lunedì 8 dicembre 2014

Corriere 8.12.14
Heidegger antisemita: cancella Spinoza
La discussione sui “Quaderni neri” del pensatore tedesco pubblicati in Germania
L’adesione di Heidegger al nazismo è da tempo materia di un animato dibattito, su cui ora gettano nuova luce i suoi Quaderni neri, taccuini filosofici di cui in Germania sono usciti finora tre volumi, che saranno tradotti in Italia da Bompiani
Il contenuto dei Quaderni neri è stato analizzato il 2 novembre sulla «Lettura» del «Corriere» da Donatella Di Cesare, autrice del saggio Heidegger e gli ebrei (Bollati Boringhieri, pp. 352,e17)
di Guido Ceronetti


Trattandosi di un personaggio centrale del XX secolo, come Martin Heidegger, lo scabroso argomento del suo antisemitismo dà sofferenza e nausea; e tuttavia scrutiamolo, invitati dal prologo giovanneo: «La Luce brilla nella Tenebra, ma la Tenebra non può toccarla». Nella «Lettura» di domenica 2 novembre (supplemento culturale del «Corriere») una pagina era dedicata — a firma Donatella Di Cesare — ai Quaderni neri , inediti heideggeriani di prossima pubblicazione anche in Italia, che ne anticipava qualcosa. Sono taccuini dei primi anni di guerra, non destinati alla pubblicazione e probabilmente (il professore era da tempo uscito dal partito) nascosti per scagionarlo in caso di visite della Gestapo.
Una scempiaggine di notevoli proporzioni accuserebbe «l’ebraismo mondiale» di allontanare, o di avere per fine, l’uomo dall’Essere, cosa certamente non facile e alquanto impregnata di dottrina divulgata dal falso zarista dei Protocolli di Sion (la parola mondiale è di pura risonanza nazionalsocialista). Cloache del pensiero, e non Denken ! Ma una prova ben più importante e decisiva dell’antisemitismo filosofico di Heidegger è nella sua totale cancellazione della presenza di un pensatore come Benedetto Spinoza dalla storia della metafisica, che per H. è la filosofia tout court .
Leggo e mi sforzo di capirlo, Heidegger, da circa quarant’anni, riempio di note ogni volume: il suo silenzio su Spinoza, l’ebreo portoghese cacciato e maledetto dalla sinagoga di Amsterdam, il pensatore che ha visto Dio più da vicino, intossicato, drogato, malato dell’Essere anche più, forse, dello stesso Heidegger, sarebbe stato un vitando, un reietto, uno di cui è decenza tacere, per il cattedratico di Friburgo.
Heidegger approda alla sua idea dell’Essere attraverso innumerevoli ruminazioni; Spinoza l’aveva assorbita dalla Scrittura biblica, dove il verbo essere ( haiah ) è la matrice del nome impronunciabile di Dio, il tetragramma reso corrente nella versione Adonai , Signore. Le quattro lettere esprimono, significano, designano l’Essere nella sua infinità immanente-trascendente che non può essere detta che spinoziana. Troppo grande è il nostro debito con quel «povero ebreo» solitario dell’Aia per non rinnegarlo con qualche imbecillità ideologica antisemita.
Attribuire l’oblio dell’essere (della metafisica che lo pensa) a un ente d’immaginazione come «l’ebraismo mondiale» (il concentrato rituale e tradizionale superstite di un popolo disperso ma non spento) è un delitto grave di questa modalità di anti-denken antisemita, perché è incontestabile per chiunque sia avvezzo a pensare che se mai ci fu e ci sarà un «popolo dell’essere» quello è l’ebraico, che ha l’Essere e l’assolutezza dell’essere iscritti in quattro lettere che si ha paura di pronunciare. Negare all’ebreo di essere proprietà dell’essere e depositario del Nome che lo nomina, è negargli, in lingua heideggeriana, l’esserci , il dasein , dunque equivale a escluderlo, a sterminarlo. È la mano genocida in guanti di gomma. Per questo si può parlare di un antisemitismo tragico, quando ne spunta un orecchio di porco nel tentativo di cancellare Spinoza dalle tavole del pensiero.
Come alternativo al Nome non dicibile la Kabbalàh medievale ha creato En-Sof : il Non-c’è-fine , l’Infinito, l’Essere in cui non può darsi l’oblio, se non come motivo di reiterazione filosofica, perché all’incessante generarsi di quel che è causa sui appartiene il recupero illimitato di ogni oblio possibile ( oblivia rerum ), i nostri insignificanti nomi compresi. (Senso delle antiche tombe ebraiche in voluto abbandono, da veri figli del deserto in esilio, in quanto il Signore è la Mano e il Nome di quei dimenticati).
Un supposto antisemitismo tragico (intellettuale, non criminale) sfinito dal suo inseguimento dell’Essere che non cesserà di avere per approdo il Nulla (il drammatico «Che cos’è Metafisica?» in quel limite cozza) può essere tentato di vendicarsi escludendo dal pensiero e dallo stesso Esserci l’unico «popolo dell’Essere» di questo mondo: l’ebreo biblico — portatore e gelosa vittima sacrificale del Dio en-sof — a costo di tradire (di velare ) la Verità come «svelatezza».

Repubblica 8.12.14
Le indagini sugli immobili Ior
Tutti svenduti tranne uno: è la sede diplomatica russa
di M.Antonietta Calabrò


È stata la presenza dell’ambasciata della Federazione russa presso la Santa Sede a «salvare» l’ultimo immobile attualmente di proprietà dell’Ior. Solo grazie a Putin, potremmo dire, la Banca vaticana ha ancora qualche bene al sole.
Dopo la grande svendita decisa dall’ex presidente Angelo Caloia e dall’ex direttore generale Lelio Scaletti, nei cui confronti il Promotore di giustizia vaticano ha iniziato un’azione penale per peculato sequestrando sui loro conti e su quello dell’avvocato Gabriele Liuzzo ben 16,8 milioni di euro. Secondo l’accusa i tre avrebbero in tutto lucrato circa 60 milioni di euro dalle vendite di 29 stabili, alienati con operazioni concentrate tra il 2005 e il 2006, a cavallo della fine del Papato di Wojtyla.
Caloia e Scaletti non misero invece sul mercato il grande edificio all’inizio di via della Conciliazione (comprende i numeri civici dal 6 al 14 e ha ospitato anche una filiale dell’Unicredit presso cui lo Ior aveva a suo tempo un proprio conto), proprio per la presenza della rappresentanza diplomatica russa. Tutto l’altro patrimonio immobiliare è stato trasferito a prezzi stracciati a società offshore domiciliate alle Bahamas e gestite, secondo il Report della società Promontory, dagli stessi indagati.
Gli edifici sono per la maggior parte a Roma, ma anche a Milano, in zone di grande pregio. Come i due grandi palazzi alle spalle del lussuoso quartiere Coppedè nella Capitale, per un totale di 80 appartamenti, più negozi, box e seminterrati. Per ciascun edificio lo Ior ha incassato circa 50 milioni. La società acquirente ha messo in vendita i singoli appartamenti, con diritto di prelazione per gli inquilini, per una cifra tra gli 1,2 e gli 1,5 milioni ciascuno, e un ricavo di oltre 100 milioni, cioè più del doppio del prezzo di acquisto.
L’operazione fu valutata come gravemente anomala già nel 2009 dal Consiglio dei 15 cardinali incaricati dei problemi economici, presieduto dall’allora segretario di Stato Tarcisio Bertone. E portò all’uscita anzitempo dallo Ior di Caloia. L’età pensionabile dei dirigenti fu abbassata a 70 anni, per mandare a casa Scaletti. Oggi, però, i tempi sono cambiati ed è scattata l’azione giudiziaria.

Repubblica 8.12.14
Il primato dell’etica pubblica
di Stefano Rodotà


DI FRONTE alla realtà del comune di Roma posseduto da una organizzazione criminale si può essere scandalizzati e indignati, ma non sorpresi. Questa non è una novità imprevedibile, ma la manifestazione ulteriore (estrema?) di una patologia che dovevamo aver imparato a conoscere, che s’era diffusa da tempo nel sistema politico e nel tessuto sociale. Che cosa ci racconta da anni Roberto Saviano, che cosa ci hanno mostrato le inchieste inascoltate, i casi di politici condannati per i loro legami con gruppi criminali o salvati da generosi e inquietanti rifiuti di autorizzazioni a procedere? Sapevamo di vivere in una perversa normalità, dalla quale si è troppe volte distolto lo sguardo o con la quale ci si è abituati a convivere, anche perché sono venuti inviti perentori a non farsi possedere da reazioni moralistiche. Ora, per l’ennesima volta, la vicenda romana induce molti ad affermare che questa dev’essere l’ultima volta. Sarà vero, si può essere fiduciosi?
La verità è che, malgrado le molte parole, in cima all’agenda politica non vi è mai stata la questione della legalità, intesa nel suo significato più ampio, come obbligo delle istituzioni pubbliche di spezzare i tanti “mostruosi connubi” che via via si manifestavano davanti ai nostri occhi, in una inarrestabile deriva: tra politica e amministrazione e poi tra politica e criminalità, cementati da una corruzione divenuta capillare, regola non scritta sull’uso delle risorse pubbliche, di cui troppi ritenevano ormai di potersi impunemente appropriare. Tra le istituzioni solo la magistratura ha preso sul serio l’adempimento di quell’obbligo, e l’inchiesta sul Comune di Roma lo conferma una volta di più. Anche qui non siamo di fronte ad una novità inattesa, se appena si va alle cronache più recenti, al Mose di Venezia e all’Expo di Milano. Ma questa memoria è accompagnata dal ricordo della insofferenza di troppa parte di un ceto politico che ha giudicato illegittima interferenza molti, sacrosanti interventi dei giudici a tutela della legalità. È giusto individuare le competenze proprie della politica e quelle della magistratura. E la strada è segnata dall’articolo 54 della Costituzione, al quale sarebbe il caso di dare un’occhiata proprio in questo momento. All’inizio di questo articolo si stabilisce l’obbligo dei cittadini di rispettare la Costituzione e le leggi. Subito dopo si aggiunge che «i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore». L’indicazione non potrebbe essere più chiara. Chi svolge funzioni pubbliche, dunque i politici in primo luogo, non possono limitarsi al rispetto formale della legalità. Ad essi è richiesto qualcosa di più — il rispetto dell’etica pubblica. Un principio che in questi anni è stato sostanzialmente cancellato. Di fronte a comportamenti anche gravemente censurabili si è rifiutato ogni intervento dicendo “non vi è reato”. E, quando si era di fronte ad indagini, rinvii a giudizio, addirittura a condanne in primo grado, si è rifiutato di prendere atto che si era in presenza di violazioni della legge penale e si è rinviata qualsiasi sanzione politica al momento, lontano anni, della sentenza definitiva passata in giudicato. Così la politica ha azzerato la propria responsabilità, usando anche le lentezze della magistratura per legittimare questo suo abbandono. I risultati sono davanti ai nostri occhi.
Matteo Renzi, segretario del Pd, ha fatto una mossa apprezzabile azzerando la situazione romana senza trincerarsi dietro l’attesa di future decisioni giudiziarie e correndo anche il rischio di veder attribuito al suo partito responsabilità generali che non gli spettano Ora, però, non può fermarsi qui, considerando la vicenda romana come una eccezione, mentre sono note altre compromissioni locali, e non solo. E non può avallare i rifiuti compiacenti di autorizzazioni a procedere, com’è ancora avvenuto al Senato proprio in questi giorni.
Matteo Renzi, presidente del Consiglio, non può continuare a rimanere impigliato in una rete che impedisce il rispetto e la ricostruzione della stessa legalità formale. Assistiamo ad una continua guerriglia parlamentare contro la magistratura, con il pretesto di voler accrescere le garanzie delle persone e con l’obiettivo di limitarne l’autonomia, con strumenti che rivelano soltanto l’abissale assenza di una vera cultura della giurisdizione. Ai provvedimenti contro la corruzione non si dà la priorità aggressiva riconosciuta ad altre leggi con voti di fiducia e vincolanti “cronoprogrammi”. Situazione ormai intollerabile e pericolosa, poiché la realtà conclamata dai casi di Venezia, Milano e Roma, per tacer d’altro, testimonia di una drammatica distruzione della moralità pubblica e di pesanti danni alla stessa economia.
Lo “schifo” manifestato da Renzi imporrebbe che questi temi siano seriamente collocati in cima all’agenda politica. Parlando di responsabilità dei politici, non possiamo riferirci soltanto a chi ha commesso reati o ha violato il principio della “disciplina ed onore” nell’esercizio delle sue funzioni. Oggi la vera responsabilità politica riguarda persone e partiti che sono di fronte all’obbligo di sciogliere i nodi che, negli anni, sono divenuti sempre più stringenti e che nascono dall’obbedienza alla logica della clientela e dell’affarismo, dalla permeabilità di strutture chiuse e oligarchiche rispetto alle organizzazioni criminali. Da anni sappiamo che vi sono poteri criminali che governano territori estesi quanto regioni e che, come dimostra l’ultima inchiesta milanese di Ilda Bocassini, si impadroniscono di aree sempre più larghe. Ma non sono soltanto i territori fisici ad essere occupati. Proprio il caso romano è la conferma eclatante dell’occupazione del territorio istituzionale. Stiamo davvero correndo il rischio che la presenza pubblica e la legalità vengano ricacciate in territori sempre più ristretti. Non trascuriamo il fatto che le nuove regole sul lavoro, dov’è evidente una cessione di sovranità a favore dell’impresa, non siano state accompagnate da alcuna attenzione concreta per le nuove schiavitù di chi raccoglie arance o pomodori. Capisco che la volontà di promuovere un ottimismo forzato portino il presidente del Consiglio a frequentare solo quelle che gli appaiono, e sono, allettanti vetrine. Ma ogni tanto si conceda una deviazione e, magari con il ministro del Lavoro, vada con seguito di telecamere e alluvione di tweet a Castel Volturno o a Rosarno, e manifesti schifo per gli abusi sessuali di cui sono vittime le lavoratrici rumene a Ragusa.
Anche questa è legalità, anche questa è lotta alla corruzione, anche queste sono mosse indispensabili per ricostruire una moralità civile che ha bisogno di tornare a fondarsi su dignità e solidarietà. È un’amara consolazione il poter constatare che le vicende che oggi indignano appartengono a un già detto, ad analisi di cause note accompagnate da indicazioni dei possibili rimedi. A tutto questo non si è dato ascolto, dicendo che bisogna rifuggire dal moralismo e che la politica è un’altra cosa. Davvero un’altra cosa — quella che oggi viene drammaticamente rivelata.

il Fatto 8.12.14
Se un politico invece di blandirci ci parlasse onestamente
“Cari italiani, diciamo la verità: è colpa nostra”
di Ferruccio Sansa


“Cari italiani la colpa è anche nostra”. Immaginate un politico che esordisse così. Immaginate un Presidente della Repubblica che ce lo dicesse in faccia nel discorso di Capodanno, mentre guardiamo distratti intrippandoci con lo zampone. E poi: “Basta dare la colpa all’arbitro, agli avversari fallosi e al pallone sgonfio come fanno le squadre piagnucolose. Basta prendersela con l’euro, la Germania, gli immigrati, le mezze stagioni che non ci sono più. Abitiamo forse nel Paese più bello del mondo. Abbiamo un qualità della vita ancora ineguagliabile, che non nasce solo dalla bellezza, dal clima, dal cibo frutto della nostra terra, ma anche da noi; da quella cordialità, quel calore, che rivelano un senso della vita profondo. E invece ecco come ci siamo ridotti. Pensiamo alla Sicilia dove lo Stato e la Regione sono diventati solo vacche da mungere e non ci si accorge che derubiamo noi stessi. Che ci mettiamo un soldo in una tasca e ne perdiamo uno dall’altra. Prendiamo sussidi perfino per le vendemmie che non facciamo e così le scuole vanno a pezzi. Pensiamo a Roma, che a camminare tra i palazzi è una gioia per gli occhi, che fa una pippa alle capitali del resto del mondo. E dove invece si vive così faticosamente, intrappolati nel traffico, dove ci sono voluti più di vent’anni per fare mezza metropolitana quando a Londra ne facevano 400 chilometri. Pensiamo al Veneto, alla sua campagna dove Tiziano e Tintoretto venivano per cercare i colori, e dove in pochi anni abbiamo costruito una muraglia cinese di capannoni rimasti vuoti che messi in fila sarebbero lunghi 1.800 chilometri. Pensiamo alla Liguria dove un mese fa c’è stata l’alluvione e oggi gli unici cantieri che lavorano sono quelli per aggiungere nuovo cemento. Altri centri commerciali a due passi dai fiumi, altri condomini in una regione che ha il record di case vuote. Pensiamo alla Lombardia che aveva la sanità migliore del mondo e oggi l’ha offerta ai privati e lottizzata . Pensiamo a Milano che sapeva unire spirito di impresa e solidarietà, borghesia e socialismo (non quello di Craxi, però) e che oggi si lascia passivamente infiltrare dalla ‘ndrangheta e punta il dito contro gli immigrati. Lo so, mi date del disfattista, pensate che vi abbia fatto l’elenco dei disastri. È il contrario, invece: queste sono tutte occasioni. Per realizzarle non serve il Tav, non abbiamo bisogno dei soldi dell’Europa, di cacciare gli immigrati. Basterebbe cambiare la nostra testa, smettere di corrompere, evadere, rubare a noi stessi”. Chissà come la prenderemmo se un politico non ci dicesse più che siamo solo un popolo di santi, poeti e navigatori: “Cari italiani siamo stati dei pirla” (per usare il dialetto di Salvini, ma vanno bene anche mona, ciula, beline, minchioni), “ma possiamo cambiare. Questa sarà la nostra rivoluzione”.

Corriere 8.12.14
Oltre Tolkien
Lungo i confini invisibili del «mondo di mezzo»
I personaggi emersi dall’inchiesta romana amavano utilizzare teorie mitologiche per coprire ruberie molto terrene
E per ammantare di fascino universi dove tutti si conoscono, tutti chiacchierano volentieri, e gli unici segreti sono quelli che tutti sannodi
di Emanuele Trevi

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Corriere 8.12.14
La sinistra non può autoassolversi
di Pierluigi Battista


La reazione della sinistra di fronte allo scandalo emerso a Roma, al di là dello sconcerto, si affida alla teoria delle singole mele marce. Ma se le responsabilità penali sono personali, quelle politiche non possono essere sottaciute o ridimensionate.

Ha fatto bene l’ex sindaco di Roma Walter Veltroni a non nascondersi dietro un legittimo riserbo che però avrebbe potuto essere scambiato per imbarazzata reticenza. E soprattutto a non nascondere o minimizzare, con una lettera a la Repubblica , lo «choc angoscioso» provocato dalla scoperta delle malefatte commesse, secondo l’accusa dei magistrati romani, dal suo ex vice-capo di gabinetto Luca Odevaine. Ma il sincero sconcerto di Veltroni sembra quasi accreditare l’immagine di una doppiezza perversa del suo collaboratore: persona all’apparenza specchiata negli abiti presentabili del dottor Jekyll istituzionale, e tuttavia nel suo lato notturno un torbido mister Hyde avvezzo a continuativi rapporti malavitosi con la delinquenza di stampo mafioso. E non è nemmeno convincente la sequenza suggerita da Veltroni di amministrazioni, quelle di sinistra, illuminate dal rispetto assoluto della «legalità», poi deturpate dalla funesta parentesi di una giunta di destra che della legalità ha fatto strame, inquinando irreparabilmente il volto della capitala d’Italia con frequentazioni oscene della mafia alleata dell’estremismo di destra.
Messa così, però, sa di arringa autoassolutoria. Che certamente non è nelle intenzioni di Veltroni, giustamente disgustato dall’«orrore» dello spettacolo che sta deturpando Roma. Ma rischia seriamente di esserlo se non si scindono le responsabilità penali, che sono strettamente personali e sottoposte al vaglio di una giustizia rispettosa dei diritti della difesa, da quelle politiche, che oggi non possono essere sottaciute o ridimensionate. Come purtroppo sta avvenendo con la difesa accanita della giunta Marino.
Sulla destra al governo di Roma non c’è molto da aggiungere, con quel suo pervicace mischiare l’amministrazione cittadina a una guapperia nera greve e adusa al lessico e alle pratiche della delinquenza di strada. Ma la sinistra non può cavarsela con un appello alla legalità e con la teoria autoindulgente delle mele marce. Fosse la disattenzione su singoli casi, si potrebbe ammettere un peccato politico veniale, e addirittura invocare l’impossibilità per un sindaco di controllare ogni minuto movimento dei propri collaboratori. Ma se ha un fondamento la ricostruzione dei magistrati di un fronte delinquenziale di stampo mafioso con ramificazioni stabili in ambedue gli schieramenti politici, allora il nome che deve mettere in imbarazzo le giunte di sinistra, e soprattutto quella attuale gestita dal sindaco Marino, non è solo quello di Odevaine, ma quello di Salvatore Buzzi e della sua cooperativa immersa nei suoi lucrosi affari in combutta con la politica romana («si guadagna più con gli immigrati che con la droga»). Un rapporto pluridecennale con i gangli vitali dell’amministrazione capitolina e che ha allungato i suoi tentacoli prima, durante e dopo la giunta guidata da Alemanno.
Le responsabilità penali sono personali, ma il coinvolgimento di ben due assessori della giunta Marino, del presidente del Consiglio comunale che esprime la maggioranza politica che sostiene il sindaco, di esponenti della segreteria dello stesso primo cittadino, per non parlare dei generosi contributi (in quanto tali non penalmente rilevanti, è bene ricordarlo) per la campagna elettorale del sindaco, di presidenti di municipio, di consiglieri comunali, lasciano trasparire un legame forte, continuo, stabile, remunerativo, economicamente cospicuo tra una cooperativa accusata di usare metodi mutuati dalla mafia (secondo l’accusa) e una sinistra permeabile in una misura imbarazzante alle infiltrazioni dell’organizzazione di Buzzi.
Nessuna responsabilità politica che dovrebbe portare all’azzeramento di un consiglio comunale inquinato e oramai privo di credibilità? E allora perché il Pd ha deciso di usare con se stesso metodi drastici fino al commissariamento del partito romano? Le istituzioni sono più importanti dei partiti e se si è sentita l’esigenza di arrivare a conclusioni traumatiche per ripulire il partito, non si capisce perché sul piano istituzionale si possa essere accondiscendenti, politicamente assolutori, insensibili allo sconcerto che, oltre a quello manifestato dallo stesso Veltroni, sta avvilendo l’intera opinione pubblica romana e nazionale. Ecco perché la teoria dei singoli marci non regge. E perché Roma chiede cure dolorose ma necessarie. Se si vuole avere senso della responsabilità politica, distinta dalle responsabilità giudiziarie.

La Stampa 8.12.14
Se il romanesco è la lingua del malaffare
di Enzo Bettiza


Non l’italiano, ma il romanesco sembra essere l’unica lingua (se di lingua e non di gergo si può parlare) in grado di dare voce agli imbrogli e alle truffe.
Alle minacce, ai furti, alla corruzione che connotano l’ultimo scandalo , quello della cupola fascio-mafiosa nell’amministrazione della capitale. Mai come oggi il romanesco dilaga e fa da colonna sonora al malaffare. Non è fiction ma cronaca quotidiana: «I soliti ignoti» e la vecchia saga trash di Er Monnezza impallidiscono di fronte alla realtà delle trascrizioni e delle intercettazioni odierne. E anche nel parlare corrente ormai tutto il Paese sembra essersi «romaneschizzato», avendo adottato termini e gergalità in uso e abuso nella Città Eterna quando c’è di mezzo l’inganno, sia esso di proporzioni tentacolari che di piccolo cabotaggio.
Così parlò la banda della Magliana. L’esempio migliore in cui la gergalità viene sdoganata e promossa a lemma di dizionario è il termine «sòla», ormai diffuso, riconosciuto e legittimato in tutte le regioni italiane, a indicare la «fregatura» in agguato. «Sòla» ma anche «pacco», diventato sinonimo di un costume sempre più comune e accettato. Un certo lessico popolare di Roma capitale è diventato la lingua ufficiale delle mazzette, la cadenza più indicata e, per così dire, più musicale per chiedere a ogni latitudine: «A Fra’, che te serve?».
Il romanesco è oggi quel corredo di termini utilizzati per narrare le vicissitudini di chi vive ai margini della legalità, di chi finisce al «gabbio», cioè in prigione. E’ il linguaggio da cantastorie che illustra le gesta di protagonisti e comprimari di quell’ininterrotto romanzo criminale raccontato dai telegiornali. Ed è un «coatto», parola di origine carceraria, non necessariamente chi delinque, ma chi commette errori anche veniali che lo fanno retrocedere socialmente. I soprannomi dei veri delinquenti acquistano una loro sinistra grandezza se preceduti dal suffisso «Er», che suona quasi come un titolo e invece è semplicemente l’articolo «il» in bocca romana: da Er Cecato, deus ex machina dell’ultimo grande scandalo capitolino, risalendo fino a Er Canaro, protagonista anni or sono di una delle più tetre pagine di cronaca nera italiana.
L’intera nazione sembra subire oggi questa contaminazione lessicale. Né il sarcasmo, né l’ironia, né il senso dell’umorismo che caratterizzano l’animo romano riescono in qualche maniera ad alleviare questa incalzante alterazione idiomatica.

Corriere 8.12.14
Il lato debole dei partiti liquidi
di Sabino Cassese


Le tensioni interne ai partiti (minacce di scissioni, richiami alla disciplina interna, invocazione della libertà di coscienza, richieste di maggiore democrazia) sono solo fatti passeggeri o sono, invece, indicatori di una fase nuova della storia della «forma partito»? E quali effetti producono i cambiamenti in corso sull’assetto dei poteri pubblici?
I nomi dei partiti erano prima scelti per caratterizzarsi e dividere (comunisti, socialisti, democristiani), ora sono sempre meno identificativi (chi si dichiara contrario alla democrazia e alla libertà?). I partiti stanno perdendo la loro base: gli iscritti si sono dimezzati in mezzo secolo, e continuano
a diminuire, mentre la popolazione è aumentata; si allarga, quindi, la forbice tra iscritti e votanti. Anche questi ultimi diminuiscono: segno sia di sfiducia nei partiti, sia del fatto che il sistema politico italiano si è allineato alle altre democrazie mature. La capillare distribuzione dei partiti sul territorio non c’è più e l’organizzazione diviene fluida. La militanza volontaria scompare. Diventa determinante il ruolo del «leader». Il finanziamento mediante il tesseramento viene sostituito dal finanziamento con cene a pagamento e il microfinanziamento dal basso ( crowdfunding ). I partiti che ricorrono a primarie aperte a non iscritti abbattono le mura che dividono iscritti e simpatizzanti.
La «liquefazione» dei partiti li trasforma in aggregazioni elettorali, attive al momento del voto. Lo stesso séguito elettorale si organizza volta per volta, con travasi di voti da un partito all’altro. Questo trasforma la lotta elettorale da guerra di posizione in guerra di movimento, aumenta l’importanza del «mercato politico», consente ai partiti di uscire dai loro fortini e di andare oltre il proprio elettorato tradizionale, ma correndo maggiori rischi. I partiti sono meno rigidi, meno chiusi. Minacciano meno
la democrazia a causa del loro carattere autocratico ed oligarchico, come temeva Maurice Duverger nel 1951. Corrispondono sempre meno al modello costituzionale di una piramide che cresce dal basso (i cittadini si associano in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, secondo l’articolo 49 della Costituzione).
Antonio Gramsci ha scritto, riferendosi a Machiavelli, che i partiti sono il «moderno Principe», in quanto organismi che guidano
i processi politici e in cui si concreta una volontà collettiva. Il «moderno Principe» ha due funzioni, quella di formazione politica della società e quella di scelta della rappresentanza parlamentare.
La destrutturazione in corso dei partiti politici li fa divenire più leggeri, più capaci di conquistare maggiore seguito elettorale, ma ne indebolisce l’azione educativa e la forza selettiva. Dove potrebbe svolgersi la prima, se non esiste più la «scuola» dei partiti, quella distribuita sul territorio, nelle sezioni e nei circoli, nei quali ferveva la vita collettiva del partito - organizzazione? Come possono essere selezionati gli eletti nel Parlamento e nei consigli regionali e comunali, se manca la macchina del reclutamento e della valutazione e si procede per nomina dall’alto?
Questo indebolimento dei partiti come cinghia di trasmissione della domanda politica si riflette sullo Stato e sui poteri locali, dove le esigenze collettive arrivano sfocate e il personale elettivo è impreparato.
Dunque, l’indebolimento della macchina del partito - organizzazione è forse un passo avanti per la democrazia, consente di rompere le fortificazioni erette intorno ad esso e di allargare la base elettorale, avviando la formazione di corpi politici a vocazione maggioritaria, che non debbono far ricorso a coalizioni. Ma produce anche un vuoto di educazione civica e di selezione della classe dirigente, al quale bisogna porre rimedio.

Repubblica 8.12.14
Affitto stracciato per Buzzi, firmato giunta Marino
La delibera siglata a fine ottobre per il quartier generale della cooperativa
di Mauro Favale e Giovanna Vitale

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Repubblica 8.12.14
Il sacco di Roma

Da Batman alle parentopoli: la carica dei 101 indagati che hanno ridotto Roma a capitale della corruzione
In quattro anni un’escalation di affarismo ha sfigurato la politica
Duemila posti distribuiti per clientelismo in Atac e Ama
Tangenti a Eur Spa. Varianti alla Metro C per favorire i costruttori
E anche le camere mortuarie diventano occasione di business
di Sebastiano Messina


SONO centouno, come i dalmata della carica disneyana. Centouno personaggi della Roma che conta, politici in testa ma anche funzionari comunali, rettori, comandanti dei vigili, geometri, magistrati e manager delle municipalizzate che negli ultimi quattro anni sono finiti sotto inchiesta per aver usato il loro potere per far soldi, per far arricchire gli amici o per sistemare figli e nipoti. Centouno storie che ancora prima della deflagrante scoperta di «Mafia Capitale» ci avevano segnalato l’assalto ai forzieri pubblici. Centouno tasselli che aggiunti a quelli degli affari sporchi del clan Carminati completano il mosaico del sacco di Roma.
L’immagine che per prima torna in mente, certo, è quella di «er Batman», quel Franco Fiorito il cui arresto — 2 ottobre 2012 — toglie il coperchio alla Rimborsopoli della Regione Lazio, forse il più spettacolare degli scandali non tanto e non solo per il suo picaresco protagonista ma per le feste in costume a Cinecittà o allo Stadio dei Marmi («C’erano delle gnocche travestite con gonnelline bianche» racconterà Fiorito) dove i consiglieri del Pdl spendevano i soldi dei contribuenti in aragoste e champagne. Crolla tutto, il Consiglio regionale viene sciolto, i toga-party sospesi e Fiorito — accusato di essersi appropriato di 1,4 milioni di euro — viene condannato a tre anni e 4 mesi. Ma la caccia al tesoro non è finita, come dimostra il caso di Marco Di Stefano, l’ex assessore della giunta Marrazzo, oggi deputato Pd, sotto inchiesta per una tangente da 1,8 milioni che secondo la Procura avrebbe ricevuto dai costruttori in cambio di un generosissimo contratto d’affitto per gli uffici dell’assessorato: lui non organizzava feste, ma a quanto pare con i soldi della Regione s’è comprato una laurea in Scienze Giuridiche.
Ben più sconcertante — anche se meno spettacolare — era stato lo scandalo di due anni prima, quello che ci aveva mostrato di cosa erano capaci i politici romani: la parentopoli delle municipalizzate. Due ondate di assun- zioni pilotate all’Ama (raccolta rifiuti) e all’Atac (trasporti urbani) da far sbiancare i vecchi maestri del clientelismo: 1357 posti di operatori ecologici, autisti di compattatori, seppellitori, dirigenti e semplici impiegati all’Ama e altri 854 (per chiamata diretta) nell’azienda di bus e tram, un’occupazione fisica delle municipalizzate da parte della giunta Alemanno, una generosissima lotteria a numero chiuso che distribuiva cariche e stipendi a figli, generi, nipoti, amanti e segretarie della destra romana (compresa una cubista assunta all’Atac per meriti ancora oggi misteriosi).
Ma non bastavano le assunzioni. All’Atac gli uomini nominati da Alemanno si erano messi a stampare anche biglietti falsi, ovvero autentici ma con numeri di serie non registrati e dunque non fatturati, rivenduti ai distributori per accumulare fondi neri a San Marino da distribuire ai politici, agli amici e probabilmente a loro stessi: sono indagati in sei, e ancora non si sa quanto fosse profondo quel pozzo.
Non si sa nemmeno — al momento — a chi sia finita la maxi-mazzetta di 800 mila euro per la quale il 25 marzo 2013 finisce in manette l’ex amministratore delegato di Eur Spa Riccardo Mancini (altro sodale di Alemanno, anche lui arrestato con Carminati e soci). Di certo c’è che la Breda Menarini l’ha pagata per ottenere l’appalto per 45 filobus da impiegare sulla nuova linea di Tor Pagnotta, e che proprio l’amministratore delegato della società, dal carcere, ha chiamato in causa Mancini. Ma l’amico dell’ex sindaco, che all’Eur Spa aveva nominato direttore commerciale il camerata Carlo Pucci (ex di “Terza Posizione”), anche in cella tiene la bocca chiusa.
Hanno fatto invece un salto sulla sedia i 21 manager, funzionari pubblici e rappresentanti dei costruttori che otto settimane fa si sono ritrovati sotto indagine dalla Corte dei Conti per l’appalto della Metro C. Per il danno causato alle casse pubbliche dalle 45 varianti accordate ai costruttori per il primo tratto della linea C, adesso si sono visti chiedere dalla magistratura contabile l’astronomico risarcimento di 364 milioni di euro. Altri due dirigenti di «Roma Metropolitane» sono contemporaneamente indagati per abuso d’ufficio per aver riconosciuto ai costruttori un indennizzo di 230 milioni di euro sul quale i magistrati vogliono hanno, a quanto pare, molti sospetti.
Ma non ci sono solo politici e manager, nel racconto del sacco di Roma. Anche i vigili urbani hanno voluto dare il loro contributo. L’ex comandante Angelo Giuliani è stato arrestato per corruzione, accusato di aver fatto assegnare l’appalto per la pulizia delle strade dopo gli incidenti a una società amica, la «Sicurezza e ambiente», in cambio di 30 mila euro versati come sponsorizzazioni per il circolo della polizia municipale. Altri due vigili sono stati arrestati per aver cancellato migliaia di multe, ovviamente senza averne il potere. E altri tre sono finiti in manette perché avevano tentato di estorcere 60 mila euro ai commercianti del centro, tempestandoli di multe.
Ormai nella Capitale tutto si può comprare e tutto si può vendere. Comprese le sentenze. Può confermarlo il giudice del Tar Franco Angelo Maria De Bernardi che l’anno scorso è stato arrestato insieme ad altri sei con l’accusa di aver venduto le sue sentenze ai «clienti» che potevano permetterselo, una lista nella quale figuravano anche due ammiragli della Marina Militare.
Non si salva neanche l’università, teatro dieci anni fa della compravendita degli esami: in tempi di crisi, anche i professori pensano ai figli. E al rettore Luigi Frati, che è appena andato in pensione, non bastava aver dato una cattedra alla moglie e alla figlia. Adesso è sotto processo per abuso d’ufficio, accusato di essersi inventato una «Unità programmatica di cardiochirurgia» solo per farne diventare direttore il figlio prediletto, Giacomo.
A Roma non ci si ferma davanti a niente. Neanche davanti alla morte, che per qualcuno è diventata un lucrosissimo business: ne sanno probabilmente qualcosa quei 29 politici, dirigenti delle Asl e naturalmente impresari di pompe funebri sui quali la Procura sta indagando per associazione a delinquere di stampo mafioso e voto di scambio politicomafioso dopo aver visto quello che succede negli ospedali romani. Tra ai 29 sotto inchiesta ci sono l’ex senatore di An Domenico Gramazio e suo figlio Luca, fino a tre giorni fa capogruppo di Forza Italia alla Pisana. Era lui che annunciava euforico, nella villa di Carminati: «Stanno ad arrivà i sordi, alla Regione!». Ora si è dimesso: per lui non ci sarà un altro giro.

Repubblica 8.12.14
Raffaele Cantone:
“In Italia un clima da ’93 la gente mi chiede di mandarli tutti in carcere, la politica faccia pulizia”
Parla il presidente dell’Anticorruzione: “Sembra di essere tornati a Mani Pulite, i cittadini sono indignati, ma non possiamo farci prendere dall’emotività”
intervista di Liana Milella


La corruzione non è un male che si vince urlando due giorni, c’è bisogno di cambiamenti radicali
Potevamo fare di più da aprile? Ho fatto tutto quello che umanamente era possibile fare contro il malaffare

ROMA  Cantone? Poltrona scomoda la sua in queste ore... «Non me ne parli... La gente mi ferma per strada e mi dice “arrestateli tutti... “». E lei si meraviglia? «La cosa mi preoccupa molto perché mi ricorda la voglia di forca e le monetine del ‘93». Il presidente dell’Anac Raffaele Cantone rivela le sue preoccupazioni.
Ci racconta della gente che la ferma, dov’è successo?
«Dovunque, a Roma, a Napoli, e in tutti i luoghi in cui mi sono recato in questi giorni».
E lei come si sente da uomo delle istituzioni, che risponde?
«Sono preoccupato della generalizzazione nel considerare tutta la politica corrotta. Ho provato a spiegare che noi dell’Anac non arrestiamo nessuno e che il nostro compito è molto meno evidente nei risultati, ma ha un obiettivo più ambizioso, provare a prevenire la corruzione » .
La gente vuole risultati immediati?
«La gente, in questa fase, fatica a ragionare. In un Paese in crisi, vedere chi ruba indigna ancora di più e quindi è difficile far ragionare la pancia delle persone. Ma il nostro compito è ragionare e non farci prendere dall’emotività ».
Come dar torto a chi è indignato contro chi ruba, quando, come dimostra il caso di Roma, ci sono politici del Pd a libro paga di un fascista?
«Vorrei che l’indignazione di un giorno delle persone e della politica fosse sostituita da un impegno duraturo. La corruzione non è un male che si vince urlando due giorni, c’è bisogno di cambiamenti radicali da parte della politica e dei cittadini».
La politica deve cambiare. Si dice a ogni inchiesta. Anziché fare il commissario anti-corruzione, non sarebbe meglio che lei fosse il commissario che seleziona gli uomini politici?
«Malgrado la difficoltà del periodo, io vedo segnali positivi...».
Eh lo so, mi sta per parlare bene di Renzi...
«Sto per citare fatti, e non persone. Ricordo la nomina all’unanimità del presidente dell’Anac, l’approvazione di una legge che ci ha consentito di commissariare gli appalti dell’Expo e il consorzio Mose. Si può dire che non basta, ma certamente è un segnale positivo. E poi non me la sentirei mai di fare il selezionatore della politica».
Forse perché sa già che sarebbe una
sconfitta?
«Io, al massimo, posso essere bravo ad applicare le norme, ma non certo a selezionare gli uomini politici. E poi la selezione lasciata a una persona rischia di essere un pericolo. Qui c’è bisogno di un gruppo di persone per bene in grado di allontanare le mele marce».
In questo clima non è grottesco che nell’Italicum si parli di capilista bloccati e non scelti dalla gente?
«Ma l’indagine di Roma non ha dimostrato che i soldi servivano per comprare voti in qualche caso destinati perfino alle primarie? Non è la prova che forse le preferenze rischiano di peggiorare la situazione? ».
La tabella dei pagamenti di Carminati ai politici rivela che il problema della corruzione è lì, in chi si fa pagare...
«L’indagine va molto oltre la politica, coinvolge pezzi significativi del ceto amministrativo, dei portaborse dei politici, degli amministratori delle società miste e mette in rilievo negativo perfino uno dei vanti della nostra società, il mondo cooperativo».
Lei è al vertice dell’Anac dal 28 aprile.
Ma Roma è scoppiata lo stesso. Poteva fare di più?
«Ho fatto tutto quello che umanamente era possibile fare. In questi mesi, io e gli altri 4 quattro colleghi al vertice dell’Anac, siamo entrati in santuari intoccabili, di Expo e del Mose già si sa, ma abbiamo imposto regole rigide di trasparenza alle società pubbliche, agli ordini professionali, abbiamo attivato la vigilanza su un enorme numero di appalti, abbiamo stipulato convenzioni con tutti gli organi per la formazione dei pubblici dipendenti, con Confindustria abbiamo lavorato al loro codice etico...».
Ma lei fino a oggi ha fatto arrestare qualcuno?
«Io non sono più un pm... Certamente il nostro lavoro potrà servire per inchieste future. Ma non è solo con gli arresti che si vince la corruzione. La politica deve recuperare fino in fondo il valore etico della sua funzione”.

Corriere 8.12.14
Bettini replica: «Due o tre incontri con la cooperativa di Buzzi»

ROMA «Leggo su alcuni giornali intercettazioni di Buzzi che mi riguardano.
Sfido chiunque ad affermare l’esistenza di un mio qualsiasi intervento o pressione
anche su un solo amministratore pubblico
per favorire la “29 Giugno”. Chi lo farà verrà querelato».
La reazione di Goffredo Bettini è durissima, dopo la pubblicazione, ieri, dell’intercettazione di una telefonata in cui Salvatore Buzzi — socio di Massimo Carminati — si vanta di poter trovare, tra i referenti utili agli affari del gruppo, proprio l’europarlamentare del Pd. È il 17 marzo scorso e Buzzi valuta al telefono con Luca Odevaine — anche lui ora è in carcere — la possibilità di ottenere appalti all’interno del Centro per i rifugiati di Mineo, in Sicilia.
Odevaine accenna poi a «quell’altra questione, quella della Regione Lazio». Buzzi interviene: «Ma lì servono, non è alla nostra portata, capito qual è il problema! A noi ce manda Goffredo con una precisa indicazione...». La chiosa a questo punto è dei carabinieri del Ros: «Si tratta di Goffredo Bettini». E allegano l’intera biografia dell’uomo politico. Bettini è furibondo: «Negli ultimi anni, come la generalità degli esponenti del Pd
e non solo, ho incontrato, credo due o tre volte, i dirigenti e i lavoratori della cooperativa. Nessuno, estraneo alla cupola del malaffare, poteva sospettare che la 29 Giugno, dietro il suo impegno sociale e la sua storia di sinistra, nascondesse un’attività criminosa. Tantomeno io, lontano da dieci anni dalla realtà gestionale e amministrativa di Roma. Purtroppo, in un clima intossicato che denuncio da anni, qualsiasi colloquio è esposto al millantato credito e a una utilizzazione perversa. L’ho già detto: qui si rischia l’impraticabilità di campo per la politica».

Repubblica 8.12.14
Goffredo Bettini
“Mai fatto pressioni per favorire Buzzi ma nel Pd un degrado impressionante”
intervista di Paolo Boccacci


ROMA Onorevole Bettini, discutendo di come aggiudicarsi l’appalto di un centro per immigrati Salvatore Buzzi dice “a noi ci manda Goffredo”. E quel “Goffredo” sarebbe lei.
«Si esaltano notizie di carte che non hanno per la Procura rilievo nell’indagine. È il modo per salvare i corrotti e sporcare chi ha fatto della correttezza una ragione di vita. Querelo chi dovesse affermare che ho compiuto pressioni o ingerenze per favorire la cooperativa 29 Giugno. Non so neanche cosa sia quell’appalto».
Ma lei Buzzi lo conosceva o no?
«Questo è il dramma, il paradosso: la 29 Giugno è stata fin dalla nascita un simbolo della sinistra. Tutti avevano rapporti con loro. Come si poteva immaginare quello che c’era dietro? È ridicolo dire: mai conosciuti! Il suo era un mondo con riferimenti lontani da me, come si evince da alcune intercettazioni. Ma io non ho mai pensato, e ancora oggi sono allibito, che lì dentro ci fosse corruzione. Ho già segnalato il rischio che si arrivi alla impraticabilità di campo per ogni tipo di impegno pubblico, perché si arriva perfino a maledire un incontro, una chiacchierata, un consiglio. Non si sa più con chi si parla. Ma allora muore la democrazia, la politica».
Bettini, lei è stato il dominus del Pd romano per vent’anni.
Recentemente ha parlato di un partito balcanizzato. Chi sono i “capibastone” a Roma?
«Ho parlato in termini politici ».
E in termini politici chi sono?
«È un sistema di vita complessivo del partito. Riterrei sgradevole utilizzare questo momento, di grande dolore e sconcerto, per lucrare qualche misero vantaggio politico. Posso dire che in tempi non sospetti, era il 2009, scrissi parole profetiche nel mio libro Oltre i partiti : “Il campanello d’allarme va suonato, non ci vogliono i giudici per comprendere che la corruzione è tornata e nessuno può pensare che si fermi sulla soglia del centrosinistra” ».
Alle europee lei è stato molto combattuto da alcuni capicorrente. Chi erano? Gasbarra? Marroni? O chi altro?
«Che senso ha soffermarsi sui nomi? Con Gasbarra per anni ho avuto rapporti di amicizia. La verità è che, dopo la vittoria di Alemanno, molti dissero che era fallito il “modello Roma” anche per sbarazzarsi di una classe dirigente autorevole e capace, ma ritenuta soffocante, tant’è che io subito dopo lasciai ogni incarico politicoistituzionale e me ne andai all’estero a occuparmi di cultura e a scrivere libri».
È vero che qualsiasi persona può andare in un circolo Pd e comprare cento, mille tessere, che poi regala a chi vuole in cambio di un voto?
«Il Pd, non solo a Roma, ha raggiunto livelli preoccupanti di degrado della vita interna. Il tesseramento spesso si è fatto procurandosi tessere a 10 euro da distribuire. Anche a persone del tutto estranee. Le correnti non hanno quasi mai un significato politico ideale, ma sono gruppi spuri che mirano al potere. Da anni invoco un partito di persone che decidono in libertà contro la logica “proporzionale” delle correnti ».
Di Stefano, il deputato del Pd indagato per una tangente, in uno sfogo arriva a dire che le primarie del Pd sono state truccate e minaccia rivelazioni clamorose.
«Non so se il termine “truccate” sia giusto, so che quando le primarie non sono per ruoli di spicco, come un sindaco o un premier, che riguardano centinaia di migliaia di elettori, finiscono per esaltare il condizionamento interno delle correnti. Detto questo, il Pd rimane uno straordinario campo di energie positive e di persone perbene».

Repubblica 8.12.14
Angela Merkel: “Il calendario indicato dalla Commissione è giusto, ma quei Paesi non lo stanno seguendo nella pratica. Non è vero che facciamo poco per la crescita”
La Cancelliera alza il tiro contro Roma e Parigi “Non rispettate le scadenze dovete fare molto di più”
intervista di Robin Alexander e Beat Balzli


BERLINO Italia e Francia hanno varato processi di riforme, e il calendario indicato loro dalla Commissione europea è giusto, ma la Commissione ha anche chiarito che quanto Italia e Francia hanno finora realizzato non basta, e io sono d’accordo. Devono fare di più per tradurre le riforme in pratica. È quanto ci dice la Cancelliera Angela Merkel in questa intervista sulla crisi dell´eurozona e sulle grandi tensioni internazionali, a cominciare dalle pressioni economiche di Putin e dal confronto tra Occidente e Russia.
Signora Cancelliera, Juncker ha l´idea di non punire subito Francia e Italia per il loro deficit in eccesso. Lei la trova un´idea buona?
«La Commissione ha indicato una road map, una tabella di marcia con indicazioni sui tempi entro i quali Francia e Italia devono presentare impegni a ulteriori misure. È una posizione difendibile, perché entrambi i Paesi affrontano davvero un processo di riforme. Ma la Commissione ha anche detto chiaramente che i piani finora presentati dai due Paesi non sono ancora sufficienti. E io concordo appieno con questo giudizio ».
Ma intanto la congiuntura rallenta anche in Germania: i consumatori tedeschi spendono solo perché a causa dei bassi tassi d´interesse non vale più la pena di investire in risparmi, e allora che fare?
«É prima di tutto la situazione davvero molto buona sul nostro mercato del lavoro che noi tedeschi dobbiamo ringraziare per il vigore attuale della nostra domanda interna. In Germania abbiamo tanti occupati quanti mai prima, e anche I lavoratori protetti dalle assicurazioni sociali del welfare non sono mai stati così numerosi. Constatiamo anche un aumento dei salari reali».
Eppure la crescita resta spaventosamente modesta, e molti critici dicono che le decisioni della Grosse Koalition — salario minimo, aumento delle pensioni, pedaggio autostradale per gli stranieri in transito — creano ulteriori freni. Non le pare?
«A me pare che l´affidabilità sia un bene di alto valore per la politica come per l´economia. Con le nostre decisioni manteniamo la parola data agli elettori. Anche la promessa di non aumentare le tasse. L’anno prossimo, per la prima volta in 46 anni, presenteremo un bilancio senza nuovo indebitamento. È un segnale molto importante, specie per le giovani generazioni».
Scusi, non ha risposto alla domanda sulla maggiore spesa previdenziale come freno allo sviluppo...
«No, non è così. Traducendo in pratica il Patto di governo della Coalizione, per esempio con l´introduzione del salario minimo o della pensione per le madri casalinghe, abbiamo mantenuto le promesse e creato fiducia e attendibilità. Con la nostra gestione del pubblico bilancio pensiamo al futuro, perché aumentiamo di nuovo gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica e nei grandi progetti di infrastrutture».
Ma può non bastare: dal resto d´Europa non vengono impulsi di crescita. Il piano Juncker per 300 miliardi di investimenti le pare una buona idea, un tentativo disperato o cosa?
«Quel programma di investimenti si appoggia alla Banca europea degli investimenti, la quale può identificare quali progetti sono sensati e concedere crediti. Al prossimo Consiglio europeo mi batterò per presentare un Libro bianco dei progetti di investimento. Abbiamo bisogno di progetti per l´unità europea nel campo digitale, nelle infrastrutture energetiche, o in grandi progetti per le vie di comunicazione, come facemmo con i progetti per strade e ferrovie per l’unità tedesca dopo il 1990. Devono essere progetti concreti, sostenibili, da poter proporre a investitori privati, per invitarli a investire anche loro».
Davvero le sembrano idee sensate, non teme che i programmi per la congiuntura si rivelino fuochi di paglia?
«Qui non stiamo parlando di un programma di sostegno alla congiuntura bensì di un programma di investimenti. È innegabile che l´Europa abbia bisogno di investimenti. Il modo in cui i fondi europei sono stati utilizzati nei nuovi Bundesländer (ndr Germania Est) o in Polonia per realizzare infrastrutture è stato un modo molto sensato. Per questo giudico altrettanto importante creare condizioni favorevoli agli investimenti, “investment-friendly”, in Europa. Per esempio riducendo la burocrazia, come il presidente Juncker ha proposto. Nell´economia digitale poi deve essere creato uno spazio giuridico di certezza del diritto, tale da far sì che in Europa diventi possibile creare ricchezza con l´economia digitale non meno di quanto oggi è già possibile in America o in Asia».
Intanto affrontiamo il confronto con la Russia: lei ha detto che Putin potrebbe prendere di mira i Paesi occidentali dei Balcani. Come è arrivata a tale conclusione?
«Moldavia, Georgia e Ucraina, tre nostri vicini orientali, hanno firmato a seguito di loro scelte sovrane accordi di associazione con l´Unione europea. La Russia si prepara a creare difficoltà a questi tre paesi. La Moldavia soffre da anni per il conflitto in Transnistria; abbiamo compiuto molti tentativi per giungere a una distensione, finora purtroppo invano. La Georgia soffre per il conflitto nell´Ossezia del Sud e in Abkhazia. L’Ucraina ha subito l’annessione della Crimea e i combattimenti nell´Est del suo territorio sovrano. E soprattutto, vediamo che la Russia cerca di creare situazioni di dipendenza economica e politica in alcuni paesi dei Balcani occidentali».
Perché non parla di Estonia, Lettonia e Lituania, ex territorio occupato dall´Urss e oggi membri di Nato e Ue?
«Già durante la mia recente visita in Lettonia ho detto che il dovere di stare a fianco degli all eati nella Nato vale a favore e in difesa di ogni paese della Nato, dunque anche per Estonia , Lettonia e Lituania, e anche per la Polonia. Allo stesso tempomi sono impegnata contro una denuncia degli accordi Nato-Russia, per tenere aperto il dialogo con la Russia». copyright Welt am Sonntag

il Fatto 8.12.14
Semestre italiano
Merkel boccia Renzi: “Manovra insufficiente”
di Marco Palombi


La Commissione europea “ha stabilito un calendario secondo il quale Francia ed Italia dovranno presentare ulteriori misure. Questo è giustificato perché i due Paesi stanno attraversando effettivamente un processo di riforme. Ma la Commissione ha ribadito anche che quanto presentato sul tavolo fino ad ora non è sufficiente. Parere che io condivido”. Con un numero assai contenuto di parole Angela Merkel, intervistata da Die Welt, ieri ha ucciso il semestre di presidenza italiana del Consiglio europeo: l’unico risultato strappato da Matteo Renzi - che è poi il permesso di fare una manovra un po’ meno pesante del previsto - sono solo temporanei.
IN PRIMAVERA la Germania pretende nuove “riforme”, che poi sarebbero ulteriori tagli di spesa pubblica e le privatizzazioni dei gioielli di famiglia italiani, cominciando dall’Eni. La svendita del patrimonio pubblico non ha mai portato a una riduzione del debito pubblico - come d’altronde s’è dimostrato che l’austerity lo fa aumentare - ma lo shopping dei grandi gruppi internazionali in Italia è sicuramente assai ben visto a Berlino (nel settore privato la cosa è già in corso da tempo e l’acquisto a fine ottobre delle moto Mv Agusta da parte di Porsche è solo l’ultimo episodio).
Renzi ieri ha preferito non replicare direttamente alla Cancelliera e affidare la (dura) risposta italiana ai sottosegretari Sandro Gozi (che la delega sull’Europa) e Graziano Delrio. Il primo: “Dispiace molto che le riforme avviate dal governo siano ritenute insufficienti da Angela Merkel, ma i tempi e la logica dei ‘compiti a casa’ sono dietro di noi”. E poi, “oltre ai contenuti c’è anche una questione di stile: non sta ai capi di governo interpretare la Commissione. Noi non ci siamo mai permessi di dare pagelle”. Stessi contenuti Delrio: “Non c’è nessuno che fa i compiti e nessuno che esegue, noi siamo impegnati su moltissime riforme e nel risanamento del debito”.
Una cosa va sottolineata nelle repliche italiane: a palazzo Chigi hanno scoperto che le scelte di politica macroeconomica tedesche sono un problema per l’intera Europa. Gozi: “Forse Merkel potrebbe concentrare la sua attenzione su domanda interna, mancanza di investimenti o squilibri di bilancia dei pagamenti tedesca. Sarebbe un contributo importante che la Ue aspetta da tempo”. Delrio: “Piuttosto l’eccesso di surplus della Germania crea problemi. Ognuno metta ordine a casa propria”.
ATTACCO PESANTE, va detto, e che si basa su dati economici inoppugnabili e sottolineati spesso dalla stessa Commissione, di cui però negli incontri ufficiali di questo semestre italiano il governo s’è ben guardato di fare menzione: forse perché aveva bisogno del permesso della maestra per rimandare il pareggio di bilancio. I punti di conflitto rimasti sotterranei in questi mesi torneranno d’attualità già domani: è in agenda infatti una riunione dell’Eurogruppo (un coordinamento dei ministri economici dell’Eurozona) sulle leggi di Stabilità dei paesi membri. E lì il malumore sui comportamenti di Italia e Francia non arriverà solo dal fronte del rigore nordeuropeo, ma pure dai paesi che hanno dovuto subire i maltrattamenti della Troika che non amano il principio “due pesi e due misure”.

La Stampa 8.12.14
Niente tagli dei deputati
E ai peones passa la paura
di Carlo Bertini

Era l’ultimo ostacolo da superare per stare davvero tutti più tranquilli. È vero che il governo al Senato già aveva stoppato la diabolica manovra. Ma ora qualcuno tira un sospiro di sollievo a Montecitorio ed ha le sue buone ragioni: nelle pieghe della battaglia sulla riforma costituzionale, anche alla Camera è stato alzato un argine contro le proposte di tagliare, oltre ai duecento e passa senatori, anche un centinaio e passa di deputati. E visto che su questo punto il governo ha retto un doppio assalto, son centinaia i peones che sperano di averla scampata, perchè al prossimo giro ci saranno sempre gli stessi posti in tavola. Sabato mattina la commissione Affari Costituzionali della Camera ha bocciato tutti gli emendamenti alla riforma per tagliare anche i componenti dell’Assemblea di Montecitorio e non solo i senatori, che vengono ridotti da 315 a 100. Per decine di onorevoli che lottano ventre a terra per vedersi riconfermati nelle liste elettorali quando sarà il momento - e che già tremano per il timore di doversi trovare voti di preferenza con il nuovo Italicum - almeno questa è una buona novella: al Senato ci hanno provato tutti i partiti a render pariglia ai deputati. E pure alla Camera non son mancati quelli convinti che bisognasse sforbiciare anche i ranghi di Montecitorio per esser coerenti, riducendo magari da 630 a 500 il numero di deputati.

Repubblica 8.12.14
Dal Mattarellum al welfare il decalogo di Civati per rilanciare la sinistra
Documento per un’alternativa a Renzi, creando un ponte con Sel e M5S
“Il Pd deve cambiare rotta o nascerà una nuova forza con i nostri temi”
di Tommaso Ciriaco


ROMA Dieci punti per una sinistra repubblicana. Da difendere a ogni costo, «al di là della disciplina di gruppo». Un patto per cambiare il Pd, se possibile. Oppure per costruire un nuovo centrosinistra, «se Renzi dovesse costruire davvero il partito della nazione». Dopo mesi di battaglie solitarie, voti di fiducia “bucati” e un bel po’ di gastrite, Pippo Civati rilancia. E sul piatto punta tutto: «Non si tratta di organizzare scissioni, ma di capire se al governo interessa questo percorso politico. Perché se continua così una cosa è ormai chiara: Civati o meno, una nuova forza nascerà comunque...». Un decalogo, allora, da tradurre presto in proposte parlamentari. «Con chi ci sta: Pd, Sel, grillini ed ex grillini. Non è che se Renzi apre a Grillo è furbo, mentre se io mi confronto con Pizzarotti non va bene». Si ritroveranno tutti in una “Leopolda al contrario” convocata il 13 dicembre a Bologna. «Ripartiamo così, poi si vedrà».
Setacciare le quattro pagine dell’agenda civatiana aiuta a mettere a fuco il nuovo centrosinistra immaginato dal deputato dem. «Quando ne parlavo, all’alba delle larghe intese, ero solo. Poi con il Patto del Nazareno tutto è diventato più difficile, più pesante. Ma in democrazia un’alternativa deve esserci sempre». C’è tanto del renzismo della prima ora, a dire il vero. E tantissimo delle recenti battaglie della minoranza dem e dei grillini critici. Anche a loro è rivolta la sfida di Civati. Insieme, sostiene, è possibile rimodellare per legge i partiti, garantendo «partecipazione, trasparenza e uguaglianza». Con un’altra promessa messa nero su bianco: ma anche forme di democrazia diretta. «Rafforziamo la democrazia diretta puntando sullo strumento referendario e sull’iniziativa legislativa popolare».
«Non si tratta di conquistare la minoranza del Pd», giura Civati. Né solo di “convertire” cinquestelle a disagio: «Non è che sommiamo la sinistra dem, qualche parlamentare del Movimento, i gruppi di Sel e poi moltiplichiamo tutto per i sindacati... È uno spazio più grande. Ormai si è aperto tra la gente». Le parole d’ordine, comunque, faranno breccia tra gli avversari del premier. La proposta sul welfare, per dire, ricalca quella elaborata dai democratici di estrazione sindacale, il contratto a tutele crescenti che mette fine al far west dei co.co.co. E una mano tesa al mondo grillino è senza dubbio il via libera al reddito minimo garantito e a un’autentica «rivoluzione verde”. «Azzeriamo il consumo del suolo - è il progetto - poniamoci l’obiettivo di “rifiuti zero” e promuoviamo le rinnovabili per superare i combustibili fossili». Al netto delle virgole, il programma del Movimento. La battaglia è appena all’inizio, Civati non lo nasconde. «Sarà come un programma di governo, lo tradurremo in proposte di legge ». E, questo è il rischio per Palazzo Chigi, in potenziali sgambetti all’esecutivo. A partire dalla legge elettorale, un Mattarellum che «restituisca ai cittadini la scelta dei rappresentanti attraverso collegi uninominali». Affiancati però dalle primarie per legge. Sulle modifiche dell’impianto costituzionale, poi, il sentiero tracciato da Pippo insegue la fine del bicameralismo perfetto e taglia le indennità, ma lascia intatta l’elezione diretta dei parlamentari. Un affronto, per i teorici del nuovo Senato renziano.
L’agenda - resa pubblica nel giorno in cui Renzi taglia il traguardo del primo anno di segreteria - rilancia alcuni cavalli di battaglia della sinistra dell’ultimo ventennio. Indigeribili, neanche a dirlo, per Silvio Berlusconi. Una legge sul conflitto d’interesse, allora, «con obblighi di dismissione e blind trust», in modo da evitare che «le cariche pubbliche siano utilizzate per favorire se stessi e i propri amici». Come se non bastasse, la sfida ai soci di centrodestra dell’attuale esecutivo passa anche da un brutale reset delle «scandalose » leggi ad personam fiorite nell’era del Cavaliere, un deciso intervento sulla prescrizione, una nuova battaglia legislativa contro l’evasione fiscale e la corruzione, un fisco più progressivo e pure la legalizzazione delle droghe leggere. Il via libera ai matrimoni egualitari e norme sul fine vita completano il quadro di una svolta a sinistra senza tentennamenti, pensata assieme al costituzionalista Andrea Pertici. «Sa, i primi appunti li ho iniziati a scrivere questa estate. Poi è successo di tutto ed è nato il patto repubblicano. D’altra parte, come potevo far finta di niente?».

La Stampa 8.12.14
Palestina, l’appello di Oz, Grossman e Yehoshua:
“I Paesi europei la riconoscano come Stato”
I tre scrittori hanno firmato la richiesta insieme ad altri 800 israeliani tra cui premio Nobel Daniel Kahneman: «È un atto di incoraggiamento soprattutto per il negoziato»

Con questa lettera, gli scrittori Amos Oz, David Grossman e Abraham Yehoshua intervengono nel dibattito sul riconoscimento della Palestina
Il testo, firmato da 850 personalità di spicco israeliane, è rivolto in primis al Parlamento belga che in settimana voterà sullo Stato palestinese
qui

Corriere 8.12.14
Oz, Grossman e Yehoshua  firmano per lo Stato della Palestina
Petizione insieme ad altri 800 israeliani, tra cui il premio Nobel Daniel Kahneman
«È un atto di incoraggiamento soprattutto per il negoziato. E anche perché Abu Mazen continui nelle trattative»

qui

Corriere 8.12.14
«Riconoscete lo Stato palestinese»
L’appello all’Europa degli scrittori ebrei


Forse la storia, un pezzo grande di storia, si sta muovendo. E si sta muovendo sulla scia della cultura. In Israele, gli scrittori Amos Oz, David Grossman e Abraham Yehoshua hanno firmato una petizione che chiede ai Parlamenti dell’Unione Europea di riconoscere la Palestina come Stato, e auspica il blocco degli insediamenti dei coloni israeliani oltre alle dimissioni di Benjamin Netanyahu. Ai 3 scrittori si sono aggiunti circa 800 concittadini, fra cui il premio Nobel Daniel Kahneman. Il dibattito divampa anche su Twitter, come rivela uno degli ultimi messaggi: «Riconoscere la Palestina: giusta decisione, nel momento sbagliato». Intanto alcuni Parlamenti europei, e i governi dei loro Stati, già da settimane sembrano muoversi in questa direzione. Di questo si parlerà probabilmente fra 4 giorni a Bruxelles, nel vertice dei ministri degli Esteri dell’Unione.
La petizione degli scrittori, ha spiegato Abraham Yehoshua, va intesa come «un atto di incoraggiamento per il negoziato.
E anche perché Abu Mazen continui nelle trattative». Non solo: alle prossime elezioni, «Netanyahu lasci. È il momento che si formi un blocco di centrosinistra per impedire uno Stato binazionale, e per dire basta agli insediamenti». Anche in Europa, le parole «Stato palestinese» stanno polarizzando opinioni e polemiche come forse mai negli ultimi anni. Il Parlamento federale belga voterà a giorni sul riconoscimento: atto solo formale, ma comunque significativo. Come le risoluzioni già approvate dai Parlamenti in Svezia, Irlanda e Spagna. Gran Bretagna e Francia sono sullo stesso binario. Circola qualche indiscrezione anche sull’Italia. E su Danimarca, Grecia, Portogallo, Austria, Lussemburgo.

Repubblica 8.12.14
Israele: Grossman, Oz e Yehoshua firmano petizione per riconoscimento Stato palestinese
I tre scrittori hanno sottoscritto un appello ai Parlamento europei insieme ad altri 800 cittadini dello Stato ebraico tra i quali il Nobel Daniel Kahneman
"Un atto di incoraggiamento soprattutto per il negoziato"

qui

Repubblica 8.12.14
Israele L’ultima guerra di Bibi
Tra cento giorni si vota e sarà un referendum che il premier Netanyahu ha voluto su se stesso Stretto tra l’ultradestra e i timori di una rinascita del centrosinistra ha scelto di puntare ancora di più sulla divisione tra ebrei e musulmani
di Bernardo Valli


SHALTIEL Abrabanel non credeva in nessun Stato. Né in uno Stato israeliano né in uno Stato palestinese. Né in uno Stato binazionale israelo-palestinese. Odiava l’idea in sé di un mondo frantumato in tanti Stati, con frontiere, con muri di divisione, fili spinati, passaporti, eserciti, bandiere e monete diverse. Gli sembrava assurda, arcaica, primitiva, omicida, ormai superata. Per questo Abrabanel era definito traditore dai suoi compatrioti israeliani come Giuda Iscariota lo fu per i cristiani. L’apostolo tradì Gesù per eccesso di fede, perché era sicuro che una volta sulla croce avrebbe resistito alla morte e dimostrato la sua natura divina. In cui Giuda fermamente credeva, essendo il più cristiano dei cristiani. Anzi il solo vero cristiano. Si impiccherà quando vedrà Gesù agonizzare sulla croce, in apparenza abbandonato da Dio. La Resurrezione avviene troppo tardi, quando lui, Giuda, si è già appeso al ramo di un fico. Cosi passerà alla storia come un traditore. La stessa sorte tocca all’israeliano Abrabanel che, solitario e odiato, affronta l’ondata sionista e predica una società senza divisioni tra arabi ed ebrei. Tanti traditori sono stati in realtà eroi misconosciuti dalla Storia.
Giuda e Abrabanel sono i veri protagonisti (defunti) dell’ultimo grande romanzo di Amos Oz: una fiction con una straordinaria carica di attualità, anche se superbamente estranea alla cronaca e discosta dalla storia conosciuta. La cronaca e la quasi storia da cui straripano le nuove convulsioni politiche della società israeliana, posta davanti a una prospettiva che la ragione ritiene incancellabile, inevitabile e che al tempo stesso la paura e la diffidenza rendono irrealizzabile. Comunque impossibile nel futuro scrutabile. L’utopistica saggezza di Abrabanel, il traditore, è facilmente sconfitta dagli irresistibili sentimenti di odio. Chi vi presta attenzione considera la sua proposta blasfema e assurda. Ma quei sentimenti rendono impossibile anche quel che appare ragionevole: impediscono la nascita di due Stati sovrani affiancati, uno israeliano e l’altro palestinese, oppure uno Stato binazionale israelo — palestinese.
Oltre alla spartizione della Palestina sotto mandato britannico decisa dalle Nazioni Unite (rifiutata dagli arabi come ingiusta settant’anni fa), centotrentacinque Paesi hanno riconosciuto lo Stato palestinese, ed ora si accingono a fare altrettanto anche i parlamenti europei. Quello di Svezia, Francia, Gran Bretagna, Spagna si sono già pronunciati o stanno per farlo. Ma sono legittimazioni simboliche che non impegnano i governi. La Palestina è ancora occupata (o «contesa») e rosicchiata puntualmente dagli insediamenti ebraici, che continuano imperterriti nonostante le risoluzioni dell’Onu e i rimproveri degli americani, i fedeli e imbarazzati protettori di Israele.
Le convulsioni della società politica israeliana sono imputate ai normali problemi economici o all’intolleranza nei confronti di leader impopolari. Ma sullo sfondo, in profondità, c’è sempre il tormentato rifiuto di una convivenza alla pari con i palestinesi. Ed è quello che congela gli animi e determina le scelte politiche. Le crisi periodiche sono per non pochi aspetti simili a quelle italiane (litigi tra partiti, scontri di personalità, dispute sui testi dello Stato) ma il tutto avviene in un contesto assai più drammatico, costellato di morti. E alle spalle c’è una storia che spinge all’angoscia dell’insicurezza. Da qui il nostro riguardo: il nostro inevitabile rispetto.
Tra cento giorni, il 17 marzo, gli israeliani andranno a votare, benché i quattro anni dalla legislatura non siano ancora trascorsi. La crisi esplode il 23 novembre quando il Consiglio dei ministri approva e manda alla Knesset (il Parlamento) un documento in cui si definisce Israele come uno «Stato nazionale del popolo ebraico». Il testo rafforza il ruolo della tradizionale legge ebraica che dà agli ebrei diritti particolari, privilegiati, e limita quelli degli israeliani non ebrei. Non è una novità che la legge neghi i “diritti nazionali” agli arabi come minoranza. Israele è stato creato da ebrei per gli ebrei. Ad esempio la “legge del ritorno” garantisce la cittadinanza agli immigrati ebrei, mentre i palestinesi emigrati nel 1948 non possono ritornare. I motivi sono evidenti: se i palestinesi rifugiatisi nei paesi arabi rientrassero in quello che adesso è lo Stato ebraico, gli equilibri di quest’ultimo verrebbero sconvolti. Le leggi sono diverse per gli uni e per gli altri, ma la situazione si impone, pur non rispettando il principio democratico dell’uguaglianza dei diritti.
A Gerusalemme due dei cinque partiti della coalizione di governo si sono opposti al testo di legge che rafforza i diritti particolari degli ebrei, oltre quelli esistenti, e limita quelli degli israe- liani non ebrei. Lo stesso nuovo presidente della Repubblica, Reuven Rivlin, un religioso, avverte che la legge proposta discrimina gli arabi come un tempo gli ebrei nel mondo. Protestano anche gli americani ribadendo che tutti i cittadini devono avere gli stessi diritti.
Il 2 dicembre, Benjamin Netanyahu, in politica da ventisei anni, al governo per quattordici anni di cui quasi nove come primo ministro, destituisce due leader centristi: dal dicastero della giustizia Tzipi Livni e da quello delle finanze Yair Lapid. Netanyahu teme un complotto ai suoi danni. Sospetta che Yair Lapid, capo del partito “C’è un futuro”, stia tramando con Yitzhak Herzog, capo del partito laburista, per formare un governo di centro sinistra. Nonostante le smentite di Lapid e di Herzog, Netanyahu persiste e il 3 dicembre la Knesset vota la dissoluzione.
Netanyahu è un uomo controverso, ambizioso, arrogante, deciso, abile, capace di dosare la propria intransigenza di leader di destra. A non pochi esponenti del Likud, il suo partito, appare troppo moderato, mentre soprattutto non appare abbastanza forte, quindi vulnerabile, al suo alleato — concorrente Naftali Bennet, capo del “Focolare ebraico”, un miliardario religioso di estrema destra, espressione dei coloni ebrei nei territori occupati. Netanyahu si sente stretto da tutte le parti. Gli estremisti, come Avigdor Liberman, il ministro degli Esteri, leader dei russi immigrati negli ultimi decenni, gli rimprovera di non essere stato abbastanza deciso durante la guerra d’agosto, a Gaza. Moshe Kahlon, ex ministro delle comunicazioni ed ex esponente del Likud, ha conquistato una certa popolarità chiedendo un forte ribasso dei telefoni cellulari, forte di questa notorietà progetta un proprio partito che potrebbe ridurre la forza del Likud. Alcuni membri del Likud, tra i più decisi, non esitano nel frattempo a organizzare preghiere sulla spianata delle Moschee a Gerusalemme, considerate provocatorie dagli arabi. Anche se gli ebrei considerano sacra la spianata, sotto la quale ci sono le rovine del grande Tempio di Gerusalemme. Netanyahu non manca dunque di guai. Le vampate di terrorismo palestinese mettono in discussione la sua capacità di assicurare la sicurezza.
Proponendo uno Stato nazionale del popolo ebraico Netanyahu si è rivolto a un elettorato in cui prevale una maggioranza di destra. Destra e centrodestra raccolgono il 51 per cento dei consensi stando ai sondaggi. E da questa area elettorale Netanyahu deve raccogliere i voti che gli consentirebbero di prolungare il suo potere (secondo per durata soltanto a quello di Ben-Gurion, il fondatore di Israele). L’accentuazione dei diritti per i cittadini ebrei e la limitazione di quelli per gli israeliani arabi (un milione seicentomila con i drusi) dovrebbero contenere il successo del partito estremista di Bennet e attenuare le intemperanze dei disciplinati membri del Likud, per i quali il primo ministro è un moderato. Ma la svolta a destra comporta dei rischi per Natanyahu. La legge discriminatoria, che approfondisce ancora di più la divisione tra ebrei e musulmani, ha suscitato accuse severe al governo. Si è parlato di apartheid. Non sono mancati coloro che hanno assimilato l’Israele preconizzato da Netanyahu ai Paesi arabi circostanti in cui non prevale certo la democrazia. E dove dominano i principi religiosi, sia pure a scopo nazionalista.
In sostanza Benjamin Netanyahu, anticipando le elezioni, ha indetto un referendum sulla propria persona. Persona controversa anche per uno stile di vita dispendioso in un paese in cui le differenze economiche non sono trascurabili. Soprattutto in una stagione di crisi. Gli israeliani dovranno decidere: ancora Netanyahu? Il partito centrista di Lapid, il giornalista autore di romanzi gialli, potrebbe riscuotere lo stesso successo dello scorso anno nelle classi medie laiche di Tel Aviv. Le agevolazioni fiscali per la nuova casa e la riduzione dei sussidi alle comunità religiose gli consentirono allora di raccogliere molti voti. In tal caso potrebbe riaffiorare la possibilità, in verità non facile, di un centro sinistra. Non facile perché il paese si sbilancia a destra.
Comunque Netanyahu, stretto dai numerosi avversari stanchi, esausti del suo interminabile governo, non ha la rielezione a portata di mano. Sciogliendo la Knesset ha forse sventato i complotti, ma gli ostacoli restano. E sullo sfondo c’è sempre l’irrisolta convivenza con i palestinesi, che ormai il mondo giudica severamente. E il giudizio del mondo, nonostante l’orgoglio, pesa sulla pelle di Israele e dei suoi abitanti.

Corriere 8.12.14
Il mondo in piazza Stati Uniti e Hong Kong   
risponde Sergio Romano


A proposito della sua risposta sulle manifestazioni quasi sempre violente nelle periferie delle città, a me sembra che queste siano in costante aumento. Penso a quanto accade negli Stati Uniti e a Hong Kong. Non pensa che il malessere della popolazione costretta a vivere ai margini della società sia giustificato?
Angela Caputo

Cara Signora,
Le due proteste sono alquanto diverse. Le manifestazioni americane sono la prosecuzione di quelle che furono guidate da Martin Luther King negli anni Sessanta del secolo scorso ed ebbero allora effetti importanti. Gli Stati meridionali della Federazione furono costretti a smantellare il regime di apartheid razziale sopravvissuto alla fine della Guerra di secessione. Fu facilitato l’ingresso dei giovani afro-americani nei college e nelle università. Nacque una borghesia nera che cominciò a salire lungo la scala sociale e a prendere alloggio nei quartieri residenziali, prima riservati alla borghesia bianca.
Esistono ancora quartieri urbani abitati da una popolazione povera, poco istruita, spesso incline a violare la legge: una sorta di lumpenproletariat, come veniva definito il sotto-proletariato della società tedesca agli inizi del Novecento. Ma esiste anche un richiesta di diritti civili che si manifesta rabbiosamente ogniqualvolta le autorità di polizia e la magistratura trattano gli afro-americani con metodi che sarebbero difficilmente immaginabili per la popolazione di origine europea o asiatica. Anche ora, come negli anni Sessanta, questi ceti sociali possono fortunatamente contare sulla presenza alla Casa Bianca di un presidente (Kennedy e Johnson allora, Obama oggi), sensibile al problema della loro condizione sociale.
I manifestanti di Hong Kong, invece, appartengono al polo opposto dello spettro sociale. Gli abitanti sono più di sette milioni, il loro territorio appartiene alla Cina, ma gode di una larga autonomia, e il reddito medio mensile delle famiglie è di circa 2.150 euro. Sono scesi in piazza perché Pechino vuole che il Chief Executive Officer (erede del governatore d’epoca coloniale) venga scelto fra una rosa di candidati proposti dal governo centrale. Pechino resiste con un certo imbarazzo alle richiese dei manifestanti perché è prigioniera di alcune contraddizioni. Ha bisogno di Hong Kong, divenuto ormai il suo più efficace braccio finanziario nel mondo. Non può ignorare che una piazza finanziaria è tanto più credibile quanto più ha istituzioni liberamente elette e indipendenti. Ma teme che la febbre democratica di Hong Kong contagi la società nazionale cinese mettendo in discussione il precario equilibrio fra le libertà economiche e il sistema politico fortemente autoritario.
Per parecchie settimane Pechino ha sperato che i manifestanti, figli di famiglie piuttosto agiate e politicamente moderate, si stancassero di manifestare. Posso soltanto dirle, cara Signora, che la crisi dell’antica colonia britannica merita di essere seguita attentamente. La Cina del dopo Hong Kong potrebbe essere alquanto diversa da quella degli scorsi anni.

La Stampa 8.12.14
Fra i miliziani in marcia su Tripoli: “Traditi dall’Europa, ma vinceremo”
di Domenico Quirico


In Libia i combattenti che sono in lotta contro gli islamisti si preparano alla battaglia: “Mandateci armi o toccherà a voi. Dobbiamo chiudere il gas per avere il vostro aiuto?”
Camminiamo lungo la scarpata. La sera è simile alle sere senza cannone. Sul crepuscolo da ritratto equestre, nell’odore dei pini e delle erbe da pietraia, la montagna scende con un balzo decorativo fino al deserto, su cui la notte cala come sul mare. Il pick-up con la mitragliera, accovacciato presso la sua trincea, sembra dimenticato da una guerra iniziata in pieno sole. «Dove avete sbagliato in questi quattro anni dopo che Gheddafi fu ucciso? Oggi la Libia è nel caos: due governi, due parlamenti, decine di milizie che si spartiscono il Paese, le bandiere nere del califfato a Derna e Bengasi». 
La caduta di Gheddafi 
Il primo soldato è un piccolo rapace dal naso a becco, dall’occhio ironico che non smette mai di sorridere. «Volevamo abbattere il tiranno, non pensavamo ad altro. In fondo ancora una volta è colpa sua, del Colonnello, ci ha tenuto rinchiusi per quarant’anni, abbiamo vissuto con il paraocchi, non conoscevamo il mondo. E noi libici siamo gente semplice, facile da ingannare». Qualche colpo di arma da fuoco isolato e lontano rende più profonda la pace delle montagne. Si annuncia una bella notte. «Siamo giovani - continua il secondo miliziano (lui non ride mai come accade agli uomini che difendono cause importanti, dovrebbero essere felici o almeno sereni, invece la loro espressione è sempre la tristezza ) - stiamo cercando di costruire uno Stato dove ci sia un governo, dove comandi un’autorità, ci sia ordine. Tre anni fa abbiamo lasciato le armi dopo la vittoria, ci siamo ritirati da Tripoli. Pensavano che tutto fosse finito. Abbiamo organizzato tre elezioni in questo tempo e tutte sono andate bene: la gente partecipava, si vedeva che desiderava finalmente una democrazia. Ma loro, le milizie, i terroristi stranieri, i fondamentalisti hanno cominciato a insinuarsi dappertutto». Prima di passeggiare con me si erano raccolti a pregare con fervore, recitavano i versi sacri come una dolce, sommessa canzone.
«L’Europa ci ha abbandonati» 
«Da noi il jihad è un affare di tribù, di lotte locali e poi i fondamentalisti pagano bene, c’è gente che prende da loro un secondo stipendio, 1500, duemila dinari al mese. Ma è l’Europa che ci ha abbandonati! Dove eravate mentre tutto questo accadeva?». Penso alla scritta sul muro della scuola professionale di Rujban dove si trova il comando del fronte Ovest e dove mi hanno ospitato: «I traditori non li vogliamo». Già: i traditori. Quanti hanno tradito in questo caos libico… Il terzo ragazzo è un giovanottone dall’aspetto rude, venticinque ventisei anni, capelli nerissimi e un gran paio di spalle. C’è qualcosa nella sua espressione che mi ha commosso profondamente. L’espressione di un uomo che per un amico avrebbe ammazzato qualcuno e sacrificato la propria vita. C’era un misto di candore e di ferocia in essa, ma anche la patetica riverenza che i poveri mostrano verso coloro che reputano esser loro superiori. Mi è capitato raramente di vedere una persona che mi abbia ispirato una simpatia così immediata. Anche se ogni guerra è il sintomo del fallimento dell’uomo come animale pensante in queste guerre c’è tuttavia coraggio, generosità, valore. Certo gli uomini vengono uccisi, o mutilati, ma chi sopravvive non porta in dono ai propri figli un seme guasto.
Lotta senza scampo: noi o loro 
La voce del ragazzo stride come una raspa, è in collera ora: «Possibile che non capiate? Abu Bakr al-Baghdadi, il Califfo, è un assassino, lo sgozzerei con le mie mani, sta uccidendo la nostra gente, gli arabi, i musulmani, poi verrà il vostro turno. In Libia i terroristi controllano già gli immigrati, fanno affari d’oro, due tremila euro a viaggio, le loro nere bandiere sono a Derna, a Bengasi, a Sabratha. Il gasdotto per l’Italia passa di qui. Potremmo interromperlo: questo dobbiamo fare perché vi accorgiate di noi, della nostra battaglia? Non vogliamo nessun intervento diretto, se la guerra vi fa tanto paura. Dateci armi e sistemi di comunicazione, divise, medicinali: lo fate con i curdi, perché non lo fate per noi? La lotta è senza scampo: o noi o loro!».
La riconquista della capitale 
Nel 2011 ero qui sul djebel Nefussa, la montagna indomabile, allora assediata dai razzi ciecamente omicidi di Gheddafi. La marcia vittoriosa verso Tripoli cominciò proprio da Zintan, inarrestabile. Sono venuto a cercare i segni della seconda riconquista della capitale, questa volta contro le milizie islamiste e i loro alleati. «Qui c’è un esercito che risponde al parlamento eletto di Tobruk, non più la banda di Zintan. La vittoria è possibile, qui e a Bengasi», mi hanno annunciato amici libici pieni di nuovo entusiasmo. Ho ripercorso la stessa strada di allora, non c’è altra via. Ora che mi metto a scriverne mi pare di farlo da una distanza grigia che per il tempo trascorso appanna tutte le impressioni. È lo stesso itinerario dell’epoca della guerra contro Gheddafi, il confine tunisino, poi la montagna: come se nulla fosse trascorso, anni e morti inutili.
La polizia di Ras Jedir 
Avvicinandosi a Ras Jedir, il posto di frontiera, non ci sono più i campi immensi dei profughi, restano baracche sfondate, resti di tende della Mezzaluna rossa dietro gli eucalipti fradici di polvere che segnano la strada. Ma l’erba non è ricresciuta, come se una maledizione avesse impresso il suo segno, per sempre, su quella terra. I cambiavalute, seduti sulla strada come prostitute in attesa, agitano mazzi di denaro con gesto da prestigiatori, tentano come allora i libici in fuga o che tornano a casa. Dovranno passare da loro. Mi fermo a un posto di polizia a comprare la marca da bollo, trenta dinari, quindici euro, ultima trovata con cui la povera Tunisia cerca di colmare casse vuote. Code interminabili di camion diretti a Tripoli sono in attesa: tutto viene inviato da qui, come allora. Il libico che mi precede ha un alterco con il poliziotto che vende i contrassegni. Si allontana imprecando. Il poliziotto si scusa: un attimo, signore! Chiude lo sportello, esce in strada con due colleghi. Afferrano il ragazzo, lo tirano dentro. Si sentono colpi, le urla disperate di un uomo picchiato. Tutti, in coda, fanno finta di nulla. Dopo una decina di minuti lo sportello si riapre, il poliziotto mi sporge il bollino con un bel sorriso. La democratica Tunisia, l’unica primavera riuscita! Chissà, forse dovremmo essere più cauti a giudicare questi mondi complicati. Il confine è controllato dalla «banda di Misurata», gli uomini che governano Tripoli, i nemici della montagna di Zintan. Attraverso a piedi la terra di nessuno. Ho un visto per «affari», la richiesta di un permesso per giornalisti mi avrebbe costretto a mettermi sotto il controllo del «governo» di Tripoli: ma se mi interrogano devo dire che vado nella capitale. Un doganiere mi fa entrare in uno sgabuzzino sudicio: fammi vedere i soldi! Gli mostro il portafoglio dove ho lasciato solo qualche euro e poca moneta tunisina. «Ora li puoi tenere ma quando torni - mi annuncia con un ghigno minaccioso - prenderò gli altri». E si mette in tasca gli euro.
Dalle montagne alla battaglia 
Un amico mi attende fuori dal posto di controllo, ora dobbiamo salire sulla montagna sfuggendo ai posti di blocco. L’appuntamento è a un distributore, pochi chilometri dopo il confine. Ragazzi mettono in mostra taniche di benzina, il carburante è razionato, lo si vende a litri, come il latte, in un Paese che vive su un pozzo di petrolio. Arriva una piccola auto rossa, un improbabile contrassegno svizzero ma nessuna targa: un ragazzo ci fa un segno, lo seguiamo. Per vie secondarie ci fermiamo davanti a una casa. Ci attendono ragazzi che stanno guardando su un canale arabo di sport il derby di Torino. Quattro anni fa avevano la televisione bloccata su «al Jazeera»: oggi la odiano perché appoggia i fondamentalisti. Arriva il via libera. Il ragazzo della auto rossa a un certo punto accosta: «Ora andate, speriamo che dio conceda alla Libia tempi migliori». La strada è dritta nel deserto, coronato da fratte secche e aride, una frangia verde, magra, polverosa, sbiadita dai venti e dai raggi del sole. Rari cammelli sembrano chini a guardare la propria ombra. Un posto di blocco: pick up con le mitragliere, uomini avvolti in mimetiche chiare, una bandiera piantata su un cumulo di sabbia. L’esercito della montagna o gli altri? Le bandiera è la stessa, le uniformi identiche. L’uomo in divisa osserva i passaporti: da chi andate? Ecco: ora sapremo cosa ci attende. Diamo il nome di un comandante. Ci restituisce i passaporti. Chiedo al mio amico: se erano gli altri cosa avresti risposto? «Avrei deciso all’ultimo momento!». Saliamo a Rujban tra grandi picchi di roccia che avanzano verso la valle come una lunghissima onda di millepiedi. In cima una piana allungata verso la pianura che invece di digradare si solleva, punta al cielo, per poi precipitare al limite dell’orizzonte su un’altra piana che non si vede. Siamo arrivati alla montagna dell’esercito dell’Ovest, che assedia Sabratha e Zauia e vuole riconquistare Tripoli. 
Il colonnello Mohamed Taesh 
Il comandante ha una candida barba mosaica, annuncia che domani si andrà in battaglia. I ragazzi si guardano in maniera strana. Uomini che si conoscono bene e che in questi mesi hanno fraternizzato, ora si guardano come estranei e ognuno di loro è come se fosse distante da quelli che gli stanno accanto. Si scrutano come se cercassero di capire chi di loro morirà. Chi sarà ancora vivo domani sera? Io sarò vivo di sicuro, non sempre si viene uccisi, non ci sarebbero guerre se si morisse tutti. È il momento più brutto di tutti, le ore prima della battaglia. Non saranno mai più come adesso. Il colonnello cammina cento metri davanti agli altri, la sua figura si stacca netta contro le falde della montagna. Scendiamo verso la valle, verso la battaglia. Dietro a lui il soldato con la mitragliatrice pesante, poi gli altri. Presto non ci sono più né ulivi né pini, dappertutto pietra, pietra di Libia gialla e rossa sotto il sole chiusa nelle sue grandi ombre verticali. Dalla pista scavata nel fianco della montagna ogni tanto il piede fa cadere dei ciottoli che risuonavano di roccia in roccia perduti in quel silenzio nel quale era sepolto il bianco di torrenti ormai secchi. Il sentiero a una sosta a mezza costa strapiomba a picco su una cresta, c’è una fonte e un sottile bosco di palme. Intorno a esse l’erba forma un anello spesso che torna a poco a poco alla terra. Soltanto quelle palme vivono in mezzo alle pietra, vive della vita continuamente rinnovata delle piante nell’indifferenza geologica. Facciamo una sosta. «Colonnello, posso scrivere il suo nome? O teme vendette?». «Noi siamo un esercito regolare, non una banda di miliziani. Loro sanno che scelta ho fatto e dove sono. A questo punto non posso che vincere o essere ucciso. Mi chiamo Mohamed Taesh».
(1. continua) 

Repubblica 8.12.1\4
Io a Santiago fra i prigionieri di Pinochet
Anticipiamo l’introduzione a una raccolta di reportage e di articoli sull’America Latina
di Stefano Malatesta


Invece di badare alla cronaca, un collega prese i nomi dei detenuti e corse fuori dallo stadio a rassicurare i parenti

HO imparato ad amare l’America del Sud in Cile. Nel 1973, scrivevo per un settimanale e l’11 settembre di quello stesso anno i militari golpisti lanciarono il primo attacco aereo contro la Moneda, la residenza del presidente Allende, a Santiago. Il giornale all’inizio non sembrava molto interessato a raccontare la storia. Ma io volevo partire a ogni costo. Così proposi di prendermi una vacanza. Telefonai al mio amico Saverio Tutino e lo minacciai di andarlo a prelevare fisicamente se non fosse partito con me: «Non puoi rimanere a Roma quando in Cile stanno ammazzando tutti i tuoi amici». L’indomani riuscimmo a prendere un volo diretto non in Cile ma a Buenos Aires. (...) La repressione avveniva di nascosto nelle stanze della polizia segreta, nelle caserme dove erano portati tutti gli arrestati e anche nello stadio requisito per contenere tutti i prigionieri. In città non sembrava ci fosse stato un golpe, perché tutto era stato organizzato per dare un’impressione di normalità. Appena arrivati, fummo chiamati dalla Marina Militare, dove si rilasciavano i salvacondotti per giornalisti. Mentre sbrigavano le pratiche, ci fu un momento di tensione che avrebbe potuto sfociare in qualcosa di molto peggio. Quando fu il turno di Saverio, lui parlò in castigliano e l’ufficiale fece una smorfia. Invitò Saverio ad avvicinarsi al suo tavolo e gli chiese con voce melliflua: «Come parla bene lo spagnolo, dove l’ha imparato?» Saverio parlava con un accento fortemente cubano, senza rendersene conto, e questo aveva insospettito l’ufficiale. In quei giorni, la caccia ai cubani – accusati di aver portato Allende su posizioni estremiste – era stata più feroce di quella dedicata ai socialisti del Mir e ai comunisti. (...) Intuendo che Saverio potesse passare un brutto guaio, mi avvicinai all’ufficiale e gli chiesi se le carte di Saverio andassero bene. Lui rispose che le carte andavano bene, allora io gli dissi che non c’era ragione di fare troppe domande: noi dovevamo andare a lavorare e in fretta. L’ufficiale fece una telefonata – forse al suo superiore – per sapere come comportarsi. Poi aprì un cassetto, tirò fuori tre permessi già firmati, gettandoli quasi con violenza sul tavolo in modo da farli cadere per terra. Così per prenderli noi dovemmo chinarci davanti a lui. (...) Una mattina venimmo convocati dalla polizia: ci interessava vedere come i prigionieri, rinchiusi nello stadio, venissero trattati? Si era sparsa la voce che gli stanzoni fossero adibiti a camere di tortura e il regime teneva molto a non avere quella fama feroce che si era guadagnato nelle stragi dei primi tempi. E qui si inserì una storia imprevista, che è stata nello stesso tempo una lezione.
Partendo da Roma, mi ero portato dietro tutti i giornali che avevo trovato, e ognuno dava una sua versione dei fatti corrispondente alla posizione politica che aveva in Italia. E i titoli più beceri e più stupidi tra questi erano quelli apparsi su Il Tempo di Roma. Una volta arrivato a Santiago, mi avevano indicato quale fosse l’inviato del Tempo, ma io non volevo conoscere un giornalista che aveva scritto pezzi che corrispondevano presumibilmente a quei titoli infami. Quando entrammo nello stadio, tutti i prigionieri affollavano le gradinate circondati da barriere di filo spinato. Fu un incontro commovente, perché era la prima volta che i prigionieri vedevano qualcun altro che non fosse un poliziotto. Ma mentre prendevamo appunti sui nostri taccuini, l’inviato del Tempo fece un’altra cosa. Chiese ai prigionieri che stavano a lui più vicini i loro nomi. Quando ne aveva raccolti una cinquantina, corse fuori dallo stadio dove era radunata tutta una folla: «Chi è parente di Sandro Velazquez?» «Io!» «Està vivo, l’ho visto io». «Chi è parente di Alfio Escobar?» «Io!» «Està vivo tambien!». Invece di pensare alla cronaca del giornale, lui aveva sentito il dovere di mettere da parte il suo lavoro di giornalista per fare un’azione umanitaria, dando nuove speranze a quei poveretti che non avevano saputo più nulla dei loro cari. Allora mi avvicinai a lui e dissi: «Dopo aver letto quei titoli, non ti volevo conoscere. Adesso sarei onorato di averti come amico ». Si chiamava Piero Accolti, era un barone di Taranto. Poi ho scoperto che era un amico di Sandro Viola ed era molto stimato da lui come paesano e come bevitore di whisky. Aveva scritto un libro che si chiamava Il mio amico whisky , che è ancora il miglior testo sull’argomento.

IL LIBRO L’uomo dalla voce tonante, di Stefano Malatesta (Neri Pozza pagg.229, euro 17)

Corriere 8.12.14
The Sunday Morning Herald

Australia, una legge per posti di lavoro mentalmente sani Creare posti di lavoro «mentalmente sani». Lo chiede Lesley Russell sul Sydney Morning Herald . I disturbi della mente sono tra le prime cause di assenteismo, prestazioni lavorative ridotte, richieste di risarcimento danni. Si calcola che le imprese australiane perdano 11 milioni di dollari ogni anno a causa delle conseguenze provocate da questi disagi. Eppure, sottolinea l’autrice, sul problema «non c’è la stessa attenzione né la prevenzione riservata alle altre patologie». Per questo, conclude Russell, urge un intervento di tipo legislativo.

Corriere 8.12.14
L’infelice illusione di una decrescita felice
di Pierluigi Battista

Un po’ di ossigeno contro chi esalta il buio infelice della «decrescita felice». È un libro che si intitola Contro la decrescita (Longanesi), è scritto da Luca Simonetti, e andrebbe vivamente consigliato a chi non riesce a capacitarsi che un passato di penuria e miseria, dolore e rassegnazione possa essere indicato come un’Età dell’Oro. Un manuale utile per rintuzzare le solite, lugubri geremiadi contro il consumismo. Che poi è la possibilità per miliardi di persone di acquisire beni, opportunità e benessere in una misura inconcepibile in passato anche per i ceti più ricchi.
Una raffica di argomentazioni documentate e convincenti contro i detrattori della scienza che ha salvato una quantità incalcolabile di vite umane. Contro chi rimpiange l’armonia bucolica di un mondo scomparso senza ricordare che in quel mondo solo lo strato signorile della società poteva avvantaggiarsene, lasciando i contadini ad ammazzarsi di fatica, a morire per malattie oggi facilmente curabili, ad abitare in tuguri lerci e puzzolenti, mentre la mortalità infantile faceva strage di bambini denutriti. Un libro che ricorda la forza democratica del progresso, del consumo, della globalizzazione che strappa alla povertà interi continenti condannati a vivere in condizioni disastrose, dell’istruzione garantita a popoli costretti in passato all’analfabetismo, della diffusione di massa di consumi culturali insperati fino poche decine di anni fa.
Pensare che questo passato di stenti e di vita miserabile possa essere rimpianto come un Eden perduto testimonia della scomparsa di ogni elementare senso storico. Non sappiamo più da dove veniamo. Non abbiamo più la percezione dei tremendi costi sociali che la stagnazione economica, l’impossibilità di progredire, la subordinazione sociale, l’immobilismo culturale hanno gravato su un mondo che se non oltrepassava la soglia del chilometro zero, oggi idealizzato con rimpianto struggente, era perché non poteva conoscere quello che accadeva a più di un chilometro zero. Un mondo per cui lo slow food pativa la scarsità del food e la fatica disumana per procurarselo. Un mondo in cui i contadini di Ermanno Olmi venivano decimati al primo apparire di una malattia. Un mondo in cui la superstizione ostacolava persino i primi esperimenti di anestesia totale che avrebbero affrancato l’umanità da sofferenze indicibili. La non crescita era il vertice dell’infelicità. Questo libro ce lo ricorda.
il Fatto 7.12.14
Indagato l’ex presidente dello Ior
Avrebbe fatto la cresta sulla vendita di case del Vaticano
di Antonio Migliore

Nel 2004, dopo quasi quindici anni di presidenza dello Ior, Angelo Caloia dichiarava come durante il suo lungo mandato era riuscito a mettere a posto i conti della banca vaticana. Caloia avrebbe ricoperto quel ruolo per altri 5 anni, per un totale di venti, sostituito nel 2009 da Ettore Gotti Tedeschi. Da ieri sulla carriera di Angelo Caloia è comparsa una nota stonata, confermata in conferenza stampa dal portavoce della Santa Sede, Padre Federico Lombardi: l’ex presidente dello Ior è indagato dalla Magistratura del Vaticano per peculato. Assieme a lui anche Lelio Scaletti, ex direttore generale dello Ior e, in concorso, l’avvocato Gabriele Liuzzo.
L’INCHIESTA, condotta da Gian Piero Milano, Promotore di Giustizia del Tribunale del Vaticano, è del 2013 e i fatti risalgono al periodo compreso tra il 2001 e il 2008, quando i due dirigenti con la consulenza dell’avvocato hanno gestito la vendita di 29 immobili di proprietà dello Ior a compratori italiani, come riportato dalla Reuters. L’illecito è emerso nell’ultimo anno, durante alcune operazioni di verifica condotte dagli organi interni della banca. Il primo provvedimento preso è stato il congelamento dei conti dei due ex dirigenti indagati della banca vaticana, per un totale di 16 milioni di euro.
Classe 1939, lombardo, Caloia ha ricoperto la carica di presidente dello Ior dal 1989 al 2009. Professore ordinario di Economia Politica all’Università Cattolica di Milano, vanta una carriera di tutto rispetto: oltre agli anni nella banca vaticana, è stato presidente del Mediocredito Lombardo, e vice presidente del nuovo Banco Ambrosiano. Lunga carriera anche politica, nelle file della Democrazia Cristiana, di cui è stato segretario regionale in Lombardia, oltre a ricoprire il ruolo di sindaco di Castano Primo, suo paese natale. L’inchiesta che coinvolge l’ex presidente Ior e i suoi collaboratori è il risultato di una verifica avviata lo scorso anno da Ernst von Freyberg, che ha presieduto la banca vaticana dal marzo 2013 allo scorso luglio 2014, quando è stato sostituito dal francese Jean-Baptiste Douville de Franssu. L’attuale presidente, dopo la conferma dell’indagine ha dichiarato di essere “lieto che le autorità vaticane stiano agendo con risolutezza”. La verifica avviata dal suo predecessore ha fatto emergere sospetti sulla vendita di 29 edifici tra Roma e Milano, di proprietà dello Ior. Secondo le indagini del Promotore di Giustizia del Vaticano gli indiziati non avrebbero registrato gli effettivi ricavi derivati dalla vendita degli immobili, per un totale di quasi 57 milioni di euro (fonte Reuters). Gli anni a cui fanno riferimento gli ultimi fatti emersi, sono quelli tra i due pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Un periodo molto complesso, in cui tra la malattia del papa morto nel 2005 e la poca attenzione del “papa studioso” ai conti e alle faccende economiche, si è sviluppata una vera e propria lotta di potere all’interno del Vaticano, che ha creato tensioni tra i poteri forti.
Con quest’ultima inchiesta prosegue “l’operazione trasparenza” portata avanti da Papa Francesco per cercare di fare chiarezza nei conti del Vaticano e riacquistare credibilità tra i fedeli anche sul fronte finanziario. Dopo le vicende di Vatileaks, con il papa argentino in un’onda a ritroso tutti gli illeciti di quegli anni stanno venendo al pettine.
QUALCHE giorno fa il cardinale australiano George Pell, in un’intervista al settimanale Catholic Herald, aveva rassicurato sulle condizioni economiche dello Stato Vaticano, svelando l’esistenza di “fondi nascosti” che risolvono il deficit dichiarato nell’ultimo bilancio dello stato Vaticano. Pell aveva sottolineato anche le iniziali difficoltà incontrate dalla riforma finanziaria avviata da Francesco.

Corriere 7.12.14
Ior, lo scandalo degli immobili
di M. Antonietta Calabrò

La magistratura vaticana ha congelato 16,8 milioni di euro allo Ior e posto sotto indagine l’ex presidente della banca vaticana Angelo Caloia e l’ex direttore generale Lelio Scaletti: avrebbero lucrato dalla vendita di immobili dell’istituto.
«Peculato in affari immobiliari» Indagine sugli ex vertici dello Ior L’origine Lo scandalo La riforma La giustizia vaticana sequestra i conti di Caloia e Scaletti con 16,8 milioni ROMA Due conti sequestrati per 16,8 milioni di euro presso lo Ior, che per decenni l’ex presidente Angelo Caloia e l’ex direttore generale Lelio Scaletti hanno amministrato, dopo l’estromissione del vescovo Paul Marcinkus seguita al crac del Banco Ambrosiano.
Milioni che secondo il promotore di giustizia vaticano, Gian Piero Milano, potrebbero essere frutto di peculato dei due che nell’arco di sette anni (2001-2008) e sotto due Papi hanno venduto praticamente tutto il patrimonio immobiliare dell’Istituto per le opere di religione (allo Ior rimane in pratica un solo grande immobile in via della Conciliazione). Per la precisione, 29 immobili tra Roma (la gran parte ) e Milano. Una compravendita del valore di centinaia di milioni di euro. L’ipotesi accusatoria si basa sulle indagini della società di revisione Promontory, sull’ispezione interna condotta all’inizio del 2014 dall’Autorità per l’informazione finanziaria vaticana (Aif) e su una denuncia all’autorità giudiziaria vaticana dei vertici attuali dello Ior: Caloia e Scaletti avrebbero, in concorso con l’avvocato Gabriele Liuzzo, lucrato una cifra che sfiora i 60 milioni di euro. Promontory (chiamata in Vaticano dall’ex presidente von Freyberg) ha portato alla luce anche tutti i meccanismi attraverso i quali le compravendite sono avvenute e che avrebbero permesso l’illecito arricchimento.
Si tratta di un complesso giro di società paravento, di scatole cinesi, e soprattutto offshore , cioè di società domiciliate in paradisi fiscali, come le isole Bahamas, con un’imponente movimentazione di denaro contante.
Così è stato possibile che un indagato attualmente abiti a Roma sul colle Aventino in un appartamento che lo Ior ha venduto a una società offshore , società le cui quote sono però controllate dal medesimo indagato, che paga l’affitto a se stesso per abitare nell’appartamento che di fatto ora è suo. Al tempo stesso però quell’«affitto» finisce sistematicamente all’estero, al riparo dal fisco italiano.
Il Vaticano chiederà assistenza giudiziaria all’Italia, ma la stessa magistratura italiana potrebbe ora aprire sue indagini per la possibilità che le società «acquirenti» abbiano costituito un vero e proprio sistema per il riciclaggio che faceva perno sullo Ior e al tempo stesso era ad esso parallelo.
Gli acquirenti degli immobili sono tutti cittadini italiani.
Il «regno» di Caloia al Torrione Pio V è durato esattamente vent’anni, dal 1989 al 2009, quando per decisione dell’allora segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, venne sostituito da Ettore Gotti Tedeschi. Ci si può chiedere come mai Caloia, Scaletti e Liuzzo abbiano mantenuto fino a oggi quasi 17 milioni di euro presso la banca vaticana.
Una risposta a questa domanda va forse trovata nel fatto che il meccanismo messo in piedi si era bloccato poiché nel settembre del 2010, le segnalazioni dell’Uif della Banca d’Italia e le indagini della Procura di Roma portarono al blocco di tutti i conti dello Ior presso le banche italiane e alla creazione del primo nucleo delle nuove strutture antiriciclaggio vaticane.
«Siamo molto lieti che le autorità vaticane stiano agendo con risolutezza» ha commentato l’attuale presidente dello Ior Jean-Baptiste de Franssu.
M.Antonietta Calabrò

Corriere 7.12.14
I palazzi comprati attraverso società con sede alle Bahamas


Qualcuno ieri, dalle parti del Torrione di Niccolo V, sede dello Ior, ricordava una frase che ogni tanto il ragionier Lelio Scaletti si lasciava sfuggire: «Se parlo io, crolla l’Italia». Oggi Scaletti ha 88 anni e dal crac dell’Ambrosiano di Roberto Calvi sono passati più di trent’anni, eppure il richiamo dei mari caldi delle Bahamas sembra essere stato irresistibile per i vertici dello Ior fino quasi ai giorni nostri. Sono infatti registrate a Nassau alcune società che hanno acquistato gli immobili dello Ior, oggetto della compravendita per cui gli ex vertici dell’Istituto sono sotto indagine vaticana. Scatole cinesi, offshore, che si mettevano in pancia i palazzi dello Ior, società che sarebbero state controllate in parte anche da Caloia e Scaletti. L’indagine è partita dall’operazione di pulizia dei conti, cioè dall’operazione per chiudere quelli di persone che allo Ior il conto corrente ce l’avevano, pur non avendone diritto. Ed ecco che dal setaccio «emerge» il cospicuo conto del novantunenne avvocato Gabriele Liuzzo, che è appunto un professionista che non dovrebbe avere nessun rapporto con la banca vaticana. Vengono notate movimentazioni contestuali alle operazioni dei due ex dirigenti Caloia e Scaletti che in quanto pensionati hanno invece tutto il diritto di avere il conto. Liuzzo in un’intervista telefonica con la Reuters ha detto che le accuse del promotore vaticano sono «spazzatura». In realtà secondo Promontory (società di revisione che ha lavorato sui conti) gli immobili sono stati venduti a prezzi troppo bassi e le parcelle dei professionisti coinvolti erano eccezionalmente elevate. Ma quello che più ha allarmato è stato il sistema parallelo delle società offshore, una costellazione che acquistava e da cui andavano e tornavano sui conti dello Ior masse imponenti di denaro, decine di milioni di euro. Ancora una volta, dal Vaticano si arrivava a Nassau.M. A. C.

Corriere 7.12.14
Il sindaco della Dc voluto da Wojtyla nel dopo Marcinkus
Gestì l’Istituto negli anni di Mani pulite
di Marco Garzonio


L’apertura di un’indagine non è prova di colpevolezza. Per Angelo Caloia, indagato dalla Procura vaticana, forse è l’occasione per difendersi facendo conoscere all’opinione pubblica più vasta il lavoro di pulizia svolto nello Ior. Già, perché «il professore», come viene chiamato non solo per i titoli accademici cumulati in una vita d’insegnamento in Cattolica ma per il tratto riservato, sobrio, schivo da eminenza laica, è riuscito a non finire mai sotto i riflettori: né quando, nel 1989, fu chiamato da Wojtyla «a salvare lo Ior», travolto dagli scandali e dalle operazioni di Calvi, Sindona e Marcinkus, né vent’anni dopo.
Nel 2009, infatti, nella sorpresa generale, il cardinale Bertone lo sollevò dall’incarico con una telefonata, la sera, a casa. Un gesto fuori dalle regole del bon ton curiale: l’allora segretario di Stato avrebbe potuto comunicare a Caloia l’intenzione di sostituirlo con Gotti Tedeschi a solo un anno dalla scadenza naturale del mandato il giorno dopo, di persona, a Roma.
Erano stati almeno quattro fattori a convincere Agostino Casaroli, il cardinale dell’Ostpolitk, a rivolgersi a Caloia: le origini modeste e solide tipiche dell’ambrosianità (il padre artigiano lo portò come aiuto a montare le tapparelle alla Torre Velasca); gli studi in Cattolica e la specializzazione in Pennsylvania; la moglie inglese; l’esperienza amministrativa (fu sindaco a Castano Primo e poi segretario regionale della Dc). Ma forse l’input decisivo venne da un’iniziativa del 1984: Caloia istituì a Milano il Gruppo cultura etica finanza, che si riuniva presso il Mediocredito Lombardo, che lui presiedeva. All’apparenza informale, il Gruppo cominciò a radunare universitari, imprenditori, esponenti ecclesiastici di vaglia a partire da Attilio Nicora (vescovo che nello stesso anno firmò le modifiche al Concordato per la Santa Sede, con Margiotta Broglio per lo Stato), allora braccio destro di Martini, poi approdato in Vaticano e nel 2002 fatto presidente dell’Apsa, l’Amministrazione del patrimonio della Santa Sede.
Secondo alcuni il Gruppo avrebbe dovuto lanciare Caloia alla presidenza della Cariplo. La strada però venne sbarrata da beghe dc. Ma fu una fortuna per Caloia. Sempre senza apparire, divenne un catalizzatore della cosiddetta «finanza bianca», banchieri di matrice cattolica, contrapposti alla finanza laica dei Mattioli e dei Cuccia. Nel contempo, però, poté candidarsi a rappresentare la componente ideale, «di servizio» rispetto ad altri protagonisti del credito di matrice cattolica, come Geronzi e Fazio, che secondo le sue critiche erano arrivati ai vertici di istituti un tempo laici, perdendo per strada «l’identità cristiana».
Che lo Ior avrebbe rappresentato il banco di prova Caloia lo capì subito. Da poco era in sella, con i nuovi statuti che avrebbero dovuto garantire fini istituzionali e trasparenza, e lo Ior finì nel mirino di Mani pulite, per la maxitangente Enimont. Lo aspettarono al varco i suoi nemici interni in Vaticano, dai potenti legami con gli entourage di Andreotti e Cossiga. Ma Caloia la spuntò. E, conquistata la fiducia di Wojtyla ogni 5 anni ebbe il rinnovo della presidenza. Ora l’indagine sembra una nemesi, viste le ombre che in anni passati si allungarono sulla gestione di appalti e affari della Santa Sede, che misero in cattiva luce anche Bertone. Ma adesso Caloia è presidente della Veneranda Fabbrica del Duomo. E la Madonnina veglia sui suoi figli, nella buona e cattiva sorte.

Repubblica 7.12.14
Ma ora il Pd ha paura e prepara un piano B “Alle urne con Marino”
Dem in allarme per i nuovi scossoni dell’inchiesta Autosospesi gli indagati. Orfini attacca Berlusconi
di Giovanna Casadio


ROMA «L’onda del malaffare nel Pd è un’onda anomala, l’epicentro sta a destra, ma non mi pare che là qualcuno stia facendo un vero mea culpa. Berlusconi chiede le elezioni a Roma ma il suo governo rifiutò il commissariamento del Comune di Fondi... ». Matteo Orfini - a cui Renzi ha affidato la bonifica del partito capitolino - prepara la controffensiva in contatto con il premier e con il vice segretario dem Lorenzo Guerini. Però i timori tra i Democratici aumentano. In Campidoglio il prefetto potrebbe inviare dei “controllori”. L’inchiesta “Mafia Capitale” è lontana dall’approdo e potrebbe allargarsi a macchia d’olio. Il rischio che l’argine-Marino ceda, che la situazione della giunta capitolina precipiti è ben presente, mentre si sono autosospesi gli indagati del Pd: Ozzimo, Coratti, Patané. Il partito non può farsi trovare impreparato. A largo del Nazareno, la sede del partito, stanno preparando un “piano B”.
In queste condizioni, Orfini ha dovuto avvertire che se si andasse al voto «Ignazio Marino sarebbe il candidato unico». E ha anche annunciato la verifica a uno a uno degli 8 mila iscritti dem a Roma. Ha dato l’altolà alle fibrillazioni del Pd romano, in cui la bonifica è appena cominciata. Un modo inoltre per blindare la giunta, perché Orfini continua a ripetere: «L’interesse della città è di non andare a votare, Zingaretti e Marino sono i bastioni contro il malaffare ». Però l’incertezza regna sovrana. Mauro Miccoli, ex segretario capitolino del Pd prima di Lionello Cosentino, parla di «una instabilità che sta cedendo il passo a una maggiore stabilità politica». È ottimista. L’instabilità però c’è. La indica Roberto Morassut convinto che ci voglia un congresso cittadino e al più presto. Rosy Bindi, presidente della commissione parlamentare Antimafia, ha invitato il sindaco Marino a dotarsi di una task force «per individuare chi ha sbagliato e fare pulizia», oppure se vede che la criminalità è presente in altri settori oltre a quelli individuati di «richiedere lo scioglimento del Comune», insomma di autosciogliersi.
Il “piano B”, l’ipotesi cioè di trovarsi di fronte a un voto anticipato”, meno remota di quanto non si voglia fare credere, ha scatenato il toto candidati-sindaco. In cima ai papabili c’è Marianna Madia, la ministra della Pubblica amministrazione, stimata da Renzi, che alle parlamentarie per le elezioni politiche, accusò il partito a Roma di essere in mano ad «associazioni a delinquere». Parole pesanti che vennero soffocate. Renziano è Roberto Giachetti, tra i possibili candidati. Davide Sassoli sconfitto alle primarie con Marino, eurodeputato, potrebbe voler ritentare. La rosa dei nomi si allarga ad altri esponenti che raccoglierebbero un’area di consenso ampia, come Giovanni Malagò. La linea per ora seguita dal Pd è di serrare le file attorno alla giunta. Michele Meta, supporter di Marino, allontana qualsiasi altra idea. Rincara Orfini: «Noi tentiamo l’intervento chirurgico cioè dove ci sono problemi nel Pd romano si affrontano, poi si vedrà ». Morassut ha pubblicato un post su Facebok accolto da commenti in cui si chiede di ricominciare daccapo. «Orfini deve presentare una proposta politica, non si può stare in attesa degli eventi, non bastano le autosospensioni di chi è coinvolto che sono atti dovuti».
Sui social network c’è di tutto: gli sfoghi e l’orgoglio. «Il fango tenetevelo per voi», è la riscossa di chi difende il suo circolo. Orfini prevede la chiusura di alcuni circoli dove si sospettino infiltrazioni.

Repubblica 7.12.14
Micaela Campana
“Io, linciata per le vanterie di due mafiosi”
di Concetto Vecchio


ROMA . Ore 9 del mattino, il responsabile welfare del Pd Micaela Campana, bersaniana, risponde al telefono con voce angosciata.
Onorevole Campana, come va?
«Una merda. Sbattuta in prima pagina per due mafiosi che parlano di me fra di loro, senza che ci sia la possibilità di potersi difendere».
Da martedì non si fa vedere alla Camera, né ha risposto alle ripetute chiamate.
«Qui si sta giocando con la vita delle persone. Hanno messo di mezzo anche il mio collaboratore, una cosa indegna».
Buzzi, inercettato, sostiene di volerle dare 20mila euro per la campagna elettorale. È così?
«Falso. La conversazione risale a maggio 2013...».
Comunali di Roma?
«Sì, e io in quella campagna elettorale non ci sono. Ero stata candidata alle politiche tre mesi prima, in un listino bloccato, in una posizione molto favorevole: non avevo bisogno di finanziamenti».
Ma perché Buzzi si sarebbe inventato “mo’ se me compro la Campana”?
«E io che ne so?».
Quindi pensa che sia una vanteria nei confronti di Carminati?
«Sì, si fanno belli tra loro».
Ma tra lei e Buzzi correva una certa confidenza. Come spiegare diversamente l’sms, “bacio grande capo”?
«Ma no, quello è il mio modo di esprimermi, l’avrò scritto a milioni di persone».
Conferma che lui le aveva chiesto di presentare un’interrogazione alla Camera per la sua coop?
«Non l’ho presentata».
Perché?
«Non mi convinceva».
Ricorda su cosa verteva nello specifico?
«Non lo ricordo».
Com’è possibile che non lo ricorda?
«Il fatto decisivo è che non fu presentata. Questo è facilmente verificabile nella banca dati del sito della
Camera».
Chi era per lei Buzzi?
«Il capo della più grande coop del Centro Sud, un importante dirigente nazionale di Legacoop, a capo di un’impresa che fino a martedì scorso era un fiore all’occhiello nel campo sociale e nel reinserimento dei detenuti, e di cui tutta la sinistra andava orgogliosa».
I suoi rapporti sembrano particolarmente stretti.
«Non potevo non conoscerlo. Vada a vedere cosa facevano in via Cupra, come accoglievano gli immigrati del Nord Africa, davano lavoro a centinaia di persone, chi poteva mai immaginare? Quando io arrivo a Roma, a 19 anni dalla Puglia, inserendomi a Tiburtina, lui operava già da oltre un decennio. Ora apprendo con sconcerto dei suoi rapporti con Carminati».
Come l’ha conosciuto?
«All’epoca Buzzi era già attivo nel sociale e frequentava le iniziative del centrosinistra».
Lei è passata dalla circoscrizione a Montecitorio. Ci furono illazioni per la rapidità della sua ascesa?
«Ho iniziato giovanissima, servendo ai tavoli della Festa dell’Unità. Ho fatto molto partito, e poi come tutti le parlamentarie. Non è stata una carriera fulminea, come ho sentito dire in questi giorni con toni maliziosi».
Si dimette?
«Voglio leggere tutte le carte, è stata pubblicato solo la parte a me sfavorevole. Provo imbarazzo, rabbia. Mi difenderò. Anche con le querele ».

Corriere 7.12.14
Buzzi: «A noi ci manda Goffredo»
di Fiorenza Sarzanini


ROMA I soldi delle tangenti venivano nascosti in Svizzera oppure su conti correnti intestati a parenti e amici. Fedeli prestanome disposti a «coprire» il malaffare dei politici locali e nazionali che — secondo i magistrati romani — si erano messi al servizio dell’organizzazione guidata da Massimo Carminati e dal suo socio Salvatore Buzzi.
Era lui a gestire la «rete» all’interno della pubblica amministrazione. Aveva referenti ovunque. Si vantava di poter trovare anche la sponsorizzazione di Goffredo Bettini, europarlamentare del Pd e gran tessitore del partito a Roma. Le carte processuali svelano quanto invasiva fosse ormai la sua presenza all’interno delle istituzioni capitoline. E gli scontri nel centrodestra per spartirsi la «torta» con la minaccia di un consigliere contro l’allora sindaco Gianni Alemanno, ora indagato per associazione mafiosa: «È un tangentaro, io ve faccio arresta’ tutti».
Bettini sponsor
Il 17 marzo scorso Buzzi valuta con Luca Odevaine — anche lui ora in carcere — la possibilità di ottenere appalti all’interno del Centro per i rifugiati di Mineo, in Sicilia. Quello stesso giorno deve incontrare Gianni Letta proprio per affrontare la questione relativa ai centri per immigrati e vuole consigli.
Buzzi: «Che gli chiedo a Letta?».
Odevaine: «Secondo me a Letta je se potrebbe parla’ de quell’altra questione, quella della Regione Lazio».
Buzzi: «Ma lì servono, non è alla nostra portata, capito qual è il problema! A noi ce manda Goffredo con una precisa indicazione. (Annotano i carabinieri del Ros: “Si tratta di Goffredo Bettini” e poi allegano l’intera biografia)».
Odevaine: «No certo, alla portata nostra... mi hanno chiesto pure questi de “La Cascina” però non è che noi, la potremo fare con un partner».
La banca
Ci sono svariati «spalloni» al servizio di Carminati ma il viaggio documentato nella primavera scorsa potrebbe essere servito a trasportare in un istituto elvetico i soldi delle tangenti. Lo spiegano gli specialisti dell’Arma quando evidenziano come «nel corso degli accertamenti è emerso che alcuni sodali si recheranno in Svizzera per pianificare le successive attività di riciclaggio degli illeciti cespiti» e danno conto delle verifiche effettuate sul commercialista Stefano Bravo, uno degli indagati, che al telefono svela i suoi programmi. Si tratta, sottolineano i carabinieri, di una trasferta «per il 10 aprile a Milano, città di transito verso la destinazione finale in territorio elvetico, finalizzata al compimento di operazioni bancarie di significativo interesse per l’indagine». Scatta il pedinamento e viene individuata la banca dove sarebbe stata portata parte dei soldi. Passo fondamentale per chiedere la collaborazione delle autorità locali e accedere alla movimentazione.
La mamma di Odevaine
I proventi illeciti che sarebbero stati percepiti da Odevaine sono stati invece rintracciati. Il politico del Pd ha investito parte del suo patrimonio in Venezuela, ma per nascondere il denaro in Italia si è servito dei conti di madre e figli, tanto che alla fine neanche lui sapeva bene dove fossero finiti. In una telefonata intercettata il 14 marzo 2014 dà disposizioni al commercialista Marco Bruera: «Intanto a mia madre gli facciamo le ritenute, 3.200 a Maribelita, ce l’hai l’Iban?, 800 per cui gli fai una roba di rimborso spese poi dopo quando c’abbiamo la scheda carburante. Qui metti un trasferimento di fondi... L’iban di mia madre ce l’hai?».
Scattano i controlli e si scopre che l’anziana signora gestisce svariati conti. Non è l’unica. Quattro giorni dopo, sempre parlando con il professionista, Odevaine dice: «È un casino per me capito? Perché io c’ho conti che uso io ma che sono di mia figlia, di mio figlio, Alessandra, Maribelita». Scrivono i carabinieri: «Con la complicità di alcuni collaboratori Odevaine organizzava operazioni finanziarie che transitavano su conti intestati ai suoi congiunti con la finalità di occultare le dazioni in suo favore».
«A Ozzimo 2 milioni»
Il 23 gennaio 2014 c’è una riunione negli uffici di Buzzi alla quale partecipa anche Carminati. Si fa un bilancio delle attività e Buzzi afferma: «Ieri sono stato da Marini che m’ha stampato le delibere dei 7 milioni e 2 al Comune di Roma. Bisogna anda’ da Ozzimo, io c’ho preso appuntamento per mercoledì perché dovremmo fa’ un progettino quindi Ozzimo ce ne da 5, noi gliene avemo portati 7 lui ce guadagna 2 milioni». Da pochi giorni è finito in carcere Luca Fegatelli, il direttore dell’Agenzia regionale per i beni confiscati. Buzzi lancia l’idea: «I beni passano a Ozzimo, stavamo a studia’ ieri un’ipotesi che lui vole fa... prende i beni della mafia, prenderli e mettece dentro gli immigrati». Ozzimo lo chiamano «il padrone».
«Rovino Alemanno»
I finanziamenti a pioggia che arrivano al centrodestra provocano un durissimo scontro tra Luca Gramazio e il consigliere comunale pdl Patrizio Bianconi che nel gennaio 2013 si lamenta perché non gli arrivano i soldi per la campagna elettorale: «Io vado a San Vitale e a quel tangentaro di Alemanno gli rompo il culo... le gambe tendono ad andare verso la questura, sono state date tangenti a destra e a manca, l’unico pulito sono io e adesso mi sono rotto».

Corriere 7.12.14
Renzi e l’occasione per prendere la Capitale, roccaforte ancora ostile


ROMA Certo non gli ha fatto piacere. Anzi. Finché si trattava del numero degli astenuti in Emilia-Romagna, è riuscito a tenere botta bene, perché in fondo, in quella tornata, nonostante il calo dell’affluenza alle urne, ha confermato una regione al Pd e un’altra — la Calabria — l’ha strappata al centrodestra. Ma il caso di «Mafia Capitale» lo ha digerito assai peggio.
Primo, perché, come ha spiegato «ha oscurato l’approvazione del Jobs «ct e la chiusura della vertenza Ast». E questo gli ha dato non poco fastidio, visto che «fatti» del genere, insieme agli altri che seguiranno (la riforma elettorale al Senato e quella sul bicameralismo alla Camera) gli serviranno a dimostrare che «non sono malato di annuncite», ma passo «dalle parole ai fatti» e le mie «non sono chiacchiere», come qualcuno «racconta».
Ma alla fine Renzi sta cercando di risolvere anche questa brutta storia a modo suo. Ossia, cercando di trarre del «buono» dal «cattivo» che è toccato in sorte. L’uomo è pragmatico. E non ha mai fatto mistero di «non essere quel politico improvvisato che qualcuno si immagina», ma «uno che legge i dossier, si prepara e poi, dopo aver studiato bene la situazione, decide». Per questa ragione, prima di trovare la soluzione per la questione romana, ha impiegato qualche ora di tempo. Quel tanto che gli serviva per capire che c’era del «marcio», che Marino andava «salvaguardato», e che il Partito democratico capitolino doveva essere decapitato. L’ultima tappa, in fondo, non gli è dispiaciuta poi troppo, perché il pd romano era una delle sacche più forti di resistenza al renzismo, anche se formalmente tutti o quasi, si erano convertiti al nuovo corso. La Capitale, come altre città italiane, del resto, era uno degli avamposti della vecchia «ditta» (intendendo per tale, in questo caso, non solo quella costituita dai ds ma anche quella proveniente dalla fu Dc) che cercava di «cambiare verso» a modo suo.
Perciò la prima mossa è stata quella di chiedere a Lionello Cosentino di farsi da parte. Si è detto e raccontato che è stato lo stesso segretario della federazione romana a decidere di fare un passo indietro. In realtà le cose sono andate diversamente. Cosentino, che alle primarie non si era schierato con Renzi, sperava di assumere lui il ruolo di commissario. E invece gli è stato spiegato che doveva andare via. Lui ha fatto resistenza. Al Nazareno sono volate parole grosse e per i corridoi della sede del Pd si sono sentite voci alterate. Ma alla fine, la linea Renzi è uscita vincente. A quel punto il premier si è trovato di fronte a due scelte: affidare il commissariamento al vicesegretario Lorenzo Guerini o al presidente Matteo Orfini.
Non volendo scontentare più di tanto la minoranza, che non vuole umiliare, perché gli serve nel grande risiko del Quirinale, il segretario ha proceduto a una consultazione lampo, sentendo le diverse anime del partito. Ha chiesto a chi conta nella Capitale quale fosse il nome preferito. «L’unico che non ha consultato è stato Nicola Zingaretti» si lamentano però gli uomini del presidente della regione Lazio, i quali temono che in questa partita una delle vittime sarà il loro leader. Che rappresenta una delle sacche di resistenza del Pd al renzismo imperante. Non a caso, ogni tanto si parla di lui, come del possibile competitor di area ds all’ex sindaco di Firenze.
Alla fine la scelta è caduta su Orfini. Uno che prende molto sul serio il suo lavoro, che conosce Roma, e che non è tipo da fare passi indietro, tant’è vero che ha già annunciato ai segretari dei circoli: «Sono pronto a chiamare uno a uno tutti gli ottomila iscritti al partito, voglio sapere chi sono, perché hanno aderito, da dove vengono...». In parole povere, anche nella Capitale, che con la consueta pratica della resistenza passiva era riuscita a tenere a bada il renzismo, si sta facendo strada il nuovo corso.
Certo, le polemiche non sono finite. E nemmeno i timori di nuovi sviluppi. Ma per ora su Micaela Campana, coinvolta nella vicenda per un sms a Buzzi, il Pd ha deciso di non muoversi. «Non facciamo di tutta l’erba un fascio» è il ritornello del premier.
La deputata del Pd, bersaniana di ferro, non è indagata, quindi non si autosospenderà dalla segreteria. Né il premier, finora almeno, glielo ha chiesto. Forse, per ragioni di opportunità, le verranno cambiate le deleghe (al Welfare e al terzo settore) che ha nell’organismo dirigente del partito.
Per il resto, c’è la minoranza, Rosy Bindi in testa, che continua a tentare di mettere in difficoltà Renzi su questa vicenda, ma lui con i fedelissimi fa spallucce e dice: «Ci sono strumentalizzazioni e provocazioni alle quali non vale neanche la pena replicare».

Repubblica 7.12.14
Istruzioni per l’uso dei fondi ai partiti
di Nadia Urbinati


ALLA domanda se sia vera la voce che circola sui media secondo la quale Salvatore Buzzi o qualche altro indagato nell’inchiesta Mafia Capitale abbia partecipato alla cena di finanziamento del Pd, Matteo Renzi ha riposto che lui «non ne ha la più pallida idea». Una risposta molto insoddisfacente. Se si vuole con coerenza gestire il sistema di finanziamento privato dei partiti non si può non sapere; si deve fare in modo di sapere bene e tutto, di conoscere uno per uno i contribuenti e i donatori, anche qualora si tratti di avventori casuali di una cena per la sottoscrizione. La responsabilità aumenta e chi dirige deve avere idee chiare, non pallide. Se il solo modo che un partito ha per finanziarsi è andare sul mercato libero alla ricerca di sostenitori, allora occorre che i regolamenti dei partiti approntino delle norme di sicurezza specifiche, un sistema di paratie adatto al regime privatistico. Tutti i partiti hanno voluto immettersi in questo regime proprio per rispondere all’ondata di indignazione popolare causata dai ripetu- ti scandali. Ma per non cadere dalla padella alla brace occorre prevedere nuovi livelli di responsabilità, di trasparenza, di controllo e di repressione, se possibile ancora più severi di quelli in uso nel sistema di finanziamento pubblico. Diversamente, non si comprende bene quale utilità possa venire ai cittadini e al sistema politico.
Sembra essere ad ogni modo un segno di improvvida ingenuità pensare (come si è pensato sostenendo la legge votata dal Parlamento a fine febbraio 2014) che con l’abolizione dei finanziamenti pubblici il sistema dei partiti avrebbe guadagnato in onestà e le casse pubbliche subìto minori vessazioni. Le norme non cambiano il carattere morale degli attori, o comunque non repentinamente. E nella speranza che il cambiamento avvenga celermente è necessario predisporre norme severissime di controllo per disincentivare ex ante le tentazioni di abuso. Diversamente, non resterà che sperare nell’efficacia dell’azione repressiva dello Stato, una soluzione che, come si intuisce, non sposta di una virgola le cose. Come prima, quando c’era il finanziamento pubblico, anche ora si deve sperare nella repressione, che comunque arriverà sempre dopo che i fatti cri- minosi sono avvenuti. Stando così le cose, è davvero difficile comprendere quale sia la grande differenza tra il passato e il presente, e quale convenienza sia venuta alla legalità da questa legge che doveva bonificare la vita politica. Non vale il lamento per cui da noi si fanno riforme gattopardesche per non riformare nulla. Questo gesuitis modi comodo, mentre non spiega proprio nulla, serve in effetti a giustificare tutto. E a riempire le cronache quotidiane di scandalismo.
Abbiamo varie volte messo in dubbio la prudenza di una legge che privatizza completamente le risorse ai partiti. Il caso statunitense prova la ragionevolezza di questo scetticismo, come sanno bene i giuristi e gli opinionisti americani che da anni combattono inutilmente per limitare e meglio controllare l’uso di risorse private nelle campagne elettorali. La trasformazione della politica in una merce ha effetti che sono comunque di corruttela. In che senso? Esistono due forme di corruzione, una che deriva dalla violazione delle leggi e una che deriva dalla violazione dei principi democratici. Nel caso del finanziamento privato la seconda forma di corruzione si fa ancora più grave, perché lasciando che siano solo i privati a finanziare i partiti si finisce per dare alle differenze economiche la possibilità di tradursi direttamente in differenze di potere di influenza politica, anche quando i donatori non chiedono esplicitamente ai legislatori di operare per loro.
E che dire dell’altro argomento usato per giustificare l’abolizione del finanziamento pubblico, ovvero che se non altro avrebbe sgravato le finanze pubbliche di un peso ormai insopportabile? I recentissimi fatti romani sembrano smentire questo argomento in maniera evidente. Infatti, è comunque sempre a spese del pubblico che vengono fatti i calcoli affaristici. La borsa pubblica è quella che viene presa di mira; e la si può violare sia usando impunemente le risorse che contiene, sia servendosene per ripagare in qualche modo per i finanziamenti privati ricevuti (per esempio truccando gare di appalto, assegnando commesse, chiudendo il classico occhio, e così via). In tempi come il nostro di forte e persistente disoccupazione viene il sospetto che il mercato della politica sia il solo mercato in movimento, la sola azienda in attivo. Senza che questo porti giovamento al paese.

Corriere 7.12.14
Corruzione, le troppe chiacciere degli smaliziati
di Ernesto Galli della Loggia


Non è più Tangentopoli, ormai. È Mahagonny, la città immaginata dalla fantasia di Brecht e Weill dove è legge l’assenza di legge (Mahagonny: e dunque chi se ne importa se il termine «mafia» non è proprio quello filologicamente più appropriato). Non è più, insomma, la collusione dell’epoca di Mani pulite tra industriali senza scrupoli e politici pronti a vendere e a vendersi. Ormai è l’intreccio sempre più organico tra politica, amministrazione e malavita. È — si direbbe — la fase immediatamente precedente la conquista del potere direttamente da parte del crimine. Chiamiamo le cose con il loro nome: almeno fino alla settimana scorsa a Roma, nella capitale d’Italia, non era proprio questo all’ordine del giorno?
Non è vero che la politica, perlomeno quella nazionale — come ci viene detto — è sbalordita, è sconvolta, è pronta a correre ai ripari. Non ha forse il ministro dell’Interno Angelino Alfano detto l’altro ieri che«Roma non è una città marcia, Roma
non è una città sporca, è una citta sana»?
E come no, deve essere senz’altro così, visto che nessuno dei tanti personaggi importanti che si sono mossi per anni su quella scena — da Veltroni a Zingaretti, dalla Meloni a Tajani, da Gasparri a Sassoli — ha mai fatto una piega, si è mai accorto di nulla, ha mai detto qualcosa.
E visto che in tutto questo periodo neppure ad uno dei tanti egregi procuratori della Repubblica succedutisi a Roma prima di quello attuale è mai capitato d’interessarsi
di quanto sta venendo fuori oggi. Così come del resto a nessuno, a Roma o fuori Roma, sembra che abbia mai interessato il fatto che da anni, ogni volta che c’è un caso di corruzione politico-affaristica (dall’Expo al Mose, a Roma, appunto), ogni volta spunta immancabile lo zampino di qualche società affiliata alla Lega delle cooperative. Chissà come mai.
In Italia funziona così. Porre questioni scomode o guardare in fondo alle cose non usa, in politica meno che altrove. Ovvio dunque che di fronte all’arrembaggio capitolino di galantuomini come
«er cecato» e «er maialotto», si pensi che la risposta adeguata sia una manciata di autosospensioni e dimissioni o lo scioglimento di una federazione di partito (quella del Pd romano: peraltro già ridotta
da tempo a un Ok Corral per politicanti affamati di quart’ordine): misure già tutte viste e riviste mille altre volte in mille occasioni analoghe. E di cui tutti, quindi,
sono in grado di apprezzare l’efficacia.
L a verità è che finché al centro della scena c’era Berlusconi, ogni caso di pubblica corruzione suscitava, per ragioni ben note, un dibattito accesissimo tra presunti «garantisti» e presunti «giustizialisti», e rispettive vaste tifoserie, divenendo immediatamente un terreno di scontro politico. Oggi invece, tramontata la presenza dell’ex Cavaliere, e spappolatosi il centrodestra, di fronte a fatti come quelli di Roma non sembra esserci più posto, nel campo della politica, che per una maggioritaria tendenza alla sordità, a «ridimensionare», e per quanto riguarda il modo di reagire, ad attenersi, come si dice, al «minimo sindacale».
Prevale ormai tra gli addetti ai lavori il partito trasversale degli «smaliziati». Quelli che per l’appunto, di fronte a mezzo Comune di Roma al servizio del malaffare, irridono alla «Corleone dei cravattari», fanno un sorriso di sufficienza ogni volta che sentono risuonare dopo un sostantivo l’aggettivo «morale», e giudicano dall’alto in basso gli sprovveduti che di politica capendoci poco, sono solo capaci di augurarsi, molto banalmente, che ci sia in giro un minimo di decenza. Gli «smaliziati» di professione, i quali — mischiando l’ottimismo craxiano-berlusconiano di un tempo con l’antigufismo renziano attuale — non sopportano giustamente che si parli di declino dell’Italia, di crisi storica del Paese, facendosi beffa di qualunque ragionamento critico cerchi di guardare oltre l’oggi, di chiunque evochi i problemi antichi della Penisola. Perché conta solo la politica. Naturalmente la politica che c’è: cioè la politichetta de’ noantri , quella della chiacchiera non stop giornalistico-televisiva-romana, 24 ore su 24.
Quella politica che si ostina a non capire che il Paese ha certo bisogno delle riforme istituzionali e della ripresa economica, del Jobs act, di un altro Parlamento, degli 80 euro e via di seguito. Ma che nulla di tutto ciò servirà minimamente, si può essere certissimi, se non ci sarà qualcosa d’altro. Chiamiamola come vogliamo — uno scatto morale, un nuovo sentimento nazionale, una voglia collettiva di riscatto — ma insomma qualcosa a cui la politica deve essere capace una buona volta di dare voce, un segnale da trasmettere alle menti e ai cuori di quei milioni di «sprovveduti» che pur con tutti i limiti e le contraddizioni che conosciamo costituiscono la maggioranza degli italiani. Un segnale forte di serietà, di decisione, e una buona volta di capacità di colpire per primi. Siamo stufi di vedere all’attacco sempre gli «altri» e «noi» colpire sempre di rimessa.

il Fatto 7.12.14
L’intervista. Luciana Castellina
Il Secolo Breve non fu soltanto orrori e ora voglio fondare il partito dei nonni
di Silvia Truzzi


Roma Ne La prigioniera Proust sostiene che le “passioni politiche sono come le altre, non durano” perché sopraggiungono nuove generazioni che non le capiscono più e perché la stessa generazione che le ha provate cambia. Se è una verità, non è universale, o almeno così sembra in questo salotto ai Parioli, dove Luciana Castellina sta seduta su un divano, dritta come un fuso. Attorno a lei, la luce che ancora oggi - le primavere sono 85 - la bellezza diffonde. La sua è una storia tutta sulla strada tra Roma, dove è nata, e Trieste, dove abitano le radici più forti. “Mica tutti i pezzi di famiglia hanno lo stesso peso. La parte importante per me è quella materna. Mio nonno era ebreo: gli ebrei sono invadenti, arroganti e quindi hanno pesato di più. Mia madre e mio padre si sono separati quando avevo quattro anni. L’avvocato Pacelli, il fratello del Papa, dietro l’esborso di molti quattrini, aveva fatto annullare il matrimonio davanti alla Sacra Rota, che in pratica non c’era stato: e io non si capiva bene come avessi fatto a nascere. Mi pareva molto strano da bimba, anche se loro sono sempre rimasti amici”. Molte cose si spiegano già qui. “Il mio nonno Liebmann era un hippie ante litteram, era scappato a 17 anni da Trieste insieme a Oberdan per non fare il servizio militare nell’Impero austroungarico. Ho trovato un libro, La vera vita di Guglielmo Oberdank di uno storico inglese, che riporta tutta la corrispondenza con il nonno. In cui viene anche detto che la famosa storia dell’incontro tra Oberdan e Garibaldi a Roma - in cui Oberdan gettandosi ai piedi di Garibaldi gli chiede di liberare Trieste - era una bufala, inventata di sana pianta da mio nonno. Aveva fatto il pittore, poi è andato in Egitto, è tornato, ha conosciuto la nonna che veniva da una famiglia di possidenti agrari di Tarquinia, supercattolici. Non li fecero sposare. Per la disperazione il nonno andò in Argentina. Dopo otto anni la nonna trovò il suo indirizzo, lo cercò e lui la invitò a raggiungerlo, con un telegramma di una sola parola: “Vieni”. Lei scappò con la nave da Genova. Era il 1890. Sono sempre stati poveri, ma si amavano moltissimo”.
Lei è cresciuta a Roma, però.
Esattamente qui. Ho frequentato il Tasso. I miei compagni erano Citto Maselli, Carlo Bertelli, Lietta Tornabuoni. Ma io ero molto piccola, molto ragazzina. Fino a 16 anni non mi erano neanche cresciute le tette, tutte le mie amiche erano donne fatte, io ero magra come un chiodo e sembravo una bambina: m’imbarazzava molto. Per tutti ero l’amico Lucianina, al maschile.
Che ricordi ha del Fascismo?
Ero compagna di scuola di Anna Maria Mussolini, con lei ho fatto tutte le elementari e le medie. Andavo a giocare a Villa Torlonia. Il 25 luglio del ‘43, io stavo giocando a tennis con Anna Maria a Riccione. A un certo punto la partita fu interrotta, vennero due guardie del corpo e le dissero che doveva andare via subito perché il padre era stato arrestato. Non avevo ancora compiuto 14 anni. La mattina dopo, nel retro di un quaderno scolastico, iniziai a scrivere il mio “diario politico”. Che comincia proprio così: “Oggi è caduto il Fascismo. ” Registravo un evento misterioso, perché di cosa fosse il non fascismo io non avevo minimamente idea. Questo diario l’ho tenuto fino al ‘47, quando mi sono iscritta al Partito comunista.
A casa sua che aria tirava?
Un antifascismo da barzellette sui gerarchi, non molto di più. Nel ‘44 quando liberarono Roma, io decisi di saltare la V ginnasio e andare direttamente al liceo. Non sapevo bene né il latino né la matematica: mi consigliarono di andare a lezione a casa Apicella. Una mia compagna di scuola, tra l’altro molto fascista, mi disse che c’era la madre che insegnava matematica e la figlia Agata che insegnava latino: con un viaggio solo in bicicletta risolvevo entrambe le questioni. Agata era la mamma di Nanni Moretti: quando è morta ho fatto la sua commemorazione in chiesa. Erano tutti antifascisti, gli Apicella, in un modo molto consapevole: è stato un incontro importante.
La politica arriva subito.
Ho finito il liceo nell'estate del ‘47, nel frattempo mi ero avvicinata al Partito comunista. Nel ‘45, Roma era già stata liberata, fu organizzata una grande manifestazione per Trieste italiana, una cosa che io avevo succhiato con il latte. Alla manifestazione, arrivati in piazza Esedra, i comunisti ci picchiarono di santa ragione. Noi non sapevamo che la nostra manifestazione era stata promossa dai fascisti. Che infatti dettero l’assalto a mano armata alla sede del Pci, allora nella vicina via Nazionale. Mentre ero sui gradini di piazza Esedra, venne fuori dalla sede del Pci un gruppo di persone. Tra cui un certo Iacchia, triestino: fece un comizio improvvisato che mi colpì molto: disse tante cose che non sapevo. Intanto perché a casa mia gli sloveni venivano chiamati sciavì, cioé schiavi. La prima pulizia etnica ce la siamo inventata noi, perché negli anni Venti i fascisti cacciarono tutti gli sloveni dal Friuli. E ne ammazzarono moltissimi. M’incuriosì il Partito comunista e andai a trovarlo a scuola: e così incontrai Citto e tutti gli altri animatori del circolo Tasso. Che cominciai a frequentare: allora volevo fare il pittore.
Perché il pittore, al maschile?
Non so, pittrice non mi viene naturale. Comunque la prima cosa che il Pci mi ha chiesto di fare era una conferenza sul Cubismo, e così attraverso il Cubismo entrai in contatto con il comunismo. Finito il liceo andai al Festival della gioventù a Praga e poi a vedere la Jugoslavia, visto che nella mia vita era stata così importante la vicenda di Trieste. E andai a costruire la ferrovia: sono udarnik, che è il diploma di stakanovista perché avevo un alto livello di produttività. Sono stata un mese e mezzo lì, con una brigata internazionale: ero l’unica italiana, c’erano indiani, indonesiani, ragazzi da tutto il mondo. Paesi di cui io nemmeno sospettavo l’esistenza. Sapevo il tedesco e il francese, l’inglese l’ho imparato lì. Poi tornai, ripassai per Trieste con la tuta e il distintivo. La zia Ester come prima cosa mi disse: “Vai a farti la doccia e togliti quella roba di dosso”.
E quando s’iscrive al partito?
Nel ‘47, c’erano le prime elezioni amministrative a Roma. Alla vigilia, in piazza Vittorio fu accoltellato un ragazzo, Gervasio Federici, mentre appiccicava dei manifesti della Dc. Furono accusati dei giovani comunisti, che si fecero un po’ di anni di galera. Questo episodio diede inizio a tempi oscuri: il periodo delle speranze era finito, il mondo si era richiuso. Entrare nel partito significava fare qualcosa di più. Intanto mi sono iscritta a Legge, anche se non credo di aver mai assistito a una lezione. All’università ci stavo sempre, perché ero segretaria della sezione universitaria. Ho scelto Legge perché quando mi sono iscritta al Pci avevo un grande complesso d’inferiorità: erano tutti così colti... Avrei scelto Filosofia, ma non pensavo di essere abbastanza intelligente. Volevo diventare economicamente autonoma, e dunque ecco perché Legge. Ho fatto la pratica per un anno, ma ho sempre lavorato per il partito.
Il partito di Togliatti.
Era un uomo di straordinaria intelligenza e di grande fascino. Basta pensare ai suoi funerali: una cosa immensa, un oceano di folla. La prima volta che arrivò a Roma quasi un milione di persone. Togliatti parlava come un professore di liceo, il contrario del populismo, della demagogia. Faceva dell’Unità un giornale di alta cultura: nonostante tutte queste cose, era amatissimo. Il partito comunista, all’inizio, era una massa informe di ribelli, soprattutto in Meridione. Fu Togliatti a trasformare questa ribellione in un soggetto politico inserito nel processo democratico. La democrazia in larga parte è stata costruita dai grandi partiti di massa. E specialmente dal Pci.
Che militante era lei?
Io ho fatto molta milizia bruta. Andavo nelle borgate. Il Pci ebbe l’intelligenza di capire che a Milano c’erano gli operai, ma a Roma il popolo era il sottoproletariato: le borgate erano piene di prostitute e ladri.
Andavate a galvanizzare le masse, direbbe Guareschi.
Si trattava proprio di educarle, le masse: queste persone non sapevano nulla, erano davvero ignoranti. La prima cosa della democrazia è trasformare le persone da sudditi in cittadini. Adesso quando vedo la democrazia ridotta agli I like it, o I don't like it…
Che pensa del partito di Matteo Renzi?
Non mi piace innanzitutto perché ha ridotto la democrazia a un sondaggio su quello che fa e decide lui. In questo Paese è stata cancellata la memoria politica. Io voglio fondare il partito dei nonni, e ho già trovato molte adesioni. C’è stata una rottura generazionale, più forte in Italia che in qualsiasi altro Paese. E non è stata un'operazione indolore. Mi riferisco allo scioglimento del Pci: la rimozione del passato è stata un'abiura. Ed è rimasta un’idea falsa, cioè che tutto ciò che si è fatto nel Novecento siano stati errori e orrori.
La Bolognina sembrava l’unica strada possibile.
Nessuno si ricorda che ci fu un’opposizione fortissima! Il Pci fu sciolto in due tempi: il primo congresso cui fu portata la proposta, a Bologna nell’89, e poi dopo un anno di discussione, nel gennaio del ‘91, il partito fu definitivamente sciolto. In quel periodo 800mila militanti se ne andarono silenziosamente, perché gli era stata spezzata la spina dorsale. Dicendo che tutto era stato sbagliato: non ce n’era bisogno, non era vero. Senza il Partito comunista in Italia non ci sarebbero state le conquiste operaie, il sistema sanitario nazionale, le pensioni, la scuola. E anche la Resistenza è stata fatta largamente dai comunisti. La vita sociale, poi: non c’era un paese in Italia la cui piazza principale non ospitasse la sede del partito e del sindacato. Questo ha voluto dire la crescita di una coscienza civica. Certo che gli errori dell’Unione Sovietica erano stati terribili.
La rottamazione del Pci è stata l’inizio di tutti i
guai?
Non solo questo. Anche il berlusconismo è stato un tentativo di cancellare il passato. Berlusconi è riuscito a convincere la gente che i comunisti fossero sempre stati al governo... invece la cosa straordinaria del Pci era che era riuscito a cambiare il Paese stando all’opposizione, a incidere sulla politica in modo profondo. È stato presentato un secolo altro, diverso. Lo vedo anche con i miei nipoti: i giovani non sanno più nulla. Se cancelli il passato, cancelli anche l’avvenire. Resta solo la gabbia del presente.
Poi dal partito l’hanno cacciata.
Avevamo praticato un atto d’indisciplina: fondare una rivista in dissenso non solo sui rapporti con l’Unione Sovietica, quella fu una tra le ragioni. Cioè dire non si tratta di errori, si tratta di rivedere criticamente tutta questa storia. Cosa che Berlinguer ha fatto, dieci anni più tardi. Se l'avesse fatto prima, quando la sinistra era molto forte, avrebbe acquistato il significato di una critica da sinistra. La critica fatta nell’81, quando era già in atto la controffensiva delle destre - thatcheriana, reaganiana - ha assunto un significato pesante: il socialismo non è possibile. Ma le nostre critiche erano anche su un altro terreno, e non secondario: dicevamo che ormai l’Italia era un Paese a capitalismo avanzato dove si erano create nuove contraddizioni. E così vennero fuori la questione ecologica, il consumismo, l’alienazione del lavoro. Essere radiata fu un trauma enorme per me, come se mi avessero gettato dalla finestra. Ma c’era il ‘68 tutto attorno e non mi ritrovai nel vuoto. A me sembrava impossibile fare politica al di fuori del Pci. Per fortuna, cadendo dalla finestra atterrai su un terreno molto coinvolgente, quello del movimento.
Il manifesto di oggi?
Ci scrivo ancora, è fatto da una generazione - a parte direttore e condirettore - giovane, che ha perso un po’ di memoria. Questa generazione è più fragile, noi avevamo un’esperienza politica molto coinvolgente, strutturata. Il manifesto non è nato come giornale, è nato come iniziativa politica. Adesso è un giornale.
La vita pubblica si è intrecciata anche alla vita privata in quegli anni.
Con Alfredo Reichlin, il padre dei miei due figli, ci siamo separati all’inizio degli anni Sessanta. Siamo rimasti molto amici. Alfredo mi ha insegnato molte cose: lui era già un intellettuale, io ero una ragazzina militante di base. Quando era direttore dell’Unità andavamo qualche volta a cena da Togliatti. Era un uomo simpatico, colto, gradevole, ironico. Dopo una vita di esili, clandestinità, guerra di Spagna, dopo un’esistenza difficile, in Nilde aveva trovato una donna normale. Gli piaceva aiutare ad apparecchiare, perché voleva una casa in ordine, una bella tavola dove accogliere gli amici. Gustava la normalità di un rapporto che non aveva mai avuto e lei è stata molto intelligente perché ha liberato l’immagine delle donne comuniste, viste come delle erinni. La militanza si poteva conciliare con l’idea di femminilità, di accoglienza.
E Lucio Magri?
L’ho incontrato all'inizio degli anni Cinquanta. Siamo stati insieme molti anni. Lui ha avuto una grande influenza politica su tutti noi. Ho cercato di impedirgli in tutti i modi di suicidarsi: quel gesto è stato il frutto di una depressione fortissima. Una depressione politica - dal 2004 la sinistra ha cominciato a degenerare - e lui si è chiuso a casa in un rifiuto totale, assoluto. Poi la morte di Mara è stata molto dolorosa. Noi due ci siamo visti e sentiti fino alla fine. Sono sempre rimasta legata ai miei ex compagni: non ho una famiglia ma una tribù, una relazione molto più interessante e varia.
Con Magri siete stati anche deputati insieme.
Ho fatto una prima legislatura con il PdUP. Cioè Dp, la sigla collettiva con cui ci presentammo alle elezioni del ‘76 con Lotta continua e il gruppo di Vittorio Foa, i socialisti dello Psiup, la sinistra del partito socialista. Io ero presidente del gruppo parlamentare, eravamo pochi, bisognava occuparsi di tutto. E imparare tutto: sanità, scuola, politica estera. Quando noi entrammo, il Parlamento non aveva mai visto un gruppo così piccolo, non sapevano che farsene di noi. Non c’erano nemmeno i locali. Ci dissero di andare con i radicali, che erano stati eletti in quattro. E noi: con i radicali mai!
In quegli anni i rapporti con gli ex compagni del
Pci com’erano?
Violentissimi. Ci dicevano: ma chi vi paga? Poi hanno chiesto scusa. Giorgio Napolitano è stato uno dei nostri principali oppositori, perché noi nel Pci eravamo parte dell’ala ingraiana. Berlinguer era più possibilista. Tanto è vero che Enrico nel 1984 venne al nostro congresso, ci chiese di rientrare visto che molte delle ragioni che ci avevano diviso erano state superate. Lui aveva operato lo strappo con l’Urss e abbandonato la linea che aveva portato ai governi di unità nazionale. Aveva, insomma, operato una svolta a sinistra. Accettammo. Erano passati 15 anni, pochi mesi dopo Berlinguer purtroppo è morto. E noi rientrammo in un Pci che aveva preso una deriva di destra. Tanto è vero che qualche anno dopo si è sciolto.
Torniamo indietro di qualche anno. Suscitò molto clamore il suo arresto in Grecia, nel ‘67.
Sono stata la prima giornalista arrestata dai colonnelli. Collaboravo con Paese sera, dove avevo già lavorato. Arrivai ad Atene e il colpo di Stato non si vedeva, avevano messo duemila persone arrestate nello stadio. Furio Colombo era disperato: era lì per la Rai e mentre i giornalisti potevano scrivere, lui doveva mandare delle immagini. E non ce n’erano. Io avevo contatti riservati con le famiglie di alcuni arrestati. Mi dissero che non sapevano dove si trovavano i loro familiari, ma che era stata data indicazione di un commissariato dove si potevano portare dei pacchi. Andammo con Furio e il cameraman al commissariato, riuscimmo a filmare qualcosa. La pellicola uscì dalla Grecia nella valigia di una turista americana che andava a Roma: furono le prime immagini trasmesse del colpo di Stato. La polizia greca sapeva benissimo che io avevo dei contatti. La mattina dopo andai a colazione con i colleghi, a tavola dissi che avevo trovato una telefonata di Pino Rauti, che era lì per il Tempo. “Naturalmente non ho richiamato”. Igor Man mi rimproverò: “Hai fatto male, i colleghi si richiamano sempre”. E aveva ragione: Rauti voleva avvisarmi. Tornai in camera a fare la doccia, uscii dal bagno in accappatoio e trovai la stanza piena di poliziotti. Siccome avevo visto molti film, dissi subito: “Voglio parlare con la mia ambasciata”. Ma il telefono era già stato staccato. Tornai in bagno e mangiai tutti gli indirizzi. Passando per la hall dell’albergo c’era Bernardo Valli, che mi ha seguita fino alla sede della polizia di via Bouboulinas con un tassì. Ci fu subito una protesta di tutti gli inviati che si trovavano ad Atene. Il ministro degli esteri era Fanfani e riferì in Senato della Grecia, tuonando contro il mio arresto. Cosa vuole, tutti in quel momento si volevano rifare una verginità antifascista... E Fanfani ordinò di farmi liberare immediatamente. L’ambasciatore ottenne di trasformare l’arresto in espulsione immediata, con il primo aereo. Ma trattò: “Non il primo, l’ultimo aereo”. Così la dignità dell’antifascismo era salva.
Era già stata in carcere.
Tre volte. La quarta, nel ‘63, ci restai per quasi due mesi: ho ancora le lettere dei miei figli. C’era stata una manifestazione di edili, era l’epoca del sacco di Roma. Mi trovavo a Botteghe oscure, uscii e andai a vedere. C’era uno che strillava, io cercai di liberarlo e portarono via anche me. Resistenza aggravata: minimo cinque anni di galera. A scuola, la maestra chiese a Lucrezia di alzarsi e dire perché la sua mamma era stata arrestata. Siccome avevano detto che io avevo picchiato un poliziotto con un ombrello, Lucrezia disse che non era vero. Prima di tutto perché non possedevo ombrelli. E perché ero “disombrellata di natura”.
Che effetto le fa che sua figlia Lucrezia scriva sul Corriere della Sera?
Negli anni Sessanta il Corriere era un giornale violentemente reazionario. Le cose sono cambiate: quando è uscito un mio libro, qualche anno fa, ho chiesto a Ferruccio de Bortoli di presentarlo. Cosa che ai tempi non avrei mai fatto. I miei figli sono parte di una generazione che ha fatto il Sessantotto molto da dentro. Entrambi hanno studiato in America, un’esperienza che li ha molto cambiati anche culturalmente. Sono parte di quella generazione di mezzo che ha conservato pochi legami con quella esperienza. Loro si sentono di sinistra, intendiamoci bene. Io penso che non lo siano.
Cosa vuol dire essere di sinistra?
Che la libertà non può essere disgiunta dall’uguaglianza, un valore completamente naufragato. Questo è il primato.

La Stampa 7.12.14
Croce-Gentile, la pace postuma
Grazie a un accordo tra gli eredi sono state raccolte in un unico volume le lettere che i due filosofi si scambiarono prima della rottura (anche politica)
di Giuseppe Salvaggiulo


La prima, una cartolina postale, partì da Torre del Greco il 27 giugno 1896: «Stimatissimo Signore...». Il trentenne Benedetto Croce, che già godeva di considerazione negli ambienti dell’erudizione storica, ringraziava il ventunenne Giovanni Gentile «pel dono cortese del suo studio sulle commedie del Lasca» (la tesi di licenza dopo il secondo anno di Lettere alla Normale di Pisa) e se ne congratulava «pel modo veramente egregio nel quale è condotto», sottolineando «la sua erudizione sobria e calzante» e «le conclusioni esattissime» senza «traccia d’inesperienza». La risposta fu spedita nove giorni dopo da Campobello di Mazzara, dove Gentile trascorreva le vacanze: «Chiarissimo signore...». Lo studente devoto si compiaceva del «giudizio benigno» e, «scusandomi se sono subito un po’ indiscreto», esprimeva il desiderio di «leggere la sua memoria Intorno alla storia della cultura, che mi pare non sia in vendita». Croce risponderà di non poter esaudire la richiesta «perché non ne ho più neanche una copia».
Passando al «Carissimo amico...», ne seguiranno altre duemila, di lettere tra i due principali filosofi italiani del secolo scorso. Per ventotto anni, fino all’ultima del maestro napoletano, datata 24 ottobre 1924: «Certo, noi da molti anni ci troviamo in un dissidio mentale, che per altro non era tale da riflettersi nelle nostre relazioni personali. Ma ora se n’è aggiunto un altro di natura pratica e politica, e anzi il primo si è convertito nel secondo, e questo è più aspro». Evocando l’opposto giudizio sul fascismo, con animo fermo ma non iroso Croce concludeva: «Non c’è che fare. Bisogna che la logica delle situazioni si svolga attraverso gl’individui e malgrado gl’individui. (...) Io ho fiducia nel tempo, e molte volte ho udito dirmi poi: tu avevi ragione; e spero perciò che molte asprezze si spianeranno da sé. Siamo in tempi che, in fatto di cangiamenti, ci hanno abituati a miracoli. Credo di averti risposto con ogni franchezza, e tu forse troverai giuste le cose che ti dico. (...) Abbimi sempre con molto affetto, tuo Benedetto».
Gentile comprese «la logica delle situazioni» e non rispose. Seguirono i rispettivi manifesti pro e contro il regime, a conferire drammaticità pubblica alla lacerazione privata. Invano il comune amico Adolfo Omodeo si adoperò per ricucire lo strappo, divenuto irreversibile nel 1928 quando Croce, nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915, condannò come «mal consigliere pratico» il pensiero di Gentile, il quale reagì con una dura recensione sul Giornale critico della filosofia italiana, da lui fondato nel 1920. Da amici a irriducibili antagonisti («un’ostile diade», la definisce Gennaro Sasso, presidente della Fondazione Gentile), rappresentanti di due Italie che si combatterono fino al cruento epilogo degli Anni 40, e anche oltre.
A novant’anni dall’ultima lettera e a settanta dall’uccisione di Gentile per mano dei partigiani, Nino Aragno pubblica per la prima volta il carteggio nella sua interezza. A parte alcune lettere e cartoline di contenuto personale, il materiale non è inedito; ma leggerlo in un unicum dialogico è appassionante. In ogni caso, il valore dell’opera travalica quello editoriale, poiché chiude un secolare scisma: familiare, ideologico, antropologico, nazionale.
I discendenti dei due filosofi erano giunti a un accordo di pubblicazione separata nel 1970: scambiandosi i microfilm, Sansoni editò le lettere di Gentile e Mondadori quelle di Croce. Ma i due distinti epistolari era tanto ricchi quanto monchi, perciò alcuni anni fa Natalino Irti, giurista e presidente dell’Istituto italiano per gli Studi storici fondato da Croce nel 1946, prese l’iniziativa di promuovere un nuovo accordo di pubblicazione congiunta «con funzione pacificante». Al primo colloquio con Alda Croce seguirono quelli con Piero Craveri e Sebastiano Gentile, che si sono fatti carico di «suscitare la concorde volontà delle famiglie», sancita due anni fa nella firma del nuovo accordo. Al ricamo diplomatico è seguito il lavoro delle curatrici Cinzia Cassani e Cecilia Castellani per intrecciare correttamente la corrispondenza: in alcune missive la data mancava, era stata cancellata o coperta dal timbro postale.
Il risultato, spiega Irti, è «un altissimo capitolo di pensiero, di dialogo filosofico, di onestà interiore». L’edizione asciutta - in linea con il profilo dell’editore langarolo, il cui mecenatismo è pari solo all’understatement - consente alle due voci di svettare come querce secolari senza il fastidio del sottobosco pedagogico.
La concezione materialistica della storia e la monografia su Pulcinella. La «fierissima emicrania» di Gentile e la «molestissima febbriciattola» di Croce. Le intimità domestiche, gli abbandoni di amicizia e talvolta, più in Croce che in Gentile, le preoccupazioni personali. Pubblico e privato, senza che la confidenza diventi mai corrività stilistica. Fino al vulnus filosofico sulla nascita dell’attualismo. Scrive Gennaro Sasso: «Soltanto la politica, non sembri paradossale, avrebbe potuto rimediare. Ma, invece che unirli, contribuì a dividerli in modo netto e definitivo».

Corriere 7.12.14
Alexander Grothendieck l’Einstein della matematica
Vita e idee di un genio ribelle nel libro del «Corriere»


Gli Zar, il nazismo, la guerra fredda, gli hippie... Nel caso di Alexander Grothendieck, lo studioso scomparso in Francia il 13 novembre, cui il «Corriere della Sera» dedica il volume Matematica ribelle , non si rischia il cliché: dire che ha attraversato le tempeste del Novecento è un puro dato biografico. Era nato nel 1928 a Berlino; ma la storia era iniziata prima, con una rivoluzione. Suo padre era un anarchico ebreo fuggito dalla Russia. Sua madre una giornalista già sposata, che diede il cognome al figlio illegittimo. Con l’avvento di Hitler, i genitori lo abbandonarono per sei anni presso un pastore protestante, fuggendo in Francia e unendosi agli antifranchisti spagnoli nella guerra civile.
Alexander li ritrovò nel 1939, poi il padre fu inghiottito da Auschwitz. Grothendieck portò avanti gli studi: da Montpellier fino a Nancy, con Laurent Schwartz. Dimostrò un talento eccezionale, rivoluzionò la matematica. Ma nel 1966 rifiutò la prestigiosa Medaglia Fields per non ritirarla nell’odiata Urss. Era l’inizio della svolta che, da genio della ricerca, considerato «l’Einstein della matematica», l’avrebbe trasformato in avversario accanito della comunità accademica. Nel 1970 uscì sbattendo la porta dall’Institut des Hautes Études Scientifiques, quando scoprì che era finanziato dal ministero della Difesa.
Ossessionato dall’idea che i propri studi potessero essere utilizzati per finalità belliche, fondò una comune hippie e si dedicò a ricerche spirituali. Dal 1991 tagliò ogni rapporto con l’esterno e vietò la pubblicazione delle sue 20 mila pagine di appunti. Al di là dei suoi studi e delle sue intuizioni, è la vita di Grothendieck ad aver incarnato lo spirito autentico del matematico, che comporta il rigore e non ammette contraddizioni.
Errico Buonanno

Corriere La Lettura 7.12.14
E Dio creò l’uomo. Anzi cinque 

Quelle scappatelle tra Sapiens e Neanderthal L’evoluzione non è stata un percorso lineare
di Giorgio Manzi


C’è una specie umana estinta che si chiama Homo erectus . Venne proposta fra il 1944 e il 1950 dal grande zoologo Ernst Mayr sulla base dell’evidenza fossile disponibile allora. Mayr voleva mettere ordine nella tassonomia evoluzionistica del tempo, in quanto riteneva eccessivo il numero di denominazioni in latino e dunque troppe le specie estinte distribuite sul nostro cammino. Oggi, col senno di poi e sulla scorta di una documentazione straordinariamente più ricca, possiamo dire che Mayr si sbagliava e che l’evoluzione umana è invece caratterizzata da un vero groviglio di specie: molte le conosciamo (più o meno bene), altre le intravvediamo e altre ancora ci aspettiamo di scoprirne in futuro.
Ma torniamo agli anni Quaranta del secolo scorso. Mayr, in linea con la visione gradualista della teoria sintetica dell’evoluzione di quegli anni, si opponeva al frazionamento in diverse specie prospettato dai paleoantropologi dell’epoca. Suggerì così di raggruppare nel genere Homo e sotto la denominazione di Homo erectus alcune varietà umane estinte allora note, come Pithecanthropus erectus e Sinanthropus pekinensis . Un’unica specie umana arcaica venne dunque ammessa, conservando l’appellativo specifico erectus , attribuito ai primi resti rinvenuti nell’isola di Giava alla fine dell’Ottocento.
È stato così che, a partire dalla metà del secolo scorso, Homo erectus è venuto a rappresentare il riferimento unico per tutta l’umanità che precedette Homo sapiens (e anche questa specie venne intesa in un senso molto, troppo ampio). In questa prospettiva, Homo erectus rappresentava una sorta di contenitore nel quale riunire buona parte delle conoscenze su una documentazione fossile dalle fattezze arcaiche, sufficientemente diverse da forme successive e/o con un cervello più grande, come i Neanderthal e noi stessi.
All’impostazione dettata da Mayr si affiancarono influenti personalità sia nel campo della biologia generale, come ad esempio il grande maestro di anatomia comparata Wilfrid Le Gros Clark; sia nel campo più specifico dell’antropologia, come Franz Weidenreich, uno dei più eminenti paleoantropologi del Novecento. Col tempo, questo divenne il modello di riferimento per l’evoluzione del genere Homo e tale è rimasto fino a un paio di decenni fa. Anzi, sarebbe meglio dire fino a oggi, visto che in parte della divulgazione, in certi libri di scuola e, talvolta, anche nei manuali universitari il fantasma di questo modello tuttora aleggia nell’aria. In base a questo modo di vedere l’evidenza fossile, l’evoluzione del genere Homo è stata a lungo interpretata come un percorso graduale e lineare a carico di un’unica specie arcaica, la quale avrebbe condotto, quasi ineluttabilmente, attraverso una successione di forme, alla comparsa della nostra specie. Questo è quello che molti di noi chiamano il «paradigma della specie unica».
Se l’evoluzione umana viene vista così, si arriva alla conclusione che sia esistita una continuità biologica tra forme più arcaiche e forme moderne, una continuità che solo arbitrariamente può essere frazionata nel suo divenire. È una prospettiva che può piacere a chi interpreta la comparsa di una qualsivoglia creatura che possiamo definire umana, ancorché primordiale, come l’ineluttabile emergere di una forma di vita talmente speciale da confondersi con qualcosa di soprannaturale. Diventa allora quasi ovvio pensare a una indissolubile continuità che parte dalle prime forme del genere Homo e arriva fino a noi, Homo sapiens . In altre parole, se la teoria vuole interpretare il fenomeno, allora il «paradigma della specie unica» ci mostra un procedere dell’evoluzione che si risolve in un flusso evolutivo unico e continuo, come una sorta di grande fiume che, in modo graduale e progressivo, porta giù-giù, ovvero su-su (coerentemente con l’equivoco terminologico tra evoluzione e progresso) fino all’umanità attuale.
A partire all’incirca dagli anni Settanta del secolo scorso, però, tutto ha iniziato a cambiare. Di nostri antenati e parenti estinti se ne conoscono oggi almeno una ventina e questa tendenza al frazionamento della documentazione fossile non sembra arrestarsi: peraltro, risulta quantomeno utile a muoversi nell’intreccio di un albero evolutivo che appare ormai talmente intricato da essere stato chiamato (con termine che temo possa essere equivoco) il «cespuglio» dell’evoluzione umana.
Ma cosa è successo a partire dagli anni Settanta? In primo luogo c’è da considerare l’aspetto teorico. Nel 1972, due paleontologi del calibro di Stephen Jay Gould e Niles Eldredge proposero un’importante integrazione all’impalcatura della teoria sintetica dell’evoluzione che denominarono «equilibri punteggiati» (o intermittenti). Partirono da una critica al cosiddetto «gradualismo filetico» — quello che nell’evoluzione umana era il «paradigma della specie unica» — focalizzando l’attenzione sull’irregolarità del processo evolutivo così come viene documentato dalle testimonianze fossili. Suggerirono dunque che i fenomeni chiamati macroevolutivi, cioè quelli che riguardano la comparsa di nuovi rami filetici (dal livello di specie in su), seguano modalità differenti da quelli cosiddetti microevolutivi (all’interno delle specie).
La teoria di Gould ed Eldredge afferma pertanto che le forme di vita tendono a rimanere stabili per lungo tempo, evolvendo in modo esplosivo nel corso di brevi periodi e nel contesto di piccole popolazioni isolate.
Visto così, oltre che sulla base della documentazione fossile, l’andamento dell’evoluzione è fortemente discontinuo e potrebbe essere rappresentato da linee verticali intervallate da scarti laterali. Ci appare cioè come fatto di lunghi periodi di relativa stasi evolutiva, interrotti da accelerazioni del cambiamento che corrispondono alla formazione di una o più nuove specie. Le specie dunque non fluiscono l’una nell’altra, come vorrebbe il «paradigma della specie unica». È piuttosto in piccole popolazioni, isolate geograficamente dalle altre, che può formarsi e stabilizzarsi (anche in un tempo piuttosto rapido) un nuovo assetto genetico: solo occasionalmente, dunque, l’equilibrio si spezza e compare, quasi improvvisamente sulla scala dei tempi geologici, una nuova specie. È così che, almeno sul piano teorico, fiorisce la diversità interspecifica, mentre spariscono le traiettorie lineari dell’evoluzione.
C’è poi da prendere in esame la documentazione fossile e preistorica. Quando mi capita di raccontare la storia della paleoantropologia, è proprio intorno agli anni Settanta del secolo scorso che mi devo interrompere, a fronte dell’abbondanza e della varietà di informazioni che da quel momento in poi dovrei prendere in esame. In altre parole, se è possibile disegnare un percorso abbastanza lineare delle nostre conoscenze accumulatesi fino a poco oltre la metà del Novecento, il ventennio successivo rappresenta un momento di svolta, nel quale è successo qualcosa per cui il progresso delle ricerche sull’evoluzione umana ha letteralmente cambiato marcia, sviluppando un cespuglio (questa volta sì che la metafora funziona!) fatto di tante e nuove linee d’indagine sul terreno e in laboratorio.
Quasi che volessero assecondare il modello di Gould ed Eldredge, i paleoantropologi hanno quindi iniziato a scoprire molte più specie nascoste nel nostro passato e a interpretarle in accordo con la nuova teoria. Alcuni autori, in primo luogo Ian Tattersall dell’American Museum of Natural History di New York (un autore piuttosto noto anche in Italia), hanno potuto a questo punto affermare che in passato vi è stata una tendenza a sottostimare il numero delle specie estinte di nostri antenati; lo stesso Tattersall scriveva in un influente articolo del 1986: «Se proprio dobbiamo sbagliare, sarà meglio eccedere (entro limiti ragionevoli) nel riconoscere troppe specie piuttosto che troppo poche».
C’è un dato di fatto che comunque emerge dalle ricerche degli ultimi decenni. La documentazione paleoantropologica ci mostra, con sempre più evidenza, che forme umane diverse fra loro hanno convissuto per lunghi periodi di tempo in aree geografiche distinte o in parte sovrapposte, non succedendosi l’una all’altra, ma rappresentando i molti rami di un percorso evolutivo che non necessariamente porta fino a noi. Ad esempio, c’è stato un momento nell’evoluzione umana — neanche troppo lontano, diciamo intorno a 50 mila anni fa — nel quale di specie umane differenti fra loro ce n’erano almeno cinque e una sola includeva i nostri antenati diretti, cioè rappresentava il ramo di noi Homo sapiens .
Proviamo a dare un’occhiata. Fissiamo le lancette sull’orologio del tempo profondo intorno a quella data: 50 mila anni fa. La nostra specie ( Homo sapiens ) era comparsa in Africa da tempo e già intorno a 100 mila anni fa aveva iniziato come a traboccare fuori dal continente africano, con un cervello in grado di produrre inedite manifestazioni di pensiero simbolico, forte di una notevole capacità di adattamento e del conseguente successo demografico.
In Vicino Oriente i nostri antenati si sono dapprima confrontati con i Neanderthal ( Homo neanderthalensis ) diffusi in quelle regioni. Lì probabilmente le due specie si sono anche incrociate, come accade talvolta in natura fra forme di vita molto simili. Le «scappatelle» sono però durate poco, tanto che oggi solo un 2-3% di patrimonio genetico dei Neanderthal è ancora presente in tutti noi (tranne che negli africani). A partire da 60 mila anni fa i nostri antenati si sono poi ulteriormente diffusi, arrivando a confrontarsi più a nord con i Neanderthal dell’Europa mentre, più a sud, presto arriveranno in larga parte dell’Asia e fino in Australia.
Su questa rotta meridionale devono aver incontrato altre due specie umane che ancora esistevano in Estremo Oriente. La prima, ormai relegata nell’isola di Giava e forse in altre parti dell’Indonesia, è Homo erectus . Il binomio in latino da cui siamo partiti non è più visto come lo avevano interpretato Ernst Mayr e gli altri a metà del Novecento, cioè come l’unica specie umana arcaica che precedette Homo sapiens , ma piuttosto come una varietà invero periferica, discendente dei primi Homo diffusi in Asia già a partire da quasi 2 milioni di anni fa. Presente per svariate centinaia di migliaia di anni in gran parte delle terre a oriente dell’Himalaya, il suo areale si era nel tempo ridotto ai territori più meridionali. La seconda specie dell’Estremo Oriente la troviamo ancora più relegata in una piccola isola, a metà strada fra l’Indonesia e l’Australia: si tratta dei cosiddetti hobbit dell’isola di Flores. Appartenevano a una specie denominata Homo floresiensis , che mostra di essere rimasta per così tanto tempo separata dalle dinamiche evolutive che si svolgevano sulle masse continentali tanto da arrivare alle minute dimensioni corporee che le vennero imposte dal fenomeno noto come «nanismo insulare».
Ma non è finita: in altre parti dell’Asia continentale i nostri antenati si confrontano anche con un’altra specie. L’abbiamo individuata solo pochi anni fa sulla base dei dati genetici recuperati da una piccola porzione d’osso scoperta in una grotta dei Monti Altai in Siberia, quasi al confine con la Mongolia. La grande quantità di Dna estratto ha mostrato che questa specie era distinta sia da noi che dai Neanderthal, anche se pure in questo caso devono essersi verificate ripetute ibridazioni con entrambe le specie sorelle. I genetisti li chiamano Denisoviani (dal nome della grotta: Denisova), ma personalmente ritengo si tratti del ramo asiatico terminale di un’altra specie ancora: Homo heidelbergensis .
Insomma, come Ian Tattersall dice spesso: «Non eravamo soli su questa Terra». Intorno a 50 mila anni fa e ancora per alcuni millenni a seguire, di specie umane differenti ce n’erano almeno cinque. Soli sulla Terra lo siamo diventati! Se tutto ciò può rattristare, ci assegna comunque una grande responsabilità nei confronti delle forme di vita che (ancora) esistono su questo pianeta e che sono, come la nostra stessa storia dimostra, estremamente fragili.

Corriere La Lettura 7.12.14
Portate la fisica nella narrativa. E viceversa
Philippe Forest con «Il gatto di Schrödinger» scrive un romanzo «quantico», Carlo Rovelli parla di scienza in modo letterario. Ma gli autori italiani trascurano queste contaminazioni
di Marco Covacich


In questi giorni sono usciti due libri molto diversi che nondimeno, letti insieme, sembrano rimettere in circolo il flusso di pensieri che dalla letteratura conduce alla fisica e viceversa — due libri i cui autori non tessono blandamente le lodi del campo avverso, ma impiegano in modo antiretorico l’uno il linguaggio dell’altro, giovandosene a tal punto da produrre: il primo, un mirabile quanto inquietante oggetto che potremmo definire romanzo quantico; il secondo, una dissertazione di grande valore letterario sui rudimenti della fisica del ventesimo secolo.
Nel primo libro, Il gatto di Schrödinger (Del Vecchio Editore), Philippe Forest utilizza il più famoso esperimento mentale della fisica moderna come chiave di lettura, per non dire immagine-mondo, della sua propria esistenza personale. Erwin Schrödinger, insignito del premio Nobel grazie alla scoperta dell’equazione d’onda, nel 1935 inventa, con intenzioni paradossali e sottilmente burlesche, un esperimento mentale in cui dimostrare l’assurdità dell’interpretazione troppo letterale del principio di sovrapposizione sostenuto da Bohr e Heisenberg. Questo fondamento della meccanica quantistica infatti, una volta esteso dalla realtà subatomica alla macro-realtà (la nostra), comporterebbe che, come per l’indeterminazione degli stati delle particelle, anche per un gatto chiuso in una scatola sia necessario supporre la coesistenza simultanea di stato di vita e stato di morte fino a quando un osservatore non verifichi direttamente.
Il cortocircuito con l’esperimento si crea nella mente di Forest, il giorno in cui un gatto entra anche nella vita dello scrittore. Accade d’un tratto, durante un breve soggiorno di riposo nella casa al mare. È un gatto che sembra sbucare dal nulla, come partorito dall’oscurità in cui affonda il muro del giardino, un gatto venuto dalla notte a offrire la sua calda presenza di animale in un’esistenza fredda anche d’estate, quella di un uomo tramortito e, verrebbe da dire, evacuato, reso inabitabile dal dolore.
Philippe Forest ha raccontato il suo dolore nel capolavoro ustionante Tutti i bambini tranne uno , ma qui, a distanza di quindici anni, accenna appena alla morte di sua figlia, evitando con maestria l’impiego di un’arma infallibile come la commozione. Piuttosto perlustra il suo stato mentale insieme al nuovo ospite, venuto a fargli visita dalla realtà indefinita che si cela oltre il muro di cinta, realtà-non-realtà ovvero realtà «sovrapposta» alla quale il gatto torna spesso con un semplice balzo e dalla quale altrettanto improvvisamente riappare. Così per un anno.
Sono weekend fatti di passeggiate per sentieri sabbiosi e contemplazioni notturne qua e là interrotte da dialoghi con una voce femminile non meno evanescente del nuovo inquilino a quattro zampe. Forest cammina, fuma, sorseggia un whisky, osserva le misere piante del giardino, scambia poche parole con la sua compagna. È vivo ma, nello stesso tempo , è anche morto, come una particella subatomica e, a dispetto di Schrödinger, come il gatto che viene a trovarlo. Questa almeno è la sensazione che si è fatta largo in me mentre leggevo, al punto da lasciarmi credere che il libro fosse diventato la scatola stessa dell’esperimento, con lo scrittore autorecluso al posto della cavia. Ma a rendere particolarmente importante questo libro è il fatto che Forest non fa un uso suggestivo, estetizzante, del linguaggio scientifico. Al contrario, affronta la fisica con autentico desiderio conoscitivo, importandola nel territorio della letteratura senza disinnescarla.
Nel secondo libro, Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi), Carlo Rovelli sembra riprendere a distanza il dialogo. Come la carica esplosiva della meccanica quantistica resta intatta nel romanzo di Philippe Forest, così il valore della scrittura è tutt’altro che ornamentale nel saggio dello scienziato. La curvatura dello spazio, le onde gravitazionali, i pacchetti di energia, il bosone, il tempo, il fatto che passato e presente esistano «solo quando c’è calore», ogni cosa viene spiegata in modo che sia compresa anche da una persona mediamente scolarizzata. Al di sotto la semplificazione scadrebbe nella retorica del facilese.
Non si tratta di parlare ai bambini, Rovelli vuole richiamare l’attenzione sulla bellezza di quelle scoperte, sull’eleganza delle loro equazioni, non banalmente divulgare. La fisica gode da sempre di grandi divulgatori — oggi, su tutti, l’anglo-iracheno Jim Al-Khalili —, ma per suscitare un interesse vero nell’interlocutore serve una scrittura non vicaria, che resti alta, limpida e insieme seduttiva, come quella di Rovelli.
Questa zona di intersezione tra scienza e letteratura è quasi per nulla frequentata in Italia, se si esclude il grande esempio di Daniele Del Giudice, la cui vocazione leonardesca lo rende affine a Paul Valery. Circa vent’anni fa, alla Sissa di Trieste (Scuola internazionale superiore di studi avanzati) Claudio Magris ha curato un seminario interdisciplinare a cui sono intervenuti molti scienziati. Sembrava l’inizio di qualcosa, ma non è stato così. In America vengono subito in mente Il dilemma del prigioniero di Richard Powers, La stella di Ratner di Don DeLillo, le considerazioni sul tennis e la trigonometria o le note di Infinite Jest di David Foster Wallace (trascuro colpevolmente, avendo interrotto per limiti di comprensione, il saggio sull’infinito).
Da noi invece anche i giovani tecnicamente più equipaggiati, parlo di narratori con un dottorato in matematica come Chiara Valerio o in fisica teorica come Paolo Giordano, solo di rado lasciano affiorare i loro saperi sulla pagina, e lo fanno con timidezza, quasi temessero di disturbare il lettore. Allora mi permetto una richiesta, a tutti gli scrittori scienziati: non rifilateci manualetti for dummies , fateci entrare davvero nel vostro mondo e noi proveremo a seguirvi. E dove non capiremo, sarà bello lo stesso. La letteratura è piena di cose belle e incomprensibili almeno dai tempi di Finnegans wake .

Corriere La lettura 7.12.14
Han , la dinastia che inventò la Cina Dal 206 a.C. al 220 d.C., una grandeur che resiste ancora oggi Fondò la religione di Stato, aprì un’università per i suoi dirigenti
di Vincenzo Trione


Splendeurs des Han, essor de l’empire Céleste offre una panoramica completa di uno dei momenti più gloriosi della civiltà cinese. Oltre 450 manufatti di grande valore, alcuni dei quali rientrano nel novero dei tesori nazionali, provenienti da 27 musei di ogni parte della Cina, sono stati raccolti in un’unica esposizione per celebrare il cinquantesimo anniversario delle relazioni ufficiali tra Cina popolare e Francia.
Alla dinastia Han (206 a.C. - 220 d.C.) viene riconosciuto un ruolo fondamentale nella storia cinese. È durante tale periodo che venne consolidato l’impero, fondato una quindicina di anni prima dal sovrano del potente regno di Qin, salito al trono con il titolo altisonante di Qin Shi Huang-di, Primo Augusto Imperatore dei Qin (221-210 a.C.), appellativo che evocava divinità ancestrali e leggendari sovrani dell’antichità. La dinastia Qin collassò quattro anni dopo la sua morte, ma nel breve lasso di tempo del suo regno furono creati i presupposti della grandeur imperiale e fu organizzato un complesso apparato istituzionale che, con momenti di splendore e fasi di decadenza, si perpetuò sino al 1911. Alla dinastia Han va il merito di aver dato continuità al progetto avviato dal Primo Imperatore.
Colui che più di ogni altro contribuì al consolidamento e al rafforzamento di un impero destinato a essere protagonista di due millenni di storia fu l’imperatore Wu, che regnò per oltre cinquant’anni, dal 141 all’87 a.C. Artefice di una decisa politica di centralizzazione e di conquista, con lui la Cina conobbe una fase di benessere e splendore. Grazie a una serie di fortunate campagne militari l’estensione dell’impero raddoppiò nel giro di pochi decenni e laddove non fu possibile annettere nuovi territori furono stabiliti governatorati e insediati presidi militari permanenti, soprattutto in luoghi strategici per il controllo delle vie commerciali verso l’Asia centrale. Le frequenti spedizioni verso occidente e la presenza di guarnigioni militari in aree sempre più lontane contribuirono a creare solidi legami diplomatici, economici e culturali con popolazioni che fino ad allora erano rimaste estranee alla civiltà cinese. Carovane di merci e viaggiatori percorrevano sicure la cosiddetta Via della Seta, che da Chang’an, la capitale imperiale nei pressi dell’odierna città di Xi’an (Shaanxi), giungeva fino al Mediterraneo e alle coste dell’India. E con le merci viaggiavano idee, saperi, credenze religiose: fu allora che il buddhismo entrò in Cina.

Fondato l’impero, il processo di unificazione non poteva consolidarsi solo attraverso provvedimenti di natura amministrativa e politica; per essere stabile e duratura l’unità doveva realizzarsi anche, e soprattutto, sul piano culturale. Fu con quest’obiettivo che, su sollecitazione degli imperatori Han e dei loro ministri, prese avvio un imponente lavoro di raccolta, selezione, catalogazione e rielaborazione di quanto era stato prodotto in ogni campo del sapere. L’intento era quello di sistematizzare le conoscenze intellettuali e tecnologiche affermatesi nel corso dei secoli e promuovere i valori etici ed estetici insiti in una tradizione già profondamente radicata nelle regioni che erano state sin dal Neolitico il centro della civiltà in Estremo Oriente.
In un’atmosfera improntata al sincretismo e a una visione meno dogmatica della cultura di quella che aveva caratterizzato il breve regno dei Qin, durante i quattro secoli della dinastia Han si delinearono i tratti peculiari della civiltà cinese e della sua classicità e vennero codificati i canoni fondamentali che si riteneva l’avessero caratterizzata sin dai tempi più antichi. La tradizione era considerata la fonte di ispirazione cui fare costante riferimento per attingere i modelli destinati a dar forma a ogni attività intellettuale e spirituale.
Prese così corpo la coscienza di un’identità specificamente cinese, ancor oggi fortemente radicata: non è un caso che il maggior gruppo etnico, che comprende circa il 92% dell’attuale popolazione, si identifichi come Han. Fu in questo contesto che le dottrine filosofiche, le credenze religiose, le arti e le conoscenze tecnologiche, maturate in modo autonomo tra le popolazioni che vivevano nell’immenso territorio finalmente unificato, conversero a formare un unico corpus condiviso, dando vita a quella che potremmo a tutti gli effetti considerare l’autentica identità cinese, quella «sinità» mirabilmente rappresentata dagli oggetti esposti al Guimet, testimonianza dell’elevato livello artistico e tecnico raggiunto.

Per i sovrani Han continuità e armonia erano i cardini di ogni ulteriore sviluppo di quel vasto territorio che aveva visto fiorire gli albori della civiltà. Il compito che ritenevano fosse stato loro assegnato era quello di portare l’umanità a integrarsi nell’ordine cosmico, trovandosi essa tra Cielo e Terra, tanto recettiva delle energie spirituali che permeano l’universo quanto partecipe delle caratteristiche insite nella materia. Cogliere l’eredità del passato significava ripristinare la profonda sacralità che aveva caratterizzato la vita pubblica dei regni antichi, retti da sacerdoti sciamani, mitizzati come saggi e demiurghi, sacralità che avrebbe ritrovato la sua espressione privilegiata non tanto nella dimensione cultuale e divinatoria, quanto nell’espletamento solenne dei doveri sociali e istituzionali.
Durante il regno dell’imperatore Wu il confucianesimo divenne dottrina di Stato, l’ineludibile riferimento per ogni prassi politica e per ogni percorso educativo. Nel 124 a.C. venne fondata la prima università imperiale, la cui missione era preparare la nuova classe dirigente, che avrebbe condiviso un’unica ideologia, perfettamente funzionale alla gestione centralizzata dell’impero. Fu il primo passo verso la creazione di un organico sistema di esami pubblici, il cui obiettivo era formare e selezionare il personale civile dello Stato, con l’intento di contrapporre a coloro che basavano il proprio potere sulla forza delle armi una classe di civil servants preparati e capaci.
In questo modo i principî confuciani si affermarono nei secoli, plasmando il pensiero e la spiritualità del popolo cinese. È interessante notare che è proprio a questi principî che oggi la nuova classe dirigente fa sempre più spesso riferimento col progetto di ricreare un sistema di valori in grado di fornire risposte agli impellenti problemi di natura pratica e alle molteplici sollecitazioni di ordine morale e spirituale che provengono dalla società, al fine di ristabilire un’etica di governo in grado di contrastare le lusinghe di ricchezze e privilegi, e rafforzare il sistema di controllo sociale, a vantaggio soprattutto di quelle aree del Paese meno beneficiate dal successo economico.

Il Sole Domenica 7.12.14
Svolte e traumi per gli ebrei
Il saggio di Marina Caffiero studia con precisione la vicenda storica degli ebrei italiani in epoca moderna. Tra ghetti, tradimenti e assimilazioni
di Sergio Luzzatto


In quasi tutti i dipartimenti di storia delle maggiori università americane vengono proposti uno o più insegnamenti di «Jewish History», cioè di «Storia ebraica». Ai quali si aggiungono gli insegnamenti di «American History», «French History», «Chinese History», eccetera. Il che non corrisponde affatto a qualcosa di analogo, nella misura in cui questi ultimi si riferiscono per definizione a uno spazio geografico, mentre quelli di «Jewish History» richiamano un popolo, o un'etnia, o un'identità. Anche nelle università israeliane, gli insegnamenti di «Storia ebraica» – e non di «Storia di Israele»: il che sarebbe ben diverso – vengono normalmente distinti da quelli di storia dell'America o dell'Europa, dell'Africa o dell'Asia.
Ma esiste una storia ebraica? E ha senso definirla in quanto tale, allo stesso modo in cui negli Stati Uniti, o in generale nell'ambiente accademico anglosassone, si definisce e si insegna una «Islamic History»? Ancora: perché, nell'accademia americana o britannica, una «Christian History» viene insegnata quasi soltanto presso le scuole superiori di teologia? Anglosassoni a parte, quanti fra noi, nell'Occidente più o meno laico, si sentirebbero adeguatamente rappresentati da una didattica universitaria che distinguesse preventivamente l'insegnamento della «Storia cristiana» da quello di tutte le altre? E quale studioso assennato pretenderebbe oggi di ricostruire la storia della Palestina moderna distinguendo in questa la «storia ebraica» dalla «storia islamica»?
L'attualità – una tragica attualità – si incarica fin troppo di dimostrarlo: a chi guardi senza paraocchi alla vicenda della città di Gerusalemme o dei territori della Cisgiordania, riesce del tutto evidente come le due storie, l'ebraica e la musulmana (oltreché una terza, la storia cristiana in Palestina), partecipino di una stessa storia. Così per il XXI secolo, e così per i secoli precedenti. Si tratti del Medioevo o dell'età moderna, dell'Otto o del Novecento, più che la «storia ebraica», ha senso studiare la storia degli ebrei (esattamente come, più che la «storia islamica», ha senso studiare la storia dei musulmani, e più che la «storia cristiana», la storia dei cristiani).
Storia degli ebrei, quindi. Non nella loro separatezza, ma nella loro interazione con gli uomini e le donne di altre fedi religiose – o di nessuna fede – che abbiano vissuto in un medesimo spaziotempo, che abbiano insistito su uno stesso territorio in uno stesso periodo storico. Per esempio, Storia degli ebrei nell'Italia moderna. Dal Rinascimento alla Restaurazione: secondo il titolo che Marina Caffiero ha pensato bene di dare al suo ultimo libro, appena uscito da Carocci. Appunto per sottolineare il carattere falsificante di una «storia ebraica» che postuli la separatezza tra le comunità israelitiche degli antichi Stati italiani e il contesto cristiano maggioritario: «La storia degli ebrei e dei cristiani è una storia di scambi e intrecci istituzionali, sociali e culturali, impossibili da separare, in cui le minoranze non costituiscono delle isole».
Nella ricostruzione di Caffiero, la vicenda storica degli ebrei nell'Italia moderna comprese tre fasi. La prima e la seconda furono inaugurate da un «trauma»; la terza da una «svolta» benefica, ma a suo modo dolorosa. Il primo trauma intervenne tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento, quando alla cacciata degli ebrei autoctoni dalla Sicilia e dall'intero Mezzogiorno – italico riflesso della Riconquista spagnola – si accompagnò l'arrivo, nel Centro-Nord, di massicci contingenti di ebrei originari proprio della Spagna e soprattutto del Portogallo. Il secondo trauma intervenne nel Seicento, quando, tenendo dietro all'esempio fornito dai papi della Controriforma, le classi dirigenti di tutti gli antichi Stati costrinsero gli ebrei d'Italia entro i confini dei ghetti. La svolta benefica ma dolorosa intervenne dal tardo Settecento al primo Ottocento, quando le riforme illuministiche, giacobine e napoleoniche dischiusero agli ebrei la strada dell'emancipazione, ma a rischio concreto di un'assimilazione, di una perdita dell'identità.
Gli ebrei spagnoli e portoghesi che raggiunsero l'Italia centro-settentrionale all'inizio del Cinquecento erano i cosiddetti «marrani». In teoria, ebrei convertiti (più o meno forzosamente) alla religione cristiana. In pratica, ebrei rimasti fedeli (più o meno nascostamente) alla religione degli avi. Falsi cristiani, dunque. E in quanto tali oggetto di diffidenza diffusa, quando non – come nella Ancona pontificia del 1556, in un terribile auto da fé – di aperta persecuzione. Vittime, i marrani? Certo. Ma non soltanto vittime. A scoprire, attraverso il racconto di Caffiero, le ingegnose maniere in cui i sefarditi di origine lusitana stesero le loro reti amicali, commerciali, matrimoniali da un angolo all'altro dell'Europa cinquecentesca, da Anversa a Genova e da Livorno a Ferrara verso l'Impero ottomano e addirittura verso le Indie, si tocca con mano come la storia degli ebrei in età moderna sia irriducibile (fortunatamente!) al paradigma "vittimario" con cui è stata il più delle volte declinata.
Nella loro identità plurima, i marrani portoghesi erano figure destabilizzanti. Erano invise ai cristiani, ma riuscivano sgradite anche a non pochi ebrei di origine italiana, che faticavano a riconoscere in loro il profilo chiaro e distinto del correligionario ortodosso. Secondo i termini di una denuncia raccolta dall'Inquisizione veneziana nel 1580: «Questi portoghesi de questa sorte non sono né christiani né hebrei né turchi né mori, ma vivono al modo loro. Et quando vanno in sinagoga, portano un officiolo alla cristiana in lingua portoghese et sono odiati da li altri hebrei, che non portano altro che 'l turpante da hebrei». Nelle parole di un altro veneziano del Cinquecento, il marrano era «un traditor et l'homo non se ne pole fidar et io non l'ho né per cristiano né per hebreo, ma per homo senza religione».
Così, come per altre figure dell'ebraismo moderno e contemporaneo, era la loro identità cosmopolitica, di confine, che esponeva i marrani – entro il campo stesso dell'ebraismo – alla facile accusa di «tradimento» (proprio quella, sia detto per inciso, che Amos Oz ha scelto di porre al centro del suo ultimo romanzo, Giuda). Mentre era la loro formidabile intraprendenza culturale e mercantile, variamente dispiegata fra i torchi di una Venezia capitale europea dell'editoria, o nelle nebbie della Ferrara estense, o lungo i moli della Livorno medicea, che esponeva i marrani al desiderio di rivalsa dei cristiani.
Il ghetto rappresentò la soluzione prettamente italiana – controriformistica e papalina – al problema politico, religioso ed economico della "diversità" ebraica. E se il «secolo dei ghetti», come Marina Caffiero lo qualifica, fu il Seicento, fu nel corso del Settecento che i ghetti salirono da 29 a 41, raccogliendo oltre il 75% degli ebrei d'Italia. Ma perfino il mondo dei ghetti, quale emerge da questo libro, non era un mondo di separatezza. Luogo di segregazione, il ghetto restava pur sempre un luogo di inclusione, nella misura in cui faceva parte integrante del tessuto urbano (e del vissuto quotidiano) dell'una o dell'altra città italiana, Torino o Mantova, Modena o Firenze, Pesaro o Roma. In fondo, la soluzione del ghetto risparmiò agli ebrei della Penisola il destino storico dell'espulsione, o comunque dell'esclusione. E garantì loro, paradossalmente, una coesione identitaria che sarebbe divenuta difficile dopo la sospirata revoca delle «interdizioni israelitiche».

Marina Caffiero, Storia degli ebrei  nell'Italia moderna. Dal Rinascimento alla Restaurazione, Carocci, Roma,  pagg. 254, € 19,00

Il Sole Domenica 7.12.14
Contro l'onda della corruzione solo la cultura ci potrà salvare
La cooperazione tra capitale cognitivo e istituzioni è decisiva sia per la qualità della vita sia per la crescita economica
di Gilberto Corbellini


Alla fine gliel'abbiamo fatto, a essere primi in Europa per qualcosa: facciamo registrare il più elevato tasso di corruzione secondo gli ultimi rilievi di Transparency International. Un tragico primato d'immoralità civile che, insieme alla criminalità organizzata e all'evasione fiscale, è destinato a vanificare qualunque tentativo di far ripartire economicamente e socialmente il Paese. Parlando a Milano, il 7 novembre scorso, sui danni causati dall'economia criminale, il Governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco invocava più efficaci strumenti normativi per contrastare e prevenire la corruzione, che disincentiva gli investimenti di capitali stranieri, senza i quali mai e poi mai ci si risolleverà dal declino economico e sociale. Si può combattere e limitare la corruzione solo con interventi legislativi? Probabilmente no. Il Governatore Visco, che ha studiato l'economia del capitalismo cognitivo, sa che esiste una ricca ed empiricamente validata letteratura, la quale dimostra che le persone rispettano le regole scritte e condivise se e solo se hanno maturato, in età pre-adulta e attraverso specifiche esperienze socio-culturali e processi educativi, una capacità individuale, sul piano psicologico-morale, di apprezzare il valore e l'utilità di procedimenti istituzionali trasparenti, affidabili e competitivi.
In uno studio che è già un "classico", Daniel Treisman (The causes of corruption: a cross-national study, Journal of Political Economics 76; 2000; pagg. 399-457) confermava un dato noto da tempo: le nazioni con tradizioni protestanti e quelle con economie più sviluppate hanno governi di qualità superiore, ed entrambi questi fattori sono significativamente e robustamente associati con una più bassa percezione di corruzione. Inoltre, i Paesi con una storia di legislazioni penali e civili britanniche sono regolarmente classificati come meno corrotti. Chi leggeva per primo questo fenomeno, lo spiegava in termini di superiorità del sistema di common law. Treisman lo attribuisce all'esistenza in Gran Bretagna e nei Paesi che sono stati colonie britanniche di una cultura giuridica che apprezza il sistema della giustizia procedurale - incentrato su neutralità, fiducia e riconoscimento del proprio status; un sistema nel quale le norme sanciscono e garantiscono dell'irrilevanza delle opinioni e sensibilità valoriali soggettive, inevitabilmente discordi. Ormai persino i sassi, ma non gli intellettuali e politici italiani, sanno che confondendo opinioni e fatti, o peggio privilegiando le opinioni si commettono solo errori e ingiustizie.
Dall'ampia raccolta di dati e approfondita analisi sugli indicatori correlati alla corruzione, Treisman ricavava che gli stati federali sono più corrotti di quelli unitari, a causa delle competizioni tra livelli autonomi di governo per un sovra-sfruttamento delle risorse, e che è importante l'efficienza delle istituzioni democratiche nel tenere bassa la percezione della corruzione. Anche la durata dell'esposizione della popolazione alla democrazia e a un'economia di libero scambio correla con una ridotta la corruzione, ma non è chiara la direzione del rapporto causale.
Dato che siamo fuori tempo massimo per fare una riforma protestante e una rivoluzione liberale, forse bisogna prendere un'altra strada per tentare di uscire dal tunnel. Per esempio provare a capire perché esiste la corruzione e se c'è qualche intervento che sia praticabile in tempi ragionevoli. Nella discussione sulle cause della corruzione, negli ultimi anni sono entrati in campo utili studi sulla storia evolutiva del comportamento sociale umano. Da questi risulta che corrompere e farsi corrompere non era svantaggioso, e al limite poteva essere adattativo nelle società con gerarchie di dominanza e con economie a somma zero.
Due biologi evoluzionisti hanno fatto una simulazione dell'efficienza sociale e dei criteri di accettabilità di un sistema di esercizio del potere, come quello dei pubblici ufficiali incaricati di far rispettare la legge, scoprendo che un livello minimo di corruzione, nella forma di privilegi illegali concessi a questi funzionari, rafforza il funzionamento e le prestazioni delle società umane (F. Úbeda, E.A. Duéñez-Guzmán, Power and Corruption, Evolution 2011, 65 (4), pagg. 1127-39). Questa scoperta non significa che la corruzione sia un bene. Ovvero, probabilmente lo è nelle società che si trovano più prossime a condizioni naturali di espressione della psicologia sociale umana, nel senso che può servire a ridurre abusi di potere. Nelle nostre società complesse è tutt'altra faccenda. In ogni caso, quando si applica una logica evoluzionistica all'origine dei comportamenti umani, si può scoprire che quel che tiene insieme le nostre società non è necessariamente quel che giudichiamo astrattamente o a priori come buono e giusto.
Lord Acton aveva ragione a sostenere che il «potere corrompe». Un gruppo di ricercatori ha dimostrato che l'esperienza psicologica del potere è associata alla ricerca del proprio interesse particolare. L'esperimento ha anche mostrato che questo vale soprattutto per chi ha una «debole identità morale», mentre chi ha una forte identità morale vede incrementata la propria consapevolezza etica attraverso l'esperienza psicologica del potere (DeCelles, Katherine A.; DeRue, D. Scott; Margolis, Joshua D.; Ceranic, Tara L., Does power corrupt or enable? When and why power facilitates self-interested behavior, Journal of Applied Psychology, Vol 97(3), May 2012, 681-689). Ma che cosa sarebbe fattibile in tempi più o meno rapidi per migliorare la qualità morale degli italiani?
In occasione della pubblicazione del Manifesto per la Cultura avevo riportato su queste pagine che uno studio condotto da Niklas Potrafke su 125 Paesi (Intelligence and Corruption, Economics Letters 2013; 114: 109-112) aveva rilevato che dove ci sono livelli di prestazioni intellettuali più alti, la corruzione è più bassa. Il rapporto tra livello di intelligenza nazionale, intesa come misura del "capitale cognitivo", e un più efficace controllo sulla corruzione, oltre che sull'efficienza del governo e dello stato di diritto, è confermato da un recentissimo studio dell'economista sudafricano Isaac Kalonda Kanyama, che nel discutere i dati sottolinea come questo non significhi che ci sono Paesi abitati da persone più intelligenti, che realizzano istituzioni più efficienti, e Paesi abitati da stupidi, che mettono a punto istituzioni più povere. Il concetto che emerge da questo e altri studi sul ruolo del capitale cognitivo nella progettazione e nel governo dei sistemi liberali e capitalisti, è che il livello di comprensione cognitiva delle regole e dei principi, che fanno funzionare le istituzioni liberaldemocratiche, e la stretta cooperazione tra il capitale cognitivo e le istituzioni nazionali, sono importanti per la qualità della vita istituzionale di quel Paese (Quality of institutions: Does intelligence matter?, Intelligence 2014, 42: 44-52.)
La cura e la prevenzione della corruzione, se vuole davvero metterle in atto, richiedono di agire sulla formazione della psicologia cognitiva e morale individuale nelle fasi giovanili di maturazione e stabilizzazione delle capacità decisionali. Non a caso infatti lo stesso Governatore Visco insiste sulla necessità di investire in istruzione e ricerca. Questo significa che è nelle scuole e attraverso dinamiche famigliari di attaccamento salutare che si costruiscono i sentimenti e ragionamenti potenzialmente virtuosi, e allo stesso tempo emotivamente premianti, che riducono la pratica e il contagio della corruzione. Purtroppo anche i rapporti famigliari in Italia tendono a essere patologici, cioè a produrre forme di attaccamento che non promuovono fiducia e cooperazione, ma prevalentemente una condizione di arretratezza sociale che è il "familismo amorale", storicamente definita proprio in Italia oltre mezzo secolo fa.

Il Sole Domenica 7.12.14
Paolo Rossi (1923-2012)
Nel labirinto delle idee
Non leggere manuali ma lavorare sulle fonti direttamente e, soprattutto, lasciare spazio al «copernicanesimo cognitivo»: i ferri del mestiere di un grande storico e filosofo
di Massimo Bucciantini


In un articolo su Repubblica di metà settembre Simonetta Fiori osservava che oggi più che mai abbiamo bisogno di storici che sappiano «trapanare il muro del tempo». E raccontava come negli Usa diversi commentatori e imprenditori - a cominciare da Bill Gates - stavano ben comprendendo la lezione, cioè che per spiegare questo presente insanguinato, con i suoi nazionalismi e populismi, il ritorno ai califfati e i nuovi razzismi emergenti in larga parte dell'Europa, non bastano i professionisti della comunicazione.
Non è mai troppo tardi, verrebbe da aggiungere. Visto come stanno andando le cose, cominciare a ripensare alla composizione degli staff presidenziali dopo la guerra del Golfo e l'invasione dell'Afghanistan forse non sarebbe un cattivo investimento.
Non è difficile immaginare quanto questa idea della storia come disciplina che sappia reinterpretare il presente avrebbe trovato un assenso incondizionato da parte di uno storico come Paolo Rossi. A patto, ovviamente, di considerarla "scienza" dell'imprevedibile, di un passato pieno di cose nuove e sconosciute, sempre pronta a mettere in dubbio le nostre poche certezze. A patto di non rinchiuderla dentro gabbie o corporazioni accademiche, ovvero di essere consapevoli che «a differenza di quanto accade nelle religioni, nelle storie non ci sono testi assoluti, ma soltanto testi relativi».
Nel 1999, quando uscì il suo saggio Apologia di un mestiere con cui si apriva Un altro presente. Saggi sulla storia della filosofia (il Mulino), non feci caso a una frase che a rileggerla dopo tanto tempo assume ben altro significato e che si lega, per contrasto, alle considerazioni sulla storia come disciplina oggi più che mai necessaria. È un passo in cui Rossi sostiene che i manuali non servono, che sono tempo perso per chi li fa e, soprattutto, per chi li studia. Che per quanto siano ben fatti, allontanano dal senso della profondità, comprimendo fatti e idee dentro a contenitori dove spesso non c'è spazio per il groviglio di domande che contano.
Allora, quindici anni fa, gli esiti del cosiddetto 3+2 nel settore umanistico (e mi riferisco solo a questo ambito, perché nelle discipline scientifiche forse ha funzionato benissimo) non si erano ancora realizzati. Ma i più avvertiti avevano già capito l'impoverimento culturale a cui quella riforma - che prendeva avvio proprio in quell'anno - avrebbe portato. E cioè che per almeno i primi tre anni non si sarebbe fatto altro che impartire una conoscenza superficiale, ovvero si sarebbe fatto finta di insegnare la storia, la filosofia, la letteratura, le scienze umane. In un periodo decisivo per la formazione delle nuove generazioni si sarebbe gabellato per università ciò che università non era. Al massimo una messa a punto di ciò che era stato insegnato negli anni precedenti, con qualche coraggiosa apertura a quelli che una volta si chiamavano corsi monografici. E tutto ciò con la giustificazione che i ragazzi di oggi non sanno niente. Con il bel risultato che dopo tre anni avrebbero continuato a non sapere niente o quasi niente.
Scriveva Paolo Rossi: «Per diventare storici è necessario, prima di ogni altra cosa, mettere da parte i manuali (soprattutto di storia della filosofia), e cominciare a lavorare direttamente sulle fonti, leggendo qualche libro esemplare di storia e seguendo il metodo e l'esempio di qualcuno che ha già svolto ricerca». E poi avvertiva che se in filosofia possono esistere filosofi autodidatti, in storia questo non è possibile. «Gli storici insegnano anche un mestiere, così come si insegna a impagliare sedie o a costruire un muro di mattoni o effettuare un intervento di chirurgia». Frasi che meriterebbero di essere mandate a memoria e trasmesse a chi oggi si accinge a fare questo mestiere - insieme ad alcuni dei suoi scritti più celebri come Clavis Universalis e Francesco Bacone: dalla magia alla scienza.
Due, in particolare, sono le cose che subito s'imparano dai suoi libri. La prima è che si possono leggere libri di storia senza annoiarsi e senza che vengano semplificate cose che non possono essere semplificate. Basta aprire un suo libro a caso - oppure tornare a leggere gli articoli frutto della sua lunga collaborazione con la Domenica del Sole 24 Ore - per rendersi conto di quanto la sua scrittura fosse poco italiana. Saggi che iniziano in modo secco e conciso, a volte con elenchi di proposizioni, con interrogativi, con distinzioni schematiche e sintetiche, che hanno il grande merito di mettere il lettore immediatamente a proprio agio e catapultarlo dentro al vivo delle questioni.
La seconda - che aveva imparato da chi questo mestiere lo conosceva bene - è che le categorie di precorrimento e di anticipazione falsano la prospettiva storica e creano fantasmi e immagini fittizie, ostacolando la conoscenza dei contesti entro i quali i fatti accadono. Una convinzione in lui molto forte, a tal punto da farlo entrare spesso in polemica con scienziati ed epistemologi.
Ma una delle peculiarità che più emerge dal suo lavoro è stata quella di averci aiutato a riconoscere nel mondo delle idee le impurezze: la straordinaria mescolanza di attitudini di pensiero che danno luogo a molteplici e spesso contrastanti forme di rappresentazione del reale. Naturalmente per vederle è necessario coltivare e dare spazio a una posizione che lui chiamava di «copernicanesimo cognitivo», ovvero il rifiuto di qualsiasi idea che fa di noi stessi la misura del mondo. Un'idea regolativa che può essere applicata sia per indagare la pluralità e la coesistenza delle concezioni sulla natura alla fine del Cinquecento sia per comprendere i fondamentalismi e i nazionalismi del XXI secolo. E che al tempo stesso si presenta anche come un'ottima terapia per curare i sintomi di rinascenti filosofie troppo assolute e troppo sicure dei loro fondamenti.
A due anni dalla sua scomparsa uno dei modi per ricordarlo è provare a interrogarci sul significato di quel suo peculiare modo di fare storia delle idee, troppo sbrigativamente appiattito su autori come Arthur Lovejoy che pure lui contribuì a far conoscere in Italia. Ma che sono distanti dalle immagini del mondo che tanto lo appassionavano. Un mondo in cui le idee viaggiano senza protezione per labirinti e selve, per vie nascoste e sotterranee, che si trovano in uno stato sempre precario e di perenne contaminazione, pronte a essere travolte da conflitti mondiali oppure a vivere in una calma solo apparente.
Così, se volessimo tracciare una mappa europea delle origini della modernità, con particolare riferimento alle scienze matematiche, astronomiche e fisiche, ci troveremmo di fronte a una serie impressionante di isole e frontiere, di zone di confine e territori ostili governati da leggi molto diverse tra loro. La scienza moderna è figlia dell'impurezza e nasce dalla concorrenza tra tante individualità che neppure per un minuto pensano di allearsi e combattere insieme la loro battaglia di rinnovamento. È a posteriori che noi vediamo un partito dei moderni, perché è la nostra idea di modernità che sovrapponiamo al corso degli eventi reali.
Non era questo in fondo il senso di una sua ricorrente affermazione, e cioè che la nascita della scienza moderna non è nata nella quiete dei campus? È quello che avremmo desiderato, ma così non è stato. La storia non segue i nostri sogni epistemologici. Possiamo anche usarli per cercare di mettere un po' d'ordine nel mondo caotico che ci circonda, ma sapendo che sono modelli fittizi, ben lontani dal rappresentare la complessità del reale. «Ai grandi racconti dei filosofi c'è una sola tesi da contrapporre: quella della varietà che è irriducibile all'unità, quella del totale non-senso della riduzione a unità di tutto ciò che accade».

Il Sole 7.12.14
Fisica teorica
Sembra folle? Ma è la realtà
La teoria dell'inflazione eterna dell'universo dice che lo spazio è infinito, popolato da una infinità di galassie e che il Big Bang non è stato l'inizio di tutto
di Umberto Bottazzini


Che cosa è la realtà? si chiede Max Tegmark in apertura di questo libro. È uno dei grandi interrogativi che si sono posti pensatori di ogni epoca, e lo spettro delle risposte è quanto mai ampio e affascinante. Tegmark non sta a discuterle, si limita ad una sommaria lista. È un fisico teorico che, dopo un periodo trascorso al Max-Planck-Institut di Monaco e all'Institute for Advanced Study di Princeton, dal 2004 insegna al Mit, e la sua è la risposta di un fisico: «la fisica moderna ha chiarito fin troppo bene che la natura fondamentale della realtà non è quella che sembra». Da qui discende un grappolo di domande sempre più impegnative: se la realtà non è quella che credevamo, cos'è allora? Quali i costituenti ultimi di ogni cosa? Come funziona il tutto e perché? Quale ne è il senso, ammesso che ve ne sia uno? Prima di rispondere, Tegmark ci anticipa la sua convinzione, che non esita a definire «a prima vista folle» e cioè che «il mondo fisico non sia solamente descritto dalla matematica, ma che sia matematica». Insomma, «un gigantesco oggetto matematico di cui noi siamo elementi consapevoli». E per motivare questa convinzione, che porta ad ipotizzare una nuova famiglia di universi paralleli al nostro, ci invita a seguirlo in un lungo percorso intellettuale che coniuga i tratti dell'autobiografia con la storia delle recenti conquiste della cosmologia e l'astrofisica in pagine di agevole lettura e grande fascino. «Mi ritengo molto fortunato a poter passare gran parte del mio tempo a riflettere su domande interessanti», dice Tegmark del suo lavoro.
Domande come quella che gli ha posto un compagno di asilo di suo figlio: Lo spazio non finisce mai? «Questo ragazzino di cinque anni – confessa Tegmark – mi ha chiesto qualcosa cui non so rispondere!». E in verità, egli continua, nessuno conosce la risposta. È una domanda che a sua volta ne genera numerose altre, attorno alle quali gravita tutta la prima parte del libro. Per cominciare: quanto è grande lo spazio? Nel corso del tempo l'espansione del nostro orizzonte conoscitivo è cresciuta in maniera spettacolare: oggi sappiamo che lo spazio è almeno un miliardo di trilioni (ossia 1021) volte più grande di quello che immaginavano i cacciatori-raccoglitori della preistoria. Nel 1925 l'astronomo americano Edwin Hubble in una conferenza lasciò il pubblico a bocca aperta con l'affermazione che la galassia di Andromeda distava circa un milione di anni luce: ma come nel passato Aristarco e Copernico anch'egli si sbagliava per difetto, e in seguito altri astronomi hanno espanso i nostri orizzonti fino a miliardi di anni luce e oltre. Dal punto di vista matematico, la geometria di Euclide consente di descrivere rigorosamente uno spazio infinito. Ma, dopo la scoperta di geometrie non euclidee, per sapere in quale spazio viviamo la pura logica non basta. «Una delle idee più belle della teoria einsteiniana della gravitazione – sostiene Tegmark – è che la geometria non è solo matematica: è anche fisica». Infatti, le equazioni di Einstein spiegano la gravità come "una manifestazione della geometria". Nella teoria di Einstein lo spazio può essere finito in quanto curvo: in uno spazio del genere, dice Tegmark, «procedendo con una certa velocità e per un tempo sufficiente, finireste per tornare a casa dalla direzione opposta a quella di partenza». Lo stesso Einstein si rese conto che un universo infinito, statico e con una distribuzione uniforme di massa non obbediva alle sue equazioni della gravità e, con quello che definì il suo più grande errore, vi aggiunse un termine supplementare per fare in modo che l'universo fosse statico ed eterno (e invece oggi invece sembra necessario per descrivere l'energia oscura.
Fu il fisico russo Alexander Friedman nel 1922 a rendersi conto che la gran parte delle soluzioni delle equazioni di Einstein non erano statiche, e che la situazione più naturale era quella di un universo in espansione o in contrazione: Friedmann mostrò che per un universo in espansione c'era un istante in cui tutto era concentrato in un punto di densità infinita: «era nato il Big Bang» dice Tegmark ma, per ironia, la risposta della comunità dei cosmologi fu «un silenzio assordante». Lo stesso che accolse cinque anni dopo il lavoro di Georges Lemaître che riottenne i risultati di Friedmann. Dalla teoria del Big Bang di Gamow del 1946, alla scoperta della radiazione cosmica di fondo da parte di Arno Penzias e Robert Wilson, ai più recenti risultati sperimentali collegati ad essa, Tegmark ripercorre le tappe che hanno portato la frontiera delle nostre conoscenze all'indietro nel tempo da 13,8 miliardi (l'età dell'Universo) fino a circa 400.000 anni dopo il Big Bang. Restano numerosi misteri, dei quali forse il più clamoroso da spiegare è che la materia conosciuta dell'Universo occupa solo il 4% e la restante si divide tra energia oscura (il 70%) e materia oscura. "Oscura" nel senso che non si sa cosa sia. Un altro mistero è legato alla teoria del Big Bang: misure estremamente precise dicono che lo spazio è piatto, ma nel modello di Friedmann si tratta di una situazione estremamente instabile e appare misterioso come abbia potuto l'Universo durare così a lungo senza incurvarsi verso un Big Crunch (un Big Bang al contrario) o espandersi verso un Grande Freddo. Una risposta è venuta dalla teoria dell'inflazione eterna, secondo cui il Big Bang non è stato l'inizio di tutto, ma solo «la fine dell'inflazione nella nostra parte di spazio». La teoria dell'inflazione eterna risponde anche alla domanda del bambino: lo spazio è infinito, popolato da un'infinità di galassie e «si è sviluppato a partire da condizioni iniziali generate a caso dalle fluttuazioni quantistiche». Da questo punto si entra nel «regno del controverso», ammette Tegmark, quello dei multiversi paralleli, frutto della previsione di una teoria come quella dell'inflazione. Avventurarsi in quegli universi significa esplorare multiversi in una gerarchia di livelli di crescente diversità: il livello I (le regioni di spazio distanti e non osservabili), il livello II (le regioni post-inflazionarie), il livello III («altrove nello spazio di Hilbert quantistico») e infine il livello IV, un multiverso in cui «tutte le strutture che esistono in senso matematico esistono anche in senso fisico». E quest'ultima è la convinzione profonda di Tegmark, e in 300 pagine prova a convincerci che non è "folle" come sembra a prima vista.

Max Tegmark, L'universo matematico. La ricerca della natura ultima della realtà, Bollati Boringhieri, Torino,
pagg. 458 € 32,00

Il Sole 7.12.14
Teorie di moda
La decrescita? È infelice
È un'idea che postula tutto - lavoro, benessere, salvezza del pianeta - senza un reale e concreto programma politico
di Antonio Pascale


Nel Protagora di Platone, Socrate ascolta, appunto, Protagora che parla, e non appena termina, con sottile ironia, commenta: aveva finito di parlare ma era come se parlasse ancora. Socrate, cioè, era stato vittima di un'allucinazione sonora. Le parole di Protagora gli devono essere sembrate suggestive, emozionanti, e proprio per questo chiede al suo avversario (in una divertentissima tenzone) di cambiare metodo di discussione: per favore, frasi brevi e concise, così da evitare le allucinazioni sonore e provare a ragionare. Spesso in questo complesso mondo moderno, stimolante, interconnesso e veloce, abbiamo poco tempo per approfondire alcuni temi seri. Vorremmo essere slow, capire, riflettere, ma in realtà siamo fast, cerchiamo cioè soluzioni sbrigative e senza tanti conflitti, e allora – e questo capita soprattutto nei momenti di crisi – preferiamo quelle narrazioni assolutorie (il male è altro da noi), oppure diamo credito a concetti molto evocativi ma che, dopo un'analisi di buon senso, risultano vuoti. È il caso, per esempio, della parola decrescita: ha attecchito (e non solo nei salotti) ed è in pieno sviluppo vegetativo, basta pensare a quanti festival culturali vedono ospite Latouche. Viene voglia di capirci di più, anche perché si nutre il sospetto che la teoria sia confusa e proprio per questo ottimo nutrimento per le nostre anime anch'esse confuse (nonché benestanti, stanche e annoiate). Ci vorrebbe dunque un saggio, come dire, socratico, dialogante, frasi brevi e concetti precisi, analisi storica e dati. Insomma capace di diradare la nebbia emotiva. C'è, e si intitola: Contro la decrescita. Perché rallentare non è la soluzione di Luca Simonetti. Simonetti è al secondo libro, il primo era un breve pamphlet (Mangi chi può, meglio, meno e piano, Mauro Pagliai) dove l'autore affrontava l'ideologia di slow food e cercava di spiegare in che modo Carlo Petrini aveva trasformato una compagnia di ghiottoni di sinistra, quindi con sensi di colpa, in un movimento (reazionario) che esalta la narrazione del cibo, cioè ci fa mangiare, anche in abbondanza, senza farci sentire in colpa. Ora, la principale qualità di Simonetti è l'ascolto, sarà la formazione professionale (è un avvocato).
Prende molto sul serio quello che tu dici e poi piano piano comincia a farti domande, così per capire meglio, ti chiede le fonti, i riferimenti storici, gli strumenti comparativi e analitici usati, e piano piano a forza di domande ed esempi, smonta il tuo ragionamento. Così nel saggio Simonetti individua le varie versione della decrescita: la decrescita intesa come riduzione del Pil, come riduzione dei consumi, riduzione del tempo dedicato al lavoro, fuoriuscita radicale dall'economia di mercato. Passa poi a descrivere i vari tags della decrescita: la differenza tra merci e beni, la crescita infinita, i limiti della crescita, si stava meglio prima, l'agricoltura di sussistenza, e con puntiglio si mette a esaminarli: da dove vengono, a quali autori e quali correnti di pensiero sono ascrivibili? Sicuro che quelli della decrescita abbiano capito le conseguenze delle loro stesse teorie? Un esempio del metodo di Simonetti. Pallante propone la differenza tra beni e merci: lo stesso prodotto è un bene se viene autoconsumato o donato, mentre diventa merce se viene scambiato con denaro o altri prodotti; in alcune pagine lo smontaggio di alcuni capisaldi, come per esempio la suddetta differenza, raggiunge momenti comici.
Insomma: se un bene relazionale viene venduto, diventa una merce e allora (dice Latouche) «lo sfruttamento può diventare feroce e l'impatto materiale non indifferente». È come se – commenta Simonetti – il mero contatto con il denaro contaminasse il bene, mutandone la natura. «Immaginiamo un contadino che coltivi pomodori. I suoi pomodori li consumerà in parte in famiglia, in parte li scambierà per ottenere qualcosa che da solo non potrebbe procurarsi. A questo punto la teoria di Pallante porta necessariamente a concludere che i pomodori del contadino, fra loro identici perché prodotti sullo stesso pezzo di terra e con gli stessi metodi, si differenziano però dal punto di vista qualitativo (alcuni pomodori saranno qualitativamente "molto migliori") per la sola ed esclusiva ragione che gli uni vengono consumati dal contadino gli altri scambiati con denaro». Volete un esempio ancora più assurdo, domanda Simonetti: «Se suono il pianoforte in una sala da concerto, davanti a un pubblico composto da 175 spettatori paganti e 5 amici che ho invitato e che non hanno pagato il biglietto, sto contemporaneamente producendo merce per 175 persone e un bene per altre cinque. Quindi 5 persone ascolteranno un concerto che sarà molto migliore di quello ascoltato dai 175: il pezzo che ho suonato sarebbe un bene e una merce, quindi insieme qualitativamente molto migliore e molto peggiore di se stesso». Di fronte a fatti simili, rimpiangi subito Carlo Marx. Quello che si capisce leggendo il libro è che la decrescita attecchisce perché di fatto chiede tutto (la salvezza del pianeta, lavoro, beni e doni per tutti, tornare alla terra ma senza la zappa, uscire dal mercato e mantenere le istituzioni capitalistiche) senza davvero proporre un programma politico serio: che comprenderebbe un bilancio costi e sacrifici, ricavi e perdite (del resto la rivoluzione, si sa, non è un pranzo di gala). Un altro sentimento (si spera elitario) fa capolino talvolta tra i decrescisti: per quanto amino le belle parole e le nobili dichiarazioni di intenti, tanto nutrono odio verso la civiltà, verso l'uomo tecnologico e progressista, perché attraverso la scienza ha rotto il patto con la natura e il sacro. Savioli sostiene: «Non deve più esserci la grande industria: è incompatibile con la vita. E non devono esserci certi tipi di industrie, né grandi né piccole». Ecco, se ci pensate bene, queste dichiarazioni non sono isolate, in maniera più raffinata le sentiamo spesso pronunciare da tanti opinion maker e anche per questo immaginario il nostro Paese è stanco e fa fatica a risolvere i problemi, che ci sono eccome e che richiedono per essere affrontati strumenti moderni e analisi seria e dura: la logica deve crescere e non decrescere.

Luca Simonetti, Contro la decrescita. Perché rallentare non è la soluzione, Longanesi, Milano, pagg. 270, € 16,00

Il Sole Domenica 7.12.14
Filosofia politica
L'ansia scientifica di Freud
di Sebastiano Maffettone


Francesco Saverio Trincia, che insegna Filosofia Morale alla Sapienza (Roma), è l'autore di questa monumentale opera su "Freud". Non mancano di certo libri e articoli scientifici, come non mancano le polemiche spesso tanto virulente quanto superficiali, sulla psicoanalisi e il suo autore. Ma questo volume ha caratteristiche, che lo rendono particolarmente utile, del tutto diverse dal solito. Trincia ha deciso di presentare Freud nella sua integrità e complessità, e di farlo in maniera insolita in specie per un filosofo come lui che ha dedicato parecchi lavori alla psicoanalisi.Il libro è diviso così in quattro parti, Biografia, Analisi delle opere, Concetti-chiave e Storia della ricezione, senza nulla concedere alle tesi filosofiche dell'autore che solo emergono indirettamente dalla lettura delle pagine dedicate a Freud, oggetto unico e incontrato dell'opera. Le osservazioni di Trincia sulla biografia di Freud, e sull'importanza di discuterla alla luce di quanto la psicoanalisi ci dice sul rapporto tra persona e azione, sono pertinenti e acute. Anche la sua rilettura della ricezione di Freud è interessante e non manca di entrare nel vivo di dibattiti talvolta complessi e animati. Lo stesso si può dire della disanima dei concetti chiave del pensiero freudiano.
Ma la parte fondamentale di questo libro è senza dubbio costituita dalla analisi delle opere. Trincia ha infatti avuto l'ardire, non si può dire altrimenti, di presentarle al lettore una alla volta. Per chiunque abbia visto anche da lontano in una biblioteca il corpus delle opere freudiano è immediata la sensazione di stupore ammirato che un'impresa titanica del genere suscita. Si va così dai primi studi sull'isteria e il famoso (anche perché riletto da Lacan e Derrida) Progetto del 1895, ai grandi capolavori della psicoanalisi quali L'Interpretazione dei Sogni e La Psicopatologia della vita quotidiana, per andare infine sulle opere più direttamente culturali, quali Totem e Tabù e la Psicologia della masse. E così via.
La rilettura di Trincia è pacata, ma ovviamente non manca di esprimere una opinione di fondo. Freud è per lui un «romantico progressivo», volendo dire che le sue radici sono nel romancticismo anche se in Freud c'è un'ansia scientifica che lo trascende. Se non sbaglio, questa è all'incirca la tesi di Thomas Mann su Freud, ed è una tesi attendibile. Dovessi dire la mia, proporrei una visione più a metà strada tra romanticismo e illuminismo, ma si tratta probabilmente di una mia idiosincrasia. Quello che è invece certo è che Trincia presenta, in maniera assieme simpatetica e neutrale, una psicoanalisi "culturale" e non solo clinica, che è davvero indispensabile far conoscere al lettore.In altre parole, Freud non è solo l'inventore di una tecnica psicoterapeutica ma anche il creatore di una rivoluzionaria visione del mondo. In conclusione si tratta di un libro pregevole e utile. Se dovessi indicarne una sola mancanza, ma è evidentemente frutto di una scelta precisa dell'autore, direi che un capitolo sulla struttura filosofica della psicoanalisi sarebbe stato di qualche interesse. Anche se, devo ammetterlo, avrebbe tradito in parte la vocazione del volume nel suo complesso, che è quella di accompagnarci passo dopo passo alla comprensione di Freud.

Francesco Saverio Trincia, Freud, Editrice la Scuola, Milano, 2014, pagg. 473, € 26,00

Repubblica 7.12.14
Le critiche degli altri
Chi è più a sinistra di George Orwell
di Angelo Aquaro


SIAMO tutti di sinistra ma qualcuno è più di sinistra degli altri: e George Orwell era uno di quelli. Ma sì, riassumiamolo così, parafrasando proprio la legge della Fattoria, il giudizio che il Financial Times può finalmente proferire senza tema, giusto trent’anni dopo la fortunatamente mancata (davvero?) realizzazione delle profezie di “1984”. E già. «Sia destra che sinistra si sono intestati la sua opera. La destra per il suo vigoroso antitotalitarsimo popolarizzato negli ultimi romanzi, La Fattoria de gli Animali e 1-984. E poi perché nei suoi saggi e nel suo giornalismo mai smise di sfidare la conformità di sinistra». Sì, è proprio il giornalismo di Orwell a offrire adesso al quotidiano della City di rimisurarne l’inclinazione politica. Seeing Things As They Are: Selected Journalism and Other Writings è infatti la raccolta in uscita in Gran Bretagna che già nel titolo ( Vedere le cose per quel che sono) svelerebbe la vera attitudine orwelliana. Scrisse: Il nemico più grande della chiarezza di linguaggio è l’ipocrisia . Forse per questo la sua ricerca di verità non si fermò neppure di fronte alla denuncia (formulata davanti al Foreign Officers) dei suoi colleghi “critpo-comunisti”? Conclude sempre il Financial Times che «malgrado la profonda delusione, il pessimismo sul futuro e l’odio dello stato totalitario rimase profondamente di sinistra».
Insomma siamo tutti di sinistra ma qualcuno è più di sinistra degli altri: e George Orwell era uno di quelli. Così di sinistra da guardare oltre agli orrori e errori: a cominciare dai suoi.

Repubblica 7.12.14
Alfredo Reichlin
“La politica la fa chi crede in se stesso su di me ho avuto più di un dubbio”
intervista di Antonio Gnoli


IL MIO sguardo è attratto dal tappeto che divide il salotto dallo studio di Alfredo Reichlin. Un Kilim, precisa Roberta Carlotto. La trama evidenzia l’inconfondibile testa di Lenin, il Cremlino, e la tomba mausoleo del grande leader comunista. «Fu un regalo per gli ottant’anni di Alfredo», precisa la Carlotto. È il solo cimelio che noto. Il solo richiamo a una stagione che non c’è più: scomparsa.
Morta e sepolta. Sono andato a trovare Alfredo Reichlin con un sentimento di sparizione. Il vecchio leader, legato prima a Togliatti e poi a Berlinguer, compirà 90 anni tra qualche mese. Ha appena finito di scrivere un pamphlet. Un trattatello denso, duro, acuto. Apparentemente pensato per la sinistra, o ciò che resta di essa; in realtà scritto per raccontare ai più giovani un mondo diventato incomprensibile. Il titolo: Riprendiamoci
la vita ( edito da Eir).
Come si sente nella parte del vecchio nonno che spiega ai nipoti cosa sta accadendo?
«Come un uomo di un’altra epoca. Inadatto. Non tanto a esprimere giudizi, ma ad azzardare previsioni. Vedo una distanza incolmabile da tutto ciò che un tempo mi fu familiare. Non ho mezzi né energie. E tuttavia, in questo cataclisma, le sole forze cui affidarsi sono le generazioni future».
E la sinistra?
«Ha fallito. La sua crisi rientra nel più generale declino della civiltà europea. È finita l’occidentalizzazione del mondo».
Siamo entrati nel turbo-occidente.
«Senza più valori né punti di riferimento. La potenza economica ha travolto il potere politico. Chi è oggi il sovrano?».
Si è dato una risposta?
«I mercati governano, i tecnici gestiscono, i politici vanno in televisione. Parlo non da esperto, ma da uomo che è vissuto a lungo».
Che bilancio fa della sua vita?
«Un borghese diventato comunista. Mio nonno era un industriale svizzero. In Puglia aprì una fabbrica chimica. Mio padre fece altro. Dopo la Grande Guerra divenne un dannunziano convinto. La casa di Barletta, dove sono nato, piena di cimeli. Di frasi fatte e roboanti: “Ardisco e non ordisco”, la ricordo ancora. Ridicola».
Era l’anticamera del fascismo.
«Per qualche anno mio padre fu podestà di Barletta. Poi preferì dedicarsi alla professione di avvocato e ci trasferimmo a Roma. Avevo cinque anni».
Agli occhi di un bambino cos’era quella Roma?
«Provavo fastidio. Vedevo il contrasto tra quell’Italia, meschina, retorica, piccolo borghese, e le mie origini a contatto con il mondo contadino. Senza diritti né protezione. Gli anni del liceo al Tasso mi aprirono gli occhi. Fu lì, nella mia classe, che conobbi Luigi Pintor. E attraverso lui il fratello Giaime. Di pochi anni più grande. Divenne la nostra guida intellettuale.
Ci fece leggere Rilke, che aveva appena tradotto, Ossi di seppia di Montale e I proscritti di Salomon.
Per la nostra crescita politica ci affidò a Eugenio Colorni. Che poi sarebbe morto tragicamente in un agguato nel 1944».
Qualche mese prima morì Giaime.
«Saltò su una mina tedesca nel dicembre del 1943. Luigi venne a casa mia per darmi la notizia. Smunto, con le labbra contratte, disse: dobbiamo vendicarlo».
Cosa intendeva?
«Voleva dire cambiare la natura del nostro impegno politico. Diventammo gappisti; entrammo in clandestinità. Un uomo misterioso, che poi risultò essere Valentino Gerratana, ci consegnò delle armi. Furono mesi terribili. Consapevole che se fossi stato preso mi avrebbero torturato e poi ucciso. A un certo punto qualcuno del nostro gruppo tradì. A un appuntamento con dei compagni arrivò la Banda Koch. Arrestarono Luigi e pure Franco Calamandrei ».
Si scoprì chi aveva tradito?
«Sì, il Cln, con a capo Giorgio Amendola, processò il traditore che nel frattempo si era aggregato alla Banda Koch. La direzione dei Gap decise che fossi io a dargli la caccia e ad eseguire la sentenza di morte. Riuscì a scappare a Milano. E solo dopo seppi che era stato ucciso in uno scontro a fuoco con i partigiani».
Lei partecipò anche all’attentato di via Rasella?
«Non direttamente anche se fummo noi gappisti a organizzarlo».
Cosa sa dell’assassinio di Gentile?
«Ero a Roma. Mi giunse la notizia che i Gap avevano, nei dintorni di Firenze, giustiziato Gentile. È quello che so. In quei giorni fui catturato da un paio di fascisti. Mi trascinarono per la discesa di via Cavour. Pensai è finita. Quando, dal fondo della strada, comparve improvvisamente Arminio Savioli. Un compagno. Puntò la pistola contro i due e sparò. Uno cadde. Mi liberai dell’altro. E cominciammo a correre».
Come ha vissuto in seguito quel clima di violenza?
«Sono storie che non mi piacciono. Ma eravamo in guerra. Bisognava sapere da che parte stare. Quello che venne dopo non fu facile».
Venne la Liberazione.
«Con gli americani a Roma ci fu un’esplosione di gioia. Era bello aver riconquistato la libertà. Ma al tempo stesso Roma mostrava il suo volto peggiore. Le puttane, i borsaioli, i fascisti che ancora resistevano e circolavano. Pensavo: ma per chi abbiamo combattuto e rischiato? Fui preso da una crisi di identità. Non sapevo più chi fossi. Ero disorientato, caddi in depressione ».
Come reagì?
«Ero in condizioni penose. Il Partito comunista decise di fare incontrare i gappisti che a Roma avevano lottato per la Resistenza. Eravamo una trentina. Molti di noi non si conoscevano. Ci vedemmo nella casa di uno di loro. Scoprii che tra gli altri c’erano Calamandrei, Salinari, Bentivegna, Carla Capponi. Parlammo a lungo. Ci abbracciammo. Improvvisamente il padre di quello che ci ospitava, un vecchio ferroviere, si sedette al pianoforte. Cominciò a suonare le prime note dell’ Internazionale . Era la prima volta che l’ascoltavo. Qualcuno prese a cantare. Fu in quel momento che mi ritrovai ».
Fu in quel momento che iniziò la sua storia nel Pci?
«In un certo senso è così. Ero giovane. Togliatti rientrava dopo i lunghi anni passati in Unione Sovietica. Affamato di novità. Mi colpì il rigore, la cortesia, l’intelligenza, la disponibilità verso i più giovani».
Sembra descrivere un professore.
«In un certo senso lo era. Avrebbe potuto esserlo».
E lei tra gli allievi preferiti.
«Diciamo tra coloro che ascoltava con attenzione e piacere. Mi collocò all’ Unità, a stretto contatto con Pietro Ingrao, dove divenni direttore nel 1956».
Quell’anno ci fu l’insurrezione ungherese e l’invasione sovietica. Un anno terribile per il partito.
«Sì, dice bene: terribile».
La posizione troppo filosovietica del Pci indusse molti ad andarsene, a uscire dal partito.
Mi scusi, ma non è che i compagni del partito fossero tutti così disinteressati alle sorti dell’Urss.
«Ci furono dei casi di coscienza, che rispetto. Altri che uscirono per approdare a lidi politici completamente opposti. Li rispetto un po’ meno».
Lei non ebbe allora la consapevolezza che una frattura si stava consumando e che l’Unione Sovietica non era poi quel mito di libertà che si immaginava?
«A me dell’Unione Sovietica non fregava niente. Togliatti su questo fu chiarissimo: la rivoluzione in Italia non si fa con il mito del socialismo, bensì portando a compimento quella storia italiana che il Risorgimento non riuscì a realizzare».
«Il confronto fu aspro, duro, a tratti perfino violento. Non dimentichi che il partito aveva una base di due milioni di iscritti, molti dei quali non avevano rinunciato a quel mito cui alludeva».
Personalmente come visse lo scontro?
«La mia coscienza ne fu lacerata. Ma la scelta chiara: stare con i miei».
Cioè stare con il partito?
«Sì».
A un certo punto il partito la rimosse da direttore dell’ Unità per posizioni troppo vicine a Ingrao.
«Io, Pintor e Vittorio Foa pensavamo che il quadro capitalistico stesse cambiando e che occorressero posizioni politiche più avanzate. Questo creò un problema a Togliatti».
Quanto grande?
«Parecchio. Ingrao non era ben visto da una parte cospicua del partito. Ricordo che Togliatti mi convocò. Mi disse con una sfumatura paterna: “Alfredo, o mi dimetto io o ti dimetti tu”. Mi mandò prima in America Latina e poi mi spedì in Puglia».
Tornava alle sue origini.
«L’esperienza tra i braccianti pugliesi fu fondamentale. Durante la notte con il segretario dei braccianti giravamo paese per paese per controllare i picchetti e farmi conoscere dai contadini. Dopotutto, ero in quel momento il rappresentante di Togliatti».
È vera la storia che il suo nome fu storpiato in quello di un celebre cardinale?
«Accadde durante un comizio con i contadini. Il segretario provinciale introducendomi disse: ed ora diamo la parola al compagno Richelieu!».
Non si sente parte, diciamo così, di una sinistra estetica?
«Cosa vuol dire?».
Una sinistra che pensa e ragiona bene. Che si contorna di belle cose, che dialoga con gli scrittori e gli artisti. Questo intendo.
«Cosa dovrei risponderle? Non eravamo solo noi ad andare verso la cultura, era la cultura attratta da noi».
Siete stati accusati di aver svolto un’egemonia culturale. Imponendo una linea a senso unico.
«Ci siamo difesi. Dovevamo lasciare il campo alla destra becera e incolta o alla Democrazia cristiana? E poi, dico la verità, quale egemonia? Eravamo fuori da tutto: dall’università, dalla televisione. Il nostro punto di forza fu la casa editrice Einaudi. Ma le assicuro che quanto a realismo nessuno superava quel rompicoglioni, lo dico in senso affettuoso, di Giulio Einaudi».
Cosa pensa di Mario Alicata che, oltre a prendere il suo posto alla direzione dell’ Unità, fu uno dei guardiani di quella egemonia?
«Uomo di grande intelligenza. Capacità lavorativa mostruosa. Affetto da un fanatismo politico senza pari. Odiava Ingrao e questo me lo rese inviso. La politica è anche fatta di questo: amori e odi».
A proposito di amori, come fu quello con Luciana Castellina?
«Fu la scoperta della felicità. Luciana era libera da tutto. Una libertà che non avevo mai conosciuto. Furono anni straordinari e molto dolorosa la separazione. Almeno così io la vissi».
Un’altra separazione, immagino anch’essa dolorosa, fu quella da Luigi Pintor quando, insieme ad altri, fu espulso dal Pci. Cosa ha provato?
«Dal punto di vista politico mi sembrava che la loro analisi fosse del tutto sbagliata. Oggi se la raccontano in un altro modo, ma allora pensavano che in Occidente fosse maturo il comunismo. Un abbaglio. Imperdonabile ».
I rapporti con Pintor, con l’amico più caro?
«Quel senso di intimità che per lungo tempo provammo si perse. Per me era sempre stato il punto di riferimento. Scoprii che eravamo diventati diversi».
Quanto diversi?
«Un giorno Gabriele De Rosa mi disse: Luigi ha un problema religioso. Ecco cosa è stato Luigi: un grande moralista. L’ultima vacanza che facemmo assieme fu a San Candido. Erano i giorni di Natale. Colsi, per la prima volta, la profondità del suo radicalismo etico. Improvvisamente capii che eravamo diventate due persone distanti».
Chi la conosce dice: Reichlin è uno che non è mai stato veramente attratto dal potere. Cosa risponde?
«Forse è quel lato estetico al quale alludeva. Forse è il mio enorme limite. Non ho mai avuto niente. Neppure una scorta, una macchina a disposizione».
Avverto una punta di snobismo.
«Mi ritengo un po’ snob. Non so se sia un pregio o un difetto. Quello che so è che la politica la fa chi crede fortemente in se stesso. Su di me ho avuto più di un dubbio. Che ho sciolto con qualche ironia e un certo dilettantismo. Oggi nessuno capisce più niente di ciò che sta accadendo. Il primo che passa, con un po’ di parlantina, prende voti per il potere. Ma è questa l’Italia a cui pensavamo?».
Ha mai più avuto crisi di identità?
«No, dopotutto mi ritengo un uomo fortunato. Ho goduto di alcuni privilegi. Ho una moglie, Roberta, splendida, una vita felice. Due figli che hanno intrapreso una strada che non si interseca con la mia. Ma è la loro e del resto non ho avuto su di essi nessuna influenza ».
C’è una virtù che rivendica?
«Quella di ragionare. L’analisi è tutto. Fu una cosa che appresi da Togliatti».
Meglio lui o Berlinguer?
«Due grandi leader. Diversi per tempi differenti».
Sente di essere stato un leader mancato?
«I numeri uno sono rari, come la neve d’estate. Della politica ho amato più l’intelligenza che l’azione. Ho sempre visto la grandezza di un problema, ma non ho mai avuto la forza né la voglia di risolverlo. E per questo oggi ne posso parlare con la libertà di un novantenne ».