venerdì 12 dicembre 2014

il Fatto 12.12.14
Ritorno allo sciopero, il problema di Renzi stavolta è a sinistra
Oggi Cgil e Uil, senza Cisl, rilanciano lo scontro frontale con il governo
Era dai tempi di Berlusconi che non succedeva
Il premier viene messo alla prova del conflittoi sociale
Per Camusso inizia una “lunga marcia”
di Salvatore Cannavò


È la condanna dei segretari della Cgil. Essere eletti su una posizione moderata e poi capeggiare piazze radicali. Era accaduto a Luciano Lama, nel1984, con la scalamobile. Allo stesso Sergio Cofferati, riformista e pragmatico dirigente dei chimici poi a capo della più grande manifestazione sindacale di sempre. Oggi succede a Susanna Camusso, messa in minoranza dal “duro” Claudio Sabattini nella Fiom ribelle di inizio anni 90 e che oggi guiderà lo sciopero generale insieme a Maurizio Landini, figlioccio dello stesso Sabattini.
Come nel secolo scorso: sembrano gli anni ‘60
Con il 12 dicembre 2014 torna lo sciopero generale vecchia maniera. Non il “mito” di cui parlava il rivoluzionario Georges Sorel. Nemmeno quello della grande spallata che accese gli entusiasmi del Maggio francese, nel 1969. E neanche quello capace di coinvolgere l’intera società francese, nell’inverno del 1995. Ma ritorna uno sciopero che un dirigente sindacale di lungo corso come Giorgio Airaudo, già fiommino e oggi deputato di Sel, definisce “molto politico”. E nella stessa Cgil non hanno problemi a fare paragoni con gli anni 70 o i primi anni 80 quando il sindacato manifestava direttamente contro i governi della Dc e del Psi esercitando una funzione politica.
Questa dimensione la Cgil la rivendica. Anche perché il nodo politico è evidente a tutti. Lo sciopero è contro il governo, contro le sue politiche, al di là del Jobs Act. Da questo punto di vista la Cgil può dire di aver vistogiustonellanciareilguanto di sfida. Quando lo sciopero fu ventilato, infatti, sembrava che il vento soffiasse solo alle spalle del premier e che il sindacato fosse isolato. Poi le cose sono cambiate. La Cgil si è “contata” con la manifestazione del 25 ottobre. Renzi ha via via perso terreno, trovandosi oggi a fronteggiare un partito in subbuglio, un dato elettorale negativo, come quello in Emilia Romagna, le insidie del Quirinale, il rischio della Troika. Allo stesso tempo la mossa della Uil ha scompaginato i giochi rendendo lo sciopero di oggi ancora più efficace e contribuendo a tirare fuori la Cgil dall’isolamento.
In piazza anche per non finire in soffitta
Il ritorno dello sciopero significa anche che si torna ai tempi precedenti la concertazione, nel ‘92-‘93 quando i governiAmato e Ciampi affrontarono la grave crisi della lira anche con il supporto del sindacato. Ora Renzi, è la convinzione di Corso Italia, punta a fare a meno di un sindacato con una visione complessiva e quindi attore al tavolo delle grandi decisioni. Preferisce il sindacato aziendale, quello che chiama volentieri in causa in vertenze come Terni, Electrolux o Ilva. Ma il sindacato generale, che si occupa di politica, lo vorrebbe in soffitta. Ecco, quindi, che si misura un primo obiettivo della giornata. I sindacati italiani non ci stanno a essere relegati solo alla contrattazione di secondo livello o di categoria. Vogliono giocare un ruolo complessivo, ritengono di avere interessi forti da rappresentare. E in questo modo provano a superare la loro stessa crisi che pure esiste come si può vedere nei luoghi di lavoro. Paradossalmente, vista l’estrazione riformistica della segreteria Camusso, così come quella di Barbagallo, si torna allo schema degli anni 60 e 70 quando l’Italia segnava il picco delle giornate di sciopero del mondo occidentale. Erano 730 per ogni mille dipendenti nel decennio ‘60 e 1041 nel decennio ‘70. All’epoca, ad esempio, erano 167 in Francia e i picchi si raggiungevano in Gran Bretagna (521) e addirittura negli Stati Uniti (457), la metà che in Italia. La conflittualità degli anni 2000 è scesa verticalmente e non è lontanamente paragonabile a quegli anni. Anche perché, nel frattempo, dietro la Cgil non c’è più il partito di un tempo, il Pci. Anzi, il partito che dovrebbe esserle amico si rivela oggi il suo avversario principale.
Qui si dirama l’altro risvolto di questo sciopero, la sua traduzione politica. La Cgil non ha intenzione di fondare un partito, non ne avrebbe la forza e deve concentrarsi sul proprio core business la rappresentanza sociale.
Alla ricerca del partito del lavoro
Un partito del lavoro resta nei sogni di Giorgio Airaudo che in questi giorni va rilanciandolo contro le chiusure dei vari partiti, correnti e frazioni della sinistra. Ma una iniziativa all’altezza dell’obiettivo spazio politico che si è liberato alla sinistra del Pd non sembra al momento all’orizzonte. Per molti solo una leadership alla Landini la consentirebbe ma l’interessato pensa anch’egli a concentrarsi sul proprio lavoro sindacale. Si vedrà, soprattutto se si dovesse accelerare la strada verso le urne.
Restano gli obiettivi immediati. “Per noi si tratta ancora di cambiare le politiche del governo” dicono in Cgil. Dove non si scoraggiano di fronte all’approvazione già avvenuta del Jobs Act: “La strada è lunga, molto lunga come dimostra il rinvio dei decreti attuativi annunciato da Poletti”. La battaglia su articolo 18e politica economica sarà dunque una “lunga marcia”. Per citare di nuovo il ‘68 ce n’est qu’un debut.
La strategia: “Non siamo che all’inizio”
I sindacati assicurano che lo sciopero avrà un vasto consenso. La Cgil si appresta a preparare i dati delle adesioni, come fatto già in passato, e un misuratore obiettivo potrà essere quello dei consumi energetici. Ma anche il riflesso che la giornata di oggi potrà avere sull’andamento del Pil. Se si fermasse l’intero paese si può stimare una perdita secca di produzione pari a 5 miliardi, lo 0,3% del Pil nazionale. L’ammontare di una manovra correttiva. In ballo c’è anche questo.

il Fatto 12.12.14
Si fermano anche i treni. Renzi si arrende alla Cgil
di Sal. Can.


Sciopero generale, l’Italia si blocca contro Jobs Act e legge di Stabilità. Il ministro precetta i ferrovieri, ma deve fare retromarcia per un errore nella procedura. E per tappare il buco il premier è costretto a sconfessarlo: “Quel diritto non si tocca”

Nel giorno dello scontro più duro tra governo e sindacato è proprio Matteo Renzi a cercare una mediazione. Punta a evitare una figuraccia sulla precettazione dei ferrovieri decisa dal ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, costretto a rimangiarsi la decisione. Si dice di una telefonata molto pesante da parte del premier, a cui non piacciono le iniziative solitarie dei ministri. Il risultato, però, lascia esterrefatto l’Ncd perché fa segnare un punto alla nemica del momento, Susanna Ca-musso che, infatti, canta vittoria. “Spero si possano risolvere polemiche che ci sono state in queste ore tra il ministro Lupi e la segretaria della Cgil Camusso” aveva detto il premier in mattinata.
LA SOLUZIONE si materializza in serata con la revoca della precettazione e la limitazione dello sciopero di un’ora: “Ho tutelato così sia il diritto alla mobilità dei cittadini che il diritto allo sciopero” spiega Lupi, cercando di limitare i danni di immagine. La figuraccia è anche frutto di un’inadempienza formale. Per legge, infatti, la precettazione deve essere comunicata al Parlamento che, invece, non ha ricevuto alcuna comunicazione. Prima della decisione di Lupi, Susanna Camusso aveva definito la precettazione un “intervento a gamba tesa” mentre in serata, insieme al segretario Uil, Carmelo Barba-gallo, dirama una nota congiunta: “Avevamo ragione noi. Il governo ha dovuto fare marcia indietro, non c’erano le condizioni di legge per inibire il diritto di sciopero. È un primo segnale di ravvedimento del governo che speriamo sia di buon auspicio per il futuro”
Nel settore dei Trasporti ferroviario, quindi, lo stop per il personale viaggiante e addetto alla circolazione dei treni del Gruppo Fs, di Ntv e Trenord, compreso il personale addetto alle attività di supporto di ristorazione e pulizia, durerà dalle 9 alle 16. Nel trasporto aereo si sciopera dalle 10 alle 18. Nel trasporto pubblico locale, nel rispetto delle fasce di garanzia, lo sciopero interessa bus, tram, metropolitane e ferrovie concesse, nelle principali città italiane, secondo le seguenti modalità: a Milano dalle 19 alle 24; a Roma dalle 9 alle 17; a Torino dalle 9 alle 12 e dalle 15 alle 20; a Genova dalle 9.30 alle 17; a Napoli dalle 9 alle 17; a Bari da inizio servizio alle 6.30 e dalle 8.30 alle 12.30; a Palermo dalle 9.30 alle 17.30.
Nelle autostrade si fermano per 8 ore, secondo modalità locali, il personale dei caselli. Stop di 8 ore nel trasporto merci, sempre secondo modalità locali, per gli autotrasportatori, gli addetti alla logistica, i corrieri espressi, gli addetti delle cooperative di facchinaggio e il personale delle agenzie marittime.
Nella Pubblica amministrazione (tenendo fermo l’obbligo di legge dei servizi minimi garantiti) scioperano per l'intera giornata così come la Scuola, l’Università e la Ricerca.
Sono esentati dallo sciopero i lavoratori poligrafici per poter garantire la massima informazione e visibilità della giornata di mobilitazione. Si fermano le Poste. Nei settori industriali blocco dei lavoratori di Energia e Petrolio, Gas-Acqua (ma durante lo sciopero verranno comunque garantite tutte le prestazioni necessarie per la sicurezza, il presidio degli impianti e delle utenze costituzionalmente garantite). Fermata dei lavoratori elettrici per l’intera giornata di venerdì mentre i lavoratori turnisti delle centrali di produzione in esercizio, della rete e del dispacciamento sono esentati dallo sciopero. Otto ore di stop, infine, in tutto il settore industriale.

Repubblica 12.12.14
La sinistra dem si divide Civati e Fassina in piazza ma Damiano non ci sta
Bersani anche questa volta non parteciperà: “A ciascuno il suo mestiere”
I renziani avvertono: sacrosanto scioperare, ma non bloccare il Paese
di Giovanna Casadio


ROMA Cesare Damiano, il presidente della commissione Lavoro di Montecitorio, che il 25 ottobre era sceso in piazza con la Cgil e la Fiom, oggi non ci sarà. «Ho lavorato al compromesso sul Jobs Act, il sindacato lo critica, devo essere coerente», spiega. Ma la dice lunga su quello che sta accadendo in casa dem. La sinistra del partito si è spaccata. Lo scontro con Renzi si è inasprito, ma riguarda solo una parte della minoranza del Pd.
Chi sarà oggi nelle piazze dello sciopero generale è in polemica aperta con il premier e le politiche economiche del governo. Uno scontro “senza se e senza ma”. Stefano Fassina ritiene sia il segnale di ulteriore chiarimento e attacca il ministro Maurizio Lupi per la precettazione dei ferrovieri: «È una forzatura, ci ripensi. È un vulnus che rende il clima più pesante». Lupi infatti ci ripensa e la ritira. Per Fassina - ex vice ministro dell’Economia che si dimise dopo l’ironia di Renzi su “Fassina, chi?” - non si può non stare con il sindacato: «Quanti di noi non hanno condiviso la legge delega sul lavoro continuano la battaglia insieme con i lavoratori e i sindacati». Contro l’articolo 18 abolito - eccetto che per discriminazione e indisciplina - sulla barricate restano quindi in pochi nel Pd. In prima linea ci sono Pippo Civati e la sua corrente. Civati con la senatrice Lucrezia Ricchiuti sarà alla manifestazione di Milano. «C’è molto spaesamento tra i lavoratori e tra chi manifesta. Credo che occorra soprattutto andare per ascoltare, per capire come stanno davvero le cose, dal momento che i politici tra l’altro non scioperano...». Attacca alzo zero la mossa di Lupi sulla precettazione e, insieme, il premier: «Mi sembra che il ministro non avrebbe contribuito a un clima diverso, si cerca la contrapposizione e in questo Lupi è molto renziano...». È la frecciata a proposito dello scontro in atto tra Renzi e la sinistra dem.
Non sarà in piazza Roberto Speranza, il leader della corrente “Area riformista” e capogruppo alla Camera, che a ottobre andò a salutare i compagni lavoratori della Cgil in partenza con i pullman dalla Basilicata. Del resto è impegnato a Montecitorio in commissione Affari costituzionali sulle riforme. Però Gianni Cuperlo, leader di Sinistra dem, anche lui in commissione affari costituzionali, dice: «Un saluto vado sicuramente a darlo». Niente manifestazioni per Pierluigi Bersani. L’ex segretario del Pd non partecipò neppure il 25 ottobre, e mantiene la linea: «A ciascuno il suo mestiere, il sindacato fa la sua parte». I “filo governo” sperano che lo sciopero generale non abbia successo. La minoranza dem in piazza tifa per una buona riuscita. Barbara Pollastrini annuncia che sarà alla manifestazione di Roma e chiede che il governo ci ripensi sul Jobs Act: «E’ un dovere per il governo riaprire il confronto e ascoltare quelle piazze. Anche la metastasi criminale e morale non si sconfiggerà senza quel popolo che reclama dignità, diritti, legalità. Ho grande solidarietà per lavoratori, donne e precari, domani in sciopero generale. Sono convinta che l'adesione sarà massiccia».
Per i renziani della prima ora come il senatore Andrea Marcucci lo sciopero non deve bloccare l’Italia: «È sacro il diritto alla sciopero così come è sacro il diritto a non rimanere a piedi per tre giorni - commenta - Le manifestazioni contro il governo Renzi non possono avere anche l’obiettivo di bloccare la maggioranza degli italiani che non scenderà in piazza». In piazza ci sarà Sel e il suo leader Nichi Vendola: «Ci sarò perché quella è una pizza pulita, se c’è lo sciopero generale vuol dire che c’è un’Italia che non è rassegnata».

Corriere 12.12.14
Delrio-D’Alema, lite sulle urne anticipate
«La minoranza vuole le elezioni, fa vecchia politica»
L’ex premier: basta minacce ai parlamentari
di Monica Guerzoni


ROMA I «dem» della minoranza non ci stanno a passare da gufi, frenatori e interpreti della «vecchia politica», per usare l‘espressione sferzante con la quale li ha ammoniti Graziano Delrio. E la febbre nel Pd è così alta che Massimo D’Alema respinge come «stupefacente» il fatto che «una persona ragionevole come il sottosegretario Delrio non trovi di meglio che minacciare i parlamentari». Parole che infiammano lo scontro in vista dell’assemblea nazionale di domenica, quando Renzi potrebbe chiedere un voto per isolare i dissidenti. «Basta con gli avvisi disciplinari e muscolari — replica Alfredo D’Attorre — E avanti con le riforme».
Tensione alta, parole aspre e appelli alla pacificazione. Tutto per quel voto di mercoledì in commissione Affari costituzionali della Camera, che ha mandato sotto il governo su due emendamenti congegnati per eliminare i senatori a vita. Palazzo Chigi ci ha visto un agguato premeditato e la conferma che la minoranza stia correndo verso la scissione. Il che ha scatenato sospetti e accuse, con i renziani che imputano alla sinistra la voglia di sabotare le riforme e i non renziani che smentiscono complotti. «Se la minoranza vuole andare a votare lo dica» attacca Delrio, accusando Cuperlo, Bindi e compagni di praticare la «vecchia politica». Per il sottosegretario quel che è successo «non esiste», c’era «un accordo» per andare avanti sulle riforme. Ma Giuseppe Lauricella, autore dell’emendamento contestato, nega: «Non c’è nessun piano per frenare le riforme, ma non c’è neanche il patto di cui parla Delrio. Sono attacchi strumentali». Gufa, onorevole? «Per la mia lealtà sono stato elogiato dal relatore Fiano, finché tutto di un colpo divento un sovversivo perché ragiono col mio cervello. È incomprensibile, sono dispiaciuto... La verità è che Renzi sta cercando di inventarsi un nemico».
I renziani sussurrano parole come vendetta, avvertono che domenica sarà il segretario a mandare «un segnale» e fanno balenare un voto per isolare i ribelli. «Non è buona norma mandare sotto il governo» ammonisce Matteo Orfini e conferma il rischio di una conta interna.
Gli esponenti della minoranza si sentono vittime di un ostracismo. Rosy Bindi consiglia a Renzi «molta prudenza», giura che «non c’è stato nessun agguato» e chiede una buona riforma: «Se la Boschi sarà orgogliosa di cambiare la Costituzione alla sua prima legislatura, io sarò felice di votarla alla mia ultima». E a Renzi la presidente dell’Antimafia ricorda che sulla Costituzione «non esistono disciplina di partito, né vincolo di fiducia», in linea con D’Alema quando sostiene che i parlamentari «hanno il diritto e il dovere di migliorare testi che restano contraddittori e mal congegnati, malgrado il notevole impegno della relatrice».
Nel mirino dei renziani c’è pure Enzo Lattuca, per aver parlato del voto in commissione come di un «segnale». Ma anche il più giovane dei deputati assicura che «non c’è alcun disegno organico per far saltare le riforme». Cuperlo invita a ritrovare il senso della misura: «Abbiamo avuto un atteggiamento di grande responsabilità, ritirando emendamenti che mettevano in discussione l’impianto della legge». Ma si litiga anche sul voto anticipato. Per Zoggia è «fantapolitica», Boccia invece dà polemicamente ragione a Giachetti: «Se nel Pd non ci si può più confrontare andiamo al voto, con il Consultellum». E D’Attorre attacca: «Renzi la smetta di utilizzare le urne come una minaccia, perché non spaventa nessuno. Sarebbe la certificazione del suo fallimento».

Corriere 12.12.14
«Questo è il colpo di coda della vecchia guardia»: Renzi prepara la resa dei conti nel Pd. E potrebbe mettere online i bilanci delle segreterie Bersani ed Epifani
di Maria Teresa Meli


Il premier: Massimo vuole mandarci a casa L’ira di Renzi, ora la conta all’assemblea pd. L’idea di pubblicare le spese delle segreterie Bersani e Epifani ROMA Una cosa per Matteo Renzi è chiara: «Siamo di fronte al colpo di coda della vecchia guardia contro di me. E per questa ragione cerca di frenare la riforma del Senato e l’Italicum».
A capo di questo schieramento c’è sempre lui, secondo il premier: Massimo D’Alema, che «guida il fronte trasversale dei conservatori che comprende anche Forza Italia». Ma non c’è solo l’ex ministro degli Esteri nel mirino del segretario. L’impressione è che anche Bindi, Bersani e Finocchiaro «stiano cercando il colpo finale per salvare loro stessi e la vecchia classe dirigente e affossare me».
Con quale obiettivo finale? È su questo che lo stesso Renzi e i suoi fedelissimi non hanno le idee chiare. «Forse — ragiona ad alta voce il premier con i suoi — ormai è passata la linea D’Alema: pur di distruggere me, distruggiamo pure l’Italia, il che vuol dire cercare di mandare a casa questo governo e metterne un altro, senza passare dalle elezioni, agli ordini della troika e della Commissione europea. Sennò qual è la strategia? Quella di condizionare l’elezione del presidente della Repubblica? O siamo alle richieste inconfessabili: avere delle liste bloccate che garantiscano i loro candidati che altrimenti alle elezioni non verrebbero mai eletti?».
Gli interrogativi sulla strategia o sulla mancanza della stessa si accavallano nella mente di Renzi, ma sulle risposte da dare non ci sono dubbi. Lo spettro delle elezioni resta lì sullo sfondo. Però, visto che non spaventa abbastanza, ci sono soluzioni operative più immediate da mettere in atto che potrebbero fare assai male alla minoranza, anche a quell’area riformista capeggiata da Roberto Speranza, che però non ha battuto un colpo in favore del segretario nel momento del bisogno.
«Se lo scontro all’interno del partito si fa sempre più duro, bisognerà comportarsi di conseguenza», avverte Renzi. Primo segnale: l’assemblea regionale toscana che avrebbe dovuto incoronare Enrico Rossi come candidato alla regione è stata posticipata e ora i renziani fanno sapere che potrebbero spuntare nuove candidature alle primarie. A livello nazionale la risposta potrebbe essere altrettanto dura: sono in bilico in segreteria nazionale i posti di Micaela Campana e Andrea De Maria, rispettivamente componenti dell’area Speranza e Cuperlo. La prima è legatissima a Bersani ed è la ex moglie del pd Daniele Ozzimo, dimessosi da assessore comunale di Roma perché coinvolto nella vicenda di «Mafia Capitale». Il secondo è uomo di Cuperlo, il quale, secondo i renziani, sta portando avanti il progetto dalemiano senza se e senza ma. Ciò potrebbe significare la fine della gestione unitaria adottata finora nel Pd.
Dunque, come ha spiegato il premier ai suoi, «potrebbero esserci ripercussioni molto forti sia a livello locale che nazionale». Da quest’ultimo punto di vista, domenica, all’assemblea nazionale, potrebbe esserci una sgradita sorpresa per molti: il tesoriere Francesco Bonifazi potrebbe mettere on line i dati del bilancio delle segreterie Bersani, Epifani e Renzi, con relative spese e stipendi degli staff.
Insomma, per dirla con il segretario, sarà l’assemblea nazionale «il momento della verità»: «Sto preparando un documento molto esplicito e impegnativo sulle riforme su cui chiederò il voto».
Basterà a ridurre a più miti consigli la minoranza e, soprattutto, a sedare i renziani che invocano le elezioni? Certo nemmeno questa prospettiva basta per ora a trattenere il premier, che non ha accettato l’attacco di D’Alema a Delrio: «Graziano è un mite e non ha mai minacciato nessuno, Massimo può dire altrettanto?». Domanda retorica, ovviamente.

La Stampa 12.12.14
Resa dei conti nel Pd
Scacco alla minoranza
D’Alema lancia un messaggio di guerra: “Delrio non minacci”
di Carlo Bertini


Assicura di non voler le urne anticipate ma domenica all’assemblea Pd Matteo Renzi gliele canterà di santa ragione, raccontano i suoi: additando quelli che «fanno giochetti» per sabotare le riforme, l'unica ancora di salvezza con l’Europa. E dopo aver picchiato duro, non solo farà votare dai mille delegati un documento sulla corsa delle riforme, per dimostrare che la minoranza è isolata.
Cadono le prime teste
Ma tirerà una linea tra ieri ed oggi, basta gestione collegiale con le correnti avverse: dunque via dalla segreteria la bersaniana Campana (citata pure nell’inchiesta su Roma per gli sms a Buzzi) e il cuperliano De Maria. Sub judice la candidatura a governatore toscano di Enrico Rossi, tanto che l’assemblea del Pd regionale di sabato è stata rinviata a gennaio. Insomma, fin qui Renzi è stato troppo generoso, ora è sotto ricatto e la musica cambia, spiegano i suoi. Ha dunque un bel dire la Bindi, «io non ho paura delle urne perché la finisco qui, ma dopo anni che aspetto vorrei votarla una buona riforma costituzionale, magari lasciando un Senato che non sia scendiletto del governo di turno». Perché tutti i tentativi di convincere che si cerca solo di migliorare i testi non sono presi sul serio. «Eccoli di nuovo in azione: la premiata ditta Bindi-D’Alema all’opera, ma non riusciranno a fermare il Pd e le riforme, hashtag “ancora tu”», twitta la Serracchiani. «La minoranza ha lanciato un segnale politico? Ne parliamo domenica», avverte il premier. Determinato a drammatizzare con la resa dei conti quell’incidente dell’altro ieri che verrà corretto in aula:la fronda dei pasdaran aveva preso l’impegno a non votare contro il capogruppo in commissione sulla riforma del Senato, «e quel patto è stato violato».
Trappola sull’Italicum
Perché quando tre giorni fa la minoranza evocò la possibilità di farsi perfino sostituire in commissione per non votare la riforma del Senato indigesta, Speranza e Guerini stopparono l’Aventino e si siglò quel patto: che sarà di nuovo infranto, visto che la minoranza dei duri non molla su un emendamento che dà alla Consulta il giudizio preventivo di costituzionalità sulla legge elettorale. Per Renzi è la prova che si vuole far finire in soffitta l’Italicum, già bombardato da 12 mila emendamenti al Senato, sfornati da Calderoli. Il premier è infuriato, qualcuno in commissione ora sarà sostituito per blindare la maggioranza. Ma non si fa illusioni sul fatto che gli agguati possano finire. Se per rispondere a Delrio («la sinistra dica se vuole votare») è sceso in campo D’Alema, «pensi alla crisi invece di minacciare i parlamentari», è il segnale che la partita è più grossa. «Parole che svelano come tutto ruoti attorno alla futura guerra per il Quirinale», ragiona un membro del governo. E se il presidente della Commissione Bilancio, il lettiano Francesco Boccia consiglia a Renzi di «non citare la troika perché vuol dire che non è all’altezza del lavoro che fa», si capisce il livello di guardia che raggiungerà lo scontro...

il Fatto 12.12.14
In fondo a sinistra. Idea poco Dem: fare fuori la minoranza
Legge elettorale, D’Alema: “Non ci facciamo minacciare”
Lo scontro nel Pd diventa rovente: il lìder Massimo scende in campo in difesa della minoranza dem
di Wanna Marra


Se la minoranza del Pd vuole andare a votare lo dica. Noi vogliamo continuare e arrivare fino al 2018”. Graziano Delrio bacchetta così i dem che mercoledì hanno mandato sotto il governo in Commissione Affari costituzionali alla Camera. Replica durissimo Massimo D’Alema: “Delrio pensi alla crisi economica e non minacci i parlamentari su una materia sulla quale deputati e senatori hanno il diritto e il dovere di migliorare i testi”. Cannonate pesanti tra renziani e minoranza del Pd. Riforme in mezzo alla palude, legge elettorale nel caos più totale, minacce e sospetti di ogni tipo. Matteo Renzi l’ha chiarito da Ankara, che la minoranza non la farà franca: “Il voto in commissione alla Camera è stato considerato come un segnale politico. Di segnali politici ne parleremo in modo chiaro in Assemblea”. Appuntamento a domenica, dunque. Ai vertici dem non è andato giù il fatto che non sia stato rispettato l’accordo di non mettere i bastoni tra le ruote sulla riforma del Senato. Ovvero di votare in materia difforme dalle indicazioni del governo, solo ove i voti non fossero determinanti. E a questo punto la guerra è dichiarata: “In Assemblea li metteremo alla berlina davanti a tutti. Spiegheremo che non è così che si sta in un partito. Che o si allineano o si mettono fuori”. Da cosa? Tanto per cominciare dagli organismi dirigenti. Come twitta Edoardo Fanucci, renziano in ascesa, vicino soprattutto al ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi: “Errore gestione unitaria del partito con chi mette sotto il proprio governo. Non voler bene al PD e avere spazio in segreteria? #no”. Ieri a un certo punto si era diffusa anche la voce di espulsione dal partito per i ribelli. Smentita dai renziani. Per ora. Perché le manovre si moltiplicano. D’Alema si rimette a capo della minoranza, e sullo sfondo resta sempre la scissione. Tutto dipenderà da quale sistema elettorale si farà. Se alla fine si votasse con il Consultellum, alla sinistra del partito potrebbe convenire. Renzi ha rimesso sul piatto il Mattarellum, nel caso la legislatura dovesse cadere prima di approvare l’Italicum. Ma questo ha precipitato il dibattito sulla legge elettorale in Commissione Affari Costituzionali in Senato nel caos più assoluto. Ognuno vuole la sua: con un emendamento alla legge elettorale, gran parte della minoranza Pd (Vannino Chiti in testa) chiede di non perdere tempo sull’Italicum e riportare in vita il Mattarellum. Forza Italia e Ncd chiedono di mantenere invece il Consultellum, come norma transitoria. Renzi vorrebbe ancora l’Italicum, che è l’unico sistema che gli permette di realizzare il sogno del partito nazione, il partito pigliatutto. Un sogno, appunto, in questo momento.
Perché prima dell’elezione del nuovo Presidente, sul quale la minoranza si scatenerà (e vanno lette anche in questo senso le dichiarazioni di D’Alema), il governo non riuscirà né a far votare la legge elettorale in via definitiva, né le riforme costituzionali in Senato. E allora, ecco le ritorsioni: è stata annullata l’Assemblea regionale della Toscana, che doveva dare il via alla ricandidatura di Enrico Rossi (anche lui minoranza) alla Presidenza della Regione. “A maggio si vota”, assicurano i renziani. Per adesso, un miraggio.

Repubblica 12.12.14
La resa dei conti di Renzi con la minoranza del Pd
“Basta con D’Alema e Bindi, in Assemblea chiudo i giochi”
L’ex segretario Ds attacca il sottosegretario Delrio: “Non può minacciare i parlamentari”. Il premier: “E allora pubblico i bilanci della segreteria Bersani”
di Francesco Bei


Due partiti ormai convivono sotto lo stesso tetto democratico. E ogni pretesto è buono per darsele di santa ragione. Dopo “l’incidente” di mercoledì alla Camera, quando la minoranza dem ha votato con le opposizioni in commissione affari costituzionali, mandando a gambe all’aria il governo, ieri i toni sono saliti alle soglie della rottura. Persino un moderato come il sottosegretario Graziano Delrio, incrociando un cronista dell’ Agi, si è lasciato andare a uno sfogo pesante: «Se la minoranza del Pd vuole andare a votare lo dica. Gli incidenti parlamentari possono anche capitare, ma quello che è successo ieri non esiste. Basta segnali di vecchia politica». Un colpo al quale ha subito risposto per le rime Massimo D’Alema: «È stupefacente che una persona ragionevole come il sottosegretario Delrio non trovi di meglio che minacciare i parlamentari». E così via, Boccia contro Renzi, D’Attorre contro Delrio, Chiti contro Giachetti, in un crescendo di minacce e ripicche. Quanti ai «segnali politici» che la minoranza ha inteso dare sulle riforme costituzionali, da Ankara il premier risponde sibillino: «Ne parliamo domenica all’assemblea del Pd. Per me comunque la legislatura finisce a febbraio 2018». Un rinvio a domenica per la resa dei conti interna, in quello che si preannuncia come un vero mini-congresso democratico. Un appuntamento che il segretario concepisce come una sorta di tribunale interno per isolare e colpire definitivamente l’opposizione interna.
L’umore che dalla Turchia corre sul filo delle telefonate fatte da Renzi ai suoi è nero. «Sono stufo di queste critiche sprezzanti dei vari Bindi e D’Alema», ripete in privato il capo del governo. «Rieccoli, la premiata ditta Bindi-D’Alema di nuovo in azione», chiosa Debora Serracchiani. La minaccia del segretario sa di arma finale. «Volevano mandare un segnale? Lo manderò anch’io. Per esempio mettendo online i bilanci del Pd durante le segreterie di Epifani e Bersani». L’assemblea, il suo esito, sarà dunque «vincolante» per tutti. Renzi presenterà un documento («vergato di mio pugno») sulle riforme e, come accaduto in Direzione, lo metterà ai voti. A quel punto nessuno potrà far finta di non aver capito. I renziani sono anche più neri del capo. Il tam-tam tra i fedelissimi suona come una campana a morto per la segreteria unitaria, dove siedono Micaela Campana (bersaniana) e Andrea De Maria (cuperliano). «Le loro poltrone traballano», riferiscono dal giglio magico. Le possibili ritorsioni, i «segnali» come li chiama il premier, non si contano. Al punto che, «per il bene del partito» s’intende, il segretario potrebbe sospendere le primarie in Toscana. E colpire così il governatore Enrico Rossi, facendo magari balenare l’ipotesi di un cambio di cavallo. «La verità - spiega Michele Anzaldi in un corridoio della Camera - è che con “loro” Renzi è stato fin troppo generoso. Hanno le presidenze di commissione, hanno posti in segreteria, fanno quello che vogliono, mentre il presidente del Consiglio ha solo due ministri “renziani”, la Boschi e Gentiloni».
A bruciare più di tutto è quel voto che ha cancellato i senatori a vita. Non tanto per il merito, ovviamente, quanto per il colpo inferto all’immagine del premier. «Il governo ha fatto una forzatura - ricostruisce Alfredo D’Attorre - non c’era nessun accordo e la Boschi è voluta andare al voto comunque. Renzi è irritato? Noi più che lavorare di notte nei weekend che possiamo fare?». Roberta Agostini, un’altra della minoranza, insiste che «non è interesse di nessuno sabotare le riforme, ma quello che si può migliorare va migliorato». Una lettura minimale che non è condivisa da chi regge oggi le sorti del Pd. A partire dal presidente Orfini: «Hanno mandato sotto il governo. A che gioco giochiamo?». Tanto che si riparla di una sostituzione dei “ribelli” in prima commissione, un atto che sarebbe una vera dichiarazione di guerra.
Se a Montecitorio si gioca duramente, a palazzo Madama le cose non vanno meglio. Il cammino dell’Italicum infatti è a rischio, sommerso com’è da una valanga di 12 mila emendamenti e migliaia di sub-emendamenti, in gran parte escogitati da Roberto Calderoli. Oltre millecinquecento arrivano anche dai frondisti e fittiani di Forza Italia e Gal. «L'intento è ostruzionistico», ammette Augusto Minzolini. Anche la minoranza dem non resta con le mani in mano con una ventina di emendamenti. Miguel Gotor, in particolare, insiste affinché i capilista non siano bloccati «perché deve essere restituito ai cittadini il diritto di scegliere i parlamentari soprattutto in vista del fatto che avremo solo una Camera politica». Insomma, l’obiettivo di Renzi di spedire in aula il testo prima di Natale a questo punto sembra sfumato, a meno che gli emendamenti non vengano ritirati. Calderoli è disposto a farlo solo in cambio di «una legge elettorale equilibrata».
Nico Stumpo, bersaniano, di fronte al campo di battaglia in cui si è trasformato il Pd, riscopre un antico proverbio di Sezze: «Quando due ciechi si prendono a sassate si fanno male tutti». Un invito ad abbassare i toni, altrimenti a rimetterci sarà tutto il partito.

Repubblica 12.12.1\4
Cuperlo:
“Sulle riforme non decide Matteo ma se me lo chiede lascio la Camera”
intervista di Giovanna Casadio


ROMA «Renzi vuole l’ubbidienza? Basta una parola. Per quanto mi riguarda se mi chiede di lasciare il mio posto di deputato, io un minuto dopo mi dimetto e gli restituisco quello che evidentemente ritiene di sua proprietà». Gianni Cuperlo, leader della Sinistra dem, mette una posta molto alta sul tavolo dell’Assemblea democratica di domenica.
Cuperlo, avete ricevuto un ultimatum da Renzi e nell’assemblea del partito ci sarà la resa dei conti?
«Le parole che vengono attribuite a Renzi riflettono una insofferenza che non si giustifica. Il Parlamento ha una sovranità che va rispettata. Ridurre le convinzioni di altri a mosse di propaganda o minacciare, come hanno detto alcuni, una resa dei conti sulle “poltrone” mi lascia interdetto. Lo dico a Renzi, non tutti ragionano solo di posti. Esistono anche opinioni e coerenze. Lui vuole l’ubbidienza? Basta una parola. Per quanto mi riguarda se mi chiede di lasciare il mio posto di deputato, io un minuto dopo mi dimetto e gli restituisco quello che evidentemente ritiene di sua proprietà. Penso solo che in quel caso dovrebbe anche cambiare nome al Pd».
A furia di fronde però la sinistra dem provocherà la crisi di governo e il voto anticipato?
«Non c’è nessuna fronda, solo la spinta a migliorare. Stiamo parlando della riforma della Costituzione che è prerogativa del Parlamento. La proposta di eliminare le 5 personalità di nomina presidenziale da un Senato delle autonomie è una correzione saggia, a parole condivisa anche dal governo. Altro che agguato. Avevamo anche chiesto di accantonare il punto per cercare una soluzione».
Ma volete bloccare le riforme?
«No, e lo conferma il fatto che nonostante le critiche piovute sulla riforma noi abbiamo ritirato emendamenti di sostanza per rispettare l’impianto uscito dal Senato e l’approdo in aula nei tempi fissati. Ma la responsabilità di rendere il testo più coerente io la sento e sarei preoccupato di parlamentari capaci solo di dire sì, a prescindere. Per questo ci siamo concentrati su un quorum più alto per l’elezione del capo dello Stato evitando che chi vince prenda tutto. O l’obbligo a una verifica di costituzionalità per la nuova legge elettorale dopo il disastro del Porcellum. Nessuno si è steso sui binari. Abbiamo lavorato per migliorare un testo destinato a durare nel tempo».
Se il governo cade per conflitti interni al partito è davvero la fine del Pd?
«Il governo cade se perde la sua maggioranza e io non lavoro per questo. Né per nuove elezioni. Lavoro perché si facciano buone riforme, sull’economia, sui diritti, sulla Costituzione e la legge elettorale. Descrivere tutto questo come un sabotaggio è sbagliato».
E cosa farete sull’Italicum?
«L’ho votato per disciplina pure
criticandolo apertamente. Ora in tanti riconoscono quelle nostre ragioni».
La convince l’uscita di sicurezza di reintrodurre intanto il cosiddetto Mattarellum?
«Se Renzi ha cambiato idea e lascia l’Italicum per tornare al Mattarellum benissimo. Ma facciamolo davvero».
A proposito dell’inchiesta Mafia capitale, il Pd non sapeva nulla del livello così alto di corruzione in casa propria, come è possibile?
«Quello che Roma ha scoperchiato penso sia uno spartiacque. Mostra che illegalità e mafie sono una metastasi. In gioco è la democrazia. Per vent’anni la destra ha usato la magistratura come un bersaglio mentre un’altra parte l’ha scelta come alibi. Ha presente quella formula “i fatti non hanno rilevanza penale”? Ogni volta che da sinistra si è ricorso a questi argomenti si è rimosso un mattone dell’etica pubblica che sorregge il patto democratico».
Come si risale questa china?
«Io dico sì alle misure del governo e penso che in questo caso si dovrebbe procedere con un decreto. Ma il malcostume va aggredito alla radice. La sfida è “riconoscere gli onesti”, investire sulla legalità a partire dalla scuola e farne il perno di una riscossa civile. Serve una cultura delle regole per trasmettere l’idea che rispettare le norme non è una vessazione ma il requisito della cittadinanza. Nei paesi dove la corruzione è minore le sanzioni penali sono affiancate da un sistema di sanzioni “sociali”. Insomma è fondamentale dare degli esempi e convincere che denaro, successo non sono tutto. Questione morale e uguaglianza camminano assieme».
Ma di chi è la colpa di questa degenerazione del Pd, vostra o di Renzi?
«La colpa è di tutti noi per aver abbassato la guardia e non aver impedito che in alcune realtà il partito si riducesse a un comitato elettorale o peggio, di affari».
La giunta Marino deve andare avanti?
«Sì e il Pd a Roma va ricostruito col coraggio che serve».

Repubblica 12.12.14
Nello scontro interno al Pd in gioco la vita del governo
Renzi cambia registro con i sindacati: per non approfondire il solco ricuce con un pezzo di storia della sinistra
di Stefano Folli


L’ITALIA dello sciopero generale rivela un volto diverso del presidente del Consiglio, che pure non nega di essere in disaccordo con Cgil e Uil. Ma l’uomo dello scontro con i sindacati, il premier che in un’altra occasione aveva detto sprezzante: «Per tre milioni che scendono in piazza, ce ne sono 57 milioni che lavorano», stavolta cambia registro. Lo sciopero è un «diritto sacrosanto» da rispettare. Addirittura sembra che Renzi abbia svolto il ruolo discreto di paciere fra Susanna Camusso e il ministro Lupi che intendeva precettare i ferrovieri. In altri termini, qualcosa è cambiato nel tono e forse anche nella sostanza. Come se il presidente del Consiglio non volesse approfondire il solco con le forze sindacali alla vigilia di un evento sociale di rilievo qual è uno sciopero generale; e anzi avesse bisogno di un migliore rapporto con un pezzo di storia della sinistra. Troppi fronti aperti sono un azzardo e Renzi ne ha già parecchi. Uno in particolare riguarda la prova di forza, quasi una resa dei conti con la minoranza, cominciata all’interno del Pd. In apparenza ha preso il via ieri con lo scambio polemico fra il sottosegretario Delrio e D’Alema. In realtà il punto di partenza va fissato al giorno prima, quando alla Camera, in commissione, la maggioranza è stata battuta su un dettaglio della riforma del Senato.
Niente di troppo grave in sé, ma era il segnale che le ostilità sono aperte. La posta in gioco è molto alta e c’è da credere che stavolta distingueremo sul campo di battaglia i vincitori e i vinti. In prospettiva sulla bilancia c’è il destino del fenomeno politico «renziano», il che porta con sé anche gli interrogativi sulla sopravvivenza del governo e sulla durata della legislatura. Ma prima c’è un passaggio concreto, destinato a ridefinire i rapporti di forza nelle istituzioni. Un passaggio che è preliminare a tutti gli altri: l’elezione del capo dello Stato.
In condizioni normali le battute acide fra Delrio e D’Alema sarebbero solo una scaramuccia. Ma oggi è diverso. Il sottosegretario ha attaccato in modo frontale la minoranza del Pd nelle stesse ore in cui il capo del governo poneva se stesso come estremo argine prima dell’arrivo in Italia della «troika»: quindi niente più ottimismo e fiducia nella ripresa, ma uno squarcio drammatico aperto sul futuro imminente, drammatizzando senza mezzi termini le difficoltà parlamentari. Renzi sembra ormai convinto che la minoranza non recede. Gli intransigenti dovrebbero essere alcune decine fra Senato e Camera. Ovvio però che potrebbero diventare di più quando si comincerà a votare il presidente della Repubblica. Il voto segreto, al riparo di quelle sobrie tendine, incoraggia anche i meno coraggiosi. E non è un caso che D’Alema abbia ribattuto a Delrio invocando l’autonomia del Parlamento in materia di riforme istituzionali esulanti dalla responsabilità diretta del governo.
Di conseguenza la minoranza del Pd si prepara a un braccio di ferro il cui obiettivo, nonostante i rischi, è condizionare le scelte del premier. Sulle riforme, certo, da rivedere o rinviare. Ma soprattutto sull’elezione del capo dello Stato. Senza lasciare a Renzi la possibilità di coagulare il partito, costruire il ponte con i centristi di Alfano e cercare qualche apporto dai transfughi «grillini». Se l’operazione riuscisse, sarebbe Renzi e solo lui il «king maker» di un presidente eletto con i voti determinanti della maggioranza (ma Berlusconi può sempre agganciarsi). Un presidente che non dovrebbe dimenticare, almeno all’inizio, il debito di gratitudine verso il suo grande elettore. Se invece il disegno fallisse, il capo dello Stato potrebbe essere un nome imposto a Renzi e da lui accettato in mancanza di alternative. Ne deriverebbero conseguenze rilevanti nell’equilibrio dei poteri.
Forse la polemica Delrio-D’Alema è il primo atto di questa partita essenziale. Ma Renzi, almeno per una volta, ha voluto aggirare tutti a sinistra: segno che si prepara a giocare con le sue carte.

Corriere 12.12.14
Un partito spaccato mette a rischio le riforme
di Massimo Franco


Non è chiaro se Matteo Renzi abbia evocato le elezioni anticipate sapendo che avrebbe sollevato un vespaio; né se si rendesse conto che, accreditando dopo il suo governo solo il commissariamento dell’Italia da parte della troika finanziaria internazionale, avrebbe solo alimentato l’allarmismo. Il risultato, voluto o no, è che il suo Pd riemerge sull’orlo di una spaccatura; e che sia la riforma elettorale, sia l’elezione del prossimo presidente della Repubblica promettono di trasformarsi davvero in un terno al lotto. Sta emergendo una sorta di fronte trasversale antirenziano, annidato in Parlamento, deciso a sabotare quella che vedono come una corsa alle urne.
I ventotto senatori della minoranza del Pd che ieri hanno proposto l’entrata in vigore dell’Italicum dopo il «sì» al bicameralismo, puntano a un obiettivo: togliere a Palazzo Chigi qualunque possibilità di minacciare il voto anticipato, perché la legge slitterebbe. E l’operazione si salda con quella di FI, che fa sapere di essere disposta a votare la riforma elettorale soltanto dopo la scelta del successore di Giorgio Napolitano: e cioè dopo gennaio. Altrimenti, minaccia, «salta tutto». È un modo per tentare di piegare il premier alla trattativa con Silvio Berlusconi, dopo che Renzi ha messo in mora il patto del Nazareno.
«Governo e maggioranza senza Forza Italia non esistono», sostiene Il Mattinale, il bollettino del partito alla Camera. E cita gli scivoloni collezionati dalla coalizione negli ultimi mesi. Ma il problema del capo del governo non sono tanto i rapporti con Berlusconi, quanto quelli interni al Pd. La vera difficoltà è che i gruppi parlamentari rimangono un focolaio di resistenza nei confronti sia delle riforme, sia dei metodi del premier. Il braccio destro renziano a Palazzo Chigi, Graziano Delrio, chiede alla minoranza di dire esplicitamente se punta a interrompere la legislatura. Ma gli viene fatto notare che sono stati gli uomini del premier a parlarne.
Massimo D’Alema accusa Delrio di «minacciare i parlamentari». E gli fa notare che «le riforme costituzionali sono materia squisitamente parlamentare». Eppure, rimane l’impressione di riforme maneggiate strumentalmente; ridotte a schermo di una resa dei conti permanente all’interno del Pd. Il Parlamento è la stanza di compensazione dello scontro tra Renzi e i suoi oppositori.
Il premier assicura che se alcune votazioni volevano essere «un segnale politico», rimetterà le cose a posto. E la riforma costituzionale, «rispetterà i termini previsti». Le migliaia di emendamenti presentati dalla Lega, e non solo, per intralciare i lavori, fanno capire che sarà una nervosa corsa a ostacoli . A seminarli, tuttavia, non è il comportamento di Renzi in sé. La sua debolezza deriva dai magri risultati del governo in economia, che l’Europa continua a sottolineare ruvidamente.

il Fatto 12.12.14
L’uomo del salone delle cene Pd intestatario dell’auto del boss
Paolantoni, “amico di Carminati” gestisce il salone delle Fontane
di Loredana Di Cesare e Marco Lillo


Il Partito democratico avrebbe voluto realizzare la sua Assemblea Nazionale in una location particolare in questo momento: il Salone delle fontane, gestito da Sergio Paolantoni, un imprenditore che definisce Massimo Carminati, mentre è intercettato, “un amico” e poi “una persona per bene”. Ma saputo dell’inchiesta, il Nazareno ha deciso di cercare un’altra sede.
Francesco Rutelli nominò Paolantoni rappresentante per i Beni culturali, nel comitato tecnico dell’Enit, l’Agenzia nazionale per il Turismo, nel 2007. Massimo Carminati invece ha usato l’auto intestata alla sua società, la stessa del Salone preferito dal Pd, che lì ha organizzato anche la celebre cena di finanziamento con Matteo Renzi e ‘guest star’ Salvatore Buzzi e la coop 29 giugno. La macchina in questione è una Audi A1, l’auto che il “cecato” utilizzava quotidianamente. Parliamo di Sergio Paolantoni, presidente della Palombini Eur, la società che gestisce il Palazzo dei Congressi e il Salone delle Fontane, ma anche le caffetterie di musei importanti come Le scuderie del Quirinale o il Palazzo delle Esposizioni, ottenute con un contratto di cessione d’azienda dalla municipalizzata del comune di Roma, la Palaexpo. Proprio al “Salone delle Fontane”, il Pd ha organizzato, per domenica, l’assemblea nazionale. Ieri sera il Pd potrebbe avere deciso di spostarla al Parco dei Principi. Ma Paolantoni, sentito in tarda serata, non ne sa nulla: “Il Pd ha chiesto l’affitto del palazzo ma non il catering, al prezzo mi pare di 18 mila euro, domani le potrei dire la cifra esatta”.
Alla luce degli atti di indagine è agevole intuire l’imbarazzo del Nazareno. Il manager che definisce ‘amico’ Massimo Carminati è un uomo dai tanti incarichi e molto rispettato. Paolantoni, è anche amministratore delle Caffetterie Museali del Vittoriano e del BioParco di Roma, della Expo 2004, società di gestione della Casina delle Rose a Villa Borghese ed è stato membro della Giunta di presidenza della Confcommercio del Lazio e insignito dell’onorificenza di Cavaliere del Commercio. “Non sono amico di Massimo Carminati so solo chi è - spiega al Fatto Paolantoni - e non mi ricordo nemmeno quando l’ho visto. Non sono io che ho dato l’auto a Carminati. Le rate del leasing le pagava Luigi Seccaroni, il concessionario al quale avevo lasciato l’auto in tentata vendita. Eri scocciato con lui e ho inviato una lettera dell’avvocato perché l’auto era stata lasciata da Seccaroni a Carminati che la voleva provare ma l’acquisto non è stato finalizzato”.
Luigi Seccaroni è definito dal Ros “sotto il controllo” del “cecato”. Alla sua concessionaria, Carmi-nati e il fidato braccio destro Riccardo Brugia si rivolgono spesso, scrive il Ros dei carabinieri, quando hanno bisogno di un automobile. E così Paolantoni e Seccaroni si telefonano, il 28 febbraio 2013, per “discutere – annota il Ros – del problema relativo al leasing dell’autovettura di Carminati”. Paolantoni chiama Seccaroni per riferirgli di “di aver ricevuto un telegramma dalla finanziaria con il quale veniva intimato il versamento di 1885 euro e la riconsegna dell’autovettura in questione”. Seccaroni spiega che, almeno fino a gennaio, la convivente di Carminati, Marina Alessi, “ha fornito prova dei pagamenti effettuati” ma poi su suo consiglio, “si erano recati presso la concessionaria Autocentri Balduina, ove non si era voluto procedere ad autenticare la firma a distanza, pur avendo la Marini un leasing attivo”, il chei nduceva la donna “a non voler più acquistare l’autovettura in questione”. Il 28 febbraio 2013 c’è la telefonata più imbarazzante per il manager. “Siamo tre amici, no? ”, dice Paolantoni a Seccaroni - “Va bene? Per cui io non ho avuto problemi che tu dessi la macchina a Massimo. no? Tu non hai avutoproblemi…”. Aquelpunto il concessionario replica: “Io non mi sono permesso di dare la macchina. Solo al momento... quando loro ci hanno organizzato..... se no io non gliela avrei mai data e lui non se la sarebbe mai presa..... però adesso... purtroppo... ”. “Luigi – conclude Paolantoni – ma siamo tre amici.... siamo tre persone perbene... il problema qual è? Che poi adesso tutto questo rimane tutto in capo alla mia proprietà... ”. Qualche tempo dopo, parlando con l’imprenditore arrestato Giuseppe Ietto, Paolantoni torna a discutere dell’auto in questione: “... il proprietario della mia vecchia Al sono ancora io, perché me la hanno riportata indietro, ce l'ho ancora lì da vendere porca troia. Anzi perché non te la compri te? ”. “Me l’ha detto Massimo”, risponde Ietto, “ma per chi mi avete preso a me per lo sfascia carrozze.... ”. C’è un altro episodio, oltre il noleggio dell’auto, alegare l’uomo scelto da Rutelli per l’Enit e gli uomini vicini a Carminati, per la precisione Riccardo Mancini, anch’egli arrestato nell’inchiesta sulla “Mafia Capitale”: l’affare dell’impianto sportivo Tre Fontane. Al bando di gara aderiscono due società: la “Nuova rugby Roma” e la “Rugby Roma srl sportiva dilettantistica”, presieduta da Riccardo Mancini, “messo lì” dal sindaco Gianni Alemanno, spiega in un’intercettazione Fabrizio Pollak, anch’egli socio. E proprio Pollak, in un’altra intercettazione, dice che nella società “sarebbe entrato anche Paolantoni”. “Ero amico di Mancini e Pollak”, dice Paolantoni al Fatto, “e abbiamo costituito questa società perché sono amante del Rugby ma da tempo sono fuori dalla società”.

Repubblica 12.12.14
Cristiana Alicata, direzione pd
“Alle primarie denunciai i voti comprati dei rom mi diedero della razzista”
di Paolo Boccacci


ROMA Cristiana Alicata, il sette aprile del 2013 lei denunciò un episodio avvenuto in una sezione della Magliana durante le primarie per il sindaco.
«Alcuni militanti mi avvisarono che nella sezione venivano accompagnati interi gruppi di persone e chi era lì aveva l’impressione che venisse detto loro per chi dovessero votare. E precedentemente alcuni avevano fatto mettere a verbale che avevano assistito a uno scambio di soldi».
Chi li accompagnava?
«Non lo so. Altrimenti sarei andata in Procura».
Lei invece che cosa fece?
«Denunciai sui social network con una frase infelice la stranezza di quella partecipazione così massiccia».
Perché era infelice?
«Perché ha concentrato l’attenzione sul fatto che quelle persone erano rom e non invece sulla questione che c’era chi probabilmente sfruttava la loro disperazione».
Avevano avuto in cambio qualcosa?
«Non lo posso dire con certezza, ma non si erano mai visti nella sezione».
Fenomeni di questo tipo sono capitati altre volte?
«Certamente, basta vedere i dati dei congressi a Roma e del tesseramento in prossimità dei congressi stessi. E ci sono altre cose strane».
Quali?
«Quando ci sono le primarie arrivano a casa lettere a tutti gli iscritti del Pd, come si fa ad avere tanti soldi per spedirle? O per far attacchinare manifesti abusivi in tutta la città e pagare cene nei palazzetti dello sport a centinaia di persone?».
Lei ha addirittura rischiato l’espulsione dal partito.
«Certo, è vero. Anzi mi sono dimessa dalla direzione del Pd Lazio perché stavo subendo un linciaggio con l’accusa di razzismo. Poi sono stata chiamata da Renzi alla direzione nazionale. Fare pulizia è possibile, certificando i redditi dei politici, i finanziamenti degli sponsor e le spese elettorali».

il Fatto 12.12.14
Petrolio lucano, condannato il dem Margiotta
di Sandra Amurri


TURBATIVA D’ASTA E CORRUZIONE, UN ANNO E SEI MESI IN APPELLO AL DEPUTATO CHE SI AUTOSOSPENDE DAL PARTITO: “INGIUSTIZIA”

Neppure il tempo di finire di vantarsi per aver portato 20 ospiti alla cena di autofinanziamento del Pd “una scommessa per finanziare in modo diverso la politica” che la Corte d’Appello di Potenza l’ha condannato a un anno e sei mesi di reclusione e all’interdizione dai pubblici uffici (pena sospesa) per turbativa d’asta e corruzione in riferimento a un appalto per la costruzione del Centro Oli della Total in Basilicata. Il senatore lucano del Partito democratico, Salvatore Margiotta, componente della commissione Lavori pubblici e comunicazioni del Senato e vicepresidente della Commissione parlamentare Rai, era stato assolto in primo grado “per non aver commesso il fatto” nell’ambito dell’inchiesta condotta dal pm Henry John Woodcock oggi a Napoli (quando era alla procura di Potenza) che verteva su un comitato d’affari per gestire tangenti pagate per le estrazioni petrolifere in Basilicata. “Oggi ho subito un’ingiustizia di cui non riesco a farmi una ragione, combatterò, ricorrerò in Cassazione e sono certo che in quella sede farò valere le mie ragioni. Ma nel frattempo, a tutela del mio partito, che amo e per il quale ho sempre lavorato, mi autosospendo dal Pd e da ogni carica, dal gruppo dei Senatori dei democratici, nonché da vicepresidente e componente della Commissione di Vigilanza Rai”, ha annunciato Margiotta, che vista la valanga di avvisi di garanzia e arresti che ha travolto anche il Pd romano deve aver pensato che fosse meglio mettersi da parte in attesa della sentenza definitiva. Nonostante continui a sostenere di essere stato condannato ingiustamente “sulla base di congetture e illazioni visto che al termine di un lungo processo di appello non era emersa nessuna ulteriore prova a mio carico e le testimonianze raccolte sono state tutte a mio favore”. Ma la Corte d’Appello di Potenza, seppure per le motivazioni occorrerà attendere 90 giorni, evidentemente, ha ritenuta fondata l’accusa di aver accettato la promessa di 200 mila euro da Franco Ferrara, imprenditore di Policoro, in cambio di un suo intervento sui vertici di Total per l’assegnazione di una commessa da 26 milioni di euro, che poi ha ottenuto. Accusa per la quale il Pm Henry Jhon Woodcock nel dicembre del 2008 aveva chiesto e ottenuto dal Gip gli arresti domiciliari per Salvatore Margiotta, ai tempi deputato, misura che però venne negata dalla Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera.
IL PM NEL 2011 chiese comunque il rinvio a giudizio per corruzione. Margiotta optò per il rito abbreviato e venne assolto dal Gup. La Procura di Potenza ha fatto appello e la Corte, presieduta da Vincenzo Autera lo ha condannato con la sospensione condizionale anche all’interdizione temporanea dai pubblici uffici per un periodo equivalente alla pena da espiare, un anno e sei mesi. Giusto il tempo di partecipare, con altri 20 amici, alla cena di autofinanziamento del Pd. Partito che se dovesse restituire i 1000 euro pagati a chi nel frattempo è stato indagato, arrestato nell’inchiesta “Mafia Capitale” e condannato per corruzione come il senatore Margiotta tirerebbe delle magre somme, ma come si sa a caval donato non si guarda in bocca, i soldi non hanno né sapore né odore, sono soldi

il Fatto 12.12.14
Pignatone: “Siamo solo all’inizio”
Il procuratore parla all’Antimafia e chiede una legge che protegga i pentiti della corruzione
di Gianluca Roselli


Presto ci saranno nuove operazioni”. Ma “gli arresti di oggi (ieri, ndr) dimostrano il carattere mafioso dell’organizzazione di Massimo Carminati, che era legata a doppio filo con la ‘ndrangheta”. Il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, nel giorno dei due nuovi arresti nell’ambito dell’inchiesta Mafia capitale, torna a parlare e lo fa davanti alla commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosy Bindi. Qui il procuratore capo difende il carattere mafioso attribuito all’indagine, che qualcuno, tipo alcuni organi di stampa, in questi giorni aveva messo in dubbio. “Non c’è una sola mafia, ce ne sono diverse. Quella romana è una mafia originaria e originale”, spiega Pignatone, annunciando nuovi sviluppi. “Ci saranno altre operazioni perché l’indagine va avanti. Su Odevaine, per esempio, siamo solo alla punta dell’iceberg”, aggiunge il procuratore. Che poi cita appalti per 85 milioni bloccati da Comune e Provincia che stavano per finire nelle mani di Salvatore Buzzi. “In totale abbiamo sequestrato beni per 220 milioni, ma la cifra crescerà”, sottolinea.
Ma in cosa si differenzia dalle altre la mafia capitolina? Il magistrato ne traccia un perfetto identikit. “È una mafia che non è legata a un territorio preciso o un quartiere della città, ma vive sulle relazioni, anche politiche, e sulla corruzione. Per intimidire non ammazza e non usa le armi (attirerebbero l’attenzione delle forze dell’ordine), ma non è meno pericolosa”, racconta Pignatone. Nelle intercettazioni, infatti, Carminati parla di “acquistare armi per fare rapine” e di un deposito di munizioni nella villa di Riccardo Brugia. “Non le abbiamo trovate, ma siamo sicuri che ci sono”, dicono i magistrati.
È ANCHE una mafia trasversale. Perché, se è vero che nasce con una matrice di estrema destra (Carminati) e trova terreno fertile negli uomini vicini a Gianni Alemanno, secondo gli inquirenti “sono coperti anche a sinistra, specialmente con Buzzi che si vantava di essere del Pd”. E “la giunta Marino non è detto che ne sia immune”. La spina dorsale dell’organizzazione è semplice: Carmi-nati è il capo, Buzzi è il braccio economico e Brugia quello militare. “Quella di Carminati è una delle mafie che agiscono su Roma, città troppo grande per essere controllata da una sola entità, e che, per forza di cose, aveva stretti legami con la politica”, aggiunge il procuratore aggiunto Michele Prestipino.
Durante l’audizione, poi, si sottolinea l’importanza degli arresti della mattina. “C’è stato uno scambio di favore con la famiglia Mancuso: Buzzi ha potuto operare indisturbato in Calabria, sempre nell’ambito dell’accoglienza agli immigrati, e Carminati ha fatto entrare un imprenditore legato ai Mancuso (Giovanni Campenni, ndr) nell’affare delle pulizie al mercato Esquilino a Roma”, racconta Pignatone. Il quale poi chiede “una premialità” per i collaboratori di giustizia anche in materia di corruzione. “Se diciamo che la corruzione è un problema tanto quanto la mafia, pure qui i collaboratori di giustizia sono fondamentali per le indagini”, afferma il magistrato.
Dai parlamentari molti complimenti e alcune domande, che servono al procuratore per chiarire alcuni punti. “No, nessun riscontro sui soldi in Argentina di Alemanno”. “No, per ora nessun legame diretto tra Carminati e i servizi”.

il Fatto 12.12.14
Copasir: avvisateci se nell’inchiesta c’è qualcuno dei servizi


Capire se nell’inchiesta sul “Mondo di Mezzo”, siano finiti anche uomini dei Servizi segreti: è la richiesta ufficiale del Copasir, il comitato di vigilanza parlamentare sui servizi. Lo ha annunciato il presidente Giacomo Stucchi, su Radio 24: “Per fugare ogni dubbio - ha spiegato Stucchi - il Comitato ha chiesto fin dalla settimana scorsa un’informativa urgente al direttore dell’Aisi (il Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, ndr) Arturo Esposito e proprio ieri abbiamo chiesto di essere aggiornati costantemente su quelli che sono gli sviluppi delle informazioni, qualora dovesse verificarsi che qualcuno dell’agenzia, magari negli anni passati, abbia preso parte a qualche operazione che viene oggi analizzata dalla magistratura. A oggi è escluso , ma è nostra intenzione verificare tutto”. Tra gli indagati dell’inchiesta della Procura di Roma, infatti, non risulta nessun agente, ma in alcune intercettazioni si parla di un trasferimento di denaro. Dice Stucchi: “Anche questa intercettazione riporta dei sentiti dire, delle cose che nessuno mai ha avuto modo di verificare di persona, anche qui siamo nel campo delle ipotesi”.

il Fatto 12.12.14
Unità, Veneziani e Pessina pronti per l’acquisto


Guido Veneziani è a un passo dal conquistare una volta per tutte l’Unità, lo storico quotidiano fondato da Antonio Gramsci. Per riuscirci non è solo, ma al centro di una rete di alleanze allargate che comprendono il costruttore lombardo Massimo Pessina, la banca Intesa Sanpaolo, il sondaggista Adrio de Carolis di Swg e soprattutto il Partito democratico di Matteo Renzi e Francesco Bonifazi, tesoriere del partito di cui l’Unità è stata storicamente il giornale di riferimento. I liquidatori Emanuele D’Innella e Franco Carlo Papa hanno accettato mercoledì l’offerta della cordata. L’intenzione dei liquidatori è quella di dare in affitto il giornale e riportarlo in edicola, l’operazione costerà a Veneziani e soci intorno ai 90 mila euro al mese ma in tutto ci vorranno 10 milioni di euro. E qui entrano in gioco i compagni di avventura dell’editore di periodici come Top, Stop, Vero e Miracoli già presenti nella prima proposta che fu rigettata dai liquidatori.

Corriere 12.12.14
Polemica sulla morte del ministro Ziad: infarto o «omicidio»?
di Davide Frattini


GERUSALEMME Il corpo avvolto nei colori della bandiera palestinese, il saluto militare. Le armi estratte alla cerimonia ufficiale nel palazzo della Muqata sono quelle della guardia presidenziale. Per le strade di Ramallah ricompaiono per la prima volta in dieci anni i gruppi di incappucciati che imbracciano invece i kalashnikov. La base di Fatah chiede «vendetta» contro Israele e con la parata dei suoi miliziani vuole dimostrare di avere i mezzi per combattere. Ziad Abu Ein aveva 55 anni, eppure faceva parte di quella che è chiamata la nuova generazione di capi del movimento il cui leader supremo di anni ne ha 79. Legato a Marwan Barghouti (condannato a cinque ergastoli dagli israeliani per terrorismo), aveva accettato la linea del presidente Abu Mazen: niente fucili mitragliatori per le strade (fino a ieri) se non quelli dell’Autorità, proteste il più possibile non violente contro «il muro di separazione e le colonie». Così si chiamava il comitato diretto da Abu Ein, che era anche stato vice-ministro per i prigionieri. Mercoledì stava guidando un gruppo di manifestanti che voleva piantare alberi di ulivo per contestare l’espropriazione di terre.
All’autopsia hanno partecipato medici palestinesi, israeliani, giordani. Hanno assistito agli stessi esami nell’obitorio di Abu Dis, in Cisgiordania, ne leggono i risultati in modo diverso. Secondo il ministero della Sanità a Gerusalemme, Abu Ein è morto per un infarto, lo stress della situazione tra le cause. Secondo gli anatomopatologi palestinesi sarebbe stato ucciso: il cuore avrebbe ceduto per i gas lacrimogeni, l’aggressione e i colpi dell’ufficiale della polizia di frontiera (un video mostra l’israeliano che gli stringe le mani al collo), perché gli è stato impedito di raggiungere l’ospedale quando si è sentito male.
Abu Mazen sta decidendo come rispondere. Minaccia di interrompere il coordinamento delle sue forze di sicurezza con l’esercito israeliano, uno dei punti principali dell’accordo di Oslo, che il presidente palestinese aveva mantenuto anche dopo la fine dei negoziati in aprile. Sa di avere un elemento di pressione potente, è consapevole che il premier Benjamin Netanyahu vuole il ritorno alla calma perché non può permettersi il caos nei tre mesi di campagna elettorale almeno fino al voto anticipato di metà marzo. «La morte di Abu Ein – commenta l’analista arabo Daoud Kuttab su Al Monitor – offre un martire alla strategia di Abu Mazen. Che spingerà tra i palestinesi per continuare la strada delle proteste popolari e delle mosse diplomatiche, come la richiesta di riconoscimento della Palestina con un voto del Consiglio di sicurezza all’Onu».

La Stampa 12.12.14
Tensione in Cisgiordania, altri scontri a Hebron. E Israele aumenta la presenza dell’esercito
Oggi in migliaia hanno preso parte ai funerali del ministro Ziad Abu Ein, morto ieri dopo una colluttazione con i militari in un villaggio vicino Ramallah. Ma è scontro sulla dinamica. A rischio la cooperazione sulla sicurezza
di Maurizio Molinari
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http://www.lastampa.it/2014/12/11/esteri/tensione-in-cisgiordania-altri-scontri-a-hebron-e-israele-aumenta-la-presenza-dellesercito-QqHvT03l3JrySmTTgukknM/pagina.html

La Stampa 12.12.14
Ebrei e palestinesi, una “Commissione Verità sul ’48” per un vero ’appeasement’
L’ong israeliana “Zochrot”: “Dobbiamo ripetere lo stesso modello di riappacificazione avvenuto in Sudafrica fra bianchi e neri dopo la fine del regime dell’Apartheid”
di Maurizio Molinari
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La Stampa 12.12.14
Hong Kong, la polizia smantella la protesta
Distrutti gli accampamenti di Occupy, arrestati 209 studenti. Ma adesso la Cina deve fare i conti con i “nuovi democratici”
di Ilaria Maria Sala

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La Stampa 12.12.14
La fabbrica cinese che brucia banconote al posto del carbone
A Luoyang una centrale produce elettricità utilizzando denaro fuori uso: più kilowatt e minore impatto ambientale. Il web si scatena: “Starò senza luce, ma date a me i soldi che mandate in fumo”

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La Stampa 12.12.14
Il regista Spike Lee
“Se la polizia ferma un bianco, il bianco resta vivo, un nero forse no”
di Simonetta Robigny

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La Stampa 12.12.14
Herta Müller
“Così Ceausescu uccideva l’anima del suo popolo”
La Nobel tedesca racconta gli orrori del comunismo in un libro-intervista: la bruttezza unica eguaglianza
di Tonia Mastrobuoni


Una sera sventa il tentativo del suo amico Rolf Bossert di buttarsi dalla finestra, lo tira dentro all’ultimo istante, lo rimprovera brutalmente di essersi scelto una serata conviviale per ammazzarsi. Ma quando lo lasciano libero, quando gli uomini di Ceausescu consentono al poeta di lingua tedesca di espatriare, Herta Müller impara una lezione importante. Per fare le valigie «devi ancora essere in possesso delle tue facoltà mentali», non puoi partire da pazzo.
Bossert arriva a Francoforte, parla per tre settimane ininterrottamente del regime, della crudeltà dei suoi aguzzini, braccato dalle paranoie. Poi si suicida. In anni recenti, la scrittrice tedesca ha scoperto che i servizi rumeni avevano dato il via libera all’espatrio di Bossert per un calcolo lucido: il suo progressivo impazzimento lo avrebbe spinto a togliersi la vita. Ed era meglio farlo morire all’estero che in patria. Eppure, l’ombra di uno dei servizi segreti più crudeli del Patto di Varsavia si è allungata negli anni persino su questa morte. Nonostante tutto, Herta Müller non ha mai creduto fino in fondo che Bossert si fosse tolto la vita.
Il libro-intervista del Nobel per la Letteratura con Angelika Klammer appena uscito da Hanser in Germania Mein Vaterland war ein Apfelkern (La mia patria era un torsolo di mela) è il racconto degli abissi di dolore in cui il terrorismo di Stato spinse lei e i suoi amici, ma è anche una testimonianza preziosa, autobiografica, dei suoi meccanismi di scrittura.
Herta Müller comincia Bassure in fabbrica, di nascosto. Il padre è morto da poco, la persecuzione del regime già molto pesante. Dopo il suo rifiuto di collaborare con la Securitate, i servizi mettono in giro la voce che è una spia. I colleghi la evitano come la peste, e «la scrittura rendeva la paura addomesticabile». Ancora oggi, altalenando tra l’urgenza di scrivere e la fatica di rivivere il passato tragico, Müller rivela che «il vissuto mi osserva di nuovo mentre scrivo, ma con uno sguardo diverso». In una dittatura «che rendeva due terzi della vita impossibile» e occupava la dimensione privata «con l’oppressione», l’intimità «cercava un riparo, ma i rapporti erano inquinati dalle pressioni politiche. Le amicizie erano preziose e pesanti, l’amore precipitava. I nervi impazzivano».
Negli anni di Ceausescu i suoi persecutori la interrogano di continuo, la spiano ininterrottamente. Il suo appartamento, quelli dei suoi amici, sono zeppi di microspie. Loro non lo sanno, lo scopriranno dopo la caduta della dittatura. Ma quello che sanno benissimo è che i servizi hanno le chiavi, che entrano ed escono dalle loro case quando vogliono. E lasciano segni. Herta Müller ha una pelliccia di volpe, la usa come tappeto. Un giorno la volpe comincia a perdere i pezzi. Una zampa, poi l’altra, la testa, la coda. Non sono pezzi strappati, sono tagliati con cura, sono segni inequivocabili del passaggio dei suoi aguzzini, momenti crudeli dell’onnipresenza del regime.
Il terrore è come un basso continuo. Ogni tanto qualcuno suona alla porta che le annuncia giorno e data del suo prossimo interrogatorio. Oppure la prelevano direttamente dalla strada, dal posto di lavoro, ovunque. E durante quegli interrogatori demenziali, in cui la accusano di prostituirsi con degli «arabi» o di fare contrabbando, la dignità ha sussulti inaspettati. Durante un interrogatorio particolarmente duro, il suo persecutore perde la pazienza, lei pensa che la voglia picchiare, lui si avvicina e le toglie un capello dalla spalla. Lei scatta, «me lo ridia, è mio». Lui glielo rimette sulla spalla: «teatro dell’assurdo», certo.
Le vere costanti degli anni di Ceausescu, oltre al terrore, sono l’ignoranza e la bruttezza. «La bruttezza onnipresente era l’unica uguaglianza del socialismo. Ed era voluta, era programmatica», perché rendeva «apatici e privi di aspirazioni». Sugli obbrobri linguistici dei burocrati stalinisti, Müller osserva che «la lingua aveva perso la ragione». E i funzionari che avevano riempito i ministeri e gli uffici pubblici «venivano spesso dalla campagna», erano «provinciali» e intrisi della tipica «pruderie staliniana». E non sono spariti con la caduta del muro di Berlino: «L’arrogante squallore dei funzionari comunisti è lo stesso ovunque, sembrano usciti tutti, ancora oggi, dalla stessa scuola di cadetti». E Müller ne cita uno per tutti: Vladimir Putin.
Nella Romania post comunista, un caso di delazione scosse la scrittrice tedesca più di tutti. Quello di Oskar Pastior, un amico caro, lo scrittore che l’aveva aiutata a ricostruire la vita nei gulag per «L’altalena del respiro». Dopo la sua morte, nel 2010, venne fuori che era stato una spia della Securitate; Müller reagì sconvolta. Ora, nel libro-intervista, mostra comprensione per un uomo che accettò di collaborare con i servizi poco dopo la devastante esperienza nel campo di lavoro staliniano e che comunque raccontò per anni dettagli «irrilevanti» ai servizi. Quasi a giustificarlo, Müller ricorda una sua massima dolorosa, «nessuno deve più aggrapparsi a me, sono irraggiungibile per umiltà, non per orgoglio». E nel libro non manca un atto di accusa forte nei confronti della Romania attuale: molti ex aguzzini della Securitate lavorano oggi nei servizi segreti; e gli atti del regime sono talmente lacunosi che il sospetto che molti documenti siano stati fatti sparire è ancora immenso.

Corriere 12.12.14
San Brendano e Carlo Magno in viaggio tra pericoli e fantasie
Riferimenti classici e ricerca di Dio nella Natura: due grandi «Odissee» del Medioevo
di Pietro Citati


La navigazione di San Brendano (Edizioni del Galluzzo) è uno dei testi più divertenti e incantevoli del Medioevo, che deve la sua grazia alla equilibrata follia della mente irlandese. Quasi certamente è stato scritto in Irlanda verso la fine del settimo secolo: nutrito di materia popolare irlandese e di tradizione biblico-cristiana — la agiografia, gli apocrifi, oltre che dell’amatissimo Romanzo di Alessandro. Come dice il titolo, La navigazione di San Brendano è un libro di navigazione. Il monaco si lascia dietro le spalle il convento e ogni luogo fermo, ed esplora sempre più a lungo le profondità dell’oceano, le tempeste e le maree, che gli permettono di capire la propria ricerca di perfezione, e di inseguire quel punto di fuga che è Dio. Tutto ciò che esprime il viaggio e il vagabondaggio per mare è affascinante e bellissimo. Come nell’Odissea, tutto profuma di mare. Soprattutto le isole: i luoghi fuori dal tempo e chiusi nel silenzio, ricercati dall’instancabile vagabondaggio; isole che, nel mare d’Irlanda, sono moltissime, ora distanti ora prossime l’una all’altra.
Chi guida il viaggio è un monaco, San Brendano, «uomo di grande austerità», nato nel Kerry, nel sudovest dell’Irlanda, che secondo la leggenda sarebbe stato anche in Scozia e nel Galles. Come tutti gli asceti cristiani, si nutre di pochissimo cibo, solo frutta e prodotti vegetali, che quasi sempre sono un dono divino, come l’acqua. Fa miracoli: ha il dono della preveggenza, che gli permette di raccontare ai monaci e al narratore, fin nei minimi particolari, tutto ciò che accade nel tempo a venire. Il futuro, la sua abitazione prediletta, lo fascia amorosamente come un nido o una culla.
Mettendo mano agli attrezzi, Brendano e i suoi compagni fabbricano una barca molto leggera, con le coste e le traverse di legno di tasso, e la ricoprono di pelle bovina conciata con corteccia di quercia: all’esterno dell’imbarcazione spalmano tutte le giunture della pelle col grasso; e mettono all’interno le provviste per quaranta giorni, il grasso con cui trattare le pelli, l’albero a vela e gli strumenti necessari per la vita di ogni giorno. Lasciano la terra; e vanno di isola in isola. San Brendano è il nuovo Mosè che cerca di penetrare nella terra di Canaan: o Adamo che ritorna nell’Eden; solo che Canaan e l’Eden cambiano, per lui, nome e luogo, secondo le isole sulle quali posa ogni volta il piede. Non vede che cielo e terra: il mare è così limpido, che può vedere tutto ciò che sta sul fondo: gli sembra di poter toccare con la mano gli animali di razza diversa, che nuotano o strisciano sotto la barca.
Un’isola porta il nome di paradiso degli uccelli: rocciosa, con pochi alberi; essa è in realtà, come Dio rivela a San Brendano, un animale mostruoso, mobile e vivente. Tutti gli uccelli cantano con una sola voce: «La salute si deve al Dio nostro, che siede sul trono, e all’agnello». Fanno risuonare a lungo le voci e le ali. Un uccello siede sulla cima di un albero, con le ali distese, che vibrano come un grande organo.
Vedono balene, che gettano spuma dalle narici, solcando le onde ad altissima velocità: uccelli giganteschi che tendono rami di un albero sconosciuto, che ha in cima un grosso grappolo di uva straordinariamente rossa. Altre isole sono perfettamente pianeggianti, al punto che appaiono simili al mare, prive di alberi e vegetazione. Schiere di fanciulli, di giovani e di anziani cantano inni sacri. Una di queste isole viene avvolta a un tratto da una nube di meravigliosa luminosità, così fitta che San Brendano non può vedere ciò che ha scorto fino a allora. Su un’altra isola, dimora un sant’uomo, Paolo, un vecchissimo eremita spirituale, che non si nutre di nessun cibo e vive di niente. L’isola dell’inferno emette un gran fuoco dalla vetta ed è velata da nebbie. Una folla di diavoli trascina un monaco verso i tormenti, precipitandolo nelle fiamme.
Nel mondo idilliaco delle isole dei viaggi sono rare le apparizioni del male. Gli uccelli dell’isola del paradiso erano stati guidati da Lucifero: vennero esclusi dalle creature fedeli al Signore; eppure contemplano la presenza di Dio. Anche la creazione malvagia fa dunque parte della creazione buona. Tutto è bello, puro, innocente. La voce che racconta la navigazione di San Brendano e dei suoi monaci cancella ogni traccia di pericolo e di sciagura e trascina i monaci, beatamente, di isola in isola, fino all’isola ultima.
La Vita Karoli (Edizioni del Galluzzo) è la più famosa biografia del Medioevo. Noi, oggi, siamo abituati (come, del resto, era abituato Plutarco) a cercare in ogni personaggio i lineamenti più particolari, cancellando tutti gli altri tratti. Certamente Eginardo racconta, con il suo acuto sguardo da testimone oculare, i momenti singolari della vita di Carlo Magno. Ma questa fedeltà all’esistenza non gli basta: egli trasforma Carlo Magno nell’Augusto di Svetonio; vede Carlo in Augusto e Augusto in Carlo, con un incantevole gioco di riflessi e di specchi. Così il suo testo breve e concentrato non crea un carattere, ma quasi un mito: il mito della grande figura regale che illumina di sé tutto il Medioevo.
Come Svetonio, Eginardo divide la vita di Carlo Magno in due sezioni: una è dedicata all’uomo di Stato e alle sue imprese e un’altra al suo carattere. Non parla volentieri delle imprese militari.
Ciò che sopratutto lo interessa è la «energia» di Carlo Magno: la sua incrollabile, inflessibile determinazione, sia nella cattiva sia nella buona sorte: egli è sempre uguale a se stesso; oppone sempre la stessa volontà a tutti gli eventi della vita. Non è violento ma mite, non frammentario ma continuo. È un re cristiano: quando combatte contro i Sassoni, si propone di condurre alla nostra religione «quei selvaggi dediti al culto dei demoni, fino a quando impone loro i sacramenti della fede e della religione cristiana». Quando scende a Roma passa i suoi giorni «in venerazione dei luoghi sacri, sopratutto la chiesa di san Pietro». Come re-architetto, fa costruire la basilica della Santa Madre di Dio ad Aquisgrana e lì vive negli ultimi anni.

La Stampa 12.12.14
Il tramonto del corsivo
In Finlandia abolito dalle scuole: non serve per il pc
Gli studiosi: un errore, cambia il modo di pensare
di Vittorio Sabadin


La capacità degli esseri umani di scrivere a mano sta scomparendo, non proprio nell’indifferenza generale, ma quasi. In Finlandia, lo Stato ha deciso che non è più necessario insegnare la calligrafia agli studenti: in un mondo nel quale tutti scriveranno sempre di più su tastiere elettroniche è tempo perso. Insegnare a usare bene un iPad è invece più utile per la vita di tutti i giorni. Anche in Indiana, negli Stati Uniti, la scrittura è diventata una materia facoltativa: i docenti hanno sempre più cose da fare e bisogna cancellare i programmi che non sono prioritari, concentrandosi su quelli più tecnologici.
I difensori di penna e foglio di carta sono sempre meno e rischiano di apparire antichi come un papiro egizio. L’abitudine a scrivere a mano è ormai così deteriorata che in Gran Bretagna una persona su tre non è in grado di leggere la propria calligrafia e non ha scritto nulla a mano negli ultimi tre mesi. Rin Hamburg sul Guardian ammette che i suoi parenti hanno bisogno di aiuto per leggere i biglietti di auguri che ricevono da lei. Da anni tiene un diario, ma non lo nasconde più, perché nessuno sarebbe comunque in grado di decifrarlo.
Anche chi ha imparato a scrivere copiando alle elementari migliaia di vocali e consonanti in bella calligrafia scopre oggi, dopo decenni al computer, di avere difficoltà a leggere i propri appunti scritti a mano. Meglio prenderli sul blocco note dell’iPhone: si fa più in fretta, sono più chiari e non bisogna cercare in tasca penna e carta. E’ tutto dunque così semplice? Stiamo assistendo all’ennesimo sviluppo tecnologico, al passaggio da un modo di fare le cose a un altro che ha sempre caratterizzato l’evolversi della civiltà?
Gli scienziati che studiano l’evoluzione del cervello umano sono molto più preoccupati, come gli insegnanti e i genitori avveduti, per la progressiva perdita della capacità dei ragazzi di scrivere a mano. La scrittura non è innata, non è genetica, va insegnata. Più di 6000 anni fa, i Sumeri crearono le prime scuole di scrittura: sulla metà superiore di una tavoletta di cera erano incisi alcuni caratteri cuneiformi; gli studenti dovevano ricopiarli sull’altra metà, usando uno stilo. Mentre facevano questo, il loro cervello cambiava. In Proust e il calamaro: storia e scienza del cervello che legge, la neuroscienziata Maryanne Wolf spiega i benefici dello scrivere a mano: «Il cervello diventa un alveare di attività. Una rete di processi si mette in azione: le aree di associazione visuali rispondono a modelli visivi o rappresentazioni; i lobi frontali e temporali e le aree parietali forniscono informazioni ed elaborano significato, funzione e connessioni».
Circa un terzo del nostro cervello si mette all’opera quando scriviamo a mano, molto di più di quando scriviamo sull’iPad. E’ forse per questo che ricordiamo meglio le cose scritte a penna: ogni ricerca ha confermato il legame tra la scrittura e la capacità di apprendere. Molti compositori, per affinare la loro arte, ricopiano a mano gli spartiti dei grandi maestri della musica: è l’unico modo per scoprire dove si nasconde la grandezza. Lo stesso fa a volte chi vuole diventare scrittore: ricopiare a mano un testo dell’autore preferito consente di comprenderne meglio la tecnica.
Secondo il semiologo Umberto Eco, la fine della scrittura a mano è cominciata molto prima dell’era dei computer, addirittura con l’invenzione della penna a sfera. «La gente – ha rilevato - non aveva più interesse a scrivere in quanto, con questo prodotto, la scrittura non ha anima, stile e personalità. La mia generazione ha imparato a scrivere a forza di ricopiare in bella grafia le lettere dell’alfabeto. Può sembrare un esercizio ottuso, ma l’arte della scrittura insegna a controllare le nostre dita e incoraggia la coordinazione occhio-mano».
Sembra non esserci più nulla da fare. Le scuole si sono arrese, o cominciano a farlo. I difensori della bella calligrafia si ritrovano ormai come una specie in estinzione nelle riserve loro destinate: le scuole private di scrittura, i club, i concorsi. Ma sarebbe bello, almeno a Natale, almeno per un altro po’, e finché sappiamo ancora farlo, spedirsi un caldo biglietto di auguri scritto a mano, invece del gelido «copia e incolla» frettolosamente inviato senza distinzione a tutta l’agenda dello smart phone.

La Stampa 12.12.14
“È la scrittura più simile al fluire del pensiero”
La calligrafa: “Aiuta a concentrarsi Ci caratterizza, è diverso per ognuno”
intervista di Lorenza Castagneri


«Agghiacciante». Così Francesca Biasetton, artista e calligrafa, autrice di Unique. What it says, how it looks, commenta la decisione delle scuole finlandesi di non insegnare più il corsivo. «Una follia. Questo è proprio il tipo di scrittura più importante nella fase dell’apprendimento. Abbandonarlo è controproducente».
Perché?
«Nel corsivo, le lettere hanno le legature e si scrivono tutte unite tra loro: una rappresentazione grafica che, per prima cosa, facilita molto la vita del bambino, che non deve staccare di continuo la penna dal foglio a differenza dello stampatello. Non solo: ciò aiuta ad abbinare meglio i segni ai suoni, a sillabare, e, di conseguenza, si impara a leggere più facilmente».
E le abilità di composizione del testo?
«Anch’esse vengono favorite con il corsivo, perché è il modo di scrivere che più si avvicina al fluire del pensiero umano. È lo stile a noi più familiare, anche se è diverso da persona a persona. E ciò ci caratterizza».
Eppure, anche in America alcuni Stati hanno abolito da anni questo tipo di grafia. Non ha l’impressione che la scrittura a mano sia sempre meno importante?
«Assolutamente sì e questo è un male. Mettere per esteso dei concetti attraverso la penna o la matita sviluppa, innanzi tutto, la capacità di organizzare gli spazi sul foglio e impone il rispetto di determinate regole. Inoltre, potenzia la motricità fine e migliora la coordinazione tra il cervello e la mano».
È vero che scrivere a mano aiuta anche a immagazzinare meglio le informazioni?
«Ci sono ricerche che lo dimostrano. Prendendo appunti in modo tradizionale siamo più concentrati e interiorizziamo di più quello che si ascolta. Tuttavia, ciò non vuol dire che non si debba imparare a scrivere con la tastiera. Anche questo è importante».
Che cosa intende?
«Tecnologia e tradizione non si escludono a vicenda. Nella comunicazione quotidiana di oggi è normale darsi un appuntamento via sms, eppure le lettere d’amore e le condoglianze continuano a essere scritte a mano. Insomma, tutto dipende dal messaggio che dobbiamo trasmettere».
Steve Jobs, ex studente di calligrafia e poi fondatore di Apple, sintetizza questo legame?
«Esatto. Jobs ha sempre ammesso che senza aver frequentato quel corso non avrebbe potuto creare il Mac. Ciò dimostra che passato, presente e futuro sono complementari. E che il corsivo merita di essere ancora insegnato».

Repubblica 12.12.14
Ciò che sappiamo di piazza Fontana
di Benedetta Tobagi


MANCA poco a Natale. A Milano, nella filiale della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana — in pieno centro, proprio dietro al Duomo — come ogni venerdì pomeriggio si stanno svolgendo le contrattazioni tra agricoltori e allevatori giunti dalle campagne lombarde.
ALLE 16.37, una bomba esplode e trasforma il salone circolare della banca nell’inferno. Uccide 17 persone, ne ferisce un centinaio. Era il 12 dicembre 1969, quarantacinque anni fa. La prima grande strage accade quando la Repubblica italiana è appena 23enne, una ragazza con molte ingenuità, moltissime speranze e le spalle gravate dal peso dell’eredità del Ventennio fascista a soffocarne gli slanci: poliziotti, magistrati, questori, burocrati ministeriali…gli apparati dello Stato sono ancora innervati di uomini del vecchio regime. È l’inizio di una lunga stagione di terrorismi. Fino al 1974, stragi neofasciste realizzate con l’intento di destabilizzare il Paese e promuovere una svolta autoritaria, o almeno una stabilizzazione conservatrice, contro l’avanzata delle sinistre. Poi, l’escalation del terrorismo rosso, che voleva innescare la rivoluzione e tentò di accreditarsi anche come risposta allo “Stato delle stragi”, per conquistare le simpatie di giovani esasperati e disgustati. Perché i terroristi neofascisti godettero di appoggi e coperture dentro gli apparati di sicurezza, e le stragi restarono per lo più impunite, a causa dei depistaggi. Anche piazza Fontana. Quarantacinque anni dopo, dopo tre lunghi e tormentati processi (potete trovare tutte le sentenze e un riassunto dell’iter giudiziario nel sito fontitaliarepubblicana. it), forse la cosa più importante è rimettere insieme quanto sappiamo della strage di piazza Fontana. Perché sappiamo molto, e ne abbiamo le prove, a dispetto dei depistaggi.
Il massacro di piazza Fontana è ascrivibile a “Ordine Nuovo”, la più pericolosa organizzazione della destra eversiva, che nella sua parte clandestina aveva mezzi e intenti stragisti. Nel 2005, la Cassazione ha dichiarato accertata la responsabilità nell’organizzazione della strage dei terroristi neri Franco Freda e Giovanni Ventura, già condannati per numerosi attentati nella primavera-estate ‘69. Solo sul piano storico, però: già processati, erano stati assolti in via definitiva nel 1987. Resta provato il coinvolgimento dell’armiere di Ordine Nuovo, Carlo Digilio, collaboratore di giustizia dagli anni Novanta. Sappiamo che il Sid, il servizio segreto dell’epoca, ha depistato le indagini: tra tante assoluzioni resta la condanna passata in giudicato degli ufficiali Gianadelio Maletti e Antonio Labruna, per aver aiutato uno dei neofascisti indagati a fuggire all’estero.
«Ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza indagini verso gruppi anarchici aut frange estremiste. Est già iniziata previe intese Autorità giudiziaria vigorosa azione at identificazione et arresto responsabili» scrisse in un telegramma il prefetto di Milano, Mazza, al presidente del Consiglio Rumor la sera stessa del 12 dicembre 1969. Sappiamo che la falsa pista anarchica che incriminò l’anarchico Valpreda (depistaggio di cui fu vittima innocente e ferocemente calunniata il ferroviere Giuseppe Pinelli), fu costruita ad arte e pervicacemente perseguita dai funzionari degli Uffici politici di Roma e Milano, e dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, che svolsero le indagini a partire dal 12 dicembre 1969: con buona pace dell’articolo 109 della Costituzione, ufficiali di polizia giudiziaria a servizio dei desiderata dell’esecutivo più che della magistratura. Una catena di potere che riconduceva al ministro dell’Interno democristiano Franco Restivo. Sappiamo che funzionari come il questore di Milano Guida, il commissario capo Allegra, Russomanno e Catenacci dell’Uar, e altri, hanno nascosto ai magistrati elementi di prova: l’hanno scoperto e denunciato in una limpida requisitoria del 1974 i pm milanesi Fiasconaro e Alessandrini (assassinato nel 1979 dai terroristi rossi di Prima Linea), prima che il processo gli fosse scippato per spedirlo a Catanzaro, a mille chilometri di distanza dal giudice naturale.
Sappiamo che ci sono strani “buchi” laddove dovrebbero esserci documenti: per esempio, nell’archivio dell’Ufficio affari riservati ritrovato in un deposito sulla via Appia, a Roma, nel 1996, mancano documenti prodotti nei giorni in prossimità del 12 dicembre 1969. Sappiamo che ci sono ancora tanti posti dove andare a cercare: nell’archivio del ministero della Difesa, per esempio, potremmo trovare documenti e lettere che dovettero circolare freneticamente tra il giugno e il luglio del 1973, quando il giudice istruttore D’Ambrosio chiese se il giornalista di destra Giannettini, legato a Freda e Ventura, collaborasse col Sid, e gli fu opposto il segreto politico-militare. E aspettiamo che il ministero dell’Interno versi all’Archivio centrale dello Stato anche le carte dell’Ufficio affari riservati posteriori al 1965, e siano consultabili le carte degli uffici politici delle questure, i fascicoli dei funzionari che ci lavorarono. Ora che la Repubblica è un’anziana signora piena d’acciacchi, vicina ai settanta, sarebbe bello che, a prescindere dalle “direttive straordinarie” che si stanno rivelando di dubbia efficacia, la politica dei versamenti agli archivi divenisse più fluida e regolare.
Non sappiamo ancora tutto, è vero. Ma sappiamo moltissimo e non bisogna lasciare più che qualcuno s’azzardi a dire il contrario, come hanno fatto troppi epigoni della destra degli anni Settanta dopo essere andati al governo nel ‘94. Né dobbiamo scivolare nella fatale tentazione del cinismo, che si fa più forte ogni volta che si alza una nuova ondata di scandali: non potremo mai sapere la verità, l’hanno fatta franca, a che serve? È la solita Italia dei misteri, non vale la pena di provare a capire, ricordare, distinguere, rimettere in fila l’elenco, incompleto e lacunoso, delle responsabilità, e via dicendo. Arrendersi a questi pensieri sarebbe come diventare complici dei depistatori.
Se consideriamo quanto vasto e feroce è stato il dispiegamento di forze del Potere, nelle sue varie articolazioni, per mistificare il vero, creare falsi colpevoli, nascondere i responsabili, è quasi stupefacente quanto sappiamo, grazie all’impegno di molte donne e uomini di buona volontà che hanno continuato, ostinati, a indagare, spesso in solitudine, a dispetto delle minacce e degli ostacoli. Teniamocelo ben stretto. E continuiamo a lavorare perché si possa raccontare sempre più e sempre meglio cosa è accaduto, davvero, in questo Paese.

Repubblica 12.12.14
“Contrordine compagni Berija non era così cattivo”
Un giornale molto vicino al Cremlino riabilita il boia di Stalin: “Era un riformatore”
di Nicola Lombardozzi


MOSCA MA ERA veramente così cattivo? Quello che per anni è stato solo un raffinato e poco pubblicizzato dibattito tra storici, da ieri è un tema alla portata di tutti i cittadini russi. Tutti hanno saputo dai libri di scuola, e da tanti aneddoti popolari, delle nefandezze e delle crudeltà al limite del sadismo commesse da Lavrentij Berija, per anni a capo del famigerato Nkvd (Commissariato del popolo per gli affari interni), e protagonista degli ultimi anni del terrore staliniano. Adesso però Nezavisimaya Gazeta , uno dei giornali più vicini al regime attuale, ha deciso di pubblicare un complesso collage di lettere, documenti, e testimonianze, in gran parte inediti. A leggerle, e limitandosi a queste informazioni, verrebbe spontaneo schierarsi sulla tesi dei pochi storici revisionisti convinti che Berija sia stato un capro espiatorio, eliminato dai suoi compagni di partito, Krusciov in testa, perché considerato un pericoloso riformatore del regime sovietico. Addirittura, azzarda qualcuno, una sorta di Gorbaciov ante litteram. Il giornale non fa alcun commento. Si limita a pubblicare le carte in occasione del 61esimo anniversario della morte di Berija. Ma in un Paese in cui la dietrologia è di casa, tanti pensano che ci sia un tentativo di trasformare in una vittima quello che per anni è stato definito “il boia dello stalinismo”.
Le “nuove” carte risalgono alla primavera del 1953. Stalin è morto il 5 marzo. I dubbi sulla sua fine non sono ancora dissipati. Nelle memorie del ministro degli Esteri, Molotov, sarebbe stato proprio avvelenato da Berija che comunque viene nominato vice primo ministro. Seconda carica per importanza rispetto a quella di Georgij Malenkov, primo ministro. Il futuro leader dell’Urss, Nikita Krusciov, tesse le sue trame da segretario del Partito. Nelle lettere pubblicate ieri il “boia” Berija si rivolge a Malenkov chiedendogli di svuotare le carceri sovietiche. Il 26 marzo scrive: «Tra campi di lavoro e prigioni, ci sono 2.526.402 detenuti. Propongo una amnistia totale». E spiega pure il perché: «La detenzione nei campi, il distacco dal mondo, le privazioni continue, portano alla distruzione delle famiglie e della loro vita». Ma non basta, Berija ammette che molti sono nei detenuti ingiustamente: «La maggioranza è di ottima condotta, ha attitudine al lavoro e può in condurre una vita onesta». E conclude: «La revisione della nostra legge penale è necessaria e urgente. Ogni anno vengono condannate un milione e mezzo di persone. La maggio parte per delitti che non rappresentano un reale pericolo per lo Stato».
Berija sarebbe stato arrestato con un blitz dell’esercito il 23 giugno del 1953, accusato di essere una spia britannica. Prima però ebbe il tempo di un’altra iniziativa che sembra smentire il personaggio sanguinario passato alla Storia. Sempre in una lettera a Malenkov chiedeva infatti di riaprire uno dei casi più sconcertanti di repressione staliniana. Alla fine del 1952 era stata annunciata la scoperta di una organizzazione segreta di medici, in gran parte ebrei, che avrebbero sottoposto i loro pazienti a cure letali allo scopo di seminare il panico nel popolo sovietico. Una provocazione che scatenò arresti in serie di illustri accademici e di medici di ogni rango e fece esplodere un’isteria antisemita di massa. La cosa fu smascherata molto tempo dopo negli anni della destalinizzazione. Ma appunto il primo aprile ‘53, era proprio Berija a denunciare le false accuse: «In seguito alle mie dettagliate verifiche ho stabilito che è stata tutta un’invenzione dell’ex vice ministro Rjumin, compiuta a fini criminosi di carriera. Basandosi su presunti interrogatori non documentati di un professore già defunto in carcere, ha fabbricato la sua versione inesistente». E aggiungeva: «Propongo di riabilitare tutte le vittime della persecuzione e indagare su tutti i responsabili dei servizi segreti colpevoli delle false accuse. Ma anche di cambiare le leggi sovietiche per impedire altri casi del genere in futuro». Non sono parole da “boia”. Ma il dilemma storico resta. Berija scriveva in coscienza o per scaricare le sue responsabilità? Arrestato in giugno, fu ucciso senza processo nonostante le sue implorazioni ai “cari compagni”. Tra le tante versioni sulla sua morte ce n’è una riportata da Indro Montanelli nella quale il futuro leader dell’Urss raccontava, un po’ alticcio, a un esterrefatto Giancarlo Pajetta: «Lo invitammo a una seduta del Comitato Centrale e lo strangolammo con le nostre mani».

Repubblica 12.12.14
Saggi e versi profetici esce il suo Meridiano
Paul Valéry il poeta che inventò l’idea di link
di Valerio Magrelli


QUELLA di Paul Valéry è la storia di una strana metamorfosi, e il Meridiano che la sua maggiore studiosa italiana, Maria Teresa Giaveri, ha appena curato col titolo Opere scelte ( Mondadori, pagg. 1771, euro 80) non fa che confermarlo nel migliore dei modi, anche grazie a un’ottima squadra di cinque traduttori (Maria Teresa Giaveri, Antonio Lavieri, Massimo Scotti, Paola Sodo e Anita Tatone). Diviso in sei parti, il volume spazia dalla poesia alla prosa poetica.
Dai dialoghi al teatro, con una voce che, dedicata a Modelli e strumenti del pensiero , accoglie alcuni testi posti nel segno di tre “eroi intellettuali”: Monsieur Teste, Leonardo da Vinci e Robinson (proprio quello di Defoe, spiega la Giaveri, trasfigurato in nume tutelare della attività cerebrali). Quanto all’ultima sezione, sulla saggistica, vi ritroviamo ambiti diversi quali pittura, letteratura e estetica, senza dimenticare Attualità e politica . Davvero un bel crogiuolo! Ma come conciliare versi metricamente analoghi a quelli di un Racine, con interventi di taglio geopolitico o sociologico?
Come far convivere nella stessa persona lo studioso di matematica e quello di estetica, il critico letterario e l’esperto di medicina? In verità ci troviamo di fronte a un essere “almeno” doppio, come i mostruosi fauni tanto cari al suo grande maestro, Mallarmé. D’altronde, ultimo erede del simbolismo, Valéry fu anche l’intellettuale capace di prevedere l’avvento della televisione già nel 1928: «Verrà un giorno in cui un tramonto sul Pacifico, o un Tiziano del museo di Madrid, appariranno sul muro della nostra camera in modo altrettanto potente ed illusorio di una sinfonia diffusa via radio. Come l’acqua, il gas o l’energia elettrica, con uno sforzo quasi nullo arrivano nelle case da lontano per rispondere ai nostri bisogni, così saremo alimentati da impulsi visivi o auditivi, che nasceranno o svaniranno a un minimo segno, quasi un cenno». Inoltre, descrivendo un futuro gestito da una “società per la distribuzione di Realtà Sensibile a domicilio”, il poeta si spinge addirittura a preconizzare la moderna nozione di link: « Prima o poi, sarebbe interessante fare un’opera che mostrasse in ognuno dei suoi nodi, la diversità che vi si può presentare alla mente, e tra cui essa sceglie l’unico seguito che sarà offerto nel testo». Comunque, a ben vedere, non c’è da stupirsi troppo, tenendo conto dei suoi vivi interessi scientifici, e di una corrispondenza in cui troviamo, tra i nomi di filosofi e di fisici, quelli di Henri Bergson o Albert Einstein.
Dicevamo però delle mutazioni a cui andò incontro la sua figura. Nel 1896 bastò una sua breve prosa, La serata con Monsieur Teste , per farne la stella dei giovani letterati francesi, destinati a innescare di lì a poco la bomba dada e l’incendio surrealista. André Breton, che in seguito lo volle come testimone di nozze, dichiarò di avere conosciuto quasi a memoria quell’opera, apparsa proprio l’anno della sua nascita. E questo fu solo l’inizio di un successo letterario e mondano dai particolarissimi risvolti. Dopo quasi un ventennio di apparente silenzio, tra il 1917 e il 1920 apparvero infatti una serie di poemetti che abbagliarono alcuni fra i massimi poeti europei, Ungaretti, Rilke e Guillén, che di lì a poco ne diverranno anche i traduttori. Dopo LaGiovane Parca, fu soprattutto il Cimitero marino che impose Valéry agli occhi del mondo: «Non è forse la poesia più famosa del nostro tempo?», si chiedeva ad esempio, ancora nel 1957, uno storico dell’arte come Cesare Brandi.
Le trasformazioni, tuttavia, non erano finite. In certo modo, nemmeno l’autore di quegli abbaglianti alessandrini o decasillabi corrisponde allo stesso che leggiamo oggi. Ad esso, infatti, è andato sostituendosi un nuovo, per così dire “terzo”, Valéry. Sia chiaro, dopo le delusioni subite da Breton e compagni (che videro con orrore il proprio idolo volgersi al classicismo), non mancarono i detrattori della poesia valeriana. Basti citare Nathalie Sarraute, Cioran, Gombrowicz o Bonnefoy, radicalmente contrari a una versificazione rimata, anacronistica e aliena come un “meteorite”. Tuttavia, lo si è detto, ormai tali reazioni appaiono, sotto molti aspetti, datate, poiché dopo la morte dello scrittore è emerso un continente sconosciuto, un’autentica Atlantide letteraria.
Mi riferisco agli ormai leggendari Quaderni , delle cui venticinquemila pagine esiste un’edizione fotografica in 29 volumi, mentre sta lentamente uscendo un’edizione critica integrale (Adelphi ne ha pubblicato una scelta in cinque volumi). Se si pensa che, secondo molti critici, l’insieme di questi testi costituisce l’impresa suprema di Valéry, è facile capire quanto sfocati risultino i giudizi finora formulati. È un po’ come parlare della Francia senza aver visitato Parigi...
Di cosa si tratta? Immaginate una specie di diario mentale, o meglio, un laboratorio autocognitivo approntato, mattina dopo mattina, nel corso di mezzo secolo. Gran parte dei Cahiers fu composta all’alba, da un “pensatore mattiniero” che ricorreva a innumerevoli tazze di caffè (vedi Balzac).
Dopo quelle poche ore di assoluta concentrazione, Valéry rivendicava il diritto di essere stupido per tutto il resto del giorno. «Amo il pensiero come altri amano il nudo, che disegnerebbero per tutta la vita», leggiamo in un suo aforisma. Ma a parte queste vere folgorazioni («Il ciclone può distruggere una città [..] ma non riuscirà mai a sciogliere un nodo»), i Cahiers , nota la Giaveri, sono soprattutto uno strumento gnoseologico: “esercizio spirituale” secondo l’esempio di Ignazio di Loyola, “ginnastica” come per un atleta, “dressage” come per il cavallo Gladiator, o danza, scherma, scacchi – insomma, l’occasione per un processo di perfezionamento personale. Per questo sembra giusto terminare con il breve, toccante necrologio di Borges: «Yeats, Rilke e Eliot hanno composto versi più memorabili […] Joyce e Stefan George hanno compiuto modificazioni più profonde nel loro strumento linguistico; ma dietro l’opera di quegli eminenti artefici, non c’è una personalità paragonabile a quella di Valéry».
IL VOLUME Opere scelte di Paul Valéry (Mondadori pagg. CIII-1771, euro 80)

Repubblica 12.12.14
Può esistere una democrazia fondata sui “migliori”?
Il ritorno del saggio del sociologo Michael Young
La grande ingiustizia di una società meritocratica
di Roberto Esposito


WHO defines Merit? – si chiedeva qualche mese fa Scott Jaschik, direttore di Inside Higher Ed., in un dibattito sul tema con i leader dei maggiori istituti universitari statunitensi. Una domanda, tutt’altro che nuova, ma sempre più relativa a complesse questioni etiche, tecniche, finanziarie. Già posta, all’origine della nostra tradizione, da Platone a proposito del “governo dei migliori”, essa è stata ripresa con accenti diversi da filosofi, economisti, politici senza mai arrivare a una risposta conclusiva.
Se il merito è il diritto a una ricompensa sociale o materiale, in base a determinate qualità e al proprio lavoro, quale arbitro neutrale può assegnarlo? Quanto, di esso, va attribuito al talento naturale e quanto all’impegno? E come valutare il condizionamento sociale sia di chi opera sia di chi giudica? Che rapporto passa, insomma, tra merito e uguaglianza e dunque tra meritocrazia e democrazia?
Un risoluto antidoto agli entusiasmi crescenti che hanno fatto del concetto di meritocrazia una sorta di mantra condiviso a destra e a sinistra, viene adesso dalla riedizione del brillante libro del sociologo inglese Michael Young — già membro del partito laburista, e promotore di rilevanti riforme sociali — dal titolo L’avvento della meritocrazia (sempre da Comunità). Scritto nel 1958 nella forma della distopia, del genere di quelle, più note, di Orwell e di Huxley, The Rise of the Meritocracy si presenta come un saggio sociologico pubblicato nel 2033, quando, dopo una lunga lotta, la meritocrazia si è finalmente insediata al potere nel Regno Unito. Debellato il nepotismo della vecchia società preindustriale, ancora legata ai privilegi di nascita, e preparato da una serie di riforme della scuola, nel nuovo regime si assegnano le cariche solo in base al merito ed alla competenza.
Tutto bene dunque? È il sogno, che tutti condividiamo, di una società giusta, governata da una classe dirigente selezionata in base a criteri equanimi e trasparenti? Bastano le pagine iniziali — che evocano disordini provocati da gruppi “Populisti”, contrapposti al “Partito dei tecnici” — per manifestarci, insieme a sinistri richiami all’attualità, la reale intenzione dell’autore. Che è ironicamente dissacratoria contro quella ideologia meritocratica che egli finge di celebrare. Sorprende che alcuni lettori, come Roger Abravanel, con- sigliere politico del ministero dell’Istruzione dell’ex governo Berlusconi, siano potuti cadere nell’equivoco, prendendo nel suo Meritocrazia ( Garzanti, 2008) il fantatrattato di Young per un reale elogio della meritocrazia, appena velato da qualche riserva. Del resto, per dissipare ogni dubbio circa il carattere radicalmente critico della propria opera, sul Guardian del 19 giugno del 2001, l’autore accusò Tony Blair di aver preso in positivo un paradigma, come quello di meritocrazia, carico di controeffetti negativi.
Quali? Essenzialmente quello di affidare la selezione della classe dirigente a ciò che il filosofo John Rawls definisce “lotteria naturale”, vale a dire proprio a quelle condizioni fortuite ereditate alla nascita — classe sociale, etnia, genere — che si vorrebbero non prendere in considerazione. Certo, si sostiene, esse vanno integrate con qualità soggettive, quali l’impegno e la cultura. Ma è evidente che queste non sono indipendenti dalle prime, essendo relative al contesto sociale in cui maturano, come già sosteneva Rousseau. E come Marx avrebbe ancora più nettamente ribadito, commisurando i beni da attribuire a ciascuno, più che ai meriti, ai bisogni, per non rischiare di premiare con un secondo vantaggio, di tipo sociale, chi già ne possiede uno di tipo naturale.
Ma l’elemento ancora più apertamente distopico — tale da rendere la società meritocratica da lui descritta uno scenario da incubo — del racconto di Young è il criterio di misurazione del merito, consistente nella triste scienza del quoziente di intelligenza (Q. I.). Esso, rilevato dapprima ogni cinque anni, quando si affinano i metodi previsionali di tipo genetico diventa definibile ancora prima della nascita. In questo modo si potrà sapere subito a quale tipo di lavoro destinare, da adulto, il prossimo nato. Se egli è adatto a un lavoro intellettuale o manuale, così che si possano separare già nel percorso scolastico gli “intelligenti” dagli “stupidi”, le “capre” dalle “pecore”, il “grano” dalla “pula”. Una volta definito in maniera inequivocabilmente scientifica il merito degli individui, si eviterà il risentimento degli svantaggiati. Essi non potranno più lamentarsi di essere trattati da inferiori, perché di fatto lo sono. Registrato il Q. I. sulla scheda anagrafica di ognuno, l’identità sociale sarà chiara una volta per tutte. Coloro che, a differenza dei più meritevoli, passeranno la vita a svuotare bidoni o a sollevare pesi, alla fine si adatteranno al proprio status e forse perfino ne godranno.
A questa felice società meritocratica, in cui solo alla fine sembrano accendersi bagliori di ribellione, si arriva gradatamente per passaggi intermedi: prima costruendo una scuola iperselettiva, contro la «fede cieca nell’educabilità della maggioranza»; poi subordinando il sapere di tipo umanistico a quello tecnicoscientifico; infine sostituendo i più giovani agli anziani, meno pronti a imparare e dunque retrocessi a funzioni sempre più umili. Il risultato complessivo è la sostituzione dell’efficienza alla giustizia e la riduzione della democrazia ad un liberalismo autoritario volto alla realizzazione dell’utile per i ceti più abbienti.
Il punto di vista affermativo di Young è riconoscibile nelle pagine finali, dove si riferisce a un immaginario Manifesto di Chelsea, non lontano dal progetto di riforme da lui stesso proposto, in cui si sostiene che l’intelligenza è una funzione complessa, non misurabile con indici matematici né riducibile ad unica espressione. Il fine dell’istruzione, anziché quello di emarginare gli «individui a lenta maturazione», dovrebbe essere quello di promuovere la varietà delle attitudini secondo l’idea che ogni essere umano è dotato di un talento diverso, ma non per questo meno degno di altri.
IL LIBRO L’avvento della meritocrazia di Michael Young ( Comunità pagg. 232 euro 15) Nella foto Ambrogio Lorenzetti: Allegoria del buon governo