giovedì 11 dicembre 2014

il Fatto 11.12.14
Gianfranco Pasquino Il politologo
“Giorgio ha fallito, avremo una successione farsa”
di Emiliano Liuzzi


Ha appena ascoltato il discorso del presidente Giorgio Napolitano all’Accademia dei Lincei, Gianfranco Pasquino, politologo. Lo ha ascoltato e riletto. “Conosco il presidente e l’uomo politico dal 1983, e anche questo discorso ha il limite di tutti i suoi discorsi, non va mai oltre l’approccio che storicizza e non lo sfiora mai l’autocritica, quella politica. Non affronta il tema di quello che i partiti producono, né la cultura marxista dalla quale proviene”.
L’impressione è che abbia sparato nel mucchio.
Ci può anche stare, ma se ci si mette in gioco. E mi sarei aspettato autocritica anche sull’Europa, su quella grande utopia che è l’Europa. Ma non l’ha fatto.
Se l’è presa coi populisti. Ce l’aveva con Grillo?
Soprattutto con Grillo, ma il populismo non è solo quello. E non è solo Berlusconi. Populismo è quello di Salvini, lo è stato quello di Di Pietro e il tentativo di Ingroia, sono tutti esempi di populismo.
Anche su Renzi il presidente ha cambiato idea, da un po’ di tempo a questa parte. O è solo un’impressione ?
Ha cambiato atteggiamento nei confronti di Renzi. Atteggiamento e approccio, almeno da un mese e mezzo.
È Renzi il banditore di speranza in un passaggio del discorso?
Ce l’ha con Grillo, ma indirettamente anche con Renzi. Dal quale, ripeto, il presidente da un mese e mezzo ha preso le distanze. In maniera sottile, ma assai evidente.
Lei crede che Napolitano abbia fallito?
Ha vinto nell’accettare l’incarico, forse. Quando il Paese non aveva né governo né un presidente della Repubblica, ma non ha ottenuto quello che voleva. Se per fallimento si intende essersi affidati a persone mediocri, a un manipolo di ipocriti, sì, ha fallito.
Non lascia una situazione migliore: c’è un governo che senza i numeri di Forza Italia traballa e un presidente da eleggere un’altra volta senza nessuna idea.
Lui ha provato a imporre il suo candidato.
E chi sarebbe?
Giuliano Amato. Questo credo che sia una verità incontrovertibile. Ma Amato non ha i numeri del Parlamento. E dunque non riuscirà a incidere sulla successione come in un periodo si era illuso di poter fare.
Chi sarà il prossimo presidente?
Non lo so. Non credo Amato. Vedo molta confusione, autocandidature, come quella di Pietro Grasso, che rivendica il suo essere seconda carica dello Stato, l’autocandidatura di Laura Boldrini e quella di Anna Finocchiaro, ma sono loro che giocano un’altra partita.
Difficile pensare a come possa finire.
Certo, se nel 2013 fu una tragedia, ho l’impressione che si vada verso una farsa. Proporre il nome di Riccardo Muti è una farsa. Non so come possa essere venuto in mente: il Paese ha bisogno di un politico, di un uomo delle istituzioni e che conosca la Costituzione, non di uno scienziato da esportazione.
Cosa si augura che faccia Napolitano, quando sarà il momento, come ultimo atto?
Spero che non nomini nessun senatore a vita e che lui stesso rinunci alla carica, come invece gli spetterebbe. Questo spero che lo faccia, sarebbe un atto fondamentale. Non sarà così. E non ci sarà nessuno che, invece che giocare al toto nomi, tracci il profilo di un presidente del quale l’Italia avrebbe bisogno.

il Fatto 11.12.14
Roma, ultimo giro per il Pd Orfini: “Chi sa adesso parli”
Il commissario dei democratici romani in piazza con Marino e Zingaretti
“Basata con questo schifo e con le bande delle correnti: Aiutiamo Pignatone”
di Paola Zanca


La posa è quella che di solito si addice ai funerali. Braccia incrociate, capo semi-chino, leggero dondolìo delle gambe, labbra serrate in una smorfia di dolore. Umberto Marroni – oggi deputato Pd, già capogruppo democratico in Campidoglio nell’era Alemanno, amico di famiglia di Salvatore Buzzi – sta ascoltando il cazziatone di Matteo Or-fini, arrivato qui, in questa piazza dietro ai palazzoni del Laurentino 38, a spiegare come tirerà fuori il partito dal pantano del mondo di mezzo. Mimetizzato tra la folla dei militanti, lontanissimo dal retropalco dove sostano i big, Marroni ogni tanto accenna un applauso. Uno o due battiti di mano, quasi a imitare l’esultanza dei tre/quattrocento partecipanti che si spellano i palmi ogni volta che Orfini, Nicola Zingaretti e Ignazio Marino, si sgolano contro “le bande delle correnti”, i “ras delle tessere” e lo “schifo” che viene fuori dall’inchiesta della procura di Roma. È che Marroni, in quelle carte, ci sta eccome, seppure non da indagato. A chi lo avvicina racconta lo stupore di essere stato tirato in ballo “per una foto d’epoca”, seppure l’immagine della cena con Buzzi, Casamonica e Poletti che ha fatto il giro dei giornali sia del 2010, non proprio un’era geologica fa. Dice che lui e il padre (Angiolo, Garante dei detenuti del Lazio, colui che diede la prima chance all'ex galeotto finito in affari con Carminati) sono “amareggiatissimi”. Un uomo lo abbraccia al grido di “Colosso! ”, lui scuote il capo: “Il tempo sarà galantuomo”.
MA QUI, in questa piazza di estrema periferia ristrutturata dalla giunta Veltroni (un centro culturale ipermoderno a tre passi dai caseggiati popolari infestati da droga e delinquenza), di aspettare il terzo grado di giudizio non pare abbiano intenzione. “Marino, l’unico onesto sei tu”, urlano al sindaco che due settimane fa era in croce per le multe della Panda rossa e adesso si muove da eroe nazionale.
È arrabbiata la piazza, ma ancora appesa alla speranza che qualcosa si possa salvare. Si inferociscono quando – il comizio deve ancora cominciare – li avvertono che la sala da 200 posti è già piena e non si può più entrare: “Cosa ci avete fatto venire a fare? ”, urla un segretario di circolo. “A chi è venuto in mente di scegliere questo posto? ”, si infuria un altro. Così, Orfini, Zingaretti e Marino decidono il grande passo: usciamo noi, che questo partito “è stato troppo poco all’aperto”. Li accoglie un gruppetto di contestatori (non del Pd) che ha colto l’occasione per manifestare contro la bretella in cantiere verso Latina. Marino li fa parlare e promette di ascoltare le loro ragioni. C’è il ministro Marianna Madia, assediata dai compagni dipendenti pubblici. Ci sono i parlamentari Tocci, Miccoli e Cirinnà, alcuni assessori della giunta Marino (“Eravamo Cassandre”, ricorda Paolo Masini, a proposito di molte denunce, oggi agli atti dell'inchiesta) e qualche consigliere regionale. C’è il presidente del municipio dove ha sede il Laurentino, Andrea Santoro, che arriva a chiedere che Eur spa, la partecipata del Comune dove tanti affari della banda Carminati hanno transitato, venga chiusa, punto e basta.
Siamo all’anno zero. E nel partito democratico romano si sente forte l’odore dell’ultimo giro di giostra. Per questo Or-fini, mandato da Renzi a salvare il salvabile, è così duro: “Il Procuratore della Repubblica Pignatone va aiutato: chi sa, parli. Chiunque di voi abbia un dubbio, una perplessità, delle paure o dei sospetti parli”. È un appello ai suoi (proprio ieri il sindaco Marino ha consegnato a Pignatone alcuni documenti), a quelli che si sono persi nei palazzi del potere. “Il Pd - insiste - deve tornare in strada, a parlare e, anche, a prendersi gli insulti dalle persone”. Dice che non si sono accorti del marcio che c’era nella gestione dei campi rom “perché nei campi rom non ci andiamo da una vita”. E che non è più un partito libero quello dove “un consigliere regionale, comunale o un parlamentare” paga l’affitto di un circolo e lo trasforma in un suo comitato elettorale. A fianco a Marroni in posa da funerale, un giovane - evidentemente d’esperienza - commenta l’intemerata: “A me questi me fanno ride... ”.

Corriere 11.12.14
Il Pd in periferia tra i fischi
Ora corsi per la legalità
Assemblea con Orfini. Norme anticorruzione, divisioni nel governo
di Ernesto Menicucci


ROMA Il Pd che cerca di lasciarsi alle spalle Mafia Capitale, riparte dal centro culturale «Elsa Morante», voluto dall’allora giunta Veltroni in una zona di frontiera di Roma: Laurentino 38, periferia sud, appena fuori da quei «ponti» nei quali era meglio non girare da soli.
Un luogo simbolo, per la prima assemblea romana del partito («Coi cittadini, con Roma. Nel mondo reale»), della gestione commissariale di Matteo Orfini, a cui Renzi ha affidato il compito di rimettere insieme il Pd locale. Ed è simbolica anche la rappresentazione che ne viene fuori. Quando ormai è buio, e l’umidità che sale dalla campagna comincia a farsi sentire, si capisce che la sala è troppo piccola per accogliere il migliaio di persone accorse ad ascoltare Orfini, il governatore del Lazio Nicola Zingaretti e il sindaco Ignazio Marino. E così si decide per un improvvisato «piano B»: microfono all’esterno, palco rimediato, la gente intorno. Per una ventina di minuti, si scatena il caos: qualcuno pensa che salti tutto. Poi si presenta Orfini, sciarpa annodata al collo: «Siamo contenti di essere venuti fuori, perché è tempo che il Pd lo faccia: ascoltare i cittadini, anche prendere qualche fischio… Ultimamente ci siamo stati poco».
In mezzo ai militanti, infatti, c’è anche un gruppetto di contestatori: un comitato locale che si batte contro l’autostrada da Roma a Latina. Urla, striscioni, slogan («fuori la mafia dallo Stato»), rissa sfiorata. Poi, pian piano, gli animi si calmano. Orfini, Zingaretti e Marino partono da un punto in comune: «Grazie al procuratore Pignatone. Noi siamo dalla parte di quest’inchiesta». Orfini annuncia la nascita di una «Frattocchie dell’anticorruzione», richiamandosi alla scuola di formazione politica del Pci: «Abbiamo bisogno di dare ai consiglieri comunali gli strumenti per contrastare la corruzione, organizzeremo corsi di formazione». Poi aggiunge: «Ci chiederete: perché non ce ne siamo accorti? Perché il Pd di Roma era troppo impegnato in una guerra tra bande, in lotte di potere. E, magari, nei campi rom neppure c’eravamo». Qualcuno gli urla: «Comincia dalla banda tua!». Orfini insiste: «Metteremo nuove regole al tesseramento, controlleremo i cambiamenti nella situazione patrimoniale degli eletti, un soggetto terzo certificherà il bilancio del Pd Roma, verificheremo l’attività dei circoli: se sono aperti solo quando c’è il congresso, li chiuderemo». Il compito di riorganizzare il territorio viene affidato a Fabrizio Barca. Ultimo: «Chi non versa il contributo al partito, è fuori». Poi tocca a Zingaretti: «Nel 2008 abbiamo perso le Comunali. Ed è con la vittoria della destra che pezzi della criminalità entrano nelle stanze del potere: è stata corrotta una parte di economia sana e anche qualcuno di questo movimento. Ma, come Pd, abbiamo fatto sempre scelte contro questa banda criminale». Tocca a Marino. Nonostante il freddo, scalda la platea: «Mi sento come la sera in cui ho vinto le primarie da sindaco, anche allora c’era troppa gente e dovetti salire su una sedia... Il Pd è un partito perbene: in Comune e Regione stiamo facendo pulizia». Poi affonda: «Qualcuno ha sbagliato. Ma l’impianto criminale nasce nella destra di Alemanno. E non possiamo accettare da Berlusconi, condannato, che ci dica cosa dobbiamo fare». Applausi. Marino va avanti: «Quelli del M5S devono assumersi le loro responsabilità». Chiude: «Mi sento commissariato dall’arrivo degli ispettori del prefetto? Fui io a chiedere al Mef di mandarci la Finanza nel 2013... Oggi mi sento più libero».
Ma la discussione in Consiglio dei ministri sulle norme anticorruzione slitta da oggi a domani, anche per divergenze nella maggioranza di governo, in casa Ncd. «È necessario accelerare i processi, non allungare i tempi della prescrizione» dice Fabrizio Cicchitto.

Corriere 11.12.14
I democratici della Capitale, mille tribù, senza capi riconosciuti
di E. Men.


La situazione del Pd romano è quella di un partito «balcanizzato», diviso in correnti. O tribù, come le chiama Matteo Orfini. Un partito nel quale — finita l’era Veltroni e tramontata l’egemonia che ha sempre esercitato Goffredo Bettini (guru e stratega del centrosinistra anni 90 e 2000) — non c’è un vero e proprio «capo» riconosciuto. Anzi, dal 2008 in poi, c’è stata una crisi generale. Tanto che lo stesso Renzi — che su Roma ha sempre avuto i suoi problemi — ha difficoltà a governare la federazione locale. Attualmente, nel Pd della Capitale, ci sono tre o quattro gruppi che si fronteggiano. L’alleanza, molto recente, stabilita per le Europee, dei «Noi Dem»: dalemiani/bersaniani, popolari, turbo-renziani. Tradotta in nomi: Umberto Marroni, Enrico Gasbarra, Lorenza Bonaccorsi. Storicamente, quest’area si contrappone agli ex Ds di Bettini: Nicola Zingaretti, Michele Meta, Roberto Morassut. Terza componente, Area Dem di Dario Franceschini: intorno a lui, l’eurodeputato David Sassoli, la consigliera comunale (e moglie del ministro) Michela Di Biase. Poi i «Giovani turchi» di Orfini. Uno che contava era Marco Di Stefano: dopo i recenti scandali, non più.

il Fatto 11.12.14
Anche Barca chiamato a risanare il partito

Ad aiutarlo nella campagna di risanamento del partito democratico romano, Matteo Orfini ha chiamato anche Fabrizio Barca, l’economista già ministro del governo Monti. Spiega Orfini: “Dovremo valutare uno per uno la capacità d’iniziativa politica dei circoli, di tutti i circoli di Roma, capire cosa fanno e cosa sanno fare. E questo é un lavoro che non devo fare io e che non voglio fare io”. Barca dovrà “costruire una mappatura di questi circoli” e “aiutarli a capire come si ricostruisce un partito, come si sta insieme, e in alcuni casi di segnalare quei circoli che sono già un’eccellenza”. Per i consiglieri comunali, inoltre, Orfini annuncia corsi di formazione ad hoc, già ribattezzati “le Frattocchie dell’anticorruzione”, in omaggio alla storica “scuola” del Pci.

il Fatto 11.12.14
Cristiana Alicata, membro della direzione nazionale del Partito democratico, denuncia
I Rom del campo di Buzzi in fila alle primarie “dem”
di Tommaso Rodano


“Ricordo di aver visto gruppi di rom accompagnati in fila ai seggi. Con un’indicazione sulla persona da votare”. La denuncia è di una scrittrice, Cristiana Alicata, membro della direzione nazionale del Partito democratico. Si trattava delle primarie del centrosinistra per eleggere il candidato sindaco di Roma, quelle che spianarono la strada a Ignazio Marino. Era il 7 aprile 2013. Alicata, quel giorno, lo scrisse su Facebook: “Le solite incredibili file di rom che quando ci sono le primarie si scoprono appassionatissimi di politica”. Allora fu sepolta dalle accuse di razzismo, specie all’interno del partito (lei, renziana, parteggiava per il candidato Gentiloni). Oggi quella frase, alla luce dell’indagine sulla mafia di Roma, potrebbe avere un peso diverso. Il seggio in questione era nell’ex XV municipio (zona Magliana - Portuense). “Vicino al campo nomadi di via Candoni”, ricorda Alicata. Una struttura che compare anche nelle carte su Mafia Capitale: in quell’accampamento, nel 2013, la cooperativa 29 giugno di Salvatore Buzzi ha ottenuto una commessa da 86mila euro per la bonifica dell’impianto fognario. Non c’è nessuna prova che colleghi i rom in fila ai presunti tentativi della cupola di inquinare le primarie. Rimangono, però, le anomalie denunciate alla commissione di garanzia del Pd in diversi seggi, poi cadute nel nulla.
NELL’EX VIII municipio (Tor Bella Monaca-Torre Angela) ci fu bisogno addirittura della polizia per sedare una lite tra militanti democratici, nata perché alcuni testimoni, oltre a registrare un afflusso sospetto di immigrati al voto, avevano assistito a inequivocabili giri di denaro. Qualcuno raccolse una prova audio del voto di scambio (“Quanti ne vuoi a Tor Bella Monaca? ”. “Non ti preoccupare: tu portameli, gli regaliamo il pacco”) e la presentò – come scrisse Repubblica – alla federazione provinciale del Pd. In quei giorni il segretario romano era Marco Miccoli, ora deputato. Oggi, come allora, sminuisce l’entità di quegli eventi: “Il risultato fu nettamente a favore di Marino e anche i candidati ai municipi furono eletti con distacchi limpidi: se c’è stato un intervento per sporcare quelle primarie, è fallito”. La denuncia dell’Alicata? “Riguardava un campo autorizzato dal Comune – spiega Miccoli – che storicamente partecipa al voto. Le segnalazioni alla commissione di garanzia non portarono ad annullamenti o ulteriori controlli”.
Tutto regolare. Eppure lo stesso Pd romano che rimosse la questione, un anno dopo si trova con un commissario, Matteo Orfini, che ha il compito di fare tabula rasa. Cristiana Alicata allora lanciò il sasso, ma nascose (in parte) la mano. “Ho visto con i miei occhi, ma non ho le prove di chi fossero mandanti e beneficiari”. I nomi non li fa nemmeno adesso, con il vaso di Pandora della mafia romana scoperchiato dalla procura. “Non li conosco e non voglio farli – prosegue – perché il tema non è individuale. La responsabilità è collettiva è appartiene all’intera dirigenza del Pd di questi ultimi anni”. Non furono solo i presunti voti di scambio a insospettirla: “Mi chiedo ancora come facessero certi eletti a tappezzare la città di manifesti abusivi, a organizzare cene elettorali pantagrueliche ed eventi da decine di migliaia di euro”. Oggi non lo dice, ma ce l’aveva con l’altro candidato sindaco, David Sassoli. “Scrissi a Epifani di commissariare il partito, con mesi di anticipo sui fatti. Ma non è cambiato nulla: gli stessi consiglieri che hanno assistito inermi agli scandali laziali della regione Lazio, a fine mandato li abbiamo candidati in Parlamento. Invece almeno l’80 per cento dei dirigenti del Pd di Roma dovrebbero essere mandati via”.

Repubblica 11.12.14
Pasta in cambio dei voti e mazzi di tessere comprate viaggio nel Pd delle clientele
“Se un circolo ha bisogno di soldi, arriva il capo bastone e paga in contanti le tessere Noi che abbiamo denunciato siamo finiti sul banco degli imputati, quasi espulsi”
di Giovanna Vitale


ROMA Pacchetti di tessere comprate in bianco dai capibastone e restituite compilate, come e da chi però non si sa. Code di extracomunitari ai seggi delle primarie. Pulmini di anziani prelevati dai centri ricreativi e ricompensati con buste alimentari. Soldi distribuiti fuori dai circoli per incentivare il voto. Congressi finiti a insulti e spintoni, e la polizia che arriva a sirene spiegate.
Benvenuti nel meraviglioso mondo del Pd Roma. L’azionista di maggioranza della giunta Marino commissariato da Matteo Renzi. Ché non fosse stato per il procuratore Pignatone, forse, si sarebbe continuato a chiudere un occhio, anzi tutti e due: sulle iscrizioni gonfiate, i maneggi dei signori delle tessere, l’inquinamento di un partito che di democratico ha soltanto il nome, condizionato com’è dai vari Kim Jong-un di quartiere che a botte da migliaia di euro spostano consensi, ricattano segreterie locali, controllano pezzi di istituzioni. Un gioco borderline, di certo pericoloso. Ormai smascherato dalle inchieste giudiziarie. Minacciava «li rovino tutti» l’onorevole Marco Di Stefano, che intercettato rivelava: «Ho fatto le primarie con gli imbrogli». Elezione, stavolta per il segretario cittadino, che attira pure l’interesse della mafia capitale. «Come state messi?», chiedeva il boss Carminati a Salvatore Buzzi, il suo braccio imprenditoriale: «Stiamo a sostene’ tutti e due», la risposta del ras delle cooperative, «avemo dato 140 voti a Giuntella e 80 a Cosentino. Cosentino è proprio amico nostro».
Neppure il drammatico appello lanciato un anno e mezzo fa dall’allora deputata Marianna Madia era servito a far suonare l’allarme. «Nel Pd a livello locale, e parlo di Roma, facendo le primarie dei parlamentari ho visto, non ho paura a dirlo, delle vere e proprie associazioni a delinquere sul territorio»: era il giugno 2013, e per quelle parole l’attuale ministro rischiò quasi di essere linciata. Sebbene già due mesi prima la renziana Cristiana Alicata denunciò «le file di rom ai gazebo dem» e «voti comprati» per l’elezione del candidato sindaco, che poi risultò Ignazio Marino. Manovre spesso oliate da un vorticoso giro di soldi. Racconta Andrea Sgrulletti, fino all’anno scorso segretario pd nella zona di Tor Bella Monaca: «Nell’aprile 2013, alle primarie organizzate in vista delle amministrative, il nostro municipio è stato l’unico dove hanno votato più persone rispetto alle primarie 2012 Bersani-Renzi. In alcuni seggi l’affluenza è raddoppiata, in altri triplicata. “Merito” di una campagna alimentata da un’enorme quantità di danaro dall’aspirante presidente del VI municipio, Marco Scipioni, e denunciata sia al partito romano, sia alla commissione di garanzia». Una propaganda a base di «pacchi alimentari e buste della spesa distribuite alle persone che venivano a votare per lui. A volte ha pure regalato piccole somme. Il che, in un contesto molto povero come il nostro, fa la differenza», insiste Sgrulletti, rivelando come «quelle contropartite abbiano pure convinto alcune comunità straniere locali a partecipare in massa ». Tutti episodi che «sono stati però ignorati dal Pd cittadino, che ha convalidato quel voto e non ha mai preso provvedimenti disciplinari, anzi», sospira sconsolato Sgrulletti: «Noi che abbiamo denunciato siamo finiti sul banco degli imputati e io stesso ho rischiato l’espulsione dal Pd».
Un serial, più che un film. Stesse scene si sono ripetute, sei mesi più tardi, al congresso (aperto solo agli iscritti) per il segretario provinciale e ancora dopo alle primarie per quello regionale. Anche qui, pur con le debite proporzioni, «truppe cammellate si sono mosse per inquinare il voto», racconta Fabrizio Mossino, già responsabile della sezione Portuense- Villini, rivelando le tecniche per gonfiare le iscrizioni: «Se un circolo ha bisogno di soldi perché non riesce più a pagare l’affitto o ha un segretario con una forte appartenenza di corrente, può succedere che il capo-bastone di turno arrivi, chieda un pacchetto di tessere, anche 50-60, pagandole in contanti 20 euro a pezzo, e poi le restituisca compilate ». Esattamente quanto accaduto a ottobre di un anno fa, nella sfida per la leadership romana, con circoli che in pochi giorni sono cresciuti del 200%. Tor Bella Monaca per tutti: passato da 170 a 430 tesserati.
Non è allora un caso se, appena eletto, Lionello Cosentino abbia deciso di cambiare le regole e ripetere il congresso che pure lo aveva incoronato segretario. Risultato? «Dai circa 16mila iscritti a Roma nel 2013 oggi siamo scesi a 9mila», dice l’ex responsabile organizzazione Giulio Pelonzi. Il 40% in meno. È bastato esigere che ogni singola tessera fosse richiesta per iscritto e abbinata a un nome e un cognome preciso. «Come per magia i pacchetti sono spariti, chi oggi sta nel Pd Roma è gente vera», giura Cosentino. Ormai azzerato.


il Fatto 11.12.14
Mafia Roma, il Buzzi-pensiero: “Da iscritto Pd dico che l’arresto di Scajola non ha senso”
Dopo il fermo dell’ex ministro il capo della coop 29 giugno scrive a Il Tempo: “Garantismo stella polare”

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Repubblica 11.12.14
Carminati e Buzzi sono uniti da una comune miscela di dannazione e redenzione
E nella vicenda compare persino la Santissima Trinità, cioè l’ombra del Vaticano
Quei destini incrociati del criminale nero e del faccendiere rosso
di Alberto Statera


LEGGE Delitto e castigo nella cella di Regina Coeli, Maurizio Carminati, il “re di Roma” protagonista di “Mafia Capitale”, una storia di dannazione e redenzione, una strampalata miscela di depravazione totale e di impossibile riscatto. Non stupisce la passione per Dostoevskij del criminale che uccide, minaccia, massacra, corrompe, ma deve credere di incarnare, nel suo delirio di superomismo, un eroe nietzschiano dotato anche di codici morali. «Finché mi accusano di omicidi... — ringhia in più di una conversazione telefonica con i suoi adepti — ma la droga no». Spiega: «Finché mi dicono che sono il re di Roma mi sta pure bene, come l’imperatore Adriano... Però sugli stupefacenti non transigo, voglio andare a parlare col procuratore capo e dirgli: se sono il capo degli stupefacenti a Roma mi devi arrestare immediatamente ».
Capite? Il boss «di mezzo» vuole andare dal procuratore capo a difendere la sua auto-percepita «onorabilità». Lui non «pippa» come il suo luogotenente Riccardo Brugia, ha uno stile di vita «monastico» — racconta Giuseppe Grilli, lo skipper beccato con 500 chili di cocaina a bordo — «torna a casa e pensa ai suoi cani e ai suoi gatti». Ma soprattutto non spaccia. A sentirlo parlare al telefono di droga sembra don Vito Corleone che dà una lezione di “etica” della vecchia mafia alle cosche nemiche che invece vogliono entrare nel business proibito. Eppure, il teatro nel quale Er Cecato dà le sue rappresentazioni, quel quadrilatero tra Vigna Clara, Vigna Stelluti, Ponte Milvio, il palazzo di Trony e dei fratelli La Bufala, è traversato da un secondo fiume oltre il Tevere: un fiume impetuoso di cocaina. È il mercato più fiorente di polvere bianca della capitale, secondo forse soltanto a quello della chirurgia plastica delle signore mesciate.
Proviamo pure a prendere per buona l’indignazione del Cecato e ammettiamo che il business della droga sia in mano non al suo “Mondo di mezzo”, ma ad altre cosche, magari quella di Michele Senese che il 30 aprile scorso fu ripreso dai carabinieri in una violenta lite in strada con Carminati davanti al bar Franco. Il “lodo droga” è tuttavia soltanto un’appendice della tragedia depravazione-riscatto, male-bene, dannazione redenzione che va in scena nell’inchiesta della procura romana sulla “Mafia Capitale”. Basta rileggere la storia di Salvatore Buzzi, quello che proclamava come con gli immigrati, gli zingari e i disperati di ogni natura si facessero affari più cospicui che con la droga. E qui sovviene la filosofia di uno degli interlocutori mafiosi di don Vito Corleone, il quale sentenzia: «Nella mia città limiteremo il traffico ai negri e alla gente di colore, tanto sono bestie, anche se si dannano, peggio per loro».
La storia di Carminati è, in fondo, una consueta storia di criminalità e terrorismo nero. Dalle rapine agli omicidi politici, alla criminalità tout court senza alibi ideologici. Quello di Buzzi, invece, è un copione ben più singolare che nasce nella delinquenza e nella delinquenza torna ad approdare dopo un lungo percorso che molti hanno creduto ed altri voluto credere commendevole. Tutto comincia trenta anni fa: il 29 giugno 1984, la data che diede il nome alla cooperativa criminale di Buzzi-Carminati. Nel carcere romano di Rebibbia, Buzzi, che sconta una pena per omicidio, dopo aver preso in cella una laurea in Lettere moderne (cosa che dall’eloquio nelle intercettazioni sembra impossibile), organizza un convegno dal titolo: ”Le misure alternative alla detenzione e il ruolo della comunità esterna”. Si è già fatto notare perché ha messo in scena con gli altri carcerati l’ Antigone di Sofocle, interpretando egli stesso il ruolo di Creonte. Partecipano al convegno Pietro Ingrao, sua moglie Laura Lombardo Radice — che poi firmerà l’atto costitutivo della cooperativa “29 giugno” — don Luigi Di Liegro e l’intero dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, guidato dal giudice Nicolò Amato. Non il “Mondo di Sopra” inteso da Carminati come quello di politici, manager e colletti bianchi dalle scarse virtù, ma il mondo alto davvero di una volta, quello impersonato, per l’appunto, da personaggi come Pietro Ingrao.
Nessuno può dire se la deriva delinquenziale fosse già nei progetti di Buzzi al momento della creazione della cooperativa “29 giugno”, ma dinanzi ai fatti non può non sovvenire — e ne chiediamo scusa — la teoria lombrosiana del “criminale per nascita”. Ma siccome vogliamo considerarla fallace e credere invece che chiunque può essere recuperato all’onestà e alla società civile, preferiamo pensare che Buzzi e i suoi sodali si siano imbattuti via via nel sistema politico fondato sulla grassazione delle pubbliche risorse, sul quale hanno avuto facilità ad imbarcarsi surfando abilmente sui loro scopi sociali apparentemente nobili. Gli ex detenuti e poi i diseredati, gli zingari, gli immigrati clandestini, i disperati in fuga dalle guerre, i rifugiati, tutto un mondo bisognoso di carità. Ma una carità pelosa, nera nera, da dividere, nel flusso monetario pubblico ben superiore al costo dell’assistenza garantita in condizioni vergognose, con i politici corrotti e con la criminalità. Chi allora meglio degli assassini neri dei Nar, soprattutto quando sul massimo scranno della Capitale approda Gianni Alemanno, che i camerati consideravano in gioventù un pischello senza fegato e senza palle e che Carminati, ai tempi, «corcò de brutto». L’ultima invenzione “imprenditoriale” di Buzzi e Carminati “ner sociale” è uno studio medico dentistico e oculistico per immigrati. Il comune deve scucire 170 mila euro per le attrezzature, ne restano 50 di stecche, ma soprattutto bisogna assumere i figli medici dei dirigenti del comune: «Ce stanno i figli che so’ dentisti, devono lavorà».
Come stupirsi se nella saga dannazione-redenzione compare persino la Santissima Trinità? I rapporti tra criminalità e settori del Vaticano sono ben noti fin da quando il capo della banda della Magliana fu sepolto nella cripta di Sant’Apollinare. Ma ammazzato lui, le relazioni d’affari non furono interrotte con Mokbel, Carminati e altri criminali neri. Per cui non stupisce affatto che Luca Odevaine, membro del tavolo dei rifugiati del Viminale, intercettato chieda lumi su un affare a Tiziano Zuccolo, camerlengo dell’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone: «Senti caro, hai qualche novità te dal Vicariato?». E quello: «...abbiamo deciso di fare un passaggio alto, molto alto, ma proprio alto, più, molto alto... di li non si arriva di più». E l’ex segretario di Veltroni, secondo l’accusa passato con i banditi, sospira: «La Trinità!».
Per Santa Romana Chiesa Cristo è il salvatore dell’umanità e non è necessario avere un rapporto con lui per essere salvati. Ma si ha proprio l’impressione che per Papa Francesco le opere buone, soprattutto se poi diventano cattive, non bastano per essere redenti, per lui non sembra sufficiente il concetto di “redenzione limitata”. Quel po’ di calvinismo che servirebbe più di ogni altra cosa a questo paese marcito? a. statera@ repubblica. it

Repubblica 11.12.14
La coop che gestiva il centro minori preso d’assalto era stata per anni nel mirino della “29 giugno” e dei suoi sgherri “Ti facciamo cambiare città”
E dopo la rivolta il braccio destro di Carminati disse: “Ora ce li abbiamo in pugno”
Minacce, aggressioni e avvertimenti mafiosi l’ombra di Buzzi sui tumulti di Tor Sapienza
di Carlo Bonini


ROMA Chi insufflò le prove di pogrom di Tor Sapienza? Chi doveva incassare i dividendi delle notti di fuoco, sassi e cocci di bottiglia di una borgata “rossa” che improvvisamente, a metà novembre, si era accesa al comando di saluti romani e ronde assetate di “negri” e “arabi”? Sono stati scomodati i sociologi per provare a dare un senso alla furia della banlieue di Roma. E invece, per raccontare quella storia bisogna cominciare da un’altra parte. Dagli appetiti mafiosi del Mondo di Mezzo . Dai Signori degli appalti del “terzo settore” Salvatore Buzzi e Sandro Coltellacci, oggi a Regina Coeli per mafia, dal loro interfaccia “nero” Massimo Carminati e dalla sua manovalanza del Mondo di Sotto . E da una coraggiosa donna salentina, Gabriella Errico, presidente della cooperativa sociale Un sorriso, che in quelle notti ha perso tutto. I 45 minori non accompagnati di cui aveva la custodia e la struttura che li ospitava, resa inagibile da un assedio violento. Seduta nel suo ufficio a Cinecittà, Gabriella respira profondo. «Sono madre di due bambini. Ho paura», dice. «Ho ancora paura». Ma non della furia di Tor Sapienza. Di quei due lì. Buzzi e Coltellacci. Del ricordo di quella telefonata arrivata durante il secondo giorno dell’assedio. «Mi chiamò Buzzi. Mi disse: “Resisti, Gabriella, mi raccomando”. Gli spiegai cosa stava succedendo. “Qui fuori è l’inferno. Sono fascisti, Salvatore. Gridano “Duce, Duce”. Mi rispose lasciandomi di sale: “Non ti preoccupare. Ora faccio un paio di telefonate e sistemo”».
“CE L’HO IN PANCIA”
Un paio di telefonate. E a chi? «Non capivo cosa c’entrasse Buzzi con i fascisti», dice Gabriella. Con i giorni, quel dubbio diventa un pensiero cattivo. La rivolta di Tor Sapienza è sedata, la cooperativa Un sorriso ha perso il centro e i suoi minori, trasferiti nella struttura della Domus Caritatis all’Infernetto. Gabriella viene avvicinata da un amico. «Mi disse che Buzzi andava dicendo che ora “mi aveva in pancia”. Sì, così diceva: “Ora, ho in pancia quella lì del Sorriso”. Mi infuriai. E per un attimo pensai che a Tor Sapienza solo la mia cooperativa era stata assediata. Come mai le strutture nell’orbita di Tiziano Zuccolo, grande amico di Buzzi, che pure ospitavano migranti adulti non erano state sfiorate dalla rivolta? Dissi al mio amico che Buzzi non aveva in pancia proprio un bel niente». E però, dopo poco, Buzzi si fa vivo. «Mi fissò un appuntamento per il 4 dicembre alle 11. Mi disse che era venuto il momento di sedersi intorno a un tavolo e discutere del “Condominio Misna”». Condominio Misna? «Era il suo modo di dire. Per riferirsi alla spartizione degli appalti, lui diceva “condominio”. O anche “cartello”. Voleva parlarmi di come intendeva dividere la torta dei “misna”, che sta per “minori stranieri non accompagnati”. Pensava evidentemente che, dopo Tor Sapienza, fossi finalmente pronta a cedere. Per fortuna, il 2 dicembre lo hanno arrestato».
“NON AVREMO PIETÀ”
Per Gabriella Errico, Tor Sapienza è l’epilogo di una storia che comincia nel 2005, anno in cui è sindaco Walter Veltroni. Di un incubo, dice ora, «che mi ha tolto il sonno per anni». E che si manifesta con i modi, le allusioni e le minacce di Sandro Coltellacci, la mano di Buzzi, presidente di Impegno e promozione, una delle coop del suo Sistema. Sono i giorni in cui Un sorriso è ancora un’associazione e ha sede in viale Castrense, in un palazzo di proprietà del Comune che ospita anche gli uffici del Servizio giardini. Ad insaputa di Gabriella Errico, Coltellacci ha convinto «con una cospicua liquidazione » l’allora presidente dell’associazione Un Sorriso, Saverio Iacobucci, a costituire una cooperativa che ha lo stesso nome dell’associazione, ma una diversa partita Iva e ad affidarne la presidenza a sua moglie, Simonetta Gatta. La mossa è necessaria a impadronirsi della sede dell’associazione (subentrando nella concessione dell’immobile da parte del Comune) e, progressivamente, delle sue attività. Ma la Errico si mette di traverso. Trasforma a sua volta l’associazione in cooperativa, si asserraglia in viale Castrense e avvia una serie di esposti. «Nel 2006 cominciarono le minacce — ricorda Gabriella — Coltellacci mi affrontò: “Ti faccio cambiare città. E sappi che non guardo in faccia a nessuno. Né alle donne, né ai bambini”». Il marito di Gabriella, Germano De Giovanni, prova a difenderla. Coltellacci lo manda all’ospedale San Camillo.
PROVOLINO E I NAR
Il Campidoglio passa di mano. Alemanno — è il 2008 — è il nuovo sindaco. Il calvario si fa ancora più spaventoso. La cooperativa di Gabriella, nonostante si sia rassegnata a lasciare la sede di viale Castrense, è fuori dal tavolo che conta. Da quello che Buzzi chiama “il cartello” e che — come documentano gli atti dell’inchiesta — si spartisce la ricca torta degli appalti per i “richiedenti asilo” (il cosiddetto progetto “Sprar”, 34 milioni di euro) e i servizi di sostegno ai senza dimora (pasti e alloggi in residence). «Nel cartello — spiega Gabriella — la parte del leone la facevano Buzzi e la sua 29Giugno. E se a lui toccava 100, al suo amico Tiziano Zuccolo, spettava 50. Mentre a tutti gli altri, le briciole». A Zuccolo (che nelle carte dell’inchiesta scopriamo in grande confidenza con Luca Odevaine) fanno infatti capo le cooperative bianche: La Cascina (Cl) e Domus Caritatis. E né Buzzi, né Zuccolo amano la concorrenza. Al punto che, quando qualcosa sfugge alle maglie del monopolio, è il Comune a mettere le cose a posto.
Accade quando Un sorriso vince il bando per la Casa dei papà, alloggi e sostegno per padri separati. E per questo Gabriella viene convocata dal Dipartimento per le politiche sociali, dove si trova di fronte un tipo che all’anagrafe si chiama Maurizio Lattarulo, ma che nel giro è meglio conosciuto come Provolino. Guarda caso, un ex Nar vicino alla Banda della Magliana (il suo nome, per dire, si guadagna 90 citazioni nella maxi ordinanza del giudice Otello Lupacchini) che la giunta Alemanno ha reinventato “consulente per le politiche sociali”. «Questo provolino mi disse che non dovevo permettermi», ricorda Gabriella. Ma lei non recede. E, per questo, paga il conto. Negli anni successivi, la gara per Sos (Unità mobile di sostegno sociale) in cui riesce a vincere un lotto, viene congelata perché Buzzi ne è rimasto fuori. Ma, soprattutto, Buzzi decide che Un Sorriso non debba più neanche provarci a partecipare alle gare.
L’UOMO SOTTO CASA
«Nel 2010 — prosegue Gabriella — Coltellacci venne arrestato per una storia di stupefacenti. E pensai che l’incubo fosse finito. Invece, neppure due anni dopo, lo rividi in giro. Lo avevano messo a scontare la pena ai domiciliari presso la sede della sua coop. E tutto ricominciò come prima ». Coltellacci torna infatti ad affrontarla: «Mi sono fatto la galera per colpa tua», ringhia. E la scorsa estate diventa quella della resa dei conti. È luglio, e Un sorriso si è azzardato a presentare una manifestazione di interesse per i servizi di guardiania e pulizia dei residence per i senza dimora. Buzzi chiama la Errico. «Mi disse: “Questa è roba nostra. Non devi metterti in mezzo”. Capii la musica. E lo rassicurai: “Va bene, ritiro la mia manifestazione di interesse”. Ma lui insistette e, qualche giorno dopo, mi disse che c’era una persona che doveva incontrarmi sotto casa mia. Si presentò un ragazzo giovane, i capelli lunghi, su una Fiat 500. Che mi ripeté quello che mi aveva detto Buzzi. Gli spiegai che avevo già preso un impegno a ritirarmi. E lui disse che aveva bisogno di vedermelo dire di persona. Risalii a casa sconvolta. E provai a ritirarmi. Ma un funzionario per bene del Comune mi disse che non se ne parlava neppure».
Arrivarono quindi l’autunno e le notti di Tor Sapienza.

La Stampa 11.12.14
Tangenti, la prescrizione divide il governo
di Amedeo La Mattina


Il Consiglio dei ministri è stato rinviato a domani per gli impegni di Renzi oggi in Turchia e del ministro della Giustizia Orlando a Bruxelles. Ma domani arriverà il giro di vite anti-corruzione promesso dal premier dopo l’inchiesta romana. Sarà, almeno nelle intenzione del governo, una mazzata.
La proposta del Pd
In un primo momento era stata presa in considerazione l’idea di ricorrere al decreto legge: rilievi di carattere costituzionale hanno consigliato di lavorare a un disegno di legge che il Pd vorrebbe mettere «in mani sicure», assegnandolo alla commissione Giustizia della Camera presieduta da Donatella Ferranti.
Ncd vuole invece che il provvedimento vada al Senato per avere più margini di discussione e di valutazione. Come sostiene Fabrizio Cicchitto, «non è saggio legiferare sulla base dell’onda emotiva suscitata dai gravissimi fatti romani». È la prescrizione il nervo scoperto. Infatti sempre Cicchitto afferma che «è assolutamente necessario accelerare i processi e non allungare i tempi».
L’entità delle pene
Nel ddl si va proprio nella direzione opposta. Intanto le pene per il reato di corruzione dovrebbero aumentare da un minimo di 6 a un massimo di 10 o 12 anni di carcere (attualmente è di 4 a 6 anni). In questo modo, anche patteggiando, si va in galera. Allungando la pena massima, di conseguenza anche i tempi della prescrizione si dilatano: così difficilmente i processi andrebbero in prescrizione. Patteggiamento: chi confessa restituisce non solo la somma concordata con il Pm, ma la sentenza diventa titolo per aggredire il patrimonio del corrotto fino alla somma accertata.
«La strada maestra - spiega Orlando - è aggredire il patrimonio: è più efficace della detenzione». La filosofia infatti è colpire i beni frutto della corruzione come avviene per la mafia. Con le nuove norme il corrotto dovrà dimostrare la provenienza dei soldi che giustificano il suo tenore di vita. Se non lo dimostra scatta la confisca.
I dubbi di Ncd
Ncd è cauta. A parte Cicchitto, Alfano e il viceministro della Giustizia, Costa, non si sbilanciano, vogliono prima vedere il testo scritto. «Ci sarà un accordo equilibrato», dicono. Sarà però difficile dire di no a drastiche misure di contrasto di fronte a un’opinione pubblica scossa dall’ennesimo malaffare che colpisce la politica. Forza Italia sicuramente si opporrà all’allungamento della prescrizione. «La reattività del premier alle gravi vicenda romane è tipica di chi va sopra le righe per nascondere i propri torti e i propri errori», fa notare Osvaldo Napoli. Diverso l’atteggiamento dei Fratelli d’Italia che non sono contrari all’aumento delle pene. Tuttavia non pensano che questo possa bastare. Dice Ignazio La Russa: «Le misure di Renzi sono un pannicello caldo. Andrebbe cambiato l’intero sistema dei rapporti tra pubblica amministrazione e imprese, cominciando a rivedere le agevolazioni delle cooperative».
Più drastico Nicola Molteni della Lega. «Fa sorridere Renzi che vuole usare il pugno di ferro dopo che per anni la sinistra ha fatto gli svuota-carceri e depenalizzato i reati finanziari. Forse mentre succedeva tutto questo Renzi era impegnato a twittare o fare dei selfie».

La Stampa 11.12.14
Da Ama ad Atac la prescrizione può salvare molti imputati
di Guido Ruotolo


Le sabbie mobili della prescrizione sono pronte a inghiottire scandali e imputati. A trasferirli in quel limbo dove tutto si dimentica. A riportare piazzale Clodio a quel porto delle nebbie di infausta memoria. Proprio oggi che la Procura con Giuseppe Pignatone conosce la sua «primavera», rischia l’impunità una costola di quel sistema di potere interfaccia di «Mafia capitale», l’organizzazione mafiosa dell’ex terrorista nero Massimo Carminati.
Sette anni e sei mesi
Che brutta bestia, la prescrizione. In un tavolo di poker è il classico mazzo di carte truccato che fa vincere sempre il banco, l’imputato. Nel nostro caso, sette anni e mezzo è la cifra, il punto di non ritorno, il confine superato il quale l’imputato, innocente o colpevole che sia, vince. Corruzione, uno dei reati più odiosi e più impunito ne è un esempio. Ma anche abuso d’ufficio, falso, violazione della legge Biagi. Sono questi ultimi i reati contestati nel nostro caso. Questa storia, che rischia di finire nel limbo dei graziati e degli impuniti, risale alla metà del dicembre 2010 quando esplose la Parentopoli targata Alemanno.
Duemila assunzioni di raccomandati, amanti, parenti, figli, mogli, segretarie all’Ama, quella che si occupa dei rifiuti, e all’Atac, azienda dei trasporti pubblici. Roba da basso impero, da bagordi del Ventennio che non c’è più. Imputato eccellente l’allora amministratore delegato di Ama, Franco Panzironi, della scuderia Alemanno, pardon della squadra del sindaco. Indagato per aver pilotato centinaia di assunzioni tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009. Ecco, prima della fine del 2017 il processo deve concludersi, anche con la decisione finale della Cassazione, pena la prescrizione, il colpo di spugna, la grazia per gli imputati.
I tempi
A oggi, siamo al dibattimento inoltrato del primo grado. Gli imputati sono otto, manager e funzionari di Ama, e la prescrizione è in agguato, per l’Appello. Mentre per lo scandalo dell’Atac, 49 assunzioni pilotate documentate, 8 imputati, amministratori delegati e dirigenti di Trambus, Metro spa, e Marco Visconti, assessore all’Ambiente della giunta Alemanno, (i fatti si riferiscono al 2010) nel gennaio prossimo il gip dovrebbe fissare il dibattimento. Siamo a un rischio ancora più concreto di prescrizione.
Franco Panzironi è stato arrestato nell’ambito di Mafia capitale per tutti gli appalti fatti vincere alle cooperative di Salvatore Buzzi: «Assegnazione della raccolta differenziata e dei lavori relativi alla raccolta delle foglie per il Comune di Roma; assegnazione di lavori per 5 milioni non ancora individuato».
Le cifre
Per questi «servigi», Franco Panzironi si era garantito uno stipendio di 15 mila euro al mese e 120.000 euro, pari al 2.5% del valore di un appalto. Mente raffinata, Panzironi, che per i camerati, per gli amici si fa in quattro. Dovrebbero essere 841 le assunzioni pilotate per chiamata diretta tra il 2008 e il 2009 di autisti, operatori ecologici, interratori. E poi 41 “privilegiati”, assunti addirittura retrodatando i contratti a prima dell’entrata in vigore della legge Brunetta.
Tra gli assunti c’è l’ex camerata Stefano Andrini, amministratore delegato ad Ama Servizi ambiente, l’ex Nar Francesco Bianco (che finisce all’Atac), la figlia del capo scorta del sindaco Alemanno. All’Atac le cronache ricordano che fu assunta la cubista Giulia Pellegrino, moglie dell’assessore Visconti.

La Stampa 11.12.14
Governo battuto dalle minoranze
Passano in commissione due emendamenti di Sel e sinistra Pd: no ai senatori a vita Renziani infuriati: “Falsi amici”. D’Attorre minimizza: “Solo una questione tecnica”
di Paolo Festuccia


C’è chi parla di un «semplice» voto tecnico, chi lo considera un segnale politico destabilizzante. E chi, per questa ragione, evoca subito le elezioni. Nel mezzo il difficile percorso delle riforme costituzionali, così care al Capo dello Stato, e l’improvviso stop in Commissione affari costituzionali al governo. Tema, il disegno di legge sul Senato e i rischi, peraltro da tempo paventati, di possibili saldature trasversali delle minoranze per rendere il cammino dei cambiamenti fortemente accidentato. E qui, cominciano le noti dolenti: che si aprono con gli attriti interni al partito di Renzi, e crescono «pescando» i malumori e le tensioni nelle sabbie sempre più mobili di Forza italia pur di far scricchiolare, ogni settimana di più, il patto del Nazzareno. Insomma, se si saldano le trasversalità parlamentari e si contano i numeri nelle commissioni, dal frondista Bianconi (Fi) alla minoranza Dem, fino a Sel, Lega e Cinquestelle il risultato prodotto è il doppio «tonfo» dell’esecutivo guidato da Renzi. Due soli voti di differenza, 22 contro 20, in due emendamenti simili (uno di Sel l’altro della minoranza Dem) che eliminano dal provvedimento i cinque senatori a vita di nomina quirinalizia che restano in carica sette anni.
Le reazioni
Ora, se tutto accade per «colpa del patto del Nazareno, che rappresenta la morte della democrazia» per dirla come la pensa il parlamentare azzurro, Bianconi, o solo per semplici «questioni tecniche su cui c’era una larghissima condivisione» come chiarisce D’Attorre, lo si comprenderà «meglio in aula» accenna la ministra Maria Elena Boschi («è lì che si trae il dato politico») ma comunque sia, per il parlamentare Pd Emanuele Fiano, «in politica, all’interno di un partito, non si manda mai sotto il governo e il suo capogruppo».
Da qui l’ira degli esponenti più vicini al capo del governo contro le minoranze parlamentari a cominciare da quella più agguerrita, ovvero dal fuoco amico. Tant’è che Roberto Giachetti tuona contro «quei frammenti di minoranza che si uniscono», con l’unico obiettivo, «di impallinare il governo». E conclude, «con amici così a che servono i nemici? Elezioni subito». Netta, però, la risposta del bersaniano Alfredo D’Attorre: «Se Giachetti pensa di intimidire qualcuno ventilando il voto sbaglia completamente». La miccia, dunque, è accesa anche se in serata Renzi frena i suoi. La sensazione, però, tra gli esponenti più vicini al premier è che cresca tra le file della minoranza il partito della scissione.
C’è chi parla di un «semplice» voto tecnico, chi lo considera un segnale politico destabilizzante. E chi, per questa ragione, evoca subito le elezioni. Nel mezzo il difficile percorso delle riforme costituzionali, così care al Capo dello Stato, e l’improvviso stop in Commissione affari costituzionali al governo. Tema, il disegno di legge sul Senato e i rischi, peraltro da tempo paventati, di possibili saldature trasversali delle minoranze per rendere il cammino dei cambiamenti fortemente accidentato. E qui, cominciano le noti dolenti: che si aprono con gli attriti interni al partito di Renzi, e crescono «pescando» i malumori e le tensioni nelle sabbie sempre più mobili di Forza italia pur di far scricchiolare, ogni settimana di più, il patto del Nazzareno. Insomma, se si saldano le trasversalità parlamentari e si contano i numeri nelle commissioni, dal frondista Bianconi (Fi) alla minoranza Dem, fino a Sel, Lega e Cinquestelle il risultato prodotto è il doppio «tonfo» dell’esecutivo guidato da Renzi. Due soli voti di differenza, 22 contro 20, in due emendamenti simili (uno di Sel l’altro della minoranza Dem) che eliminano dal provvedimento i cinque senatori a vita di nomina quirinalizia che restano in carica sette anni.
Le reazioni
Ora, se tutto accade per «colpa del patto del Nazareno, che rappresenta la morte della democrazia» per dirla come la pensa il parlamentare azzurro, Bianconi, o solo per semplici «questioni tecniche su cui c’era una larghissima condivisione» come chiarisce D’Attorre, lo si comprenderà «meglio in aula» accenna la ministra Maria Elena Boschi («è lì che si trae il dato politico») ma comunque sia, per il parlamentare Pd Emanuele Fiano, «in politica, all’interno di un partito, non si manda mai sotto il governo e il suo capogruppo».
Da qui l’ira degli esponenti più vicini al capo del governo contro le minoranze parlamentari a cominciare da quella più agguerrita, ovvero dal fuoco amico. Tant’è che Roberto Giachetti tuona contro «quei frammenti di minoranza che si uniscono», con l’unico obiettivo, «di impallinare il governo». E conclude, «con amici così a che servono i nemici? Elezioni subito». Netta, però, la risposta del bersaniano Alfredo D’Attorre: «Se Giachetti pensa di intimidire qualcuno ventilando il voto sbaglia completamente». La miccia, dunque, è accesa anche se in serata Renzi frena i suoi. La sensazione, però, tra gli esponenti più vicini al premier è che cresca tra le file della minoranza il partito della scissione.

Corriere 11.12.14
Una guerra sui tempi per frenare il premier
di Massimo Franco


Lo scontro è tutto sui tempi. E più il governo mostra di volerli stringere, per arrivare a fine anno con un primo sì alla riforma elettorale in Senato, più si moltiplicano i segnali conflittuali degli avversari. L’approvazione ieri alla Camera di un emendamento che elimina i senatori a vita di nomina del Quirinale è stato votato da M5S, Lega, minoranza del Pd e un berlusconiano; umiliando la maggioranza.
C’è chi l’ha subito letta come una sorta di ritorsione politica contro il partito del premier, che al Senato ha evocato il ritorno alla legge Mattarella del 1993: un sistema elettorale temuto da tutti meno che dal Pd, e indicato da Palazzo Chigi come una soluzione-ponte in attesa dell’approvazione dell’Italicum.
Ma per forza di cose, l’episodio diventa anche l’ennesima prova della faida contro il patto del Nazareno tra premier e Silvio Berlusconi; e delle difficoltà in vista delle elezioni per il Quirinale. Matteo Renzi ha un’ulteriore conferma di una fronda parlamentare pronta a boicottare Palazzo Chigi; e soprattutto decisa a far slittare l’Italicum a dopo la battaglia sul prossimo capo dello Stato, d’intesa con FI.
È un «fuoco amico» che fa chiedere al vicepresidente della Camera Roberto Giachetti «elezioni anticipate». Episodi come quello dei senatori a vita di ieri, però, sembrano fatti proprio per scansarle.
«Pensano di intimidirci mandandoci sotto per far vedere che esistono: a costo di votare con Grillo e Salvini», li accusa Renzi. Sa che l'obiettivo è di sabotare il percorso rapido ipotizzato da Palazzo Chigi; e spostare più in avanti possibile il perfezionamento di una nuova legge elettorale che consentirebbe a Renzi di andare alle urne: nonostante il premier smentisca questa intenzione col vicesegretario Lorenzo Guerini.
La riesumazione del Mattarellum suona come un’arma di pressione su Silvio Berlusconi, perché si pieghi all’Italicum rivisto e corretto da Partito democratico e Nuovo centrodestra.
Se davvero fosse quella la soluzione, «farei un applauso scrosciante», ammette l’ex segretario Pier Luigi Bersani. Ma è un favore che difficilmente il Pd otterrà: lo proietterebbe verso una vittoria quasi certa. E Renzi spera che alla fine Berlusconi opti per l’Italicum come male minore. Il problema è quando.
È verosimile che Napolitano si dimetta tra il 15 e il 20 gennaio, dopo che il premier avrà ufficializzato la fine del semestre di presidenza italiana dell’Europa.
Vorrebbe dire concedere al governo altre due settimane per approvare la legge elettorale.
Le resistenze sono trasversali. Ed è da ritenersi che aumenteranno. Sulle riforme si scaricano le lotte di potere dentro FI, le velleità della minoranza del Pd contro Renzi, e le incognite dell’inchiesta giudiziaria al Comune di Roma e alla Regione Lazio: tutto nella cornice della tenuta economica dell’Italia. Su questo sfondo prosperano le «cieche contrapposizioni» additate da Napolitano; e un’antipolitica che sparge paura e veleni a piene mani.

il Fatto 11.12.14
Renzi messo all’angolo minaccia il voto a maggio
Il governo va sotto in Commissione alla Camera sulle riforme
A Palazzo Madama gli uomini del premier tirano fuori il Mattarellum
di Wanda Marra


Il governo va sotto in Commissione Affari Costituzionali alla Camera. Più o meno in contemporanea in Senato i renziani tirano fuori sia il Mattarellum che un election day a maggio. La giornata di ieri va avanti così: tra agguati, avvertimenti, ricatti e minacce che si incrociano. Matteo Renzi è in difficoltà su multipli fronti, il patto del Nazareno non gode di buona salute, le riforme sono impantanate. E il voto anticipato sembra di nuovo dietro l’angolo.
“Non votate, non votate. Così andiamo sotto”. Andrea Giorgis, l’uomo della minoranza nelle vesti di mediatore in Commissione Affari costituzionali della Camera, intravisto l’incidente prova ad evitarlo così. “Noi votiamo lo stesso”, vanno avanti a testa bassa Bindi e Cuperlo. La minoranza dem, insieme a Sel, Lega, Cinque Stelle, e soprattutto Maurizio Bianconi di Forza Italia dice sì compatta a due emendamenti al disegno di legge sulle riforme che cancellano dal testo i 5 senatori di nomina del Capo dello Stato. Governo battuto 22 a 20. E in più su una questione che fa parte dell’articolo 2, quello che riguarda la composizione del Senato delle autonomie. Nodo cruciale, sul quale il dibattito va avanti da giorni. Se la modifica viene confermata dall’Aula della Camera, il Senato deve intervenire di nuovo a voto segreto. Non a caso il vicesegretario, Lorenzo Guerini chiederà conto a Roberto Speranza di perché non ha controllato la minoranza, dopo che entrambi si erano fatti garanti di un accordo di non belligeranza.
IL CERCHIO si stringe intorno a Renzi, tra un Parlamento che non controlla, l’inchiesta Mafia Capitale che mette in luce la corruzione nel Pd di cui lui è segretario ormai da un anno, le cene di fundraising avvolte nell’opacità, l’Europa che lo bacchetta, l’economia che non riparte. E le dimissioni di Napolitano, il quale mentre gli chiude la possibilità di andare a votare subito, gli dà del “banditore di smisurate speranze”.
Ogni giorno che passa per Renzi è un giorno di logoramento in più. I sondaggi calano, gli investitori stranieri guardano con sospetto a quello che sta succedendo a Roma. “Se fosse per me, andrei a votare domani mattina”, confessa un renzianissimo deputato, traducendo l’opinione di molti. Il vice presidente della Camera, Roberto Giachetti lo twitta: “I frammenti di minoranza finalmente si uniscono. Obiettivo impallinare il governo. Elezioni subito”.
In Commissione Affari Costituzionali al Senato, ieri i renziani Marcucci, Collina e Verducci presentano un emendamento con la clausola di salvaguardia annunciata da Renzi. E soprattutto con il ritorno al Mattarellum: “L’Italicum entra in vigore dal 1° gennaio 2016. Nel periodo transitorio dall’approvazione della legge elettorale alla sua effettiva validità, viene ripristinato il Mattarellum”. Il sistema che
B. odia. Non a caso l’incidente a Montecitorio da molti viene visto come una rivalsa di un pezzo di Fi, cavalcato dalla minoranza Pd. “Un modo per chiarire a Berlusconi che se ci frena sull’Italicum, nessuno può pensare di andare al voto con il Consultellum”, spiegano i renziani di Palazzo Madama. Un avvertimento? Non solo. “Il Mattarellum? Lo facciamo subito”, spiegano gli uomini del presidente. Puntando ai voti di M5s e sperando di ricompattare la minoranza, Renzi punta a portare a casa la legge elettorale in Commissione in Senato prima di Natale. E poi, approvarla alla Camera prima delle dimissioni del Presidente. Una speranza, un azzardo. I fautori del Consultellum, che sono molti, anche nel Pd, potrebbero fermare definitivamente le riforme tutte. A svelare i piani del premier è un emendamento a Palazzo Madama presentato dal fedelissimo Marcucci per il turno unico tra regionali e comunali a maggio: obiettivo dichiarato, risparmiare 150 milioni di euro. Però, ecco servito l’election day.
SE RENZI riesce a farsi eleggere un Presidente disposto a sciogliere rapidamente le Camere, a marzo si fanno i bilanci. Tutti “se”. “Pensano di intimidirci, ma non mi conoscono: credono di mandarci sotto per far vedere che esistono, anche a costo di votare con Grillo e Salvini”, dice il premier ai suoi. È nero verso la minoranza: “Non vale la pena di arrabbiarsi andiamo avanti, c’è un Paese da cambiare. Oggi abbiamo lavorato sull’Ilva, altri preferiscono giochetti parlamentari”. Nella sua strategia di controffensiva c’è il pacchetto di misure anti corruzione (il Cdm deputato però è stato già spostato da oggi a domani). Ma intanto Calderoli si fa vedere mentre trasporta 10.500 emendamenti all’Italicum su tre carrelli. La minoranza dem ha i suoi. La strategia è una cosa, la realizzazione un’altra. “Se vuole il Mattarellum, tolga di mezzo l’Italicum e io sono d’accordo. Così no”, chiarisce la Bindi. Posizione condivisa da molti. “Il voto? Un uomo di governo non scappa dalle sue responsabilità”. Le critiche aumentano. Come quella universale, di renziani e non: “Matteo si è isolato troppo. Deve venire a patti. Il vento è cambiato, se vuole andare avanti deve mettersi d’accordo con il Parlamento”.

Repubblica 11.12.14
Matteo sfida il fuoco amico: se si va alle urne, tanti ribelli resteranno fuori dalle Camere
di Goffredo De Marchis


La strategia anti-dissidenti, anti-gufi, anti-rosiconi è mostrarli come tali, spiega Renzi. «Conoscevamo il rischio di finire sotto in commissione su un emendamento tra l’altro marginale. Lo abbiamo corso. Votano contro il governo? Benissimo. Poi si va in aula e vediamo come finisce. Io sono sicuro che finisce come il Jobs Act». Come dire: la legge passa, i critici si dividono e certificano la loro impotenza. Alle manovre delle minoranze di Pd e Forza Italia il premier dunque reagisce con la sfrontatezza dei primi mesi da leader. «Noi le riforme, quella elettorale e quella costituzionale, le portiamo a casa. Tutt’e due. E se non è così i parlamentari sanno bene qual è la via d’uscita: le elezioni. Molti di loro perderanno il posto». Anche a questo serve la minaccia del Mattarellum come clausola di salvaguardia “pronto uso” in caso di caduta dell’esecutivo da sostituire all’Italicum che viaggia invece sulle montagne russe del Senato.
I renziani sono sul piede di guerra. Parlano di «agguato studiato a tavolino», rilanciano il voto anticipato con il vecchio sistema di voto precedente il Porcellum, dove le liste dei collegi le fa il segretario e come dice Renzi «molti se non tutti perdono la poltrona». É un fronte largo nella componente dell’ex sindaco, che da sempre gli sussurra nell’orecchio “non possiamo andare avanti così”. «Avevamo fatto un accordo con tutte le correnti. Non si vota contro il capogruppo invece lo hanno fatto», ricorda Emanuele Fiano. Renzi frena ma la carta del voto ce l’ha sempre in tasca e lo confermano le parole di Maria Elena Boschi sulla soluzione Mattarellum. «Io penso che i ribelli vogliano solo un po’ di visibilità — spiega in privato il premier — . Non a caso hanno scelto di opporsi su un tema minore come quello dei senatori a vita e non sulle basi del provvedimento». Tra l’altro a Palazzo Chigi fanno sapere che neanche a Renzi e al ministro Boschi piaceva granchè l’idea di affiancare membri di nomina presidenziale ai consiglieri regionali. «Finchè i problemi sono questi, non mi arrabbio», dice il premier ai suoi collaboratori. Ma la situazione resta tesissima.
Il 16 dicembre avremo la prova del nove della sicurezza renziana, al momento in cui dopo una corsa in commissione, la riforma costituzionale approderà nell’aula di Montecitorio. Ma i contraccolpi del voto di ieri sono comunque tenuti in considerazione nelle stanze del premier. C’è il riflesso sul voto per il nuovo capo dello Stato e una saldatura delle minoranze democratiche e forziste può sballare perfino accordi blindati sulla scia del patto del Nazareno. Per questo Renzi e i suoi allontanano il collegamento: «Non ci sarà alcun nesso tra le riforme e il voto per il successore di Napolitano». Fidarsi è bene, però, non fidarsi è meglio. Il premier tiene sempre i contatti con i luogotenenti del patto del Nazareno Denis Verdini e Gianni Letta. «So che la minoranza di Forza Italia ha l’ordine di non saldarsi ai dissidenti del Pd, di non fare massa critica. Almeno sui punti fondamentali — racconta ai suoi interlocutori — . Per ora mi fido». L’asse con Berlusconi fondamentalmente tiene, i senatori a vita non lo incrinano più di tanto, sono convinti i renziani. «Semmai — dice Renzi — vedo crescere il partito della scissione nella minoranza dem. All’assemblea di domenica vogliono la resa dei conti? Sono pronto». La rabbia dei renziani con la tentazione del voto viene frenata dal premier. «Ma se tirano troppo la corda arriva la trojka. Avete visto quello che dice Juncker?». Sarebbe il colmo per una minoranza che chiede meno austerity e più crescita.
L’incrocio di date e scadenze, il vero e proprio ingorgo istituzionale non può essere sottovalutato. Alfredo D’Attorre lo dice chiaro: «L’accordo sul Quirinale dentro al Pd è tutto da costruire ». Il bersaniano si rivolge a Giachetti: «Non intimidisce nessuno con l’idea del voto. Mi fa rabbia sentirlo. Nessuno vuole conservare il posto. Il Mattarellum? Va benissimo, certo. Ma se diventa la legge definitiva, non come norma transitoria. Che senso ha?». Quando Renzi pensa al partito della scissione guarda all’atteggiamento in commissione di Gianni Cuperlo, Rosy Bindi e Giuseppe Lauricella, un’avanguardia della possibile spaccatura interna. A sentire Raffaele Fitto comunque il governo non deve guardarsi solo dai sommovimenti del Pd. L’avversario di Berlusconi dentro Forza Italia è convinto che il cammino delle riforme sarà ad ostacoli, che non finirà come il Jobs Act, che la partita del Quirinale diventerà una via crucis per il pattisti del Nazareno. «Quello che ha fatto Bianconi sui senatori a vita è l’antipasto di quello che succederà sull’Italicum al Senato», avverte l’ex governatore pugliese. E nella partita del Colle, con i franchi tiratori, conta più l’invisibilità della visibilità minimizzata da Renzi.

il Fatto 11.12.14
Ieri in lacrime per Craxi, oggi contro i ladri
di Pino Corrias


Tutti gagliardi, tutti furenti, tutti con il punto esclamativo incorporato contro i maledetti corrotti, i corruttori, i politici venduti, ci mancherebbe. E Renzi Matteo in prima fila, col petto in fuori: “Minimo 6 anni di pena per chi ruba!”. “Dovranno restituire tutto, fino all’ultimo centesimo!”. “Basta con la scappatoia della prescrizione!”. “Tolleranza zero!”. “Porte chiuse per sempre per i corrotti!” Peccato che basterebbe voltarsi di qualche mese, di qualche anno per riascoltare l’empatica dolcezza con cui il presidente Giorgio Napolitano rimembrava la “durezza senza eguali” usata dai giudici contro il suo amico Bettino Craxi, corrotto in un sistema un po’ più articolato di quello messo in piedi dal signor Carminati. E di come certe indagini avessero spostato “i rapporti tra politica e giustizia”. Anzi: “bruscamente spostato”. Ma non per colpa della politica, guai a chi lo pensa. Renzi ora tuona l’esatto contrario. Ma senza curarsi del corto circuito con cui si sta bruciando la faccia e i pollici. Perché strilla come se fossimo noi che lo ascoltiamo le mammole da rieducare e non lui che con Silvio Berlusconi, il corrotto, apre le porte, anzi le spalanca. E scrive le riforme.

il Fatto 11.12.14
La battaglia di emendamenti di Calderoli e Dem


La minoranza Pd torna alla carica sugli 80 euro. Ieri i senatori civatiani Ricchiuti, Lo Giudice, Casson e Mineo hanno presentato un emendamento alla legge di stabilità per riscrivere la norma sul bonus, lo stesso che il cuperliano Stefano Fassina presentò senza esito alla Camera . Il testo prevede l’erogazione di 80 euro per i lavoratori dipendenti appartenenti a nuclei familiari con Isee (l’indicatore della situazione economica) sotto i 15mila euro, e un mini bonus da 40 euro per i nuclei con Isee compresi tra i 15 e i 16mila euro. Sempre in tema di opposizione , la mossa del leghista Calderoli, che ieri pomeriggio si è presentato in Senato portando materialmente tutti i 10.500 emendamenti del Carroccio alla riforma della legge elettorale, in discussione presso la commissione Affari Costituzionale.

il Fatto 11.12.14
Ugo Sposetti e il 2xmille ai partiti
“Così il Nazareno non sopravvive”


”Il Partito democratico non sopravvivrebbe con il solo 2 per mille”. Lo ha detto ai microfoni di Sky Tg24 il senatore Pd Ugo Sposetti, ex tesoriere dei Ds, confermando intorno ai 300mila euro l’ammontare delle donazioni destinate dagli italiani ai partiti nelle dichiarazioni dei redditi del 2014, dopo la riforma dei rimborsi voluta dal governo di Enrico Letta e licenziata dalla Camera lo scorso febbraio. “Io consiglio di rivedere la posizione politica del mio partito” ha spiegato ancora Sposetti a proposito delle nuove regole di finanziamento ai partiti, che escluderanno dal 2017 i rimborsi elettorali con fondi pubblici per le forze politiche. “Sono stato contro la cancellazione dei finanziamenti pubblici in periodi in cui era difficile sostenere questa posizione. Sono convinto - ha concluso - che bisogna ritornare al finanziamento pubblico dei partiti. Non porta bene a un Paese democratico lisciare il pelo all’antipolitica e al populismo”.

il Fatto 11.12.14
Visti in tv
Salvate il soldato Sandro Gozi

Sempre più spesso a rappresentare il pd renziano nei talk show c’è Sandro Gozi, sottosegretario agli Esteri. Personaggio per nulla memorabile se non fosse che sembra sempre uscito da una lunga seduta di maquillage, abbronzatura e lucido per labbra tutto compreso. Ma l’altra sera, in quel di Ballarò, vedendolo appassire nell’attesa che Massimo Giannini gli consentisse di aprire bocca il nostro cuore palpitava per lui soprattutto quando in un soprassalto di dignità ha protestato con il conduttore dicendo: “Se sapevo che avrei aspettato un’ora e mezza mi sarei visto la Juventus...” (anche se avrebbe rischiato anche lì di addormentarsi). Ma quando finalmente ha potuto dilungarsi sui prodigi (peraltro invisibili ai più) del governo Renzi mal gliene incolse perché subito ha dovuto fronteggiare i soci imbufaliti di un patronato a cui il prodigioso governo ha tagliato i fondi. È stato allora che sul viso metallizzato del povero Gozi è apparsa qualche preoccupante crepa e abbiamo di nuovo sofferto pensando al prodigarsi di stuccatori e verniciatori reso vano da tanta insolenza.

il Fatto 11.12.14
Illeciti contabili. Un danno erariale da 420mila euro
La Corte dei Conti cita il ministro Giannini
di Emiliano Liuzzi


La citazione a giudizio è questione di ore. Il ministro dell’Istruzione e dell’università Stefania Giannini non l’ha ancora ricevuta, ma i magistrati della Corte dei conti di Perugia hanno finito i loro accertamenti. Ci sono i soldi spesi attraverso “atti privi di logica, fondamento e ragionevolezza”, scrivono nero su bianco. E tutto il periodo in cui era rettore dell’Università per stranieri del capoluogo umbro è segnato da una serie di vicende poco chiare, su cui i magistrati contabili vogliono far luce.
Il danno erariale è accertato, poi ci sono episodi, come quello dell’incarico dato al suo architetto di fiducia per restaurare l’ateneo, che non sono ancora stati chiariti. La ricostruzione, come già avevamo spiegato nei giorni scorsi, è molto semplice: il ministro, senza chiedere il parere del cda, nel 2005 decide di affidare la consulenza a un architetto di Lucca, Luigi Puccetti, che è lo stesso professionista utilizzato per ristrutturare la bellissima villa al mare, Marina di Pietrasanta, comune toscano in provincia di Lucca, che Giannini aveva appena fatto ristrutturare. Un attestato di stima, certo, ma che di fatto si traduce in un conflitto d'interessi, come venne sollevato da alcuni membri del cda al momento dell’incarico. Inoltre - ma questo non è lavoro da magistrati – Giannini lascia il rettorato con un’università in piena crisi, con un calo drastico di iscritti, un buco in bilancio da quasi due milioni di euro e un futuro che non la dice buona.
PER IL MOMENTO la Corte dei conti ha quantificato il danno erariale in 420mila euro, ma l’indagine potrebbe, per una serie di aspetti, non essere chiusa. E toccare altre vicende sempre legate all’attuale ministro dell’Istruzione del governo Renzi. Come quello dell'acquisto di un edificio a due milioni e mezzo di euro, che l’Università di Perugia decise di prendere dalla Provincia e che, ancora oggi, è un santuario nel deserto, una struttura abbandonata. Non serviva a niente allora e tantomeno serve oggi, visto che non è ben chiaro a cosa volessero destinarlo, lei e il cda che guidava, al momento dell’acquisto. Come se non bastasse poi c’è una lunga serie di spese per conferire lauree onorarie, insieme a conferenze che venivano pagate, ai vari ospiti, a prezzi - dicono alcuni docenti - “decisamente fuori mercato”.
“Sono assolutamente serena e certa della bontà dell’operato mio e del Consiglio di amministrazione che all’epoca presiedevo”, ha detto il ministro. Per poi aggiungere, in una difesa assai particolare almeno dal punto di vista giuridico: “Mi preme sottolineare, tuttavia, che le iniziative legate all’istituzione di una scuola di alta formazione internazionale della cucina italiana sono state approvate collegialmente dal suddetto cda. In attesa poi di comunicazioni ufficiali da parte della Procura umbra della Corte dei conti, anticipo che ogni particolare sarà chiarito nelle sedi competenti”.
ALL’ORIGINE della vicenda, emersa a marzo di quest’anno, ci sono delibere del consiglio di amministrazione dell’ateneo, che risalgono al 2008, con le quali si è dato il via alla nascita della Scuola internazionale di cucina italiana. La sede si trovava in una proprietà dell’ateneo data a un affittuario, il quale però non ha mai pagato l’affitto.
Il progetto - spiegarono fonti ministeriali a marzo - in sostanza è morto, ma è rimasto aperto un contenzioso tra l’università di Perugia e l’affittuario, trattato dalla sede distrettuale dell’Avvocatura dello Stato, per il recupero delle somme dovute.

La Stampa 11.12.14
Franzoni e le altre, quando le madri uccidono
Dietro alle tragedie spesso ci sono storie di depressione e solitudine sconosciute
di Pierangelo Saprgno

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La Stampa 11.12.14
Starle accanto o dirle addio. I mariti davanti al dramma di mogli accusate dell’omicidio dei figli
Per David Stival «Se è stata lei può morire». Ma nelle cronache dei delitti ci sono stati maschi che hanno difeso le proprie donne. Gli psicologi li chiamano «uomini positivi»
di Maria Corbi

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il Fatto 11.12.14
Tsipras: non siamo Attila la Ue ci faccia respirare
Il partito del leader greco:
“Se Syriza andrà al governo, una nuova era contro le politiche neoliberiste europee. Vogliamo negoziare il debito”
di Roberta Zunini


Sono trecentomila le famiglie greche che non hanno più la luce elettrica in casa, altre hanno dovuto chiedere allo Stato di pagare il funerale a un proprio caro perché con i soldi delle esequie devono pagare il mutuo. La situazione finanziaria della Grecia è migliorata leggermente sotto il profilo macroeconomico ma non sotto quello microeconomico. La vita della maggioranza dei 10 milioni di greci è incerta e misera.
DOPO IL TERREMOTO politico di ieri, ad Atene sono arrivati anche i tecnici della Troika per controllare l’andamento del programma di risanamento dell’economia. Al centro dei controlli del gruppo c’è il buco di bilancio del 2015 che, secondo la Troika, supererebbe i due miliardi di euro mentre, stando ai conti del ministero delle Finanze greco, non sarebbe superiore ai 980 miliardi di euro. Al vaglio degli esperti c’è anche la questione dell’aumento delle aliquote Iva e la regolamentazione dei mutui e dei prestiti in rosso. Nel frattempo la Commissione Ue ha preso nota delle elezioni presidenziali anticipate in Grecia e spiega che questa scelta può aiutare a rimuovere le incertezze sui mercati. “È una decisione democratica delle autorità greche”, ha detto una portavoce della Commissione Ue, sottolineando che il candidato presentato dal premier Antonis Samaras, Stavros Dimas invia un “forte segnale all’Europa” in quanto si tratta di “un ex commissario Ue e un convinto europeo”.
BRUXELLES, ha aggiunto la portavoce, “non prende posizione” a favore o contro un candidato, “la scelta è nelle mani del Parlamento e del popolo greco”. Quel popolo greco che, se, come quasi sicuramente accadrà, sarà chiamato nel giro di un paio di mesi a votare per eleggere un nuovo parlamento, darà la maggior parte dei suoi voti al partito di sinistra Syriza, come accadde per le elezioni europee. Oggi Syriza è il primo partito greco, ma al governo c’è ancora la coalizione centrista e pro-memorandum formata dopo le consultazioni di due anni fa quando il partito di Alexis Tsipras, arrivò secondo per una manciata di voti. Tsipras, nei suoi recenti interventi all’estero ha ribadito che qualora diventerà premier, lavorerà per cambiare l’Europa, per farla diventare della solidarietà e non dell’austerità. “Non capiamo questo atteggiamento spaventato di Bruxelles. Tsipras non è Attila, non vuole distruggere l’Europa o far uscire la Grecia dall’Unione, intende invece fare in modo che cambi rotta”, dice al Fatto Vassilis Primikiris, uno dei suoi più stretti collaboratori. “Se Syriza andrà al governo - continua Primikiris, inizierà una nuova era contro le politiche neoliberiste europee. Come prima cosa tratteremo con i nostri creditori sul debito pubblico che noi non siamo in grado di onorare. Chiederemo che venga decurtato almeno del 60%. Secondo l'Europa forgiata dalla Germania il nostro governo dovrà invece continuare a tagliare gli stipendi, le pensioni e lo stato sociale. Se vinceremo noi invece faremo esattamente l’opposto: innalzamento dei salari, salario minimo, aiuti per gli affitti e lotta all’evasione”.
L’economista Nicholas Theocarakis, autore di saggi e docente di Storia delle dottrine economiche all’università di Atene, spiega che “le turbolenze di questi giorni si giustificano con il fatto che i mercati odiano l’incertezza che invece domina lo scenario politico ed economico di Atene”. E a proposito di Syriza dice: “Nel caso ci saranno nuove elezioni politiche alla fine di gennaio, le potrebbe vincere il partito di Tsipras ma poi dovrà trovare i voti per formare una maggioranza”. Insomma l’incertezza e la tensione sociale sono tornate altissime in tutto il Paese ma soprattutto nella capitale dove i parlamentari dei partiti di maggioranza si guardano bene dall’andare in giro per strada per non essere presi a pugni. Nella giornata di ieri è stato disinnescato un ordigno artigianale piazzato davanti a una banca in segno di solidarietà con un giovane anarchico incarcerato al quale era stata negata la possibilità di partecipare alle lezioni universitarie.

Repubblica 11.12.14
La corsa di Tsipras per convincere i mercati “Tagliateci il debito e l’euro non morirà”
Gli economisti della sinistra radicale incontrano i fondi a Londra per evitare il corto circuito spread e Borse a picco
Il piano: “Vogliamo uno sconto, come la Germania nel ‘52”
di Ettore Livini


ATENE «NON dovete aver paura di noi. Syriza non sarà la fine dell’euro. Sarà piuttosto la sua salvezza: se vinceremo alle elezioni greche, faremo decollare davvero il progetto di unione fiscale dell’Europa ». Il risultato (viste le fibrillazioni dei mercati di queste ore) non è stato finora quello sperato. Alexis Tsipras e il suo partito però hanno messo le mani avanti. E da qualche mese — turandosi un po’ il naso e spesso in incognito — battono in pellegrinaggio i templi della finanza mondiale per provare a spiegare il loro programma economico. «Non vogliamo uscire dall’euro e tornare a fare deficit», è il mantra tranquillizzante del numero uno della sinistra ellenica. Che nei giorni scorsi — sfidando i mal di pancia dell’ala radicale della sua formazione — ha spedito alla City di Londra i due consiglieri economici, Giorgios Stathakis e Yannis Milios, per incontrare investitori ed hedge fund. Obiettivo: spiegare cosa farà se uscirà vincitore dalle urne ed evitare il corto circuito (leggi spread in tilt e borse a picco) che potrebbe spingere Atene fuori dalla moneta unica.
Il tempo per spiegarsi ai mercati, in effetti, stringe. Il premier Antonis Samaras osserva con una punta di compiacimento il crollo della Borsa di Atene: «Syriza terrorizza i listini», ha chiosato commentando il meno 14 percento in due giorni. E intanto cerca porta a porta i 26 voti in più che gli servono per eleggere il suo candidato Stavros Dimas alla presidenza della Repubblica. Nessuno immagina che l’operazione vada in porto alle due prime “chiame” quando servirà una maggioranza di 200 seggi su 300 (contro i 154 del governo). L’esecutivo punta invece a ribaltare le previsioni il 29 dicembre, quando il quorum scenderà a 180 voti. Raccattando consensi tra gli indipendenti — più qualche voltagabbana dell’opposizione — preoccupati di perdere la poltrona in caso di voto anticipato. L’impresa di Samaras, dicono gli osservatori, è quasi disperata. A fine gennaio, a quel punto, la Grecia andrà alle urne. E il pallino — visti i sondaggi — finirà in mano a Tsipras, messo subito alla prova per rinegoziare entro fine febbraio, quando scadrà la “tutela” della Troika, un difficile accordo con i creditori per sbloccare l’ultima tranche da 7 miliardi di aiuti, necessari per rimborsare i bond in scadenza a marzo.
«Una cosa è certa: come primo passo chiederemo una conferenza internazionale per tagliare il nostro debito», ha spiegato secondo indiscrezioni Milios ai 35 banchieri incontrati a Londra. «Quelli in mano ai privati non li toccheremo», ha assicurato. A fare lo sconto («il 62% come quello garantito alla Germania nel 1952», dice una mail riservata girata dal fondo Capital ai suoi clienti dopo l’appuntamento) dovrebbero essere Bce, Ue ed Fmi che hanno in tasca 235 dei 310 miliardi di debito del paese. «La Troika dice che è impossibile — ha spiegato Milios — ma dicevano pure che non avrebbero salvato nazioni in crisi. E invece in 10 minuti nel 2010 hanno messo assieme il salvagente per la Grecia». La scommessa di Syriza è chiara: Bruxelles non può permettersi di far uscire Atene dall’euro. E alla fine, obtorto collo, consegnerà uno scalpo — anche simbolico — a Tsipras pur di evitare il collasso della moneta unica. La boccata d’ossigeno dalla Ue dovrebbe dare il “la” al piano di rilancio interno. Il leader della sinistra ellenica non vuole alimentare troppe aspettative: «Non sono Harry Potter!», ha detto con prudenza appena si è materializzato il rischio di elezioni anticipate. Sarà. Intanto ha messo nero su bianco un ambizioso programma destinato a cancellare molte riforme introdotte dalla Troika. Milios e Stathakis l’hanno illustrato alla City: elettricità gratuita e buoni pasto a 300mila famiglie povere, ripristino della tredicesima per i pensionati con meno di 700 euro al mese, rialzo da 5 a 12mila euro della fascia di reddito esentasse e da 586 a 751 euro al mese dello stipendio minimo. Più qualche miliardo di investimenti pubblici per creare posti di lavoro. Miele per le orecchie dei greci che hanno visto il loro potere d’acquisto crollare del 40% dal 2008 e la disoccupazione volare fino al 26%.
«Un libro dei sogni - dicono i critici - cui manca un dettaglio: dove trovano i soldi per finanziarlo ». Gli economisti di Syriza hanno provato a spiegarlo a Londra: qualche miliardo dal fondo di stabilità per le banche, 5 dai fondi strutturali Ue. Il resto con una tassa sugli immobili di lusso e «recuperando i 70 miliardi di evasione fiscale». «Io ho venduto tutti i titoli greci che avevo — confida uno dei gestori presenti all’incontro — non riesco a immaginare come Angela Merkel possa dare l’ok a questo disegno ». Politica e mercati però vedono il mondo con lenti differenti. Tispras sogna di smentirlo nei fatti. Sperando che per convincere la Cancelliera non serva la bacchetta di Harry Potter.

Repubblica 11.12.14
Colpito negli scontri muore un ministro palestinese e sale la tensione
Ziad Abu Ein stroncato da un infarto
Abu Mazen accusa Israele: barbarie dei militari
Vertice a Roma tra Kerry e Netanyahu
di Fabio Scuto


RAMALLAH «I can’t breathe», «non respiro», le sue ultime parole prima di crollare sul prato verde e soleggiato della valle di Turmusaya. È morto così Ziad Abu Ein, il ministro palestinese per gli insediamenti, stroncato da un infarto dopo essere stato colpito con un casco al petto e preso per la collottola da un soldato israeliano mentre con i duecento contadini che lo seguivano voleva piantare degli ulivi in quella terra confiscata agli agricoltori palestinesi, per consentire l’ampliamento dell’insediamento colonico di Adei Ad.
Era una delle tante manifestazioni di protesta che si svolgono ogni giorno nei Territori palestinesi occupati, per la distruzione di una fattoria, per l’acqua tagliata, per i frutteti distrutti, per la terra rubata. Proteste che finiscono invariabilmente per essere disperse dai venefici gas sparati dall’Esercito, granate assordanti e dalle pallottole di gomma. Proteste spontanee e quotidiane che segnalano il degrado della situazione in Cisgiordania, la continua erosione per mille motivi diversi, ma sempre giudicati validi dalle autorità israeliane, delle terre oggetto del negoziato di pace, quelle oltre la Linea Verde dove vivono ormai oltre 500 mila israeliani. E in questi insediamenti — nonostante le critiche interne e quelle internazionali — si continua a coduto struire creando una frizione continua con la popolazione araba residente.
Il timore adesso è che la morte del ministro palestinese inneschi un circuito di violenze in tutti i Territori occupati. Ziad Abu Ein è morto di infarto, probabilmente indotto dallo stress e dal pestaggio subito, come testimoniano le foto e le riprese della tv presente sul posto. L’esercito israeliano ha annunciato una sua inchiesta sull’acca- ma non basta per calmare gli animi. All’autopsia del ministro nell’ospedale di Ramallah dove è stato trasferito parteciperà anche un patologo israeliano e altri esperti forensi stanno arrivando dalla Giordania. Nella capitale “de facto” della Palestina la tensione è altissima. Il presidente Abu Mazen è rimasto profondamente colpito dall’accaduto — Abu Ein era un dirigente di vecchia data di Fatah — ed ha proclamato tre giorni di lutto nazionale. «Questa barbarie non può essere accettata », ha detto. Il presidente palestinese ha anche annunciato anche il blocco di tutti i contatti e del coordinamento di sicurezza con Israele. Dall’altra parte, l’esercito israeliano è stato messo in stato d’allerta per possibili manifestazioni e proteste anche a Gerusalemme.
Sul tavolo del premier uscente Benjamin Netanyahu, che sta combattendo per la sua sopravvivenza politica alle elezioni anticipate di marzo, sono piovute le richieste di Stati Uniti, Onu e dell’Ue di fare subito chiarezza sulle circostanze della morte del ministro palestinese. A loro si è unita anche l’Italia per voce del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Netanyahu ha anche un incontro con il capo della diplomazia Usa Kerry domenica a Roma, sul tavolo la prossima richiesta palestinese di riconoscimento al Consiglio di sicurezza Onu e la fine dell’occupazione della Cisgiordania entro il 2016.

La Stampa 11.12.14
Tensione in Cisgiordania, altri scontri a Hebron. E Israele aumenta la presenza dell’esercito
Ieri la morte del ministro Ziad Abu Ein dopo una colluttazione coi militari in un villaggio vicino Ramallah

qui

La Stampa 11.12.14
Israele, l’esercito pronto a entrare nei Territori
Tensione altissima dopo la morte di un ministro palestinese malmenato dai soldati a una manifestazione contro le colonie
di Maurizio Molinari


Il ministro palestinese Ziad Abu Ein muore nel villaggio di Turmus Aya, in Cisgiordania, dopo una colluttazione con i militari israeliani e Abu Mazen parla di «atto barbarico» ammonendo sulla reazione: «Ogni opzione è sul tavolo» inclusa la fine della cooperazione nel mantenimento della sicurezza. Turmus Aya è un villaggio fuori Ramallah dove circa 150 palestinesi si danno appuntamento per piantare olivi ad Adei Ad, un insediamento non autorizzato dal governo israeliano.
Fra i dimostranti c’è Abu Ein, 55 anni, ministro del governo palestinese incaricato di ostacolare «Insediamenti e Annessioni». Manifestanti e soldati vengono a contatto, la colluttazione è prolungata. Le immagini di SkyNews mostrano un militare con la mano sul collo del ministro, che gli grida: «Sei un cane». Le versioni a questo punto divergono. Un testimone palestinese, Abla Kook, sostiene che «il ministro è stato picchiato sul petto col fucile e con un elmetto» mentre il reporter israeliano Roy Sharon di «Channel 10» replica: «Ero lì vicino, non è stato picchiato dai militari».
Marcia per gli olivi
Reut Mor, del gruppo israeliano «Yesh Din» (C’è giustizia), parla di «marcia pacifica per piantare olivi ostacolata dai militari» e l’italiano Patrick Corsi - già ferito al petto dagli israeliani dieci giorni fa - conferma che «volevamo piantare olivi per solidarietà con i palestinesi». Dopo la colluttazione, il ministro si siede su una roccia, mostra segni di malessere e un’autoambulanza lo porta verso l’ospedale di Ramallah dove però arriva già senza vita.
La reazione del presidente palestinese è furente, parla di «morte causata dalle brutalità dei soldati», dichiara tre giorni di lutto nazionale e avverte: «Ogni reazione è possibile». Jibril Rajub, alto esponente di Al Fatah, assicura che «la cooperazione di sicurezza con Israele è sospesa».
Scontro ai check-point
Per scongiurare la rottura, Israele invia una raffica di messaggi a Ramallah: propone un’inchiesta congiunta, affianca suoi medici a quelli arabi nell’autopsia, e con il premier Netanyahu si appella ad Abu Mazen affinché «eviti di far precipitare le tensioni». Ma gli scontri iniziano, da Qalandya a Jilazun, l’esercito teme l’escalation e rafforza lo schieramento di truppe in Cisgiordania. Mentre Netanyahu fa sapere che lunedì sarà a Roma per incontrare il Segretario di Stato Usa Kerry e discutere come sbloccare il negoziato, per prevenire la risoluzione palestinese all’Onu sulla sovranità nel 2016.

Repubblica 11.12.14
Spike Lee.
Il grande regista parla delle violenze contro i neri. “Finalmente l’America s’indigna. Quando hanno assolto i poliziotti ho deciso di portare la protesta a Broadway”
“La cosa giusta oggi è scendere in piazza contro il razzismo”
di Anna Lombardi


Diciamo al mondo che il nostro Paese è il faro della libertà, e invece scopriamo di essere solo dei grandi ipocriti
La gente è stanca delle angherie della polizia. E non è un problema solo degli afroamericani, ma anche dei bianchi
La protesta e le immagini del video che Spike Lee ha postato su Instagram e Twitter confrontando le scene del suo “Fa’ la cosa giusta” con quelle reali dell’omicidio Garner

ROMA «Dopo aver saputo che il Grand Giurì aveva deciso di non incriminare il poliziotto che ha ucciso Eric Garner a Staten Island soffocandolo, sono sceso in piazza anch’io. E sa una cosa? Ora porterò la protesta a Broadway. Metterò in scena Fa’ la cosa giusta a teatro. È una storia ancora così rilevante...». Spike Lee, il regista afroamericano che con i suoi film ha affrontato più di ogni altro la questione delle tensioni razziali, è in Italia per partecipare all’incontro “Il gioco serio dell’arte”, ospite di Massimiliano Finazzer Flory. «In America per lavorare e studiare devi competere con i tanti che vogliono la stessa cosa. E c’è chi finisce per dire che gli ultimi arrivati sono diversi. Accadde nel 1963 quando i miei furono i primi afroamericani a trasferirsi a Cobble Hill, il quartiere italiano di Brooklyn. Accade ancora. C’è sempre qualcuno che dice “ci rubano il lavoro”: proprio come da voi in Italia. Per questo l’Immigration Act di Obama è così importante».
Eppure Obama ha perso le elezioni di Midterm. Oggi le tensioni razziali stanno accendendo l’America...
«La gente è stanca delle angherie della polizia. Stanca di un sistema colluso che dà sempre ragione a chi indossa la divisa. E questo non è un problema dei neri: gli indignati non hanno colore ».
Pochi giorni fa ha messo su Twitter un video dove accostava le scene della morte di Garner e quella del personaggio di Radio Raheem in Fa’ la cosa giusta . Sono passati 25 anni da quel film: è cambiato così poco?
«Venticinque anni fa non avevamo un presidente nero: oggi Obama sta riscrivendo la storia d’America. E il chockehold, il soffocamento che si vede nel film, è diventata illegale 22 anni fa. Per questo i fatti di Staten Island indignano anche di più» Più di cosa?Più di Ferguson?
«Il caso di Ferguson è gravissimo. E prima ancora quello di Trayvon Martin e gli altri casi in tutta l’America. La polizia prende di mira neri, latini: li considera criminali a priori. Ma se a Ferguson ci siamo basati sulle parole dei testimoni a Staten Island tutti abbiamo visto il video dell’assassinio di Garner. Un uomo disarmato che non era un criminale. Mi duole dirlo: se fosse stato bianco sarebbe ancora vivo».
E ora?
«Ora porterò Fa’ la cosa giusta a Broadway. Mia moglie diceva da tempo che il messaggio di quel film è ancora potente. Non le ho dato retta ma ora ho cambiato idea. Intanto lavoro a un nuovo film Sweet Blood of Jesus. Dove il sangue è un’allegoria».
La polemica sulle torture della Cia sta dividendo uteriormente l’America
«Diciamo al mondo che siamo il faro della libertà e invece siamo solo dei grandi ipocriti. E la stessa cosa con il razzismo».
Come ha reagito alla decisione del Grand Giurì?
«Stavo andando alla prima del film di Chris Rock, Top Five. È arrivata la notizia e... Chris è un amico ma non ero nel mood di far festa. Sono andato alla Cnn a commentare la notizia. Tornando ho incrociato la protesta. Ho preso la bici e mi sono unito a loro».
In piazza c’è poi tornato. Con suo figlio.
«Questi ragazzi sono straordinari. Giovanissimi, senza distinzione di razze. Quando avevo 16 anni c’erano Black Panthers, Weather Underground. Questi sono i nipotini e sono più democratici che mai. Hanno bloccato Manhattan, messo nel sacco la polizia, grazie ai social media. Prendono decisioni collettivamente. E questo, ai miei occhi, li rende potentissimi».
Fa’ la cosa giusta fu il film che gli Obama videro insieme al primo appuntamento. Ha contribuito a fare la storia...
«L’ho detto al presidente: se quella sera fossi andato a vedere A spasso con Daisy , che quell’anno vinse l’Oscar, non sarebbe finita così. Non si sarebbero sposati. È uno scherzo ma anche una cosa seria. Aver scelto quel film la dice lunga sulla storia che avrebbero fatto insieme».
Pensa che il cinema possa contribuire a cambiare le cose?
« Fa’ la cosa giusta è ispirata a una storia vera, l’omicidio di Michael Stewart nel 1983. All’epoca l’arte imitava la vita. Ora siamo al paradosso che la vita reale torna ad imitare il cinema. Sono tempi complicati. Obama fa molto ma i repubblicani bloccano ogni sua azione».
Cambierà questa America che Lei racconta da 30 anni?
«Sono ottimista: perché il futuro lo scriveranno questi ragazzi. Così diversi fra loro. Così determinati ».
REPTV-LAEFFE Alle 13.45 su RNews (canale 50 del digitale terrestre e 139 di Sky) il servizio

il Fatto 11.12.14
Il favoreggiamento europeo nei crimini della Cia
Nel rapporto del Senato Usa le responsabilità di diversi Paesi, tra cui l’Italia
che hanno consentito rapimenti e fornito dati sensibili
di Giampiero Gramaglia


Il rapporto sul ricorso alle torture dopo l’11 settembre 2001 precipita gli Stati Uniti in una tempesta di critiche e deprecazioni. Ma pure noi, mica ne usciamo bene: noi Italia e noi alleati dell’America, che, al tempo della guerra al terrorismo ‘stile Bush’, le abbiamo tenuto bordone non solo con truppe al fronte, ma con le famigerate renditions e il passaggio di informazioni riservate e infine chiudendo un occhio su quello che avveniva delle persone di fatto consegnate all’intelligence americana. Che aveva la licenza di torturare. A fare finta di non entrarci nulla, di non saperne niente, ci abbiamo già provato. Più d’una volta: nella vicenda di Abu Omar, l’imam egiziano rapito in Italia nel 2003, portato in Egitto e lì sottoposto al trattamento della Cia; oppure, dopo lo scandalo delle intercettazioni ‘a 360 gradi’ dell’intelligence statunitense, di cui ci siamo indignati e lamentati, prima che emergesse che vi avevamo contribuito. Per il ministro degli Esteri Gentiloni, in visita a Washington e a New York, il rapporto sui metodi della Cia fa “emergere una gravissima realtà”. Ma il ministro sottolinea che il presidente Obama aveva già “deciso di voltare pagina”: “la pubblicazione del rapporto ci dice molto su come funziona la democrazia statunitense ”, perché il documento “è un atto di auto-accusa e di trasparenza”. Però, “la trasparenza non riduce la condanna senza se e senza ma di pratiche inaccettabili”, perché non si può “scendere a compromessi al ribasso sui diritti umani: non è lecito torturare per evitare il rischio di attentati”.
CHE L’ITALIA e altri Paesi occidentali sentano d’avere un po’ la coda di paglia, in questa vicenda, lo prova il rafforzamento della sicurezza intorno a potenziali obiettivi del terrorismo integralista, anche se Roma non sarebbe fra le capitali che Washington ha messo in guardia. I jihadisti minacciano vendetta su twitter. Con l’America, sono critici tutti, Nazioni Unite, Gran Bretagna, Francia, Germania, tutti candidi come angioletti. Persino il presidente afghano Ashraf Ghani – da che pulpito! - si fa sentire. E i governi di Cina e Corea del Nord, regimi messi sotto accusa di continuo per violazioni dei diritti umani, ci vanno a nozze: “Gli Usa correggano il tiro”, è l’invito di Pechino. Pyongyang, invece, chiede la condanna di Washington al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. E Obama ha un bel ricordare che lui proibì le torture appena insediatosi alla Casa Bianca: neppure il suo record è immacolato, perché promise di chiudere Guantanamo e non l’ha mai fatto. C’è chi chiede di processare gli agenti implicati. C’è chi minaccia ritorsioni. In Polonia, la procura che indaga sull'esistenza di prigioni segrete della Cia nel Paese s’appresta a chiedere copia integrale del rapporto Usa. La Polonia è stata condannata dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo a risarcire due presunti terroristi confinati in uno di centri di detenzione ‘appaltati’ agli americani, Kiejkut, vicino a Szczytno. Nella scia delle rivelazioni del rapporto, la difesa di Khalid Sheikh Mohammed, “mente” degli attentati dell’11 settembre 2001, chiede che gli venga risparmiata la pena di morte: “Un’esecuzione vera e propria, dopo 183 finte esecuzioni, sarebbe una punizione crudele e inusitata”, sostiene l’avvocato David Nevin.

Corriere 11.12.14
Adriano Prosperi
«Le sevizie non servono: noi storici lo sapevamo»
di Antonio Carioti


La guerra asimmetrica contro combattenti irregolari evoca lo stato d’eccezione. E sollecita la pratica della tortura, nonostante la sua scarsa efficacia. Così Adriano Prosperi, storico dell’Inquisizione, spiega i fatti rivelati dal dossier del Senato Usa. «Nella tradizione cristiana — ricorda — la tortura degli imputati aveva anche una funzione purificatrice. La sofferenza era inflitta non solo per ottenere la prova della colpa, ma anche per sollecitare il pentimento. Oggi prevale una logica utilitaristica: pur di salvare persone innocenti, per un malinteso senso di responsabilità, si pensa che l’inquirente possa infierire su individui sospetti. Che fare, si chiede, se servono subito informazioni per impedire che una bomba esploda? Ma così si finisce su un terribile piano inclinato».
Peraltro la tortura è spesso inefficace. «Lo hanno sempre sottolineato i suoi critici e il rapporto americano lo conferma. I supplizi inducono a confessare colpe mai commesse o a rivelare circostanze inesistenti, che mettono gli investigatori su piste sbagliate. E poi ci sono soggetti che possono reggere ai tormenti e sfuggire alla punizione, anche se colpevoli».
Eppure la tortura continua ad essere praticata. «A partire dal Settecento viene vietata dalle leggi ed esce dal circuito giudiziario. Ma sussiste nella zona oscura determinata dal fatto che poteri molto vasti vengono affidati alla polizia. Accade anche in Italia: a volte nei riguardi degli arrestati si esercita una sorta di sommaria anticipazione della pena. Un fenomeno che deriva anche dal fatto che nel nostro ordinamento non esiste il reato di tortura».
Ovviamente il terrorismo peggiora la situazione. «Oggi si lotta quasi sempre contro miliziani senza divisa, che non hanno uno Stato alle spalle e non sono protetti da alcuna convenzione. Di conseguenza cadono i freni: chi si nasconde e colpisce nell’ombra, magari facendo strage di civili, viene visto come un nemico assoluto, da fermare con ogni mezzo. Si agisce quindi in ambito extraterritoriale, come a Guantanamo, e in assenza di giudici, consegnando i prigionieri a una speciale autorità di sicurezza come la Cia. Prevale su ogni regola lo stato di eccezione. Del resto avveniva anche ai tempi dell’Inquisizione. Verso gli imputati normali l’esercizio della tortura aveva diversi limiti, che però saltavano nei “casi eccettuati” ritenuti più pericolosi, le streghe e gli eretici, che potevano essere seviziati sulla base di prove più labili e in modo di gran lunga più violento».

Corriere 11.12.14
E il Brasile di Dilma rivela gli orrori della giunta militare

Niente processi e condanne, ma fatti e nomi dei responsabili. Il Brasile decide di fare i conti con la dittatura militare (1964-1985) con una commissione della verità, il cui lavoro è stato presentato ieri alla presidente Dilma Rousseff. La leader brasiliana ha letto le conclusioni tra le lacrime, ricordando le vittime della repressione: lei stessa ha passato quasi tre anni in prigione, subendo torture, tra il 1970 e il 1972. Secondo la commissione, 377 persone sono responsabili degli atti di violenza, delle quali 196 sono ancora vive. Respinta la tesi dei militari, secondo cui gli abusi furono opera di pochi gruppi radicali, nella lista ci sono i capi di Stato del regime e i vertici delle Forze armate. In totale le vittime della dittatura furono 473, tra morti e desaparecidos. Per questi ultimi il risultato del lavoro è deludente: appena i resti di una vittima sono stati ritrovati. Nessuno dei responsabili degli abusi verrà punito (a differenza di quanto sta avvenendo in Argentina e Cile), perché la Corte suprema ha respinto la richiesta di annullare le leggi di amnistia che vennero promulgate nella fase di ritorno alla democrazia.

il Fatto 11.12.14
Anabel Hernandez cronista messicana
“Anche il capo della polizia provò ad ammazzarmi”
intervista di Beatrice Borromeo


Solo nel 2013 ne hanno uccisi circa 70, arrestati 826, minacciati o fisicamente aggrediti 2160 e rapiti 87. Il Messico - dove basta un tweet sgradito ai narcos per finire scuoiati e appesi a testa in giù – non è un Paese per giornalisti. O forse, come ripete mischiando l’inglese e lo spagnolo a seconda della foga Anabel Hernandez, “è proprio il Paese che non può fare a meno della stampa. Quella vera”. Lei, tra le più agguerrite croniste d’inchiesta messicane, si è resa conto presto dei pericoli: suo padre fu rapito e poi ucciso perché allergico alla corruzione e troppo popolare nel suo paese, che vedeva in lui un modello diverso. E con le minacce di morte - arrivate negli anni in cui raccoglieva materiale per il suo ultimo libro, La terra dei narcos (Mondadori) - anche Anabel ha imparato a convivere.
Hernandez, ha mai scoperto cosa successe a suo padre, chi lo uccise e perché?
Il giorno in cui venne assassinato andammo a chiedere giustizia alla polizia, ma prima di cominciare a lavorare sul caso ci chiesero soldi. Se volevamo che le indagini procedessero dovevamo pagare una mazzetta.
Come avete reagito?
Non potevamo piegarci. Mio padre non l’avrebbe tollerato. Per me fu un incubo, perché volevo sapere la verità. Ma mi chiedevo: se scopro chi l’ha ucciso, poi cosa faccio? Ero molto tentata di investigare da sola ma capii che sarebbe stato molto difficile sapere e non agire. Qui la gente si fa giustizia da sola molto spesso. E io non volevo essere così.
Ci racconti di suo padre.
Veniva da una famiglia molto povera, era un uomo brillante ed è stato in grado di diventare ingegnere. Decise di tornare nel suo piccolo paese per aiutare la gente con l’elettricità o con l’acqua. Non era un attivista, ma di certo era un combattente.
Che impatto ha avuto il suo esempio?
Enorme. Io volevo fare l’avvocato, anche perché vedevo papà che passava ore a incontrare la gente, ad ascoltarne le paure e i disagi. In moltissimi arrivavano per raccontargli i loro problemi.
Si comportava come un politico.
Gli chiedevano tutti di candidarsi a sindaco. Ma lui non voleva saperne. Per lui i politici erano tutti corrotti. Persone sporche, orrende. Non voleva essere visto come uno di loro.
Come reagì quando lei decise di diventare una giornalista?
Era molto deluso. Quando dissi che non volevo più fare l’avvocato ma la cronista si disperò. Fece di tutto per dissuadermi. Per lui i giornalisti erano secondi solo ai politici. Ma mio padre era un lettore assiduo di Procezo, che è la rivista per cui lavoro io oggi.
Sapeva di poter essere una giornalista onesta in un contesto dove la stampa è addomesticata o complice. Perché non se l’è sentita di fare la mosca bianca anche in politica?
Questa è una domanda molto scomoda per me. Mi imbarazza, perché ci ho pensato tante volte. La gente spesso me l’ha chiesto, ma non posso. Mio padre, tanto per cominciare, non mi perdonerebbe mai!
Cosa la frena?
Ho visto gente onesta cambiare per colpa del potere. È davvero difficile, anche per chi davvero ci crede, cambiare le cose senza marcire.
Qualche mese fa la polizia messicana ha rapito 43 studenti che poi sono stati uccisi. Possibile che notizie del genere non obblighino il governo a intervenire drasticamente?
Il governo stesso è la radice del problema. Ho investigato sulla corruzione del presidente, ho trovato documenti che mostrano come la polizia federale, statale e municipale, è coinvolta nei crimini peggiori, a partire dai raid in cui stuprano madri e figlie. La polizia è l’istituzione più corrotta in Messico. Sono una mafia.
Che rapporto c’è tra polizia e narcos?
Ai signori della droga che ho incontrato, ho spesso chiesto: “il governo, il presidente, i generali, il capo della polizia, i poliziotti… chi sono queste persone per voi? Sono boss, complici o amici? ”. E i narcos mi hanno risposto: “Sono i nostri impiegati”. Mentre dei businessmen dicono: “Sono come noi, siamo uguali”. Questo perché sovente usano le loro società per riciclare denaro sporco. Però non considererebbero mai i poliziotti come pari. Per loro sono codardi che non meritan orispetto.
Come ha fatto a degenerare così la situazione?
Nei decenni questo sistema basato sulla corruzione si è stratificato. E ne fanno parte tutti, dai narcos ai politici, dalla chiesa all’esercito.
Chi è invece il narcos per la popolazione?
Da qualche tempo a questa parte la gente ha cominciato a capire che non sono i Robinhood di cui parlano i giornalisti servi.
Quando ha ricevuto le prime minacce?
Proprio quando ho cominciato a scrivere degli stretti rapporti tra Genaro García Luna, che era e capo della Polizia federale, e il cartello dei Sinaloa. Per fortuna ho le mie fonti dentro la polizia, che poi mi hanno salvato la vita. Un giorno mi chiama un informatore: “Anabel, ieri c’è stato un incontro dei poliziotti per pianificare la tua morte. Genaro Garcìa Luna sta per ucciderti” .
Ci ha creduto subito?
No, perché mi minacciavano da tempo. Avevo molta paura di essere manipolata. Ho scritto un libro sulla vicinanza tra Genaro Garcia e il presidente Felipe Calderon. Quando è uscito, Luna ha cominciato a ripetere in giro la stessa frase: “Distruggerò questa donna”. Ma io lo vedevo come un cane che abbaia soltanto. La mia fonte si infuriò: “Questa non è una minaccia, è un piano. Sarà un incidente, un finto furto o un rapimento dove finirai uccisa”. Avevo paura. Fu il giorno piùlungo della mia vita. Alle 6 di pomeriggio andai a prendere mio figlio all’asilo. Notai una macchina bianca e senza targa che mi seguiva: era la stessa che stava parcheggiata davanti a casa di Luna. Allora mi spaventai davvero. Chiamai la commissione nazionale dei diritti umani e alcuni amici per segnalare chi mi stava pedinando e diedi istruzioni di contattare la stampa per spiegare chi e perché mi voleva morta. Sapevo che il mio telefono era intercettato. Se l’uomo nell’auto bianca aveva ascoltato le mie chiamate, allora sapeva che aveva perso la sua opportunità.
È un grosso “Se”.
Era la mia unica possibilità. E funzionò. Il governo mandò delle guardie del corpo, ma se il capo della Polizia federale ti vuole morta non hai scampo. Però volevo avere dei testimoni. Anche perché questi signori raccontavano tutto quello che mi avrebbero fatto in quanto donna.
Parla di violenze sessuali?
Sì, ma non fu l’unica brutta esperienza. Nel 2011 tutta la mia famiglia venne aggredita alla festa di mia nipote. Alle 8 di sera, scortata, andai via per terminare un articolo. Un paio di minuti dopo due uomini entrarono nel locale e puntarono le pistole contro i miei parenti. Ma non cercavano me: avevano atteso che me ne andassi per spaventare la mia famiglia. Tempo dopo è emerso che i due uomini erano attori. Era un avvertimento: a rischiare non ero solo io.
Nei suoi vari incontri coi narcos, cos’è che l’ha stupita di più?
La cosa più incredibile è con quanta tranquillità si mostrassero in pubblico. Li incontravo nei ristoranti, negli hotel, nel centro della città. Ma c’è molta differenza tra i nuovi narcos e quelli di vecchia generazione. Un sicario mi disse: “Noi non stupriamo, non uccidiamo innocenti. Per il cartello ho ammazzato solo chi dovevo, ma non avrei mai toccato un bambino o una donna innocente”.
Quello lo fa solo la polizia?
La polizia e i giovani sicari. Il vecchio mi spiegò: “Per esser un bravo assassino, devi rispettare la vita. Oggi purtroppo non è più così. Questi nuovi killer non rispettano nulla e nessuno, nemmeno i loro padroni. Sono fuori controllo. I giovani stuprano, rubano, ammazzano chiunque gli capiti davanti. Una volta si veniva pagati molto bene per eliminare qualcuno, serviva professionalità. Oggi chiunque s’improvvisa assassino. Non devi nemmeno pagarli, basta dargli un po’ di droga”.
Se lei avesse il potere di cambiare le cose, da dove partirebbe?
Solo la gente ha il potere di fare pulizia. Questo sistema marcio è molto radicato, ma la società può spezzarlo. Senza il supporto popolare, il sistema non regge.
Ha mai pensato di mettere i suoi figli prima del suo Paese?
È la domanda per me più difficile. Adoro i miei figli, e adoro il mio paese. Ma le due cose sono connesse. Voglio per i miei figli un futuro migliore, e credo davvero nel potere del giornalismo. Gli esempi sono tanti: a volte bastano una fotografia o un articolo per cambiare il corso della Storia. Le informazioni sono potere, e io voglio dare il potere alla gente.

Repubblica 11.12.14
Basta silenzi sulle toirture
di Armando Spataro

Procuratore della Repubblica a Torino

CARO direttore, Pietro Verri, ricordando in Osservazioni sulla tortura il processo agli untori di Milano del 1630 e la condanna a morte di Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, che avevano confessato sotto tortura, aveva scritto: «col nome di tortura non intendo una pena data a un reo per sentenza, ma bensì la pretesa ricerca della verità co’ tormenti». Ed aveva aggiunto che «quand’anche la tortura fosse un mezzo per iscoprire la verità dei delitti, sarebbe un mezzo intrinsecamente ingiusto». 18 ottobre 2007: Michael Mukasey, appena designato da Bush nuovo Attorney General, sentito dalla Commissione Giustizia del Senato Usa, alla domanda se considerasse il waterboarding una forma di tortura, evasivamente affermò che «se il waterboarding equivale a una tortura, allora esso non è costituzionale» e il presidente Bush disse a sua volta che «i cittadini americani devono sapere che qualsiasi tecnica noi usiamo essa è dentro la legge ». Una vasca capace di contenere un uomo, un piano trasversale di appoggio per la sua testa e una specie di gigantesco innaffiatoio — strumenti base di quella “tecnica” — sono ancora visibili a Phnom Penh, nel Museo del Genocidio dei Khmer rossi.
Ma ora l’epoca delle teorizzazioni di Bush (e non solo sue) sembra finita per sempre: il Senato degli Stati Uniti, con un rapporto di circa 500 pagine, ha ufficialmente reso pubbliche e condannato le torture di ogni tipo ( waterboarding incluso) e la prassi delle extraordinary rendition , attuate dalla Cia per oltre un decennio nel quadro di una distorta visione della lotta al terrorismo. Una visione che privilegia la ricerca ad ogni costo dell’informazione ritenuta utile, anche se tale essa non è, con conseguenti e violenti strappi alle regole su cui si fonda ogni democrazia. Così abbandonata la ipocrita definizione di tecnica di interrogatorio, la tortura riprende finalmente il suo vero nome con bocciatura anche di quanti, persino accademici, ne hanno teorizzato l’ammissibilità sia pure solo in casi estremi previsti per legge.
È stato affermato che il “rapporto Feinstein”, in fondo, svela fatti e pratiche illegali già note in tutto il mondo. Ciò è sicuramente vero, pur se non erano noti tutti i particolari di quei fatti, ma non si può solo per questo tacere sulla storica importanza delle centinaia di pagine del rapporto che, ancora una volta, testimoniano la ammirevole capacità di dolorosa e tragica autocritica che la democrazia americana ha sempre dimostrato di possedere. Ma c’è altro nel rapporto Feinstein: non solo la condanna di quei metodi, ma anche il fermo riconoscimento della loro assoluta inutilità rispetto ai fini dichiarati. Costituiscono, semmai, intralcio alle indagini e fattore di moltiplicazione delle ragioni di proselitismo di nuovi terroristi.
Lo hanno affermato più volte gli investigatori europei di fronte a quanti continuano ostinatamente a ripetere che con quei metodi la Cia ha ottenuto importanti informazioni, operato molti arresti ed evitato attentati. Quanti, quali, quando? Nessuna risposta precisa è stata mai fornita a tali domande. Semmai solo risposte false (come quella sulla localizzazione di Osama Bin Laden che il Senato Usa smentisce sia avvenuto grazie a quelle tecniche) che servono forse sul piano mediatico, ma non ingannano gli addetti ai lavori e le persone di buon senso. Chi è sotto tortura, infatti, è portato a dire ciò che il torturatore si aspetta e non la verità, anche se, naturalmente, la possibilità di ottenerla non potrebbe mai giustificare alcuna forma di illegalità. Ed alle stesse conclusioni, del resto, conduce l’analisi delle ragioni addotte per giustificare intercettazioni e raccolte di dati a strascico: “sono servite ad evitare attentati”, si dice. Quanti, quali, quando? Anche in questo caso nessuna risposta.
Sempre a proposito del rapporto Feinstein, si potrebbe semmai osservare che mancano i dati e le notizie sugli atteggiamenti tenuti dai governi dei Paesi alleati degli Usa nei casi accertati di rendition e torture commesse all’estero. È auspicabile allora che siano proprio i governi europei ad accodarsi presto alle scelte americane. Ne guadagnerebbe la ricerca della verità giuridica e storica che — in relazione a quel tipo di crimini — è stata spesso oggettivamente ostacolata, come di fatto è avvenuto in Italia, con il segreto di Stato apposto sul caso Abu Omar da ben quattro governi in successione, cioè quelli rispettivamente presieduti da Prodi, Berlusconi, Monti e Letta.

Corriere 11.12.14
Allarme democrazia, ha un «disturbo bipolare»
Leader plebiscitari per Stati ormai impotenti. L’analisi pessimista di Francesco Tuccari sul «Mulino»
di Antonio Carioti


La democrazia è gravemente malata, soffre «di un inedito disturbo bipolare» che la sta privando della sua stessa ragione d’essere. Del «Mulino» non si può certo dire che sia una pubblicazione sensazionalista o allarmista. Ma proprio per questo colpisce la gravità della diagnosi contenuta nell’articolo del politologo Francesco Tuccari che apre il nuovo fascicolo della rivista diretta da Michele Salvati.
In che cosa consiste la malattia che mina i sistemi rappresentativi? Tuccari la definisce «bipolare» perché presenta due aspetti in apparenza contraddittori. Da una parte c’è il crescente successo di leadership personalistiche e carismatiche, dal forte impatto sui media vecchi e nuovi, che hanno conferito all’attività politica un’impronta sempre più spettacolarizzante, con vistose venature populiste. Ma dall’altra i meccanismi della finanza globale hanno sottratto allo Stato nazionale gran parte del suo «potere di decidere», ponendolo in una condizione subalterna rispetto ai verdetti inappellabili dei mercati.
Il risultato è una patologica democrazia «plebiscitaria, ma soprattutto acefala», perché governanti apparentemente forti spesso di fatto risultano impotenti, quando non si tratta addirittura di «marionette», espressione dei potenti «comitati d’affari» che pagano le loro dispendiosissime campagne elettorali.
Un quadro buio, come si vede: Tuccari scrive apertamente che la democrazia «si sta volatilizzando». Ma non tutti la pensano così, tra gli animatori del «Mulino». Proprio il direttore Salvati, che analizza in un altro articolo le innovazioni introdotte da Matteo Renzi nella vita del Partito democratico, si mostra più in linea con la teoria del politologo francese Bernard Manin (autore del libro Principi del governo rappresentativo ), secondo cui avrebbe preso piede una «democrazia del pubblico», non più fondata sul ruolo centrale delle macchine di partito, ma sulla comunicazione diretta tra leadership e cittadini, con un comportamento nel complesso più fluido e consapevole degli elettori. Un’analisi che, secondo Tuccari, «non convince affatto».
Si delinea dunque nella prestigiosa rivista bolognese una dialettica tra «apocalittici e integrati», per usare la famosa formula lanciata mezzo secolo fa da Umberto Eco? Un altro indizio, sempre in questo numero, sembra emergere dal confronto tra un intervento di Nicola Melloni e Anna Soci sulla diseguaglianza, in cui gli autori prospettano per le economie capitaliste un futuro di sempre maggiore iniquità, e il testo della «Lettura del Mulino», tenuta il 18 ottobre dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, nella quale i cambiamenti in corso vengono piuttosto presentati come una sfida, certamente non facile, che presenta tuttavia anche opportunità positive da cogliere. Ma forse si tratta soltanto di fisiologiche manifestazioni del sano pluralismo che al «Mulino», per la verità, non è mai mancato.
@A_Carioti

Corriere 11.12.14
Machiavelli al confine tra gli antichi e i moderni
De Sanctis, Mussolini, Gramsci: a ciascuno il suo «Principe»
di Luciano Canfora


Un dotto francese di fede protestante, prudentemente trapiantatosi a Londra proprio a ridosso della Rivoluzione, Louis Dutens (1730-1812), scrisse un ponderoso trattato apparso per la prima volta nel 1766, poi più volte ristampato, per dimostrare che Le scoperte attribuite ai moderni , anche nel campo delle scienze matematiche e fisiche, erano già state pensate dagli antichi. Reagì polemicamente D’Alembert. Ma Dutens sfoderava, nel suo trattato, anche talune dichiarazioni dei grandi moderni pronti a dirsi debitori verso gli antichi. Fu quasi un secondo tempo della Querelle . In particolare colpivano le parole attribuite a Leibniz e riportate da Dutens (che di Leibniz fu benemerito editore): «Signore — avrebbe detto Leibniz ad un devoto visitatore —, Lei mi ha usato spesso la gentilezza di dirmi che io so qualcosa; ebbene io voglio mostrarvi le fonti da cui ho attinto tutto quello che so»; e, prendendo per mano il dotto amico, lo portò nel suo studio e gli mostrò le edizioni, che aveva sempre sottomano, di Platone, Aristotele, Plutarco, Sesto Empirico, Euclide, Archimede, Plinio il Vecchio, Seneca e Cicerone.
L’impostazione di Dutens era ingenua, ma poneva un problema vero: l’uso creativo degli antichi da parte dei moderni. Niccolò Machiavelli e Thomas Hobbes, l’uno a cavallo tra Quattro e Cinquecento, l’altro in pieno Seicento, e già maturo pensatore mentre Leibniz nasceva, offrono la migliore materia per cimentarsi con la questione. Non è certo casuale che, nell’Introduzione alla recentissima Enciclopedia Machiavelliana prodotta — nel cinquecentesimo anniversario del Principe — dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana (direttori dell’opera Gennaro Sasso e Giorgio Inglese), Sasso dedichi un denso paragrafo al tema L’imitazione dell’antico (vol. III, pp. XLVIII-XLIX). Sasso si concentra, ovviamente, sui Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio , dove l’operazione è resa trasparente dal fatto stesso di porre il racconto liviano della storia romana alla base della riflessione. Sasso mette in luce l’aporia intrinseca in quel modo di procedere: se «gli uomini» — osserva — erano, naturalisticamente intesi, «gli stessi», come mai si erano fatti in realtà tanto diversi da far sorgere il problema dell’estrema difficoltà di tornare ad essere come quegli antichi?
Nel proemio al primo libro dei Discorsi Machiavelli addirittura sembra quasi anticipare quell’assunto cui Dutens — per parte sua convinto che Machiavelli fosse solo un ripetitore degli antichi — dedicherà tante energie: che cioè le conquiste scientifiche (in particolare la medicina) erano già state attuate dagli antichi. E deplora che proprio nella politica il modello antico venga ignorato e disatteso. Hobbes, invece, nelle pagine introduttive al De Cive , dirà con tutta l’asprezza necessaria, che Aristotele si è sbagliato nell’assunto fondamentale della Politica (la naturale «socievolezza» degli uomini): «Questo assioma — dirà —, sebbene accolto da molti, è falso».
L’apparente dilemma si risolve in realtà constatando che proprio quei fondatori della modernità — Machiavelli, Hobbes, Leibniz — hanno pensato il nuovo dialogando con gli antichi. È questo che Leibniz intendeva quando additava al suo visitatore i libri che avevano sustanziato il suo pensiero.
Se Machiavelli, Hobbes, Leibniz non poterono non dialogare con gli antichi, noi non possiamo non dialogare con Machiavelli, Hobbes e con tutti coloro che, lottando per dischiudere la modernità, incominciarono proprio da quel remoto, e pur sempre fresco, punto di partenza. Questo genere di dialogo si risolve, per lo più, in una feconda forzatura: si fa dire, ai libri fondativi che ci precedettero, ciò che noi vi leggiamo o vogliamo leggervi proprio perché, con l’aiuto di una tale «pietra focaia», pensiamo, o cerchiamo di pensare, i nostri pensieri: quelli del presente e del tempo che sentiamo imminente. Lo facciamo con i classici antichi e con i classici moderni: per esempio proprio con Machiavelli. E l’ Enciclopedia che qui segnaliamo assolve egregiamente a tale compito, a tale funzione chiarificatrice. Essa ci mostra, voce dopo voce, articolo dopo articolo, non solo quale originalissimo «Ierone siracusano» sia il tiranno visto da Machiavelli, ma anche quale originalissimo Machiavelli sia il Machiavelli di Ugo Foscolo o di Francesco De Sanctis o, ai limiti del totale stravolgimento dell’originale, il Machiavelli di Antonio Gramsci. E ancora: quello demonizzato dalla Controriforma — il «cattivo maestro» — che ritorna curiosamente nello scontro tra fazioni bolsceviche in pieno XX secolo (si veda la voce «Russia» in questa Enciclopedia ); e poi il Machiavelli arruolato senza tanti complimenti dal pessimismo antropologico del «tacitismo»: fino alla sua manifestazione postrema nel Preludio al Machiavelli di Mussolini, ispirato — in ciò Gramsci vide giusto — all’insopportabile e oligarchico pessimismo di Giuseppe Rensi.
Ovviamente il compito degli storici e dei filologi non è solo quello di rimirare la creativa fecondità di un pensiero (e la sua possibile vitalità ben oltre gli intendimenti dell’autore), ma anche, e non meno, di recuperare l’esatta nozione di ciò che quel determinato autore disse, scrisse e pensò: di scrostare dunque, di sull’originale, le rigogliose e «necessarie» incrostazioni dei posteri. L’ Enciclopedia Machiavelliana rende molto bene anche questo prezioso servigio, e dobbiamo perciò essere grati alla squadra che l’ha saputa realizzare.

Corriere 11.12.14
«Quando le Br pedinavano Berlinguer»
Le memorie dell’autista del leader: «Sono convinto volesse cambiare nome al partito Con Lama non si amavano. D’Alema? Non gli piaceva tanto, troppo presuntuoso»
di Aldo Cazzullo


«Sono le 2 e mezza di notte. Per la seconda volta in pochi giorni ho portato Berlinguer all’appuntamento con Moro, a casa di Tullio Ancora, vicino a piazza Istria. È la primavera del 1978, si tratta la nascita del primo governo appoggiato dal Pci. Un compagno accende la lucetta sopra l’ingresso: è il segnale che il capo sta per scendere. La portiera è già aperta. Mi volto, ma sul sedile non vedo Enrico; vedo Aldo Moro, che è salito per sbaglio sull’auto del segretario del Partito comunista. Gli sorrido e gli dico che si è sbagliato. Moro chiese scusa mille volte. Dopo raccontammo la scena a Berlinguer, che si divertì moltissimo…».
Alberto Menichelli, 85 anni, per 15 l’ombra del leader, è seduto in un bar di San Giovanni. Davanti ha le bozze del suo libro di memorie, In auto con Berlinguer , che Wingsbert pubblica lunedì prossimo. «Con il maresciallo Leonardi, il caposcorta di Moro, eravamo amici. Ci invidiava le auto blindate, che al presidente della Dc erano state negate. Berlinguer aveva avuto la prima macchina blindata d’Italia: gli operai di Pisa ci avevano dato il vetro, i compagni di Roma avevano messo le lastre d’acciaio alle portiere. A lui non poteva accadere quel che accadde a Moro: oltre alla blindata e all’auto della polizia, c’era sempre un’altra macchina del partito, ogni volta diversa per confondere le Br, che ci precedeva o ci affiancava. E se fossero riusciti a rapirlo, i compagni l’avrebbero trovato, avessero dovuto setacciare tutta Roma. I poliziotti di scorta erano iscritti al partito: uno di nascosto, l’altro apertamente. Lo trasferirono a Udine per punizione. Allora intervenne Pecchioli: “Almeno mandatelo a casa sua”. Così fu trasferito a Lecce. Comunque le Br ci pedinavano. Nelle loro carte avevano annotato le abitudini di Berlinguer, compresa la sosta ogni sera in latteria per comprare un litro di latte. Una volta gli chiesi: “Ma che te ne fai di tutto ‘sto latte?”. Sorrise: “Il frigo di casa è sempre mezzo vuoto”».
«Enrico sorrideva spesso. Non era affatto triste. Gli piaceva scherzare. Una volta stavamo andando in Calabria, e ci fermammo a pranzo a Lagonegro. Lui cominciò a fare palline con la mollica di pane e a tirarcele; scoppiò una battaglia. Mi prendeva in giro perché avevo paura dell’aereo, a ogni decollo mi chiedeva: “Hai messo il paracadute?”. Canzonava un uomo della scorta, Righi, partigiano di Carpi, che adorava il lambrusco; gli diceva che era la coca-cola italiana, “vuoi mettere il cannonau? Quello sì che è un vino!”. Adorava la Sardegna. A Barcellona tenne un comizio con Santiago Carrillo nella Plaza de Toros strapiena, e concluse in una lingua sconosciuta, nel tripudio della folla. Gli chiesi cos’avesse detto. E lui: “Ho parlato catalano. Assomiglia al dialetto della mia terra”. Era popolarissimo anche all’estero, ai mercati generali di Parigi rischiò di soffocare per l’abbraccio della folla, quella volta ebbi paura. Come quando a Tarquinia, alla fine della festa dell’Unità, mi propose una scommessa: “Vuoi vedere che se mi travesto non mi riconosce nessuno?”. Si mise un cappellaccio e gli occhiali scuri di Maria, la seconda figlia. Lo riconobbero tutti, fu dura sottrarlo all’abbraccio dei militanti».
«Al partito sacrificò tutto, anche la vita privata. Eravamo sempre insieme, pure a Natale, che passavamo alle Frattocchie. Stavamo giocando a tombola, e lui gridò esultante: “Ambo!”. I bambini lo presero in giro: “Cosa vuoi vincere con un ambo?”. Cambiò carattere solo dopo la morte di Moro. Il 9 maggio mi telefonò: “Abbiamo avuto una segnalazione. Vai in via Caetani, c’è un mio amico che abita al primo piano: sali da lui, affacciati alla finestra e dimmi cosa vedi”. Gli descrissi la scena del ritrovamento del corpo. A un tratto sentii che non parlava più: mi aveva attaccato il telefono, come non aveva mai fatto. Era disperato: capiva che con Moro era morta la sua politica».
«Il rapporto con Craxi all’inizio non era così cattivo come dicono. Con il suo autista, Nicola Mansi, eravamo amici, anche se lo prendevo in giro perché guadagnava più del doppio di me. Dopo le elezioni dell’83 accompagnai Enrico con Chiaromonte da Craxi: all’uscita era soddisfatto, sperava di aver gettato le basi per un’alleanza. Invece Bettino chiuse l’accordo con la Dc. E al congresso di Verona ci tese una trappola: mentre gli altri ospiti passavano di fianco al palco, noi dovemmo attraversare tutta la sala, in una selva di fischi e insulti. Io ero furibondo, lui non batté ciglio».
«Quando mi dissero che era morto, scoppiai in un pianto convulso. Mi tornò in mente la nostra vita insieme: quando arrivavo a casa sua a portargli i giornali alle 7 e mezza e lui mi apriva in pigiama; la volta che in treno ci accorgemmo che aveva una scarpa diversa dall’altra; quando lo vidi seduto per terra nel salotto tra un mucchio di libri (“ma che ci fai lì?”; “sta zitto, ho nascosto 50 mila lire dentro un romanzo e non ricordo quale”); la volta che si mise a giocare a pallone sul piazzale della Farnesina con il figlio Marco e i suoi amici, si fermò una Fiat 130, si abbassò il finestrino: era Moro, che rimase incuriosito a guardare Berlinguer battere un calcio d’angolo. Fu Lauretta, la figlia più piccola, a consolarmi. Ancora oggi voglio bene ai figli di Berlinguer come fossero miei».
«Certo che aveva difetti. Ne aveva tantissimi. Ad esempio era pignolo: non l’ho mai visto parlare a braccio, lavorava ai discorsi per intere notti. E trascurato: non si pettinava mai. Quando entravo in direzione ad avvisarlo di una telefonata, a volte interrompevo liti furibonde. Lui dava ragione a tutti, ma decideva da solo. Era amico di ciascuno e di nessuno. Con Lama non si amavano: una volta a Torino un corteo operaio passò sotto il nostro albergo, Lama gli disse di non scendere, Enrico non gli diede retta. Napolitano? Rapporti normali, ma lui stava con Amendola, che era il vero avversario interno di Enrico; mentre con Ingrao andavano d’accordo, il fratello Ciccio Ingrao era il suo medico. Fu lui a consigliargli di bere un goccio di whiskey prima dei comizi, per vincere la stretta allo stomaco che gli dava la vista della piazza. Tra i giovani, i prediletti erano Bassolino e Angius. D’Alema era segretario della Fgci, ma non gli piaceva così tanto: troppo presuntuoso. Berlinguer intendeva modernizzare il partito, non voleva ad esempio che il segretario restasse in carica a vita. E stava pensando di cambiare nome al Pci. Non me lo disse mai esplicitamente, come lo sto dicendo io a lei; ma ne sono convinto».

La Stampa 11.12.14
Roma e il Giappone uniti da un piatto. Duemila anni fa
Ritrovato in una tomba del V secolo, permette di ricostruire le relazioni commerciali dell'antichità
di Ilaria Maria Sala


Un piatto fondo di vetro romano, di un affascinante blu intenso, probabilmente della fine del II secolo, è stato ritrovato in Giappone in una tomba nobiliare del V secolo nei pressi di Nara, la prima capitale del Sol Levante (710-784). Il reperto è alto circa 6 cm e largo 14,5. Gli scienziati che lo hanno scoperto, stupefatti sia dalla sua bellezza sia dalla provenienza - si tratterebbe del primo piatto romano ritrovato in Giappone - lo hanno sottoposto a diversi test, confermando che ha percorso più di 10 mila chilometri nel giro di quasi due secoli. Per essere poi sepolto, con una piccola ciotola di vetro decorata d’oro probabilmente di origine sassanide, perle di vetro e oggetti d’oro e d’argento, assieme al corpo di un nobile non ancora identificato. Il ritrovamento è avvenuto nel tumulo 126 di Niizawa Senzuka, dove sono state trovate 590 tombe in totale, ora in corso di scavo, che vanno dal IV al tardo V secolo.
Abe Yoshinari, direttore della squadra scientifica e ricercatore presso l’Università di Tokyo al dipartimento di Chimica, ha confermato che il piatto è stato prodotto nel Mediterraneo (la presenza di cobalto - rarissimo in Asia orientale - lo attesta) e più probabilmente a Roma, come è suggerito dalla presenza di antimonio, un metallo che nell’antica Roma veniva utilizzato nell’industria del vetro. Avrebbe raggiunto il Giappone tramite la Persia sassanide prima e l’Asia Centrale poi. Il ritrovamento attesta l’antichità del commercio tra i due poli opposti del continente eurasiatico. E mentre l’antica Europa era affamata di sete orientali, così come di ceramiche e, più tardi, di porcellana, l’intera Asia orientale era affascinata dal vetro proveniente dall’antica Roma e dal Medio Oriente, oltre che dagli ori e dagli argenti lavorati provenienti dall’Asia Centrale e dall’India.
L’industria del vetro nell’Estremo Oriente si è invece sviluppata tardi, raggiungendo risultati di grande pregio in Cina solo nel XVIII secolo. Questi manufatti sono dunque tra i pochi oggetti di prestigio che l’Asia orientale desiderava acquistare dall’Occidente. Il piatto, già classificato come tesoro nazionale, è stato affidato al Museo Nazionale di Tokyo. Un esempio di quegli scambi che hanno tenuto Asia e Europa in contatto costante, anche nei secoli più lontani.