sabato 6 dicembre 2014

Corriere 6.12.14
In 18 muoiono sul gommone
L’Onu: serve Mare Nostrum
Critica all’Ue: così migliaia di vittime. I migranti uccisi dal freddo
di Alessandra Arachi


ROMA Sono morti in mezzo al mare di freddo e di sete. Sono morti in diciotto, i migranti sopra un gommone, a 110 miglia dalle coste italiane, nel canale di Sicilia. C’era anche una bambina fra di loro, sette anni appena.
Quell’imbarcazione era da giorni in mare, in avaria. E delle persone a bordo altri settantaquattro migranti sono stati salvati grazie all’intervento di due motovedette della nostra guardia costiera, anche se due sono in gravi condizioni. Le salme, invece, sono state portate da una motovedetta a Porto Empedocle.
L’operazione «Mare Nostrum» è finita, in teoria, e questo preoccupa molto le Nazioni Unite, che dopo la tragedia di ieri ha criticato l’Ue: «Per quanto necessaria, Frontex è una risposta insufficiente quando sono in gioco così tante vite umane», ha detto Francois Crepeau, relatore speciale dell’Onu. «Triton, l’operazione di Frontex per il pattugliamento delle frontiere, sebbene risponda con le sue navi al diritto del mare può anche portare a nuove tragedie. Ho avuto personalmente rassicurazioni da parte del personale di Triton sui salvataggi, ma le risorse e i mezzi di cui sono dotati non bastano. Non si può chiudere gli occhi».
Il relatore dell’Onu Crepeau non ha risparmiato elogi all’Italia e alla nostra operazione «Mare Nostrum»: «La risposta del governo italiano all’emergenza emigrazione, è stata coraggiosa e audace, nonostante il dissenso di chi si è detto reticente a destinare 9 milioni di euro al mese alle operazioni di soccorso in mare in un momento di forte disoccupazione e di crisi economica». Ha poi lanciato una critica all’Unione europea: «Senza un’operazione come Mare Nostrum c’è il timore che l’estate prossima migliaia di persone continueranno a morire».
E ha aggiunto: « Sull’operazione Triton (iniziata ufficialmente il primo novembre di quest’anno, con 17 Paesi coinvolti, ma più limiti di pattugliamento e di fondi, ndr ) mi riservo di dare un giudizio nei prossimi mesi. Quello che però nel frattempo faremo è chiedere alle autorità europee per quale motivo non hanno voluto dare seguito ad un’esperienza tanto benefica quanto positiva, come Mare Nostrum, che ha permesso di salvare 160 mila persone».
Da Bruxelles è stato il nostro ministro dell’Interno Angelino Alfano a intervenire: «Piangiamo queste vittime ma ribadiamo che il contrasto ai mercanti di morte è la cosa più importante. Dobbiamo considerare la Libia la priorità della comunità internazionale». Alfano ieri mattina era a Bruxelles per il consiglio europeo e si è incontrato con il commissario all’Immigrazione Dimitris Avramopoulos. Che ha enunciato le priorità della Ue sul tema: «Gli Stati membri dovrebbero focalizzarsi sull’attuazione delle nuove regole del sistema di asilo comune. Servono azioni concrete».
Il commissario Europeo all’immigrazione ha spiegato che allo studio c’è un progetto pilota per arrivare ad una condivisione più equa degli oneri e ad un numero credibile di ricollocamenti in tutta Europa.

Repubblica 6.12.14
La strage dei migranti morti di freddo e sete
Diciotto vittime a bordo di un gommone nel Canale di Sicilia, c’è anche una bambina di quattro anni L’Onu condanna lo stop a Mare Nostrum: non ci saranno più salvataggi. Alfano: i naufragi c’erano anche prima
di Emanuela Lauria


PALERMO Hanno ceduto al freddo e alla sete, dopo essere rimasti almeno 24 ore all’addiaccio su un gommone in panne. Così, nelle acque del Canale di Sicilia, più vicino alla Libia che a Lampedusa, sono morti i 18 migranti di provenienza sub-sahariana che costituiscono il primo tragico bilancio dalla fine del programma Mare Nostrum. E le vittime alimentano le polemiche: l’Onu definisce «insufficiente» la risposta di Frontex mentre l’Ue, che gestisce con l’Italia il nuovo programma, ammette che «bisogna fare di più». L’Sos lanciato dall’imbarcazione in avaria, ieri mattina, ha fatto scattare i soccorsi di due motovedette della Guardia Costiera e di una nave del Lussemburgo che incrociava nella zona della tragedia. A bordo del gommone 16 corpi senza vita. Altri due immigrati in gravissime condizioni sono deceduti poco dopo. A Porto Empedocle, qualche ora più tardi, sono giunti i cadaveri di 14 uomini, tre donne e di una bambina di quattro anni, sistemati in celle frigorifere e conservati in un vecchio magazzino per il pesce. Oggi le salme saranno tumulate in cimiteri della provincia, per un rito funebre anticipato dalle parole dellì’arcivescovo di Agrigento, Francesco Montenegro: «La storia si ripete. Ci sono sciacalli che cercano di guadagnare sulla pelle di queste persone, alimentando il malaffare. Il futuro sarà grigio». I 76 superstiti sono stati trasferiti in altre località dai mezzi della Marina militare, nello stesso giorno in cui altri due gommoni, con 102 e 100 persone a bordo, sono stati intercettati a sud di Lampedusa.
Numeri che riaprono il dibattito sull’opportunità di chiudere l’operazione Mare Nostrum, che si è interrotta formalmente il primo novembre. I dubbi arrivano in primo luogo dall’Onu: il relatore speciale per i diritti umani Francois Crepeau avverte che «l’operazione Triton di Frontex è una risposta necessaria ma insufficiente quando sono in gioco così tante vite umane. L’operazione dell’Ue si limiterà a difendere la frontiera marittima italiana. Senza Mare Nostrum c’è il rischio che l’estate prossima migliaia di persone continueranno a morire ».
Ma il ministro dell’Interno Angelino Alfano difende gli accordi fatti. Rammenta che anche durante l’operazione Mare Nostrum «sono stati contati 499 cadaveri e 1.500 dispersi ». E mentre «Mare Nostrum è costata 114 milioni - afferma Alfano Triton costerà zero euro. L’Italia - dice ancora il responsabile del Viminale - ha ottenuto che l’Europa per la prima volta si occupi della frontiera di Schengen. Triton è il contributo che l’Ue dà a presidio dei confini comuni nel Mediterraneo». Alfano ribadisce che «il contrasto ai mercanti di morte è la cosa più importante ». È la Libia la priorità per la comunità internazionale, lì secondo il ministro «bisogna costruire campi di accoglienza per fare lo screening dei migranti che hanno diritto ad asilo. Solo così - conclude stronchiamo la più grande agenzia criminale di viaggi del mondo». Una cosa è certa: l’ultima sciagura nel Canale di Sicilia, avverte il commissario europeo all’Immigrazione, «è un duro monito che molto ancora deve essere fatto. Dobbiamo dare risposte credibili in uno spirito di maggiore solidarietà».

Corriere 6.12.14
Commissione teologica internazionale
Il Papa e le donne teologhe
«Come le fragole sulla torta»
Il pontefice, a braccio, loda il loro ruolo nella teologia: «Non basta, bisogna fare di più». E sul lavoro: «Riconoscerne i diritti e il valore dei loro compiti»
di Gian Guido Vecchi

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il Fatto 6.12.14
Marino, l’ultima ridotta per un Pd in preda al panico
Il partito si aggrappa al sindaco, Alfano frena sul commissariamento
Il primo cittadino si giustifica per la foto con l’uomo del potere rosso
di Luca De Carolis


Un marziano indispensabile. L’ultima ridotta per il Pd romano livido di paura, per le istituzioni che hanno il terrore di azzerare il Comune in riva al Tevere. Perfino per il Renzi che non lo ama ma che in serata lo blinda: “Roma è la capitale di questo Paese. Non consentiremo, insieme al sindaco, che sia accostata a fenomeni come corruzione e disonestà”. Ignazio Marino, il sindaco che aveva contro tutti, se ne sta solido sul suo scranno, anche nella sera in cui il Campidoglio diventa un’arena colma di risse e insulti. Gli urlano qualsiasi cosa e lui ride: nonostante quella foto di cui proprio non si ricordava, le mille voci che gli intimano di andarsene a casa, i Cinque Stelle che di una “giunta di salute pubblica” proprio non ne vogliono sapere e respingono la sua apertura. Perché si va avanti con lui, nella Roma alluvionata da arresti, indagati e miasmi da larghe intese della mazzetta. Sbatte contro troppi muri, l’appello del M5S che per tutto il giorno invoca il commissariamento del Comune per infiltrazione mafiosa. “L’attitudine del governo non è punire una città ma i colpevoli, oltretutto Marino non è coinvolto” precisa il ministro dell’Interno Alfano.
NON PARE neppure pensarci il prefetto Pecoraro, che al sindaco ha detto di stare attento, perché in parecchi gliela vogliono far pagare. “Mi asterrò dall’andare in bici” fa sapere Marino. Cancella un pezzettino della sua diversità. Ma è ancora lui il diverso che serve. Anche se è inciampato, su quella foto che lo ritrae con Salvatore Buzzi, l’uomo di Carminati, dentro la cooperativa 29 giugno. “Non ho mai avuto conversazioni con Buzzi” aveva assicurato Marino. Ieri ha dovuto rettificare, con rabbia: “È un’immagine scattata durante una visita in campagna elettorale, non ho mai avuto incontri di lavoro con luii. È incredibile che si provi ad alzare un polverone quando circolano intercettazioni in cui si parla di farmi fuori”. Dal suo staff precisano: quella visita fu uno dei primi appuntamenti elettorali assieme al poi vicesindaco Luigi Nieri, Marino non sapeva nulla di quell’uomo. La sua maggioranza quasi non ci fa caso. Ora dovrebbe ringraziarlo, per non avere accettato l’azzeramento della giunta quando infuriava il caso della Panda rossa. Pochi giorni fa, un pelo prima del deflagrare della melma, l’aveva chiamato anche il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini: “Ignazio, devi cambiare tutto”. Raccontano che per la nuova giunta Guerini avesse fatto anche il nome dell’allora presidente dell’aula Mirko Coratti: ora indagato, dimessosi. Voci, forse. Di certo Marino ha preso (ancora) tempo. E ora il Pd che lo voleva mettere sotto tutela si aggrappa a lui. A cominciare dal neo commissario Pd romano, Matteo Orfini. In mattinata incontra i consiglieri comunali, in un clima pesantissimo. Lo dice chiaro: “Dovete sostenere Marino, lavorare in silenzio. E basta con le correnti, di ogni tipo”. Nel pomeriggio replica con i presidenti dei Municipi. In mattinata sul Messaggero Orfini aveva lanciato un avviso ai naviganti: “Se qualcuno ha dei dubbi vada in Procura e parli. Abbiamo tutti il dovere di vigilare”. Intanto Marino cerca di tenere a galla la sua giunta. In serata va eletto il nuovo presidente d’aula al posto di Coratti. La prescelta è la giovane Valeria Baglio, zingarettiana, legata alla fedelissima di Marino Alessandra Cattoi. L’unico nome possibile per il sindaco. Prima della seduta Marino parla al Tg3. E fa una mossa, sposando la proposta lanciata da Francesco Rutelli sul Fatto: “L’ipotesi di una giunta straordinaria con i Cinque Stelle è condivisibile, non so se loro sono disponibili ma deve essere un insieme di persone al di sopra di ogni sospetto”. È una bomba anche per il M5S, che per tutto il giorno ha lanciato appelli a “invadere” il Campidoglio. Il deputato Carlo Sibilia ha anche polemizzato via Twitter con il sindaco: “Nella foto con Buzzi cosa facevi, lo contemplavi?”.
MA DENTRO L’AULA Giulio Cesare qualcosa si è già mosso. Il Pd ha proposto al Movimento la vicepresidenza dell’aula. I consiglieri M5S traballano di sorpresa, poi però in Comune arrivano i parlamentari, guidati da Luigi Di Maio. Ed è tagliola: “Non se ne parla”. La linea a 5 Stelle è sciogliere subito il Comune. “Come al solito noi siamo gli unici non coinvolti” dice Di Maio. Entra in aula con Roberta Lombardi, Alessandro Di Battista, Nicola Morra e gli attivisti. Dentro il clima è irrespirabile. Il dem Fabrizio Panecaldo aggancia proprio Di Maio: “Vi abbiamo offerto la vicepresidenza, sapete bene che Marino è un baluardo di legalità”. Il grillino respinge: “Questo lo dici tu che sei del Pd”. Appena inizia la seduta, suonano i fischietti dei 5Stelle. I leghisti alzano cartelli: “Facciamo pulizia”. Cori del M5S: “Tutti a casa”. Si vota con larghissime assenze nei banchi dell’opposizione. Viene eletta la Baglio, e sono urla belluine. Scoppiano risse, con i leghisti scatenati. Paola Taverna litiga con un consigliere municipale Pd. La Baglio prova a parlare: il suo discorso è coperto dal caos. Di Battista: “Marino è un incapace, un pesce piccolo messo lì dagli squali. Come facciamo ad accordarci? ”. La Lombardi si siede per terra. Poi tutti fuori, con Di Battista che arringa dal megafono. Marino è già uscito, facendo il segno della vittoria.

il Fatto 6.12.14
Trema il Pd del Lazio
“Il nostro mondo è Gasbarra”. Affari e voti all’ombra della coop
di Eduardo Di Blasi


Affari, voti, scambi tra destra e sinistra. Quello che succedeva nelle aule del consiglio comunale capitolino, nei cda delle municipalizzate, in Regione Lazio, ma anche ai vertici delle ex circoscrizioni. La politica romana degli ultimi anni, letta con gli occhi di Salvatore Buzzi, è una fotografia di appalti, soldi e voti. I politici sono roba sua: “Ho 11 consiglieri”, si vanta al telefono facendo i conti per vedere se riesce a far passare un suo progetto. Maggioranza e opposizione non contano. Buzzi ritiene suo anche il mini sindaco di Ostia Andrea Tassone, nel territorio del quale ha appena avuto diversi appalti: “Però Tassone è nostro eh.. è solo nostro.. non c’è maggioranza e opposizione è mio”.
Gli orizzonti, all’alba delle elezioni europee a maggio passato, sono chiari: “Claudio... devi capì... noi il nostro mondo è Gasbarra non è Bettini”. Chiarisce esborsi e voti per la battaglia: “Noi nell’ambito de ste cose.. nell’ambito di questa monnezza, pe tenè (fonetico) i voti già semo arrivati a 43 mila euro, eh... Tassone 30... 10 Alemanno… 40... ”. Buzzi dichiara di aver pagato anche una cena elettorale organizzata ad un certo D’Ausilio (forse l’ex capogruppo Pd in Campidoglio Francesco D’Ausilio): “Questi i 3 e 5 (3500 euro, ndr)... questo se chiama D’Ausilio... perché noi pagamo tutti come vedi caro Carlo... questi son 3 mila e 5 apertura dei pasti D’Ausilio... (inc) pasti Ostia... 100 sono 100 pasti a 35 euro.. per cui (inc) già fai il bonifico poi io.. io te porto la fattura”. Il campo in cui giocare è quello della sinistra: Buzzi lo sa, e chiarisce all’altro: “Non ce serve la destra Cla”. E al ribattere di quello che qualcosa avevano promesso pure a loro, risponde brusco: “... cazzi tua a destra non ce serve più niente”.
Gli appalti chiamano soldi. Buzzi lo sa. A un certo punto denuncia che il consigliere regionale del Pd Eugenio Patanè gli ha chiesto 120 mila euro per un appalto. “Patanè voleva 120 mila euro a lordo.. allora gli ho detto scusa... ‘noi a Panzironi (Franco Panzironi, ndr) che comandava gli avemo dato il due e me.. 2 virgola 5 per cento (2,5%, ndr)... dato 120 mila euro su 5 milioni... ” mo damo tutti sti soldi a questo? ”. Alla fine decidono di diminuire il compenso e rateizzare: “Io martedì incontro Patanè, una parte dei soldi io comunque gliela darei... gliela incomincerei a da’”.
Tra scatole e scatolette c’è anche un gioco di specchi. È sempre Buzzi a raccontare: “So stato poi ieri dal capogruppo del PD gl’ho spiegato Formula Sociale è di destra anche se sono io.. è di destra c’è Caldarelli e Quarzo... ”. Uno è consigliere Pdl. L’altro era assessore alle Politiche dei servizi Sociali del Municipio XIX.

Corriere 6.12.14
Le carte dell’indagine
Roma, ecco gli altri politici nella rete
«Diamo soldi a una deputata del Pd»
Buzzi: «Mo se me compro la Campana...» Il nome della deputata della segreteria dem
E poi si vanta anche di aver conosciuto Berlusconi a una cena elettorale di Alemanno
di Fiorenza Sarzanini

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Corriere 6.12.14
La deputata in ascesa e quel bacio via sms al «grande capo»:  io dico sempre così

Micaela Campana, 37 anni, è nata in provincia di Brindisi. È stata eletta alla Camera nella circoscrizione Lazio alle Politiche del 2013 nelle liste del Pd (Lanni)
di Ernesto Menicucci


Roma. Er Guercio , er cecato , maialetto . Ma poi la storia del «Mondo di mezzo» è fatta anche di donne. Mogli, amanti, socie, compagne. Ma in alcuni casi anche politiche. Come Micaela Campana, ex moglie di Daniele Ozzimo, assessore alla Casa indagato (si è dimesso). Viene citata per un sms («bacio grande capo») mandato a Salvatore Buzzi e per un finanziamento da 20 mila euro. Campana è una giovane deputata Pd, area bersaniana, pugliese di nascita, romana d’adozione.
Occhi azzurri, bella presenza, una «carriera» che parte da Casalbertone, periferia est della Capitale. Poi l’ascesa è verticale: da consigliere municipale, diventa responsabile organizzativa del partito romano e anche della Festa dell’Unità. Quando arrivano le elezioni, Micaela è ormai lanciatissima. Alle primarie da parlamentare va in tandem con Umberto Marroni e la coppia dem sbanca: 6.800 preferenze lei, 5.400 lui. L’ultimo step è anche quello più significativo: nel «rimpastino» di segreteria, Matteo Renzi la chiama nella sua squadra, per il Welfare.
Lei, ieri, è andata a confrontarsi al Nazareno, per capire il da farsi. Magari lascia, chissà. Con i pochi che sono riusciti a parlarle, si giustifica: «L’sms? Ma io dico sempre così, che c’entra?». E ancora: «Mi dispiace solo che non c’è anche l’altra parte. Quella in cui Buzzi mi chiede di fare un’interrogazione alla Camera, e io gli dico di no».

La Stampa 6.12.14
Il deputato Pd Micaela Campana, l’eurodeputato pd Enrico Gasbarra
Le intercettazioni rivelano ora anche contatti con persone non raggiunte da un avviso di garanzia
di Grazia Longo


Come per esempio il deputato Pd Micaela Campana «membro della Commissione Giustizia e del Comitato Parlamentare di controllo e vigilanza in materia di immigrazione» tanto cara a Buzzi per il problema del centro accoglienza profughi a Castelnuovo di Porto (la cooperativa 29 Giugno è stata scalzata per effetto del ricorso al Tar di un’altra coop esclusa) sul quale, grazie all’intervento di Alemanno, era stata avviata una propaganda stampa sul Tempo. Buzzi: «Ho concordato con Micaela che mi faceva un’interrogazione sul casino che è successo sul Cara de Castelnuovo che la giudice Sandulli, se vai a pagina 11 del Tempo c’ha… è legata mani e piedi». E la deputata gli manda un sms: «Parlato con segretario ministro. Mi ha buttato giù due righe per evitare il fatto che mi bloccano l’interrogazione perché non c’e ancora procedimento. Domani mattina ti chiamo e ti dico. Bacio grande capo». Buzzi s’interessa anche dell’eurodeputato pd Enrico Gasbarra, di cui parla mentre accenna a un contributo elettorale per la Campana: «…allora te sto a di no...riguardo a Michela... io domani siccome la devo vede’ prima de...de Gasbarra...e siccome dovemo dagli pure 20 mila euro per sta c... de la campagna elettorale, ce fai aprì sta cosa te damo 1 euro a persona.. per la campagna elettorale..». 
E ancora: «Poi un’altra cosa Claudio... devi capì... noi il nostro mo... mondo è Gasbarra, non è Bettini».

Repubblica 6.12.14
Nella lunga informativa dei carabinieri del Ros, allegata agli atti dell’inchiesta dei pm Cascini, Ielo e Tescaroli, vengono ricostruiti i denari che salvatore Buzzi ha consegnato alla politica. Tutti. Quelli in chiaro, cioè i versamenti alle fondazioni di Gianni Alemanno, di Ignazio Marino, di Emma Bonino, di assessori e candidati promettenti. E quelli in nero, le mazzette.
(...)
È quando il guercio annusa che l’aria sta cambiando che i bonifici diventano frenetici e gli obiettivi si allargano. Le elezioni sono a maggio, da una parte il sindaco uscente (ora indagato per associazione mafiosa) che rischia di non essere confermato, dall’altra Ignazio Marino per il Pd. Nei due mesi precedenti al voto, Buzzi si scatena con 13 versamenti per contributi: due intestati a Marino da 20.000 e da 10.000 euro, due a Daniele Ozzimo del Pd (è l’assessore alla Casa che si è dimesso dopo gli arresti) da 10.000, uno all’attuale vice sindaco Luigi Nieri da 5.000 euro, uno da 15.000 ad Alemanno e uno da 20.000 al Comitato Elettorale Roma 2013. Non lascia indietro nessuno, nel Pd romano che sta per vincere le elezioni: fa versare dalle sue Coop 5.000 euro per sostenere Sabrina Alfonsi (presidente del municipio Centro Storico, Pd), 1.000 per Francesco D’Ausilio (ex capogruppo del Pd in Campidoglio), 5.000 per Erica Battaglia (presidente della Commissione politiche sociali) e 4.200 per Emiliano Sciascia (presidente IV municipio).
dall’articolo di Fabio Tonacci e Maria Elena Vincenzi

il Fatto 6.12.14
Mani in pasta. Buzzi, l’omicida passato dalla Grazia alla Mafia Capitale
Il re delle coop Buzzi: una storia che comincia con 34 coltellate
Nel 1980 ammazzò un complice. Fu il primo a laurearsi in cella. Scalfaro lo liberò
L’omicidio di un socio per un giro di assegni, la “redenzione” in carcere, la cooperativa e l’ascesa
Fino agli “scatti” con Poletti, Simona Bonafè e il sindaco
E alla cena del premier
di Salvatore Cannavò e Carlo Tecce


I capelli erano più ricci, molto folti. Il volto dietro le braccia con le manette strette ai polsi. Il bancario truffatore, ch’era impiegato nel centro di Roma, aveva appena confessato: il complice Giovanni Gargano, un pregiudicato ventenne, lo ricattava. E così l’aveva ammazzato con 34 coltellate. Era il 26 giugno 1980. L’assassino si chiamava Salvatore Buzzi, 25 anni, fidanzato con una brasiliana, sfruttata per un alibi caduto presto.
È lo stesso Salvatore Buzzi che oggi è agli arresti, di nuovo, per l’inchiesta “Mafia Capitale”. Era “un figlio di papà” sostiene il Messaggero dell’epoca, che viveva con i genitori e la sorella minore in via Prospero Colonna, non lontano dalla Magliana, la periferia in mano a una banda. Il posto da impiegato, forse, non gli permetteva di comprarsi un’automobile da 12 milioni di lire e di prendersi un appartamento con la fidanzata. Arrotondava con assegni che rubava in banca e incassava tramite il socio.
Salta il trucchetto degli assegni a vuoto
Il giochetto, però, s’inceppò, i due litigarono e una sera, in zona Aurelia, il chiarimento finì male: “Gargano minacciava di rivelare tutto ai miei superiori. E dopo una discussione, ha cercato di accoltellarmi. Io l’ho disarmato per difendermi e poi ho perso la testa”. Condannato per omicidio doloso a un quarto di secolo, Buzzi va in galera, ci resta senza uscire mai per quasi 11 anni, libertà vigilata sino al ‘92, quando riceve la grazia da Oscar Luigi Scalfaro, nel 1994. Questa è la sua storia criminale, ma in prigione, tra Rebibbia e Regina Coeli, sembra cambiare vita. Si fa notare nel 1983 quando si laurea in Lettere e per la primavolta una commissione universitaria oltrepassa i cancelli di Rebibbia per proclamare un dottore.
Il 29 giugno dell’84, la svolta. A quattro anni esatti dall’omicidio, Buzzi organizza un convegno nel penitenziario di Roma dedicato al reinserimento dei detenuti. Qualche giorno prima, il 25 giugno, avevano messo in scena l’Antigone di Sofocle dove presenziano il capo dello Stato di allora, Francesco Cossiga e personalità come Pietro Ingrao. Antigone ispirerà un’associazione che si occupa di giustizia e carcere e la vicenda di Buzzi diventa esemplare a sinistra (Il manifesto ne scriverà più di tutti). Al convegno si ritrovano socialisti come Giuliano Vassalli, liberali come Aldo Bozzi, democristiani come Giovanni Galloni, comunisti come Luciano Violante. C’è l’allora sindaco di Roma, Ugo Vetere, il vicepresidente della Provincia, Angiolo Marroni, padre di Umberto, il dem che Buzzi, leggendo le intercettazioni dell’inchiesta “mafia capitale”, voleva primo cittadino al Campidoglio. Miriam Mafai gli dedica un pezzo su Repubblica. Il 29 giugno diventa il nome di una delle cooperative di Buzzi, il suo progetto diviene realtà con la legge del 1991 sulle cooperative sociali che permette di assegnare gli appalti senza bandi pubblici. I rapporti costruiti con la sinistra romana si traducono in lavoro vero: dapprima nella cura dei giardini, della raccolta rifiuti per poi crescere a dismisura. Con l’avvento della giunta Rutelli avviene il primo salto. Gli amici e i compagni di sempre salgono alla guida di Roma e la amica cooperativa di detenuti va aiutata.
La nascita della cooperativa sull’onda di Antigone
Buzzi e i suoi si ingrandiscono e forse, un po’ alla volta, iniziano a toccare interessi e questioni sempre più scabrose. È ancora estate, stavolta il 22 luglio 2002. Al cimitero monumentale del Verano si segnalano devastazioni di cinque giardinieri contro le tombe ebraiche. Al Campidoglio siede Walter Veltroni, il capo di gabinetto è Luca Odevaine, arrestato martedì scorso. Gli investigatori ascoltano i soci di “29 giugno”, la cooperativa a cui l’Ama aveva affidato la gestione del Verano. Buzzi dice di aver subito minacce e di aver denunciato l’accaduto al direttore del camposanto, perché voleva sconfiggere “la mafia del cimitero”. Un legame che allora non dice, ma che oggi, scoperchiato il sistema Buzzi-Carminati, può destare dei sospetti.
Nel corso del tempo, il potere di Buzzi è germinato a sinistra, gli appalti si sono moltiplicati con le giunte di quell’indirizzo politico.
Quando in Campidoglio arriva Gianni Alemanno, nel 2008, l’ipotesi che si fa strada è di azzerare i rapporti tra il Comune e le cooperative legate alla sinistra. L’ex sindaco, oggi indagato, pensa di aprire spazi per i “suoi”. Ecco, allora, che Buzzi si rivolge a Massimo Carminati.
Vince Gianni Alemanno, è tempo di migrare
Il “triangolo”, il legame a tre, emerge dalle intercettazioni. Il presidente della “29 giugno” rimane stupito quando l’ex Nar gli dice di andare al Campidoglio e di aspettare Antonio Lucarelli, il responsabile della segreteria di Alemanno. Buzzi ne parla con un amico: “Allora praticamente bisognava parlà col suo capo segreteria, quello che ha ammazzato dall’inizio, un Padre Eterno… allora chiamiamo Massimo e faccio ‘guarda che qui c’ho difficoltà a farmi fa i trecentomilaeuro ’me fa ‘me richiami’ visto c'ha il telefono… su quel telefono parla solo lui, me fa dice ‘va in Campidoglio, alle tre, che scende Lucarelli e viene a parlare con te’ ho fatto ‘a Massimo ma io nemmeno salgo su, no.. quello scende giù!? ’ ‘vai alle tre lì tranquillo’, aò alle tre meno cinque scende, dice ‘ho parlato con Massimo, tutto a posto domani vai.. ’ aò tutto a posto veramente! C’hanno paura de lui, c’hanno paura che cazzo devono fare qua”. Carmi-nati si dimostra una potenza di fuoco e Buzzi conserva, anzi aumenta i suoi affari. E così, da lì in poi, si possono ascoltare, sempre intercettati, dialoghi come quello con Alessandro Montani rappresentante legale de “Il Granellino di senapa”, nonché delegato di Confcooperative, l’organizzazione “bianca” già rutelliana e poi pronta a legarsi ad Alemanno. Sarà Montani (che non è indagato) a chiedere, confidenzialmente, a Buzzi notizie sulla possibilità di recuperare un “milione e mezzo” dalle piste ciclabili.
La vita di Buzzi è un’altra, le fotografie con futuri ministri (Poletti), la sedia al gran gala di finanziamento democratico, il mese scorso all’Eur con Matteo Renzi, ospite del partito romano. Non sferra coltellate, ma s’inabissa nel cancro di Roma capitale.
I tanti incontri di Buzzi: sopra con Simona Bonafé. Accanto con il sindaco Ignazio Marino. Alla cena con Gianni Alemanno, Giuliano Poletti allora presidente della Lega delle Cooperative ansa

La Stampa 6.12.14
4 domande a Manuela Serra
Al centro rom operatori come i kapò


L’ 11 novembre di quest’anno la senatrice del M5S Manuela Serra si presenta al centro di accoglienza «Best House Rom» di Roma per una visita a sorpresa.
La accoglie il responsabile della struttura: «Ha detto di chiamarsi Cesare. Appena ha capito che volevo entrare ha telefonato al capo della cooperativa per sapere se poteva farci entrare».
E quando siete entrati cosa avete visto?
«C’erano persone terrorizzate dai capi che gestiscono i campi, che poi sono le persone che ricevono i soldi dal Comune, questi che lavorano nelle cooperative. Tra gli ospiti che abbiamo incontrato gli uomini stavano tutti da una parte, si facevano i fatti loro e non mi hanno mai rivolto la parola. Le donne invece erano spaventatissime. Intanto gli operatori ci seguivano per capire che volevamo fare, cosa volevamo chiedere».
Com’è la struttura?
«Le condizioni igieniche sono disumane: c’erano topi e scarafaggi tra i piedini dei bambini».
Siete riusciti a parlare con qualcuno degli ospiti?
«Alcune donne cercavano di parlare ma ci hanno fatto capire che gli operatori le minacciano, la situazione lì è molto grave, si comportano come dei mafiosi, hanno un modo di fare terribile, sembravano dei kapò da lager. Uno mi ha anche fotografata. Come per schedarmi»
Che tipo di minacce?
«Ci hanno spiegato che spesso vengono minacciate di non ricevere più la casa, di essere buttate fuori o di vedersi allontanato il marito. È come se queste persone che gestiscono il campo creassero l’emergenza invece di tamponarla. C’era uno con un atteggiamento da capo clan che a un certo punto mi fa: “Questi qui hanno tutto quello che vogliono, che altro pretendono?”»

il Fatto 6.12.14
Odevaine e soci turbano Legambiente
La fondazione nata dall’associazione ambientalista
Piena di indagati di Mafia Capitale
di Marco Palombi


La prima reazione è l’incredulità, poi si passa all’incazzatura più nera. Nascosto dal grande affresco di “Mafia capitale” c’è un terremoto che sta scuotendo l’ambientalismo italiano e, più precisamente, Legambiente, associazione di grande potenza mediatica e ancor più politica, avendo dato al Pd parecchi tra deputati e senatori (Ermete Realacci, il fondatore, è presidente della commissione Ambiente della Camera in quota Renzi).
ACCADE, infatti, che uno dei personaggi principali dell’inchiesta romana, Luca Odevaine, sia un figlio di Legambiente dalla brillante carriera: negli staff di Giovanna Melandri quand’era ministro, di Walter Veltroni da sindaco, direttore della polizia provinciale con Luca Zingaretti e organizzatore di grandi eventi romani come i funerali di Giovanni Paolo II. I rapporti con l’associazione creata da Realacci, però, non si sono mai interrotti: è tanto vero che nei resoconti di questi giorni Odevaine viene indicato come presidente della Fondazione IntegrA/Azione, creata nel 2010 proprio da Legambiente insieme alla cooperativa sociale Abitus, che dagli atti sembra riconducibile sempre all’uomo arrestato questa settimana.
Il gip l’ha chiamato “Sistema Odevaine”, un sistema che negli ultimi anni ha fatto arrivare i soldi pubblici per l’accoglienza dei migranti ai gestori amici “che si dividono il mercato”. Il nostro, d’altronde, sedeva allo strategico tavolo del Coordinamento sui migranti del ministero dell’Interno. Un pezzo importante del “Sistema Odevaine” viene compreso dagli inquirenti proprio attraverso una serie di intercettazioni ambientali dentro la sede della IntegrA/Azione, dove lavorano anche altre due persone finite nell’inchiesta. Il commercialista Stefano Bravo, che risulta indagato per ricettazione, ed è il presidente del collegio dei revisori della Fondazione (in cui siede anche Maurizio Tocci, revisore anche di Legambiente), nonché il segretario della coop Abitus. Il secondo nome è più pesante ed è quello di Rossana Calistri, direttore scientifico di IntegrA/Azione e funzionario del comune di Roma finita ai domiciliari: secondo l’accusa - corroborata da intercettazioni dirette e indirette - si è piegata alle richieste di Salvatore Buzzi per far vincere un appalto alla sua cooperativa 29 giugno nonostante la sua offerta fosse inferiore a quella di un concorrente.
IL VICE DI ODEVAINE nella Fondazione, in tutto questo, è FrancescoFerrante, ex parlamentare del Pd e direttore generale di Legambiente dal 1995 al 2007, del tutto estraneo all’inchiesta: “So che adesso mi tocca fare la figura del cretino - dice al telefono al Fatto Quotidiano - ma non m’ero accorto di niente. Questa è una vicenda dolorosa, per me e per la Legambiente, ma IntegrA/Azione, che è nata per occuparsi di accoglienza dei migranti, non c’entra nulla e chi ci ha lavorato potrà continuare a sentirsi orgoglioso delle cose fatte”. Alcune voci riferiscono che la cooperativa di Buzzi abbia girato dei soldi alla Fondazione: le risulta? “Ovviamente no - è la replica di Ferrante - Io non avevo ruoli operativi, ma ora che il presidente è agli arresti dovrò occuparmene e ho intenzione di verificare anche questo”.
Fonti di Legambiente, invece, fanno notare che l’associazione è uscita dalla Fondazione il 28 giugno di quest’anno: “L’avevamo aperta per lavorare sugli sbarchi a Lampedusa nel 2011 e per noi doveva servire a quello: siccome quel progetto è finito siamo usciti”. Sta di fatto che una Fondazione che doveva occuparsi di sociale, fondata e gestita da ambientalisti, è accostata a un’associazione per delinquere di stampo mafioso: “La prima reazione è stata di incredulità - è ancora Ferrante a parlare - poi mi sono sentito tradito e ora sono incazzato nero. E preoccupato: non vorrei che questa vicenda finisse per macchiare l’impegno di centinaia di volontari che mettono ore e risorse all’ambientalismo o nel sociale”

Corriere 6.12.14
I concorsi «paranormali» dei dirigenti di Zingaretti
Da diversi mesi, in Regione Lazio non c’è bando per dirigente di cui non si sappia già in anticipo il vincitore
L’anticipazione dell'inchiesta che andrà in onda domenica a Report, alle 21.45 su Rai3i
di Giorgio Mottola

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Repubblica 6.12.14
Roberto Morassut, deputato dem
“Le tribù si scatenano in campagna elettorale”
di Paolo Boccacci


ROMA Morassut, lei ha parlato di lotta tra tribù assetate di potere all’interno del Pd romano. Anche a costo di farsi corrompere?
«Si sapeva che dal 2008 al 2013 in Campidoglio si era installata una destra predona dominata da un grumo di ex terroristi neri. Quanto al Pd la vicenda addolora, spero che le persone coinvolte ne escano a testa alta, ma resta il giudizio politico».
Quale?
«Una vita interna intossicata negli ultimi anni da una competizione di puro potere».
Delle avvisaglie c’erano state. Le minacce di Di Stefano di rivelare i segreti delle primarie truccate, la polemica sui rom portati a votare in cambio di soldi, sempre alle primarie, a Tor Bella Monaca.
«Le affermazioni di Di Stefano sono emerse dalle intercettazioni che lo riguardano. Su Tor Bella Monaca vi furono proteste e segnalazioni di tanti iscritti di quel municipio. Proteste rimaste senza risposta, chi le ha sollevate ha rischiato l’espulsione».
Come si finanziano le tribù del Pd romano in lotta tra loro?
«Storici circoli come quelli di Cinecittà, Torre Maura o della Muratella, hanno dovuto chiudere perché non avevano i soldi per affitto e telefono, ma nelle campagne elettorali si vedono poi schieramenti di fuoco a sostegno di singoli candidati e nei congressi sbucano pacchetti di tessere a venti euro a testa per persone di cui poi si smarrisce la presenza ».
Dunque si tratta di persone pagate da qualche tribù?
«Sicuramente credo che sul tesseramento di questi ultimi anni vada fatto un setaccio più che vigoroso».
Come fare pulizia?
«Via le tribù e ricostruiamo tutto con democrazia dal basso, tesseramento libero e individuale, controllo delle spese elettorali, anagrafe patrimoniale di eletti e nominati e uscita dai cda delle aziende partecipate».

Repubblica 6.12.14
Feice Casson:
“Da noi troppe ambiguità sul salvataggio di Azzollini”
di Liana Milella


ROMA Casson? Che succede nel Pd al Senato? Si vota per salvare gli inquisiti come Azzollini e Papania? «Mi pare che qualcuno stia perdendo la testa. Avevamo cominciato bene questa legislatura non frapponendo ostacoli ai giudici né per Berlusconi né per Verdini. Adesso invece, in maniera per me incomprensibile, la maggioranza del Pd sta bloccando indagini della magistratura».
Intanto, come mai lei non era in aula? Più importante andare al Copasir?
«Lì si sta svolgendo un’indagine molto delicata sui rapporti tra Stato e criminalità che potrebbero riguardare anche la famosa trattativa Stato-mafia. Ogni documento va accuratamente approfondito. Per di più era già girata la notizia del salvataggio dei due senatori».
Non è invece che non voleva, ancora una volta, essere contro la linea ufficiale del Pd?
«È notorio che su questo tema ero già in forte dissenso. Su legalità e trasparenza non ho certo intenzione di recedere».
Azzollini e la Cmc. Un voto per salvare lui o la potente cooperativa di Ravenna?
«La risposta è indifferente, perché il risultato non cambia».
E Papania? Perfino sul voto di scambio il Pd si scopre garantista?
«Ricordo che già quando voleva candidarsi per questa legislatura avevo ritenuto inaccettabile, per l’etica del Pd, la sua, come altre presenze fortemente imbarazzanti».
Proprio nello ore dello scandalo di Roma che effetto le fanno questi due salvataggi?
«Mi sembra un caso di schizofrenia politica. Se a Roma si opta per il commissario al Senato bisogna essere coerenti. Per di più in presenza di comportamenti della magistratura del tutto legittimi ».
Pd, Forza Italia e Lega che votano assieme togliendo prove alle indagini sono il segno che l’asticella della legalità si sta abbassando?
«Ho proprio questo timore. Ed è davvero un pessimo segnale. Il Paese, dal Partito democratico, si aspetta altri comportamenti».

Repubblica 6.12.14
La politica senza morale
L’isterilimento della vita di base e collettiva del partito ha spinto i più intraprendenti a crearsi reti autonome ed esterne In una logica individualista
di Piero Ignazi


COSA c’è alla radice della cupola corruttiva della capitale? Il debordare di una libidine di ricchezza e potere? Il diffondersi dell’irrilevanza e menefreghismo per le regole? La convinzione che così fan tutti e nessuno paga pegno? Tutto questo, ovviamente. Ma si possono individuare anche altre cause.
CAUSE indirette, che rimandano alla politica e ai partiti. L’assunto da cui partire è che “la politica costa”. Anzi, costa sempre di più. Non a caso i bilanci ufficiali dei partiti sono aumentati costantemente e, a partire dai primi anni Duemila, le loro entrate sono più che raddoppiate. E qui si parla soltanto di soldi contabilizzati nero su bianco nei libri mastri dei partiti. L’incremento delle entrate grazie ad un sistema di finanziamento pubblico generosissimo e senza controlli rispondeva alla necessità da parte dei partiti non tanto di mantenere “gli apparati”, morti e sepolti da tempo, quanto di sostenere i costi della politica d’oggi, fondata sulle consulenze dei professionisti del marketing, della comunicazione, del sondaggio, e della pubblicità. Comprare sul mercato i migliori specialisti di ogni ramo costa, e tanto. Di conseguenza i partiti si sono rivolti allo stato per attingere le risorse finanziarie necessarie, garantendosi, fino alla riforma del 2012, introiti statali sempre più consistenti. Questo perché, ufficialmente, le altre entrate nelle loro casse erano scese a livelli risibili. Nell’ultimo decennio la voce tesseramento nei bilanci è andata quasi scomparendo: in nessun partito le quote degli iscritti fornivano più del 3-4% dei proventi complessivi (con l’eccezione dei Ds e del Pd nei quali l’importo delle tessere rimane a livello locale e non viene riportato nel bilanci del partito nazionale).
Questa torsione stato-centrica delle organizzazioni partitiche ha indebolito le strutture periferiche dei partiti. Ha impoverito il partito nel territorio. Tutta l’attività politica si svolge al centro, dove si acquisiscono e si gestiscono le risorse sia finanziarie che strutturali. Quindi chi vuole fare carriera — cioè essere eletto alle cariche pubbliche perché quelle interne a livello locale non contano più nulla — necessita di risorse alternative, esterne alla struttura partitica. L’isterilimento della vita di base e collettiva del partito ha spinto i più intraprendenti a crearsi reti autonome ed esterne. In una logica del tutto individualista, da free rider — e il caso di Matteo Renzi insegna — , il vettore del successo sta nella costruzione di una équipe composta da esperti, fund raiser , facilitatori di relazioni con gruppi di pressione e di interesse, comunicatori, sondaggisti e quant’altro. È disponendo individualmente di queste risorse, non gestite dall’organizzazione partitica, che si fa carriera. In fondo anche le primarie assecondano questa impostazione. Prive di una regola standard nazionale, le primarie per le cariche pubbliche locali sono un moltiplicatore di costi e comportano il rischio di rapporti incauti e disinvolti con gruppi e persone. In una logica di competizione “individuale” — com’era al tempo delle preferenze — l’inquinamento di affaristi e maneggioni è un rischio concreto.
L’intreccio di corruzione e affarismo criminale che investe la capitale ha radici in questi mutamenti della politica, dell’organizzazione dei partiti, e della loro relazione con lo stato e il territorio. La professionalizzazione della vita politica con conseguente necessità di acquisizione di maggiori risorse pubbliche, il deperimento di legami collettivi forti — quelli che sono alla base di un “vero” partito e non di una qualunque associazione volontaria — e la crescente individualizzazione dell’agire in politica, abbassano le soglie di protezione rispetto ai rapporti pericolosi. Il filtro di partiti radicati sul territorio, attenti ad intrecci sospetti e a figure ambigue, e di nuovo proiettati al “bene comune” più che all’acquisizione di risorse è venuto a mancare, in una logica tutta proiettata alla comunicazione, al virtuale e all’accentramento nazionale. Il primo baluardo al dilagare della corruzione, che a Roma sembra non aver trovato resistenza altro che nel sindaco Marino, passa per la ricostruzione di una presenza attiva e disinteressata nel territorio. E poi, di fronte alla voracità dei politici e ai costi iperbolici per cene sfarzose, consulenze d’oro e regalie varie, conta soprattutto un cambio di passo: uno stile politico più parsimonioso e trasparente da parte di tutti gli amministratori della cosa pubblica, al centro come in periferia.

Corriere 6.12.14
La Capitale e i debiti
Roma, salvataggio costoso e inutile
di Sergio Rizzo

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il Fatto 6.12.14
Ma per Renzi stanno tutti bene
Il premier: “Non accostare la città alla corruzione”
E il Pd va in tilt sulle cene
di C. T.


Chi è andato a cena con Matteo Renzi, un mese fa in zona Eur a Roma per finanziare il Partito democratico, non lo sanno di preciso neanche al Nazareno. Soltanto le rassicurazioni sono puntuali: gli elenchi saranno pubblicati.
Intorno a quei tavoli, anzi per l’esattezza a un tavolo prenotati dai dem romani, c’era pure Salvatore Buzzi, il signor cooperative, “braccio di sinistra” dell’ex Nar Massimo Carminati.
SU QUEST’INGRESSO che adesso imbarazza, il deputato Francesco Boccia (via Twitter) ha chiesto la trasparenza sui commensali al tesoriere Francesco Bonifazi, che ha replicato piccato: “Tranquillo Boccia, Buzzi non ha dato un euro al Pd nazionale. Nemmeno tu però nonostante le nostre regole. Ti invio l’Iban via sms”. Poi silenzio. Ma Boccia ha proseguito: ho versato 30.000 euro e questa è delazione in mancanza di risposte. Al Nazareno stanno ricostruendo la mappa dei presenti, in maggioranza celati dietro il nome di società che hanno materialmente pagato il contributo minimo di 1.000 euro per partecipare. Dopo aver commissariato il partito a Roma, Renzi fa capire che non ha tanta voglia e, soprattutto, tanta convenienza a battere sul tema di questi giorni: “La città di Roma è la capitale di questo Paese. Non consentiremo - insieme al sindaco e a tutti i cittadini onesti - che sia accostata a fenomeni squallidi come corruzione e disonestà”, non s’è sprecato in dichiarazioni, il premier. Unica annotazione, a parte l’evocazione di un processo rapido per lo “schifo”: Ignazio Marino deve resistere, sciogliere il Comune non è in agenda, sebbene l’istituzione sia coinvolto direttamente nell’inchiesta.
Non la pensa così Rosy Bindi, che non esclude la necessità di un intervento del ministero degli Interni e di palazzo Chigi sul Campidoglio infestato dal malaffare.
BINDI PRETENDE spiegazioni dal sindaco Ignazio Marino e dal ministro Giuliano Poletti che, per motivi diversi, avevano rapporti con Buzzi: “Tutti devono chiarire. Le foto non sono una prova di reato, a volte non sappiamo neanche con chi ci stanno fotografando, ma è evidente che occorre chiarezza”. Il presidente dell’Antimafia ha poi enunciato il suo epitaffio su questa vicenda: “La mafia cresce perché la politica collabora”. Ieri i movimenti per la casa hanno occupato la sede del partito democratico laziale.
Il commissario Matteo Orfini li ha incontrati. Il governatore Nicola Zingaretti dice che il Pd è sano. Si reagisce come quando sta passando la piena del Tevere. Incrociando le dita.

La Stampa 6.12.14
Pd diviso
Per Renzi la strada è ora più complicata
di Marcello Sorgi

Gli esiti dell’inchiesta su “Mafia capitale” si intrecciano con il declassamento al livello BBB -, appena superiore a quello dei titoli spazzatura, piovuto ieri sera da Standard e Poors sull’Italia. Il governo, in una nota, tende a non drammatizzare e a leggere nel giudizio dell’agenzia di rating una serie di chiaroscuri non necessariamente negativi, oltre a un invito ad accelerare sulle riforme. Ma non c’è dubbio che nel giro di pochi giorni, e malgrado il varo del Jobs Act, il quadro si è complicato per Renzi.
L’inchiesta romana continua a produrre rivelazioni. Dopo quelle di Salvatore Buzzi, il secondo principale indagato dopo l’ex terrorista nero Massimo Carminati, con il ministro del lavoro Poletti, che lo aveva incontrato come Presidente della Lega delle cooperative, ieri sono uscite le foto dello stesso Buzzi con il sindaco Marino, che dalla cooperativa finita nel mirino della Procura di Roma aveva ricevuto un contributo per la campagna elettorale. Giusto giovedì sera a Otto e mezzo Marino aveva smentito di aver mai incontrato Buzzi, ieri ha dovuto precisare di averlo fatto nel corso di una visita all’insediamento della coop. Buzzi inoltre avrebbe pure partecipato alla recente cena di fundraising organizzata da Renzi all’Eur: ne è nata una polemica interna, il lettiano Boccia ha chiesto che i soldi pagati dall’indagato siano restituiti.
Politicamente si fa sempre più difficile salvare l’amministrazione del Campidoglio, ieri assediato fino a tarda sera da una manifestazione del Movimento 5 stelle, e forse anche il consiglio comunale, minacciato di scioglimento. A chiedere nuove elezioni è un’inedita alleanza tra Berlusconi e i grillini, che puntano a incassare nelle urne il vantaggio di non essere stati in alcun modo coinvolti nelle indagini che hanno colpito Alemanno, da una parte, per il coinvolgimento dei suoi più stretti collaboratori, e il Pd, per quello del suo ex-segretario romano Cosentino e di alcuni alti funzionari che avevano collaborato anche con le precedenti amministrazioni di sinistra.
A sorpresa Marino ha aperto a una proposta venuta dall’ex-sindaco Rutelli: una giunta di emergenza, con tutti i partiti, compreso M5s, dentro, per far fronte alla situazione eccezionale che s’è determinata nella Capitale. È l’estremo tentativo di evitare nuove elezioni anticipate a Roma o la sopravvivenza, con qualche rattoppo, dell’attuale amministrazione, che verrebbe comunque esposta a un processo di logoramento, per l’incalzare degli sviluppi dell’inchiesta e per la svolta verso un ostruzionismo permanente di un’opposizione finora in gran parte consociativa. Ma almeno per il momento, né Forza Italia, né il M5s sembrano disposti a puntellare un Pd al cui interno la resa dei conti deve ancora cominciare.

il Fatto 6.12.14
Taglio del rating
Standard&Poor’s: per l’Italia di Renzi rischio spazzatura
L’agenzia americana dice che le riforme non bastano e ci declassa a BBB-, a un solo gradino dall’insufficienza
L’esecutivo minimizza
di Camilla Conti

Milano Un gradino, solo un gradino, separa l’Italia di Matteo Renzi dal livello “junk”. Ovvero “spazzatura”. Il declassamento a un passo dal cosiddetto “non investment grade” è arrivato ieri sera dall’agenzia di rating Standard & Poor’s che ha tagliato il giudizio sullo stato di salute finanziario del nostro Paese a livello BBB -. Il motivo della sonora stroncatura? "Le perduranti debolezze nell'andamento del Pil reale e nominale, inclusa l'erosione della competitività", scrive l’agenzia Usa che dal 2006 ad oggi ha abbassato il giudizio sull'Italia cinque volte, portando il rating da AA- all'attuale BBB-, con una riduzione complessiva di sei “notch”.
L'ULTIMO taglio risale a luglio 2013, con successive conferme nel dicembre 2013 e nel giugno di quest'anno. Poi, il rating era rimasto invariato proprio per permettere a Renzi - appena insediato - di avviare le riforme. Ma anche i tempi supplementari, a giudicare dal verdetto di ieri, non sembra siano serviti. Anzi, sei mesi dopo la situazione si è addirittura aggravata minando, scrive Standard & Poor’s, “la sostenibilità del debito pubblico”. Sul fronte economico S&P’s prevede un'uscita dalla recessione nella prima parte del 2015, ma con una ripresa del Pil che viene prevista solo modesta, attorno allo 0,2 per cento. Di fatto, quindi, le stime del governo sono state fin troppo ottimistiche. Anche il debito pubblico italiano va peggio: riviste le stime dello scorso 6 giugno. Ora l'agenzia di rating prevede uno sbilanciamento a fine 2017 pari a 2.256 miliardi, 80 miliardi in più, pari al 4,9% del nostro Pil 2014. Rispetto alla previsioni del governo - sottolinea inoltre S&P’s - vediamo una ripresa più debole nei consumi privati” che saranno tenuti sotto pressione dalla debole condizioni del mercato occupazionale, dove la disoccupazione e su livello storicamente alti, oltre che per il graduale consolidamento fiscale. Certo, l’agenzia prende atto che il premier “ha fatto passi avanti col Jobs Act” ma non crede che le misure previste creeranno occupazione nel breve termine senza contare che i decreti attuativi della riforma potrebbero “essere ammorbiditi alla luce di una opposizione crescente”. Insomma, per ora Renzi non ha cambiato verso. E la difficoltà in questo Paese per far ripartire l’economia sono sempre le stesse: lungaggini burocratiche, incertezza del diritto, pressione fiscale e costo del lavoro ancora troppo alto. È dunque evidente che l’agenzia, al momento, si fida poco tanto che ha tagliato anche le stime di crescita.
UNICA consolazione l’”outlook” (la prospettiva) che viene indicata come stabile riflettendo “l’aspettativa che il governo riuscirà a implementare gradualmente delle riforme di bilancio e strutturali complessive e potenzialmente favorevoli alla crescita” – ultima chance data a Renzi -nonché il fatto che “i bilanci delle famiglie resteranno abbastanza forti da assorbire ulteriori aumenti del debito pubblico”. Un assist potrebbe infine arrivare da Francoforte e da Mario Draghi perché a favorire la schiarita potrebbe essere la politica monetaria della Bce che “continuerà ad aiutare una normalizzazione dell’inflazione in Italia e dei suoi partner europei”. Proprio ieri Draghi ha rinviato all'inizio dell'anno prossimo le promesse misure straordinarie della Banca centrale contro la crisi economica dell'eurozona, ribadendo però che il quantitative easing e altre decisioni non convenzionali “rientrano nel nostro mandato”.
Da Palazzo Chigi la linea è guardare al bicchiere mezzo pieno, ovvero sottolineare come il Jobs act non sia stato bocciato e che, insomma, le riforme vanno bene ma bisogna andare ancora più veloce. Proprio ieri, nel pomeriggio, il ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan ha difeso a Francoforte le politiche governative di fronte a una platea di imprenditori e finanzieri. E ha assicurato che l'Italia vedrà il proprio debito iniziare a calare nel 2016, aggiungendo che anche se il debito è un problema, è comunque "sostenibile". Esaustivo il commento del suo omologo tedesco Wolgang Schaeuble: Non vorrei essere nei panni di Padoan"-
DI CERTO, i riflettori sono puntati ora sulla reazione dei mercati alla riapertura di Piazza Affari lunedì mattina con un occhio allo spread. Nel frattempo, l’ultimo smacco: sempre ieri S&P’s ha alzato il rating dell’Irlanda – patria dell’elusione fiscale – da A- a A. Ovvero quattro piani sopra l’Italia.

il Fatto 6.12.14
Rientro dei capitali
È un condono, c’è poco da fare
di Alfiero Grandi


È legge, dopo il voto del Senato, un provvedimento di cui governo e maggioranza non hanno motivo di vantarsi. È una revisione politica e di principio radicale sull’evasione fiscale. Tanto più incomprensibile in questa fase, dopo gravi episodi di corruzione, che si reggono sull’occultamento dei capitali.
Il Giornale fa bene a sottolineare che grazie a questo governo è caduto a sinistra il tabù dei condoni fiscali. Purtroppo il Senato ha evitato qualunque miglioramento del testo. Questa legge riduce le sanzioni e taglia di netto le pene per quanti hanno esportato illegalmente capitali all’estero ed è stata estesa con gli stessi vantaggi anche a quanti hanno lasciato i quattrini in Italia, il “nero domestico”. Un’equità rovesciata.
Il termine per i vantaggi previsti dalla nuova legge è stato portato al 30 settembre 2014, praticamente a evasione ancora calda. Non si era ancora spenta l’eco di una ripresa della fuga dei capitali dall’Italia che subito è stato loro offerto un trattamento di favore fino all’ultimo istante possibile. Il tempo di accertamento dell’evasione fiscale è un altro regalo importante. Il raddoppio vigente dei tempi di prescrizione per reati fiscali come l’esportazione illegale di capitali viene ridimezzato con questa legge e quindi l’accertamento sarà possibile solo su 5 anni anziché su 10, gli altri non saranno più perseguibili. Un bel regalo.
Governo e maggioranza ripetono che non è un condono perché non è anonimo e non fa sconti sulle tasse evase, cosa in realtà non vera, ma è certo che fa sconti rilevanti su pene e sanzioni. Il governo e la maggioranza che ha approvato questa legge vuole dimostrare che non è un condono perchè teme una censura dell’opinione pubblica. Certo Tremonti aveva prodotto porcherie peggiori, con condoni superscontati e anonimi.
CIÒ NON TOGLIE che andrebbero evitate anche le mezze porcherie, perché i condoni possono essere anche nominativi e con sconti minori ma restano sempre tali nella sostanza, tanto è vero che vengono ridotte in modo significativo le pene per gli evasori. Non manca il consueto corredo delle grida manzoniane che minacciano sfracelli... in futuro. La proposta di legge conferma una verità già nota ma finora negata e cioè che per portare capitali all’estero, o per nasconderli al fisco in Italia, occorre commettere dei reati fiscali rilevanti. Se lo sconto avviene sulle pene siamo nel classico condono penale.
Esempi: dichiarazione fraudolenta, uso di fatture false o loro mancata emissione, mancato versamento di trattenute certificate (potrebbe essere avvenuto anche a danno di dipendenti), omesso versamento di Iva, sono tutti reati di fatto depenalizzati. Le sanzioni pecuniarie per gli evasori sono ridotte a una percentuale del minimo, con sconti dal 25 % al 50 % e anche di più.
Se la somma evasa è inferiore a 2 milioni di euro (maggioranza dei casi) gli interessi di rendimento del capitale esportato sono calcolati forfettariamente ogni anno al 5% con un’aliquota fiscale del 23%, la metà del 45% che il soggetto avrebbe dovuto pagare sul reddito reale e non su un forfait. Anche questo non è condono fiscale? Viene introdotto il reato di autoriciclaggio. Potrebbe essere una buona notizia se non fosse che questo reato vale anch’esso solo per il futuro, dopo che il condono avrà ripulito condotte decise con tutta calma fino al 30 settembre 2015 e che non saranno punibili quanti usano il denaro per “godimento personale”, ad esempio acquistando barche, auto, abitazioni, forse giocando al casinò, o altro. La definizione del godimento personale è semplicemente una follia, dalle conseguenze imprevedibili.
NON MANCANO nel testo previsioni di pene durissime per coloro che non aderiranno spontaneamente alla voluntary disclosure. L’inglese non deve fare paura perché il condono qualcuno deve pur chiederlo. È stato scritto un brutto capitolo fiscale in Italia. La fiducia tra Stato e cittadini prende un brutto colpo e stranamente l’Agenzia delle Entrate è già pronta con i moduli per gli evasori.
Lotta all’evasione e condoni non possono stare insieme. L’Amministrazione dovrà gestire questo condono e quindi sarà distratta dai compiti di perseguire gli evasori, come è sempre accaduto in passato. Passano leggi come il Jobs Act e il condono fiscale. Un’opposizione degna di questo nome non li farebbe passare. La destra è da sempre protagonista di provvedimenti come questi, in passato era la sinistra a cercare di impedirli.

Repubblica 6.12.14
“Le primarie nel Pd per il Quirinale”
La minoranza dem si prepara a chiedere una vera e propria consultazione della base per scegliere il successore di Napolitano. Boccia: “Matteo non può pensare di indicare alla presidenza della Repubblica un suo numero due”
di Goffredo De Marchis


I dissidenti convinti che il premier si orienterà su una figura di non alto profilo Civati: “Il M5S farà le quirinarie, stavolta in rosa potrebbe esserci Travaglio”

ROMA .
Il timore che Renzi possa scegliere un suo “numero 2” per il Quirinale, una personalità a autonomia ridotta, mette in guardia la minoranza del Pd che studia le contromosse. Una in particolare: chiedere le primarie dei grandi elettori su diversi nomi. A scrutinio segreto. Quando saranno convocati i gruppi parlamentari e i consiglieri regionali delegati prima dell’apertura delle votazioni in seduta comune.
E’ un’arma con la quale la sinistra interna avrebbe più chance di giocarsi la partita. «Sarebbe divertente », dice Francesco Boccia che fa parte del coordinamento dei dissidenti ed è in rotta di collisione con il premier. La trattativa interna però non ha fatto passi avanti. Anzi, ieri pomeriggio nella commissione Affari costituzionali i bersaniani hanno avuto la prova di una chiusura dei renziani doc sulla riforma costituzionale. «Questa rigidità non aiuta — dice Alfredo D’Attorre —. Stanno blindando il patto del Nazareno e il rischio è rallentare i lavori anziché accelerarli come succederebbe accettando alcune piccole modifiche». Non è un buon segno per la pax interna che va certificata innanzitutto al Senato nel giro di poche settimane a cavallo tra il 2014 e il 2015, al momento del voto sull’Italicum. E un bersaniano prevede «mare mosso», sia dentro al Pd sia dentro Forza Italia inasprendo così anche la corsa del Colle.
L’allarme è scattato da giorni nei corridoi di Montecitorio. I dissidenti sono convinti che alla fine il premier si orienterà su una figura di non altissimo profilo, molto lontana dall’identikit disegnato da Bersani: «Una persona che sappia guidare benissimo la macchina perché il Paese è ancora su una strada piena di curve». Ma per i tornanti basta Renzi, è il pensiero di Palazzo Chigi. Al Quirinale non serve un manovratore né un suggeritore. «Semmai sarà il governo a consigliare il Quirinale sulla linea politica. Temo che lo schema sia questo», spiega D’Attorre.
Ecco allora spuntare l’ipotesi primarie, da buttare nella mischia se mancasse un accordo preventivo, se l’indicazione fosse di basso profilo o troppo vincolata al patto con Berlusconi. Non sarebbe una novità assoluta nel Pd. La volta scorsa, appena un anno e mezzo fa, erano già pronte le schede per il referendum interno per scegliere il candidato dopo la bocciatura di Franco Marini. Pier Luigi Bersani, per uscire dallo stallo, aveva ceduto alle pressioni di una parte del Pd che proponeva di decidere tra diversi candidati attraverso il voto dei grandi elettori. Nella rosa c’erano Romano Prodi e Massimo D’Alema. Poi l’allora segretario ruppe gli indugi. «Andiamo in assemblea solo con il nome di Romano e vediamo come viene accolto». Ci fu un’ovazione, in pratica la proposta non venne nemmeno messa ai voti e poi finì come si sa. Nel voto vero, quello a Montecitorio, 101 franchi tiratori o forse di più impallinarono Prodi innescando una reazione a catena: le dimissioni di Bersani, del presidente Bindi, la conferma di Napolitano e una strada aperta per Renzi che aveva perso appena cinque mesi prima la sfida per la leadership. Adesso però il premier è sicuro di avere molte più frecce. Non per niente il vicesegretario Lorenzo Guerini all’eventuale richiesta della minoranza risponde già ora con un sonoro: «Bah...». Il premier cerca una condivisione, ha bisogno della solidità dei 450 grandi elettori democratici in caso di scontro con 5stelle e Forza Italia. Ma vuole essere lui a decidere il nome senza mettersi nelle mani dei suoi gruppi parlamentari.
La corsa certo presenta molti ostacoli. Da qualche giorno si vocifera di movimenti di D’Alema per ritagliarsi un ruolo da king maker, cercando un candidato fuori dal Pd e di ponte con i centristi e con un pezzo di Forza Italia. Il suo nome è Paola Severino, donna, avvocato, ex Guardasigilli, sicuramente una figura autorevole. La sponda grillina viene sondata con cautela. Lo ha fatto il capogruppo Roberto Speranza ricevendo per ora una risposta di totale chiusura. «Ro-dotà », ripetono oggi come un anno e mezzo fa i grillini avvicinati dal Pd. Pippo Civati usa i suoi canali sia con gli eretici sia con gli ortodossi di Grillo. «Dicono che faranno le quirinarie come la volta scorsa. E che stavolta nella rosa potrebbe esserci Marco Travaglio che ha compiuto 50 anni. Ho paura però che se non si danno una mossa, arriveranno di nuovo troppo tardi».

Repubblica 6.12.14
Addio aumento di risorse per i contratti di solidarietà Sel e Fiom contro il governo
Lo Stato potrà integrare al massimo il 60% dello stipendio perso
di Roberto Petrini

ROMA Scoppia il caso del finanziamento dei contratti di solidarietà a rischio dal 1° gennaio del prossimo anno. Nel testo del disegno di legge di Stabilità, approvato nei giorni scorsi dalla Camera e attualmente in discussione al Senato, mancano le risorse per il finanziamento di questa forma di ammortizzatori sociali che ha consentito di risolvere molte crisi aziendali a partire dalla Electrolux.
I contratti di solidarietà consentono in caso di crisi di ridurre l’orario di lavoro, di lasciare il dipendente in attività, seppure con un salario ridotto ed evitano in molti casi la cassa integrazione, situazione ben più delicata e frustrante. Fino al 31 dicembre 2013 la percentuale di integrazione era pari all’80 per cento della retribuzione persa per via della riduzione di orario. Quest’anno, dopo le modifiche intervenute, l’integrazione era scesa al 70 per cento della retribuzione persa per via della riduzione dell’orario di lavoro. Il tetto in vigore è tuttavia dovuto ad un intervento-ponte che eleva il livello standard del 60 per cento stabilito dalla legge: dunque se la legge di Stabilità 2015 non introdurrà la proroga dell’integrazione al 70 per cento il contratto di solidarietà rischia di diventare difficilmente praticabile e gli incentivi alla soluzione di crisi aziendali diminuirebbero. Tutto ciò dal 1° gennaio del 2015.
Della «dimenticanza» si è accorto il deputato di Sel Giorgio Airaudo che ha denunciato la vicenda: «E’ sconcertante che mentre Renzi vanta la risoluzione della vertenza Electrolux con i contratti di solidarietà gli stessi vengano depotenziati ». Alla situazione degli ammortizzatori sociali, mentre ci sono circa 170 crisi industriali aperte, si aggiunge il debutto di nuove disposizioni di legge: dal 1° gennaio del prossimo anno, per coloro che hanno più di 50 anni, scomparirà infatti la cosiddetta mobilità che ha la durata di tre anni e che sarà sostituita dall’Aspi biennale.
Così Sel ha preparato un emendamento che rimedia alla vicenda e stabilisce che l’integrazione salga al 70 per cento anche per il prossimo anno con un intervento che resta ancorato ai 50 milioni. La questione sarà oggetto di esame al Senato dove giunge l’eco anche dei maldipancia delle Forze armate per i tagli di bilancio. All’attacco anche la Fiom. Il Governo Renzi, afferma Mirco Rota, segretario Fiom-Cgil della Lombardia e responsabile nazionale per il Gruppo Marcegaglia, «non sta estendendo gli ammortizzatori sociali ma li sta fortemente riducendo».
Si tratta — secondo il sindacalista della Fiom — di «un vero e proprio bluff», perché «depotenziare i contratti di solidarietà significa favorire i licenziamenti, anziché favorire una riduzione degli orari di lavoro che ridistribuisce il lavoro tra tutti i lavoratori. Chiediamo interventi migliorativi rispetto al testo e ci auguriamo che al Senato il fondo venga ripristinato ». «Il premier — conclude — non regge alla prova dei fatti ».

Repubblica 6.12.14
Se il Censis disegna un Paese rassegnato
di Guido Crainz


SEMBRA scomparire sin la speranza di ripresa, nell’ultimo rapporto del Censis: “Dopo anni di trepida attesa essa non è arrivata e non è più data per imminente”, si annota nelle prime righe.
SI È delineata semmai la divaricazione fra “una sconcertante rassegnazione collettiva” e le fughe in avanti di una politica che moltiplica inutilmente riforme e manovre per scuotere l’inerzia del corpo sociale. Una allarmante forbice fra l’impoverimento reale e un decisionismo inconcludente, in un panorama segnato dalla mancanza di comunicazione e di relazione fra i diversi soggetti. Caratterizzato dal delinearsi di una sorta di “società delle sette giare”: divisa cioè in grandi contenitori separati il cui interno sobbollire non attiva processi di scambio e di dialettica reciproca. Con l’operare di dinamiche geopolitiche e di poteri sovranazionali cogenti ma incapaci di interagire positivamente con le realtà nazionali: dal mercato finanziario alla politica europea, segnata da crescenti vincoli e al tempo stesso da “grandi vuoti” (di protagonisti affidabili, di prospettive, di attenzione alle attese delle popolazioni). Con una politica nazionale che persegue quotidiane rivincite sui corpi intermedi, sulle rappresentanze, sulle istituzioni locali: e su questa via riscuote sì consensi di superficie ma sconta poi l’inefficacia reale della decretazione d’urgenza e del “verticismo”. Ed è incapace di aver ragione delle inefficienze dell’amministrazione, dell’atonia di molte zone del Paese, di comportamenti collettivi consolidati. È qui esplicito il riferimento alla gran mole di riforme e decreti varati negli ultimi anni, dal governo Monti ad oggi: un insieme di testi e di parole (equivalenti a più di undici “Divine Commedie”, si annota) che hanno distorto il concetto stesso di intervento straordinario e alimentato le incertezze di una “emergenza continua”.
Si considerino poi le altre “realtà non comunicanti”: dal disordinato funzionamento delle istituzioni ad una vita quotidiana sempre più intrisa di rassegnazione, di sospensione delle aspettative. Da un “sommerso” in espansione, sempre più centrale nelle strategie famigliari, sino a una comunicazione di massa sempre più rinchiusa in sé, alla ricerca dell’evento- spettacolo più che dei processi reali: con i media ridotti a una sorta di eterno “selfie”, ad un continuo rispecchiamento di se stessi, e sempre meno capaci di essere strumenti di conoscenza. Non sfuggono a questa lettura neppure quegli elementi di vitalità del Paese che sono tradizionalmente al centro dell’attenzione del Censis, quei luoghi e quelle figure del “vigore” cui era dedicato anche un rapporto di pochi mesi fa. Quella vitalità non è scomparsa ed è semmai in espansione: dal microcapitalismo di territorio alle performance nelle esportazioni e sino alla permanente capacità di attrazione della Italian way of life. È declinante però la sua efficacia collettiva, è sempre più ridotta la sua capacità di agire da traino. Molti riscontri empirici si collocano in questo orizzonte. Delineano una società spinta da paura ed attendismo a non utilizzare i propri capitali: con grandi flessioni negli investimenti, pur non essendovi un analogo peggioramento dei conti delle imprese; con una forte diminuzione delle attività finanziarie delle famiglie, che la crescente insicurezza spinge verso un “risparmio di tutela” (e verso un largo utilizzo dei contanti che evoca lavoro nero ed elusione fiscale); con quella crescente dissipazione del capitale umano che è fotografata dagli otto milioni di persone che non lavorano e dal forte accentuarsi della disoccupazione giovanile. Sono preoccupanti anche i dati sui processi formativi, che ribadiscono la nostra arretratezza sul terreno dell’informatica. E che segnalano una ulteriore divaricazione fra gli atenei, con una capacità di attrazione in continua diminuzione al sud e in calo, per la prima volta, anche nell’Italia centrale. Le dissipazioni non si fermano qui, confermate dalla perdurante incapacità di valorizzare il nostro patrimonio culturale. O dalla clamorosa inefficienza nell’utilizzare i fondi europei per le politiche di coesione, volti cioè a sanare squilibri territoriali e sociali: nell’esercizio 2007/2013 solo il 20% dei fondi disponibili per infrastrutture è stato speso, il resto sembra affondare in una grande palude. Un dato drammatico, in uno scenario in cui si aggravano la “desertificazione del Mezzogiorno” e la sua distanza dal resto del Paese, e in cui “le problematicità ormai incancrenite di alcune aree urbane” evocano per la prima volta un “rischio banlieu”. Non mancano, come s’è detto, le segnalazioni di eccellenze e di passi in avanti, ma sembrano meno convinte che in passato: e già da tempo colpiscono i toni sempre più sfiduciati di un istituto di ricerca accusato a lungo di eccessivo ottimismo. Nel nostro attuale “galleggiare su antiche mediocrità” sembrano dissolversi anche potenzialità antiche: lo stesso richiamo al nostro “scheletro contadino”, ai nostri caratteri fondativi (dalla vitalità delle diverse realtà territoriali alle potenzialità della famiglia) risuona oggi più come appello ad un “dover essere” che come segnalazione di una risorsa certa. Ed appare sempre più tenue la speranza che la politica, abbandonati volontarismi inefficaci, sappia riannodare i fili spezzati, mettere in comunicazione le differenti vitalità, connettere le aspettative individuali con orizzonti di futuro.

Repubblica 6.12.14
Rubato alla Gnam il “Bambino malato” di Medardo Rosso
Le relazioni pericolose tra tagli alla cultura e sorveglianza
di Tomaso Montanari


Lo Stato spende l’1 per cento del suo bilancio, la metà esatta della media della Ue
SARANNO i dettagli di questo furto incredibile a chiarire quali siano le falle del sistema che l’hanno reso possibile. Ed è bene dire subito che non esistono musei a prova di furto, e che la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma è un museo modello, diretto da una dei conservatori più seri e preparati.
Ma rimane lo sconcerto suscitato da un museo dal quale si può uscire con un bronzo di Medardo Rosso, come si esce da un self service con una pizza. E se è impossibile non leggere l’episodio come una ulteriore, terribile pennellata del ritratto di un Paese in disgregazione, e di una capitale alla deriva, è difficile non metterlo in relazione ai criminosi tagli ai finanziamenti della tutela del patrimonio culturale.
Recentemente il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini è riuscito ad ottenere che la Legge di Stabilità contempli la creazione di un fondo permanente per l’attuazione dell’articolo 9 della Costituzione, finanziandolo con 100 milioni di euro: è una buona notizia perché segna, finalmente, un’inversione di tendenza.
Ma bisogna notare che si tratta del recupero di un misero 10% di ciò che Giulio Tremonti e Sandro Bondi tagliarono d’un colpo nel 2008. Oggi il bilancio dei Beni Culturali è al minimo storico di 1 miliardo e 595 milioni di euro, una cifra per un terzo destinata allo spettacolo, e per circa il 90% bloccata nella spesa corrente. In altri termini, oggi lo Stato spende per la cultura l’1,1% del suo bilancio, mentre la media dell’Unione Europea è esattamente il doppio. E in termini di percentuale sul Pil siamo gli ultimi dell’Unione, insieme alla Grecia: con un incredibile 0,6%. Anche lo sbandierato Art Bonus, voluto dallo stesso Franceschini ed entrato in vigore in agosto, è un pannicello caldo, perché il gettito favorito dalle sue defiscalizzazioni rappresenterà (al picco massimo previsto) l’1,8 per cento del bilancio. Sarà un caso se poi non riusciamo a sorvegliare le sale dei nostri musei?

Corriere 6.12.14
Neocomunisti al governo in Turingia Incognita tedesca
di Paolo Lepri


È una rivoluzione di dicembre, quella maturata in Turingia, destinata ad agitare la politica tedesca. Per la prima volta nella storia, un Land verrà guidato da un ministro-presidente della Linke, il partito che ha parzialmente raccolto l’eredità dei comunisti della Ddr. Bodo Ramelow, un ex sindacalista cresciuto ad Ovest, sarà in questa regione dell’Est alla testa di una coalizione «rosso-rosso-verde» della quale fa parte la stessa Spd alleata dei cristiano-democratici nel governo Merkel.
   «Il mio partito non è un club di nostalgici», ripete il neogovernatore. Nel discorso di insediamento ha comunque chiesto perdono ad un amico, Andreas Möller, perseguitato dalla Stasi. La sua elezione è stata preceduta da una serie di manifestazioni organizzante da associazioni delle vittime del regime comunista per protestare contro il «ritorno al potere degli oppressori». Anche il presidente tedesco Joachim Gauck, ex militante dei diritti umani nella Germania Est, non ha nascosto il proprio disagio.
   Nonostante l’incandescente clima che ha accompagnato la nascita del governo regionale (la moglie di Ramelow, l’italiana Germana Alberti vom Hofe, ha ricevuto telefonate minatorie), il leader della Linke è determinato ad andare avanti. Cercherà di realizzare un programma che punta sul potenziamento dello Stato sociale, senza lasciarsi condizionare dall’esigua maggioranza (un solo voto) di cui dispone.
   Intanto, il mondo politico si interroga sulle difficoltà della Cdu, che sembra appiattita sulla popolarità personale della Cancelliera. I cristiano-democratici sono ormai al potere in soli 5 Länder su 16. Ma bisogna capire se la formula della Turingia abbia qualche possibilità di venire proposta nel 2017 a livello nazionale. La Spd prende tempo. Anche perché sa che la Linke deve cambiare pelle. E non è detto che ci riesca.

La Stampa 6.12.14
Abu Mazen dà la cittadinanza palestinese all’italiano ferito da un proiettile israeliano
Patrick Corsi è stato ricevuto assieme ad altri attivisti dell’International Solidarity Movement
di Maurizio Molinari

qui

il Fatto 6.12.14
Anche l’Onu critica gli Usa
Dopo l’ennesimo omicidio di un nero da parte della polizia
A New York cortei di protesta paralizzano la città
Il sindaco De Blasio: “Serve una nuova gerezione di agenti”
di Angela Vitaliano


Sono 233 le persone fermate a New York durante gli ultimi due giorni di proteste esplose a seguito della decisione del Grand Jury di non incriminare l'agente Pantaleo che, lo scorso luglio, causò la morte del 49enne Eric Garner per strangolamento, sopraggiunto dopo averlo bloccato con una presa al collo. Rabbia e tensioni aggravate dall’episodio di Phoenix, in Arizona, con l’uccisione di un trentenne che, fermato dagli agenti, era stato ucciso per una mossa giudicata sospetta.
Addirittura l’Onu ha espresso “preoccupazione per i diritti umani” al ripetersi degli episodi di violenza della polizia contro i neri.
Diversi i cortei che si sono mossi in diversi punti cruciali di Manhattan: uno, partendo dalla zona sud, ha raggiunto il ponte di Brooklyn mentre un altro, da Harlem, ha attraversato tutta la città causando rallentamenti all'altezza dei tunnel di accesso alla città. Le manifestazioni, nonostante gli arresti, non sono state accompagnate, a differenza che a Ferguson, da nessun incidente o azione violenta. “I dimostranti non avevano intenzione di usare la violenza - ha detto il capo della polizia, Bill Bratton - e la polizia aveva tutte le intenzioni di lasciare loro lo spazio adatto a manifestare. Penso che uno dei benefici di cui godiamo in questa città è che abbiamo tante diverse manifestazioni. Ogni settimana gestiamo circa 150 eventi”.
INTANTO, i leader dei diritti civili, a cominciare da Al Sharpton, condannano un sistema giudiziario che “non funziona” e sperano che l'indagine predisposta dal governo federale possa portare ad una, seppur tardiva, giustizia per Eric Garner. Il sindaco Bill De Blasio - che ha rivelato di consigliare al figlio, nero, di “stare attento quando esce” - ha assicurato che la città provvederà alla formazione di una nuova generazione di poliziotti, addestrati con criteri precisi, soprattutto, a relazionarsi alle persone fermate in strada. Un punto fondamentale che anche il presidente Obama sottolinea ribadendo che “una delle priorità sarà quella di assicurare che i cittadini possano rivolgersi alle forze dell'ordine con fiducia, senza temere nessun tipo di discriminazione”. Obama e De Blasio hanno annunciato che collaboreranno per favorire un dialogo fra la polizia e i leader delle minoranze etniche presenti in città. L'eco della protesta di New York, come era già avvenuto dopo i fatti di Ferguson, è arrivato, peraltro, in molte altre città del paese: da Philadelphia a Boston, da Chicago a Detroit.

La Stampa 6.12.14
Il sociologo Amitai Etzioni, 85 anni, padre del Comunitarismo, spiegò la società post-razziale
“Una società non può reggere con queste ingiustizie. Poco lavoro, il quintuplo di carcerati. L’integrazione è rimasta un sogno”
di Pao. Mas.


Amitai Etzioni è sconsolato: «Niente, abbiamo fallito». Il padre del «comunitarismo» si riferisce all’idea che aveva avanzato nel saggio «The Monochrome Society», e in vari scritti successivi: «Pensavo - spiega - che la società americana fosse arrivata al punto di potersi mettere alle spalle le divisioni razziali, puntando invece sui valori condivisi che la univano. La mia speranza si basava su alcuni elementi concreti. Ad esempio il fatto che un terzo dei neri era entrato nella classe media, mentre gli ispanici rappresentavano un’opportunità, perché sul piano etnico erano facilmente assimilabili ai bianchi. Il successo degli asiatici dimostrava che era possibile integrarsi, e la pace sociale conveniva anche ai bianchi sul piano economico. Le proteste di questi giorni, con il loro significato che va ben oltre gli episodi di brutalità della polizia da cui sono nate, dimostrano che quella speranza era vana».
Di chi è la colpa?
«Tutti hanno la loro parte di responsabilità».
Cominciamo dal sistema giudiziario?
«Le discriminazioni e i pregiudizi sono evidenti, a chiunque faccia una analisi onesta. Vi do un esempio: un nero che consuma eroina o crack finisce in galera per anni, mentre un bianco che prende cocaina non viene neanche processato. Così si riempiono le nostre carceri, si distruggono vite e famiglie, e si creano i presupposti per l’odio».
Bisognerebbe lasciarli fare?
«No, però una società non può reggere quando ci sono diseguaglianze così evidenti nel trattamento davanti alla giustizia. E non sono le sole».
Quali sono le altre?
«L’economia americana si sta riprendendo, ma la disoccupazione tra i neri continua a essere il doppio di quella dei bianchi».
È colpa dei bianchi?
«In questi anni di crisi economica ha aumentata l’avversione per le minoranze, come succede sempre in questi casi. Serve un capro espiatorio, e infatti in Europa sta tornando l’antisemitismo. In America poi il sistema politico democratico è bloccato. Non si riesce a varare alcuna iniziativa capace di sanare le ferite razziali, perché il Congresso è in mano al Partito repubblicano, una formazione ormai composta da soli bianchi che si basa sull’odio razziale».
All’inizio aveva detto che le responsabilità di questo fallimento sono diffuse. Cosa rimprovera ai neri?
«Ad esempio quello che ha denunciato lo stesso Presidente Obama: troppo spesso gli uomini afro americani non fanno i padri come dovrebbero. Questo porta alla creazione di famiglie disfunzionali, dove poi difficilmente i figli avranno l’opportunità di crescere sviluppando a pieno le loro potenzialità».
I neri sono frenati dall’ambiente in cui crescono, dai pregiudizi contro di loro, o dall’assenza di opportunità?
«Tutti questi elementi contribuiscono a discriminarli, favorendo poi le reazioni violente. Le comunità afro americane, però, hanno la responsabilità di non mettere nell’istruzione la stessa enfasi degli altri gruppi etnici, tipo gli asiatici. Questa mancanza di preparazione diventa un freno insormontabile per i giovani».
Quali soluzioni suggerisce?
«È una crisi molto grave, perché il risentimento dei neri si sta saldando con quello dei bianchi che si sentono vittime delle diseguaglianze economiche. L’idea di unirci intorno ai valori americani condivisi è fallita, e purtroppo io non ho un’altra soluzione a portata di mano».

il Fatto 6.12.14
Alexander Stille
Con Obama l’America è più razzista
intervista di Beatrice Borromeo


La violenza delle forze dell’ordine, in America, non è una novità. “Ho capito quanto in fretta possano degenerare le cose quando sono stato arrestato solo per aver suonato un clacson”, racconta Alexander Stille, professore di giornalismo alla Columbia University di New York. “Mi coprivano d'insulti, se avessi anche solo accennato una reazione mi avrebbero malmenato, e la situazione sarebbe diventata molto pericolosa”. Ma i nervi tesi della polizia a stelle e strisce scattano con molta più facilità quando lo scontro avviene con una persona di colore: secondo l’Fbi, tra il 2005 e il 2012 gli agenti hanno usato la forza contro i neri, con conseguenze mortali, quasi due volte alla settimana (un caso su 5 riguarda ragazzi sotto i 21 anni). “È un problema che ha radici lontane – spiega Stille - già negli anni ‘80, sotto Giuliani, c’era la logica del ‘noi contro loro’. E loro sono i neri”.
Come lo spiega?
Prendiamo l’esempio dei poliziotti newyorchesi. Fanno un lavoro malpagato, vivono fuori città e dunque non fanno parte della comunità che devono sorvegliare. Considerano i neri come animali perché vivono in condizioni peggiori delle loro e perché, tra gli afroamericani, c’è un tasso di delinquenza più alto. Fanno un’equazione molto facile: uomo nero uguale criminale.
Il problema resta di matrice razzista.
I bianchi hanno la percezione che la maggioranza dei reati sia commessa dai neri, ma non è vero. Ne commettono di più in proporzione, ma resta comunque una minoranza dei crimini. I bianchi, poi, pensano che la delinquenza sia in aumento, mentre è in calo notevole. C’è uno stato di allarme costante, e gli agenti, che vengono da vecchie migrazioni irlandesi o italiane, sono pieni di risentimento e pronti a esplodere appena incontrano la minima resistenza. C’è un abuso di potere, e di forza, molto diffuso.
In America, poi, la polizia ha più libertà di manovra che in Europa.
Qui non hanno, per esempio, il dovere di retrocedere se la situazione diventa pericolosa. Calmare gli animi non è una priorità. Poi c'è un abisso culturale e psicologico tra le comunità. I bianchi sono stufi di sentir parlare di razzismo, mentre i neri lo vivono in continuazione. Basti pensare che i conducenti neri, in autostrada, vengono fermati 6 volte più dei bianchi per le stesse infrazioni. E poi nelle carceri americane ci sono centinaia di migliaia di giovani neri, reclusi per reati non violenti come il possesso di stupefacenti: e di certo non si drogano più dei bianchi. Ai neri, per gli stessi delitti, viene inflitta la pena di morte molto più facilmente che agli imputati bianchi. C’è uno squilibrio legato alla nostra lunga e tragica storia razziale che invade anche il settore della giustizia. Un poliziotto vede in un giovane nero una minaccia per la sua vita.
A Ferguson, dove è stato ucciso Michael Brown, i poliziotti bianchi erano 50 su 53.
È un elemento fondamentale. Stessa storia a NY. Stanno capendo, molto lentamente, che bisogna assumere poliziotti di colore per migliorare il rapporto con la comunità, altrimenti saremo sempre ‘noi e loro’.
Perché le giurie popolari hanno negato due volte di seguito l’incriminazione dei poliziotti coinvolti nelle sparatorie? Il razzismo è così radicato anche tra la gente?
C’è un vecchio detto nel mondo dei tribunali: puoi far condannare anche un panino. Nel caso di Ferguson risulta abbastanza evidente che le prove sono state presentate in modo favorevole al poliziotto. E nella fase della Grand jury non c’è il diritto di difesa, dunque l’accusa ha moltissimo potere. Solo al processo la difesa può smontare le prove.
Non è una contraddizione che un Paese così intollerante sia guidato da un presidente nero?
Anzi: la presidenza di Obama ha aumentato il sentimento razzista in America. È difficile sapere se questo ha influito nei casi specifici delle ultime settimane, ma di certo il paese oggi è più polarizzato. Le ultime tre elezioni dimostrano che i bianchi votano in gran parte contro il partito di Obama. L’unico effetto positivo è stato sulla comunità nera, che risponde in maniera più moderata alle provocazioni.
Quanto pesa il fatto che negli Usa chiunque può avere un’arma?
Ci sono 300 milioni di armi: praticamente una per ogni cittadino. Nel caso di Phoenix, il poliziotto ha visto l’uomo mettere le mani in tasca e ha sparato pensando cercasse la pistola. In un secondo momento hanno scoperto che aveva effettivamente un’arma in auto: non l’aveva usata, né toccata. Ma la paura rende più complessi questi scontri. Gli Usa vivono una negazione totale del problema. Gli americani sono convinti che sia più sicuro girare armati anche se tutti gli studi dimostrano che chi possiede una pistola è molto più esposto al rischio di una morte violenta. Situazione assurda e inaccettabile, ma difficilmente cambierà.

Corriere 6.12.14
L’America ora teme il suo esercito di «poliziotti cattivi»
Ampia licenza di sparare nelle regole d’ingaggio
di Guido Olimpio


WASHINGTON Cortei in molte città. Duecento fermi solo a New York. L’onda lunga di Ferguson ha ripreso vigore con il verdetto del Gran Giurì di New York che ha «assolto» l’agente da ogni responsabilità per la morte dell’afro-americano Eric Garner. E ha rilanciato lo scontro sulla cultura di impunità che pervade la polizia negli Usa. Nulla di nuovo, ma l’insieme di episodi è troppo ampio per essere ignorato. Anche perché la componente razziale aggiunge rabbia e spirito di rivolta.
Oggi mille occhi sono puntati sulla «sottile linea blu». E’ così che si definiscono gli agenti per rimarcare la disparità di forze tra «buoni» e «cattivi». Nessuno mette in dubbio i pericoli che corrono. Solo quest’anno ne sono morti in servizio oltre 100. Nelle strade c’è un pericolo reale che però, qualche volta, è usato per giustificare risposte eccessive.
I fatti di cronaca dicono che non esiste la via di mezzo. L’agente parla o spara.
Nel periodo 2004-2011 ci sono state 2.178 uccisioni «giustificate» da parte della polizia ma solo 41 funzionari sono stati incriminati. E sono molto basse le percentuali di condanne rispetto ad un normale cittadino. Il magistrato americano, alla fine, difende sempre l’uomo con la stella sul petto. Ha della comprensione, che rischia di trasformarsi in complicità.
Il poliziotto è certo di potere agire con tutta la forza possibile. Una convinzione accompagnata dalla disponibilità di un arsenale poderoso dove il famoso taser, la pistola elettrica, è quello che fa meno male. Nel corso degli anni i Dipartimenti si sono militarizzati grazie all’acquisizione di materiale ceduto gratis o quasi dal Pentagono. I resti delle tante guerre, dai fucili ai blindati. Tutto autorizzato dal Congresso con una legge del 1997.
Anche piccoli comuni si sono dotati di squadre speciali, le Swat. I numeri dicono che negli anni 80 solo il 20% aveva team di teste di cuoio, negli anni 2000 sono passate all’80%. Esplosa anche la frequenza dei raid: da 3 mila interventi all’anno a 45 mila. E gli agenti, bardati come fossero in Iraq, sono usati per liberare ostaggi — appena il 7% dei casi — mentre per il resto eseguono notifiche di arresto o perquisizioni. La metà riguardano persone di colore.
Le regole di ingaggio concedono molta discrezione al poliziotto. Il concetto di minaccia è ampio. La storia di Michael Brown a Ferguson ha dimostrato che anche un possibile atteggiamento aggressivo a mani nude autorizza l’uso delle armi. Senza limiti al volume di fuoco: non due o tre proiettili ma una decina o molti di più, quasi a voler saturare il bersaglio.
Non è per caso che in America ci sia una particolare forma di suicidio: attacchi la polizia per farti ammazzare.
Ogni dipartimento fissa le sue regole, deboli i controlli. Proprio a Cleveland, dove è stato appena ucciso un ragazzino, un’inchiesta del ministero della Giustizia ha scoperto comportamenti inaccettabili da parte della polizia.
A New York adesso vogliono rivedere l’addestramento e si nascondono dietro il protocollo. Che proibisce la «cravatta» con il braccio attorno al collo del sospetto. Però lo hanno fatto comunque, con conseguenze irreparabili.
Le immagini sugli ultimi istanti di Eric Garner non lasciano dubbi, eppure sono molti che giustificano l’intervento muscoloso «contro un gigante d’uomo».
La mancanza di fiducia porta a sospettare anche di quello che avviene nel privato. La blogger «Cloud Writer» indaga sui suicidi delle compagne dei poliziotti. Alcune morti sono sospette, pochi gli elementi che facciano pensare ad un gesto disperato di mogli o fidanzate. Si sono tolte la vita o sono state «suicidate» dal partner? La risposta dovrebbero darla gli investigatori. Ma talvolta prendono per buona la versione del loro collega e, senza indagare, chiudono il caso lasciando la verità resti dietro il «muro blu».
@guidoolimpio

Repubblica 6.12.14
La rabbia della scrittrice Jamaica Kincaid “Ormai la polizia è una forza d’occupazione”
L’intellettuale di origini caraibiche “Non solo razzismo, sono abusi di potere: quest’America è malata” “Hanno chiamato la vittima di Ferguson un demone: è così che vedono la gente di colore”
Da madre vivo con angoscia ogni volta che i miei figli escono di casa: credo che non ci sia nulla da aggiungere
Abbiamo rimosso il passato schiavista: per questo oggi i suprematisti bianchi trovano terreno fertile
colloquio di Antonio Monda


NEW YORK JAMAICA Kincaid è afflitta da qualche giorno da una fastidiosa influenza, ma segue dal letto ogni novità sulle vicende di Ferguson e di New York: sull’indignazione prevale il dolore e la preoccupazione. «La cosa che mi angoscia maggiormente — racconta la scrittrice di Autobiografia di mia madre ( 1996) cercando di frenare i colpi di tosse — è che non sono neanche sorpresa. E questo, per una persona con la mia età e la mia storia, rappresenta una sconfitta».
Gli ultimi anni sono iniziati all’insegna di speranze che oggi sembrano tradite.
«Il male alligna nel cuore dell’uomo, solo gli illusi possono pensare di estirparlo. Troppe sono state le speranze affidate all’arrivo di Obama alla Casa Bianca».
Ritiene che la situazione sia migliorata o peggiorata da quando è presidente?
«L’evento storico della sua presidenza ha finito per inasprire gli animi del mondo suprematista. C’è un elemento raggelante sul quale conviene riflettere: un tempo queste mostruosità avvenivano negli stati del Sud, ora si ripetono anche nel Nord».
Pensa che Obama abbia gestito bene queste tragedie?
«Credo che abbia cercato di fare il possibile, esprimendo sdegno e nello stesso tempo tentando di calmare gli animi: non bisogna dimenticare che è il presidente degli Stati Uniti, non dei neri. E per questo finisce per essere attaccato da ogni parte: è stato anche definito “bugiardo”. Aggiungo che ogni presidente è costretto ad accettare compromessi, e a volte anche a commettere atti orribili. Anche se noi fingiamo di non saperlo quando amiamo il presidente in questione».
Il razzismo è un fenomeno eterno secondo lei?
«Purtroppo sì, ma rubricare quanto avviene a ripetizione come semplice razzismo è un errore: ci troviamo di fronte a casi di abuso di potere. Aggiungo che purtroppo il profiling razziale in America esiste da sempre».
Oggi lei ha fiducia nella polizia?
«Assolutamente no. Oggi la polizia si comporta come una vera e propria forza di occupazione, e aggiungo che non credo ad una parola di quello che dice. Cerco di essere prudente e rispettosa, ma perché ne ho paura. Questa è un’altra sconfitta: quando si perde la fiducia in un’istituzione, vuol dire che il paese ha un elemento marcio, che deve essere curato al più presto. Spero che tragedie come quelle di questi giorni, e le ingiustizie che generano, possano essere l’occasione di riflettere sul passato per poter migliorare il futuro».
Cosa intende?
«Che al si là di tanti film, libri e dibattiti non c’è stato un vero momento di catarsi rispetto all’orrore della schiavitù: si rimuove troppo facilmente che questo paese meraviglioso ha un peccato originale. Non esiste paese che non abbia commesso atrocità, e non siamo differenti dagli altri nel rimuovere i nostri crimini. Quello che vediamo oggi è frutto di quell’abominio, che trova terreno fertile nel mondo dei suprematisti bianchi».
La polizia vive spesso sotto una pressione intollerabile.
«Questo è vero, ed ho comprensione e rispetto per gli agenti che rischiano la propria vita. So anche che molti criminali sono di colore, ma questo non giustifica nulla di quanto abbiamo vissuto in questi giorni. La sensazione che se ne trae è che nessun poliziotto bianco possa essere mai ritenuto responsabile per abusi nei confronti di un nero. E questo è intollerabile».
Il caso di Eric Garner per certi aspetti sembra ancora più eclatante di quello di Ferguson.
«Perché esistono immagini che mostrano chiaramente cosa è successo, e allo stato attuale l’unica persona inquisita è l’autore del filmato. Non si deve sottovalutare poi che il fatto è avvenuto a Staten Island, un quartiere reazionario e razzista, tuttavia non si tratta di un incidente, ma di una dolorosa e agghiacciante costante storica. A Ferguson alcuni membri della polizia hanno definito la vittima “un demone”: sintomatico per capire come vedono la gente di colore. Mi chiedo se questa definizione non mostri invece chi siano i veri demoni».
Come si sente da madre di ragazzi di colore?
«Come una donna che nel 2014 vive nell’angoscia ogni volta che sa che i figli sono usciti di casa, e non credo ci sia nulla da aggiungere. Ho visto che anche il sindaco De Blasio ha detto qualcosa di simile, e mi piange il cuore».

Corriere 6.12.14
Tangenti, donne, favori
Arrestato Zhou la tigre
di Guido Santevecchi


Cina: l’ex capo dei servizi segreti è il più alto dirigente del partito comunista incriminato per corruzione DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PECHINO L’annuncio è arrivato dopo la mezzanotte, al termine di una seduta inattesa del Politburo del partito comunista: Zhou Yongkang, ex capo dei servizi segreti e di sicurezza della Cina, è stato espulso dal partito, incriminato e arrestato. Il comunicato sembra già una sentenza: di solito, quando un alto dirigente cade in disgrazia, si dice solo che ha commesso «gravi violazioni disciplinari»; questa volta l’agenzia Xinhua elenca meticolosamente le colpe della «tigre», come vengono chiamati i corrotti di alto rango. «Zhou ha sfruttato la sua posizione accettando tangenti personalmente e attraverso membri della sua famiglia; ha aiutato parenti, amanti e amici ad accumulare ricchezze, procurando seri danni all’economia statale; ha svelato segreti della Nazione; ha commesso adulterio con una serie di donne, scambiando il proprio potere con sesso e denaro».
Mai, nella storia della Repubblica popolare cinese, un ex membro del Comitato permanente del Politburo era stato incriminato per corruzione. La decisione di processare Zhou infrange anche il patto di non aggressione introdotto da Deng Xiaoping dopo lo scontro fratricida della Rivoluzione Culturale: si lasciava che i vecchi leader andassero a godersi la pensione per garantire una transizione senza scosse. Il presidente Xi Jinping si sente tanto forte, è tanto forte, da poter superare la decisione del venerato Deng. Così oggi il tabù è stato spezzato.
Zhou Yongkang, 72 anni, era diventato ministro della Sicurezza statale nel 2002 e tra il 2007 e il 2012 era stato uno dei nove uomini più potenti del regime, il più temuto, perché controllava servizi segreti, forze di polizia, corti di giustizia. Aveva cominciato la carriera da ingegnere petrolifero, per poi diventare segretario politico della China National Petroleum Corporation, il colosso statale dell’oro nero. Ha potuto manovrare appalti per centinaia di miliardi costruendo una rete di potere che gli ha permesso di scalare la gerarchia del partito.
Era così potente da potersi permettere un tentativo di difesa di Bo Xilai, il boss della megalopoli di Chongqing, l’uomo nuovo del partito accusato di abuso di potere e corruzione nel 2012. Zhou cercò di salvare Bo e si sospettò un complotto per cercare di fermare Xi Jinping, che proprio in quei mesi drammatici stava per essere eletto segretario del partito e capo dello Stato. Tra i buchi neri di quella vicenda anche i quindici giorni del settembre 2012 durante i quali Xi scomparve di scena. Davvero Bo e Zhou avevano tentato un golpe di palazzo? Di sicuro, Xi Jinping ha vinto la partita: Bo Xilai è stato condannato all’ergastolo e ora è in cella anche l’intoccabile Zhou.
L’ex capo dei servizi segreti era confinato a casa con la moglie, ex star della tv, da più di un anno. Uno alla volta erano finiti sotto accusa tutti gli uomini della sua corte corrotta: si sono contati 300 arresti, compreso il figlio, alcuni ministri, dirigenti petroliferi, imprenditori miliardari; sono stati sequestrati beni per dieci miliardi di euro. Xi Jinping ha avuto la pelle della tigre Zhou, ma l’annuncio nel cuore della notte dimostra quanto sia stata dura la caccia.

Corriere 6.12.14
New York Times
Schiave sessuali, trama revisionista in Giappone


Nel Giappone del premier nazionalista Shinzo Abe un’ondata di revisionismo militante rischia di compromettere decenni di elaborazione del passato. L’ International New York Times di Dean Baquet richiama l’attenzione sulle «donne di conforto», le decine di migliaia di schiave sessuali bottino dei soldati nipponici in Asia durante il secondo conflitto mondiale. Una pratica di guerra per la quale Tokyo chiese scusa nel 1993 e che ora parte della destra giapponese intende negare. «È in atto una campagna intimidatoria contro governo e stampa». Di fronte alle critiche di Cina, Sud Corea e Stati Uniti, Abe assicura che non cederà al ricatto. Ma non è solo geopolitica. È una battaglia per la verità storica.

Corriere 6.12.14
Zero in storia Einaudi stecca
L’editore scorda la lezione di Gramsci per sposare un ottimismo benevolente
Nel volume “Il mondo globalizzato. Dal 1945 a oggi”, appena pubblicato si riflette una sconcertante frattura culturale,
che mette da parte non soltanto la prospettiva nazionale, ma la stessa dimensione politica
di Ernesto Galli della Loggia

«Evidentemente ogni stagione ha la sua storia»: questo è quello che mi è venuto di pensare dopo aver letto il volume, appena uscito da Einaudi, Il mondo globalizzato. Dal 1945 ad oggi (a cura di Akira Iriye) ultimo di sei — gli altri cinque devono ancora essere pubblicati — di una Storia del mondo diretta dallo stesso Iriye e da Jürgen Osterhammel.
L’altra storia che avevo in mente è naturalmente la Storia d’Italia Einaudi. Pubblicata circa quarant’anni fa (tra il 1972 e il 1976) e largamente ispirata al pensiero di Gramsci, essa volle essere, e a suo modo fu, la premessa culturale della fase politica interamente nuova che sembrava delinearsi alla metà di quel lontano decennio: cioè il raggiungimento di una «piena democrazia», identificata con l’ingresso del Partito comunista nell’area del potere. Grazie al quale, s’immaginava, l’acquisto irrinunciabile dello Stato nazionale sarebbe riuscito a superare le proprie tare d’origine e a far finalmente suo il mondo moderno. La Storia d’Italia Einaudi voleva per l’appunto aprire la strada in quella direzione.
Ne è passato di tempo da allora. Oggi, a Torino, più che alla Penisola si preferisce guardare al mondo. Sotto la Mole non pulsa più il fervore della Pietrogrado d’Italia: semmai brilla, remoto, il miraggio di Detroit.
Sia chiaro: occuparsi invece che di cose italiane delle cose del mondo nell’ultimo settantennio mi va benissimo. Ciò che però mi colpisce è che nel momento in cui la più prestigiosa editrice di cultura del nostro Paese fa per l’appunto questo, essa non trovi necessario o comunque opportuno rivolgersi ad alcun autore italiano per affidarsi invece alla traduzione di un’opera straniera.
Bisognerebbe dedurne che all’Einaudi non si giudichi alcuno studioso italiano capace di fornire un’analisi approfondita e interessante su quanto è successo sulla faccia della terra dal 1945 ad oggi. Ovvero, che si giudichi che su tutto ciò un punto di vista italiano sia in quanto tale irrilevante o comunque di scarso momento. In qualunque caso (alla convenienza economica di tradurre come unico motivo della pubblicazione non riesco a pensare), mi pare l’ennesima spia di un fenomeno che incalza su più fronti. La spia — insieme per esempio alla misura del ministero dell’Istruzione di far impartire in inglese l’insegnamento di almeno una materia dei vari curricula scolastici; insieme alla pubblicazione interamente in inglese di riviste accademiche di carattere non scientifico; insieme alla grottesca presenza obbligatoria di un commissario straniero nelle commissioni delle abilitazioni universitarie — la spia, dicevo, di un oggettivo deperimento della dimensione nazionale nell’ambito della vita culturale del Paese.
Un deperimento che sa molto di abdicazione. Tanto più significativo quando, come in questo caso, riguarda uno dei centri più importanti, non dico della nostra cultura, ma sicuramente della sua rappresentazione pubblica, come per l’appunto la casa editrice Einaudi. Dalla cui mitica sede di via Biancamano, nei quarant’anni intercorsi tra l’attenzione di un tempo per la storia della Penisola e l’attenzione attuale per il «mondo», evidentemente è una qualunque idea forte dell’Italia stessa che sembra essersi dileguata.
E a pro di che cosa poi? Di una narrazione storica come quella di questa Storia del mondo , che per la prima parte, cioè la storia politica e le vicende dell’economia, si limita a ripercorrere prospettive in tutto e per tutto tradizionali; mentre nella seconda parte — la quale ambirebbe ad avere un carattere anche storiografico di rottura, con i due saggi più emblematici dell’intera opera e in specie di questo volume dal 1945 ad oggi: il saggio di Petra Goedde, Culture globali , e quello di Akira Iriye, La costruzione di un mondo transnazionale , per un totale di 340 pagine — la narrazione, dicevo, si presenta come un’accozzaglia di banalità pretenziose e di osservazioni scucite senza capo né coda.
La grande novità di cui il curatore Iriye si fa vanto è la storia «globale». Cioè l’idea che specie la storia contemporanea «debba essere compresa nel contesto globale e non solo come storia regionale o storia nazionale a sé stante» (si prenda nota della strabiliante novità), nonché l’idea che «questa storia globale sia composta da molti livelli (…) comunque connessi fra loro» (anche questa una cosa a cui nessuno finora aveva mai pensato…).
Compimento di tale storia globale sarebbe il mondo «transnazionale». E per l’appunto, sia Iriye che Goedde intendono ricostruire la «transnazionalizzazione del mondo»: ovvero «gli incontri, le attività e i pensieri transnazionali» che l’avrebbero prodotto. Ne viene fuori una ridda di figure, movimenti, ideologie e istituzioni, all’insegna del chi più ne ha più ne metta. Tutti sullo stesso piano, senza alcun ordine, senza alcun legame interno o di causa ed effetto. Si va dai migranti, ai turisti, agli ebrei, agli studenti all’estero, ai missionari, ai reduci di guerra; senza dimenticare l’arte, la musica, la memoria condivisa, l’Onu, Toynbee, l’anticolonialismo, il femmi-nismo, il programma Fulbright, i festival del cinema, l’arte, la musica, Hollywood, le grandi fondazioni Usa, l’allunaggio di Neil Armstrong, il consumismo, la psicoanalisi, e così via affastellando.
Tutto fa brodo, insomma, tra una «figura transnazionale» e «un’esperienza transnazionalmente condivisa», ai fini dell’auspicata vittoria della «transnazionalizzazione dell’umanità» (espressione vagamente agghiacciante, simile a una sorta di mutazione genetica) e insieme del «transazionalismo come ideologia»: frutto, ci viene detto, «degli sforzi compiuti dai singoli individui e dagli attori non statali di vari Paesi per gettare ponti tra uno Stato e l’altro e impegnarsi in attività comuni».
 È sorprendente come tuttavia, di fronte alla novità che molte delle cose sopra elencate di sicuro rappresentano prese singolarmente, non vi sia alcuna capacità, da parte dei due autori, di delineare un’autentica problematica storica, di mettere a fuoco un nesso interpretativo appena circostanziato. In che misura, ad esempio, l’insieme dei fenomeni in questione designano più che una «transnazionalizzazione», un’«americanizzazione» o un’«occidentalizzazione» del mondo? In che misura essi interagiscono con la dimensione dello Stato nazionale e della sua sovranità? In che senso ad essi può essere attribuito un connotato «democratico», come qui viene suggerito? Quali modifiche antropologiche veicolano e sollecitano? Nulla: di simili domande neppure la più pallida ombra.
Al loro posto si dispiega invece in queste pagine un pressoché unico criterio interpretativo: quello consigliato da una sfocata ideologia illuministico-progressista, tutta affissata alle «magnifiche sorti» rappresentate dalla «pace», dai «diritti umani», dall’«ambientalismo», dall’«ecoturismo», dal «femminismo». Ovvero, per la penna di Petra Goedde, dall’auspicio di una chimerica «religione dell’umanità» nella versione fantasticata dall’ineffabile Martha Nuss-baum. Il tutto, come se non bastasse, intramezzato da uno strampalato sinistrismo da campus americano. Quello che per esempio fa scrivere alla suddetta Goedde che le idee di Lenin sulla religione «non erano molto diverse da quelle dei liberali occidentali fondate sulla separazione tra Chiesa e Stato», o che «il sistema sovietico di Lenin non aveva proibito la pratica religiosa». Ovvero, per dirne un’altra, quello che, a proposito dell’attacco dell’11 settembre, induce Iriye alla singolare affermazione che «anche la reazione statunitense minò l’unità del genere umano» in quanto avrebbe riaffermato i «valori nazionalistici»: con la conclusione che «perciò non furono tanto i terroristi quanto la risposta americana al terrorismo a fiaccare il processo di transnazionalismo in corso».
Della lucidità di giudizio dei due autori sono del resto una testimonianza eloquente le rispettive conclusioni dei loro lunghi saggi, che è difficile immaginare più stravaganti. La Goedde ci intrattiene per tre pagine (tre pagine!) sull’esemplare «ibridizzazione culturale» a suo avviso rappresentata dall’opera dell’artista concettuale nigeriano Yinka Shonibare, il cui materiale preferito è il batik , un tessuto presunto africano; ma «Shonibare», leggiamo, «comincia a esplorare il problema di che cosa significhi l’arte autentica africana» per gli imperialisti bianchi (come anche per i post-imperialisti). Questo lo conduce alla scoperta dell’origine giavanese-olandese del batik e, infine, a comprendere «la superficialità della nozione di autenticità nell’arte e nella cultura in generale». Dal canto suo Iriye ci assicura che «nessuno incarna meglio di Barack Obama le tendenze nonché le speranze transnazionali dell’umanità», dal momento che nella sua figura sarebbe «possibile leggere in filigrana le forze che stavano modellando il mondo contemporaneo», visto che egli «fu (il singolare uso dei tempi verbali è della traduzione italiana, non sempre impeccabile) un individuo ibrido in un’epoca in cui l’ibridismo stava senza dubbio diventando un fatto ricorrente»: sicché «la causa della costruzione del transnazionalismo non avrebbe potuto trovare portavoce più autorevole».
Di fronte a una tale poltiglia concettuale è difficile non riandare con il ricordo a quell’altra Storia di cui dicevo prima. È difficile resistere alla tentazione di gridare: «Ma se è così, per favore ridateci Gramsci!, ridateci l’Italia!». Ciò che tuttavia, me ne rendo conto, servirebbe a ben poco. Ha più senso invece considerare un simile libro come un sintomo della situazione dell’epoca. Una spia del modo in cui l’epoca — in uno dei suoi punti intellettualmente più «alti» quale certamente è l’Università americana — si rispecchia nella propria storia e la ricostruisce, delle categorie culturali che a tal fine essa mette in campo. Tutto ciò in un momento cruciale: quello in cui il punto di vista adottato nei suddetti luoghi più «raffinati» della ricerca non vuole più essere quello dell’«Occidente» ma cerca, invece, di divenire un punto di vista «mondiale» all’insegna del «transnazionale».
Ciò che, come si vede dalle pagine di cui si sta parlando, non significa per nulla un semplice ampliamento o mutamento di prospettive. In questo passaggio, infatti, quella che si produce è la vera e propria dissoluzione dell’antica scena storica dove eravamo abituati a veder muoversi gli Stati, gli ambiti nazionali, le grandi personalità; ad agitarsi le lotte per il potere che decidono del destino delle collettività, a formarsi le idee e i movimenti dei popoli, a sorgere e tramontare le civiltà con le loro specificità e i loro antagonismi. Tutti questi protagonisti, infatti, sono ora giudicati conflittuali e divisivi, ideologicamente sopraffattori, nonché orientati alla «parzialità» a causa del loro statuto eurocentrico.
Ecco allora che l’antica scena sulla quale essi si muovevano viene sostituita da una scena storica nuova, al cui centro si collocano attori completamente diversi: per l’appunto le «culture globali» (surrettiziamente presentate come culture universalistiche, prive di un’origine storicamente determinata e quindi in teoria fruibili indistintamente da tutti); quelle fatte proprie da soggetti per antonomasia deboli e storicamente inediti quali migranti, donne, giovani, pacifisti, artisti, dissidenti di varie specie. «Culture globali» all’insegna della «contiguità», della «propagazione», dell’«ibridazione», e che pur con qualche contraddizione appaiono invariabilmente orientate in senso moralmente positivo. Destinate quindi a scontrarsi per forza con il «potere» nei suoi vari aspetti invariabilmente negativi: e proprio perciò chiamate a rappresentare l’anticipazione del futuro «mondo transnazionale».
La frattura culturale che tutto ciò produce è profonda. Per questa via, infatti, l’etica s’infiltra sottilmente, ma massicciamente nella storia. La quale alla fine, per ripetere una felice espressione di Croce, diventa in sostanza «una storia poetica esprimente qualche aspirazione del cuore umano». Il nocciolo duro del «politico» viene di fatto radicalmente eliminato. La storia finisce per acquisire un carattere sempre più unidimensionale — con i «buoni» contro i «cattivi»: per esempio la dimensione transnazionale contro quella nazionale — dovendo in tal modo registrare il fortissimo indebolimento anche della dimensione dialettica: tutto tende ad avere un solo colore, a significare una sola cosa, ad avere un solo, univoco, effetto. E al posto dell’antico realismo pessimistico della storiografia politica otto-novecentesca tende a subentrare — in stupefacente contrasto con quella che a molti di noi sembra l’aria dei tempi — una nuova narrazione del mondo e delle sue nuove idee, intrisa di ottimismo benevolente.
E infine, sempre per questa via, si delinea un ultimo fatto di non poco conto che bisognerà pur dire. Una certa cultura americana, fedele all’orientamento idealistico della propria tradizione, forte dell’atteggiamento indomitamente «ingenuo» di molte sue élite intellettuali, chiusa nel politicamente corretto delle proprie istituzioni accademiche, segna una nuova vittoria sulla tradizione culturale dell’Europa: sempre meno sicura di sé, sempre più subalterna.

Corriere 6.12.14
L’opera
Il lungo viaggio dell’umanità ripercorso in sei tappe


È partita con l’uscita del sesto volume, Il mondo globalizzato. Dal 1945 ad oggi (Einaudi, pagine XXX-954, e 90), la Storia del mondo , un vasto ed ambizioso progetto editoriale internazionale coordinato dal tedesco Jürgen Osterhammel e dal giapponese Akira Iriye. Questo volume, che chiude l’opera anche se è il primo a essere pubblicato, è curato da Iriye (docente ad Harvard) e termina con un suo saggio. Comprende anche contributi di Wilfried Loth, Thomas W. Zeiler, John R. McNeill e Peter Engelke, Petra Goedde. Gli altri volumi previsti sono: Le prime civiltà , a cura di Hans-Joachim Gehrke; Le sfide dell’agricoltura e del nomadismo , a cura di Emily S. Rosenberg; Imperi e oceani , a cura di Wolfgang Reinhard;
Verso il mondo moderno , a cura di Sebastian Conrad e Jürgen Osterhammel; I mercati e le guerre mondiali , a cura di Emily S. Rosenberg.

il Fatto 6.12.14
Il senso della rabbia
L’Europa dei “Leviatani impazziti”
di Stefano Feltri


In un’epoca di populismi sguaiati e slogan da felpa, Barbara Spinelli si assume un compito nobile e forse inutile: dare argomenti a una rabbia tanto diffusa quanto generica, incanalare il malessere contro l'Europa verso i giusti bersagli.
“La sovranità assente” è un libro breve ma denso, pubblicato da Einaudi, che raccoglie le idee che hanno portato l'editorialista di Repubblica alla sofferta scelta di passare dal commento alla politica attiva, candidandosi all'Europarlamento con la lista Tsipras. La Spinelli ha un punto di vista che in Italia è assai poco diffuso mentre nel dibattito internazionale trova il più autorevole referente nel filosofo tedesco Jürgen Habermas: la responsabilità del disastro europeo non è tanto delle tecnocrazie, dei funzionari della Commissione o di quelli della Bce, non è neppure degli gnomi senza volto e senza voti della Troika che impongono sacrifici sulle sponde del Mediterraneo. No, se dobbiamo prendercela con qualcuno, allora il giusto bersaglio della rabbia popolare devono essere i “Leviatatani impazziti”, come li chiamava il Manifesto di Ventotene di Spinelli padre, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni. Cioè gli Stati nazionali, quei governi che hanno prodotto tanti danni con la loro “veduta corta” perpetuando l'illusione che il vero problema fosse mantenere la sovranità a livello nazionale, fingere che il mondo non stia cambiando. Difendere lo status quo, nota acutamente la Spinelli, non protegge l'interesse nazionale, ma quello di minoranze che temono di rinunciare ai loro privilegi, piccoli e grandi. Come scriveva Niccolò Machiavelli, il cambiamento “ha per nimici tutti quelli che delli ordini vecchi fanno bene, et ha tiepidi difensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbono bene”. Sono i governi, quello di Berlino su tutti, ad aver anteposto le esigenze nazionali su quelle comuni. Ma scegliendo quello che nella Teoria dei Giochi si chiama atteggiamento “non cooperativo” hanno danneggiato tutti, inclusi loro stessi.
HABERMAS SI CONCENTRA sull'aspetto istituzionale, censurando la predominanza del Consiglio europeo (coordinamento dei governi) su Parlamento e Commissione. La Spinelli si preoccupa prima di conquistare i cuori e le menti: bisogna cambiare la testa dei politici prima che l'architettura istituzionale. Questa non è l'unica Europa possibile e inevitabile, si possono osare affermazioni ardite, come che l'ordine seguito alla pace di Westfalia del 1648, la nascita dello Stato moderno, non sia l'equilibrio a cui ritornare sempre, ma una lunga parentesi che è giusto chiudere nell'era della globalizzazione.
Barbara Spinelli trova nella cronaca recente molti argomenti per dimostrare che il problema europeo è di ideali e progetti, più che di trattati internazionali. La crisi economica non c'entra con l'ignavia di Bruxelles di fronte ai massacri a Gaza, con l'incredibile timidezza nella gestione della crisi Ucraina e all'esproprio territoriale della Crimea, o alla passività di fronte alla crisi siriana per non parlare dell'incapacità di affrontare la questione delle migrazioni con una prospettiva diversa da quella dello scarico di responsabilità verso il basso (e all'Italia nello specifico).
Dove ritrovare dunque la “sovranità assente”? Come si passa dalle nostre ormai inadeguate democrazie nazionali a una più compiuta ed efficace sovranità europea? La Spinelli sembra auspicare un percorso in cui a ogni cessione di potere si accompagna un aumento di legittimità, senza che si creino quei vuoti democratici che accompagnano tutta la storia dell'integrazione europea. Purtroppo questo è impossibile, la crisi costringe l'Europa a procedere per strappi e forzature, commissariando invece che condividendo l'autorità, ignorando le proteste invece che recependo le loro istanze, moltiplicando vertici a porte chiuse e riducendo spazi di confronto.
O HA RAGIONE la Spinelli, e questa Europa è in una fase terminale da cui non si riprenderà a meno di uno scatto vigoroso che oggi pare remoto. Oppure l'europarlamentare di Tsipras ha esagerato col pessimismo e gli ideali delle origini sono rimasti, per quanto rarefatti e geneticamente mutati, dentro la cultura istituzionale dell’Unione e stanno spingendo il continente, in modo sofferto, sgraziato, sicuramente iniquo, verso quella maggiore integrazione che anche la Spinelli auspica.

LA SOVRANITÀ ASSENTE di Barbara Spinelli Einaudi, 80 pag. 10 ,00 €

La Stampa 6.12.14
Einstein a casa nostra. Il suo archivio è in rete
L’iniziativa di Princeton: già 5 mila i testi disponibili
di Paolo Mastrolilli


Benvenuti nel cervello di Albert Einstein. Per entrare, da ieri, basta un click sul computer, perché la Princeton University, in collaborazione con la Hebrew University di Gerusalemme e con Caltech, hanno cominciato a mettere in rete tutti i documenti del padre della teoria della Relatività. Al momento sono 5 mila testi, che vanno dal 1879 al 1923, ma sono destinati ad aumentare.
Gli studiosi di Einstein probabilmente li conoscono già tutti, ma per i profani sarà assai affascinante entrare nella vita personale di un genio, con il semplice aiuto di Internet. I documenti, infatti, raccontano tanto la sua attività scientifica quanto quella privata e fanno luce sulle sue passioni civili e politiche.
Il 27 marzo del 1901, ad esempio, Albert aveva scritto una lettera molto interessante alla moglie, Mileva Maric: «Ti bacio e ti abbraccio dal profondo del mio cuore, esattamente come vorresti e come meriti. Con amore». Dopo le affettuosità, però, Einstein aveva rivelato di voler cercare in Italia «una posizione come assistente, perché qui è assente uno dei principali ostacoli, cioè l’antisemitismo».
Era l’inizio del secolo, ma Albert aveva già sviluppato una profonda coscienza della sua identità ebraica, che avrebbe poi visto trasformare in tragedia durante la dittatura nazista. Quindi aveva pensato di trasferirsi in Italia, perché la percepiva come una nazione immune all’antisemitismo. Questa coscienza si solidifica nel corso degli anni e i documenti spiegano come Einstein sia diventato un sionista, anche se nella «confessione» del 5 aprile del 1920 chiarisce tutti i suoi dubbi sull’idea di considerare quello ebraico come il popolo eletto. Un percorso che si completerà con l’asilo negli Stati Uniti, dopo la presa del potere da parte dei nazisti in Germania. Lui aborriva la guerra, come aveva scritto nel manifesto agli europei del 1914: «Davvero dovremo perire in un conflitto fratricida?». Poi, però, aveva sollecitato il presidente americano Roosevelt a sviluppare gli studi sulle armi atomiche, per difendersi da quanto stavano facendo i nemici.
Anche la vita personale di Einstein è descritta nel profondo da questi documenti, dalle lettere d’amore per Mileva a quelle in cui descrive all’amico Michele Besso «il grande bene che mi fa la serenità», dopo la separazione dalla moglie e l’inizio della relazione con la cugina Elsa.
E poi, naturalmente, il lavoro scientifico. Le corrispondenze con giganti come Max Planck, gli scambi di vedute con i colleghi, gli scritti che in quel momento sembravano solo tentativi di immaginare qualcosa di grande e invece stavano già facendo la storia della fisica.
Viene un brivido a leggere l’inizio della relazione tenuta il 16 gennaio del 1911 a Zurigo: «Il pilastro basilare su cui posa la teoria definita “teoria della Relatività” è il cosiddetto principio della Relatività...». Un genio al lavoro, nel soggiorno di casa vostra, alla semplice distanza di uno schermo che lo fa tornare in vita.

La Stampa 6.12.14
«Scopriremo com’è nata davvero la Relatività»
di Francesco Rigatelli


«Per la pratica dei matematici e dei fisici la digitalizzazione dell’archivio di Einstein non cambierà niente, ma per gli storici della scienza sì», spiega Claudio Bartocci, professore di fisica matematica all’Università di Genova.
La teoria della Relatività, dunque, non cambierà? Non scopriremo nulla di nuovo?
«Resterà così com’è. Non mi aspetto scoperte sorprendenti, ma non bisogna dimenticare che la teoria della Relatività generale fa parte della cultura del Novecento. L’anno prossimo ne ricorrerà il centenario e io credo ci siano dei tasselli da mettere a posto per quello che ne riguarda la genesi».
Che cosa intende in particolare?
«Dalle prime intuizioni del 1912 alla formulazione del 1915 c’è un periodo di intenso lavoro culturale da parte di Einstein con l’aiuto di Marcel Grossmann. Andrei a vedere le lettere tra i due, già pubblicate, ma online sono molto più fruibili. Così come riguarderei la corrispondenza con il matematico italiano Tullio Levi-Civita, all’epoca di fama internazionale, con il quale Einstein discuteva di uno strumento matematico indispensabile per la teoria della Relatività generale».
Che cos’altro cercherà?
«Delle tracce di influenze di Poincaré su Einstein, perché questo è un nodo fondamentale, cioè se la Relatività sia stata scoperta da entrambi e quale sia esattamente il debito del secondo verso il primo».
E le lettere private, invece, che cosa possono far emergere?
«Il ruolo della prima moglie, che pare abbia avuto una parte attiva nella formulazione della Relatività speciale. E se quello che si dice sui rapporti padre-figlio sia vero, cioè se Einstein abbia trascurato o meno il papà».
twitter @rigatells
«Per la pratica dei matematici e dei fisici la digitalizzazione dell’archivio di Einstein non cambierà niente, ma per gli storici della scienza sì», spiega Claudio Bartocci, professore di fisica matematica all’Università di Genova.
La teoria della Relatività, dunque, non cambierà? Non scopriremo nulla di nuovo?
«Resterà così com’è. Non mi aspetto scoperte sorprendenti, ma non bisogna dimenticare che la teoria della Relatività generale fa parte della cultura del Novecento. L’anno prossimo ne ricorrerà il centenario e io credo ci siano dei tasselli da mettere a posto per quello che ne riguarda la genesi».
Che cosa intende in particolare?
«Dalle prime intuizioni del 1912 alla formulazione del 1915 c’è un periodo di intenso lavoro culturale da parte di Einstein con l’aiuto di Marcel Grossmann. Andrei a vedere le lettere tra i due, già pubblicate, ma online sono molto più fruibili. Così come riguarderei la corrispondenza con il matematico italiano Tullio Levi-Civita, all’epoca di fama internazionale, con il quale Einstein discuteva di uno strumento matematico indispensabile per la teoria della Relatività generale».
Che cos’altro cercherà?
«Delle tracce di influenze di Poincaré su Einstein, perché questo è un nodo fondamentale, cioè se la Relatività sia stata scoperta da entrambi e quale sia esattamente il debito del secondo verso il primo».
E le lettere private, invece, che cosa possono far emergere?
«Il ruolo della prima moglie, che pare abbia avuto una parte attiva nella formulazione della Relatività speciale. E se quello che si dice sui rapporti padre-figlio sia vero, cioè se Einstein abbia trascurato o meno il papà».

La Stampa 6.12.14
I cervelloni rinascono col digitale
di Gianluca Nicoletti


Un testo digitalizzato non solo è condivisibile, ma apre nuove possibilità all’ interpretazione. Persino i campi dell’intelletto più apparentemente incontaminabili dalla tecnologia possono rivelare chiavi di lettura inimmaginabili, se tecnologicamente trattati. Fu lungimirante il gesuita padre Roberto Busa, quando nel 1949 pensò bene di convincere Thomas Watson Senior, allora capo assoluto dell’Ibm, a finanziargli un laboratorio a Gallarate per passare al computer tutte le opere di San Tommaso. L’uomo di fede aveva capito che da quelle primordiali schede perforate avrebbe potuto trovare nuove vie aperte alle interpretazioni dell’assoluto. L’Index Thomisticus costò 30 anni di lavoro, ma fu la dimostrazione che nulla come l’ipertesto può aiutare l’umano a orientarsi nella ricerca nella metafisica.
Non a caso anche l’Archivio Segreto Vaticano è da tempo in corso di digitalizzazione, dai testi più antichi conservati nella Sala Indici «Leone XIII». Essere digitalizzato corrisponde alla più attuale delle umane approssimazioni al concetto d’immortalità. Di sicuro il concetto vale per ogni individuo: chi è già digitale, nella condizione di embrione durante la prima ecografia, e chi, come Einstein, affidava a carta e penna le sue riflessioni.
Anche all’Università di Cambridge alcuni ricercatori sono impegnati da anni nel «Darwin Correspondence Project», grazie al quale sono già consultabili i testi di oltre 7500 lettere di Charles Darwin: il vero fascino dell’archivio che si sta preparando per l’umanità futura è proprio in pensieri ancora espressi in modalità autografa, segnati quindi da ulteriori livelli d’interpretazione, oltre quello più immediato della lettura del testo.
Questo, da un certo punto in poi, non avverrà più. I futuri Einstein, se ne verranno altri, produrranno pensiero già digitalizzato all’origine. Ci mancheranno i segni rivelatori delle umane titubanze, dei ripensamenti, dell’emotività. Sicuramente sapremo farne a meno e forse non sentiremo più nemmeno un rimpianto.
Un testo digitalizzato non solo è condivisibile, ma apre nuove possibilità all’ interpretazione. Persino i campi dell’intelletto più apparentemente incontaminabili dalla tecnologia possono rivelare chiavi di lettura inimmaginabili, se tecnologicamente trattati. Fu lungimirante il gesuita padre Roberto Busa, quando nel 1949 pensò bene di convincere Thomas Watson Senior, allora capo assoluto dell’Ibm, a finanziargli un laboratorio a Gallarate per passare al computer tutte le opere di San Tommaso. L’uomo di fede aveva capito che da quelle primordiali schede perforate avrebbe potuto trovare nuove vie aperte alle interpretazioni dell’assoluto. L’Index Thomisticus costò 30 anni di lavoro, ma fu la dimostrazione che nulla come l’ipertesto può aiutare l’umano a orientarsi nella ricerca nella metafisica.
Non a caso anche l’Archivio Segreto Vaticano è da tempo in corso di digitalizzazione, dai testi più antichi conservati nella Sala Indici «Leone XIII». Essere digitalizzato corrisponde alla più attuale delle umane approssimazioni al concetto d’immortalità. Di sicuro il concetto vale per ogni individuo: chi è già digitale, nella condizione di embrione durante la prima ecografia, e chi, come Einstein, affidava a carta e penna le sue riflessioni.
Anche all’Università di Cambridge alcuni ricercatori sono impegnati da anni nel «Darwin Correspondence Project», grazie al quale sono già consultabili i testi di oltre 7500 lettere di Charles Darwin: il vero fascino dell’archivio che si sta preparando per l’umanità futura è proprio in pensieri ancora espressi in modalità autografa, segnati quindi da ulteriori livelli d’interpretazione, oltre quello più immediato della lettura del testo.
Questo, da un certo punto in poi, non avverrà più. I futuri Einstein, se ne verranno altri, produrranno pensiero già digitalizzato all’origine. Ci mancheranno i segni rivelatori delle umane titubanze, dei ripensamenti, dell’emotività. Sicuramente sapremo farne a meno e forse non sentiremo più nemmeno un rimpianto.

Corriere 6.12.14
Come ridare anima ai palazzi-monstre
Il Corviale e le altre mega strutture delle periferie: cambiarle senza demonizzarle
di Luca Molinari


Da qualsiasi direzione si guardi il Corviale, la grande astronave in cemento armato planata alle porte di Roma alla fine degli anni Sessanta per ospitare almeno ottomila persone, offre una sensazione di straniamento che raramente un’architettura riesce a dare.
Da quando è stata costruita e solo parzialmente abitata, quest’opera ha avuto il potere di calamitare una serie di «leggende metropolitane» e luoghi comuni che esprimono molto bene l’impatto simbolico che opere di questa dimensione hanno avuto sulla comunità dei suoi abitanti. C’è chi diceva che il Corviale aveva fermato con la propria sagoma il delicato vento Ponentino, mentre altri affermavano che in quel labirinto ci si sarebbe potuti perdere senza salvezza.
Ma la storia è purtroppo molto più semplice e triste perché l’edificio venne abitato solo parzialmente e, soprattutto, gli spazi immaginati per ospitare tutte le funzioni pubbliche e collettive vennero subito abbandonati all’occupazione più selvaggia generando in poco tempo un degrado diffuso che non lasciava alcuna speranza .
Non si tratta di un caso unico ed estremo, perché la storia del Corviale è uguale a quella di altre «mega strutture» sognate dagli architetti durante gli anni Sessanta per cercare di risolvere il problema drammatico delle nuove periferie urbane. Di fronte alla pressione migratoria fortissima e alla necessità di rispondere a una domanda crescente di alloggi l’architettura moderna più evoluta cercò di dare forma a vere e proprie strutture urbane di nuova generazione capaci di raccogliere in un unico, enorme organismo le diverse funzioni che prima si cercava di tenere separate come l’abitare, i servizi educativi e sanitari di base, alcuni spazi pubblici e le strutture commerciali primarie. Queste nuove, imponenti strutture nate in molte delle periferie delle nostre città tra Europa, Stati Uniti e Giappone abbinavano i sistemi costruttivi rapidi prefabbricati a un uso dei linguaggi moderni più severi e avanzati illudendosi che i suoi abitanti si sarebbero presto ambientati in un diverso frammento di città del futuro.Quello che invece nessuno di questi progettisti poteva immaginare è che, invece, queste visioni di un domani radioso sarebbero diventate rapidamente pezzi di città dormitorio e simboli di un’alienazione sociale devastante.
Ma da almeno un decennio è in corso un processo interessante che, abbandonata la demonizzazione di questi luoghi, li considera come frammenti di vita di comunità di abitanti da aiutare a migliorare la qualità degli edifici e la possibilità di trasformarli. E così si sono avviate demolizioni parziali, nuove costruzioni che s’integrano con l’esistente, definizioni di strategie partecipate per usare i luoghi in maniera differente, cambi di destinazioni d’uso che stanno mutando l’identità di questi luoghi sparsi in tutto il mondo (all’estero da ricordare gli esperimenti di Amsterdam Nord e di Bijenkorf a Rotterdam), al punto che non sarà difficile, tra qualche anno, entrare al Corviale e trovare un chilometro verde capace di trasformarlo in un luogo pieno di vita.

il Fatto 6.12.14
Paolo Conte, il concerto
Un grande Snob incanta sempre
di M. P.


Senza una sola parola in più, Paolo Conte frequenta da sempre il silenzio e conosce il linguaggio di chi sa tacere i suoi segreti. Rapiti dai suoi versi, tra metropoli danzanti e giochi d’azzardo, a scommettere su un tormentato galantuomo del gennaio 1937, al Sistina l’altra sera erano in tanti.
Il tempo se n’è andato in controluce, ma Conte, ha saputo dare un ritmo agli anni suoi come nessuno. Ha navigato altrove rimanendo nella riserva indiana di Asti. Ha conquistato Parigi, Amsterdam e Montreal, descrivendo salgarianamente mondi che non avrebbe visto mai. Ha toccato religiosamente il pane e incontrato le rose spinose dell’autorialità obbligata schermendosi, anzi fuggendo, di fronte alle definizioni impegnative. E della timidezza, infine, ha fatto scudo proteggendosi dalla curiosità con canzoni straordinarie che per colpa di qualche non lungimirante discografico, avremmo potuto persino non ascoltare mai. “Hai un timbro sgraziato” gli dicevano ai tempi in cui l’avvocato Conte, dopo aver tanto scritto per gli altri, decise di incidere il suo primo disco. Era il 1974 e dipingendo madri insensibili e feroci: “Tuo padre è stato un magro affare”, semafori come totem nella nebbia padana e cugine in gita veneziana con il vizio dell’incontinenza verbale: “Quando descrisse anche il bidet / Ci siam sentiti come due pezze da piè”, Conte fece conoscere la sua voce a pochi intimi. Quarant’anni dopo, tramontate le feste dell’Unità e svanito “il consolante odore delle costine di maiale” che lo affascinava, la sua gente ha ancora fame di stelle, di jazz, di fiumi da scoprire volando ad alta quota sull’immaginazione. Ora che l’approvazione collettiva è un delirio a cui Conte risponde invariabilmente annuendo e inchinandosi il giusto, anche la presentazione di Snob, il suo ultimo, magnifico disco, è nient’altro che un pretesto per saccheggiare un repertorio infinito.
COSÌ, AL SISTINA, in luogo degli ultimi pezzi, tra le poltrone rosse e i sipari, scorrono memorie ondulate, sguardi lunghi, sogni fortissimi e universi da riscaldare con lo spettacolo d’arte varia dell’amore. Chi lo ricorda àncorato al pianoforte, contornato dalla virtuosa band che lo accompagna da sempre (tra gli altri Jino Touche, Daniele Di Gregorio, Luca Velotti), si sorprende nel vederlo spesso in piedi, a mimare un volo con le braccia, a battere con le nocche sugli strumenti, a lasciare che il pubblico canti con lui o cadenzi i suoni misteriosi di una poesia che si pretendeva elitaria e che invece, si è rivelata popolare. Amata. Conosciuta da un pubblico senza età. Fasce estese. Categorie ampie, dai venti agli ottanta. Conte si avvicina anagraficamente alla seconda, ma come per magia, sospettando un’afrore di divinità, non se n’è accorto nessuno.