? Io c’ho i soldi suoi. E lui sai cosa m’ha detto quando c’aveva paura che l’arrestavano? Viene da me e dice “Guarda, qualunque cosa succede, i soldi ce l’hai te, li tieni te e li gestisci te. Non li devi da’ a nessuno, a chiunque venisse qui da te. Nemmeno mia moglie”. Non so’ soddisfazioni?». E ancora: «Massimo si fida al punto tale di me che se io muoio, neanche viene a chiederli i soldi. E se muore lui, già me l’ha detto che devo fare».
Massimo Carminati e Salvatore Buzzi sono dunque la stessa cosa. Non fosse altro perché “il Cecato”, invecchiando, ha ormai una sola ossessione: il grano. Quello che muove e anima gli ingranaggi del suo Mondo tripartito — di Sopra, di Mezzo e di Sotto — e che Buzzi gli porta. A palate. Il tipo è capace di moltiplicare i pani e i pesci e ha messo insieme un giocattolo da stropicciarsi gli occhi. Un castello di 68 società controllate, con complessi incroci azionari, da due holding: la “Cooperativa 29 giugno” e la “Sarim Immobiliare srl”. Una roba che, solo tra il 2011 e il 2013, vede salire il fatturato da 32,6 a 50,9 milioni di euro. Con punte di “eccellenza” come la “Eriches” che, nello stesso periodo, moltiplica del mille e cinquecento per cento le entrate: da 1 a 15 milioni di euro. Una giostra che gira a pieno regime grazie anche alle “cure” del braccio destro di Buzzi, tale Carlo Maria Guarany, vicepresidente della Cooperativa 29 giugno e azionista all’1% della “Sarim”, la società da cui, per altro, partiranno parte dei 75 mila euro versati alla fondazione Nuova Italia di Gianni Alemanno in concomitanza con l’assegnazione di lucrose commesse. Un tipo, questo Guarany, per il quale il gip Flavia Costantini spende, nelle pagine della sua ordinanza di custodia cautelare, la certezza dell’indicativo: «È stabilmente inserito nell’associazione a delinquere di stampo mafioso e partecipa consapevolmente alla commissione dei reati», tanto da preoccuparsi di attivare il jammer che dovrebbe rendere impossibile alle cimici ascoltare le “riunioni di lavoro” che Carminati, Buzzi e, appunto Guarany, apparecchiano negli uffici della “Cooperativa 29 giugno” in via Pomona.
I LEGAMI CON FINMECCANICA
Sappiamo bene ormai quale sia il segreto di tanta fortuna imprenditoriale e di tanto ascolto in Campidoglio. Ma c’è qualcosa di più. Perché, aprendo le scatole della galassia societaria di Buzzi, non si rintraccia solo la linfa degli affari, ma, innanzitutto, la storia di Carminati e il peso del suo sistema di relazioni e interessi. Con qualche nome più importante e curioso di altri. Accade per esempio che, sfogliando la margherita delle compartecipazioni della holding “Sarim”, si inciampi nelle figlie dell’ex capo delle Relazioni istituzionali di Finmeccanica, Lorenzo Borgogni, già perno del “Sistema Guarguaglini” e oggi “in esecuzione pena” nei cinque ettari della sua tenuta “la Madonna nera”, in quel di Siena. Attraverso la società “Total Care”, Salvatore Buzzi, risulta infatti socio della Renco Health Care in cui, appunto, figurano al 5% del capitale Elisabetta e Benedetta Borgogni. Renco Health Care che — vale la pena ricordare — fa capolino nell’inchiesta sui fondi neri e la corruzione di Finmeccanica per gli appalti pilotati della società Selex, già guidata da Marina Grossi, moglie dell’ex ad Guarguaglini.
LA SORELLA DI MOKBEL
“Un caso”, si potrebbe dire. E invece, ecco che spunta in un diverso angolo della ragnatela societaria di Buzzi un secondo cognome del coté Finmeccanica e dei suoi rapporti con il mondo dei Neri, di cui il “facilitatore” e collezionista di mirabilie naziste Lorenzo Cola era il passepartout. Parliamo di un altro fascista con i fiocchi: Mokbel. Gennaro, si intende (unico sopravvissuto alla tempesta giudiziaria di martedì scorso, ma già travolto dall’indagine sulla frode carosello da 1 miliardo e 200 milioni di euro conosciuta come caso Telekom Sparkle-Fastweb e da quella del caso Digint-Finmeccanica). Ma non da solo. È di sua sorella Lucia, infatti, la società “Luoghi del Tempo”, una srl partecipata dalla “Cooperativa 29 giugno” e a sua volta azionista e proprietaria del 25% della Rogest, altro ingranaggio societario chiave della galassia 29 Giugno. La “Luoghi del Tempo” ha un particolare interesse. Perché è qui che finiscono i 16 milioni di euro ottenuti dalla “Banca di Credito Coo- perativo” per la gestione di un punto verde a Roma. Un finanziamento che la Mokbel non ha mai restituito e per il quale ha risposto in solido e con la propria cassa il Comune di Roma.
L’UOMO DELLA PALESTRA
Le coincidenze Nere non finiscono qui. Lasciando per un momento da parte infatti la galassia di Buzzi, ma continuando a tirare il filo di Mokbel e quello delle società coinvolte nell’affare Telecom Sparkle, si finisce infatti di nuovo al nostro Carminati. Il proprietario di una delle società coinvolte nella truffa carosello (I-Globe) è infatti tale Manlio Denaro. Un manager, si dirà. Quantomeno un commercialista. No. Un personal trainer. Che, per un periodo, gestisce la palestra “Flex Appeal” di via Marco Besso, una stradina che ci riporta nel cuore della Terra del “Cecato”: Corso Francia. In quella palestra, infatti, si ritrovano dopo anni di galera Carminati e Riccardo Brugia. E in quella palestra nasce il loro nuovo patto. “Pijiamose Roma”.

Corriere 5.12.14
Il pd deve ripulirsi l’ora delle scuse è arrivata per tutti
di Pierluigi Battista


Se fosse la mafia ad essersi messa in tasca la città, non si capirebbe davvero per quali contorcimenti logici, o per quale ambiguo senso delle opportunità, Roma non debba seguire la sorte dei tanti piccoli e grandi Comuni sciolti a causa delle infiltrazioni mafiose. Si dice sempre che le inchieste giudiziarie non devono dettare i tempi della politica (e viceversa). Ma i magistrati di Roma, invocando quel termine terribile e mostruoso — «mafia» — come connotazione dell’intreccio malavitoso in cui Roma rischia di soffocare, si sono consapevolmente presi una grossa responsabilità. Se quel groviglio di malaffare comunque maleodorante non fosse «mafia», la magistratura avrebbe giocato troppo pesantemente. Se fosse «mafia», se le parole hanno un senso, se la giustizia vuole essere diversa dai modi di dire e dalla narrazione noir in salsa capitolina, allora il destino di Roma, la capitale d’Italia, diventa un problema politico che richiede tagli drastici. Si invocano rotture e «discontinuità» in continuazione, cosa deve aspettare ancora la politica romana? Non è sufficientemente squassante la mafia in Campidoglio a far da padrona?
I cittadini italiani da tempo contribuiscono a pagare la montagna di debiti di Roma, evitandone il default. Non è giusto che un cittadino italiano non debba sapere come viene dilapidato il suo contributo. Ed è sconvolgente il sospetto che il denaro pubblico vada a puntellare un’istituzione inquinata dalla mafia nei suoi gangli vitali. Con un’associazione a delinquere che nella passata sindacatura di Alemanno si è installata nel centro magico del governo cittadino e in questa di Marino piazzando i suoi referenti politici nella giunta Marino, ai vertici del consiglio comunale e finanche, con un paradosso lessicale che sembra mutuato di peso da un romanzo di Orwell, nell’organismo preposto alla «trasparenza» della cosa pubblica.
Matteo Orfini, che ha assunto il compito ingrato di commissariare il Pd romano immerso fino al collo nella melma, sostiene che non ci sono gli estremi per il commissariamento del Comune di Roma. Ma perché la sacrosanta esigenza di azzerare il Pd romano non deve valere anche per il governo del Comune? Se c’è l’urgenza di ripartire da zero per un partito, non c’è forse la stessa urgenza per le istituzioni? Non percepiscono forse l’abisso di sfiducia in cui è piombata tutt’intera la politica romana e che oggi contagia l’intera cittadinanza italiana, stanca del privilegio che sinora Roma ha goduto come debitrice super-assistita con le risorse pubbliche gettate in una fornace di sprechi senza fondo? Il sindaco Marino può rivendicare la sua estraneità alle indagini, e anche l’orgoglio di essersi sottratto all’abbraccio di una lobby malavitosa. Il prefetto si dice addirittura preoccupato per l’incolumità del primo cittadino di Roma, che va tutelato e non indebolito. Ma la sua giunta è accusata di essersi fatta infilare dalla mafia e la sua maggioranza nella sala intitolata a Giulio Cesare si è rivelata inaffidabile, permeabile, come è stata descritta su queste pagine da Fiorenza Sarzanini, alle sollecitazioni criminali, parte integrante di un sistema che ha gestito con concordia bipartisan affari, appalti, rifiuti, persino «immigrati», trattati come un business più vantaggioso del traffico di droga. Quel «tariffario» a base del libro paga dell’associazione non si può dimenticare. E azzerare tutto, con un gesto di responsabilità e di buona volontà se il prefetto non dovesse provvedere a uno scioglimento d’autorità, può diventare un segnale di rigenerazione, una pagina totalmente nuova, l’ultimo tentativo di riconquistare la fiducia perduta dei cittadini, romani e non.
E tutti dovranno chiedere scusa. La destra romana in primis, che deve espiare la colpa di aver messo il Comune nelle mani di una banda. E che dovrebbe avere la decenza di non sfilare più in nome della «sicurezza» dopo aver partecipato al banchetto sugli appalti per i campi nomadi. Le Coop che si sono appoggiate così a lungo a figure di corruttori senza pudore: di questo devono rispondere i suoi dirigenti, e non delle foto di cene a cui ha partecipato l’attuale ministro Poletti. I governi, che dovrebbero metter mano subito alla palude infetta delle partecipate. Il Pd, che dovrà fare piazza pulita di comportamenti che lo hanno reso un partito impresentabile. E le forze economiche che aspettano eventi piccoli e grandi (le Olimpiadi anche?) per abbandonarsi nuovamente all’andazzo delle gare d’appalto truccate, alle cordate, alle cricche. Forse addirittura, ma solo se venisse confermato l’impianto accusatorio della magistratura, alle cosche.

il Fatto 5.12.14
Marino “risorge” Dal Pd al prefetto tutti col Marziano
di Paola Zanca


“Abbiamo subìto un’aggressione. Ora mi spiego anche tanti attacchi degli ultimi mesi”. È mercoledì pomeriggio e Ignazio Marino ha davanti il gruppo del Pd in Campidoglio. Non esattamente una platea amica, visto che da tempo i rapporti tra il marziano della Panda rossa e la maggioranza che lo ha eletto sono sfilacciati e velenosi. Ma ora fuori c’è la bufera. E chi è rimasto in piedi può solo stringersi e sperare che il vento si calmi. Così, di fronte ai consiglieri democratici, il sindaco di Roma adesso alza la testa. È “molto carico”, racconta chi ha partecipato all’incontro, e “convintissimo di uscire rafforzato da questa storia”. Il suo staff è stato solo sfiorato dal mondo di mezzo, visto che Mattia Stella, unico dei suoi a essere avvicinato dal gruppo criminale, non è indagato. Il sindaco ha chiesto e ottenuto la sponda del commissario anticorruzioneRaffaele Cantone. Nelle intercettazioni, i sodali di Carminati lo descrivono come quello di cui nun se fida nessuno, e in serata è arrivata pure la medaglia del prefetto Giuseppe Pecoraro: “È preoccupato per la mia incolumità personale – fa sapere Marino – e mi ha chiesto di rinunciare ad andare in bicicletta e ad accettare la protezione che ho sempre rifiutato”.
LA GIORNATA, per la verità, era cominciata maluccio. Lo stesso prefetto che adesso si preoccupa per la sicurezza del sindaco, di prima mattina gettava benzina sul fuoco. In un’intervista con titolo a sei colonne sul Tempo, Pecoraro diceva: “Sciogliere il Comune per mafia? Credo che ci siano i presupposti”. E il borbottio in Campidoglio non si era riuscito a trattenere. Non solo perché – come ha notato il capogruppo di Sel alla Camera Arturo Scotto – Pecoraro affida le sue riflessioni “a un quotidiano il cui direttore, apprendiamo da notizie di stampa, si incontrava con il boss Carminati”. Ma soprattutto perché il prefetto, di responsabilità, a Roma ne ha avute parecchie. Alemanno gli affidò pezzi di città importanti. Tanto che il deputato Pd Marco Miccoli, all’epoca segretario romano del partito, lo chiamava “il vero sindaco”, visto che si occupava di “sicurezza, rifiuti, piano rom e decoro”. Per due anni – tra il 2009 e il 2011 – è stato commissario straordinario per l'emergenza nomadi. Lui aveva messo a punto il Piano, mentre il “soggetto attuatore” era il direttore del V Dipartimento, Angelo Scozzafava. Nelle carte dell’inchiesta, il nome di Scozzafava ricorre parecchio: per Buzzi e Carminati è punto di riferimento costante – almeno dal 2012 – per conoscere le mosse del Comune e fare pressioni per i loro affari. Sarà pure un Comune da commissariare, questo il ragionamento che monta nel Pd romano, ma nemmeno il prefetto in quegli anni si è mai accorto di nulla. Ora, i nomi coinvolti nell’inchiesta sono fuori dal Campidoglio, visto che anche Walter Politano – a capo dell’anticorruzione, ma in rapporti con la banda – è stato rimosso l’altro ieri da Marino. Dopodiché, al Don Chisciotte del Campidoglio, per ora, è stato consigliato di fermarsi un attimo. A cominciare dal rimpasto.
ERA PRONTO a sfornare la nuova giunta, chiesta a gran voce dopo la rivolta anti-immigrati di Tor Sapienza, ma di questi tempi non sai mai chi ti metti in casa. Per dire, alle Politiche Sociali al posto di Rita Cutini doveva arrivare Daniele Ozzimo: le carte dell’inchiesta Mondo di Mezzo, però, nel frattempo hanno svelato che la prima era considerata dalla banda un ostacolo agli affari criminali, mentre il secondo era indicato dal braccio sinistro di Carminati, Salvatore Buzzi, come un referente utile agli interessi dei malavitosi. Per Ozzimo, nella riunione di ieri, si sono levati gli scudi di tutti i consiglieri Pd, e anche il sindaco si sarebbe detto convinto che la sua posizione verrà stralciata. Diverso l’atteggiamento nei confronti di Mirko Coratti, fino all’altro ieri presidente dell’assemblea capitolina ora indagato perché a libro paga del sodalizio. Nella riunione di ieri, Marino ha già fatto il nome del suo candidato per occupare quel posto: Valeria Baglio, consigliera del Pd indicata come filo-renziana. Il sindaco l’ha messa giù dura: prendere o lasciare, non mettetemi i bastoni tra le ruote, altrimenti vi mollo.

Corriere 5.12.14
Marino in tv: «Mai parlato con Buzzi» Ma le fotografie insieme lo smentiscono

«Non ho mai avuto conversazioni con Salvatore Buzzi». Così ha detto ieri a «Otto e mezzo» il sindaco di Roma Ignazio Marino. Ma alcune foto dell’archivio della Cooperativa «29 giugno» di Buzzi (a lato una delle immagini: Buzzi è il primo a sinistra) , documentano incontri tra i due.

Corriere 5.12.14
L’ultima opportunità per il sindaco «marziano»
di Goffredo Buccini


Talvolta essere marziani non guasta. Sicché il destino pare concedere al sindaco di Roma, Ignazio Marino, una paradossale opportunità: forse l’ultima. Rammendare la città ferita appunto grazie alla propria estraneità ad essa. Ci vuole un chirurgo forestiero, che non parli il vernacolo del «Cecato» Carminati, dei trafficanti d’anime ex fascisti tramutati in caricature di amministratori, ma neppure di quel Pd romano che esce a pezzi dall’inchiesta di Pignatone e dei suoi pm. Marino, il genovese di madre svizzera piovuto dall’America e magari scelto proprio da taluni strateghi democratici capitolini con l’idea che fosse facile da controllare — più pupo che Papa straniero — è forse quel tipo di chirurgo: o almeno è sperabile che lo diventi, infine. L’operazione che deve tentare è difficilissima.
Su una Roma già in ginocchio, sommersa di rifiuti e paralizzata dal traffico anche per sua colpa, Mafia Capitale è stata l’ultima bastonata. Scoprire dall’indagine che persino la politica sui migranti e sui nomadi — di recente di nuovo impugnata da certo centrodestra come un’ascia bipenne nelle periferie inquiete — fosse concordata con gli uomini di Carminati è devastante. Pare non ci fosse emergenza, neppure la rimozione delle foglie, non contrattata da questa specie di consorzio del male formato da politici, burocrati e criminali. E certo al centro della tempesta vediamo il profilo di Gianni Alemanno, dei suoi fedeli Panzironi e Mancini, insomma di quel milieu che si prese il Campidoglio nel 2008 tra saluti romani e voglia di recuperare finalmente tanti anni di affari perduti.
Ma il problema è che anche l’altra parte gestiva quegli affari, perché la mafia non sta né a destra né a sinistra, sta con chi vince. Sicché i democratici della Capitale e i loro alleati di giunta vedono cadere Luca Odevaine, che fu vicecapo di gabinetto di Veltroni, l’assessore Ozzimo, il presidente del consiglio comunale Coratti, un consigliere regionale e perfino il responsabile della commissione... Trasparenza. Vedono danzare nelle intercettazioni (magari sul filo delle millanterie) nomi prestigiosi come Lionello Cosentino e Luigi Nieri. Anche la campagna elettorale di Marino viene finanziata dal braccio economico di Carminati, il «compagno» Salvatore Buzzi, signore delle coop, con 30 mila euro, ma si capisce che i mafiosi non sanno ancora come acchiappare quello strano sindaco che lanciò per grido di battaglia «daje», caricatura di romanità da non romano.
Marino si trova ora davanti alla porta quel Pd che voleva giubilarlo, a chiedergli con Orfini di farsi simbolo di riscatto. Ha consegnato appalti sospetti a Cantone e se stesso al prefetto Pecoraro, che dovrà determinare il futuro del consiglio comunale in odor di Carminati. Ma ai romani che non l’hanno amato, che ridono della sua Panda rossa e del suo essere altrove in ogni momento topico (non a Tor Sapienza ma a Londra, per dire), la sua alterità può apparire, per la prima volta, un salvagente nella palude.

La Stampa 5.12.14
Mafiosi anche senza le lupare
di Francesco La Licata


Certo, non si troveranno né coppole né lupare nella cupola politico-mafiosa che gestiva i grandi affari della Capitale. Nessun giuramento con sangue e santino sarà stato imposto ai componenti il vasto e trasversale sodalizio criminale. Ma questo non vuol dire che il sistema scoperchiato dal procuratore Pignatone e dai suoi collaboratori non sia di tipo mafioso.
E i primi a crederci sembrano essere proprio i magistrati inquirenti che nei provvedimenti restrittivi non si sono limitati a fare ricorso all’«aggravante mafiosa», ma hanno addirittura ipotizzato il «416 bis», cioè l’associazione per delinquere di tipo mafioso. E questo proprio perché, per concretizzarsi il reato, non è necessario il controllo del territorio attraverso il ricorso alle bombe o alla violenza bruta. No, l’intimidazione mafiosa può funzionare anche solo in presenza di un «accordo» non scritto: tu politico sai da dove arriva la richiesta e conosci quali potrebbero essere le conseguenze di un diniego, ma soprattutto hai interesse ad esaudire ogni richiesta perché il mittente è utile al conseguimento e al mantenimento del potere. Il mafioso ed anche gli imprenditori del «sistema» avranno l’unica cosa che interessa loro, cioè i soldi, naturalmente pubblici.
C’è poco, dunque, da ironizzare sulla «mafiosità» della banda romana: non si tratta di ladruncoli né di mariuoli di antica memoria. Siamo di fronte a delinquenti che nulla hanno da invidiare ai più pubblicizzati, questo sì, colleghi siciliani.
E non mancano somiglianze e analogie con vicende archiviate, a Palermo, col marchio definitivo della politica mafiosa. Sarebbe lungo l’elenco delle storie che si potrebbero ricordare. Una su tutte, anche per il tipo di atteggiamento difensivo scelto dai protagonisti («traditi dagli amici»), potrebbe essere la vicenda che ha portato alla condanna definitiva dell’ex governatore di Sicilia, Totò Cuffaro. All’apparenza poteva sembrare una storia di ordinaria corruzione, se non fosse che l’imprenditore della sanità coinvolto nell’inchiesta, l’ing. Michelangelo Aiello, era sospettato - con qualche motivo - di essere addirittura prestanome del boss Bernardo Provenzano. Anche in quel caso la «rete» mafiosa non ha avuto bisogno di esercitare particolare violenza: tutto andava liscio grazie alla benevola attenzione dei burocrati della sanità e di politici non di primissimo piano, ma non per questo poco efficaci. Certo c’è un abisso tra Carminati e Provenzano, ma i «piccioli», i soldi, non sottilizzano sulla portata dei boss.
Non è casuale, poi, che l’inchiesta siciliana sulla corruzione abbia avuto un risvolto di mafiosità non indifferente, visto che si è scoperto che c’erano investigatori (poliziotti, finanzieri e carabinieri) che informavano in tempo reale Aiello, e dunque Provenzano, dello stato delle indagini. Addirittura chi piazzava le microspie per conto della procura, provvedeva - immediatamente dopo - a bonificare gli ambienti, vanificando il lavoro investigativo. Proprio come i poliziotti che avvertivano Carminati delle indagini in corso. A proposito di indagini, risulta che Alemanno avesse pensato di prevenire tentativi di infiltrazioni delinquenziali affidandosi alla consulenza non gratuita del prefetto Mario Mori. Neppure lui si è accorto di nulla?

il Fatto 5.12.14
Mafia Capitale
La linea nera, una storia sporca
di Gianni Barbacetto


Erano esclusi dal potere. Ed erano puliti. Adesso, invece, li troviamo neri e sporchi, alla guida del “mondo di mezzo” di Mafia Capitale. Sono gli eredi della destra, un tempo duri e puri, beccati oggi a manovrare un sistema criminale pervasivo e trasversale. Ma siamo proprio sicuri che ci sia stata una svolta, una rottura? “Vivevano nel mito delle mani pulite, che potevano esibire anche per mancanza di occasioni. Vent’anni dopo, il fallimento è spettacolare, verrebbe da dire wagneriano”: così Mattia Feltri. Ancor più forte la nostalgia di Marcello Veneziani, per “una destra che per anni si è vantata della sua diversità, che propugnava l’alternativa al sistema e ripeteva con Almirante che dalle tasche di Mussolini appeso in piazzale Loreto non è caduto un soldo”. Ma esisteva davvero la “diversità” nera? O non c’è piuttosto una sotterranea continuità criminale?
IL MITO della destra esclusa & pulita (e anche antimafia) si nutre delle storie di tanti militanti onesti, ancorché fascisti, e anche di figure limpide come quella di Paolo Borsellino. Ma non fa i conti con una realtà ben più articolata. Intanto il “polo escluso” (così il politologo Pietro Ignazi ha definito l’area politica che ruotava attorno al Msi) era in realtà un “polo occulto”. Quasi del tutto fuori dai circuiti del potere visibile, la destra di fede fascista ha in realtà sempre cogestito una larga fetta di “potere invisibile”. Il Msi è stato infatti coinvolto fin dalla sua nascita nella gestione dello Stato, dentro i suoi apparati più segreti e le sue operazioni più sotterranee. Forze armate, ministero dell’Interno, servizi segreti hanno sempre avuto rapporti stretti con il Movimento sociale e i suoi uomini. È esistito dunque in Italia anche un invisibile consociativismo di destra, in cui i “neri” hanno gestito una parte importante di delicatissimi apparati dello Stato, assumendosi spesso il compito di fare i “lavori sporchi” del sistema.
Guardavano al Msi i generali più importanti delle Forze armate negli anni Sessanta, a cominciare da Giuseppe Aloja, il capo di Stato maggiore che istituisce i “corsi d’ardimento” per formare “migliaia di uomini particolarmente addestrati contro la guerra sovversiva”, secondo la testimonianza di due personaggi coinvolti in quell’operazione, Pino Rauti e Guido Giannettini. Un uomo-chiave dei servizi segreti, Vito Miceli, termina la sua carriera in Parlamento, nei seggi del Movimento sociale, dopo essere stato capo del Sid, il servizio segreto militare, negli anni cruciali della strage di piazza Fontana (1969) e dei tentati golpe Borghese (1970) e Rosa dei venti (1973). Approdano nelle file del Msi molti altissimi ufficiali: dal generale Giovanni De Lorenzo (quello del Piano Solo, 1964) all’ammiraglio Gino Birindelli. E quanti uomini della destra lavorano, apertamente o in maniera “coperta”, per i servizi segreti, da Miceli a Rauti, da Giannettini a Stefano Delle Chiaie, da Giano Accame a Piero Buscaroli. I militanti neri, sempre in bilico tra Msi e gruppi extraparlamentari (principalmente Ordine nuovo e Avanguardia nazionale), sono per decenni il serbatoio da cui attingere personale, sotto lo sguardo attento dei servizi di sicurezza, da impiegare nelle operazioni della “guerra non ortodossa”, teorizzata nel 1965 nel convegno al Parco dei Principi e passata attraverso il fuoco delle stragi, da piazza Fontana a Bologna.
Solo militanza politica (o politico-militare)? No. L’incrocio con gli affari, la politica e la corruzione (e anche con la mafia) è una costante di questa storia nera. Licio Gelli era già un perno della “terra di mezzo”, in contatto, sopra, con i Sindona, i Calvi, i Berlusconi e, sotto, con le bande dei neri toscani e i gruppi romani in cui s’incontravano eversione, servizi, malavita e mafia. La banda della Magliana era già Mafia Capitale, commistione “perfetta” di affari, politica e criminalità. Altro che “cuori neri”, altro che destra dura e pura. A parole proclamava ideali alti, ancorché fascisti; in pratica li tradiva ogni giorno in un balletto di spioni, informatori, infiltrati e traditori sempre pronti a vendere i camerati. A parole era antimassonica; ma molti esponenti di primo piano del Msi erano in segreto iscritti alla P2: Birindelli, ex presidente del partito (tessera numero 1670), i deputati Giulio Caradonna (2192) e Sandro Saccucci, il senatore Mario Tedeschi (2127), oltre a Vito Miceli (1605). A parole erano anche antimafiosi; ma la pratica, nel Paese dei patti sotterranei e delle alleanze inconfessabili, è diversa dalla teoria. Così la destra non ha esitato a trattare e collaborare con le mafie. Con Cosa Nostra in occasione del golpe Borghese; con la ’ndrangheta durante e dopo la rivolta di Reggio; con entrambe durante la trattativa del 1992-93.
P2 E MAGLIANA restano gli eterni modelli di una commistione affari/politica/criminalità/mafia che ha attraversato tutta la storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Il “mondo di mezzo” di Massimo Carmina-ti, milanese, detto “er Cecato”, ora è una versione di certo innovativa di quel modello, ma dentro una tenace continuità che non riescono a vedere soltanto i nostalgici di un mitico fascismo duro e puro che in Italia non è mai esistito.

Repubblica 5.12.14
Il Paese che vive nella Terra di mezzo
di Roberto Saviano


SU“ Mafia capitale” sappiamo tutto, abbiamo letto le cronache dell’operazione condotta dai Ros del generale Parente e dalla Procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone, abbiamo letto l’ordinanza del gip Flavia Costantini, ma non so se è chiaro a tutti cosa sia accaduto a Roma.
ECOSA molto probabilmente sta accadendo altrove in Italia. Succede alla politica italiana ciò che sta accadendo alla società civile che guarda alla politica con schifo, senza riuscire a percepire le proprie responsabilità. Accade che in politica ci si venda, si ipotechi la propria anima per pochi spiccioli (ci sono mazzette da 750 euro prese senza la reale percezione della gravità della situazione come una legittima e piccola regalia). Accade che la politica non abbia autorevolezza e idee proprie, accade che la politica venga percepita come una occasione di guadagno, un mestiere che arriva senza dover studiare, senza curriculum ed esperienza.
La domanda è: ma come fanno personaggi che definiremmo “dalla storia ambigua”, come Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, a diventare artefici, attori, protagonisti di vicende che assumono connotazioni grottesche? Un assassino e un ex terrorista, ex Nar, organico alla banda della Magliana. Il primo, Buzzi, aveva scontato la sua pena, il secondo Carminati era stato assolto, ma su di lui esistono pagine e pagine di informative e una stretta osservazione. Ebbene Buzzi e Carminati in qualsiasi altro Paese condurrebbero la loro vita lavorativa sotto una strettissima sorveglianza, dovrebbero avere un comportamento talmente ligio da provare che si può uscire diversi dal carcere, da dimostrare che le assoluzioni sono opportunità di reinserimento e non salvacondotti. E invece a Buzzi e Carminati la politica dà massima fiducia senza chiedere in cambio nessuna trasparenza. Ci si fida di loro, ciecamente. Vi siete chiesti come sia stata possibile una tale idiozia? In questi giorni il mantra è: colpevole è non solo chi è consapevole, ma anche chi non vuole vedere. E allora noi da che parte stiamo? Tra i colpevoli o tra quelli che non vogliono vedere? Dobbiamo scegliere, perché una terza via non esiste.
Come possono personaggi come Carminati e Buzzi apparire “affidabili”? Possono farlo perché siamo in Italia. Possono farlo perché in Italia ciò che si rifiuta e rifugge non è il rapporto con chi tutto sommato è peggio di noi, ma con chi è meglio. Con chi ha una immagine pulita si fa il tiro al bersaglio: il gioco è far cadere il simbolo positivo dal piedistallo. Ed ecco che chi si distingue per professionalità e rettitudine in una giunta comunale viene allontanato, con maggiore o minore clamore mediatico, a seconda delle circostanze, ma se intralci i giochi sei fuori. I politicanti utilizzano e si legano a personaggi che non sono figure da poter demolire e che non vogliono cambiare il sistema e che abitano quel “mondo di mezzo” che Carminati, ha preso in prestito da Tolkien. «Ci stanno i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo. E allora vuol dire che ci sta un mondo, un mondo in mezzo, in cui tutti si incontrano. Anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno. Questa è la cosa… e tutto si mischia». Non è da leggere come è stato fatto sino ad ora come una “cerniera” tra teppa criminale e colletti bianchi. Questa è una vera e propria sintesi di filosofica economica.
Si parla chiaramente di un luogo trasversale dove ci si affida a chi “sa fare le cose”, chiunque egli sia. E qui arriva Salvatore Buzzi con le sue cooperative di disperati, di marginali, ex detenuti, immigrati che in un’Italia che non produce nulla, in un’Italia in cui le aziende muoiono, in un’Italia strangolata da un sistema fiscale irrazionale che in larga parte deve sopperire ai costi enormi e agli sprechi della politica, diventano una miniera d’oro.
In Italia è inevitabile che le emergenze diventino vere e proprie occasioni di profitto. La crisi dei rifiuti a Napoli ha irrorato la politica, la camorra e l’imprenditoria per oltre un decennio. Mare nostrum è stata una tragedia per tutti tranne che per Carminati e Buzzi. Per loro i barconi della speranza piuttosto che emergenza umanitaria, sono diventati un’enorme opportunità. «Ci fanno guadagnare più della droga», dicono. Quindi l’organizzazione mafiosa con a capo Carminati non guadagna con attività che tradizionalmente sono considerate criminali, ma con attività che invece godono di un’aura di nobiltà. Attività intoccabili, insospettabili. Ma di umanitario e ideologico non è rimasto proprio nulla: l’ideologia non c’entra, gli affari sui rom, sull’emergenza case, sugli immigrati, li fanno paradossalmente proprio gli uomini di Alemanno, coloro i quali hanno partecipato alla giunta che meno si è distinta per solidarietà verso gli ultimi, verso i bisognosi e i disperati. Non c’è più colore politico, ecco perché verso gli estremisti della prima e dell’ultima ora non posso fare a meno di provare pena; non c’è colore: basti pensare che Carminati che proviene dalla estrema destra, si sceglie Buzzi come braccio destro, un uomo che proviene dalla estrema sinistra.
E poi ancora: dal momento che a predisporre e coordinare l’emergenza migranti è il tavolo di coordinamento nazionale presieduto dal ministero degli Interni, lì deve sedere un uomo che sia al soldo del duo Carminati-Buzzi. Quest’uomo è Luca Odevaine, che ricorda Mister Wolf di Pulp Fiction, il problem solver. Luca Odevaine è stato vice capo di Gabinetto della giunta Veltroni, poi capo della Polizia provinciale, poi capo della protezione civile con Zingaretti e infine al tavolo di Coordinamento nazionale sull’accoglienza per i richiedenti asilo. È lui, per intenderci, che prende in gestione la capitale quando muore Giovanni Paolo II. La trasversalità del sistema si basa su una macchina oleata fatta di mazzette grandi e piccole. Odevaine, secondo l’accusa, avrebbe percepito una mazzetta da cinquemila euro al mese.
Ma la cosa più interessante è che leggendo le carte dell’inchiesta si ha la sensazione che nessuno abbia reale consapevolezza del proprio status di corrotto. Quello che molti hanno preconizzato, ovvero che Tangentopoli fosse solo il punto di partenza di un’apocalisse politica e sociale definitiva si sta avverando. Ora i corrotti non solo si sentono legittimati a commettere illeciti, ma non hanno neanche più la consapevolezza della gravità dei loro comportamenti.
In tutto questo Matteo Renzi arriva tardi a commissariare il Pd di Roma. Prima della magistratura, la politica dovrebbe avere occhi, orecchie, dovrebbe ascoltare ogni sussulto, ogni sospiro. I segnali c’erano. E invece Renzi, che aveva tutti gli strumenti per sapere e per azzerare il Pd romano prima di questo terremoto giudiziario, lo fa dopo. Dall’altra parte — o dalla stessa parte anche se sembra si facciano guerra — c’è una destra sempre più disinvolta nell’occupare posizioni per trarne vantaggio, per condizionare la democrazia, anche usando la stampa locale che si presta al gioco, come è successo con Il Tempo diretto da Chiocci, che è arrivato a incontrare Carminati.
Mafia capitale è solo l’inizio. Altre inchieste in altre città dimostreranno che Roma non è un caso isolato. In altri Paesi europei esiste la corruzione, ma la corruzione non arriva a compromettere l’istituzione stessa: il corrotto è espulso dall’istituzione che è percepita come sacra e va salvaguardata. In Italia l’istituzione invece è utilizzata, lordata e non viene difesa.
Ma perché questo accade? Perché ormai si è impadronita di chiunque una consapevolezza: senza brigare non si va da nessuna parte. Senza forzature non succede niente, non cambia niente. Quindi in fondo la posizione bipartisan sembra essere questa: è inutile fingere di essere al di fuori o al di sopra. Tutti dobbiamo compromettere una parte del nostro lavoro, della nostra integrità, per ottenere qualcosa. Questa è la logica che emerge da “Mafia capitale”. Questa è la teoria del “Mondo di mezzo” di Carminati non portata alle estreme conseguenze, ma applicata a tutti noi.
Da questo meccanismo nessuno si senta escluso, le mazzette trovate nelle buste con il logo di Roma Capitale ci riguardano, perché Roma Capitale siamo noi.
In questo Paese che non è capace di difendere il talento e l’impegno, dove tutti odiano tutti, dove tutti detestano chi ce la fa, in questo Paese tra il mondo dei vivi che sta sopra e il mondo dei morti che sta sotto, in mezzo ci siamo noi.
In mezzo c’è l’intero Paese che non riesce a reagire.

Repubblica 5.12.14
Allarme riciclaggio: economia criminale vale 12% del Pil
di Rosaria Amato


ROMA . È un’industria prospera: secondo alcune stime il giro d’affari dell’economia criminale arriva fino al 12 per cento del Pil. Ma è anche ben connessa: i proventi del traffico di droga, estorsione, gioco d’azzardo, sfruttamento della prostituzione vengono immessi con facilità nell’economia sana, grazie soprattutto al sommerso e all’uso eccessivo del contante, una caratteristica tutta italiana. Nel nostro Paese infatti, ricorda il Comitato di Sicurezza Finanziaria, presieduto dal direttore generale del ministero dell’Economia Vincenzo La Via, il contante viene usato nell’85 per cento delle transazioni contro una media Ue del 60 per cento.
Non è soltanto un problema di arretratezza sul fronte dei pagamenti elettronici: il rischio di riciclaggio è altissimo e i controlli sono praticamente impossibili, visto che i pagamenti in contante non sono “tracciabili”, una banconota è uguale all’altra. Negli ultimi anni, riconosce il Comitato nell’ Analisi nazionale dei rischi di riciclaggio e finanziamento del terrorismo , l’uso di contante ha subito «una costante contrazione dovuta sia alle crescente diffusione di strumenti alternativi, sia all’effetto delle politiche restrittive». Ma non è abbastanza: la criticità rimane ancora alta, soprattutto in alcune province italiane, prevalentemente meridionali. Anche l’economia sommersa, che pur concentrandosi in attività legali sfugge ai controlli del fisco e degli istituti di previdenza, è un canale di passaggio ideale per il riciclaggio. Tanto più che il sommerso ha raggiunto in Italia, secondo alcune stime, una quota del 22 per cento del Pil, contro il 19 per cento della media europea.
Ci sono attività economiche che più di altre sono esposte al rischio di riciclaggio: i giochi, e non soltanto il gioco d’azzardo, anche le piattaforme online legali oppure le scommesse a quota fissa. I compro-oro, che si sono diffusi con la crisi e attualmente tenuti al solo obbligo di segnalazione di operazioni sospette. Il settore immobiliare, da sempre «uno dei settori privilegiati per il reimpiego dei ricavi illegali delle organizzazioni mafiose e dei capitali illeciti stranieri». I trust, società non regolate ancora a sufficienza dal diritto italiano. A vigilare, oltre alle forze dell’ordine, l’accurata rete di controlli finanziari che include anche la Banca d’Italia, la Guardia di Finanza e la Consob.

il Fatto 5.12.14
Parità criminale
Le donne violente del mondo di mezzo
di Antonio Massari


La “burocrazia illecita” – scrivono gli inquirenti descrivendo la mafia romana - è costituita da quel “capitale umano” a disposizione degli organi apicali”. A disposizione di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, precisa la procura, e questo “capitale umano” è prevalentemente femminile. È questo il ruolo delle donne di Mafia capitale. A loro, nella maggior parte dei casi, viene affidato il compito di redigere false fatturazioni, d'occuparsi del “transito e della consegna di flussi finanziari illegali”, di predisporre “documentazione falsa per alterare i processi economici e decisionali della pubblica amministrazione”.
È una donna, Nadia Cerrito, diretta collaboratrice di Buzzi, che custodisce il “libro nero”, ovvero “le scritture contabili illecite”. È lei che “tiene la contabilità dei flussi finanziari esterni e interni all’organizzazione”. Alessandra Garrone “condivide i progetti criminali” del suo compagno, Salvatore Buzzi. Esistono altre donne, come Martina Sonni, ex moglie di Angelo Angelucci che nei riguardi di Mafia capitale nutrono ben altro atteggiamento: “La Sonni – si legge negli atti - già amante di Michele Senese (altro boss, non coinvolto in questa indagine, ndr) aveva usufruito del sostegno fornitole da quest’ultimo per minacciare l’ex marito Angelucci Alessandro, e la famiglia di questi, in merito a questioni giudiziarie inerenti alla causa di separazione. A seguito dell’arresto di Senese – continua il gip - la donna aveva riferito di aver intrapreso una relazione sentimentale con Carminati, elemento che aveva notevolmente spaventato il coniuge”.
E DELLA VICENDA Gennaro Trinchillo, parla con Alessia Marini, convivente di Carminati spiegando di averla appresa da “un amico imprenditore di altissimo livello”. Trinchillo spiega che “l’ex marito di una donna si era mostrato molto preoccupato delle minacce rivoltegli dall’ex moglie utilizzando il nome di Carminati”. Ma si tratta di una bufala – spiega Trinchillo – e, a sua volta, la Marini spiega a un amico: “Questa va a dì in giro che... lei sta insieme a Massimo... al marito gli dice ‘o mi dai i soldi o ti faccio rompe il culo dal mio fidanzato... la gente si atteggia...' io sò figlio de quà... io sò il figlio de là’... una che va a dire in giro che è la.... che è la fidanzata e che fa le interviste... per di ‘te rompo il culo’ all'ex marito... […] anziché dì ‘vado dall'avvocato’... no! ‘.. io chiamo Massimo Carminati’”.
La collaboratrice di Buzzi, invece, gestisce la cassa per chiunque ne ha bisogno: tocca a Nadia Cerrito predisporre le buste di denaro “annotando, sulle stesse, le iniziali delle persone alle quali sarebbero state poi consegnate”. I carabinieri del Ros intercettano Buzzi mentre dice che una delle buste è destinata “a Massimo, indicando come iniziale ‘C’, e che Massimo ‘C’ s’identificasse proprio in Carminati – concludono - veniva chiarito dalla successiva espressione della Cerrito: ‘Carminati ce sta tutti pezzi grossi c'ho, mo’ gli do quelli... da venti non ce ne ho manco uno lo sai?'”. Il “capitale umano”, la “burocrazia illecita”, le donne coinvolte nell'inchiesta, come “Rossana Calistri che, in qualità di addetta alla Commissione, si adoperava per favorire l'aggiudicazione, in data 14 maggio 2013, in favore di cooperative riconducibili a Salvatore Buzzi, di una nuova gara per la sistemazione del verde pubblico del Comune di Roma, a discapito della cooperativa ‘Il Solco’, nonostante quest'ultima, a dire degli stessi pubblici ufficiali interessati, avesse tutti i requisiti per vincere la gara sopra indicata”.

Il Sole 5.12.14
Non solo affari, gli interessi opachi dei partiti
di Lina Palmerini


Sono 144.591 i politici eletti in Italia, un sistema complessivo che costa 7 miliardi. Un esercito che, almeno per una parte, sta perdendo il ruolo di rappresentanza politica e si muove solo sulla base di convenienze personali o contingenti, che siano appalti o municipalizzate, ma anche riforma del lavoro o legge elettorale. Un'opacità pervasiva che non è solo nell'illegalità ma nei programmi e negli interessi.
Gli affari della mafia capitale portano i partiti di nuovo nel mirino, li rendono identici - destra o sinistra - e tutti ugualmente corrotti ma non è solo la criminalità a condannarli. Perché l’opacità nei partiti è un po’ dappertutto anche quando non è illegale. È nei programmi, nei profili identitari, nella definizione di se stessi, negli interessi che rappresentano. I casi della riforma del lavoro, della legge elettorale o delle municipalizzate sono emblematici di come le forze politiche abbiano perso la chiarezza e orientino le decisioni politiche sulle convenienze. Per esempio, non si capisce perché Matteo Renzi che in un pomeriggio decide il commissariamento del Pd romano non abbia trovato la stessa prontezza nel tagliare quelle quasi 8mila partecipate calcolate da Carlo Cottarelli. L’altro giorno al question time ha promesso che lo farà ma quando? E perché non l’ha già fatto. Quasi 2.800 di queste società ha più amministratori che dipendenti, un serbatoio di stipendi e clientele dove certamente si annida anche l’illegalità. Società che - in molti casi - sono piccole o medie macchine per creare consenso o per inquinarlo. E Renzi ancora aspetta mentre Scelta civica lo incalza.
Ci si muove sul day by day per conquistare un punto nei sondaggi, ignorando del tutto i contenuti. Che senso ha, altrimenti, per il centro-destra non votare la riforma del mercato del lavoro su cui si è battuta per anni, che ha inseguito prima ancora che il Pd nascesse, senza riuscire mai ad afferrarla. Nel momento in cui poteva rivendicare una primogenitura, esce dall’Aula, boccia la legge. Rinuncia, di fatto, al suo programma. Unico dissenso alla Camera Massimo Corsaro di Fratelli d’Italia che con onestà dichiara: «Ho votato sì, è stata una riforma per la quale mi sono battuto già più di dieci anni fa, non potevo non votarla».
E quello stesso calcolo spicciolo, fatto di mese in mese in base ai sondaggi o alla paura del voto, si ritrova nei mille posizionamenti - di tutti i partiti - sulla legge elettorale. Preferenze o non preferenze. Premio alla lista o alla coalizione. Sbarramento al 4 o al 2 per cento. Di nuovo, interessi opachi di piccoli contro grandi, correnti di sinistra o del Sud che si muovono rincorrendo pacchetti di voti senza un’idea stabile di sistema politico-istituzionale. E, alla fine, senza avere davvero la voglia di governare ma solo di vincere o di far perdere l’avversario, anche interno al partito. La solita logica con cui sono state congegnate diverse leggi elettorali inclusa quella di prima.
Ieri Roberto Morassut, deputato Pd di Roma diceva: «Le correnti vanno bene se hanno una loro dignità politica, se esprimono contenuti, ma qui siamo di fronte a organizzazioni tribali per la spartizione del potere». Lui parlava di ciò che è diventato il suo partito a Roma ma si può proiettare su tutti e su scala nazionale. Ecco allora che quei numeri della Corte dei Conti - che lo scorso giugno ha contato 144.591 politici eletti in Italia -?diventano un macigno. Parlamentari nazionali, europei, politici regionali, comunali e ancora provinciali. Un esercito che costa 7 miliardi - molto più che il taglio dell’Irap, quasi quanto il bonus Irpef - ma non sono solo i soldi a pesare. Il punto è che sempre più spesso non si capisce cosa e chi rappresentino.

Corriere 5.12.14
Neri uccisi, America senza pace
Un altro caso a Phoenix Nuove proteste
De Blasio: una di quelle vittime poteva essere mio figlio
di Massimo Gaggi


NEW YORK New York come Ferguson, ma se l’assoluzione del poliziotto che uccide un nero disarmato ha lo stesso sapore acre, nella metropoli del Nord-Est il clima è sicuramente diverso rispetto al Missouri. La tensione è alta, la situazione può sempre sfuggire di mano, le manifestazioni si susseguono, ma quelle dell’altra sera si sono svolte senza incidenti di rilievo. Ieri un’altra notizia che può trasformarsi in benzina sul fuoco: un altro nero disarmato ucciso da un agente a Phoenix. Ma, a testimonianza del cambio di clima dopo l’ondata di proteste, la polizia della città dell’Arizona ha subito pubblicato una descrizione insolitamente dettagliata dell’incidente nel quale Rumain Brisbon, sospettato di essere uno spacciatore, è rimasto ucciso dopo una colluttazione con un poliziotto che gli aveva bloccato le mani infilate nelle tasche. Rumain sembrava impugnare il calcio di un’arma: quando si è divincolato l’agente ha sparato, ma quella che aveva nelle mani era solo un bottiglietta piena di pillole di Oxicodone: un antidolorifico oppiaceo venduto sottobanco come droga.
Durante le manifestazioni dell’altra sera a New York la polizia ha fatto più di 80 arresti, ma solo per rimuovere i blocchi del traffico stradale. Non ci sono state violenze, non è stato lanciato nemmeno un lacrimogeno. Merito dei rappresentanti della comunità afroamericana e dei sindacati che hanno organizzato le proteste, ma anche dei familiari della vittima, Eric Garner, che hanno invitato tutti a protestare in modo pacifico. Merito anche del sindaco de Blasio che sta cercando di imporre una sorta di «rieducazione» degli agenti (22 mila di loro seguiranno un corso di aggiornamento professionale di tre giorni per imparare a essere meno rudi nei rapporti coi cittadini, di colore e non) e che con l’intervento pronunciato poche ore dopo la sentenza assolutoria ha commosso tutti (o quasi), parlando più da padre che da primo cittadino. Sposato con una donna di colore, Chirlane McCray, Bill ha raccontato di aver spesso tremato per la sorte di suo figlio Dante: «Il dramma della famiglia Garner lo sento come profondamente personale perché qualcosa di simile poteva succedere anche a noi. Mi sono chiesto come avrei reagito se avessi perso Dante. Io e Chirlane l’abbiamo allevato spiegandogli in continuazione che un ragazzo nero deve comportarsi con particolare prudenza davanti alla polizia».
De Blasio promette che la polizia verrà spinta a cambiare rotta nel suo stesso interesse, se non vuole perdere la fiducia di gran parte dei cittadini, a cominciare dalle minoranze etniche. Ed elogia Bill Bratton, l’uomo che ha scelto un anno fa come capo della polizia, ora molto criticato. Il sindaco lo difende: «Non è facile ottenere risultati dopo secoli di razzismo. Ci vorrà tempo e pazienza, ma ne verremo fuori». Un capitolo si è chiuso con l’assoluzione del «grand jury». Altri devono essere scritti» anche col contributo del governo federale che ha promosso un’indagine per verificare se nel tragico episodio di Staten Island la polizia ha violato i diritti civili di Eric Garner.
Intanto Al Sharpton, gran regista della protesta nera a New York, ha indetto una manifestazione nazionale di protesta, saato 13 a Washington. Si cerca di ripercorrere, anche nell’iconografia, il sentiero battuto quarant’anni fa da Martin Luther King.

Corriere 5.12.14
Eric e gli altri neri uccisi per errore
di Massimo Gaggi


Benjamin Carr, il patrigno di Eric Garner, è un uomo anziano, provato dalla vita e arrabbiato per la decisione del grand jury di non incriminare il poliziotto che ha soffocato quel ragazzone disarmato di 43 anni che entrava e usciva di galera perché vendeva sigarette di contrabbando ma che non era affatto un tipo violento: amato nel quartiere dove, ogni volta che scoppiava una rissa, metteva in mezzo i suoi 170 chili e faceva da paciere. Chili in più che gli sono stati fatali, spingendo il poliziotto che ha cercato di bloccarlo a stringere troppo la presa attorno al collo. Ma le giustificazioni dell’agente cadono davanti al filmato dell’arresto: Eric schiacciato sul marciapiede che per undici volte ripete «non riesco a respirare». Giusta la rabbia di Benjamin, anche perché sono ormai troppi — sei solo a New York negli ultimi anni — i casi di neri disarmati uccisi per errore da poliziotti che non hanno mai dovuto rispondere dei loro atti davanti alla giustizia. Ma quando un nero rovescia per protesta un bidone di spazzatura in mezzo alla strada, dove Eric è stato ucciso il 17 luglio scorso, Benjamin lo costringe a ripulire l’asfalto: «Questo non è il modo di protestare. Ed Eric non avrebbe voluto». Un gesto col quale Ben Carr si guadagna il ruolo di eroe positivo della protesta di New York, così come a Ferguson, dieci giorni fa, Louis Head, il patrigno di Michael Brown, era diventato il simbolo negativo della rivolta nel sobborgo di St Louis quando, poco dopo l’annuncio dell’assoluzione dell’agente che aveva sparato e ucciso, aveva aizzato la folla: «Andiamo a bruciare quella puttana». Intendeva la caserma della polizia davanti alla quale stava manifestando, ma pochi minuti dopo erano in fiamme anche magazzini e negozi della tranquilla borghesia nera della cittadina, forse punita perché imbelle, e anche la chiesa frequentata al padre di Michael, reo di aver invitato la gente alla calma alla vigilia della sentenza. Ripristinare la fiducia dei cittadini Usa, minoranze etniche comprese, nella polizia non sarà facile. Né sarà facile modificare il comportamento di agenti abituati a usare la mano pesante nei quartieri dei neri e degli ispanici, in parte per pregiudizio razziale, in parte perché qui viene commesso il 90% dei crimini. Ma per riuscirci ci vorranno proprio i Ben Carr, non i Louis Head. Obama ha ragione quando avverte che la causa dei diritti civili ha vinto quando è stata sostenuta da proteste ostinate ma non violente, non da piazze incendiarie.

Repubblica 5.12.14
La rabbia di de Blasio: “Mio figlio è nero gli dico sempre di stare attento alla polizia”
di Bill De Blasio


Il sindaco confessa di avere paura per il secondogenito Dante “Le vite di tutti contano, sembra scontato. Ma la storia dice che non lo è”
P-UBBLICHIAMO un estratto del discorso pronunciato a Staten Island dal sindaco di New York Bill de Blasio sulla decisione di non incriminare l’agente responsabile della morte di Eric Garner.
PER molti newyorchesi questo è un giorno molto doloroso. Piangiamo, ancora una volta, la perdita di Eric Garner, che era padre, marito, figlio e un brav’uomo. Un uomo che dovrebbe essere qui con noi e non lo è.
Ho trascorso un po’ di tempo con il padre di Eric, Ben Garner, che prova un dolore indicibile. È veramente molto difficile stare accanto a chi soffre, consolare chi sai inconsolabile a causa di ciò che ha vissuto. Posso solo immaginare il suo dolore. Non ho potuto fare a meno di pensare immediatamente a che cosa vorrebbe dire per me perdere mio figlio Dante. La vita, dopo una perdita del genere, non potrebbe più essere la stessa. E sento che non potrebbe più nemmeno essere completa. Niente sarà più completo per il signor Garner.
Pur travolto dal dolore egli ci ha tenuto a dire una cosa chiaro e tondo: la violenza deve finire. Ha detto che Eric non l’avrebbe voluta. Che la violenza non ci porterà da nessuna parte. È stato netto nell’esprimere questo suo desiderio nonostante il dolore. Le sue parole sono nobili, secondo me. Se volete onorare la vita di Eric Garner, protestate, ma pacificamente. Non macchiate il suo nome con episodi di violenza o vandalismo.
Questa vicenda mi colpisce molto da vicino. L’altro giorno ero alla Casa Bianca. Il presidente degli Stati Uniti si è rivolto a me, e mi ha detto che Dante — che aveva conosciuto alcuni mesi fa — gli ha ricordato com’era da adolescente. Poi ha aggiunto: “So che vedi questa crisi da un’ottica molto personale”. E io gli ho risposto che è proprio così perché Chirlane e io abbiamo dovuto parlare a Dante per anni dei pericoli che potrebbe correre. È un bravo ragazzo, rispettoso della legge e non penserebbe mai di fare del male a qualcuno. Eppure, a causa della storia che tuttora incombe su noi tutti e dei pericoli che potrebbe correre, abbiamo dovuto letteralmente addestrarlo — come le famiglie fanno da decenni in questa città — e insegnargli a reagire con particolare attenzione tutte le volte che dovesse incontrare uno degli agenti di polizia che lavorano per proteggerlo.
Abbiamo dovuto parlargli di quella dolorosa sensazione di contraddizione che i nostri giovani provano d’istinto e spiegargli che gli agenti di polizia lavorano per proteggerci, e noi tutti li rispettiamo per questo, ma che al tempo stesso c’è la storia di cui tener conto a causa della quale molti dei nostri giovani hanno paura. E molte delle nostre famiglie hanno paura.
Per questo mi sono preoccupato più volte nel corso degli anni. Mia moglie Chirlane si è preoccupata. Ci siamo chiesti: “Stasera Dante sarà al sicuro?”. In questa città ci sono moltissime persone che ogni notte si chiedono “Mio figlio sarà al sicuro?”. E non solo al sicuro da dolorose realtà come la criminalità e la violenza di alcuni quartieri, ma al sicuro anche da quelle stesse persone di cui si dovrebbero fidare come figure protettrici.
Questa è la realtà. E rispecchia qualcosa di più grande di cui avete sentito parlare nelle proteste a Ferguson e nel resto del paese. Lo avete sentito in molti posti. Gente di ogni provenienza ha scandito lo stesso basilare concetto. Ha detto: “Le vite dei neri contano”. E lo ha detto perché era indispensabile dirlo, anche se è una frase che non si dovrebbe mai dire. Dovrebbe essere scontato. Purtroppo, però, la nostra storia ci obbliga a dirlo: le vite dei neri contano. ( Traduzione di Anna Bissanti)

La Stampa 5.12.14
Podemos sotto accusa
“Il leader Iglesias finanziato dall’Iran”
di Gian Antonio Orighi


Bufera su Podemos, il partito di sinistra nato nel gennaio scorso dal movimento degli Idignados, quarto alle Europee di maggio con il 7,9% dei voti e primo nelle intenzioni di voto (17,6%). Enrique Riobóo, ex socio del segretario di Podemos, Pablo Iglesias, ha rivelato che il leader politico riceverebbe 3 mila euro alla settimana dal governo iraniano per condurre il programma Fort Apache sulla televisione Hispan Tv, emittente in spagnolo degli ayatollah di Teheran. Non solo: Iglesias avrebbe preteso dall’ex socio un «pizzo» mensile di 2 mila euro. Di più: voleva comprare la tv di Ribóo, Canal 33, con i soldi del governo socialista venezuelano.
Iglesias, 36 anni, eurodeputato e professore di Scienze Politiche all’Università Complutense di Madrid, grande comunicatore, deve la sua popolarità soprattutto alla sua attività televisiva con La Tuerka, che va in onda online sul giornale di sinistra «Público» e Fort Apache su Hispan tv. Quest’ultima trasmette dal 2011 e venne inaugurata a Madrid nientemeno che dall’ex presidente iraniano Ahmadinejad, per «rinforzare i vincoli con l’America Latina». Un interesse condiviso dal leader di Podemos, che fa parte del cda di Ceps, un think tank che ha collaborato con i governi progressisti di Venezuela (3,7 milioni di euro in consulenze, tra il 2002 ed il 2012), Ecuador e Bolivia.
Secondo l’intervista che Riobóo ha concesso a «El Economista», fu proprio Iglesias a convincerlo a trasmettere, sulla sua emittente, «Fort Apache». «Nell’ottobre del 2012 disse che dovevamo parlare con gli iraniani, che io potevo incassare 6 mila euro per trasmetterlo in Spagna», racconta l’ex socio. «Per la mediazione Iglesias volle una commissione del 40%. Io ricevevo 5 mila euro mensili e ne giravo a Iglesias 2».
Nel 2013 Iglesias, che ha sempre lodato lHugo Chávez, avrebbe persino proposto a Riobóo di comprare Canal 33. «Mi dissero che c’era dietro il governo del Venezuela. Ma morì Chávez,. Serviva 1 milione e il numero 2 di Podemos, Monedero, tornò solo con 200 mila euro».

Corriere 5.12.14
La Svezia in crisi si scopre meno tollerante
di Luigi Offeddu


«Sarà un referendum contro l’islamismo»: così hanno annunciato loro, parlando del voto anticipato fissato per il 22 marzo. Loro, cioè i Democratici Svedesi, terzo partito del Paese europeo che accoglie più immigrati extracomunitari: 80 mila permessi di residenza attesi solo per il 2015, e solo per i profughi siriani. Hanno ragione, i Democratici Svedesi, 12,9% dei voti, autori di uno sgambetto sul bilancio che ha appena ribaltato il governo pro europeista, e giudicati in gran crescita da tutti i sondaggi: quello del 22 marzo sarà un referendum, e non solo svedese perché avrà riflessi per tutta l’Europa. La Svezia è un simbolo: di tolleranza per gli uni, di anarchia per gli altri. «L’islamismo è il nazismo e il comunismo dei nostri tempi, deve essere affrontato con disgusto», ha affermato mesi fa il leader del partito Jimmie Akesson, 35 anni (foto), ora scomparso da Tv e comizi perché vittima — fonte ufficiale — di «un forte esaurimento».
I Democratici Svedesi hanno un paio di eurodeputati, al fianco dell’antieuropeista Nigel Farage. Ma soprattutto, hanno un amore dichiarato per il Fronte Nazionale di Marine Le Pen. Lei prende 9 milioni di euro da Putin, ci sono voci che accada anche con altri partiti antieuropeisti. Nel frattempo, il malessere cresce: i giovani musulmani spesso in rivolta nella banlieu parigina ricordano i coetanei che si battevano, nel 2013, nelle periferie di Stoccolma. Ma un dramma sociale così, in qualunque Paese, non può essere solo bianco o nero. L’America lo affronta da 80 anni, e ancora non l’ha risolto: imparare la convivenza richiede decenni, e molto cervello oltre che cuore. I Democratici Svedesi credono nella soluzione zero: giù la serranda, e basta. Però l’Ue non ha serrande a sufficienza, né vuole averle. Allora via dall’Ue la Svezia, una delle più antiche democrazie europee? E via da Stoccolma i turchi, i curdi, i marocchini con i loro taxi e ristoranti, con la loro cultura? Può darsi, ma forse non era questo che sognavano Robert Schuman o Altiero Spinelli.

Repubblica 5.12.14
Cina
Artisti nelle campagne la Rivoluzione culturale dell’era Xi Jinping
Registi e scrittori spediti a reimparare i valori socialisti
di Giampaolo Visetti


PECHINO QUANDO il partito spedisce intellettuali e artisti nelle campagne, in Cina suona l’allarme. In queste ore a Pechino quella sirena squilla. Che il presidente Xi Jinping ripercorra la strada di Mao Zedong, lucidando il culto della personalità nella Città Proibita, è un dettaglio che per adesso toglie il sonno solo ai vertici comunisti. Lo spettro di una nuova Rivoluzione culturale, con campagne correttive di massa, spaventa invece sia quanti sono sopravvissuti alle Guardie Rosse sia i loro figli costretti oggi nelle metropoli dei consumi.
Non siamo ancora alla tragedia del decennio della gogna ideologica collettiva, concluso nel 1976. I templi buddisti non vengono incendiati, i professori non sono costretti in ginocchio nei cortili delle università, i figli non fanno impiccare i padri. Per la prima volta però, a quasi quarant’anni dal processo alla Banda dei Quattro, il potere torna a inviare in aree rurali e regioni popolate dalle minoranze etniche coloro che, per mestiere, usano il cervello in modo, se non autonomo, quantomeno pericolosamente creativo. I funzionari che governano censura e propaganda hanno spiegato che artisti, registi e star della tivù «dovranno vivere tra le masse agricole per formarsi una corretta visione dell’arte e creare più capolavori».
Rispetto al 1966 è già un passo avanti: allora il Grande Timoniere, come terapia, prescrisse ai più “lavoro di zappa”. Xi Jinping, più cosmopolita e dotato del talento per il glamour, non pretende che pittori e scrittori affondino i piedi nelle risaie. Ma che l’ intelligentia la smetta di «inseguire la popolarità con opere volgari» o di «scimmiottare stravaganze occidentali». Diagnosi inappellabile, prescrizione semplice. Chi oggi in Cina vive nel mondo di cultura, arte, spettacolo e tivù, nei prossimi mesi dovrà trascorrere «da 30 a 90 giorni in villaggi, aree delle minoranze e di confine», ossia nelle zone che «hanno maggiormente contribuito alla vittoria della guerra rivoluzionaria».
Il “nuovo Mao”, profeta del “sogno cinese”, nemmeno si preoccupa di camuffare l’operazione di re-indottrinamento. L’editto sulla «riscoperta della purezza delle fonti socialiste» il discorso che, a fine ottobre, aveva scosso un popolo allenato a stare con le orecchie aperte. «Gli artisti — aveva avvertito Xi Jinping — non devono diventare schiavi del mercato e puzzare di soldi, come gli uomini di cultura non devono formarsi senza la guida della politica ». La memoria di tutti è corbolo sa al proclama di Mao del 1949, che teorizzò «la funzione dell’arte come servizio al partito». Prima un presentimento, ora la conferma.
I prescelti per la cura rossa partiranno a scaglioni di cento, selezionati dall’Amministrazione statale per i media. Divisi tra «villaggi rurali, luoghi-simsegue per lo spirito del partito e miniere» dovranno «fare studi sul campo ed esperienze di vita ». Nella realtà la Cina rurale viene sistematicamente distrutta, le minoranze sono colonizzate, le miniere sono cimiteri di morti sul lavoro e gli artisti indipendenti, come Ai Weiwei, finiscono arrestati. L’idillio medievale delle campagne di Mao non corrisponde all’orrore postindustriale dei deserti senza vita ereditati da Xi Jinping. Anche i conduttori di tg più adulatori e i registi più nostalgici in queste ore si chiedono: che cosa mai dovremmo trovare di tanto stimolante nelle periferie devastate di un impero che non c’è più? Non si concentrano oggi più assurdità e più disperazione in un centro commerciale di Shanghai o in una fabbrica hitech del Guangdong? Il messaggio del potere però è chiaro: il decennio d’oro della contaminazione e della neo-colonizzazione cinese è finito, si riapre l’era di ortodossia socialista e tradizioni confuciane.
In attesa delle prime comitive di intellettuali verso Tibet e Mongolia Interna, il solo autorizzato a parlarne apertamente è stato il Nobel per la letteratura Mo Yan. Premiato a Hong Kong, e opponendo un ostinato silenzio alla repressione in corso contro la rivolta degli studenti democratici, ha invitato i connazionali ad «abbandonare la contaminazione occidentale e il luoghi comuni della scrittura straniera» per «ritrovare l’originalità del nostro cuore». L’autore di Sorgo Rosso ha confessato che gli elegiaci campi descritti erano «un inferno di zanzare e pesticidi» e ripetuto la metafora delle due fornaci. «Garcia Marquez e Faulkner — ha detto — erano per noi cubetti di ghiaccio come due immense fornaci roventi. Siamo sopravvissuti solo perché costretti a restare lontani da loro». È il discorso di un genio, ma tradotto da Pechino si risolve nell’ordine di una logorata via patriottica alla creatività.
«Anche i confini ideali — ha sottolineato ieri la tivù di Stato — sono segnati sulla carta geografica ». Offensiva strategica, a partire dalle scuole. Il contaminante calcio obbligatorio resta una promessa, in omaggio agli sponsor che già fantasticano sulla «nuova super-potenza del pallone», mentre il “patriottismo” diventa la dura quotidianità di una materia che farà media. Gli asini in Libretto Rosso saranno bocciati perché «i giovani vanno riconquistati», ma pure ricattati, con il profumo della carriera d’oro. Sembra la cupa Cina post-imperiale di Lin Biao. È quella scintillante dell’e-commerce di Jack Ma.

La Stampa 5.12.14
Con il maxi-telescopio inizia la nuova era dell’astronomia
L’Europa lo costruirà in Cile e per l’Italia è una grande occasione
di Giovanni Bignami


Se dimenticaste la vostra copia de La «Stampa» su una panchina all’esterno della Stazione Spaziale, niente panico: appena tornati a terra, potrete leggere la stessa copia del vostro quotidiano. Userete lo E-Elt, il nuovo «telescopione» la cui costruzione è appena stata approvata dagli astronomi europei: vi permetterebbe di leggere i titoli, il testo e ammirare le fotocolor.
Si respirava l’aria della riunione storica ieri, nel Consiglio dello European Southern Observatory. Con il fiato della concorrenza sul collo (cioè gli americani, che vorrebbero toglierci il primato della astronomia, attualmente europeo), da un lato, e con le limitazioni sui fondi per la ricerca in tutta Europa dall’altro, c’è voluto il coraggio e la visione di tutti i 14 Stati membri, dalla Germania all’Italia e al Portogallo, per arrivare unanimi alla decisione.
Il telescopio avrà uno specchio di quasi 40 metri (!) di diametro, e sarà costruito nel deserto di Atacama, in Cile, dove l’Europa ha già tutte le sue più belle macchine per astronomia. E’ un posto ideale: notti perfettamente buie, aria pulitissima, 2500 metri di quota, e poche nubi: ci piove 20 volte meno che nel Sahara… Per di più, il cielo dell’emisfero Sud è ricco di oggetti interessanti, a cominciare dal centro della Galassia in cui viviamo.
Bravi in tutto, eccellenti in astronomia, gli europei sono però un disastro come originalità nei nomi dei progetti. Il telescopio più grande del mondo si chiama E-Elt, per (European Extremely Large Telescope), semplicemente perché viene dopo quello attualmente in funzione, il Vlt, Very Large Telescope… Si poteva fare meglio, ma pazienza.
Quello che conta è che si tratterà di una grandissima sfida tecnologica, prima ancora che scientifica. E l’Italia, con Inaf e il supporto industriale, sembra posizionata molto bene per giocare un ruolo da protagonista. C’è da fare, o meglio da inventare, di tutto. Da un edificio enorme, con cupola apribile e ruotante, in grado di resistere ai venti estremi delle Ande come ai terremoti, ad una struttura capace di sostenere un incrociatore ma di puntarlo con la precisione di un orologio svizzero, alla delicatissima ottica mobile (una specialità italiana) per correggere le turbolenze residue della atmosfera di montagna, a rivelatori di fotoni capaci di vedere una candela al di là della Luna (e dirti di che colore è).
Le nostre migliori industrie si stanno già posizionando, o meglio stanno sgomitando, all’interno di una competizione europea che non fa sconti, per i pezzi migliori. Si tratta di portare a casa contratti europei, ricchi di ritorno tecnologico, e che offrono occupazione nuova e molto pregiata. Sanno di poter contare sulla collaborazione dei ricercatori dell’Inaf, alcuni dei quali hanno già in tasca, o almeno in mente, soluzioni tecniche a problemi impossibili. E’ il loro mestiere. Così come è il mestiere di chi prende le decisioni politiche assicurare loro quel minimo di supporto necessario per vincere in Europa. La posta in gioco, oltre al prestigio, è un ritorno industriale ed economico da sogno.
Naturalmente, gli astronomi europei ed italiani stanno già sognando, o meglio studiando, cosa guardare con E-Elt, dopo la sua «prima luce» nel 2024 (speriamo). Una astronomia tutta nuova: dallo studio delle atmosfere dei pianeti vicini simili alla Terra, cioè posti dove andare se qui si mette male, a guardare in faccia il buco nero al centro della nostra Galassia, alla nascita delle prime stelle dell’Universo, quelle che nessuno ha mai visto, le nonne del Sole. A soli quattro secoli del suo cannocchialino da 4 cm chissà cosa direbbe quel toscanaccio di Galileo.

Corriere 5.12.14
Orion verso lo spazio
Torna il sogno Nasa di conquistare Marte
Lancio rinviato ieri: grande attesa per oggi
di Giovanni Caprara


Oggi nel cielo di Cape Canaveral dovrebbe debuttare Orion, la nuova astronave che la Nasa ha costruito per dare un successore allo shuttle ritirato dal servizio ormai tre anni fa. Il lancio era previsto ieri ma i venti troppo forti e un cattivo funzionamento (poi risolto) di alcune valvole dei serbatoi del vettore Delta IV che la trasporta ha consumato il tempo a disposizione. Gli ingegneri della Nasa vogliono effettuare questa prima prova senza astronauti a bordo per poter registrare il comportamento del nuovo veicolo durante le fasi di lancio e di rientro nell’oceano. Tutto durerà quattro ore e dopo due orbite intorno alla Terra dalla quale si allontanerà sino a circa 22 mila chilometri (cinquanta volte più distante della stazione spaziale dove c’è Samantha Cristoforetti) si tufferà nell’atmosfera alla velocità di 32 mila chilometri, la più elevata mai raggiunta da un veicolo abitato. L’exploit serve a collaudare lo schermo che la deve proteggere dalla vampata di calore (1.600 gradi) che si scatena per l’attrito e in secondo luogo i sistemi di controllo.
Il secondo disastro dello shuttle si verificò proprio per la rottura della protezione termica. Orion, però, — affermano alla Nasa — è dieci volte più sicura della vecchia astronave e la sua costruzione è stata approvata dieci anni fa dall’amministrazione Bush nell’ambito del programma Constellation destinato a riportare gli americani sulla Luna (abbandonata nel 1972) e poi verso Marte. Obama, invece, arrivato alla Casa Bianca ha subito messo in un cassetto il progetto Luna, scatenando l’opposizione del Congresso che lo costringeva a riavviare almeno la costruzione di Orion e del grande razzo Sls (Space launch system) che la doveva trasportare.
Dopo il primo collaudo di oggi alle 13.05 ora italiana, il secondo volo è però ipotizzato soltanto nel 2017 e allora, pur effettuando una circumnavigazione della Luna, sarà sempre senza uomini a bordo. In questa occasione il sistema di propulsione sarà fornito dall’Esa europea. I primi astronauti dovrebbero essere protagonisti alla terza missione prevista per il 2021. La data è molto incerta perché è legata alla costruzione del vettore spaziale e alla definizione della missione. Ora si ipotizza la cattura di un asteroide che sarebbe trascinato intorno alla Luna. Gli astronauti vi salirebbero quindi sopra recuperando dei campioni da studiare sulla Terra. L’obiettivo è molto discusso dalla comunità scientifica che preferirebbe un impegno immediato verso Marte (ipotizzato solo per il 2030). I tempi così lunghi sono dovuti all’inadeguatezza dei finanziamenti: il programma dovrebbe costare 20 miliardi di dollari fino al 2021.
Orion è ben diversa dallo shuttle perché è una capsula simile all’Apollo usata per andare sulla Luna. Ma è più grande perché trasporta fino a sei astronauti, è riutilizzabile una decina di volte ed è tecnologicamente più avanzata.

Corriere 5.12.14
Più libri più liberi 1
Persi 5 milioni di libri in un anno ma i ragazzini salvano il mercato
di Edoardo Sassi


La crisi del settore c’era. E c’è ancora. Anche quest’anno infatti un segno meno generalizzato caratterizza l’intero mercato del libro, non solo quello prodotto dalla piccola e media editoria i cui marchi principali, circa quattrocento, sono riuniti da ieri e fino all’8 dicembre nel Palazzo dei Congressi dell’Eur, a Roma, per la tredicesima edizione della fiera «Più libri più liberi».
Si comprano dunque sempre meno volumi: in calo sia le vendite per numero di copie, che «a valore» (il fatturato in base al prezzo di copertina), come risulta chiaramente dall’annuale indagine che la società Nielsen conduce basandosi sul cosiddetto «scontrinato» (dati dunque relativi a numeri e soldi) e presentata ieri pomeriggio nel corso della kermesse romana.
I piccoli e medi editori (lo studio considera tali quelli che hanno un venduto nei canali trade libri per un valore non superiore ai dieci milioni di euro) non vanno in sostanza né meglio né peggio dei grandi. Ma tutti vanno male. Considerando infatti l’intero mercato — grandi e piccoli insieme, tutti i canali di vendita compresa la grande distribuzione — nei primi dieci mesi di quest’anno (da gennaio a ottobre) la perdita segna un meno 4,6 per cento di fatturato (pari a circa 43 milioni di euro) e un meno 7,1 di copie di volumi di carta venduti, che equivale a cinque milioni e mezzo di libri in meno rispetto al 2013. Numeri che vanno a sommarsi a quelli di un crisi già forte negli anni precedenti: considerando i dati del biennio 2012-2014 il fatturato è infatti passato da un miliardo di euro circa (1,012,614) ai 904 milioni odierni, e le copie vendute da 79 milioni circa a 72 milioni.
In controtendenza, sia pure in questo generale clima di perdita, il dato ristretto al campione degli espositori presenti con uno stand a «Più libri più liberi» (fino all’anno scorso l’indagine Nielsen era condotta solo sulle piccole case editrici presenti in fiera, da quest’anno la ricerca si è invece allargata a tutti i 5.663 marchi con venduto inferiore ai 10 milioni di euro annui). Esclusa la grande distribuzione, i marchi presenti in questi giorni a Roma crescono infatti, rispetto al 2013, di un 1,1 per cento nella vendita di copie e di un 2,2 quanto a fatturato (tutti i piccoli insieme invece, i presenti e non all’Eur, registrano un calo del 3,4 per cento per copie vendute e del 2,5 per cento per fatturato).
«Anche nelle difficoltà — ha commentato ieri Marco Polillo, presidente dell’Associazione Italiana Editori (Aie) — esiste una punta di diamante innovativa e attenta in grado di segnare il mercato nel suo complesso. Sia il nostro Rapporto sulla piccola e media editoria, sia l’indagine Nielsen indicano infatti, al di là dei segni meno generalizzati, che esiste un dieci per cento circa di piccoli e medi editori che non solo crescono, ma crescono quel tanto da smorzare i segni meno complessivi. E quel dieci per cento di editori sta qui».
Nella tendenza generale del mercato (negativa) — tutto il mercato, grandi e piccoli insieme — sono comunque interessanti alcuni dati emersi dall’indagine e che concernono i diversi generi più o meno venduti: cresce ancora, ad esempio, il peso dei volumi per bambini e ragazzi, al punto che le copie raggiungono il 20,5 per cento del totale e si avvicinano sempre di più al segmento della fiction straniera, il genere più venduto in assoluto e che pesa per il 26,1 per cento (in calo però rispetto agli ultimi anni). Il mondo salvato dai ragazzini, si potrebbe azzardare giocando con un celebre titolo di Elsa Morante: un libro su cinque tra quelli che si vendono in Italia è pensato per loro. E il genere infanzia si piazza al secondo posto anche nel mercato specifico dei piccoli editori: per loro un quarto delle copie vendute riguarda la non fiction pratica (manualistica, cucina, salute, tempo libero, guide), ma a seguire sono i libri per bimbi: 18,3 per cento. Terza posizione per la non fiction specialistica, leggermente al di sotto, con il 17,9 per cento. All’ultimo posto (11,3 per cento del campione) romanzi e racconti italiani.

Corriere 5.12.14
Più libri più liberi 2
Le scelte non conformiste premiano i medi
di Paolo Fallai


Eppure esiste una pattuglia, un’avanguardia di editori che sono riusciti a spuntare un segno più, nella catastrofe che arreda i bilanci di questi anni. Sono stretti tra la sofferenza dei piccoli e le tribolazioni dei grandi marchi. E sono tutti a Roma, in questa fiera «Più Libri più Liberi» che da molti anni è diventato il paradiso dei libri introvabili, vista la difficoltà ormai cronica di farsi vedere tra gli scaffali delle librerie. Ma quali sono le carte vincenti? Il valore della diversità, con la creazione di nuovi segmenti, il coraggio di rischiare nuovi autori, i rapporti con l’estero. Così, tra le righe dell’inchiesta voluta dall’Aie, si scopre che se tutto il mercato vende attraverso i canali ecommerce in media il 12 per cento dei propri libri, loro arrivano al 15,6. Mentre gli ebook rappresentano il 5 per cento, loro sfiorano il 9. E soprattutto dal 2011 le vendite all’estero dei diritti di questi editori «medi» sono salite del 96,2 per cento. Non esiste un numero che evidenzi la loro quota di «non conformismo», se ci fosse sarebbe a due cifre. Come si sono difesi dalla «tempesta perfetta» di questi anni? Sfruttando ogni possibilità offerta dalle nuove tecnologie, social compresi. E riducendo all’osso le spese. Solo nell’ultimo anno i piccoli e medi editori hanno «tagliato» un quinto del personale, perdendo 1.500 dipendenti, esclusi collaboratori e consulenti.
Il problema, adesso, è come sostenere questi spiragli di luce. Perché anche la creatività più spigliata e le migliori intenzioni possono essere stroncate dal dato impietoso sulle «rese» passate dal 52 per cento del 2000 al 63,6 per cento dell’anno scorso. Le «novità» sono crollate del 15 per cento, come le ristampe. È vero che in questo settore le previsioni per il 2014 danno un piccolo segno positivo (più 4,1 per cento), ma resta la sensazione che senza un intervento capace di premiare il coraggio di queste avanguardie, ogni sforzo sarà vano. Inutile ripetere le proposte di sempre. Basterebbe non considerare il prodotto libro come una merce qualsiasi. Solitudine e indifferenza non si trovano nei bilanci, ma pesano come crediti che non sarai mai in grado di riscuotere.
pfallai

Il Sole 5.12.14
«I rischi per la cultura e il Paese»
Escobar (Piccolo di Milano): il taglio delle risorse mina la democrazia
di Giovanna Mancini


«Non mi interessa in questo momento quantificare l’impatto e le conseguenze economiche per i singoli soggetti. Il problema è più radicale, è politico e riguarda tutto il sistema della cultura, dei servizi sociali e della ricerca nel nostro Paese». Per Sergio Escobar, direttore del Piccolo Teatro di Milano, si tratta di una «battaglia di democrazia»: se venisse a mancare il contributo dei cosiddetti “corpi intermedi”, tra cui le fondazioni bancarie, questo sistema rischia di crollare. L’aumento della pressione fiscale sulle fondazioni previsto nella legge di Stabilità (che nel 2015 porterebbe la tassazione a 360 milioni, dai 100 del 2011), se confermato in Parlamento, avrebbe conseguenze devastanti.
Ma il direttore del Piccolo non vuole parlare di cifre, perché la questione va ben oltre il problema di far quadrare il bilancio. È noto che il teatro milanese riceve un contributo importante dalla Fondazione Cariplo (con 800mila euro nell’ultimo bilancio è il maggiore sponsor privato), che del resto svolge una funzione fondamentale in tutto il sistema culturale lombardo e non solo. Proprio ieri il presidente della Fondazione, Giuseppe Guzzetti, ha denunciato il rischio di tagli a istituzioni come lo stesso Piccolo, ma anche Scala o Orchestra Verdi e Fondazione Cini di Venezia, se dovesse essere confermato un provvedimento che porterebbe 25-30 milioni di tasse in più rispetto a quelle messe in bilancio.
Ma il problema è più radicale, precisa Escobar: «Il problema è politico: qui parliamo dello sviluppo del Paese. Si sta mettendo in discussione un modello complessivo di democrazia, che dal dopoguerra a oggi si è fondato su un equilibrio tra risorse pubbliche e private, di cui gli enti intermedi rappresentano un tassello essenziale, e che ha consentito al sistema della cultura e dei servizi sociali di sopravvivere».
L’eventuale riduzione delle risorse da parte delle fondazioni andrebbe infatti ad aggravare un contesto dei finanziamenti alla cultura sempre più sotto attacco dalle scelte politiche degli ultimi governi, proprio in un momento in cui, viceversa, i teatri e altri soggetti sono chiamati ad aumentare la produttività e i ricavi (si veda Il Sole 24 Ore dell’11 novembre). Il Fus nel 2014 ha tenuto, ma è diminuito del 20% dal 2000; Comuni e Regioni tagliano le risorse; le Camere di commercio (altro “ente intermedio” vitale per il sistema cultura) sono oggetto di una ristrutturazione che prevede la riduzione di diverse funzioni; i fondi privati sono in forte diminuzione (-41% tra il 2008 e il 2013).
Ma c’è di più, aggiunge il direttore del Piccolo: la stretta fiscale sulle fondazioni bancarie avrebbe conseguenze che vanno al di là dei problemi di contabilità (nel 2013, in tutta Italia, questi enti intermedi hanno contribuito alla cultura con oltre 300 milioni, di cui 40 milioni la sola Fondazione Cariplo). Perché quello tra il mondo della cultura e le fondazioni bancarie si è consolidato nel tempo come un rapporto privilegiato e ravvicinato di costante dialogo e confronto, di condivisione degli obiettivi, ovvero lo sviluppo di un territorio e dei suoi cittadini - scopo per il quale, del resto, sono nate la fondazioni.
«Capisco e condivido la necessità di ridurre gli sprechi e tagliare i rami secchi – prosegue Escobar -, ma qui si colpisce il bersaglio sbagliato, perché quello con le fondazioni è un rapporto sano e virtuoso, che funziona. Posso assicurarle che in tanti anni di esperienza nel mondo dello spettacolo, qui sprechi non ne ho visti». Sarebbe come buttare via il vasetto di marmellata per eliminare la muffa che si è formata in superficie. Nessuna madre o padre di famiglia agirebbe così: «Gli sprechi vanno eliminati, ma con una strategia e una logica che qui non vedo».
Il rapporto tra Fondazione Cariplo e Piccolo ha radici lontane, risale addirittura alla fondazione, nel 1947, del primo teatro stabile italiano. «Nel dopoguerra la politica intuì che per garantire le attività necessarie allo sviluppo del Paese e i servizi sociali alle persone erano necessari dei soggetti intermedi, realtà di diritto privato ma destinate a supportare funzioni e attività di natura sociale». Quello fra enti culturali e fondazioni bancarie non è dunque un rapporto soltanto economico, che si esaurisce nella richiesta ed erogazione dei fondi. «Fare teatro significa partecipare allo sviluppo di un territorio – dice il direttore del Piccolo -, un obiettivo che condividiamo con le fondazioni».
Ma è tutto il modello di compartecipazione tra pubblico e privato – di cui le fondazioni sono elemento vitale - a essere messo in discussione: «Sono certo che questo modello vada migliorato e reso più efficiente – dice ancora Escobar – ma la strada imboccata è sbagliata e non mi riferisco soltanto al governo Renzi, bensì alle scelte politiche degli ultimi anni. Si sta minando alle basi il tessuto sociale che ha dato vita alla Repubblica. Non parlo da direttore del Piccolo: non ho paura per il bilancio del mio teatro. Sono preoccupato, come cittadino, del futuro della cultura nel nostro Paese».

Repubblica 5.12.14
Il simbolo dell’impegno
Vent'anni senza Gian Maria Volonté, l'attore che incarnò un'epoca
di Franco Montini

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