mercoledì 10 dicembre 2014

Se leggete i giornali o guardate la tv
quasi non ne trovate traccia
(“benitino” Renzi preferisce così...)
MA DOPODOMANI, VENERDI 12
E SCIOPERO GENERALE NAZIONALE


il Fatto 10.12.14
L’ecatombe del mare Mediterraneo
L’Onu: mai così tanti migranti morti
Partiti in 207.000 almeno 3.419 migranti hanno perso la vita nel 2014
Si tratta di un numero di quasi tre volte superiore al precedente record del 2011

Almeno 3.419 migranti hanno perso la vita nel Mar Mediterraneo da gennaio: questa traversata diventa così la «strada più mortale del mondo», è un bilancio record. Lo annuncia l’agenzia Onu per i rifugiati. 
Dall’inizio dell’anno, afferma l’UNHCR, sono stati oltre 207.000 i migranti che hanno tentato di attraversare il Mar Mediterraneo: una cifra quasi tre volte superiore al precedente record del 2011 quando 70.000 migranti erano fuggiti dai loro paesi durante la primavera araba. Con i conflitti in Libia, in Ucraina e in Siria-Iraq, l’Europa è la principale metà dei migranti via mare. Quasi l’80% delle partenze avvengono dalla costa libica verso l’Italia e Malta.

il Fatto 10.12.14
L’appello
Non demolite la Costituzione
Nuovo Senato e Italicum violano la Carta
l’assemblea nazionale dell’associazione “Salviamo la Costituzione: aggiornarla, non demolirla”


Pubblichiamo ampi stralci del documento finale approvato dall’assemblea nazionale dell’associazione “Salviamo la Costituzione: aggiornarla, non demolirla”, presieduta dal professor Alessandro Pace, a proposito del ddl costituzionale n. 2613 “Renzi-Boschi” in discussione alla Camera e della nuova legge elettorale per la Camera (“Italicum”) in discussione al Senato.
1. L’assemblea ribadisce il proprio favore per la tesi, già sostenuta dal presidente Scalfaro, secondo la quale una legge di revisione costituzionale dovrebbe essere sottoposta a referendum confermativo quand’anche venisse approvata con la maggioranza dei 2/3 dei componenti di ciascuna Camera; auspica quindi che il Parlamento colga questa occasione per rivedere in tal senso l’art. 138 della Costituzione.
2. L’assemblea rileva la disomogeneità che caratterizza il contenuto del ddl in quanto introduce contestualmente modifiche sia alla forma di governo sia alla forma di Stato. Così facendo il ddl viola gli articoli 1 e 48 della Costituzione – che proclamano rispettivamente la sovranità popolare e la libertà di voto – in quanto costringe l’elettore, in sede di referendum confermativo, a votare a favore o contro entrambe tali modifiche ancorché sia favorevole solo a una delle due. L’assemblea auspica (...) che il referendum debba avvenire separatamente per gruppi di disposizioni omogenee all’argomento trattato (…) e che la Camera disponga lo stralcio di una delle due riforme per consentire agli elettori di votare liberamente sull’altra.
3. Il fatto che il governo Renzi, contro ogni logica, abbia ritenuto di sottoporre all’approvazione del Parlamento la sola legge elettorale della Camera, autorizza l’assemblea a valutare contestualmente sia il ddl costituzionale n. 2613 sia l'Italicum (…). L'Italicum, distaccandosi dalle precise indicazioni contenute nella sentenza n. 1/2014 della Corte costituzionale, rischia di privilegiare la governabilità rispetto alla rappresentatività, anche e soprattutto in conseguenza del sistema prevalentemente monocamerale cui darebbe vitail ddl. Al riguardo è stato prospettato il rischio che il premio di maggioranza, a seguito del ballottaggio, possa spettare – senza adeguati correttivi sui requisiti per la partecipazione al ballottaggio – non alla prima lista ma alla seconda ancorché questa sia stata votata soltanto dal 20% degli elettori. Con la conseguenza che le verrebbe attribuito un premio assolutamente irragionevole.
4. Nel merito del ddl l’assemblea, pur convenendo sull’opportunità di aggiornare la forma di governo e quindi di attribuire alla sola Camera dei deputati il rapporto fiduciario col governo, manifesta la sua decisa contrarietà all’accentramento di poteri in capo alla Camera, e quindi alla maggioranza di governo. La Camera (…), grazie alla sproporzione tra i suoi componenti (630) e i componenti del futuro Senato (100), potrebbe procedere praticamente da sola alla revisione della Costituzione, all’esercizio della funzione legislativa – tranne i pochi casi di esercizio collettivo di tale funzione –, all’elezione del presidente della Repubblica, dei componenti del Csm e di tre dei cinque giudici costituzionali.
5. Oltre all’assenza di un forte ed effettivo contro-potere esterno – il Senato essendo stato delegittimato quanto alla fonte dei suoi poteri, al numero dei suoi componenti e alle attribuzioni a esso conferite – l’assemblea rileva la carente previsione di contro-poteri interni: la disciplina delle garanzie delle minoranze parlamentari viene demandata ai regolamenti parlamentari (che sono approvati dalla maggioranza) ; nel procedimento legislativo viene escluso, salvo eccezioni, l’esame in commissione referente dei disegni di legge; non è stata prevista la possibilità di ricorso alla Corte costituzionale contro le decisioni delle Camere in tema di ineleggibilità, incandidabilità e incompatibilità, da anni auspicato dai più autorevoli studiosi.
6. I senatori non rappresenterebbero più la Nazione, come se il Senato – ancorché ridotto a soli 100 componenti – non fosse anch’esso un organo dello Stato che partecipa al procedimento di revisione costituzionale e alla funzione legislativa, elegge il presidente della Repubblica e due dei cinque giudici costituzionali. Per quanto limitati siano i poteri riconosciuti dal ddl al Senato a fronte di quelli riconosciuti alla Camera (significativo è che il Senato non potrebbe istituire commissioni parlamentari d’inchiesta sulle materie sulle quali potrebbe legiferare o esercitare il controllo!), ciò nondimeno allo stesso Senato viene attribuito sia il potere di partecipare alla revisione costituzionale sia alla funzione legislativa, senza però che i senatori siano eletti con suffragio diretto in sede regionale oppure grazie a un serio sistema di elezione indiretta. Ciò urta contro un principio fondamentale del costituzionalismo, risalente ad almeno 800 anni, secondo cui i detentori del potere legislativo debbono essere eletti dal popolo e al popolo debbono rispondere. (…) I 1032 futuri “grandi elettori” del Senato (tra consiglieri regionali e sindaci) “sceglierebbero”, tra di loro, i 95 senatori che continuerebbero a esercitare part time le funzioni di consigliere regionale o di sindaco, laddove in Francia sono 150 mila i “gradi elettori” (deputati, consiglieri regionali, consiglieri generali e delegati dei consiglieri municipali) che eleggono i circa 330 senatori.

Repubblica 10.12.14
Alla ricerca dello Stato perduto
Oggi quello italiano appare del tutto cancellato
E quello che dovrebbe sostituirlo, l’Europa, sfuma nella sua perdita di unità
di Adriano Prosperi


OGNI misura del tempo condivisa, quella che all’alba di ogni giorno ci riconnette immediatamente alla realtà nell’attimo stesso del risveglio, è la forma in cui ci si presenta la nostra appartenenza allo Stato: senza lo Stato non ci sarebbe il calendario, osservò una volta Pierre Bourdieu. Ma che cosa è oggi lo Stato per noi italiani? La domanda potrebbe riassumere e dominare le tante che ci si presentano nel privato delle urgenze personali — lavoro, sicurezza, speranze e paure d’ogni giorno. Quest’anno la fine dell’anno ci coglie in un momento di incertezza più grave di sempre: la perplessità, il distacco, la sospensione, l’attesa sono i sentimenti prevalenti riguardo al futuro celato dietro la scansione del calendario.
È per questa somma di sentimenti che la maggioranza del popolo italiano, uno dei più politicizzati del mondo, si ritira davanti agli appuntamenti elettorali come fa l’acqua della bassa marea. Il numero dei votanti cala come se qualcuno avesse tolto il tappo dal contenitore della vita sociale — lo Stato, appunto. C’è chi dà la colpa di questo alla mancanza di presa dei partiti sulla società: e così ci appare sempre più lontana e devoluta l’epoca in cui Antonio Gramsci vedeva nel partito politico il moderno principe. Noi cittadini assistiamo perplessi e divisi da opposti sentimenti al processo di riforma della Costituzione che il governo Renzi ha avviato: un processo che dovrebbe rovesciarla come un calzino. Perché questo è ciò che avviene sostituendo agli organismi di democrazia dal basso (Comuni, Province, sistema bicamerale, sindacati) creati dai padri costituenti per reagire alla malattia di ieri — il fascismo — gli anelli di una catena di comando che parte dal centro decisionale. Rimedio disperato o ultimo stadio della malattia? Il fatto è che quando la società si disgrega non è con la costrizione che la si può ricomporre. E della disgregazione è la cronaca quotidiana che ci squaderna davanti i prodotti malati. La nascita dello “stato di mezzo”, che si propone come governo di una società ingovernabile, è la risposta con la corruzione e la violenza allo scioglimento dell’iceberg collettivo in tante isole che non riescono più a comunicare tra di loro. Oggi lo Stato italiano appare del tutto cancellato. E quello che dovrebbe sostituirlo, cioè una Unione europea come realtà politica forte di una volontà espressa da tutti i cittadini, sfuma in lontananze inafferrabili come una nuvola sempre più evanescente.
I rimbrotti della Merkel non ci ingannino. La voce che conta non è la sua ma quella che esce da agenzie private di valutazione finanziaria che guardano al nostro debito come occasione di cui tenere conto per fare soldi, per orientare le scelte di una speculazione ovviamente insensibile alla tragedia della disoccupazione, alla stretta gelida che toglie il respiro alle generazioni più giovani e fa del nostro un Paese in via d’estinzione rovesciando il diagramma che ci vedeva ancora non molto tempo fa ai vertici della crescita demografica. Eppure uno sguardo che si sollevi al di sopra e al di là di quel mezzo secondo che è nell’orologio storico il brevissimo secolo del Novecento, mostra che da sempre la vita degli Stati ha conosciuto il debito come forza propulsiva: e che da sempre gli Stati hanno saputo come lo si risolve. Basta non pagarlo: lo potrebbero raccontare i grandi banchieri fiorentini, genovesi o tedeschi. Erano loro che fallivano e non l’imperatore del Sacro romano impero quando dichiarava bancarotta. E la storia la facevano gli Stati, non le banche.
Ma l’Europa non è diventata uno Stato. Se lo fosse diventata o se almeno marciasse nella direzione giusta, non vedremmo emergere nella sua burocrazia (non eletta dai cittadini) una frattura sempre più evidente: quella dei pregiudizi e delle differenze culturali profonde. Che altro è se non la continuazione di un’antica battaglia di stereotipi quella che affiora quando dal nord Europa veniamo marchiati come popoli che si rotolano nei loro peccati (“ Schulde”) da quei porci cattolici e fannulloni (“ Pigs”) che siamo? Qualche economista ha ventilato l’idea di ratificare la condizione di separati in casa inventando due tipi di monete — un euro forte come il marco, un euro debole come la lira. Ma sarebbe una finzione, una maschera trasparente: e mascherare la realtà, nascondere la radice della malattia non è una buona cura. Bisogna guardare all’Europa nella sua storia reale e tenerne conto in politica. E quello che la doppia faccia della moneta dovrebbe celare è la divisione tra due Europe che hanno abbandonato il progetto dell’unità.

Repubblica 10.12.14
Il parassitismo fiorente
di Franco Cordero


TIENE banco la scoperta del malaffare capitolino: una congrega a varie anime (underground nero, Magliana, trame mafiose), infiltrata nel Pd, gestisce appalti lucrando su raccolta dei rifiuti, campi d’immigrati, manutenzione del verde pubblico. Stupore, scandalo, sdegno: ed essendo sinora centouno i variamente coinvolti, molti in custodia cautelare, sa d’eufemismo la metafora «mela marcia». Matteo Renzi reagisce nel solito stile, a imperiosi gesti verbali, nominando un commissario: Matteo Orfini, presidente del partito, ex capo dei «giovani turchi»; né poteva mancare una «task force». Ventitré anni fa Bettino Craxi definiva «mariuolo» il presidente del Pio Albergo Trivulzio, sorpreso col denaro caldo in tasca. Il risanatore del partito era un ex sindacalista Psi, poi ministro e presidente dell’Antimafia, Ottaviano Del Turco: nel luglio 2008, governatore dell’Abruzzo, finisce in vinculis, quale tangentocrate d’una Sanità vertiginosamente gonfia; da Parigi nell’anniversario della Bastiglia l’allora premier Silvio Berlusconi inveisce contro l’ultimo «teorema » d’invadenti toghe; le imbriglierà. Esiste una compagnia degl’impuniti: campagne mediatiche lo davano innocente, assolto a colpo sicuro; il processo pende in appello dopo una condanna a nove anni e sei mesi. L’argomento invita all’analisi storica: come mai fioriscano tali commerci; e quanto vi sia organicamente coinvolta la classe politica.
L’evento milanese 17 febbraio 1992 ha effetto domino: dovunque l’inquirente scavi, brulica politica infetta. Gli ottimisti sperano una metamorfosi virtuosa, oltre palude democristiana e plumbeo dogmatismo comunista (squalificato dalla crisi nella Chiesa madre moscovita). La mutazione genetica era illusoria. In Sicilia Cosa Nostra ha subìto duri colpi e risponde uccidendo in forme spettacolari chi la perseguiva: sabato 23 maggio, mentre le Camere eleggono un presidente della Repubblica, saltano in aria Giovanni Falcone, sua moglie, la scorta; cinquantasette giorni dopo, tocca a Paolo Borsellino; lo Stato reagisce isolando i boss detenuti (art. 41-bis: comunicavano facilmente con l’esterno); misura molto sofferta dalla cupola. In settembre, Vito Ciancimino voleva stabilire contatti: lo sappiamo da Luciano Violante, testimone tardivo; allora presiedeva l’Antimafia. Tra maggio e luglio 1993 esplodono autobombe a Roma, Firenze, Milano: morti, feriti, offese al patrimonio artistico; l’esplosivo dirocca due basiliche nel cui titolo figurano i nomi dei presidenti delle Camere (la mafia è semiologa). Nell’udienza al Quirinale del 28 ottobre 2014, Giorgio Napolitano racconta che l’allusione fosse perfettamente intesa nel mondo politico: saltava agli occhi l’intento estorsivo, liquidare l’art. 41-bis; non rammenta però uno Stato transigente. Gli archivi suonano altra musica. Fin da giugno il nuovo vertice penitenziario consigliava la «distensione» carceraria conseguibile a quel modo: varie voci contraddicono segnalando i pericoli d’una maniera molle ma provvedimenti ministeriali del 5 novembre restituiscono al regime consueto 334 importanti mafiosi. Non è routine. Scelte simili coinvolgono il governo.
Nei mesi seguenti nasce una mai vista creatura politica: ponti o celle con le sbarre sono dimore scomode (parla Fedele Confalonieri, custode dei segreti); così diventa «statista» l’uomo che s’era fondato un impero economico e mediatico praticando falso, frode, corruzione, plagio. Gli sta al fianco l’inseparabile Marcello Dell’Utri, i cui legami con la piovra constano dalla condanna a sette anni (li espia): «Dobbiamo convivere», esorta un ministro del secondo governo forzaitaliota; e convivono proficuamente, visti i sessanta seggi su sessanta vinti nell’isola. Il modus vivendi tra Repubblica d’Italia e dominio mafioso richiedeva qualche ritocco delle norme. Re Lanterna spaccia garantismi criminofili: perde i colpi un ferrovecchio penale faticoso, lento, sistematicamente inibito; ogni anno sfumano 150mila casi, «prescritti» ossia estinti da termini iugulatori. La criminalità white collar è una prediletta berlusconiana. L’universo mafioso vi rientra nella parte in cui assume figure finanziarie, commerciali, industriali: gigantesca impresa, allunga i tentacoli. Ma colletti bianchi malfattori patiscono le spie meccaniche occulte, e qui l’Olonese non è ancora soddisfatto: l’ideale sarebbe che nessuno v’interferisse, affinché comunichino sicuri, essendo tabù qualunque cosa dicano privatamente. Le intercettazioni sono bestia nera in quest’allegra ideologia.
I parlamentari godono d’un privilegio: chi vuol intercettarli chieda l’assenso della Camera competente: solenne “en garde” e sarebbe meno ipocrita l’assoluta immunità; l’avvertito non parla più o misura le parole. Quando poi l’onorevole locutore s’infili in linee altrui, soggette a controllo, l’assemblea concede o nega l’uso dei reperti, sovranamente. Regna la casta. Giovedì 4 dicembre Palazzo Madama sottrae all’indagine e al futuro eventuale processo le emissioni vocali d’Antonio Azzolini, presidente Ncd della commissione bilancio: ballano 147 milioni d’una truffa allo Stato, frode in pubbliche forniture, associazione a delinquere, reati ambientali ecc.; così la procura di Trani configura i fatti. L’interessante è che, tolto qualche dissenso, niente distingua i senatori Pd dai berluscones delle due famiglie: con distintivi diversi sotto il bavero conducono lo stesso gioco; vedi Kafka, Il processo , in fondo al secondo capitolo. Gli «emblemata» erano un genere letterario: figure simboliche, talvolta accompagnate da chiose o versi; è famosa la raccolta d’Andrea Alciato, luminare della giurisprudenza colta cinquecentesca. Volano o rampano grifone, aquila, cavallo, leone, ma dovendo definire emblematicamente il parassitismo fiorente in Italia, sceglieremmo animali meno nobili, quali pidocchio e vampiro.

Repubblica 10.12.14
Così può rinascere l’idea originale di un’Europa unita
Duccio Galimberti, come Spinelli e Rossi, scrisse un progetto federalista. Che ora viene riproposto
di Gustavo Zagrebelsky


ANDARE alla radice. Negli anni che precedettero la fine della Seconda guerra mondiale e il crollo dei regimi fascisti e nazisti in Europa, avvicinandosi il momento della ricostruzione politica e morale del Continente, in ambienti intellettuali che guardavano lontano, dal passato al futuro, si fece strada una convinzione: lo Stato nazionale e sovrano aveva compiuto il suo ciclo plurisecolare, liberando in fine il suo fiele velenoso. Già al termine della Prima guerra mondiale, ci fu chi — Luigi Einaudi — l’aveva definito “idea feconda di male”. Al termine della seconda, l’assolutezza del potere ch’esso rivendicava a sé si era pienamente manifestata nel modo più tragico.
Il partito unico, depositario di quel potere, non era stato affatto una degenerazione della sovranità nazionale, ma il suo compimento storico. Gli Stati totalitari, in fondo, erano quelli in cui, almeno nell’Europa continentale, avevano fuso nel modo più coerente statualità e nazionalismo. La guerra non era stata una deviazione occasionale, un impazzimento momentaneo, ma la logica conseguenza della potenza piena e incondizionata che essi pretendevano.
Queste convinzioni erano segni dei tempi di allora. Fiorirono in tutta Europa progetti costituzionali concepiti da persone che nemmeno si conoscevano tra di loro ed erano all’oscuro delle idee che gli uni e gli altri andavano maturando. Un novus ordo sembrava battere alla porta e portava un nome: federalismo. Dopo le tragedie dei totalitarismi e i massacri della guerra, una ricostruzione dell’Europa a partire dalla ricostituzione degli Stati sovrani, cioè propriamente dalla riproposizione delle cause di tanta sventura, pareva essere un errore foriero di nuovi altri mali, già sperimentati. Occorreva ascoltare la lezione della storia. La testimonianza più nota di quest’indirizzo di pensiero è certo il Manifesto di Ventotene , steso nel 1941 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. Ora, l’editore Aragno ripropone il Progetto di costituzione confederale europea ed interna di Duccio Galimberti e Antonino Rèpaci, un testo assai meno noto del Manifesto, che si pone sulla medesima lunghezza d’onda. L’importanza attuale di questi scritti sta precisamente nella loro inattualità, cioè nel fatto che le cose sono andate molto diversamente da ciò che essi prefiguravano, e non sono andate bene.
Tanto il Manifesto quanto il Progetto rovesciano il punto di partenza che noi abbiamo fatto nostro come dato inconte- stabile, cioè l’idea che l’Europa federata possa procedere soltanto a partire dalle sovranità degli Stati, per mezzo di “cessioni” o “limitazioni” di poteri. La fonte di legittimità europea avrebbe dovuto essere in Europa, non negli Stati: le costituzioni statali come derivazioni dalla costituzione europea, e non viceversa. Le politiche europee e i Trattati che hanno dato loro forma giuridica presuppongono invece gli Stati come prius e l’Europa come posterius . Questa presupposizione divenne presto inevitabile, ma tale non appariva allora. Con le parole del Manifesto: «L’ideale di una federazione, mentre poteva apparire lontana utopia ancora qualche anno fa, si presenta oggi, alla fine di questa guerra, come una meta raggiungibile e quasi a portata di mano», non come un lontano ideale, ma «come una impellente, tragica necessità» in quello ch’era il «totale rimescolamento » di popoli, il quasi totale sfacelo delle economie nazionali, la necessità di ridefinire i confini politici, la riconsiderazione dei rapporti tra maggioranze e minoranze etniche. Tutti questi problemi non avrebbero potuto essere affrontati se non a partire dalla dimensione politica europea: la guerra era nata in Europa e l’aveva distrutta; solo l’Europa avrebbe potuto rimettersi piedi.
La storia avrebbe dimostrato l’illusorietà di quel “a portata di mano”. La liberazione dai fascismi non avvenne affatto in nome dell’Europa, ma in nome delle nazioni e della loro indipendenza e autosufficienza. Quando l’integrazione europea divenne un tema concreto, già negli anni ‘50, la situazione era dunque pregiudicata in senso nazional-statalista. I progetti federalisti della prima ora avrebbero concordato nel denunciare questo passo falso. L’Europa sarebbe finita inevitabilmente per assomigliare a una sommatoria di egoismi statal-nazionali che non avrebbe messo in campo la legittimità dell’Europa come tale. Il percorso si sarebbe svolto secondo quello che s’è definito il “metodo funzionalista”: singole funzioni attribuite a burocrazie che, alla lunga e soprattutto nei periodi di difficoltà, inevitabilmente sarebbero state avvertite dalle popolazioni come corpi estranei, espressioni di tecnocrazie di varia natura, in ogni caso mosse dalla conservazione degli interessi più forti e irresponsabili. Ciò dovrebbe rendere avvertiti dei rischi di ulteriori spostamenti di sovranità non accompagnati da passaggi per l’effettiva democratizzazione delle istituzioni europee.
Il vizio originario non ebbe evidenti effetti distruttivi nei tempi felici dello sviluppo e del benessere crescente. Il funzionalismo poteva funzionare. Ma, nel tempo del malessere che è il nostro, l’egoismo fa inevitabilmente risorgere forze che alimentano le pretese di sovranità separate. Facile la cooperazione, quando tutto va bene; difficile, quando molto va male. Il progetto dell’integrazione corre ora costantemente il rischio di infrangersi, di arenarsi o di trasformarsi in maschera del predominio dello Stato e dell’economia più forti: una forma dissimulata di colonizzazione alla quale si contrappone non la solidarietà europea, ma la difesa degli interessi nazionali contro altri interessi nazionali. Andare a Bruxelles a “battere i pugni”, per i deboli contro i forti (Italia e Germania, per restare all’attualità), significa probabile sconfitta dei primi e sicuro tradimento degli ideali europeisti. Ma, per parlare una lingua diversa, occorrerebbe una “classe politica europea” dotata di respiro e cultura. Quanto di buono c’è stato in passato, s’è perso in chiacchiere. I discorsi seri paiono essersi rifugiati nella riflessione degli studiosi, come in quella instancabile e meritoria di Antonio Padoa- Schioppa ( Verso la federazione europea?, il Mulino).
Del resto, che cosa ci si sarebbe potuti aspettare da una classe politica formata, stabilizzata e ramificata nei partiti politici che conosciamo? Tanto Il Manifesto di Spinelli, quanto il Progetto di Galimberti immaginavano un’organizzazione pubblica che ne facesse a meno. Su questo punto, concordavano anche il Piano costi tuzionale dettato nel 1944, poco prima della morte, da Silvio Trentin al figlio Bruno, e le idee di Comunità di Adriano Olivetti: tutte espressioni dell’aspirazione federalista di quel tempo. Nei decenni successivi, fino a noi, si ripete il tòpos che non può esserci democrazia senza partiti. Eppure, nessuno dei nomi citati potrebbe essere accusato di qualunquismo, di antipolitica, di antidemocrazia. Essi prevedevano le degenerazioni del nostro regime di partito. Spinelli ne temeva l’aspetto necessariamente ripiegato su interessi e sistemi di potere interni agli Stati. Alimentandosi di voti, affiliazioni corruttive e consensi che producono voti, i partiti avrebbero coltivato conventicole e avrebbero prodotto «vecchi uomini politici coperti di guidaleschi» (piaghe, scorticature degli animali da soma). Gli altri consideravano il partito nazionale la sostanza politica funzionale allo Stato sovrano accentrato. Essi immaginavano forme di partecipazione alla gestione degli svolgimenti pubblici di natura diversa a partire dalle cerchie d’esperienza, dove la politica s’integra con la vita concreta degli individui in tutte le sue dimensioni, sociale, economica e culturale. A partire dalla dimensione elementare, l’esperienza politica si sarebbe progressivamente dovuta allargare a cerchie sempre più vaste, fino a raggiungere la dimensione federale europea. Quelle idee furono tutte sconfitte. La loro realizzazione, allora, avrebbe comportato una vera e propria rivoluzione del modo di vivere in società, una metànoia dai tempi lunghi, incompatibili con le esigenze immediate della ricostruzione postbellica. Onde facilmente le si poté accantonare come utopie. Oggi ci troviamo di fronte a compiti ricostruttivi. Tutti coloro che fanno buon uso delle capacità di comprensione concorderanno nel ritenere che siamo in un momento di passaggio. Sappiamo che cosa è stato e davanti a noi si aprono due possibilità. L’Europa può implodere su se stessa o può trarre dalle difficoltà la forza per procedere verso una vera integrazione federale. La politica nelle forme partitiche della democrazia ha ormai raggiunto nella coscienza dei cittadini, a torto o a ragione non è questo il punto, il grado zero di credibilità. Quando l’astensionismo di massa supera il cinquanta per cento, la democrazia non è più tale e si trasforma in autocrazia d’una parte della società sull’altra. Siamo di fronte a un pericolo che si erge minacciosissimo innanzi a noi. Anche qui si apre un bivio: o il vuoto che sarà comunque riempito facendo a meno della democrazia, oppure un lungo e faticoso ripensamento della democrazia dei partiti che sta così clamorosamente portando al fallimento.

il Fatto 10.12.14
Claudio Bolla, il vice di Buzzi
“Carminati socio della Coop, e vi racconto la cena con Renzi”
Il braccio destro di Buzzi rivela al Fatto:
“L’ex Nar era iscritto alla 29 Giugno. Con i soldi della struttura abbiamo versato 10 mila euro alla kermesse del premier all’Eur”
di Antonio Massari


Il tavolo alla cena di Matteo Renzi è costato 10 mila euro, ha pagato tutto la cooperativa e, tra i soci della nostra cooperativa, la 29 giugno, c’è anche Massimo Carminati”. A parlare è Claudio Bolla, braccio destro di Salvatore Buzzi, l’uomo delle cooperative rosse in affari con Massimo Carminati, il capo di Mafia Capitale. Bolla – che non è indagato – era al tavolo dell’ormai famosa cena di finanziamento per Matteo Renzi, quella del 7 novembre, e con lui c’erano anche Buzzi e Carlo Maria Guarany, entrambi arrestati nell’inchiesta romana con l’accusa di associazione mafiosa.
Bolla, al tavolo eravate in cinque, oltre agli arrestati Buzzi e Guarany, chi erano gli altri due?
Sono due soci della cooperativa, persone senza alcuna carica, non vi dico il nome perché non mi va di metterli in questo tritacarne senza motivo.
Due soci della cooperativa, senza alcuna carica, che hanno pagato mille euro a testa per finanziare Renzi?
Ma no, non hanno pagato un centesimo, Buzzi mi ha detto che ha sborsato tutto la cooperativa.
L’ha chiesto lei di partecipare alla cena?
Io? Ma se non ci volevo neanche andare... è Buzzi che un giorno mi chiama, mi dice: “Abbiamo preso un tavolo alla cena del Pd, c’è Renzi, ti va di venire? ”. La verità è che non ci voleva andare nessuno, era in difficoltà a trovare gente disponibile, così l’ha chiesto a me e agli atri due, perché, pensando che in quel contesto ti trovi a parlare con imprenditori e amministratori locali, voleva qualcuno in grado di spiccicare due parole in italiano...
Così lei ha stretto la mano a Renzi.
Ma quando mai? Renzi era inavvicinabile.
Avete soltanto mangiato?
Abbiamo mangiato poco e male.
E quanto è costata la cena?
Presumo 10 mila euro, poi non so se Buzzi ha millantato d’aver pagato, e invece non ha pagato niente...
Almeno Buzzi avrà stretto buoni rapporti, quella sera, Renzi l’avrà incrociato.
Salvatore non se l’è filato nessuno...
Ma insomma: che ci siete andati a fare?
Gravitando intorno a quell’area politica, visto che non esiste più il finanziamento pubblico, la cooperativa s’è sentita in dovere di intervenire in favore del partito... ma si va lì per cercare contatti, relazioni, mica per la politica. Salvatore e Guarany andavano di tavolo in tavolo a cercare d’intavolare rapporti, ci sono un bel po’ di selfie...
Per partecipare era necessario l’invito di un politico: chi vi ha invitati?
Salvatore s’è auto-invitato. Non ha bisogno d’essere invitato. Per una cooperativa come la nostra, 10 mila euro, cosa vuole che siano? Non è bello se non ci andiamo, visto che è in corso il finanziamento del partito e non c’è più il finanziamento pubblico.
Carminati lo incontrava spesso in cooperativa?
Ho iniziato a incontrarlo alla fine del 2012 e le assicuro che non mi ha sorpreso per niente: la nostra cooperativa, che ha avuto al suo interno tante persone che hanno commesso reati gravi, è nata apposta per contribuire al loro reinserimento. A noi non interessa cosa abbia fatto in passato: è lo spirito della cooperativa.
Qualche domanda a Buzzi, su Carminati, l’ha fatta?
Certo. E non soltanto io. E alle nostre domande Buzzi ha risposto: “È un lavoratore della cooperativa”.
Che significa un “lavoratore della cooperativa”?
Un socio.
Un socio?
Ho chiesto a Buzzi: “Carminati in che ruolo viene qui? ”. E lui mi ha risposto: “È un socio lavoratore”.
Quindi Carminati, il camerata dei Nar, è socio della cooperativa rossa.
Sì, ma i soci non sono tutti allo stesso livello. C’è il consiglio d’amministrazione, la presidenza, insomma c’è una scala gerarchica: Massimo era uno dei soci, non uno dei dirigenti, non prendevo ordini da Carminati.
Con chi aveva rapporti, in cooperativa, il socio Carmina-ti?
Con Buzzi e Guarany. Parlava soprattutto con i dirigenti, ma la sua presenza era sporadica, solo negli ultimi tempi era più presente. Ha segnalato dei fornitori.
Che tipo di fornitori e perché?
Posti da affittare nel settore dell’accoglienza, case, palazzi. Carminati ha segnalato a Buzzi degli amici, dei piccoli costruttori, quindi anche a me, ma di tutti i posti che ha segnalato, che sono due o tre, nessuno andava bene: in un caso si trattava di un albergo all’Ostiense mentre le altre due strutture erano fuori Roma, ma li ho scartati.
Ma Carminati era un socio vero o fittizio secondo lei?
Penso che sia stato un socio vero.
Ha letto il suo nome sull’elenco dei soci?
Io l’elenco dei soci non l’ho mai visto.
Mai visto?
Pensi che l’abbiamo cercato per quattro giorni, da quando ci sono stati gli arresti, e l’abbiamo trovato soltanto oggi: sono tre faldoni di nomi che abbiamo appena consegnato al nuovo consiglio di amministrazione.
E il nome di Carminati c’è?
Voglio verificarlo anche io. Voglio capire fino a che punto Buzzi può averci raccontato balle.

29 giugno. Il braccio destro di Salvatore Buzzi, Claudio Bolla, intervistato da “Piazzapulita” su La7 e poi dal “Fatto Quotidiano”, ha raccontato la partecipazione alla cena di finanziamento del Partito democratico all’Eur, quartiere di Roma. Secondo il suo racconto, Buzzi avrebbe detto di aver pagato 10 mila euro con i soldi della cooperativa. Inoltre, Buzzi avrebbe anche affermato che Er Cecato Carminati, capo di Mafia Capitale, sarebbe socio della cooperativa 29 giugno

“I nomi dei partecipanti alle cene di finanziamento del Pd sono pubblici e registrati”
il Fatto 10.12.14
Il partito: “C’è la privacy Non si possono fare nomi”
Soltanto una settimana prima in tv Renzi diceva:
“I partecipanti saranno registrati e resi pubblici”
Senza liberatorie addio trasparenza
di Wanda Marra


“I nomi dei partecipanti alle cene di finanziamento del Pd sono pubblici e registrati”. Così Matteo Renzi diceva in diretta tv a Bersaglio mobile, mercoledì scorso. Una settimana dopo però gli elenchi è impossibile averli.
I vertici dem alla richiesta di conoscere i nomi di chi c’era all’Eur all’iniziativa romana del 7 novembre scorso fanno muro. L’imbarazzo però aumenta con il passare dei giorni. Dal Nazareno sussurrano che è impossibile renderli noti, a causa della legge sulla privacy. La stessa che impedisce di conoscere per intero i nomi dei finanziatori della Leopolda. Con buona pace della trasparenza, evocata dallo stesso segretario-premier. Perché, per diffondere i nomi dei finanziatori, serve una liberatoria. Molti non l’hanno data e forse non lo faranno mai. Anzi, da quando si è capito che a cena quella sera c’era anche Salvatore Buzzi, le reticenze aumentano: nessuno vuol essere accomunato al capo della cooperativa 29 giugno, coinvolto nell’inchiesta su Mafia Capitale.
Poi, ci sono una serie di altre questioni: per esempio, in molti il bonifico non l’hanno ancora fatto. E per alcuni dei presenti hanno pagato altri. E dunque, se pure un elenco (di massima) dei commensali, gli organizzatori assicurano di averlo, è pressoché impossibile averne uno completo di chi ha pagato. Lo stesso Matteo Orfini, presidente del Pd, e ora anche commissario del partito romano, lunedì sera a Piazza pulita ammetteva che sarebbe importante rendere pubblici gli elenchi. E sottolineava come questa vicenda metta in luce tutte le falle del finanziamento privato alla politica, una volta che si è deciso di rinunciare a quello pubblico. Insomma, uno dei cavalli di battaglia del Pd secondo Renzi mostra tutte le problematiche del caso: come controllare chi paga il partito? E come stabilire chi può e non può farlo? Non solo: come evitare di incorrere nel reato di traffico di influenza, introdotto dalla Severino?
SULLA PRESENZA di Buzzi ai tavoli di Roma l’imbarazzo dei dem diventa stellare. Francesco Bonifazi, il tesoriere affermava in un tweet: “Buzzi non ha dato un euro al @pdnetwork nazionale”. E adesso, ora che Claudio Bolla, il braccio destro di Buzzi, sostiene che invece lui ha pagato per sé e per chi era con lui, ribadisce: “Buzzi non ha pagato al Pd nazionale”. Perché, spiegano dai vertici del Nazareno, quattro o cinque tavoli erano appaltati al Pd Roma. Impossibile, però, avere risposte dal partito locale su chi ci fosse. “Non so niente”, dice il tesoriere Carlo Cotticelli. Poi, corregge il tiro: “Sono commissariato. Non sono tenuto a parlare”. Però, il 7 novembre non c’era ancora alcun commissario. Tra i vertici dem della Capitale è tutto un generico “non so niente”. Da notare che all’ultimo momento quella sera fu fatto saltare il tavolo di Marco Di Stefano. Non senza resistenze locali.
DA ORFINI allo stesso Bonifazi, stanno lavorando per uscire da questa impasse. Ma sembra una di quelle sabbie mobili nelle quali si affonda sempre di più. Sempre per rimanereallaquestioneBuzzi, si apre un altro versante: quelli arrivati dalla 29 giugno sono soldi pubblici, visto che provenivano da appalti deliberati dal settore pubblico. Si profila una sorta di gioco delle tre carte: il Comune di Roma finanziava Buzzi, che ha finanziato il Pd. Tutto anche grazie alla poca conoscenza del territorio di Renzi e dei suoi. Al Nazareno dicono che non potevano immaginarsi un mese fa che sarebbe scoppiato questo bubbone. Oggi i rischi e i problemi di opportunità politica di quelle cene sono sotto gli occhi di tutti.

Repubblica 10.12.14
Il Pd romano
Al circolo di Buzzi l’ira dei militanti “Buste per votare”
di Annalisa Cuzzocrea


ROMA «Mi sento umiliato, mi sento perso. Non pensavo d’anda’ a fini’ con la banda della Magliana». Valerio ha alle spalle 60 anni di militanza. È iscritto al circolo Pd versante Prenestino, a Castelverde, periferia romana che è oltre Tor Sapienza, oltre il raccordo anulare. Un sottoscala pieno di sedie di plastica bianche dove ieri 40 persone sono andate a sentir parlare di forma partito l’ex ministro Fabrizio Barca, con in testa solo i fatti di “Mafia Capitale”. A quel circolo è iscritto Salvatore Buzzi, il presidente della coop 29 giugno, considerato uno dei capi del sistema scoperchiato dalla procura di Roma. «Qui l’abbiamo visto solo all’iscrizione e quando si votava per le primarie — racconta Riccardo Pulcinelli — ma quando abbiamo sentito quel nome, io e Valeria (la coordinatrice) abbiamo detto: è nostro! Poi abbiamo chiamato il partito per chiedere di poterlo cancellare». «Io non sono triste, sono incazzato», dice Riccardo davanti agli altri militanti. «Vedo i capi del partito romano che fingono di cadere dalla luna, ma quando siamo andati a denunciare che alle primarie arrivavano persone cui era stata pagata la busta della spesa, quando abbiamo sospeso il congresso e il presidente di municipio lo ha fatto fare comunque incassando 92 tessere sospette in un giorno, non ci hanno ascoltato. Anzi, volevano espellere noi». Gli interventi sono un processo al partito: “Qui non si parla più, non si discute di niente, di che ci sorprendiamo?”. Valerio ricorda quando in sezione venivano a parlare Luchino Visconti, Alberto Moravia, Giancarlo Pajetta: «Ci spiegavano le cose, ci dicevano di leggere, ora invece ci hanno instupiditi».

il Fatto 10.12.14
Il miracolo Coop. Bankitalia distratta
La grande banca all’insaputa della Vigilanza
I supermercati raccolgono e impiegano 11 miliardi contro ogni regola
di Giorgio Meletti


Alla Banca d'Italia devono essere un po’ distratti. Ci sono circa 11 miliardi di risparmi degli italiani depositati presso i supermercati a marchio Coop e gli occhiuti vigilantes del governatore Ignazio Visco nemmeno lo sanno. O fingono di non saperlo. La storia della banca sommersa di nome Coop è una utile chiave di lettura per lo scandalo Mafia Capitale. L’ormai celebre foto dell’attuale ministro del Lavoro e allora presidente di Legacoop Giuliano Poletti con il ras della cooperativa 29 giugno Salvatore Buzzi non segnala indicibili complicità o silenzi ma una realtà alla luce del sole: alle cooperative, bianche, rosse o nere, tutto è permesso. E secondo una retorica ben rodata chi le critica è un nemico del popolo, anche quando al popolo fanno sparire i risparmi. Il problema della banca clandestina è stato sollevato dal Fatto un anno fa. Se uno porta i suoi soldi in banca, in caso di crac dell'istituto prescelto il suo deposito è garantito dal Fondo interbancario di garanzia. Se uno porta i soldi alla Coop, invece, non c’è nessuna garanzia. Enrico Migliavacca, vicepresidente dell'Associazione delle cooperative di consumo, scrisse al Fatto: “È falso affermare che siano a rischio 10 miliardi di risparmi delle famiglie”. I fatti hanno smentito tanto ottimismo. A Trieste la Cooperative Operaie ha fatto crac al termine di un'acrobatica agonia su cui sta facendo luce la magistratura, e si sono volatilizzati 103 milioni di risparmi di 17 mila risparmiatori. Subito dopo, in Friuli, è saltata la CoopCa, la cooperativa della Carnia. Altri 30 milioni di risparmi. È un mondo a due velocità. I clienti della Tercas, la Cassa di risparmio di Teramo commissariata dalla Banca d'Italia e il cui direttore generale, accusato del crac, è imputato di associazione a delinquere, non hanno perso un euro. I clienti delle Coop, invece, con il crac rischiano di perdere tutto.
COM'È POSSIBILE? Basta chiamarsi cooperativa, come insegna il maestro Buzzi. Nella citata missiva Migliavacca affermava con nettezza: “Coop non è una banca”. Infatti la raccolta del risparmio che organizza in ogni suo punto vendita (11 miliardi di euro, circa dieci volte la raccolta della Tercas) si chiama “prestito soci”. Il Fatto ha posto alla Banca d’Italia la seguente domanda: “Esiste una forma di vigilanza sul cosiddetto “prestito soci” delle cooperative? ”. La risposta è stata: “No. In base alla legge, la Banca d’Italia è competente per la vigilanza sulle banche”. Una seconda, più stringente, domanda (“Un’attività definita di ‘gestione della liquidità dei soci’ può essere svolta da una cooperativa? ”), ha ricevuto una risposta più stupefacente della prima: “In assenza di dettagli sulle specifiche caratteristiche dell’attività di ‘gestione della liquidità dei soci’, non è possibile affermare se essa rientri o meno tra le attività riservate agli intermediari finanziari”. Per aprire una banca serve l'autorizzazione della Banca d'Italia e bisogna sottoporsi alla sua vigilanza. Ma se uno apre una banca seguendo due accortezze (non scriverlo nell’insegna e non fornire dettagli alla Banca d'Italia) può fare quel che gli pare.
La questione è quasi teologica. Che cos'è una banca? Nelle “Istruzioni di vigilanza” della Banca d'Italia si trova la definizione: “La raccolta del risparmio tra il pubblico è vietata ai soggetti diversi dalle banche, fatte salve le deroghe previste dall’art. 11, comma 4, del T. U.”. La deroga riguarda il prestito con cui il socio finanzia l'attività della sua cooperativa. Poi si legge: “Sono comunque precluse ai soggetti non bancari la raccolta di fondi a vista e ogni forma di raccolta collegata all’emissione o alla gestione di mezzi di pagamento”. Quindi chi fa raccolta “a vista” o è una banca o delinque. Che cos’è la raccolta a vista? “La raccolta che può essere rimborsata su richiesta del depositante in qualsiasi momento con un preavviso inferiore a 24 ore”.
Adesso vediamo le cose che i distratti della Banca d'Italia – dopo aver scritto le stringenti regole – potrebbero vedere con una sia pure superficiale ricerca su Internet. Lo stesso Migliavacca di “la Coop non è una banca” scrive nel “Decimo rapporto delle cooperative dei consumatori”: “Il prestito sociale è una forma di deposito a vista immediatamente liquidabile”. A vista. E continua: “I soci prestatori possono utilizzare la carta Socio-Coop per prelevare contante dal proprio libretto di risparmio e trasferire denaro sul proprio conto corrente bancario. Inoltre (...) i soci prestatori possono utilizzare la carta SocioCoop come strumento di pagamento della spesa e per il prelievo di contante alle casse dei punti di vendita”.
C'È ANCHE IL BANCOMAT. Un milione 218 mila italiani hanno portato i loro risparmi alla Coop, cui hanno consegnato mediamente 9 mila euro a testa, per un totale di 10,86 miliardi che hanno fruttato interessi totali per 139 milioni di euro. Funziona così: si va alla Coop, si diventa soci, si chiede di aderire al prestito soci, si ottiene un libretto tipo quelli della Posta, si portano i soldi da depositare. Ci sono vantaggi notevoli rispetto alla banca, per esempio nessun costo e, soprattutto, nessuna tracciabilità. Comunque nessun vincolo. Il preavviso delle 48 ore previsto dal regolamento è una formalità dettata da qualche avvocato per far vedere che si sta sopra le 24 ore previste dai regolamenti Bankitalia. Ma quando uno ottiene una tessera magnetica con cui può pagare la spesa al supermercato o addirittura prelevare il contante dal Bancomat, sempre con addebito sul suo prestito sociale, che cosa può più giustificare la finzione di non chiamare tutto questo una grande banca?
Alla Banca d'Italia però si ostinano a far finta di niente. L’avvocato Stefano Alunni Barbarossa, a nome dei soci della cooperativa di Trieste che hanno perso i loro risparmi, ha posto un quesito interpretativo su una circolare Bankitalia sulla raccolta del risparmio tra i soci da parte delle cooperative.
Il direttore della sede di Trieste ha così risposto: “Si fa presente che la Banca d'Italia fornisce riscontro diretto alle banche e agli altri soggetti vigilati mentre, di regola, non dà risposta diretta ai quesiti formulati da altri soggetti”. È la linea dura di sempre: finché non arrestano qualcuno alla Banca d'Italia piace far finta di niente.
(ha collaborato Ivana Gherbaz)

il Fatto 10.12.14
Odevaine (PD)
L’ex uomo di Veltroni prendeva la tangente sulle forniture di caffè per il centro rifugiati
L’ex capo di gabinetto di Veltroni mobilitò l’allora sottosegretario per potenziare un centro e progettava affari con La Cascina (CL)
di Marco Lillo


A volte ritornano. Il Fatto Quotidiano ha aperto le sue pubblicazioni il 23 settembre del 2009 con la notizia tabù (“Letta indagato da 10 mesi e nessuno lo scrive”) dell’indagine del pm Henry John Woodcock sulle manovre della galassia di società che gravitavano intorno alla Cooperativa La Cascina, vicina a Comunione e Liberazione, per aggiudicarsi la gestione dei Cara, i centri di assistenza per i richiedenti asilo. I protagonisti di quelle indagini furono prosciolti poi da ogni accusa e oggi ritornano negli atti dell’inchiesta Mafia Capitale, anche se non sono indagati. L’allora sottosegretario Gianni Letta viene contattato per superare la resistenza del prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro all’ampliamento del Cara di Castelnuovo di Porto (Roma) mediante l’affitto di alcuni immobili, di interesse della “Cupola” diretta da Salvatore Buzzi. Il 18 marzo scorso i carabinieri del Ros pedinano e fotografano il ras della cooperativa rossa “29 giugno” Buzzi, con il fido Carlo Maria Guarany, mentre entrano nel palazzo di Largo del Nazareno dove si trova l’ufficio di Gianni Letta.
APPENA USCITI chiamano il loro uomo, Luca Odevaine, ex vicecapo di gabinetto di Walter Veltroni al Comune di Roma, poi nominato capo della polizia provinciale, partecipante al Tavolo di coordinamento nazionale insediato al ministero dell’Interno dove si decide la destinazione degli immigrati: “Il pilastro portante” dell’attività economica di Buzzi e compagni, secondo il Ros.
Appena uscito dall’incontro con Letta Buzzi dice a Mario Schina, che risponde al telefono di Odevaine: “Mi ha mandato dal prefetto... alle sei vedo il prefetto di Roma! ”. Anche l’ingresso in Prefettura è filmato dal Ros. Appena uscito Buzzi racconta l’effetto-Letta al suo “pilastro” Luca Odevaine: “È andata molto bene (...) m’ha detto: ‘basta che il sindaco me dice di sì io non c’ho il minimo problema, anzi la cosa è interessante, lasciatemi tutto’ allora già abbiamo ricontattato”. Odevaine chiede: “Gli hai detto che, che anche la Scotto Lavinia (il prefetto Rosetta Scotto Lavinia, direttore servizi per l’immigrazione, ndr) era stata già informata? ”. Buzzi replica: “Sì, non c’è stato nemmeno bisogno perché lui ha sposato subito il problema perché ne era già informato però vuole il consenso del sindaco (di Castelnuovo di Porto, ndr) ”.
Il prefetto Pecoraro nei giorni scorsi, anche per evitare polemiche sul suo ruolo delicato sull’accesso agli atti e l’eventuale scioglimento, ha precisato che poi non se ne fece più nulla.
Anche il prefetto Mario Morcone (recentemente tornato a capo del dipartimento immigrazione dopo essere stato all’Agenzia dei beni confiscati e candidato sindaco di Napoli) è citato nelle intercettazioni. Conversando con Mario Schina, consigliere della cooperativa Il percorso, a lui vicina, Odevaine il 18 giugno 2014 parla a ruota libera di Morcone. Sono affermazioni non riscontrate che provano solo la spregiudicatezza di Odevaine: “Le cose gliele posso dire proprio... non dico... ma quasi insomma, però adesso stava... me stava venendo in mente tant’è che anche oggi cioè m’ha chiesto dice ‘ah, ma mio figlio si sta laureando, non so in che cosa’ dice ‘mi piacerebbe fargli fare uno stage’, dico ‘guarda te lo prendo io in Fondazione’, dico ‘Mario... figurati sai... ’, io posso pure a un certo punto che ne so dirgli a Mario - ecco pure il rapporto che c’è - Mario, famme la cortesia prendimi al centro le 70 persone a Tivoli che io... però devo licenzia’ due persone e le metto a lavora’ ecco... su una... relazione con lui io posso, posso anche dirgli un cosa del genere”.
Infine La Cascina: “Nel corso di una riunione con il dipendente Gerardo Addeo l’indagato Odevaine, dopo aver verificato la possibilità di effettuare delle movimentazioni di carattere economico, disponendo delle cooperative satelliti Abitus e Il Percorso, gli illustrava le diverse soluzioni da attuare al fine di poter acquisire, senza lasciarne traccia, il denaro frutto dei compensi operativi con i diversi partners con i quali operava nell'ambito della gestione dell'emergenza migratoria sull'intero territorio nazionale”. Odevaine raccontava di avere parlato con il consigliere della Cooperativa La Cascina Salvatore Melolascina, già arrestato nel 2003, indagato nel 2009 di Woodcock e sempre prosciolto. E dunque timoroso di finire in nuovi guai. “Dice: ‘Luca io però lo dico per tutti ma lo dico a te... tu sei almeno sicuro, tranquillo’, dice, ‘perchè a me m'hanno arrestato - lui è stato arrestato a suo tempo nella vicenda Cascina - ‘c'avevo il telefono sotto controllo e quant'altro è stato un problema che sono stato accusato di essere di fatto l'amministratore’”. Allora Odevaine racconta di averlo rassicurato: “per cui... io gli ho detto: guarda... troviamo un altro sistema (...) per cui avremmo trovato appunto due... possibilità: una. .. su lavori edili, perchè loro hanno milioni di lavori all'anno... per ristrutturazioni dobbiamo... (incomprensibile) una... società di fiducia... ”. Poi, prosegue il ROS, Odevaine entra nel dettaglio: “gli affidiamo dei lavori... sia sulla parte di progetto che sulla parte dei lavori realizzati ti paghiamo in più... la cifra che... ti dobbiamo riconoscere e poi... tu te la... te la fai dare in contanti in qualche modo’. Al riguardo Odevaine dice di avere già parlato con il padre di Daniele Pulcini, un costruttore legato al giro e interessato a entrare nel settore dell’emergenza: “mese per mese... loro ce li ce li trasferiscono sul conto come se avessimo... fatto, io ho parlato già con Tonino Pulcini”. L'indagato - prosegue il ROS - chiosava sull'argomento accennando ad una seconda soluzione, ovvero "l'altra strada... è... appunto il... caffè ...... inc... caffè... per cui se tu... ci trovi il caffè... qui da comprare... in Costa Rica. .. loro lo comprano in Honduras, in Costa Rica e... noi te lo compriamo a te il caffè e te lo paghiamo più di quello che... che sarebbe il prezzo e ti rimangono i soldi eh... allora io... ... inc... ecco, per tutta la questione... la parte diciamo così di attività internazionale... inc... direttamente lì in Costa Rica e così ... ", illustrando contestualmente quale fosse di fatto il volano economico che alimentava i suoi investimenti in Sudamerica”. Non basta. In un’altra intercettazione Odevaine dice: “però ragionando con Salvatore Menolascina alla fine ci siamo fatti un pò di conti e lui m'ha detto ‘guarda, con la Cascina insomma con lui personalmente; possiamo comprare un pastificio”.

il Fatto 10.12.14
Oltretevere
Il figlio del boss Diotallevi cercava lavoro in Vaticano
di Davide Vecchi


Dobbiamo andare da don Angelo Comastri”. Il 22 dicembre 2012 a bordo di una Fiat 500 Mario Diotallevi, figlio del boss settantenne Ernesto (indagato come referente di Cosa Nostra a Roma), si presenta all'ingresso del Vaticano e agli uomini della Gendarmeria annuncia di avere un appuntamento con don Comastri, vicario generale di Sua Santità nonché presidente della Fabbrica di San Pietro, ente appositamente creato per la gestione di tutto l'insieme delle opere necessarie per la realizzazione edile e artistica della Basilica. Ad accompagnarlo c'è E. S. che è riuscito ad ottenere di essere ricevuti dal monsignore. Diotallevi, contattato telefonicamente, non ha spiegato il motivo della visita: “Sì, ho incontrato Comaschi o almeno credo fosse lui, magari era un altro monsignore; ci ha dato la benedizione e poi siamo andati a visitare i giardini”.
Il fascino della tonaca: “Facciamo piccole cose carine”
Il giovane Diotallevi subisce il fascino del Vaticano. L'anno successivo, sempre a bordo della sua Fiat 500, parla con il padre Ernesto e gli racconta di come a breve riuscirà anche lui a entrare nella città del Papa e coronare quello che sembra un suo sogno: lavorare nella sicurezza. È il 21 febbraio 2013. Mario illustra al padre Ernesto la possibilità di un investimento immobiliare da operare su Firenze grazie all'interessamento di “Paolo”, annotano gli inquirenti, un “colonnello della Finanza”, futuro “capo della sicurezza al Vaticano” descritto come “mitomane”, “corrotto ” e appartenente ai servizi segreti che subiva “er fascino” del boss Diotallevi, quindi del padre. Paolo, prosegue Mario, spiega di voler “concludere affari immobiliari ritenuti sicuri e remunerativi” con lui. “Facciamo piccole cose carine” nella speranza, dice Mario, di entrare nelle grazie di Paolo così da essere poi cooptato nella sicurezza vaticana: “'Me pii a lavorà co tè...', 'aspetta che vado in Vaticano', m'ha detto”.
È un Colonnello “della Finanza – prosegue - finisce l'incarico a và a fare il capo della sicurezza al Vaticano, perché lui stà bene con questi anche religiosi che stanno dentro”. Papà, prosegue il figlio entusiasta, “questo è uno di quelli di un pratico... si chiama Paolo, è pratico da morì... c'ha quarantott'anni nè un pischello. C'ha cinquant'anni, c'ha na figlia di vent'anni, e non è stupido”. Ancora: “Mi ha accompagnato con la macchina, nà pezza de piede, in ufficio... con l'autista, con la Delta veramente”.
“Cacciano via pure er Papa, tu ti immagini entrare nella sicurezza”
Il fascino del potere colpisce anche il padre. “Bella la Delta eh? ”, chiede Ernesto. “A me .. dovevi vedè come ce stavo dietro”. Il padre: “Te lo stò a dì a mejo machina”. Mario: “Ce credo ce credo... perchè davanti c'avevamo tutta la radio... e cose... i lampeggianti... m'hanno portato sotto l’ufficio me sentivo stò cazzo”. “Mamma mia... cacciano via pure er Papa... tu t'immagini entri a far parte da sicurezza ar Vaticano... Mario: lui diventa er capo della sicurezza, è come quello là...
Ernesto: eh quello che hanno intervistato
Mario: si ma quello è robba de guardie svizzere...
Ernesto: quello sà tutti i segreti sà
Mario: quello è un paraculo... quello è un matto... visto che faccia dà schizzato serio
Ernesto: così ti stavo dicendo, stavo pensando... dann'ammene... Mario: me frega un cazzo... però nà volta sistemato... se compramo er maserati quattro porte, oh sai che famo... lo famo impazzì Leonardo... je mettemo pure nà piatta sur conto... così c'hai Maris fai come cazzo... però da questo momento in poi fai come cazzo te pare proprio... Ernesto: allora quello che vojo fa... Mario: lo chiamamo, famo i clienti, preparace a barca... capito Mario: mo io m'accosto .. s'accostamo insieme a quello, ar Colonnello... Ernesto: ma quello con me ce se accosta patà? Mario: si... è un corrotto papà... Ernesto: ma lo sà chi sò? Mario: ti conosce benissimo... Ernesto: diventamo miliardari... se quello c'ha una mossa per questi prelati... cose... (...) Ernesto: ma io faccio il pensionato... te stò dietro soltanto per quello che pò esse... Mario: lui... abbastanza mitomane, pur essendo un Colonnello, è mitomane...
Il Paolo di cui parlano è stato individuato dagli inquirenti in Paolo Oliverio, faccendiere vicino ad ambienti religiosi, che vanta legami con servizi segreti e Finanza. Oliverio è finito in carcere a novembre 2013 per la truffa all'Ordine dei Camilliani. Nonostante l'impegno profuso però Mario non riuscirà a entrare in Vaticano e soprattutto non comprerà la tanto desiderata “Maserati quattro porte”, continuando a girare sulla sua intercettata Fiat 500.

anche Finocchiaro...
Corriere 10.12.14
C’è un nuovo libro nero delle tangenti
La ricerca di sponsor in Parlamento
di Fiorenza Sarzanini


ROMA Il quaderno era nascosto a casa di un collaboratore di Salvatore Buzzi. E potrebbe fornire nuove tracce utili per individuare altri politici e funzionari pubblici messi a «libro paga» dal titolare della Cooperativa 29 Giugno e dall’ex estremista dei Nar Massimo Carminati, ritenuti dai magistrati al vertice di quell’organizzazione che era riuscita a infiltrarsi in Campidoglio e in altre istituzioni. Contiene infatti annotazioni sulla contabilità occulta delle numerose strutture controllate dal gruppo e segue lo stesso metodo già verificato analizzando il «libro nero» sequestrato alla segretaria Nadia Cerriti con l’iniziale del nome di chi ha percepito la tangente e accanto la cifra versata. Procede spedita l’indagine dei carabinieri del Ros e le migliaia di carte processuali svelano i tentativi per accaparrarsi ulteriori appalti in materia di immigrazione, potendo contare su una figura chiave come quella di Luca Odevaine, membro della commissione del Viminale che si occupava proprio di questa materia. Compresi incontri di alto livello con parlamentari. Una di loro, secondo lo stesso Odevaine, sarebbe la presidente della commissione Affari costituzionali del Senato Anna Finocchiaro.
«Gara già assegnata»
Dopo aver ottenuto la gestione del campo nomadi di Castel Romano, Buzzi e i suoi sodali pensavano di allargare la propria influenza e avevano messo in campo svariati tentativi per «entrare» a Mineo, la struttura siciliana che rappresentava un grande affare. E dunque, se da una parte erano consapevoli dei propri limiti, dall’altra cercavano sponsor. Il 16 giugno scorso Odevaine parla con Carmelo Parabita e gli riferisce di aver risposto ad un «avviso pubblico di selezione» per essere assunto dal Consorzio Calatino in modo da acquisire i titoli necessari a poter fare il membro della commissione incaricata della valutazione delle offerte per quella gara. Poi entrano nel merito dell’assegnazione.
Parabita: «Non ci saranno altre offerte cioè, con chi stanno parlando, si sono tenuti tutti alla larga da Mineo perché è troppo complessa, cioè non è venuto nessuno venerdì».
Odevaine: «A me m’ha detto Salvatore Buzzi che è andato a parlare dalla Finocchiaro».
Parabita: «Se».
Odevaine: «E la Finocchiaro gli ha detto “lascia perdere quella gara è già assegnata”».
In realtà la ricerca di interlocutori continua e Odevaine si concentra sulla procedura del Viminale che potrebbe consentirgli di manovrare le assegnazioni anche tentando di orientare le scelte dei prefetti.
«Li voglio a stipendio»
La scoperta di un nuovo libro contabile fornisce elementi molto significativi per l’inchiesta e conferma un meccanismo che i magistrati avevano già evidenziato nelle contestazioni contro gli arrestati. Anche perché la strategia di controllo della pubblica amministrazione prevedeva il versamento periodico agli uomini da utilizzare in modo di poter contare sulla loro fedeltà. E infatti, di fronte al sindaco di Morlupo che non chiede soldi e tuttavia assegna lavori decide di retribuirlo in maniera fissa. Per questo manda un sms a Carminati, «il sindaco di Morlupo l’ho messo a stipendio», e lui risponde: «Ah perfetto».
Scrivono i magistrati: «La retribuzione sia di alcuni esponenti delle strutture politico-amministrative interessate sia dei membri del sodalizio era possibile grazie all’emissione di fatture per operazioni inesistenti che, a seconda delle società emittenti, determinava diversificate modalità di remunerazione, puntualmente annotate in un cosiddetto “libro nero”, e in particolare: le società riconducibili a soggetti esterni al sodalizio, a fronte dei pagamenti ricevuti, retrocedevano all’organizzazione criminale denaro contante per la creazione di fondi extracontabili, necessari al pagamento dei politici, degli amministratori pubblici, dei dirigenti amministrativi e dei membri del sodalizio; le società direttamente controllate dall’organizzazione criminale, gestite anche con l’utilizzo di prestanomi, attraverso transazioni infragruppo riuscivano a canalizzare le quote illecite verso gli stessi membri ed a soddisfare le esigenze di reimpiego dei capitali illecitamente acquisiti».
I ricorsi al Riesame
Domani i giudici del Riesame cominceranno ad esaminare i ricorsi degli arrestati contro le ordinanze di cattura. Il primo a depositare l’istanza è stato proprio Carminati. Nei prossimi giorni saranno invece interrogati arrestati e indagati e in cima alla lista c’è il sindaco Gianni Alemanno, accusato di associazione mafiosa, che sostiene di «poter chiarire la mia posizione e smentire numerose millanterie compresa quella delle valigette piene di soldi portate in Argentina su cui fonti della Procura hanno specificato che non ci sono riscontri». L’elenco delle persone da sentire è lungo, qualcuno sta già pensando di cominciare a collaborare.

il Fatto 10.12.14
Corruzione, vi spiego che cos’è
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, che cos’è la corruzione? Non è una malattia, non è una necessità (il bisogno), non è (non può essere) un vanto perché deve restare segreta. Allora?
Mario

CREDO CHE L’ULTIMA ipotesi (un vanto) ci possa fare da guida. E poiché in tanti sono arrivati in questo “mondo di mezzo” in cui tutti appaiono corrotti o non contano, vediamo di rifare a ritroso il cammino senza cedere al luogo comune: “I corrotti ci sono sempre stati”. Vero. Ma qui, nell’Italia e nella Roma di oggi, siamo arrivati al comportamento abituale, diffuso e accettato. Ammettiamolo: “Lo scandalo” di cui si stanno gonfiando le notizie in questi giorni consiste non nell’immensa organizzazione di appropriazione indebita e di libero accesso ai fondi pubblici, ma nel fatto che i giudici lo abbiano scoperto, e ci stiano raccontando dettagli abitualmente riservati. Provo a mettere in ordine due o tre pensieri. La fine delle ideologie, nel senso del legarsi a un progetto di miglioramento della vita di tutti, di promessa elettorale e di impegno politico con un pubblico a cui si chiede sostegno (e che dubita, ma preferisce seguire la speranza di qualcosa) ha provocato un vuoto più grande del previsto. A questo vuoto si è arrivati in due mosse, la prima ovvia, la seconda imprevedibile. La mossa ovvia è l’imprenditore che si fa politico mostrando la sua ricchezza come modello per il futuro di tutti. Ognuno, da solo e contro gli impedimenti delle leggi, può diventare ricco o almeno più ricco, e comunque impara che ne ha diritto. Sto parlando di Berlusconi. L’evento imprevedibile è che chi avrebbe dovuto fare opposizione, perché custodiva valori più grandi (non il comunismo, ma le idee di uguaglianza, di comunità, di partecipazione), ha abbandonato il suo carico di progetti e speranze lungo la strada e ha deciso di presentarsi al confronto privo di ingombri. D’ora in poi la gara sarebbe stata alla pari: il niente valori di Berlusconi contro il niente valori delle tre tappe non felici della ex sinistra, Pds, Ds e Pd (in combinazione con frammenti di mondo cattolico opportunamente bloccato sia dai “valori non negoziabili”, sia dalla destra rigorosa del cardinale Ruini. Per chi si accostava alla politica, due segnali sono caduti: dove, come sono diversi i due schieramenti. E perché, in un mondo di sacrifici e di solitudine, non dovrei usare il passaggio nella politica per giovare a me e alla mia famiglia. Si è cominciato a dire: “Come tutti”. Restano le diversità morali degli individui. Se si piantasse, come in Israele, un albero per ogni “giusto” (in Italia “giusti” sarebbero coloro che non partecipano al bottino) non avremmo una foresta ma almeno un boschetto da indicare ai più giovani. La foresta invece è dalla parte della politica diventata affare con espedienti creativi a volte straordinari, e una capacità, che va riconosciuta, di innovazione continua. Ma da quando è sopraggiunta la novità distruttiva delle “larghe intese”, che ha il suo simbolo triste e indimenticabile nel caldo abbraccio di Maria Elena Boschi, giovane e gradevole simbolo di ciò che fu la sinistra, e del senatore Verdini, molto atteso anche dai giudici e simbolo autorevolissimo di ciò che è stato l’avversario politico, si è capito che ogni impresa, d’ora in poi doveva considerarsi congiunta. Cadevano insieme due frontiere, una fra uno schieramento (la promessa di arricchirsi) e la sua opposizione (che un tempo era l’uguaglianza). L’altro fra infra-politiche, reticolati di connessioni e di convenienze, amicizie fondate sui conti bancari sparsi nel mondo. Gli americani, sia nel giornalismo che nelle spietate serie televisive sulla parte in ombra della loro politica descrivono così questa nuova militanza: “What’s in it for me? ” Io che cosa ci guadagno? Corruzione è quando questa parola d’ordine smette di essere vissuta come un reato (se ti beccano, poi passa, come una malattia) e diventa abituale, accettato e diffuso modo di agire. In un mondo senza bandiere e senza barriere è tutto più naturale e più facile. E molto più praticato.

Corriere 10.12.14
Tutte le ipotesi per la prescrizione
È il nodo principale, ma su questo la maggioranza rischia
di Giovanni Bianconi


ROMA L’annuncio è fatto, come di consueto. E per una volta non dovrebbe essere troppo complicato scrivere delle norme che corrispondano alla dichiarazione d’intenti.
Il vero problema sarà farle approvare, perché l’allungamento dei termini di prescrizione per i reati dei «colletti bianchi» è un argomento che divide e può far traballare la maggioranza di centrodestra-centrosinistra che sostiene il governo Renzi. Ma questo è un problema della politica. I tecnici del ministero della Giustizia sono al lavoro per tradurre in pratica il proclama del presidente del Consiglio, che in parte è già contenuto nei disegni di legge in discussione e in parte modifica i progetti in corso; ma non sa ancora in quale direzione.
Il nodo principale è quello della prescrizione, legato all’aumento di pena promesso dal premier. Secondo Renzi un condannato per corruzione dovrebbe scontare almeno sei anni di prigione, a differenza dei quattro attuali. Così una persona giudicata colpevole e al quale viene inflitto il minimo della pena, «un po’ di carcere lo fa». Ora infatti, tra detenzione domiciliare e affidamento ai servizi sociali, con una condanna a quattro anni si può non andare in cella. Ma sarà difficile aumentare il minimo senza alzare anche il massimo (ora di otto anni); logica vorrebbe che arrivasse almeno a dieci, o anche a dodici, per mantenere la proporzione di adesso. Il che significherebbe, automaticamente, aumentare il tetto della prescrizione (cioè l’estinzione del reato, e dunque del processo), che secondo la norma in vigore corrisponde «al massimo della pena edittale stabilita dalla legge». Dunque se il massimo arriverà a dieci la prescrizione salirà a dieci, se diventerà dodici a dodici. A meno che Renzi non abbia in testa di sancire che per i reati contro la pubblica amministrazione il tempo limite per arrivare alla sentenza definitiva è più lungo rispetto agli altri. Come accade oggi per i reati di mafia (tetto raddoppiato).
Oppure si può scegliere la strada che si stava percorrendo con l’iniziale disegno di legge governativo, che sospende il decorso della prescrizione per due anni dopo la condanna di primo grado e per uno dopo l’appello. Per tutti i reati, quindi anche quelli di questo tipo.
Per ciò che riguarda la confisca dei beni, nel disegno di legge contro la criminalità economica voluto dal ministro della Giustizia Andrea Orlando è già contenuta la norma che consente di togliere «denaro, beni o altre utilità di cui il condannato» per corruzione e reati simili, «non può giustificare la provenienza»; oppure quando la quantità di quei beni risulti sproporzionata rispetto al reddito dichiarato. È un’altra estensione di ciò che è previsto per i delitti di mafia e droga. L’ulteriore novità annunciata da Renzi (patteggiamento consentito solo se viene restituito il provento illecito contestato) era contenuto in un vecchio progetto di legge durante l’ultimo governo Prodi, che però quella maggioranza non ebbe il tempo di approvare. Chissà se sarà possibile ora.

il Fatto 10.12.14
Lavoro, un pasticcio chiamato Jobs Act: licenziare conviene
Con la nuova legge, che cancella l’articolo 18
l’imprenditore che caccia per riassumere ci guadagna
di Salvatore Cannavò


Gli elementi oscuri del Jobs Act spuntano come funghi. Come quello denunciato dalla Uil alla voce “licenziare conviene”. Ma si potrebbe proseguire con i vizi già denunciati dal professor Francesco Giavazzi sulla mobilità negata nel mondo del lavoro. Oppure sulle disparità che si verranno a creare tra lavoratori impiegati nelle stesse mansioni e nello stesso posto di lavoro ma con contratti diversi.
Più tagli occupati, più soldi incameri
Il risvolto conveniente del licenziamento era deducibile già a una prima lettura del Jobs Act. La Uil, però, si è incaricata di quantificarlo mettendo a confronto gli sgravi da nuove assunzioni per le imprese con le ipotesi di indennizzi che potranno essere erogati a fronte di un licenziamento economico. Questo, prima del Jobs Act, se ritenuto illegittimo da un giudice, prevedeva il reintegro, sia pure rivisto dalla legge Fornero; ora, le nuove norme prevedono un indennizzo “certo e crescente”. Di quanto? Le stime ruotano attorno a una mensilità e mezzo per anno lavorato. Secondo il sindacato diretto da Carmelo Barbagallo la differenza tra il costo del licenziamento e il guadagno dello sgravio contributivo oscillerebbe tra 2.800 e più di 5.000 euro per ogni lavoratore. Licenziare un lavoratore, quindi, sia pure ingiustamente, per assumerne un altro potrebbe convenire E anche molto. Una falla evidente che può essere risolta in due soli modi: prevedere una norma che vieti alle imprese di assumere in presenza di un licenziamento ingiustificato oppure alzando gli indennizzi a un livello non più conveniente. La decisione del Pd al Senato di presentare una norma contro “i licenziamenti facili” (vedi articolo in basso) fa pensare che il problema ha più di un fondamento.
Fermi sul posto, l’eddio alla mobilità
Così come resta irrisolto il problema evidenziato sulle pagine del Corriere della Sera dal professor Giavazzi, il quale scrive: “Il rischio maggiore è il blocco della mobilità”. “È improbabile – afferma – che un lavoratore oggi tutelato dall’articolo 18 decida di spostarsi, firmando un nuovo contratto che invece non lo prevede. Alcuni lo faranno perché non temono il licenziamento, ma altrettanti non ne vorranno sapere”. Non si recupererà alcuna mobilità e chi ha un posto di lavoro farà di tutto per non perderlo senza avventurarsi in territori sconosciuti. I tentativi di replicare alle osservazioni di Giavazzi da parte del senatore Pietro Ichino – relatore del provvedimento in seconda lettura al Senato – non hanno risposto al cuore della domanda, lasciando irrisolto il problema.
Tutti meno uguali: chi è garantito, chi no
Così come rimane irrisolto quanto sollevato più volte dalla Cgil, la disparità di condizioni tra lavoratori impiegati nelle stesse mansioni. Secondo l’articolo 3 della Costituzione, infatti, “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge”. Un lavoratore assunto dal momento in cui il Jobs Act sarà in vigore, però, non godrà degli stessi diritti di uno che è stato assunto prima. E questo, nonostante abbia lo stesso contratto, a tempo indeterminato e sia impiegato nella stessa condizione. Fonti della Cgil hanno più volte ribadito che potrebbe essere proprio questo l’appiglio per ricorrere in sede europea contro la legge-simbolo del governo Renzi.
La stessa Cgil ha scandito una serie di “domande e risposte” sul provvedimento a cura di Corrado Ezio Barachetti che sioccupa di contrattazione nazionale. Il dirigente sindacale fa notare alcuni punti incongruenti della norma di legge. Matteo Renzi ha sbandierato più volte l’abolizione dei co.co.pro, ma il testo parla solo di “superamento”.
“Richiami che non possono essere scambiati con la sua abolizione, così come la semplice individuazione delle forme contrattuali esistenti, in ragione di una loro semplificazione, non può valere un reale disboscamento in favore di poche forme contrattuali”. Al di là di quello che si pensa sul demansionamento – e su queste pagine abbiamo già spiegato ampiamente come cambia, in peggio, la normativa – il provvedimento, fa notare la Cgil, punta a “un’azione unilaterale del governo” visto che la nuova regolarizzazione “può” e non “deve” definirsi in sede di contrattazione collettiva anche di secondo livello. Secondo il presidente del Consiglio, poi, il contratto a tutele crescenti diventerà la norma dei rapporti di lavoro ma nel provvedimento non si parla mai di abolire i contratti a termine acausali, quelli che prevedono fino a cinque rinnovi in 36 mesi senza specificazione della causale: come si può ritenere che agli imprenditori convenga di più quello a tutele crescenti, si chiede Barachetti?
Infine, per i licenziamenti economici si definisce un indennizzo “certo e crescente”. Vuol dire, quindi, che verrà esclusa “l'attuale discrezionalità del giudice nello stabilire il giusto compenso”? Oppure il “certo” “sarà puntualmente declinato nei suoi valori? Quali? ”. Le domande sono più delle risposte. Così come i pasticci di una legge che non è ancora legge.

Corriere 10.12.14
Pochi in piazza con i sindacati
La cautela della sinistra dem Fassina ci sarà, Cuperlo incerto. Civati: vedo imbarazzo
di Monica Guerzoni


ROMA Non solo «non sarà un flop», ma Susanna Camusso e Carmelo Barbagallo pensano che lo sciopero generale sarà un successo e si preparano a «stupire» il governo venerdì, con i cortei di Roma e Torino e le 54 manifestazioni in tutta Italia. La leader della Cgil non si nasconde le difficoltà di uno sciopero di otto ore «con la crisi che c’è» e con la Cisl che si è smarcata, eppure non si arrende. «Non ci rassegneremo, continueremo a contrastare le politiche del governo — assicura Camusso —. Se l’esecutivo tira dritto continueremo a protestare con tutti gli strumenti, giuridici e di mobilitazione».
E Barbagallo, segretario della Uil: «La partita è tutta aperta. La legge di Stabilità è ancora in discussione e i decreti attuativi della delega lavoro devono ancora essere scritti».
Per quanto Barbagallo sottolinei che «il sindacato non ha amici, né avversari», le speranze di ottenere «più diritti e più lavoro» con le proteste di piazza dovranno fare i conti anche con i nuovi assetti nel Pd. L’approvazione del Jobs act sembra aver fiaccato l’opposizione interna, l’ala sinistra guarda allo sciopero con un filo di distacco e non solo perché il mondo politico è concentrato su altri temi. Gran parte della minoranza bersaniana e dalemiana ha votato il Jobs Act inimicandosi i sindacati, ma anche quella parte della sinistra «dem» che ha scelto di uscire dall’Aula piuttosto che votare contro, può avere qualche cautela ad affacciarsi in piazza.
Pippo Civati, che sta annusando l’aria fuori dal Pd, teme che i compagni abbiano «tirato i remi in barca» e vede «un grande imbarazzo a sinistra». Paura dei fischi? «Io alla manifestazione della Fiom li ho presi, perché c’è tensione verso il Pd. Immagino che qualcuno non vada anche per questo. Se al corteo c’è D’Attorre si nota che non c’è Bersani, se va Boccuzzi tutti si chiedono dove sia Epifani...». In realtà l’ex leader della Cgil e poi del Pd tiene a far sapere che ai cortei del «suo» sindacato si è sempre fatto vedere. Quanto a Civati, venerdì mattina sarà a Milano per «richiamare il Paese al dovere della legalità e dell’uguaglianza».
Valori che stanno a cuore anche ad Alfredo D’Attorre, il quale però venerdì è impegnato in commissione Affari costituzionali per la riforma del Senato. Stesso problema di agenda per Gianni Cuperlo, che ha in programma anche un convegno a Campobasso: «Vediamo, se il voto in commissione lo consente potrei fare un salto in piazza in Molise, oppure a Roma». Non c’è uno scollamento con il sindacato? «Non c’è mai stato un collegamento — risponde il leader di SinDem — Molti di noi andranno in piazza, ma il sindacato fa il sindacato e la politica fa la politica».
Cesare Damiano va oltre. Per l’ex ministro, che ha convinto la minoranza a votare il Jobs act, il Partito democratico è autonomo dalla Cgil e «nessun sindacato vuol farsi rappresentare dalla politica, anche perché esiste la totale incompatibilità degli incarichi». Ma venerdì sarà in piazza? «Noi le battaglie le facciamo in Parlamento», prende distanza Damiano. Ci sarà invece un «molto convinto» Stefano Fassina: «Le ragioni di fondo per cambiare le politiche economiche del governo restano valide. E mi aspetto di incontrare in piazza i colleghi che non hanno votato il Jobs act».

Il Sole 10.12.14
Il male della depressione e le «mamme-Medea»
di Pietro Pietrini

psichiatra Università di Pisa

Veronica Panarello, mamma del piccolo Loris, ha continuato a respingere la pesante accusa di omicidio volontario, aggravato dal legame di parentela, e occultamento di cadavere mossa dalla Procura. Dopo altre sei ore di interrogatorio, la donna è stata trasferita in carcere a Catania.
Ma come può una mamma uccidere il proprio figlio? È questa la domanda che nelle ultime ore fa eco alla notizia che la mano assassina del piccolo Loris sarebbe - il condizionale è d’obbligo, trattandosi per il momento solo di ipotesi investigativa - proprio quella della madre. L’atto più contro natura che si possa immaginare - una mamma che toglie la vita a chi ella stessa la vita ha dato - scuote l’animo umano dai tempi di Medea e ripropone lo stesso interrogativo dopo casi di cronaca come quello del Ragusano, purtroppo non così rari.
Non è possibile cercare di comprendere questi gesti se non abbandonando i canoni della ragione per entrare nell’ambito della patologia mentale, laddove si annidano quei disturbi ancor oggi troppo spesso misconosciuti, ignorati quando addirittura non volutamente negati. Eppure gli studi in psichiatria ci dicono che se ben una mamma su cinque va incontro ad una qualche forma di depressione post-partum, in una su venti la depressione può raggiungere livelli di marcata gravità, trasformando uno dei periodi più lieti della vita di una donna (e della coppia) nella più profonda delle angosce esistenziali, dove tutto si tinge di nero e dove non vi è più alcun anelito di speranza. In casi estremi, una mamma può arrivare ad uccidere il proprio bambino nel tentativo paradossale e irrazionale di proteggerlo dai pericoli dell’esistenza, da quel Male che si è impadronito della propria mente e che non le concede tregua. È questo stesso stato d’animo che ritroviamo anche nei cosiddetti casi di omicidio-suicidio, laddove una madre (o un padre), sterminati i figli, il coniuge, addirittura il proprio cane, pone fine alla propria esistenza. Sbrigativamente liquidati dalla cronaca come raptus - termine sconosciuto alla Psichiatria - in realtà questi gesti sono espressione di un “estremo atto di amore”, di colui che, in preda all’angoscia della follia, decide di portare con sé, lontano da un’esistenza non più sopportabile, le persone che ama.
Che dire poi di quei casi in cui il bisogno psicologico di assumere, per interposta persona, il ruolo di malato, porta una mamma a produrre deliberatamente sintomi di una malattia nel proprio piccolo, come accade nella famosa sindrome di Münchhausen per procura. Bambini che passano lunghi periodi della loro infanzia tra un ricovero e l’altro, prima che l’occhio del medico sia insospettito da quegli aspetti di artificiosità sia del quadro clinico sia del comportamento della mamma.
Dietro una mamma che uccide il proprio bambino si nasconde (quasi) sempre una storia di grave disagio psichico, quando non di vera e propria malattia mentale. Le statistiche ci dicono che solo una parte di questi disturbi viene prontamente diagnosticata e adeguatamente trattata, con interventi psicoterapeutici e/o psicofarmacologici. Purtroppo, ancora oggi la malattia psichiatrica non viene considerata alla stessa stregua di una qualunque altra patologia, al contrario, rimane vittima di stigma e di luoghi comuni che ancora troppo spesso portano a negare la sua stessa esistenza. Questo nonostante le conoscenze crescenti delle neuroscienze abbiano ormai dimostrato da tempo che la depressione è come la polmonite, solo molto più letale.
Pietro Pietrini

il Fatto 10.12.14
Castiglione dello Stiviere
Sbarre e Arcobaleno: nel carcere delle 70 madri assassine
di Antonella Mascali


Se Veronica Panarello dovesse essere condannata per l’assassinio di suo figlio Loris, 8 anni, e se i giudici dovessero ritenerla, in base a una perizia di esperti, incapace di intendere e di volere e socialmente pericolosa, allora per lei si aprirebbero le porte dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova, l’unico ad avere una sezione femminile e l’unico a non essere gestito dalla Polizia penitenziaria. È una struttura della Asl, gestita solo da medici e infermieri, che ha una convenzione con il ministero della Giustizia. Attualmente ospita 70 donne. Sono quattro i reparti: Arcobaleno, che è quello femminile, Virgilio e Aquarius, i reparti maschili e poi c’è un’ “area riabilitativa” e una comunità (mista), all’esterno, in un’area adiacente alla struttura.
NELL’OSPEDALE psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere tanti i casi di donne che hanno ucciso i propri figli. Come, per esempio, la mamma che si è buttata nel lago con i suoi due figli e uno l’ha fatto affogare. O come un’altra mamma che ha ucciso la figlia di 4 anni e poi si è accoltellata, ma è sopravvissuta. O la mamma che ha ucciso il figlio buttandolo dalla finestra. La sezione Arcobaleno si trova al piano terra e ha 4 reparti destinati a pazienti condannati con diversi gradi di patologia. Nelle camere, con due o tre letti ci sono armadi con doppia chiave: una per le “ospiti” e una per gli operatori. In tutte le stanze, con le sbarre ai vetri, c’è un climatizzatore. Le donne con più gravi problemi psichici possono stare nelle proprie camere dalle 13 alle 15, per il riposo pomeridiano e dalle 19 alle 8 del mattino, per quello notturno. Tutto questo per evitare l’isolamento. Negli spazi comuni c’è la sala da pranzo e la televisione. Nella struttura con parco ci sono anche una piscina e una palestra. Dal 2000 ci sono stati 3 suicidi. Le evasioni sono arrivate anche a 5-6 l’anno.
Alla dottoressa Cristina Cofano, psichiatra dell’ospedale di Melzo, abbiamo chiesto se le donne che uccidono i propri figli hanno delle caratteristiche comuni: “Ogni storia è a sé, ma se vogliamo schematizzare, possiamo dividerle in due categorie. Le madri con una patologica immaturità, centrate su se stesse. Non tollerano la presenza del figlio, totalmente dipendente da loro, perché rappresenta un impedimento alla propria realizzazione. A questo proposito mi viene in mente una mamma che voleva fare carriera nel mondo dello spettacolo e ha ucciso il figlio perché lo riteneva un ostacolo. Oppure sono madri profondamente sofferenti, affette da depressione grave. Di solito dopo aver eliminato il figlio si suicidano, o ci provano. Sono le madri che soffrono di ‘delirio di rovina’, non vedono alcuno spiraglio nel mondo e prima di uccidersi, o di provarci, uccidono il figlio per un eccesso d’amore patologico, per difenderlo da una società senza speranza. In famiglia i segnali sono estremamente sottovalutati, queste donne sofferenti, in genere, non vengono mai portate da medici”.
DOTTORESSA COFANO, ci sono donne che uccidono il proprio figlio e poi lo negano con convinzione. Ma davvero possono aver rimosso? “Si possono commettere dei gesti talmente gravi che la mente dell’omicida si dissocia per proteggersi. In termini semplici, la coscienza si sdoppia”. Il caso di Veronica Panarello se venisse confermato, come lo vede da psichiatra? “Se sarà dimostrata la sua colpevolezza sono tanti gli elementi da approfondire. Per esempio maltrattamenti in famiglia, la sua volontà o meno di avere quel figlio a 17 anni, un forte disturbo di personalità. Anche in merito al suo comportamento attuale davanti agli inquirenti non ci sono risposte certe. È innocente? È colpevole ma ha rimosso l’omicidio del figlio? O è in malafede? Ma se non dovesse crollare e dovesse essere colpevole è più probabile che abbia rimosso. Comunque, solo il tempo ci potrà dire che cosa sia accaduto veramente”.
SECONDO LA PSICOLOGA Paola Vinciguerra, presidente di Eurodap (Associazione europea disturbi da attacchi di panico), sono tre le spie che devono far scattare l’allarme in famiglia: “Se le persone hanno grossi sbalzi di umore, se sono in alcuni momenti molto nervose, aggressive, intolleranti e in altri momenti estremamente amorevoli e stucchevoli, allora c’è un disagio. Se la persona passa da un eccessivo accudimento e attenzione nei confronti di un figlio a momenti di grande aggressività e intolleranza rispetto anche ad atteggiamenti normali dei bambini, vanno monitorate. Anche una profonda rigidità nei confronti di un figlio nasconde qualcosa di non sano. Secondo indicatore di pericolo: la mitomania. Se notiamo che un nostro familiare racconta cose che noi sappiamo non essere vere e se ha la tendenza a non raccontare le cose in modo aderente alla realtà, allora attenzione. Terzo: il vittimismo e le sensazioni persecutorie o il fanatismo religioso”.

il Fatto 10.12.14
Editoria
“Meno fondi? Lavoro a rischio”


Negli ultimi due anni 32 testate hanno chiuso i battenti, a causa delle difficoltà del sistema dell’informazione, ma anche della riduzione del sostegno pubblico. Altre 82 testate potrebbero essere costrette a farlo nelle prossime settimane se il governo non assicurerà i rimborsi per il 2013 e non stanzierà i fondi per questo e gli anni a venire. È l’allarme lanciato da sindacati e associazioni di settore in una conferenza stampa al Senato dal titolo “Salviamo i giornali cooperativi o non profit”. Degli oltre 50 milioni promessi per l’anno passato, il governo ne ha al momento messi a disposizione meno della metà. Il sottosegretario con delega all’Editoria Luca Lotti è al lavoro per reperire le risorse tra i fondi a disposizione della Presidenza del Consiglio e - secondo le ultime informazioni - dovrebbe presto essere garantita una somma complessiva di poco superiore ai 55 milioni per il 2013. Per quanto riguarda il futuro gli stanziamenti dovrebbero arrivare con emendamenti alla legge di stabilità al Senato.
Il tema è stato lanciato ieri in prima pagina da Manifesto che titola “Un solo padrino” con una foto di Al Pacino con in mano il quotidiano e l’editoriale del direttore Norma Rangeri. "Con una scelta senza precedenti - si legge -, il governo taglia i rimborsi per l’editoria 2013 già previsti nel bilancio dello stato e degli editori. Una vera e propria decapitazione del Manifesto e di una parte dell’informazione. Nessuna logica economica spiega questa spending review. Se Palazzo Chigi non tornerà sui suoi passi, di soldi ne dovrà spendere assai di più per fronteggiare il fallimento di decine di testate e il licenziamento di centinaia di lavoratori".

il Fatto 10.12.14
Amnesty
Crimini a Gaza. Israele: “Non è vero”


L’esercito israeliano ha commesso crimini di guerra durante l’operazione “Margine protettivo” della scorsa estate a Gaza e bisogna avviare un’inchiesta: è questa l’opinione di Amnesty International. L’abbattimento di quattro edifici a più piani negli ultimi quattro giorni dell’operazione costituisce una violazione del diritto umanitario internazionale, secondo l’ong. “Tutte le prove che abbiamo dimostrano che questi abbattimenti su larga scala sono stati effettuati deliberatamente e senza una giustificazione militare”, dichiara Philip Luther, direttore di Amnesty per il Medio Oriente ed il Nord Africa. I fatti e le dichiarazioni dei militari israeliani all’epoca indicano che gli attacchi sono stati “una punizione collettiva inflitta agli abitanti di Gaza”e destinati alla distruzione delle loro proprietà, ha aggiunto Luther. Durante i 50 giorni di combattimento, Israele ha condotto circa un centinaio di bombardamenti e, negli ultimi giorni di guerra, sono stati rasi al suolo un centro commerciale a Rafah e tre palazzi a più piani di Gaza. Le forze di Israele avvertirono in anticipo i residenti, ma Amnesty sostiene che decine di persone rimasero comunque ferite e senza casa. Israele si difende affermando che gli edifici distrutti erano usati da Hamas come centri di comando e ha definito “infondato” il rapporto di Amnesty. L’ultimo conflitto nella Striscia di Gaza ha causato circa 2200 vittime tra i palestinesi (secondo loro fonti) e 73 tra gli israeliani.

il Fatto 10.12.14
Brutali, falsi e inutili i metodi Cia alla sbarra
Il rapporto del Senato sulle torture
di Angela Vitaliano


New York Un’onta per l’America che l’America stessa è capace di cancellare. Il rapporto del Senato su torture&bugie della Cia provoca la reazione di Obama (e lo sdegno in tutto il mondo, e rabbia in Medio Oriente) e del segretario di Stato Kerry che promettono: mai più.
Nessun rinvio, dunque, nell’annunciata pubblicazione del rapporto messo a punto dalla Commissione Intelligence del Senato sui metodi utilizzati negli interrogatori dei prigionieri sospettati di terrorismo, dopo l’11 settembre. O, meglio, nessun ulteriore ritardo nella divulgazione dei risultati di un’indagine che da anni, ormai, ha gettato un’ombra sulla Cia, accusata di aver praticato delle vere e proprie torture.
525 PAGINE da ieri accessibili pubblicamente e che sono il frutto di cinque anni di indagini e del vaglio di milioni di documenti sparsi in diverse parti del mondo. Una piccola fetta di un rapporto composto da oltre 6.000 pagine che, per il momento, restano ancora, in gran parte, “riservate”, che rivela, tuttavia, macabri dettagli che contribuiscono a rendere una situazione già nota nelle sue linee generali, addirittura insopportabile nella sua assoluta inumanità.
Una decina i punti chiave evidenziati dal rapporto che smentisce completamente le affermazioni dell’allora presidente George W. Bush che aveva reiteratamente assicurato che i metodi usati dalla Cia erano “umani e legali”.
VIOLENZE Si parte dalle tecniche degli interrogatori messe in atto sui prigionieri accusati di terrorismo e che non si limitano al gia’ famoso “waterboarding”. I prigionieri, secondo il rapporto venivano privati del riposo per giorni e anche settimane, oltre ad essere seviziati analmente con manici di scopa e con getti di acqua. Il rapporto condanna questi metodi come “fisicamente dannosi”, precisando che il waterboarding, a esempio, provoca vomito e convulsioni che hanno ucciso almeno un detenuto tra quelli sottoposti a questa pratica. Un altro punto importante evidenziato dall’indagine e’ quello della gestione degli interrogatori stessi, condotti spesso da personale non sufficientemente addestrato e/o coadiuvato da personale medico non all’altezza della situazione.
I metodi di interrogatorio erano, inoltre, basati su un programma messo a punto da due psicologi senza esperienza sufficiente nell’ambito specifico della lotta al terrorismo.
MENZOGNE Chiarissime emergono anche le responsabilità della Cia nell’impedire al Congresso di venire a conoscenza della realta’ dei fatti; anche alla Casa Bianca veniva riportata una situazione molto meno critica di quella poi rivelata dal rapporto, con informazioni menzognere relative al numero dei prigionieri sottoposti a interrogatori coercitivi, alla loro durata e ai risultati ottenuti. Il rapporto mostra, a esempio, che operazioni importantissime come la cattura di Osama Bin Laden non furono portate a termine grazie ad informazioni ottenute tramite la tortura ma, piuttosto, grazie a testimoni che decisero di collaborare prima ancora che venisse loro torto un capello. Il rapporto rivela anche, per la prima volta, i nomi delle 119 persone che sono state detenute dall’agenzia di Intelligence Usa e sottoposte a questo tipo di interrogatori (una addirittura oltre 180 volte) che, Dianne Feinstein, la democratica a capo della commissione del senato che ha condotto le indagini, non esita a definire vere e proprie torture.
LE SCUSE “Sono stati fatti errori, ma si sono evitati attacchi contro gli Usa. Nell’applicare il programma di interrogatori, la Cia non sempre si è attenuta agli elevati standard che abbiamo stabilito per noi stessi e che il popolo americano si aspetta da noi”, ha affermato il direttore della Cia John Brennan in un comunicato facendo quasi eco alla dichiarazione di lunedì di George Bush che, piuttosto che prendere le distanze dalla Cia, si è affrettato a sottolineare l’importanza cruciale del lavoro dell’intelligence per il paese. Dal rapporto emerge anche che i metodi usati dalla Cia durante gli interrogatori erano così cruenti che gli stessi agenti chiesero di sospenderli ricevendo, però, una risposta negativa da parte dei loro superiori. L’ordine di sospensione dell’utilizzo di tali tecniche arrivò con l’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca che ieri ha detto che la Cia ha “danneggiato il paese, è andata contro i suoi valori morali. Non accadrà più”.

Repubblica 10.12.14Il pentimento dell’America che confessa i suoi peccatiIl presidente Bush aveva giurato che il suo Paese non tortura i nemici
Ma il dossier del Senato lo smentisce e i repubblicani insorgono contro Obama
Punizioni disumane che, come per il Vietnam e Abu Ghraib, gli Stati Uniti hanno avuto il coraggio di ammettere
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON «L’AMERICA non tortura» aveva giurato George W Bush. Ma se usare trapani elettrici sui prigionieri, e minacciare di sodomizzarli con manici di scopa, come rivela oggi il rapporto della Commissione Intelligence del Senato Usa sugli interrogatori Cia non è tortura, o Bush era un bugiardo o non sapeva che cosa fosse la tortura.
Tra le grida dei vecchi bushisti sorpresi a mentire, come Dick Cheney e lo stesso Bush, lo sdegno dei repubblicani furiosi con la decisione politica del presidente Obama di pubblicare quel documento costato tre anni di lavoro e 40 milioni di dollari ai contribuenti, la verità che tutti sapevano dopo l’11 settembre e che nessuno voleva ammettere è affiorata, e il suo nome è tortura. «Una rosa è una rosa è una rosa» aveva scritto la poetessa Gertudre Stein un secolo fa: la legge dell’identità è implacabile ed è più forte delle definizioni e della acrobazie giustificazioniste.
Il catalogo degli orrori che questo volume sciorina è tristemente banale, un libro già letto e usato ovunque il panico, la prepotenza, l’odio dei torturatori si esercitino sulle loro vittime. Le sue pagine appartengono a un triste classico della peggiore letteratura politica: lo facevamo, dicono oggi Cheney, il primo a cantare come la proverbiale gallina, che propone addirittura decorazioni al valore per chi infieriva su prigionieri, per proteggere la nazione dai nemici. I mezzi giustificavano il fine.
Quegli uomini e quelle donne, aggiunge Bush, riaffiorato dal suo esilio silenzioso, sono «grandi patrioti », che manifestavano il proprio amor di patria brandendo manici di scopa nel fondo schiena degli interrogati, puntandogli contro trapani elettrici ronzanti, soffocandoli nelle pezze intrise d’acqua sul volto per bloccare la respirazione e simulare l’annegamento, nel popolare sport del “waterboarding”. Pratiche formalmente e universalmente bollate come tortura, ma che i Cheney, e il suo complice al Pentagono, Donald Rumsfeld, eufemisticamente licenziavano come «tecniche avanzate di interrogatorio» per proteggere la loro nazione.
Ma alla radice della horror story c’è sempre lo stesso equivoco morale che conduce anche i meglio intenzionati lungo lo scivolo di quella immoralità che vorrebbero combattere. L’equivoco non sono soltanto la guerra, perché dopo l’11 settembre guerra era e la guerra è sempre «un inferno» come ammoniva il generale William Sheridan. Ci sono certamente la sirena dello stato di necessità, il panico, la pressione furiosa dei superiori che chiedono di estorcere risultati, confessioni, nomi, luoghi e la sindrome dell’orologio che ticchetta verso l’esplosione, alla maniera dei telefilm, e dunque legittima ogni eccesso.
Il peggio, e il primo motore della disfatta civile che trasuda dal libro delle torture, è il sentirsi dalla parte del Bene per giustificare il Male. Nulla di quanto facciamo, per orrendo che sia, può essere giudicato come male, perché noi agiamo nel nome del bene, la più stantia della razionalizzazioni alle quali governi, regimi, eserciti ricorrono quando scelgono di sprofondare nella spirale dell’illecito. Nell’abbaglio della propria assoluta superiorità morale, anche l’immoralità deve essere, «patriotticamente » usata.
Invece è qui, nel giorno in cui il volume delle vergogne esce, che l’America dei Bush e dei Cheney, come quella dei Nixon e dei Johnson in Vietnam o del Kennedy della Baia dei Porci ritrova quello che la rende, se non migliore in assoluto, certamente migliore nel relativo, a dispetto, e non per merito, di chi la governa. Ed è la capacità di riconoscere e rivelare pubblicamente, con «trasparenza» come ha detto la Casa Bianca, i propri errori. E’ stata sempre l’America stessa, non i suoi nemici, a dirci tutto sulla catastrofe del Vietnam, a incidere il bubbone infetto del Watergate, a smascherare le comode complicità fra la grande finanza speculativa e gli sdentati, accondiscendenti cani da guardia di Wall Street, a diffondere le immagini devastanti di Abu Ghraib. Oggi ad ammettere quelle torture che a lungo i massimi responsabili avevano impudentemente negato. Se ancora, nel 2014, questa nazione conserva il diritto di considerarsi riscattabile dai propri errori, è perché conserva la forza di rivelarli. Si potrebbe obbiettare che sarebbe meglio riconoscerli prima di commetterli e che la retorica, tanto cara a Reagan, della «città luminosa sulla collina», conosce troppi momenti di black-out per essere ancora spendibile, ma non è ancora stato inventato il governo che non abbia scheletri nell’armadio ed errori da nascondere. Riconoscere, magari in ritardo, che si può servire il Male illudendosi di servire il Bene è almeno la speranza che gli orrori non saranno ripetuti, perché ci sarà sempre qualcuno, magari una semplice rotellina umana di un colossale macchinario come Edward Snowden, che farà uscire pezzi importanti di verità. I patrioti americani ci sono ancora, come dicono Bush e Cheney, ma sbagliano nel riconoscerli: patriota non è colui che tortura i prigionieri ad Abi Ghraib. Patriota è il soldato che li fotografa e li svergogna. Come fa il rapporto del Senato.

Corriere 10.12.14
Perché il motore di Pechino (ora) delude le aspettative
di Guido Santevecchi


Nei primi nove mesi del 2014 la Cina è cresciuta del 7,4%, lo 0,1% in meno dell’obiettivo fissato dal governo. E una parte degli economisti del mondo globalizzato ha rilanciato previsioni di sventura: l’ex segretario al Tesoro Usa Larry Summers e il suo collega di Harvard Lant Pritchett, sostengono che per i prossimi vent’anni è «storicamente inevitabile che la crescita cinese ricada nella media: circa il 4%».
Il tema è caldo anche a Pechino. Da ieri è riunita la «Conferenza centrale di lavoro sull’Economia» con i vertici del partito e le teste d’uovo dell’economia cinese. All’ordine del giorno l’obiettivo di crescita: molti esperti cinesi indicano che dovrebbe essere ridotto al 7% per il 2015, visto che il 7,5 di quest’anno difficilmente sarà centrato. E sarebbe il primo errore di previsione dei pianificatori di Pechino dal 1999. «Scendere al 7%» significa che la crescita della Cina sarebbe ancora la più forte del mondo; ma è anche vero che la generazione dei trentenni cinesi è nata e cresciuta con una corsa a due cifre, che fino a due anni fa viaggiava al 10%. Il presidente Xi Jinping dice che bisogna abituarsi a «una nuova normalità». Ma i giovani che hanno conosciuto solo il miracolo economico si accontenteranno? Banca Mondiale e Fmi restano ottimisti: prevedono il 7% fino al 2020 e intorno al 6 fino al 2025. Un rallentamento pilotato da Pechino per varare riforme, per passare dall’economia degli investimenti pubblici a una sostenuta dalla domanda interna. Summers e Pritchett basano invece la loro analisi sulla considerazione che nessun altro Paese nella storia è riuscito a mantenere la corsa per più di trent’anni: Taiwan (32 anni), Corea del Sud (29), per non parlare del Giappone che è ricaduto in recessione. Qualcuno ricorda che la Cina ha già superato la storia, perché cresce a una media superiore al 6% dal 1977: sono 37 anni.
E siccome nessun Paese come la Cina attrae pareri radicalmente discordanti, ieri che la Borsa di Shanghai ha perso il 5,4% qualcuno ha visto un’altra crepa, altri hanno ricordato che a novembre il listino aveva guadagnato il 40%. Jim O’Neill, l’economista che ha coniato l’acronimo Bric (Brasile, Russia, India, Cina), sostiene che il gruppo dirigente di Pechino sa prevedere le crisi ed è in grado di elaborare soluzioni: «Negli ultimi due anni, mentre già rallentava, la Cina è passata da 5.900 miliardi di dollari di Pil a 8.300: è come se avesse costruito un’altra India». A proposito di India: secondo Goldman Sachs nel 2016 il suo Pil salirà del 6,8%, la Cina del 6,7%.

Corriere 10.12.14
La Cina è lontana. Il capitalismo di Stato rimanda le riforme
Il ruolo di Pechino è sempre più importante per la stabilità mondiale e la sua politica autoritaria potrebbe far crescere il malcontento. La leadership del Paese frena il percorso
di liberalizzazione dell’economia
di Ian Bremmer


In quale direzione è avviata quella che rappresenta la più dinamica e strutturata potenza emergente del pianeta, ma anche la più esposta al rischio di instabilità? Gli osservatori stranieri, in particolare occidentali, da molto tempo immaginavano che la crescita cinese avrebbe spinto il Paese sulla strada della liberalizzazione economica, da un lato, e della riforma politica dall’altro, e che questo processo avrebbe reso la Cina un Paese più affidabile, paladino della stabilità mondiale e «azionista responsabile» sullo scacchiere politico internazionale.
È venuto il momento, invece, di accettare il fatto che la Cina rappresenterà la più grande economia globale ancor prima di intraprendere questa evoluzione in senso liberale. Anzi, proprio mentre il ruolo della Cina si fa sempre più importante per la stabilità economica mondiale, è lecito ipotizzare che la mano pesante dello Stato continuerà a creare difficoltà ancora a lungo per l’economia cinese, e la sua politica autoritaria farà aumentare malcontento e contestazioni.
È facile per gli occidentali equivocare i messaggi che oggi arrivano da Pechino. Quando Xi parla dell’importanza del «sogno cinese», non si riferisce affatto all’adozione da parte del Paese delle ben note aspirazioni americane, cioè quelle di trovarsi un buon lavoro, entrare a far parte della classe media, acquistare una casa e godersi il benessere raggiunto. Queste aspirazioni contano anche in Cina, ma il sogno di Xi si riferisce a una rinascita nazionale specificatamente cinese, l’affermazione dei diritti della nazione cinese basata sul rigetto degli ideali occidentali. Come a dire, la Cina ha una sua visione del futuro, che si incarnano in uno sviluppo gestito dallo Stato, un piano quinquennale dal volto umano.
Quando Xi parla della «rivoluzione energetica» cinese, non si riferisce all’innovazione e allo sviluppo delle tecnologie dietro la spinta del mercato, bensì alla ristrutturazione complessiva del settore dell’energia in tutto il Paese, concepita per salvaguardare il monopolio del potere politico, esercitato dal partito al governo, allo scopo di smorzare i malumori popolari per l’inquinamento dell’aria e dell’acqua e ridurre la dipendenza della Cina da risorse e strumenti di provenienza estera. Inoltre, il capitalismo di Stato in Cina gode di una salute di ferro, e prova ne è l’impegno del governo per riformare le imprese di Stato anziché privatizzarle. Le sette maggiori imprese statali al mondo (per capitalizzazione di mercato) sono cinesi. Lo scorso anno, le dieci principali società cinesi per fatturato, e circa 300 delle prime 500 in classifica, sono tutte statali. La crescita programmata dal governo ha dato impulso all’economia per molti anni, ma l’aspirazione a diventare un Paese moderno con una classe media diffusa un giorno costringerà i leader a far meno affidamento sui mastodonti di Stato e più sul potenziale creativo della popolazione, sempre più istruita ed evoluta.
La strada verso la liberalizzazione politica non sarà facile. Basta guardare a Hong Kong, dove la maggior parte della popolazione è notevolmente più ricca del cittadino cinese medio, e dove la classe media è fiorente e l’aria risulta relativamente poco inquinata. Ma gli abitanti di Hong Kong non sono riusciti a ottenere maggiori libertà. I mezzi di informazione locali sono sottoposti a censura e i cittadini non hanno il diritto di votare in elezioni libere, restando assoggettati a un sistema architettato per proteggere gli interessi dello Stato, non i diritti dell’individuo. È un governo imposto dalla legge, non il governo della legge.
Ma c’è qualcosa che cinesi e americani hanno in comune: i loro leader sono sempre pronti a dichiarare ai cittadini che la loro nazione è eccezionale, generando un senso di compiacenza e di privilegio nazionale che risulta specialmente pericoloso in un Paese emergente che dispone ancora di scarsissimi sbocchi per esprimere il pubblico malcontento, e dove il risentimento nazionale potrebbe essere incanalato in rivalità e ostilità con i Paesi confinanti. I rapporti con Taiwan, in particolar modo, potrebbero farsi burrascosi nel 2015. Per questo motivo, quando Xi Jinping parla del sogno cinese o della rivoluzione energetica della Cina, rivela di aver molto di più in comune con Putin, piuttosto che con gli altri leader mondiali, come Obama o Merkel, Abe (Giappone), Modi (India) o Rousseff (Brasile).
Per tutte queste ragioni, è ora che l’Occidente si rassegni alla realtà che la Cina accoglierà la liberalizzazione quando non avrà più alternative. Un giorno, la leadership si vedrà costretta a condividere il potere con il popolo, grazie al fermento di nuove idee che scaturiscono all’interno del Paese, e a quel punto le contraddizioni dell’economia cinese potrebbero sommarsi e portare al crollo del sistema oggi in vigore. Ma quel giorno è ancora lungi dal profilarsi all’orizzonte e anzi, nel 2015, l’economia cinese rivestirà un ruolo ancor più importante per la politica internazionale e per l’intera economia globale.
(Traduzione di Rita Baldassarre)

Corriere 10.12.14
La guerra non aiuta la scienza
Danneggiò Einstein e Marconi
di Riccardo Chiaberge


Diceva Filippo Tommaso Marinetti nel settembre 1914: «Soltanto la guerra sa svecchiare, accelerare, aguzzare l’intelligenza umana». Le grandi innovazioni tecnologiche messe in moto dal primo conflitto mondiale sembrano confermare la sua profezia. Ma varrebbe forse la pena ribaltare il discorso e domandarsi, invece, quali progressi sarebbero stati possibili senza «l’inutile strage». «La scienza è dell’umanità in tempo di pace; della patria, in tempo di guerra»: era il motto di Fritz Haber, premio Nobel per la chimica 1918 per la sintesi dell’ammoniaca, nonché padre dei gas tossici impiegati a Ypres dall’esercito del Kaiser. Quelle parole riassumono bene il dilemma di fronte a cui si trovano gli scienziati europei all’inizio della Grande guerra. Il 3 ottobre 1914 novantatré personalità dell’accademia tedesca, tra cui Max Planck, Wilhelm Röntgen e lo stesso Haber, sottoscrivono un «Appello al mondo civile» che confuta punto per punto le responsabilità della Germania, a cominciare dallo «stupro del Belgio». Nella lista dei firmatari manca il nome di Albert Einstein.
E molto vicino a Einstein è quell’Erwin Finlay-Freundlich, giovane astronomo che proprio in luglio, poco dopo l’attentato di Sarajevo, ha pensato bene di andare in Crimea a osservare un’eclissi totale di sole: voleva verificare sperimentalmente la relatività generale, se cioè la massa del sole fosse in grado di deviare la luce delle stelle. Scoppia il conflitto, Freundlich viene arrestato con l’accusa di spionaggio, e dalla prigione dello Zar non riesce certo a vedere l’eclissi. Lo liberano grazie a uno scambio di prigionieri, ma la spedizione è fallita.
Ben più tragica la sorte del suo collega Karl Schwarzschild, direttore dell’osservatorio di Potsdam. Volontario sul fronte russo, dalla trincea riesce a mandare un saggio che Einstein presenta all’Accademia prussiana delle scienze. Poi però si ammala e viene rispedito in patria, dove muore a 43 anni.
Sul fronte avversario, nella battaglia di Gallipoli cade a soli 28 anni un altro pioniere della fisica moderna, l’inglese Henry Moseley. Ma c’è anche chi alla patria dice no: l’astrofisico Arthur Eddington, per esempio, che rifiuta di imbracciare le armi per motivi religiosi (è un quacchero fervente). Come segretario della Royal Astronomical Society legge le riviste tedesche, allora bandite, ed è il primo a venire a conoscenza del lavoro di Einstein. È grazie a lui che il mondo anglosassone apprende la teoria della relatività.
In Italia, a corrispondere a lungo con Einstein, a dispetto della guerra, è il matematico Tullio Levi Civita, convinto pacifista. Per contro, il suo collega Vito Volterra appoggia l’intervento.
Ma pochi scienziati sono coinvolti nell’impresa bellica quanto Guglielmo Marconi. Avendo un Dna per metà italiano e metà britannico, sdoppia il suo patriottismo mettendosi al servizio di due governi e di due eserciti. Nel 1909, Marconi ha condiviso il premio Nobel per la fisica col tedesco Karl Ferdinand Braun, inventore tra l’altro del tubo catodico. Ma quello che sarebbe potuto diventare un proficuo sodalizio naufraga nelle contese commerciali e nel feroce antagonismo tra nazioni che spacca l’Europa.
È vero, la Grande guerra ci ha dato non solo la mitragliatrice, il carro armato, il filo spinato, la spoletta istantanea, il lanciafiamme e altri sofisticati strumenti di morte, ma anche treni e aerei più efficienti e migliori, telecomunicazioni via cavo e wireless . Si sa che la guerra rende i governi più generosi verso la ricerca. Ma al tempo stesso blocca la circolazione delle idee e alza barriere tra le comunità scientifiche nazionali. C’è voluto un quacchero pacifista per tradurre in inglese l’opera fondamentale di Einstein. La verifica sperimentale della relatività, che era a portata di mano nel 1914, sarà possibile, proprio grazie a Eddington, solo nel 1919. Senza il conflitto mondiale avremmo risparmiato cinque anni. E che dire della mancata collaborazione tra due geni come Braun e Marconi? Magari la televisione, nata nel 1925, sarebbe arrivata con un decennio di anticipo. E quanti apparecchi radio avrebbero prodotto le industrie inglesi o francesi se i loro ingegneri non fossero stati sterminati nelle trincee?
L’America, ultima a scendere in campo nell’aprile del 1917, ha avuto quasi tre anni di vantaggio, e i suoi scienziati hanno potuto perfezionare i dispositivi per la radio e la telefonia, in particolare le valvole termoioniche. All’armistizio, il paesaggio delle telecomunicazioni è radicalmente mutato, e Marconi, vedendo insidiato il suo primato da At&T e General Electric, deve cambiare rotta, passando dalle onde lunghe alle onde corte e cortissime. Ma ormai la supremazia tecnologica degli Stati Uniti è un dato irreversibile, e la manesca Europa delle patrie ha accumulato un gap competitivo difficile da colmare.

Corriere 10.12.14
Ecco il sarcofago di Copenaghen
Cronaca di un antico naufragio
di Stefano Bucci


Sono Naufragi lontani nel tempo, antiche tragedie del mare avvenute lungo le rotte africane intraprese dai siracusani a partire dal terzo secolo dopo Cristo: la mostra in programma dal 29 dicembre al 30 settembre 2015 al Museo archeologico regionale di Camarina (in località Scoglitti, frazione di Vittoria, Ragusa) non propone però soltanto uno «sguardo» sull’universo di commerci e viaggi che attraversavano il Mediterraneo. Ma, come spiega il direttore del museo Giovanni Distefano, anche «un esempio eccezionale di collaborazione riuscita tra pubblico e privato» (Regione, Provincia, Comune, Soprintendenza con imprenditori soprattutto turistici) che può comunque contare su tre pezzi fenomenali: il sarcofago della Glyptotek di Copenaghen (dalla collezione del magnate della birra Carlsberg, che lo aveva acquistato in Italia nella prima metà dell’Ottocento) e i due relitti di Randello e di Femmina Morta con le loro grandi anfore realizzate in Spagna e in Portogallo, ancora colme di sarde salate, di resti di vino, olio e «garum», una salsa liquida a base di interiora di pesce molto apprezzata dai Romani.
In occasione dell’esposizione il Cunes (il Coordinamento Comuni Unesco della Sicilia) presieduto da Enzo Bianco ha organizzato poi un convegno internazionale (con tanto di spettacolo teatrale) finanziato dall’Unesco e aperto ai Paesi che si affacciano sul Mediterraneo sul tema dei naufragi: «Focalizzandosi in particolare su quelli dei barconi carichi di migranti che oggi avvengono nello stesso tratto di mare», tra Siracusa, Pozzallo, Gela, Porto Empedocle, Pantelleria e la stessa Camarina.
Il prezioso sarcofago della Glyptotek arriva in Sicilia in virtù di un prestito unico (fa parte dei pezzi considerati «incedibili e intrasportabili») scaturito da quella stessa collaborazione tra Copenaghen e questo piccolo centro del Ragusano che ha già prodotto nel 2013 la mostra che, a sua volta, aveva portato nella capitale danese una parte del tesoro di monete imperiali conservate nel museo di Camarina. Datato III secolo dopo Cristo, l’epoca della tetrarchia voluta da Diocleziano, il sarcofago faceva parte della Collezione Borghese ed è stato realizzato in marmo bianco (le tracce dell’originario colore sono ancora visibili), decorato sui lati corti con scudi, lance, doppie asce e (sul frontale) con un bassorilievo raffigurante tre navi in porto e un personaggio caduto in mare (alle due estremità si scorgono invece un faro e una villa marittima).
Dunque, il racconto di un naufragio di cui con tutta probabilità era stato protagonista oppure testimone un mercante o un armatore, lo stesso che nel sarcofago sarebbe poi stato inumato. E all’orizzonte un gruppo di imbarcazioni da carico di cui si intravedono la poppa, la prora, il timone, le vele, le cabine e persino una piccola scialuppa.
A fare da ideale cornice al sarcofago ci sarà il relitto di un’imbarcazione naufragata a Randello che al suo interno trasportava (intorno al 330 dopo Cristo) anfore fabbricate nell’odierno Portogallo (22 litri di capienza) che dovevano essere sistemate nella stiva con il loro carico di pesce salato (sarde). E quello rinvenuto in località Femmina Morta: i resti di un mercantile che agli inizi del IV secolo dopo Cristo trasportava a sua volta un carico di anfore provenienti dal Nord Africa con olio, e «garum» oltre a ceramiche da mensa (scodelle, piatti, vassoi) destinate alla vendita.
La mostra permetterà di scoprire un piccolo museo regionale creato agli inizi degli anni Sessanta sulle rovine del tempio di Atena dell’antica colonia greca di Kamarina (con la K) «cantata da Pindaro e Virgilio», fondata dai siracusani nel 598 a.C. nelle paludi (poi bonificate) tra i fiumi Ippari e Oanis e il Mediterraneo, più volte distrutta e più volte ricostruita. Il museo, propone pezzi unici come il Relitto dell’Elmo corinzio e quello dell’ Elmo attico-etrusco ; un tesoro ricco di oltre tremila monete coniate tra il 253 e il 273 dopo Cristo da Gallieno, Vittorino, Tetrico I, Tetrico II, Claudio II il Gotico, Quintilio; oltre mille esemplari di anfore; lucerne ancora impilate; ex-voto a forma di dito; vasellame da mensa; un centinaio di statuette dedicate a Persefone; frammenti di colonne in marmo giallo di Numidia (assai simili agli esemplari utilizzati nel Pantheon di Roma); pesi-campione in piombo; vasi porta-profumi decorati a sbalzo con motivi geometrici e floreali; coppe e pendenti in argento; una piccola ara in terracotta decorata con una figura di Gorgone; una cassa ornata con pannelli a motivi vegetali destinata a fare da ghiacciaia o da cassetta per le sostanze medicamentose di bordo.
E una particolarità: un giardino «di sapore africano» impreziosito da veri e propri relitti vegetali (boschi di quercus calliprinos , juniperos phoenicea , pinus alpensis ). Ancora una volta relitti che non testimoniano però un’altra tragedia del mare, ma la (perduta) vegetazione dell’antica città di Kamarina.

Corriere 10.12.14
Come si parla comunista con l’accento inglese
risponde Sergio Romano


 Il suo accenno ai cinque studenti dell’università di Cambridge (Blunt, Burgess, Cairncross, MacLean e Philby) che divennero agenti dei servizi sovietici mi ha molto incuriosito. Circa Burgess, vorrei sapere se si trattava del famoso autore dell’«Arancia meccanica», e quanto a Philby, credo sia stato anche un agente segreto britannico. Sbaglio?
Marina Gero

Cara Signora,
No, l’autore di Arancia meccanica (da cui fu tratto un famoso film del 1971 diretto da Stanley Kubrick) si chiamava Anthony e ha anche diritto a una pagina nella storia della letteratura italiana perché fu traduttore di alcuni sonetti di Gioacchino Belli in dialetto romanesco. Sì, Kim Philby fu anche agente dei servizi britannici ed era capo della sede di Beirut quando, finalmente scoperto, salì a bordo di un cargo sovietico e fuggì a Mosca nel gennaio 1963. Dei cinque «moschettieri» convertiti al Comunismo vent’anni prima e assoldati dal Kgb alla vigilia della Seconda guerra mondiale, Philby fu il più brillante e il più noto.
Sulla sua vita esistono, oltre all’autobiografia apparsa a Mosca nel 1968 ( My Silent War , la mia guerra silenziosa), parecchi libri fra cui un profilo recente di Domenico Vecchioni pubblicato un anno fa nelle edizioni di Greco&Greco. A Mosca fu accolto trionfalmente, le Poste sovietiche emisero un francobollo in suo onore e quasi tutti i suoi capricci vennero soddisfatti. La casa madre della Lubjanka, sede del Kgb, ha una eccellente memoria e non dimentica né gli sgarbi né i favori. È dura con i transfughi (come Aleksandr Litvinenko, morto per una dose di polonio a Londra nel novembre 2006), ma generosa con gli amici. Philby poteva vantare parecchi meriti. Da quando era stato arruolato, aveva trasmesso a Mosca documenti importanti. Aveva informato per tempo due agenti britannici, vecchi amici di Cambridge (Guy Burgess e Donald MacLean) che la tagliola preparata dai servizi britannici stava scattando. Si era brillantemente difeso dai sospetti che già cominciavano a circolare sulla sua persona e aveva addirittura riconquistato la fiducia dei suoi superiori. La domanda che ancora sorge spontanea, ogni qualvolta ci imbattiamo in questo singolare personaggio della Guerra fredda, è: come spiegare l’inefficienza e la negligenza di una Intelligence esperta e rispettata come quella del Regno Unito?
La risposta è in un libro apparso recentemente in Inghilterra e negli Stati Uniti, A Spy Among Friends , una spia fra gli amici. L’autore è Ben Macintyre, giornalista del Times , saggista, narratore di vicende spionistiche e poliziesche. Da una saggio di Xan Smiley apparso sulla New York Review of Books del 4 dicembre sembra comprendere che la maggiore carta nelle mani di Philby, durante una gran parte della sua vita, fosse l’appartenenza all’ Establishment , ovvero a quella casta dirigente che è unita da legami sociali, culturali, familiari. Sono persone che hanno fatto le stesse scuole, hanno frequentato gli stessi club, hanno fatto servizio militare (quando ancora esisteva) negli stessi reggimenti.
L’Inghilterra degli ultimi decenni è alquanto diversa, ma negli anni giovanili di Kim Philby i legami di casta favorivano la cooptazione, anche per funzioni molto delicate, di persone che appartenevano a una stessa fascia sociale, si erano lungamente frequentate e provavano sentimenti di reciproca fiducia. Erano insomma una grande famiglia, vale a dire il luogo dove si consumano spesso i peggiori tradimenti.