martedì 9 dicembre 2014

il Fatto 9.12.14
La fine della Livorno rossa Solo 2200 alle primarie Pd
di Emiliano Liuzzi


IL NUOVO SEGRETARIO PROVINCIALE È LORENZO BACCI, GIOVANE SINDACO RENZIANO DELLA PICCOLA COLLESALVETTI. ORA ATTESA LA NOMINA PER L’AUTORITÀ PORTUALE

Livorno. A distanza di sei mesi, la Livorno che fu del Partito comunista celebra la sua seconda sconfitta: solo 2.200 persone che votano alle primarie per avere un segretario che il Pd non aveva più. E non sono pochi, sono niente, se rapportati a quello che il partito e i suoi antenati sono stati per la città: hanno visto, nel 1921, nascere il partitone, lo hanno celebrato, hanno vissuto gli anni dove si sparava contro i fascisti, il dopoguerra degli americani dove le segnorine, così chiamavano le prostitute, ballavano il twist e coccolavano i soldati, hanno contribuito a far crescere il porto, visto nascere le prime cooperative.
Poi, d’un colpo, è finito tutto. “Non avevamo nessuna voglia di diventare democristiani”, dice Giuseppe Mucci, ex iscritto al Pci, al Pds, ai Ds e poi anche al Pd. “Il corso renziano era la rinascita della Democrazia cristiana, quella che noi abbiamo sempre combattuto col coltello tra i denti”. Tutto riassunto molto bene sulla locandina del Vernacoliereche spiega come Renzi se la sia fatta sotto. È spiegato in termini più espliciti, alla Vernacoliere, insomma, ma il senso si capisce bene. Il mensile satirico non ama Renzi, né lui né la storia dalla quale proviene e nemmeno la sua città. “Per noi i fiorentini” come dice il direttore e fondatore del giornale, Mario Cardinali, “sono quelli che l’estate vengono al mare e affogano”.
È bastato che Beppe Grillo proponesse un candidato alternativo perché esplodesse la rinegoziazione del passato. Che poi, a dirla tutta, neppure è stato Grillo a tirare la volata a quello che sarebbe diventato il nuovo sindaco, Filippo Nogarin, perché il leader del Movimento cinque stelle non fece nessuna campagna elettorale a Livorno, non si affacciò neanche, tanto era certo di non vincere.
OGGI il Pd aveva riposto nelle primarie l’occasione per rialzarsi, anche perché a breve c’è da scegliere l’uomo per l’autorità portuale, quello che muove lo scacchiere dei quattrini e che viene deciso dal governo, dunque dal ministro Maurizio Lupi, e, di conseguenza, da Matteo Renzi. Ma la bocciatura delle urne è stata sonora: su una provincia di 343 mila abitanti hanno votato in tremila e seicento, meno dei diecimila che hanno votato nella provincia di Padova quindici giorni fa. E Padova non è Livorno. Laggiù più che la sinistra hanno visto nascere e avanzare la Lega nord, e qualche differenza esiste. Alla fine a Livorno ha vinto Lorenzo Bacci, giovane sindaco di Collesalvetti, comune che segna il confine con la provincia di Pisa. “Vista la situazione nella quale il partito era non possiamo definirlo un flop. È vero che a malapena è stato superato il numero degli iscritti, ma questa elezione ci permette di ripartire con fiducia è un altro impulso”. Bacci dimentica che, nonostante fosse il candidato dell’apparato, è uscito segretario grazie a 36 voti. Numeri da elezioni di condominio. E per la prima volta votavano anche i non iscritti e i ragazzi che hanno compiuto il sedicesimo anno di età. È l’elezione del corso di Renzi, che ovviamente, non si esprime. L’emorragia di iscritti, dunque la partecipazione che poi si traduce anche quando c’è da votare per davvero e non solo alle primarie (leggere Emilia Romagna) non sembra essere uno dei suoi problemi.
MA LIVORNO riflette bene quello che accade in tutte le federazioni del Pd: un partito spaccato in diverse correnti, gli iscritti che non ci sono più, le casse di un partito rimasto senza il becco d’un quattrino. Trattasi del nuovo corso, e non potrebbe essere altrimenti. Neppure in una città che ha vissuto di falci e martello, dove i quartieri si chiamano Shanghai, Corea e dove qualche bandiera rossa, seppur sbiadita, ha sempre sventolato. Dovrà correre questo Bacci. Ma correre forte assai, perché a prescindere dall’esistenza o meno dei Cinque stelle, Livorno rischia di essere persa per sempre.

La Stampa 9.12.14
Se si spezza il segreto sulle donne che non riconoscono i loro figli
Protesta contro la legge che potrebbe togliere l’anonimato
di Giacomo Galeazzi


«Pronto chi parla?». «Sono tuo figlio». Scene di un passato che riappare con un colpo di telefono o lo squillo di un campanello. Il Parlamento sta per dare il via libera alla ricerca delle donne che «in anonimato» hanno messo al mondo bimbi. In ballo questioni pesanti: la tutela del segreto del parto, la difesa della salute delle donne, il futuro dei bambini non riconosciuti. Dietro i principi, 90mila italiane che dal 1950 ad oggi hanno partorito avvalendosi del diritto alla segretezza, che potrebbe avere i giorni contati. Una bufera in arrivo.
In pratica, all’altro capo del telefono potrebbe esserci presto una persona che, a distanza di anni, vuol conoscere chi gli ha dato la vita. «Mamme segrete» vissute finora nella certezza che nessuno lo avrebbe saputo. La legge, infatti, consente di partorire in ospedale, garantendo le cure sanitarie per sé e per il nascituro, anche nel caso in cui decida di non diventarne formalmente la mamma. Così il neonato viene subito dichiarato adottabile e immediatamente inserito in una famiglia adottiva.
Lo Stato le riconosce il diritto alla segretezza del parto: per 100 anni nessuno potrà conoscerne l’identità. Ma nel dicembre 2013 una sentenza della Consulta ha dichiarato illegittima la norma nella parte in cui non consente di verificare in seguito la volontà delle donne di restare anonime. Sono state presentate alla Camera varie proposte di legge, oggi in discussione alla commissione Giustizia che le ha unificate attraverso l’elaborazione di un testo base. Protesta Donata Nova Micucci, presidente dell’Associazione delle famiglie adottive e affidatarie (Anfaa): «La procedura di accesso all’identità della partoriente, nella formulazione del testo base, prevede che il tribunale, su richiesta dei non riconosciuti alla nascita, si attivi per rintracciare la donna». Un dolore che esplode di nuovo .
E ciò «senza formalità», cioè senza garanzia del rispetto del suo anonimato. Avendo effetto retroattivo, la nuova norma (se approvata) avrebbe «conseguenze gravi ed irreversibili sul oltre 90mile donne». Per l’Anfaa «il Parlamento non può tradire l’impegno assunto». Ricercare a distanza di decenni queste donne, in mancanza di una loro preventiva rinuncia all’anonimato, mette in pericolo la serenità della vita che, sicure della segretezza garantita, si sono costruite, con gravi ripercussioni su di loro e sui loro familiari, spesso ignari di quanto avvenuto in passato.
«Nei confronti delle donne che hanno deciso di non riconoscere il loro nato, nessuno può permettersi di dare giudizi: si tratta di scelte dolorose e sofferte, che tutti dobbiamo rispettare, compresi, per primi gli individui cui hanno dato la vita», sostiene Donata Nova Micucci. Ad allarmare le famiglie adottive e affidatarie sono anche le conseguenze che la nuova norma potrà avere sulle gestanti che in futuro volessero non riconoscere il proprio nascituro. «Lo faranno sapendo che, senza il loro preventivo consenso, potranno essere rintracciate dopo 20 o 30 anni o più? Che ne sarà dei loro piccoli?- si chiede Nova Micucci -. Queste gestanti non andranno più a partorire in ospedale, non avendo garanzie sulla segretezza del parto e aumenteranno gli infanticidi e gli abbandoni dei neonati». Un patto del silenzio.
Un’alleanza infranta con «soggetti deboli», donne spesso giovanissime o vittime di stupri o violenze. Lo Stato si è impegnato a tutelarle e ora «il Parlamento, non può tradire quell’impegno». L’Anfaa, insieme ad altre fondazioni, associazioni e onlus raccoglie firme per la «difesa del segreto del parto, della salute delle donne e del futuro dei bambini non riconosciuti». Diritto all’oblio rispetto a un passato che riappare all’improvviso. Salvaguardia di una «intesa » tra lo Stato e le partorienti di ieri, di oggi e di domani.

La Stampa 9.12.14
«Lo Stato tradisce la sua promessa
. Le nostre nuove vite saranno distrutte»


Rita, 48 anni, è una «madre segreta» da quando, sedicenne, decise di non riconoscere il neonato. 
Che cosa può cambiare ora?
«Ho alle spalle un passato doloroso e sono certa che non sarei in grado di riviverlo. Dopo tanto tempo quella ferita è stata riaperta dalla Corte costituzionale che ha accolto l’istanza per smantellare il parto segreto. Quando ho letto la notizia credo il mio mondo si è dissolto in un attimo: ho guardato i miei familiari, ignari, e ho visto la fine della vita che con fatica mi sono costruita e guadagnata. Non ho la forza di raccontare tutto alla mia famiglia attuale, non lo posso immaginare, mi sento morire e nell’attesa di questa condanna, io mi sento morire piano piano»
Lo Stato «si rimangia» un patto con vittime di violenze, stupri e scelte dolorose?
«Sì. Che Dio mi perdoni se a volte vorrei farla finita, anche se poi non so se ne avrei il coraggio. La mia vita ormai dipende dal legislatore. È una violenza contro noi madri segrete e contro la civiltà cancellare con un tratto di penna il parto anonimo. Quelle come me non possono palesarsi, non possono parlare ai dibattiti, devono solo aspettare».
Quali sono le conseguenze?
«Ho cominciato a vivere nel terrore che un giorno arrivi a casa una raccomandata che mi obblighi a presentarmi in tribunale, come una malvivente. Ho il timore di dover ripercorrere quella esperienza terribile. Io ho la certezza che non riuscirò a sopportare tutto questo. Uno Stato non può tradire in questo modo un patto stipulato che mi ha portato a fare questa scelta, anche se imposta, che mi ha permesso di non abortire. Sono disperata all’idea di poter fare soffrire i miei cari. Spero anche che la creatura che ho messo al mondo e per la quale prego sempre (sono aiutata da un padre spirituale) sia serena, considerando le sue origini, quelle delle persone che lo hanno adottato, loro sono i veri genitori. Rivivo l’incubo di ieri e ciò non è giusto».[Gia.Gal.]

Repubblica 9.12.14
Marino e il rischio di un morbido commissariamento
La soluzione del cosiddetto “accesso agli atti”, ossia di un controllo prefettizio è inevitabile
di Stefano Folli


COME in una matrioska russa, l’inchiesta sul malaffare a Roma è una vicenda giudiziaria che contiene in sé un primo livello politico e poi un secondo livello, ancora in parte da esplorare, in cui politica e istituzioni si mescolano. Cosa ci sarà al fondo di tutto, ancora non è chiaro.
Sull’inchiesta le notizie non mancano e riempiono i giornali. Quanto al primo livello politico, basta sentire ieri Matteo Renzi: «Non lasceremo la capitale in mano ai ladri». Parole che confermano l’alleanza obbligata con il sindaco Marino, l’uomo di cui il premier ritiene di non poter fare a meno in questo frangente perché rappresenta l’unico terrapieno prima del disastro. Le dimissioni del primo cittadino, o peggio ancora lo scioglimento del Consiglio comunale della capitale d’Italia, sarebbero un danno enorme per la credibilità del messaggio renziano. D’altra parte, lo scandalo in corso proietta veleno in ogni direzione, specie all’estero. È la peggiore conferma di tutti i pregiudizi sull’Italia, di tutti i luoghi comuni che alimentano da decenni in Europa il mito negativo di un paese inaffidabile perché prigioniero dell’illegalità e di una classe dirigente meno che mediocre.
La linea di Renzi («cacciamo i ladri») è in sintonia con quella del commissario anti-corruzione, Cantone, ma non basta a nascondere del tutto la grave preoccupazione che si respira a Palazzo Chigi. Come trincea invalicabile, Ignazio Marino non offre molte garanzie. Oggi il sindaco si sente rinvigorito dallo scandalo che colpisce alcuni dei suoi nemici e mette lui su un piedistallo. Ma c’è il rischio che sia un piedistallo fragile. Del resto, Marino non è mai stato un uomo di Renzi, con il quale i rapporti sono stati freddi fino a ieri. Lo stato di necessità può fare miracoli, ma è dubbio che il sindaco possa diventare quel protagonista della rigenerazione politica a Roma di cui il mondo renziano ha urgente bisogno. Tuttavia, come si è detto, le circostanze impongono di sostenerlo nella speranza che gli sviluppi delle indagini non travolgano tutti gli argini.
In ogni caso, se dai casi romani si alzano gli occhi verso il quadro nazionale, è chiaro che l’appoggio a Marino non basta. Non senza ragione il premier rivendica di aver prima contenuto e poi costretto alla ritirata Beppe Grillo e il suo movimento. Ma la crisi dei Cinque Stelle non ha di sicuro cancellato il fenomeno dell’anti-politica. Quando Renzi afferma: «È merito nostro se Grillo torna a fare le tournée in veste di comico», egli dice solo una parte della verità. In realtà il declino di Grillo come leader carismatico non esclude che altri raccolgano il vessillo della contestazione. Il voto in Emilia Romagna ha certificato il malessere degli elettori attraverso un astensionismo senza precedenti. Ma ogni pezzo del territorio nazionale fa storia a sé. Quel che è certo, nessuno nel governo e nella maggioranza può volere le dimissioni di Marino e una corsa auto-lesionista verso le elezioni comunali anticipate. Il problema è quanto a lungo potrà essere tenuta questa posizione.
Esiste infatti un secondo livello politico-istituzionale che riconduce, da un lato, agli sviluppi giudiziari e, dall’altro, al ruolo del prefetto di Roma, Pecoraro, che si trova a maneggiare una materia incandescente. Per un verso le istituzioni non possono restare inerti di fronte a quello che succede in Campidoglio; per l’altro Roma non è un minuscolo comune del profondo Sud che può essere sciolto per mafia senza troppi ripensamenti. Agire su Roma è una responsabilità politica di primo piano, non certo un fatto tecnico.
Ecco perché il prefetto fa riferimento al ministro dell’Interno. Non potrebbe essere altrimenti in questo caso. E Alfano non vuole certo dispiacere a Renzi, ma non può nemmeno chiudere gli occhi, aprendo un credito illimitato al sindaco Marino. Tutto è precario in questa storia e può darsi che altre ombre siano incombenti. La soluzione del cosiddetto «accesso agli atti», ossia di un controllo prefettizio sulla gestione del municipio, è quindi inevitabile. È una forma di commissariamento «morbido» che non cancella il ruolo del sindaco, ma nemmeno gli lascia tutte le carte in mano. E domani è un altro giorno.

Repubblica 9.12.14
“Modifiche solo concordate con Forza Italia”
Summit Pd sulle riforme. Il ministro Boschi blocca la protesta della minoranza democratica. Tempi stretti per il sì E Renzi insiste sui capilista bloccati: “Questa legge ci impone di essere un partito serio e di selezionare la classe dirigente”
di Francesco Bei


ROMA Il patto del Nazareno resta una parete liscia, impossibile da scalare per la minoranza del Pd. Non sono servite quattro ore di riunione serrata del gruppo Pd in commissione affari costituzionali (in una Montecitorio deserta per la festa dell’Immacolata) per trovare un’intesa tra governo e opposizione interna. «Ogni modifica alla riforma costituzionale - è stato il mantra ripetuto dal ministro Boschi - va concordata preventivamente con Forza Italia. Ci deve essere l’assenso di tutti i contraenti del patto».
Contro questo muro è andata a infrangersi la richiesta di poter sottoporre l’Italicum al controllo preventivo della Corte costituzionale. Una possibilità contenuta in un emendamento del dem Andrea Giorgis, che viene ritenuta quasi una provocazione dai pattisti “nazareni”. Boschi ieri ha chiarito che «su questo Forza Italia è nettamente contraria» e quindi la modifica non può passare. Ma la minoranza dem sospetta che sia in realtà Renzi stesso il principale oppositore di una clausola che potrebbe mettere a rischio il nuovo Italicum 2.0 una volta approvato dal Parlamento.
Se sul punto principale - il controllo costituzionale preventivo dell’Italicum- la riunione è stata un dialogo tra sordi (...)

Repubblica 9.12.14
Oltre 6mila euro a chi assume e licenzia dopo un solo anno Jobs Act a rischio boomerang
Simulazione Uil: gli sgravi su contributi e Irap sono molto più alti dell’indennizzo che si vuol dare a chi è espulso: 1 mensilità e mezza
di Valentina Conte


ROMA Cosa ci guadagna un’impresa ad assumere e licenziare nel giro di pochi mesi? Ora come ora, solo grane giudiziarie. E il rischio di reintegrare e risarcire il lavoratore, se così decide il giudice. Dal primo gennaio, belle cifre. Per uno stipendio medio (22 mila euro lordi annui), dai 5 ai 16 mila euro, a seconda se si licenzia dopo uno o tre anni. Ma si può arrivare anche a 6.600 euro dopo appena dodici mesi. È l’effetto matematico e paradossale degli sconti su Irap e contributi previdenziali inseriti nella legge di Stabilità, da una parte. E degli indennizzi previsti dal Jobs Act per il nuovo contratto a tutele crescenti, dall’altra. Gli incentivi sono assai cospicui, mentre l’esborso dovuto in caso di licenziamento illegittimo - ora che l’articolo 18 di fatto non esiste più - è davvero risibile. Una mensilità e mezzo per anno lavorato, secondo l’ipotesi più accreditata (ma le associazioni imprenditoriali puntano a meno). Così, visto che il lavoro oramai ha un prezzo, al datore conviene davvero il contratto nuovo. Più che le tutele, a crescere sarà solo il suo conto in banca.
Si dirà, è un’ipotesi di scuola. Se prendo un lavoratore e lo tengo tre anni, perché licenziarlo? Per lo stesso motivo per cui ora i contratti a termine durano pochi mesi. Porte girevoli. La crisi è tutta qui. Lo sconto Irap (deducibilità del costo del lavoro) è permanente. Quello sui contributi previdenziali per i neoassunti (con un tetto a 8.060 euro annuo) vale fino al 2017. Entrambi non hanno vincoli. Né alla stabilizzazione del lavoratore, né a creare posti aggiuntivi. Tantomeno prevedono riserve, ad esempio ad aziende meritevoli che investono in ricerca o che non hanno licenziato nel recente passato (la sinistra dem diceva di voler inserire paletti alla Camera, non è stato fatto). Dunque perché rinunciare ai soldi pubblici dati a tutti, se poi licenziando anche in modo illegittimo si deve sborsare appena una mensilità e mezza per anno lavorato?
Viva il contratto a tutele crescenti, dunque. Il saldo a favore delle imprese, calcolato per diversi livelli di reddito dal Servizio politiche territoriali della Uil, lascia sgomenti. Dopo un solo anno, si possono intascare oltre 6 mila euro. Dopo tre anni, quasi 19 mila. Il massimo al Sud, perché lo sconto Irap è più generoso, grazie alla norma Monti. A proposito di Sud, i fondi per coprire il bonus contributivo sui neoassunti (3 miliardi e mezzo nel triennio) sono stati scippati dal Piano azione e coesione creato dall’ex ministro Barca. Fondi europei, dunque. E fondi destinati proprio al Sud, ora spalmati su tutta Italia (con presumibile maggiore beneficio al Nord, laddove si assumerà di più). Il paradosso nel paradosso.
Impossibile che gli imprenditori italiani non facciano questi calcoli. Nel giro di tre settimane, quando il primo decreto delegato del Jobs Act sarà ormai messo a punto, il quadro emergerà ancora più nitido. Il decreto dirà, finalmente, come funziona il contratto a tutele crescenti. E cioè che a crescere sarà solo l’indennizzo, visto che di riavere il posto dopo il licenziamento benché illegittimo neanche a parlarne (spetta solo se c’è discriminazione e in selezionatissimi casi disciplinari). Ma come crescerà, l’indennizzo? Una mensilità e mezzo per anno lavorato è davvero poco. La legge Fornero ora in vigore prevede fino a 12 mensilità, a prescindere dall’anzianità, e il reintegro: entrambi decisi dal giudice al termine della causa di lavoro. Per le aziende sotto i 15 dipendenti il reintegro non c’è ed è sempre il giudice a decidere un risarcimento tra le 6 e le 12 mensilità. In tutti e due i casi, una situazione certo migliore, specie per i precari con poca anzianità, di quanto si profila con il Jobs Act. Qualcosa davvero non funziona.

Repubblica 9.12.14
Tariffe pubbliche in aumento del 7,5%, al top rifiuti urbani acqua e Poste

ROMA Durante gli ultimi due anni si è verificato un aumento delle tariffe pubbliche medio del 7,5 per cento con un vero e proprio boom per quelle locali che hanno registrato una crescita nel corso del 2013 e del 2014 (il dato contempla la proiezione a fine anno) pari al 9,5 per cento. A rilevare la dinamica dei costi è l’Osservatorio Indis di Unioncamere: secondo il documento, in testa alla graduatoria risultano i rincari per le tariffe sui rifiuti solidi urbani (in crescita del 18,2 per cento), per quelle sull’acqua (+12,7 per cento) e per le tariffe postali (in rialzo del 10,1 per cento)

il Fatto 9.12.14
“Quando i violentatori sono soldati Usa niente carcere”
La rabbia dei legali delle vittime dopo che il militare, già accusato di stupro, è fuggito dalla base Nato e ha aggredito altre due donne
di Alessio Schiesari


“Questa volta il processo si farà in Italia”. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando torna sull’ennesimo episodio di violenza di genere che vede coinvolto un militare americano della base Del Din (conosciuta come Dal Molin) a Vicenza. A differenza di quanto accaduto tante altre volte in passato, il guardasigilli promette che l’Italia stavolta non rinuncerà al processo. Resta il fatto che a compiere la violenza (un’aggressione che non è però sfociata in uno stupro) è, per la terza volta, lo stesso militare: Jerelle Lamarcus Gray di 22 anni. E che, nonostante le due violenze sessuali per le quali è indagato, Lamarcus non si trovasse in carcere, ma agli arresti domiciliari dentro la base, dalla quale è riuscito a fuggire. Il suo nome compare la prima volta sulle cronache locali nel novembre 2013 quando una minorenne lo accusa di averla stuprata all’uscita da una discoteca.
NEL LUGLIO scorso il secondo episodio: una prostituta di 27 anni accusa lui e un suo commilitone di violenza sessuale e del successivo pestaggio di cui è vittima. La donna era incinta di sei mesi: il figlio è nato con malformazioni neurologiche e all’apparato respiratorio (gli accertamenti medici in corso dovranno stabilire se c’è una correlazione tra le violenze e i problemi del bebè). Nella notte tra venerdì e sabato, il terzo episodio. Lamarcus Gray si trovava all’interno della Del Din: non in una cella di sicurezza, ma in un normale dormitorio. Questo perché, appena una settimana dopo il secondo stupro di cui Lamarcus è accusato, la Procura ha disposto gli arresti domiciliari, invece della custodia in carcere. La dinamica della fuga è da film: il militare ha eluso la sorveglianza della base di sicurezza formando un fantoccio di vestiti sotto le coperte ed è scappato dalla finestra. Dopo un’abbondante bevuta, ha raggiunto un residence dove “esercitano” molte prostitute. Ne ha avvicinata una e – stando alle ricostruzioni degli inquirenti – l’ha aggredita, senza però ottenere una prestazione sessuale. Anche questa donna, come la vittima della violenza di luglio, era incinta. Dopo la prima aggressione si è rivolto a un’altra donna. Di fronte al suo rifiuto, avrebbe colpito al volto anche lei. Si è scatenata una rissa che, grazie alle telecamere di sorveglianza, ha permesso alla polizia di intervenire rapidamente. L’uomo è stato arrestato per l’evasione e denunciato per le lesioni.
“È incredibile che non fosse in una cella di sicurezza. A Vicenza quando un procedimento riguarda i militari Usa spesso si applicano premure poco comprensibili”, commenta Alessandra Bocchi, legale della donna aggredita a luglio. Stessa lettura per Anna Zanini, che assiste la minorenne violentata un anno fa: “Se si fosse trattato di un immigrato di altra nazionalità, vista la gravità dei reati e la loro reiterazione, il trattamento sarebbe stato diverso”. Ancora più diretta la candidata Pd alla Regione Veneto, Alessandra Moretti: “È sconcertante che di fronte a un reato così grave e reiterato non si siano decise misure cautelari che avrebbero scongiurato la fuga. E, stavolta, il processo si deve celebrare in Italia”. Preoccupazione comprensibile: per una singolare interpretazione dei trattati Nato il 90% dei reati compiuti dai militari americani in Italia vengono giudicati oltreoceano. Orlando però promette: “Dopo i reati sessuali raccontati dalla stampa nei mesi scorsi, abbiamo deciso che tutte le violazioni di una certa gravità saranno giudicate in Italia”. Una promessa già annunciata su Twitter dopo il secondo stupro. “Da allora però - racconta la legale che segue il caso - il ministero non ha mai confermato dove si terrà il processo”.

Corriere 9.12.14
Torture Cia, il rapporto che fa paura
Oggi il dossier sugli interrogatori dei terroristi di Al Qaeda. Bush si schiera con gli 007
di Massimo Gaggi


Allerta del Pentagono per possibili attentati. Mobilitati 6 mila marines, anche a Sigonella DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK Sedi diplomatiche e unità militari americane messe in stato di massima allerta in tutto il mondo, soprattutto nei Paesi più esposti al terrorismo (6.000 i marines mobilitati, anche Sigonella in allarme), alla vigilia della pubblicazione del rapporto del Senato sull’uso di metodi non convenzionali (cioè forme di tortura) in alcuni interrogatori della Cia dopo le stragi dell’11 settembre 2001. Una volta insediatosi alla Casa Bianca, Barack Obama chiese all’intelligence di non usare più il waterboarding (annegamento simulato) e altre tecniche proibite per estorcere confessioni nell’interrogatorio di sospetti terroristi. Ma non denunciò l’operato del suo predecessore né aprì inchieste.
Un’indagine è stata però condotta dalla Commissione di controllo dei servizi segreti del Senato che ha redatto già da mesi un rapporto segreto assai voluminoso: ben 6.300 pagine. Una sintesi di 480 pagine dovrebbe essere resa nota oggi, ma ieri sono state esercitate forti pressione sul presidente del comitato, la senatrice democratica Diane Feinstein, per un ulteriore rinvio della pubblicazione.
Un atto che, secondo i repubblicani e anche molti esperti militari, verrà usato da gruppi estremisti per incitare alla violenza contro bersagli americani nel mondo.
Il rapporto — sottoscritto solo dalla maggioranza democratica uscente del Senato dove tra 20 giorni si insedierà la nuova assemblea a maggioranza repubblicana — contiene una critica serrata delle tecniche di interrogatori «non convenzionali» usate prima del 2009. Secondo numerose indiscrezioni che hanno cominciato a circolare fin dal marzo scorso, nei suoi interrogatori la Cia avrebbe usato sistemi che sconfinano nella tortura più spesso di quanto fin qui ammesso e senza ottenere risultati significativi dal punto di vista dell’acquisizione di informazioni davvero essenziali per l’attività di intelligence. E avrebbe anche «depistato» il potere politico minimizzando il peso di questi interventi nelle informative fornite al governo e al Parlamento.
Il risultato è mettere con le spalle al muro un’Agenzia federale di spionaggio che si è sempre difesa sostenendo di aver informato l’autorità politica e di aver usato tecniche «non convenzionali» solo quando indispensabili per ottenere informazioni che, secondo la Cia, hanno consentito di salvare migliaia di vite umane.
Il documento nega che le cose siano andate in questo modo. Ma per i repubblicani, che al Senato si preparerebbero a divulgare un contro-rapporto di minoranza, renderlo noto nel clima attuale è versare benzina sul fuoco. Mike Rogers, presidente della Commissione Intelligence della Camera, ha detto che la sua pubblicazione «porterà violenze e morte».
La situazione è tesa e confusa anche perché il tentativo di mettere la presidenza Bush al riparo dalle conseguenze del rapporto, dando tutte le responsabilità alla Cia, è fallito per iniziativa dello stesso ex presidente: messo a conoscenza dei contenuti del documento, George Bush ha detto di condividere tutto quello che è stato fatto dagli uomini del servizio segreto (definiti campioni di patriottismo) per difendere l’America.
Obama sembra aver dato comunque via libera alla pubblicazione del rapporto, anche se dal governo potrebbero essere venute indicazioni contrastanti: ieri il suo portavoce Josh Earnest ha detto che da mesi militari e ambasciate si preparano all’evenienza di attacchi dopo la pubblicazione del documento che, evidentemente, viene considerato un atto di trasparenza non più rinviabile. Ma solo venerdì scorso il Segretario di Stato John Kerry avrebbe avvertito la Feinstein che con la sua decisione esporrà a rappresaglie molti americani in giro per il mondo. Ora la senatrice è sola con la sua coscienza.

il Fatto 9.12.14
Le torture della Cia e le bugie della Casa Bianca
Oggi il Senato pubblica un rapporto sulle tecniche usate per far parlare i prigionieri per terrorismo
Ma Washington teme la rabbia dei Paesi arabi
di Angela Vitaliano


New York. Sarà pubblicato oggi, ma il suo impatto sta già pesando da giorni: si tratta del rapporto stilato dalla commissione Intelligence del Senato che, sostanzialmente, condanna le brutali tecniche di interrogatorio messe in atto dalla Cia dopo l’11 settembre. Nessuna novità assoluta, probabilmente, ma 480 pagine - estratto di un documento assai più ampio - di dettagli e circostanze che on potranno che rendere ancora più inaccettabili tecniche come il “water boarding”, la simulazione dell’annegamento, considerate vere e proprie forma di tortura.
DALLE INFORMAZIONI contenute nel rapporto, di cui non è ancora chiaro l’arco temporale, ovvero se il periodo preso in analisi termina con la presidenza Bush, si evince anche che la Cia mentì alla Casa Bianca circa la gravità, la durata e i risultati delle tecniche messe in atto; un elemento che, in qualche modo, ridimensiona le responsabilità dell’ex presidente George Bush che, secondo il New York Times, sarebbe stato invitato da alcuni sui consiglieri proprio a prendere le distanze dall’operato dei servizi segreti. Bush, però, anticipando polemiche e possibili speculazioni ha, immediatamente, rilasciato delle dichiarazioni a sostegno del lavoro della Cia e dei suoi agenti: “Siamo fortunati ad avere uomini e donne che lavorano duramente per proteggerci. Questi sono patrioti e qualsiasi cosa dica il rapporto, se esso sminuisce il loro contributo verso il nostro paese, è decisamente fuori strada”.
Anche l’ex numero due dell’agenzia, John McLaughlin ha immediatamente chiarito che “il rapporto utilizza delle informazioni in maniera selettiva, spesso distorte per segnare un punto”.
PIÙ CHE DELLE POLEMICHE interne, tuttavia, ciò che sembra creare più allarme sono le reazioni che la diffusione del rapporto potrà provocare all’estero, rinsaldando o riaccendendo sentimenti anti-americani, con grave rischio per i militari e per i dipendenti delle diverse ambasciate nel mondo.
I marines, infatti, sono stati i primi ad aver ricevuto un ordine di allerta per i possibili attacchi che, da domani, potrebbero essere organizzati a danno degli americani. Fra loro, anche gli uomini di stanza a Sigonella, in Sicilia e Moron in Spagna. Stesse precauzioni anche per le ambasciate e le postazioni militari, soprattutto quelle dislocate in Medio Oriente e in Nord Africa.
Per questa ragione, il segretario di Stato John Kerry, pur senza contraddire la volontà dell’amministrazione Obama di rendere pubblico il rapporto, sta valutando l’ipotesi di posticiparne la diffusione, in modo da poter mettere a punto al meglio le nuove misure di sicurezza.
DIANE FEINSTEIN, la democratica presidente della Commissione dell’Intelligence del Senato sembra, tuttavia, non essere intenzionata a prolungare l’attesa. “Dobbiamo diffonderlo”, ha detto al Los Angeles Times, perché, ha aggiunto, “chiunque lo leggerà farà in modo che non si ripeta mai più”.
Con l’eco dei fatti di Ferguson e di Staten Island, che ancora fanno registrare manifestazioni in moltissime città, inclusi i disordini che da due giorni interessano la cittadina californiana di Berkeley, appare, comunque, plausibile che le ripercussioni della pubblicazione del rapporto interesseranno solo minimamente il paese al suo interno.

il Fatto 9.12.14
Giornalista e scrittore Diego Enrique Osorno
La morte dei 43 studenti non rimarrà impunita
di Stefano Citati

Diego Enrique Osorno, divenuto famoso per il suo libro sui narco-boss, arriva a Roma in pieno scandalo Mafia capitale e guardandosi intorno trova delle similitudini con il suo Messico. Un lessico e una commistione criminale tra politica e bande mafiose che nella sua patria a raggiunto praticamente il punto di non ritorno. “Il governo messicano non solo ha partecipato alla sparizione dei 43 studenti che protestavano a Iguala, vista l’implicazione diretta di agenti della polizia, che a un chilometro da dove sono stati presi i ragazzi stazionavano dei militari, che ha inviato con 14 giorni di ritardo esperti per le indagini., ma ha dimostrato un’incapacità permanente”.
A due mesi e mezzo dalla sparizione, a che punto sono le indagini?
Ufficialmente non si può dire che siano morti tutti. Stanno emergendo prove che siano stati bruciati. Ma mancano ancora certezze.
Si rischia che ancora un volta i crimini dei narcos rimangano impuniti, e la verità venga sepolta insieme ai corpi delle vittime, come ha raccontato in Z. La guerra dei narcos.
C’è un movimento crescente e trasversale che attraversa tutto il paese che reclama questi corpi e la verità. Ci sono gruppi spontanei di persone che cercano i cadaveri. Questa volta può finire diversamente. Finora ampi settori della società civile messicana ha creduto che i morti della guerra delle bande criminali (oltre 80 mila vittime dal 2007, ndr) fossero tutti narcos. Le stragi non toccavano il cuore della gente, non producevano la compassione e la rabbia che invece questo ultimo crimine ha suscitato. È un punto di svolta.
Le manifestazioni si moltiplicano, ma l’inchiesta va a rilento. La gente non si stuferà prima che si raggiunga la verità?
Il movimento potrà calare di intensità, ma sta creando una coscienza condivisa, anche se non cambierà il fondo delle cose, sta facendo sorgere una responsabilità comune della società civile come non c’è mai stata. È il sorgere di una coscienza anti-mafia, come quella che avete ormai voi: da noi questa parola non esiste ancora, non c’è modo di esprimere quel connubio di rapporti tra Stato e mafia. Ma il movimento per i 43 studenti scomparsi può diventare come il movimento delle “madri di Plaza de Majo” per i desaparecidos in Argentina che hanno assunto un ruolo quasi istituzionale.
Lei e altri giornalisti d’inchiesta state scoperchiando questo verminaio: oltre che mettere a rischio la propria vita, cosa altro serve per risultare efficaci?
Raccontare le storie, e sfuggire dalla matematica dei morti, dalla semplice elencazione dei numeri. Dare spessore, e un volto, agli individui, attraverso le sanguinose vicende quotidiane degli Stati della federazione nelle mani dei narcos.
La decisione di Obama di legalizzare 5 milioni di clandestini, in gran parte latinos, aiuterà i rapporti con gli Usa, con il quale i boss scambiano droga, armi, soldi?
Mi pare sia più un episodio elettorale che un aiuto all’integrazione, anche economica, con il Messico e il resto dell’America centrale. Anche perché il business del traffico di uomini è una delle principali fonti di guadagno dei cartelli della droga.
UN COW BOY ATTRAVERSA LA FRONTIERA IN SILENZIO, di Diego Enrique Osorno. laNuovafrontiera, pagg. 128, 10 €

Corriere 9.12.14
Israele, in campo le ultraortodosse
«Vogliamo candidarci anche noi»
di Lorenzo Cremonesi


GERUSALEMME «Se non possiamo essere elette non voteremo» tuona su Facebook il nuovo movimento che vorrebbe una donna tra i deputati ultraortodossi. E’ l’ultima espressione di un fenomeno che da tempo investe la politica israeliana e adesso viene rilanciato con forza dalla prospettiva delle elezioni anticipate al 17 marzo. I media locali notano che al momento ben sei partiti sono guidati da donne, tra cui due importanti come i laburisti di Shelly Yachimovich e il centrista «Hatnuah» di Tzipi Livni. E tutti basano i loro programmi sull’aggressiva difesa dei diritti delle donne. Tra i punti più importanti, alzare il numero dei deputati rosa dall’attuale 23% sui 120 complessivi alla Knesset (il parlamento). Un numero che comunque è più alto della media dei parlamenti europei, attestata attualmente al 17,6%.
Ma la novità avanzata dalle attiviste religiose è che si rivolge al cuore stesso dell’ortodossia più conservatrice. «Le donne ultraortodosse sono oltre 400.000, un numero notevole. Rappresentano circa il 5% di tutta la popolazione israeliana. Hanno il compito di generare e crescere le nuove generazioni, spesso lavorano, mantengono gli studi del marito. Sono tasselli fondamentali della famiglia e dell’universo ultraortodosso. Possibile che non abbiano almeno una loro rappresentante alla Knesset?», ci dice la 42enne Esty Reider-Indorsky, che da due anni conduce la campagna. Lei sa bene di muoversi in un campo minato. Divorziata, un solo figlio e risposata da poco, non ha problemi a postare le sue foto su internet: tutti comportamenti che fanno a pugni con i codici imposti dal rabbinato ortodosso.
«Abbiamo ricevuto tanti messaggi di sostegno. Ma forse le donne a cui ci rivolgiamo non hanno mai letto il nostro sito. Le ultraortodosse in genere non usano internet, non hanno accesso ai media tradizionali. Siamo state accusate di offendere il nostro credo, di non appartenere al mondo che vorremmo cambiare, di essere il diavolo in persona», ammette. Anche per questo motivo insiste nel moderare i toni. «Non intendiamo affatto cambiare la tradizione ortodossa. Vogliamo rafforzarla con l’adesione attiva delle donne. La nostra prima richiesta è che lo Stato vieti la partecipazione alle elezioni per partiti come Shas ed Ebraismo Unito della Torà sino a quando non avranno cambiato gli articoli dello statuto in cui rifiutano espressamente le deputate donne», continua, citando le due formazioni politiche che con 22 seggi complessivi raccolgono i voti delle due confessioni ultraortodosse tradizionali: la sefardita, di rito orientale, e quella askenazita delle comunità ebraiche del centro-est europeo. Una vera rivoluzione, in verità quasi impossibile da realizzare. Ma lei avanza un compromesso per indorare la pillola: «Sarebbe sufficiente una sola candidata donna. E a sceglierla saranno esclusivamente i rabbini».

Corriere 9.12.14
Dresda in piazza, come nell’89
Ma adesso il nemico è l’Islam
In diecimila con gli estremisti di destra alla «marcia del lunedì»


BERLINO È una novità da non sottovalutare. Non gridano slogan aggressivi. Vogliono «essere il popolo», cercando di richiamarsi idealmente ai cittadini che si riunivano per invocare la libertà negata dal regime della Germania Est, crollato venticinque anni fa con la caduta del Muro. Dresda, dove quelle manifestazioni contribuirono ad aprire una pagina nuova della Storia, è la loro roccaforte. Ma il movimento si sta estendendo. Nella città simbolo delle distruzioni della guerra, la loro voce si è sentita ieri ancora una volta con forza (come accade ogni lunedì da due mesi): «No al fanatismo religioso», «Lottiamo per il futuro dei nostri figli». L’organizzazione che li rappresenta si chiama «Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente» ed è conosciuta con il suo acronimo, Pegida. Certo, nella folla si mescolano militanti di estrema destra e i gruppi neonazisti non rimangono nelle retrovie, pur accettando il divieto di esibire bandiere nostalgiche. Si tratta di un fenomeno significativo, però, perché è in gioco proprio la dimensione fino ad ora largamente minoritaria delle iniziative anti-stranieri. Sta suonando un campanello d’allarme, anche in Cancelleria.
L’appello lanciato dal leader di Pegida, Lutz Bachmann (un quarantunenne che ha avuto qualche problema in passato con la giustizia), è stato raccolto ieri a Dresda da circa diecimila persone. I nemici della folla scesa in piazza nella capitale della Sassonia sono gli islamisti radicali, anche se la protesta finisce per essere diretta contro tutto il mondo musulmano nel suo complesso. Si vuole soprattutto «preservare la cultura tedesca» dalla violenza, ma si teme la minaccia che rappresentano gli immigrati per una società che ha paura di perdere le proprie radici.
Questa ambivalenza ha parzialmente disorientato, in un primo tempo, i comitati che organizzano le contro-dimostrazioni. Ma gli inviti a dire «no» sono arrivati ugualmente — da partiti, comunità islamica ed ebraica — e almeno 9.000 persone hanno aderito alla contro-manifestazione.
Il «popolo di Dresda» sta ponendo interrogativi nuovi ai quali va data una risposta. Nello specifico, è forte un sentimento di diversità, non privo di risvolti egoistici, e la speranza di rimanere lontani dai problemi di accoglienza che in altre zone del Paese si è costretti ad affrontare da tempo. Il sindaco, la cristiano-democratica Helma Orosz, ha sottolineato che molti si dimenticano quanti benefici la città e la regione abbiano ricevuto per secoli dall’emigrazione. Kerstin Köditz, una dirigente della Linke e responsabile delle politiche antifasciste in Sassonia, ha messo in rilievo con chiarezza la presenza nel movimento di estremisti di destra ma ha ammesso che esiste anche una partecipazione di «cittadini preoccupati che hanno radicalizzato negli ultimi tempi le loro posizioni».

Il Sole 9.12.14
Pechino «vede» la crescita al 7%
Summit di governo. In discussione fino a giovedì le linee guida delle riforme politiche ed economiche
Le autorità cinesi preparano una revisione al ribasso delle stime del Pil


Potrebbe essere decisa in queste ore la correzione del target di crescita fissato da Pechino per il 2015. I principali esponenti del regime hanno infatti dato il via alla “Central economic work conference”, il summit annuale ai massimi livelli e a porte chiuse, durante il quale viene ricalibrata la rotta per le riforme economiche e politiche. E sono sempre più numerose e influenti le voci che consigliano di tagliare dal 7,5 al 7% le stime di crescita per l’anno prossimo.
Voci peraltro sempre più vicine ai circoli decisionali, come quella dei think tank controllati dal Governo. Il capo economista dello State information centre, Zhu Baoliang, per esempio, afferma a chiare lettere che il corretto target di crescita per il 2015 si attesta «attorno al 7%». Già a ottobre, durante la conferenza dell’Accademia delle scienze sociali, i partecipanti, compresi molti ministri, sostennero che un target del 7% sarebbe più appropriato per il potenziale di crescita a lungo termine del Paese, come riferisce alla Cnbc il capo economista di Nomura, Chang Chun Hua.
Una decisione analoga fu presa nel 2012, quando il governo abbassò il target al 7,5% dall’8% dei precedenti 8 anni. La Cina, del resto, sembra destinata a mancare l’obiettivo di crescita previsto dal regime già quest’anno (7,5%) e sarebbe la prima volta dal 1999. Per il 2014 ci si aspetta ormai il tasso di espansione più basso degli ultimi 24 anni.
Una crescita al 7% in Cina fa già scattare i primi segnali d’allarme, poiché è diffusamente considerata il minimo indispensabile per assorbire i circa 10 milioni di giovani che si affacciano ogni anno sul mercato del lavoro. Un’espansione inferiore rischierebbe di tradursi in disoccupazione. Non solo, potrebbe anche aumentare il rischio default sul debito.
Finora il governo ha assistito senza mostrare troppa preoccupazione al rallentamento dell’economia, che vive una fase di transizione verso un modello di sviluppo basato su consumi e innovazione, al posto di quello centrato su investimenti ed export. La crisi globale, tuttavia, complica il già difficile compito e ora gli analisti si aspettano che dal meeting in corso in questi giorni escano le linee guida per politiche monetarie accomodanti, con una combinazione di tagli dei tassi e riduzione delle riserve obbligatorie degli istituti di credito, in modo da favorire l’attività di prestito pur in un contesto di sofferenze bancarie. Misura, quest’ultima, invocata a gran voce dai principali istituti di credito, che attualmente devono tenere a riserva sui conti di Big Mama (Yang Ma, come viene spesso chiamata la Banca centrale in Cina) il 20% dei depositi. Un taglio di 50 punti base libererebbe circa 500 miliardi di yuan (81 miliardi di dollari). La preoccupazione di Big Mama, però, è che questi prestiti, anziché finire a medie e piccole imprese private, prendano ancora una volta la via delle società a partecipazione statale, inefficienti e spesso corrotte, ma a prova di fallimento e quindi clienti privilegiati per le banche.
Un antipasto di questa ricetta è in realtà già arrivato il 21 novembre, quando la banca centrale ha abbassato il costo del denaro per sostenere la crescita e alleggerire la pressione sulle tante società indebitate. Il taglio ha messo fine a oltre due anni e mezzo di stasi sui tassi ed è arrivata dopo che per mesi la stessa Banca centrale aveva ribadito come misure del genere non fossero necessarie. Tra settembre e ottobre, inoltre, Big Mama ha pompato nel sistema bancario 126 miliardi di dollari.
Ieri, nuovi segnali di debolezza, sono arrivati dal commercio: a novembre le importazioni sono scese del 6,7% su base annua, rovesciando le attese che puntavano su una crescita del 3,8%. Frenano anche le esportazioni, cresciute del 4,7%, contro previsioni dell’8%.
Il meeting delle autorità sul futuro economico della Cina dovrebbe chiudersi giovedì, senza dichiarazioni pubbliche, né indicazioni ufficiali sugli obiettivi di crescita (ma le “fughe di notizie” sono di routine in queste occasioni). L’etichetta cinese individua nella cerimonia d’apertura del Parlamento, a marzo, l’ambito corretto per queste comunicazioni. I giochi, però, si stanno già facendo.

Corriere 9.12.14
Il mutamento che disorientò la sinistra
Reichlin e gli errori degli anni 70
di Paolo Franchi


Riprendiamoci la vita: sembra un vecchio slogan di Lotta Continua degli anni Settanta, o un richiamo a un celebre, bellissimo film di propaganda, A nous la vie , che Jean Renoir realizzò per il Pcf al tempo del Fronte popolare francese. Invece è il titolo di un libro di Alfredo Reichlin, in libreria da domani per la casa editrice Eir. Un titolo curioso per le riflessioni di un uomo politico ormai giunto alla soglia dei novant’anni. Spiegabile, però, perché i suoi pensieri (non le sue memorie, non il bilancio della sua vita prima di dirigente comunista, poi di padre nobile del Pds e del Pd pre-renziano) Reichlin li affida ai nipoti poco più che ragazzi: sono loro e quelli come loro, non lui, che la vita dovrebbero riprendersela. Restituendo un futuro a se stessi, e un senso a una parola, sinistra, che sembra averlo smarrito da un pezzo.
Già. Ma da quando? Reichlin non ha dubbi. La sconfitta (anzi: «il collasso») affonda le sue radici fin negli anni Settanta. Quando la sinistra, in Italia, in Europa e nel mondo scambiò una «rivoluzione conservatrice» destinata a cambiare i paradigmi dell’economia, della società e della politica per una controffensiva di destra come tante ce ne erano state in passato o, peggio, le fu culturalmente subalterna. Nonostante a essere messa pesantemente sotto attacco, in tutto l’Occidente, fosse la sua principale conquista, e cioè quel compromesso democratico tra capitale e lavoro che, seppure in forme assai diverse da Paese a Paese, e talvolta, come in Italia, a dire poco discutibili, era stato, nel secondo dopoguerra, la base dello Stato sociale. Cominciò a prendere forma allora, è in sintesi estrema il ragionamento di Reichlin, un cambiamento profondo della natura stessa del capitalismo (sempre più finanziario, sempre meno produttivo), destinato ad accentuarsi oltre misura con la globalizzazione, che, già prima della grande crisi di questi ultimi anni, si è portato appresso come conseguenza quasi naturale la crescita inaudita delle diseguaglianze, e l’avvento di società più povere, più ingiuste, nelle quali il lavoro, quando c’è, torna a essere soltanto una merce.
Reichlin è uno di quegli uomini della sinistra italiana che si sono sempre vantati, anche troppo, di pensare in grande, di volare alto e di guardare al profondo. Non stupisce, quindi, che, provando a rendere ai più giovani il senso del fallimento di questi decenni, insista soprattutto, sul deficit di pensiero della propria parte, divisa tra chi si è illuso di salvare in qualche modo il salvabile, arroccandosi in una guerra di resistenza destinata alla sconfitta, e chi si è convinto che questo sia, se non il migliore dei mondi possibili, quanto meno l’unico immaginabile da qui all’eternità. È inutile, sostiene, affettare virtuose indignazioni di fronte al dilagare dei populismi: se non nutre e non fa vivere una propria autonoma «idea di società», che non può certo essere né comunista né socialdemocratica in senso classico, ma non può nemmeno non avere a fondamento il lavoro, la sinistra semplicemente non esiste o è, quanto meno, ininfluente.
È difficile, almeno per chi scrive, dargli torto. Ma lo è altrettanto, e forse di più, immaginare come possano ricostruirla i nipoti, un’«idea di società», se l’eredità è questa che, impietosamente e anche un po’ angosciosamente, Reichlin tratteggia. Manca all’appello la generazione di mezzo: il compito grande e terribile di attraversare il deserto toccava in realtà ai genitori dei ragazzi di oggi. Si sono guardati bene dal farsene carico. E questo li rende più colpevoli, e più insinceri, di nonni che, comunque, la loro parte la hanno fatta.

La Stampa 9.12.14
Torino 1934, gli ebrei antifascisti nella grande retata
Ottant’anni fa Leone Ginzburg, Carlo Levi e altri dodici catturati dall’Ovra: l’operazione mise in ginocchio GL
di Chiara Colombini


«Ebrei antifascisti al soldo dei fuoriusciti assicurati alla giustizia dall’Ovra». È il titolo di un comunicato dell’agenzia Stefani che La Stampa e i principali quotidiani italiani riprendono il 31 marzo 1934. La notizia riguarda Torino, al centro di una campagna di stampa che anticipa sinistramente la persecuzione antiebraica del 1938. Tutto ha avuto inizio pochi giorni prima.
Ponte Tresa, 11 marzo 1934. Alla frontiera con la Svizzera si ferma un’auto per il controllo di routine. Alla guida è Sion Segre Amar, studente universitario; accanto a lui Mario Levi, dirigente della Olivetti. Sono stati a Lugano per conto del movimento antifascista Giustizia e Libertà. I finanzieri in servizio pensano di avere intercettato dei contrabbandieri e li perquisiscono. Addosso a Levi viene trovata una copia del settimanale della Concentrazione antifascista, La libertà, e copie di volantini che incitano a votare no alle elezioni del 25 marzo (è un plebiscito, si può solo accettare con un sì o respingere con un no la lista presentata). Nell’auto si trovano copie dei Quaderni di Giustizia e Libertà, la rivista che il movimento stampa dal gennaio 1932. Nel tragitto verso il commissariato di polizia del confine, Levi si getta nel Tresa e nuota verso l’altra sponda del lago di Lugano. La Guardia federale svizzera lo trae in salvo. Segre è fermato e trasferito alla Questura di Varese, dove viene malmenato.
Nei giorni successivi cominciano gli arresti, poi confermati per 14 persone: Leone Ginzburg, Carlo Levi e suo fratello Riccardo, Gino e Giuseppe Levi (fratello e padre di Mario), Barbara Allason, Carlo Mussa Ivaldi, Giovanni Guaita, Giuliana Segre, Marco Segre, Attilio Segre, Cesare Colombo, Leo Levi, Camillo Pasquali. Non tutti sono militanti di GL, e non tutti avranno la stessa sorte giudiziaria. A quell’episodio di 80 anni fa è dedicato l’incontro che si terrà questa sera alla Comunità ebraica di Torino.
La rete torinese del movimento è stata lacerata una prima volta tra il dicembre 1931 e il gennaio 1932. È stato Ginzburg, con Carlo Levi, a ritessere la tela. All’inizio del 1932 Ginzburg si è recato a Parigi e ha preso contatto con Carlo Rosselli e il gruppo dirigente di GL. Di origine russa, Ginzburg ha ottenuto la cittadinanza italiana nell’ottobre del 1931: da sempre antifascista, ha aspettato questo momento per passare all’azione, per affermare un’idea di patria alternativa a quella fascista. Nasce una rete clandestina che pesca in ambienti non coincidenti ma con molti punti di intersezione, che hanno a che fare con rapporti di amicizia, di parentela, con affinità culturali e sociali: il liceo D’Azeglio in cui cresce una generazione di antifascisti; il salotto di Barbara Allason che ospita serate di discussioni culturali e cospirazione; la cerchia di intellettuali da cui poco più tardi nascerà la casa editrice Einaudi; la Olivetti di Ivrea. E c’è l’origine ebraica di un buon numero dei giellisti torinesi, la quasi totalità se si guarda agli arrestati del 1934.
Su questo elemento si scatena la speculazione. Riprendendo il comunicato Stefani, i giornali raccontano che Levi, una volta in salvo, ha gridato: «Cani italiani! Vigliacchi!». Non è vero. Urla, sì, però dice: «Viva la libertà! Abbasso il fascismo!». Ma quel «cani italiani» è funzionale a presentare gli arrestati come antifascisti perché antitaliani, e antitaliani perché ebrei. In realtà, come ha osservato Alberto Cavaglion, nel rapporto tra antifascismo ed ebraismo in quella fase era il primo a prevalere: «Prima di tutto si era antifascisti, il “problema dell’appartenenza” passava in secondo piano».
Lo smantellamento della rete torinese è un duro colpo per GL. In quel momento è pressoché l’unico nucleo del movimento attivo in Italia, capace per di più di dare un contributo fondamentale di idee: prima degli arresti del 1934 scrivono sui Quaderni Ginzburg, Carlo Levi, Vittorio Foa, Renzo e Michele Giua, Riccardo Levi, Mario Levi, Sion Segre, Augusto Monti.
Paradossalmente, l’incidente di Ponte Tresa è una bella seccatura anche per la polizia. Da mesi ha arruolato come spia l’ingegnere francese René Odin che, millantando la necessità di viaggi commerciali in Italia, appare perfetto al centro parigino di GL per tenere i collegamenti con i militanti interni. Il fermo alla frontiera costringe ad anticipare gli arresti, mentre la polizia avrebbe voluto attendere per individuare il numero maggiore possibile di cospiratori. Inoltre, agli arrestati non si può chiedere conto di quanto si è scoperto su di loro attraverso Odin, con il rischio di «bruciarlo».
Le ammissioni che la polizia riesce a strappare non sono che uno specchio deformante, confermano cose che gli inquirenti già sanno. Saranno deferiti al Tribunale speciale soltanto Sion Segre e Leone Ginzburg, condannati rispettivamente a 3 e 4 anni di detenzione (poi ridotti grazie a due anni di condono). Giungeranno 5 assegnazioni al confino per Guaita, Mussa Ivaldi, Cesare Colombo, Attilio e Marco Segre. Saranno i militanti già attivi scampati alla polizia nel 1934, in primo luogo Vittorio Foa e Michele Giua, a ricostruire a Torino una nuova cospirazione di GL.

La Stampa 9.12.14
Tra gli spettri di Nietzsche le stagioni di Ferraris
di Gianni Riotta


Non lasciatevi deviare dal titolo, Spettri di Nietzsche. Un’avventura umana e intellettuale che anticipa le catastrofi del Novecento (Guanda, pp. 266, € 18): il saggio del filosofo Maurizio Ferraris è autobiografico. Si muove dallo stupore di notare come lo studio del proprio commercialista, al centro di Torino, abbia un tempo visto aggirarsi il tormentato Friedrich Nietzsche, tirando quindi le fila del personale itinerario, dalla politica giovanile come caporedattore della rivista Alfabeta nei duri Anni Settanta, fino alla milizia culturale sotto le insegne scettico-chic di Derrida (e chi tra i filosofi della sua leva ne restò immune?), alla riscoperta della realtà con il Manifesto del nuovo realismo del 2012, leva etica perduta la quale ci si ritrova a flottare smarriti nello spazio delle idee, come George Clooney di Gravity.
Additato nel vivace pamphlet Speranze (Mulino) del decano Paolo Rossi a portabandiera del relativismo nichilista, Ferraris si emancipa qui orgogliosamente dall’etichetta, mischiando riferimenti alla cultura di massa e alla storia, e cercando il senso dei «disastri del Novecento», secolo dei totalitarismi nella storia e nel pensiero. Considerate la citazione di un personaggio oggi dimenticato, il generale francese Jean-Marie de Lattre de Tassigny, i cui funerali colmarono di folla Parigi nel 1952 e che potete rivedere commoventi su Youtube http://goo.gl/s54sNG. Il generale, eroe della Resistenza, riuscì a fermare l’offensiva vietnamita in Indocina nel 1951, salvo poi perdere il figlio ventitreenne, tenente Bernard de Tassigny soldato già a 16 anni con speciale dispensa di De Gaulle, nella battaglia di Ninh Binh da lui stesso comandata e morire poi di cancro un anno dopo.
Lo svanire della gloria, potenza nietzschiana parallela al perdere di senno del filosofo, diventa in Ferraris figura del pensiero e dell’arte del Novecento, che nel rarefarsi in astrazione e linguaggio occulto perdono di controllo l’umanità più sincera, con libri impossibili da leggere, musica impossibile da ascoltare, politiche impossibili da attuare. Ricondurre la filosofia del XXI secolo a saggezza classica, compito che si assume nel romanzo Vita e destino il russo Grossman, sembra essere ormai la meta di un Maurizio Ferraris non più enfant prodige, ma maturo pensatore. Attendiamo con curiosa speranza questa sua, nuova, stagione.

Corriere 9.12.14
Il genio di Grothendieck mai al servizio di nessuno
Da piccolo ebreo perseguitato a pioniere della matematica
Poi il rifiuto dei premi, la rivolta, la scelta dell’isolamento
di Stefano Montefiori


Alexander Grothendieck, il genio della matematica morto a 86 anni il 13 novembre scorso, è stato un immenso scienziato, ma aveva ripudiato la scienza. Dalla Berlino dei rifugiati anarchici russi alla vita da eremita in un paesino dei Pirenei, passando per i campi di prigionia, il maggio del 1968 e la rivoluzione hippie, Grothendieck ebbe una vita tormentata e talvolta avventurosa, ma non usò mai le formule per rifugiarsi lontano dalla realtà. Come illustra il libro Matematica ribelle , in edicola con il «Corriere», preferì piuttosto rinunciare alla ricerca, quando ebbe la sensazione che il suo genio avrebbe avuto conseguenze pratiche incontrollabili, attraverso usi in campo militare che giudicava possibili e ignobili.
Alexander nacque il 28 marzo 1928 a Berlino, dove visse fino al 1933 con la mamma giornalista Hanka, il papà anarchico russo Sascha e Maidi, la sorella da parte di madre. Fu un periodo decisivo per la costruzione della sua personalità, e in positivo: «I primi cinque anni della mia vita rappresentano un privilegio di enorme valore. Dedicavo un’ammirazione e un amore sconfinati sia a mio padre che a mia madre», scrive nella sua monumentale autobiografia — pubblicata nel 1987 in tiratura confidenziale, ma oggi disponibile su Internet — Récoltes et semailles («Raccolti e semine»).
L’incanto venne interrotto dall’ascesa al potere dei nazisti, ma ancora di più dalla reazione dei suoi genitori: decisero di lasciare i bambini in Germania, e di trasferirsi in Francia. Poi parteciparono alla guerra civile in Spagna. Alexander raggiunse la madre solo nel 1939, quando restare in Germania da figlio di padre ebreo era ormai impossibile. Dopo l’occupazione nazista della Francia, suo padre venne deportato e morì ad Auschwitz. Al liceo Cévenol di Chambon-sur-Lignon il pastore Trocmé cercava di salvare quanti più studenti ebrei fosse possibile. «La polizia locale ci avvertiva quando stava per arrivare una retata della Gestapo — ricorda Grothendieck —, e allora andavamo a nasconderci nei boschi per una notte o due, in piccoli gruppi, senza renderci conto fino in fondo che non era un gioco, ma che si trattava della nostra pelle».
Alexander ottiene il diploma di Baccalauréat e va a Montpellier a studiare, finalmente, matematica all’università. Poi a Parigi, e infine a Nancy, dove incontra Laurent Schwartz, il più grande matematico del tempo. Qui arriva l’aneddoto che non può mancare nella biografia di un genio. «Io e Jean Dieudonné (altro grande matematico, ndr ) avevamo 14 problemi che non riuscivamo a risolvere — raccontò Schwartz —. Dieudonné propose a Grothendieck di sceglierne uno e di pensarci su. Pensavamo fosse uno spunto per anni di lavoro, ma dopo poche settimane Grothendieck tornò da noi con la soluzione di oltre la metà! Eravamo stupefatti».
All’inizio degli anni Cinquanta Grothendieck è già una star indiscussa nella sia pur ristretta cerchia dei matematici. La sua personalità deborda di energia e di talento, gli allievi sono increduli. «Aveva un ritmo infernale — racconta Michel Demazure, che sostenne la sua tesi con Grothendieck —. Si dedicava alla matematica da 16 a 18 ore al giorno, per lui tutto era legato: il percorso era altrettanto importante del traguardo. Il suo motto era nessuna concessione, nessuna economia, nessuna scorciatoia!».
Nel 1957 la morte della madre Hanka: Grothendieck cade in depressione per mesi. Il rapporto con lei, il ricordo di quei primi cinque anni di vita felici, sono stati fondamentali per il carattere del grande matematico, che combatterà tutta la vita con il paragone irraggiungibile di quel paradiso perduto.
La svolta nella sua carriera arriva grazie all’iniziativa e alla visione di Léon Motchane, un industriale di origine russa che fonda in Francia l’Institut des hautes études scientifiques (Ihes) sul modello dell’Institute for Advanced Study creato negli anni Trenta a Princeton per permettere ad Albert Einstein di proseguire le sue ricerche negli Stati Uniti.
All’Ihes Grothendieck, Dieudonné e Jean-Pierre Serre animano un seminario matematico passato alla storia, per l’ambizione di fondere geometria algebrica, aritmetica e topologia algebrica. Nel 1966 a Grothendieck viene attribuita la Medaglia Fields, sorta di premio Nobel per la matematica. Il figlio di un anarchico russo dovrebbe andare a Mosca, al Congresso mondiale delle matematiche, per ritirare il premio, ma rinuncia «per protesta contro il trattamento inflitto dai sovietici agli scrittori dissidenti Sinjavskij e Daniel».
Nel 1970 Grothendieck abbandona l’Ihes, luogo dei suoi trionfi: ha scoperto per puro caso che è finanziato in parte dal ministero della Difesa francese. Il contributo dei militari è limitato, pari all’incirca al 5 per cento del bilancio dell’Istituto. Ma questo basta a convincere Grothendieck che deve abbandonarlo, se non vuole tradire i suoi principi. È un grande punto di non ritorno.
Se le intuizioni di Albert Einstein hanno portato alla bomba atomica, Grothendieck si rifiuta di correre lo stesso rischio e abbandona le ricerche teoriche nella matematica. Si dedica sempre di più alla spiritualità, alla meditazione. Fonda una comune nella sua casa nel Sud della Francia, diventa un guru per decine di giovani che cercano modi di vita vicini alla natura e lontani dal consumismo.
Al maggio 1988 risale la sua ultima apparizione, perché l’Accademia reale delle scienze di Svezia gli attribuisce l’importante premio Crafoord. Lui, naturalmente, rifiuta l’onorificenza e la somma consistente che la accompagna, perché «lo stipendio da professore è più che sufficiente per i miei bisogni materiali». Più tardi, nel 1991, a 63 anni, Grothendieck sparisce dalla vita pubblica. Si ritira in un paesino dei Pirenei, Lasserre, lontano da tutti, ossessionato dalla paura che i suoi lavori vengano travisati, copiati, destinati a scopi inaccettabili. Il 3 gennaio 2010 scrive di suo pugno una lettera all’allievo Jean Malgoire, nella quale chiede che le migliaia di pagine delle sue ricerche, ancora inedite, restino tali.
Ora che Grothendieck è morto, il suo tesoro, 20 mila pagine di appunti, giace in uno sgabuzzino della facoltà di Montpellier. Una giuria di eminenti matematici potrebbe dichiararlo «patrimonio nazionale», in modo da metterlo a disposizione della comunità scientifica. Ma bisognerebbe decifrare quelle formule. «Ci vorranno cinquant’anni — dice il suo allievo Michel Demazure — o un altro Grothendieck».

Corriere 9.12.14
La rivoluzione del medioevo
Non un’epoca buia ma un tempo fecondo preparò le conquiste dell’occidente
di Paolo Mieli


Si calcola che nel 430 a.C. gli abitanti di Atene fossero all’incirca 155 mila e che due o trecentomila persone vivessero nelle altre città-Stato (70 mila a Corinto, 40 mila a Sparta). Al massimo i «greci» ammontavano a mezzo milione di individui. I persiani, nella stessa epoca, erano quaranta milioni. Eppure i primi ebbero la meglio sia sulla terra, a Maratona (490 a.C.), che sui mari, a Salamina (480 a.C.). Di più. La geografia della Grecia contraddice la tesi secondo cui in tempi successivi la supremazia europea sarebbe stata riconducibile a favorevoli condizioni geografiche. In Grecia, ha fatto osservare Leopold Migeotte, persino le terre migliori erano sassose e la loro produttività «mediocre». Victor Davis Hanson ha sottolineato che la Grecia «non dispone neanche di un solo fiume navigabile e ha la disgrazia di non avere risorse naturali». E invece i grandi imperi dell’epoca — Egitto, Persia, Cina — occupavano enormi e fertili pianure, attraversate da grandi fiumi. Eppure è lì — nell’Atene del VI e V secolo a.C. — che ha avuto inizio quella che oggi chiamiamo la «civiltà occidentale». Civiltà alla quale Rodney Stark ha dedicato un libro, La vittoria dell’Occidente. La negletta storia del trionfo della modernità, pubblicato dall’editore Lindau.
Per Stark il termine «modernità» vuole indicare «quella miniera di conoscenze e procedure scientifiche, di efficaci tecnologie, di successi artistici, di libertà politiche, di meccanismi economici, di sensibilità morali e di miglioramento delle condizioni di esistenza che caratterizzano le nazioni occidentali e ora stanno rivoluzionando la vita nel resto del mondo». Con l’esplicita implicazione che «quanto più le altre culture non sono state in grado di adottare almeno gli elementi principali di quella occidentale, tanto più sono rimaste arretrate e impoverite». I cinesi, ad esempio, inventarono la polvere da sparo molto presto, eppure molti secoli dopo non avevano artiglieria né armi da fuoco. Un’industria siderurgica fiorì nel Nord della Cina nell’XI secolo, ma i mandarini della corte imperiale dichiararono il ferro monopolio di Stato, se ne impadronirono e così distrussero la produzione siderurgica cinese.
Già nell’antichità, su tantissime tecnologie cruciali la Cina era molto avanti rispetto all’Europa. Quando però i portoghesi vi arrivarono nel 1517, scrive provocatoriamente Stark, «trovarono una società arretrata in cui le classi privilegiate ritenevano più importante azzoppare le ragazzine bendando loro i piedi, che sviluppare tecniche agricole più produttive di quelle che avevano per far fronte alle frequenti carestie». Perché? E come è stato possibile «per un pugno di funzionari inglesi coadiuvati da pochi ufficiali, di carriera e non, governare l’enorme subcontinente indiano?» Perché la scienza e la democrazia sono nate in Occidente, insieme all’arte figurativa, ai camini, al sapone, alle canne dell’organo e a un sistema di notazione musicale? Perché è accaduto che, per parecchie centinaia di anni a partire dal XIII secolo, soltanto gli europei avevano gli occhiali e gli orologi meccanici? E successivamente telescopi, microscopi e periscopi?
Il merito di tutto quel che è accaduto in materia di sviluppo della civiltà va attribuito alla circolazione delle idee. Sono le «idee», più che le «forze economiche e materiali», all’origine della modernità. Sono le «idee» che spiegano «perché la scienza sia nata soltanto in Occidente»: solo gli occidentali «hanno pensato che la scienza fosse possibile, che l’universo funzionasse secondo regole razionali che potevano essere scoperte». E nel momento in cui riconosciamo il primato delle idee, «ci rendiamo conto dell’irrilevanza delle interminabili discussioni accademiche per stabilire se determinate invenzioni vennero messe a punto autonomamente in Europa o furono importate dall’Oriente». Come la polvere da sparo in Cina. Partito da queste premesse, Stark passa alla confutazione di alcune opinioni assai diffuse sulla storia dell’Occidente. Il primo impero sorse in Mesopotamia più di seimila anni fa, poi vennero quelli egiziano, cinese, persiano e indiano. Tutti furono travagliati da croniche lotte per il potere all’interno delle élite dominanti, ma, a parte queste lotte, qualche guerra con i popoli confinanti e progetti di grandiose opere pubbliche, nella loro storia «accadde poco o nulla». I cambiamenti, sia tecnologici che culturali, «erano così lenti da passare quasi inosservati». I secoli si susseguivano e la maggior parte della gente continuava a vivere, come ha scritto Marvin Harris, «un pelo al di sopra della pura e semplice sussistenza; poco meglio dei loro buoi». Fu solo la Grecia del VI e V secolo a.C. che fece fare un salto alla storia dell’umanità. Un salto preparato da molto tempo. Dal momento che lì «condizioni geografiche sfavorevoli» con le conseguenti «mancanza di unità e competizione» provocarono appunto la «rivoluzione delle idee». I greci, precisa Stark, «non furono i primi a interrogarsi sul senso della vita e sulle cause dei fenomeni naturali; furono però i primi a farlo in modo sistematico». Come ha scritto Martin West, «insegnarono a se stessi a ragionare».
 Poi fu la volta di Roma. Anzi, di quello che Stark chiama l’«intermezzo romano». Perché, scrive, «nella migliore delle ipotesi considero l’impero romano una pausa nell’ascesa dell’Occidente, e più probabilmente una battuta d’arresto». Oltre alla mancanza di innovazioni tecnologiche, «i romani sfruttarono poco o nulla alcune tecnologie già esistenti; per esempio, conoscevano perfettamente la ruota ad acqua, ma preferivano usare il lavoro degli schiavi per macinare la farina». E anche i celebrati testi di Plauto e Terenzio furono per intero di derivazione greca. Per Stark «ai fini dello sviluppo della civiltà occidentale, la caduta dell’impero romano non è stata un’immane tragedia, bensì il fatto in assoluto più benefico». I «molti soporiferi secoli di dominazione romana» hanno visto due soli significativi fattori di progresso: «L’invenzione del cemento e l’ascesa del cristianesimo, quest’ultima avvenuta nonostante i tentativi dei romani di impedirla». A cadere poi «fu Roma, non la civiltà; i goti non tornarono improvvisamente alla barbarie; e i milioni di abitanti dell’ex impero non dimenticarono improvvisamente quel che sapevano». Al contrario, scrive Stark, «con la fine dei paralizzanti effetti della repressione romana, riprese il glorioso cammino verso la modernità». Quanto alla svolta di Costantino, scrive l’autore, l’immenso favore dimostrato da quell’imperatore romano al cristianesimo «finì per danneggiarlo». Nella sua storia del papato, Eamon Duffy ha fatto notare che Costantino elevò il clero a tali livelli di ricchezza, potere e status che i vescovi «divennero figure eminenti al pari dei senatori più ricchi». Con la corruzione che ne derivò.
Successivamente i «secoli bui» non furono mai tali; al contrario, il Medioevo è stato un’epoca di notevole progresso e innovazione, tra cui «l’invenzione del capitalismo». La maggior parte degli europei «iniziarono a mangiare meglio di come avessero mai mangiato nel corso della storia e di conseguenza divennero più grandi e forti di coloro che vivevano altrove». Nel 732, gli invasori islamici, quando penetrarono in Gallia, si trovarono di fronte «un esercito di franchi splendidamente armati ed addestrati e furono sconfitti». In seguito, «i franchi conquistarono la maggior parte dell’Europa e misero sul trono un nuovo imperatore». Ma presto quel sogno si infranse. Un peccato? No, reagisce l’autore, «è una fortuna che quella costruzione sia andata in frantumi» e la «creativa disunità dell’Europa» sia stata ristabilita. Va poi aggiunto che «sebbene svariati storici abbiano dedicato molta più attenzione all’impero carolingio che ai vichinghi, questi ultimi, per l’ascesa dell’Occidente, hanno avuto un ruolo di gran lunga più significativo e duraturo dei primi». Non è vero, poi che i crociati, in seguito, abbiano «marciato verso oriente per conquistare terre e bottino». Anzi. Si erano «indebitati fino al collo per finanziare la propria partecipazione a quella che consideravano una missione religiosa». I più «ritenevano improbabile la possibilità di sopravvivere e di tornare in patria (e infatti non tornarono)». Come dimostrano le crociate, «per gli europei la vera base dell’unità era il cristianesimo, che si era trasformato in una ben organizzata burocrazia internazionale». A tal punto che «sarebbe più corretto parlare di Cristianità più che di Europa, dal momento che, all’epoca, quest’ultima aveva ben poco significato sociale o culturale». Fu questo il periodo in cui nacque davvero il capitalismo. Gli europei si arricchivano dopo aver imparato a sfruttare le fonti di energia. Alla fine del XII secolo, racconta Stark, «l’Europa era così affollata di mulini a vento che i proprietari cominciarono a denunciarsi a vicenda con l’accusa di portarsi via il vento».
 Nel XVII secolo, infine, non c’è stata nessuna «rivoluzione scientifica»: i brillanti successi di quell’epoca «sono stati semplicemente il culmine di un normale progresso scientifico, iniziato nel XII secolo con la fondazione delle università». La Riforma «non ha portato alcuna libertà religiosa, ma ha semplicemente sostituito repressive e accentratrici Chiese cattoliche con altrettanto repressive e accentratrici Chiese protestanti». L’Europa «non si è arricchita drenando ricchezza dalle sue colonie sparse per il mondo»; al contrario «sono state le colonie ad aver drenato ricchezza dall’Europa, nel contempo acquisendo i benefici della modernità». Stark ci esorta a paragonare le tragedie di Shakespeare a quelle dell’antica Grecia. Non che Edipo «fosse senza colpe, però non aveva fatto nulla per meritare la sua triste fine: fu semplicemente vittima del destino; al contrario, Otello, Bruto e i Macbeth non furono prigionieri di un destino cieco». Che significa questo discorso? Che «uno dei fattori più importanti nel favorire l’ascesa dell’Occidente è stata la fede nel libero arbitrio; mentre la maggior parte delle antiche società (se non tutte) credevano nel fato, gli occidentali giunsero alla convinzione che gli esseri umani sono relativamente liberi di seguire quello che detta la propria coscienza e che, essenzialmente, sono artefici del proprio destino». E qui l’autore smonta punto per punto la famosa tesi di Max Weber secondo cui l’etica protestante sarebbe all’origine del capitalismo (ma a quest’opera di demolizione aveva già pensato Fernand Braudel definendola «debole tesi» per di più «chiaramente falsa»).
Esattamente «come gli insegnamenti di Sant’Agostino avevano segnato un cambiamento nell’atteggiamento cristiano nei confronti del commercio, i teologi che hanno poi assistito alle fiorenti attività economiche dei grandi ordini religiosi, cominciarono a rivedere le dottrine su profitto e interesse». Fu lì, a ridosso dell’anno Mille, che nacque una sorta di protocapitalismo «molti secoli prima che esistessero i protestanti». Poi, a metà del Trecento, dopo l’epidemia provocata dalla Peste Nera, «la scarsità di manodopera», come ha dimostrato David Herlihy, «stimolò le invenzioni e lo sviluppo di tecnologie che consentissero di risparmiare forza lavoro». Quindi l’Europa medievale «vide l’ascesa del sistema bancario, di un’elaborata rete manifatturiera, di rapide innovazioni in campo tecnologico e finanziario, nonché una dinamica rete di città commerciali». Va anticipato ad allora l’inizio, o quantomeno i «primi passi», di quella che avremmo definito la «Rivoluzione industriale». Già da molto tempo l’Europa era più avanti del resto del mondo in fatto di tecnologia, «ma alla fine del XVI secolo quel divario era ormai diventato un abisso».
E qui Stark si avvale di una notazione ai margini della battaglia di Lepanto (ottobre 1571). Quando saccheggiarono le imbarcazioni turche ancora non affondate, i marinai cristiani vittoriosi scoprirono un autentico tesoro in monete d’oro a bordo della «sultana», l’ammiraglia di Ali Pasha, e ricchezze quasi altrettanto ingenti furono trovate nelle galee di parecchi altri ammiragli. Il perché lo ha spiegato Victor Davis Hanson: «Non essendoci un sistema bancario, temendo una confisca qualora avesse scontentato il sultano e sempre attento a tenere i propri averi al riparo dell’attenzione degli esattori fiscali, Ali Pasha si era portato la sua immensa ricchezza a Lepanto». Eppure, fa notare Stark, Ali Pasha «non era un contadino che nascondeva il surplus del raccolto, ma un membro dell’élite dominante… se una persona come lui non era in grado di trovare investimenti sicuri e non se la sentiva di lasciare i suoi soldi a casa, come era possibile che qualcun altro potesse sperare di far meglio?». Il concetto che, in epoca medievale, la cultura islamica fosse molto più avanzata di quella europea «è un’illusione». E in queste pagine sono trasparenti le allusioni agli abbagli provocati di recente dalle cosiddette primavere arabe. Più che trasparenti: esplicite.

Corriere 9.12.14
Saper vedere oltre il deforme
L’amore adulto che vive in Bella
di Roberta Scorranese

L’amore di Bella per Bestia arriva improvviso e la sorprende «come il sole ad est/quando sale su», canta Gino Paoli ne La Bella e la Bestia . Come un cono di luce che squarcia un bosco rorido, ferino, umido. È un amore che nasce non a prima vista, come in Biancaneve o nella maggior parte delle fiabe: nasce con la consapevolezza, la frequentazione, la conoscenza dell’altro. Diciamolo: si consolida con l’abitudine, spesso glutine di amori decennali.
Un sentimento maturo, nato da una scelta? Nella fiaba di Gabrielle-Suzanne Barbot de Villeneuve, Bella si offre volontaria per andare ad affrontare Bestia. Poi resta, declinando con dolcezza le sue proposte di matrimonio. Torna dal padre, ma subito dopo si rende conto che quella presenza le era diventata indispensabile. Nonostante la mostruosità, le corna, la capigliatura animale, il ghigno e il pelame. Così Bella sceglie.
Uccide (metaforicamente) il padre e decide di affrontare il bosco, l’oscuro, l’ignoto. Non a caso, nel suo celebre studio sulle fiabe popolari, Stith Thompson pone Bestia nella categoria dello «sposo animale», dove (all’opposto del principe azzurro) la parte maschile è ancora incompleta, mancante. Ambigua, perché sospesa tra le virtù invisibili e un aspetto ripugnante. Aspetta la donna capace di riscattare questa immaturità deforme. Retaggio forse, in questo caso, di La Belle et le Monstre , un’altra fiaba nordeuropea, simile a quella poi giunta fino a noi e approdata al musical. Ma Bella no.
Bella muove le fila della storia con la sua decisione. Decide di affrontare l’altro e di accettarlo per così come è, negando se stessa e, in questo modo, annullandosi in nome di un sentimento più forte di entrambi, compie il miracolo. L’unico, possibile miracolo amoroso.
Lo ha scritto anche il raffinato psicanalista Bruno Bettelheim (1903–1990), grande esegeta di favole, nel suo Il mondo incantato - Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe (Feltrinelli, 1977): Bella è capace di «creare un legame con un’altra persona (l’ io senza il tu vive un’esistenza solitaria)». Significa essere a un tempo se stessi e parte dell’altro.
«Un amore maturo — dice Marta Corradi, psicologa milanese, nonché protagonista di una serie di incontri sull’amore nelle fiabe, tra cui La Bella e la Bestia — e purtroppo oggi non facilmente realizzabile. In questo momento storico siamo sommersi di stimoli, oggetti, cose che ci chiedono una soddisfazione istantanea, immediata. L’amore di Bella invece si prende il tempo di crescere. Di rendersi conto». Il passo avanti della ragazza infatti è quando, tornata a casa, comprende che a mancarle non sono i vestiti, i gioielli e i comfort che Bestia le donava per tenerla ancorata a sé. «No, le manca l’uomo — dice Corradi, che sul suo sito www.martacorradi.it parla anche di questi temi — e non vede più la mostruosità: ha affrontato il bosco e l’ha capito».
Il bosco. Che cos’altro è Bestia se non l’incarnazione della boscaglia che insidia Cappuccetto Rosso? E che, stando a molte letture critiche, rappresenta anche la sfida sessuale? Per Bettelheim, Bestia incarna «quel misto di ripugnanza e di attrazione che caratterizza nei bambini la scoperta del sesso».

Corriere 9.12.14
la favola ribelle
Niente principe, ma un mostro
La bella che ama la bestia è un’attrazione senza tempo
di Valeria Crippa


Chiamala, se vuoi, attrazione fatale. Lei: una ragazzina che bussa all’adolescenza con tutta la grazia del caso, virtuosa per qualità morali, intellettuali ed estetiche tanto da meritarsi il nome di Belle. Lui, la Bestia. Corna da capro, criniera da leone, coda luciferina da lupo mannaro, zanne ricurve da predatore: mix degno di una creatura mitologica, ma antropomorfa come suggerisce la postura eretta ingentilita da movenze regali. In realtà è un bel principe che ha peccato di hýbris , per gli antichi greci la superbia punita dall’ira di una divinità (qui è una fata travestita da vecchina): incalzato da una rosa che sfiorisce, potrà liberarsi dell’incantesimo e riprendere sembianze umane solo grazie al vero amore.
Definire B&B una strana coppia è eufemismo. Eppure il loro è uno dei matrimoni più longevi dell’immaginario fiabesco. L’esordio è lì da sfogliare, nelle Metamorfosi di Apuleio (II secolo d.C.), lei si chiama Psiche, figlia di re e sfacciatamente bella, fa ingelosire la dea Afrodite che si vendica e invia il figlio Amore in missione: scoccherà una freccia che farà innamorare la ragazza di un mostro e la toglierà di mezzo. Peccato che Cupido si trafigga un piede e rivolga su se stesso l’amore di lei.
Da allora, Bella chiama Bestia, con varianti sul tema, pittoriche da Bosch a Van Dyck e Füssli, letterarie in Shakespeare (nel Sogno di una notte di mezza estate la regina Titania, bevuto un filtro galeotto, si innamora di Bottom, il buffone deforme con testa d’asino), Calvino (in Fiabe italiane trascrive il racconto calabrese Il Re serpente e quello toscano Bellinda e il Mostro), gli immancabili fratelli Grimm ( Pelle d’orso e Hans Porcospino ).
Corsi e ricorsi delle fiabe. A dipanare l’intreccio delle suggestioni ci pensano i catalogatori (Aarne-Thompson elenca centosettantanove racconti con lo stesso soggetto) che nel canone 425 individuano il tema della fanciulla che va in sposa a una creatura mostruosa dalle sembianze animali.
La prima a fissare il canone fu Gabrielle-Suzanne Barbot de Villeneuve, autrice di Les Contes marins, ou la Jeune Américaine pubblicato nel 1740 in Olanda, una raccolta di fiabe narrate da una dama di compagnia alla sua giovane padroncina durante il Gran Tour d’Europa: tra i racconti, La Bella e la Bestia ci arriva con tutta la tensione erotica sprigionata dalla convivenza forzata dei due futuri amanti (Bella accetterà di accoppiarsi alla Bestia e lo libererà dall’incantesimo) e con un’implicita critica alle convenzione sociale dei matrimoni combinati e alla sofferta condizione della donna.
Non c’è da stupirsi che a questa versione sia stata preferita quella molto più breve e addomesticata di Jeanne-Marie Leprince de Beaumont data alle stampe nel 1756 in «Magasins des enfants, ou dialogues entre une sage gouvernante et pleusieurs de ses élèves». A Madame de Beaumont ha attinto la Disney, nel ’91, per il film di animazione Beauty and the Beast (il primo del genere a essere nominato come migliore pellicola), Oscar per la colonna sonora e la migliore canzone originale composte da Alan Menken e Howard Ashman, con regia di Kirk Wise e Gary Trousdale, sceneggiatura di Linda Woolverton.
Rispetto alle fonti letterarie il cartoon si prende qualche libertà: vengono aggiunti il personaggio di Gaston, bellimbusto tutto muscoli, e una gustosissima corte di servitori della Bestia trasformati dall’incantesimo in oggetti.
Squadra vincente non si cambia e ritroviamo Woolverton e Menken (al compianto Ashman, deceduto per Aids, subentrò Tim Rice) tra i nomi che firmano la versione teatrale tratta dal cartoon che la Disney presentò nel 1994 a Broadway, dove restò in scena per 13 anni.
Per gli amanti dei numeri: il musical Disney è stato allestito in 22 Paesi e 8 lingue locali (nel 2009 la Stage presentò la versione italiana al Nazionale di Milano), visto da 35 milioni di spettatori e replicato 28 mila volte (equivalenti a 67 anni di rappresentazioni).
Per festeggiare i vent’anni dal debutto, si è riunito a New York il team creativo che ha aggiornato, con gli occhi di oggi, l’edizione originale di Broadway: il tour mondiale ha debuttato il 10 ottobre scorso allo Zorlu Center di Istanbul e prevede tappe ad Abu Dhabi, Salonicco, Manila, Bangkok, Singapore, Giacarta, Macao. Eccolo ora in Italia, prodotto da Gianmario Longoni e ShowBees in collaborazione con David Zard e il Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia.
Applaudito nei giorni scorsi al Politeama Rossetti di Trieste, il musical sarà in scena in inglese, con sopratitoli italiani, al Teatro degli Arcimboldi di Milano da domani, 10 dicembre fino al 3 gennaio.

Corriere 9.12.14
Quando l’editoria investiva sul futuro
di Paolo Di Stefano


Due pericoli opposti incombono quando si leggono vecchie carte editoriali da cui emerge il mondo del lavoro intellettuale degli anni andati. Da una parte l’idea che il meglio sia ormai irrimediabilmente alle spalle. Dall’altra la tentazione, più in voga, di «rottamare» uomini e cose e di dare libero sfogo all’effervescenza del presente cancellando ogni rapporto con i modelli e la tradizione.    Due recenti uscite permettono di ripercorrere momenti e idee dell’editoria di progetto del Dopoguerra per trarne spunti di riflessione utili ancora oggi. Sono le lettere di Alberto Mondadori, che fondò il Saggiatore ( Ho sognato il vostro tempo , a cura di Damiano Scaramella, introduzione di Luca Formenton, il Saggiatore) e le lettere di Roberto Cerati, storico braccio destro commerciale di Giulio Einaudi (a cura di Mauro Bersani, Einaudi), di cui ha scritto Corrado Stajano sul Corriere .
   L’uno e l’altro hanno una strenua fiducia nel libro come oggetto di formazione e di guida della società, per questo combattono quotidianamente una battaglia di resistenza contro la «logica dei container, del quintalaggio» (Cerati). Sono ispirati da un’idea di armonia, secondo cui ogni libro deve avere un respiro in rapporto al respiro del titolo che gli sta accanto. Credono in un’editoria che abbia «basi realmente e decisamente commerciali , e non da amateur » (Mondadori), ma escludono che commercio significhi puntare solo sulle novità e sulla quantità. Non credono che l’editoria debba «trovare nella produzione massificata la sola ragione della sua esistenza» (Cerati). Sanno che «solo i grandi libri hanno un successo non effimero» (Mondadori) e che perciò l’investimento editoriale è una scommessa sul futuro.
   Non per questo, mancano di realismo: Cerati non fa che dosare tirature e ristampe. Parlano con gli autori, scrivono, propongono di continuo. «Non basta affermare genericamente “acquistiamo solo opere che si vendono”, ma bisogna tracciare una precisa politica editoriale» (Mondadori). Studiano i modi migliori per promuovere gli autori in cui credono ma che non sono stati «capiti» dal mercato. E lasciano che gli altri vadano avanti da sé. Si dirà che sia il Saggiatore sia l’Einaudi sono finite più volte nel baratro finanziario. È vero. Ma quanti grandi editori hanno poi cavalcato il loro fallimento comprandone, con grande guadagno, autori, titoli e persino l’intero catalogo. E l’editoria alla giornata come sta?

Repubblica 9.12.14
“Che magia l’algebra nei templi giapponesi”
Shigefumi Mori, Medaglia Fields 1990, racconta come il suo Paese
rischi di perdere l’antico amore per i numeri: “Ora regna solo l’utile”
colloquio di Piergiorgio Odifreddi


AL CONGRESSO Internazionale di Matematica dello scorso agosto a Seul, oltre all’assegnazione delle quattro medaglie Fields è anche stato eletto il nuovo presidente dell’Unione Matematica Internazionale, che guiderà i matematici fino al prossimo congresso di Rio de Janeiro del 2018. Il neoeletto è il giapponese Shigefumi Mori, primo asiatico a ricevere questo onore, e già vincitore della medaglia Fields nel 1990.
Ho conosciuto Mori (nato nel 1951 a Nagoya, in Giappone) molti anni fa in Italia, dov’è venuto qualche volta per i legami tra il suo lavoro, centrato principalmente sulla geometria algebrica, e quello dei geometri algebrici italiani. Ma l’ho incontrato recentemente al meeting di Heidelberg, poco dopo la sua elezione, approfittandone per parlare con lui della matematica nel suo paese.
Cosa ci può dire delle specificità della matematica giapponese?
«Il Giappone si è aperto all’Occidente verso il 1850, dopo una chiusura totale per più di due secoli: ufficialmente, tra il 1639 e il 1868. Da quel momento molta cultura occidentale è stata assorbita, molto velocemente, e la matematica non ha fatto eccezione. Si può dire che da quel momento non ci sia più stata una matematica tradizionale».
E prima cosa c’era stato, invece?
«Come in molte culture, si erano battute autonomamente alcune delle vie più naturali: ad esempio, in analisi erano state calcolate varie approssimazioni di pi greco, e in algebra si erano definiti i determinanti. Ma in matematica, così come in molti altri campi, il Giappone ha sempre subìto l’influenza culturale della Cina: sia direttamente, sia indirettamente attraverso la Corea».
Ci può spiegare, però, cosa sono i famosi Sangaku?
«Sono tavolette votive che i fedeli esponevano nei templi, e sulle quali scrivevano problemi di matematica: per chiederne le soluzioni, se non le conoscevano, e per annunciarle ed esibirle, se invece le avevano trovate ».
Da noi si fa il contrario: in genere si mettono gli ex-voto quando si è già ottenuta la grazia.
«Quello si fa anche da noi. Ma non con i Sangaku, che hanno un aspetto più culturale che religioso, nel senso che i templi sono anche luoghi di ritrovo e di raduno, oltre che di preghiera. Direi che i Sangaku sono un analogo alle disfide matematiche che si facevano in Italia nel Cinquecento, dalle quali scaturì poi la formula risolutiva dell’equazione di terzo grado».
Qual è il ruolo della matematica nel Giappone moderno?
«È difficile dirlo. Il Rims (Istituto di Ricerca per le Scienze Matematiche) dell’Università di Kyoto, ad esempio, dove lavoro e che ho diretto, è stato creato nel 1963: in quel periodo il governo voleva promuovere la matematica in particolare, e le scienze in generale».
Com’è organizzato il sistema scolastico?
«In maniera piramidale e selettiva. Alle superiori la gerarchia è soprattutto locale, ma alle università diventa nazionale, e i migliori studenti vanno nelle migliori sedi: a partire da Tokyo e Kyoto, che sono le prime due in classifica, nell’ordine».
Lei dove ha studiato?
«A Kyoto, perché quello era il periodo della contestazione. Nel gennaio 1969 l’Università di Tokyo fu parzialmente occupata, la polizia attaccò gli studenti, e gli esami di ammissione di marzo furono sospesi per quell’anno».
E alla matematica, come c’è arrivato?
«È stata una scelta forzata, perché non ero in grado di fare nient’altro. Alle medie non valevo niente: mai che sia riuscito a entrare nei primi venti della scuola, ad esempio. Ma un giorno ci diedero un problema, e c’era un dolce in palio da spartire: per qualche motivo, fui l’unico a risolverlo, e vinsi l’intera torta. La portai a casa, ma poiché temevo che i miei genitori non ci avrebbero creduto, visti i miei precedenti, mi feci accompadentale, dall’insegnante. Quell’episodio mi fece capire che forse era qualcosa che potevo fare. Alla fine delle superiori mi convinsi che effettivamente andavo bene, e mi iscrissi a matematica ». Come si è sviluppata la scuola giapponese di geometria algebrica, che ha vinto ben tre medaglie Fields?
«La prima fu Kunihiko Kodaira, nel 1954. Ma in realtà lo si può considerare un prodotto della scuola occici perché dopo aver studiato in Giappone, andò a Princeton nel 1949, e tornò in patria solo nel 1967. E lo stesso si può dire di Heisuke Hironaka, che vinse nel 1970. Dopo aver studiato in Giappone anche lui, prese il dottorato a Harvard nel 1960 e poi rimase negli Stati Uniti fino al 1992, anche se per qualche anno ebbe una cattedra a tempo parziale a Kyoto, prima di tornare definitivamente».
L’ha conosciuto bene?
«Oh, no: è più vecchio di me di diegnare anni! Una volta è venuto a tenere una serie di lezioni a Kyoto. E un giorno è capitato che andassimo a cena nello stesso ristorante, per caso. Allora gli ho posto alcune domande, e lui mi ha risposto: molto interessante. Sono rimasto incantato».
Quindi in realtà non c’è nessuna scuola giapponese. Ma qual è la connessione con la scuola italiana di geometria algebrica?
«Non saprei. Naturalmente conosco i nomi di Guido Castelnuovo, Federigo Enriques e Francesco Severi, ma indirettamente, attraverso i lavori di Kodaira: in particolare, il cosiddetto “teorema di Enriques-Kodaira”. Ma soprattutto attraverso un corso che Michael Artin tenne in Giappone, quando venne in sabbatico: lui era stato allievo di Oscar Zariski, che aveva studiato in Italia negli anni Venti».
E qual è la situazione odierna in Giappone?
«Sono preoccupato per i giovani, perché il governo non sembra avere un gran interesse per la matematica. Ogni anno ci tagliano i fondi, con la scusa di finanziare altre ricerche “più competitive”: cioè ricerche che producono cose pratiche, applicabili sul breve periodo. In matematica questo è suicida, perché a volte le applicazioni arrivano nel giro di qualche secolo, quando non di qualche millennio».
Il suo nuovo ruolo di presidente dell’Unione Matematica Internazionale potrà aiutare?
«Se lo prendono seriamente, forse sì, e ne sarei felice. Anche se io non sono bravo a oliare le ruote dei politici, e dovrò imparare».
Governo a parte, come vede gli studenti?
«La popolazione giapponese sta diminuendo, e questo significa in particolare che c’è meno competizione. E senza competizione, è difficile raggiungere risultati importanti. Troppa competizione può forse essere eccessiva, ma nessuna competizione è sicuramente deleteria».
LA SERIE L’intervista a Shigefumi Mori (foto) è la terza tappa della serie sui matematici del mondo La precedenti sono uscite l’1 e il 3 dicembre

Repubblica 9.12.14
La profezia di Lacan su finanza e antipolitica
Una serie di saggi conferma l’attualità dello psicanalista francese anche sui temi sociali ed economici
Dal narcisismo che scatena tendenze aggressive al problema di ripensare la vita delle istituzioni
di Massimo Recalcati


UNA serie di libri appena usciti ribadiscono l’attualità del pensiero di Jacques Lacan che negli ultimi anni è diventato anche nel dibattito culturale italiano un punto di riferimento importante. Innanzitutto bisogna segnalare la riedizione del Seminario I (1953-54) di Lacan stesso titolato Gli scritti tecnici di Freud e riproposta da Einaudi, con la revisione della traduzione a cura di Antonio Di Ciaccia. Questo straordinario Seminario inaugura la serie destinata a divenire celebre dei Seminari dello psicoanalista francese. In esso appaiono gran parte dei temi più rilevanti del suo insegnamento, tra tutti quello del nesso profondo che unisce la violenza al narcisismo. La tesi maggiore che Lacan avanza — e che non cessa di essere politicamente attuale — è che il narcisismo è una prigione nella quale l’Io resta catturato dall’immagine ideale di se stesso. La tendenza aggressiva non scaturisce tanto dalla frustrazione — ma da questa fascinazione dell’Io per se stesso. È la versione del desiderio invidioso che costituisce il personaggio centrale di questo Seminario e nel quale il nostro tempo sembra essere impaludato: desidero un oggetto non per il sua valore in sé, ma perché è desiderato o posseduto da un altro simile a me. Il desiderio invidioso scaturisce direttamente dal narcisismo e si accoppia alla violenza: voglio possedere quel che l’altro possiede, voglio distruggere l’Altro, voglio esistere solo Io. Dovremmo davvero rileggere questo Seminario alla luce della grande crisi che attraversa l’Occidente causata dalla dimensione predatoria del culto narcisistico dell’Io che trova nel discorso del capitalismo finanziario la sua più spettrale rappresentazione.
Ma quale era il pensiero politico di Lacan? Sappiamo come non nascondesse le sue simpatie per una cultura liberale e conservatrice. Ma forse la domanda sarebbe più interessante se riguardasse le possibili conseguenze politiche del suo pensiero. Una raccolta di saggi di Bruno Moroncini, filosofo e fine esegeta del testo di Lacan, titolata Lacan politico (Cronopio, 2014) prova a farlo sottolineando l’ostilità di Lacan nei confronti di ogni dispositivo istituzionale nel nome di una «politica a distanza dallo stato, o addirittura senza stato». È questo il significato più proprio che Moroncini attribuisce all’ispirazione liberale del pensiero di Lacan. Diffidenza nei confronti di ogni pratica collettivo-istituzionale. Eppure una delle ragioni della crisi che attraversa la nostra società investe proprio il problema di come ripensare la vita delle istituzioni se non si vuole cadere nella trappola anti-politica e narcisistica del populismo. Non a caso per lo stesso Lacan l’istituzione è ritenuta essenziale nel processo di umanizzazione della vita sin dalla sua prima forma che è quella della famiglia. L’istituzione non è solo il luogo dell’alienazione della vita, ma anche quello della sua fondazione. In un libro originale titolato Istituire la vita (Vita e pensiero, 2014) lo psicoanalista Francesco Stoppa sostiene la necessità di distinguere la funzione positiva dell’istituzione dalla patologia dell’’istituzionalizzazione. Mentre la prima ha il compito di alimentare la vita e il desiderio rendendo possibile il “rischio” dell’esposizione all’incontro con l’Altro, la seconda produce effetti di intossicazione e di oppressione della vita. La vita non è più istituita dalla circolazione di un desiderio capace di trasformare l’esperienza del limite in una esperienza generativa, ma si spegne atrofizzandosi in una ripetizione mortifera. Ecco un altro errore ideologico dell’anti-politica: confondere l’istituzione con l’istituzionalizzazione.
Se quest’ultima spegne tristemente la vita, senza l’istituzione la vita si ripiega su se stessa restando chiusa nel culto sterile dell’Io.

IL SAGGI0/1 Gli scritti tecnici di Freud 1953-1954 di Jacques Lacan (Einaudi pagg. 338 euro 30)
IL SAGGIO/2 Lacan politico, di Bruno Moroncini ( Cronopio, pagg. 199 euro 18)