sabato 13 dicembre 2014

il Fatto 13.12.14
Un milione e mezzo di persone
Lavoro, 54 piazze chiedono a Renzi di “cambiare verso”
di Salvatore Cannavò

CGIL E UIL PARLANO DI ADESIONE AL 60%, PER CONFINDUSTRIA SI È FERMATO SOLO IL 10% IL PREMIER: “MASSIMO RISPETTO MA NON MI FACCIO IMPRESSIONARE”. POLETTI APRE AL DIALOGO

Al di là dei dati, dei numeri e delle piazze, lo sciopero generale di Cgil e Uil per chi lo ha promosso è stato un successo. I due sindacati lo hanno sancito con una nota congiunta in cui comunicano “un’adesione media allo sciopero generale superiore al 60%, con una partecipazione nelle 54 piazze di oltre 1,5 milioni di persone”. “Sono molto soddisfatta ma è un risultato che ci carica di una grandissima responsabilità” il commento a caldo fatto da Susanna Camusso con i propri dirigenti. Soddisfazione che più tardi condividerà con l’altro leader che ha scommesso su questa giornata, il segretario della Uil, Carmelo Barbagallo. Posizione che non sposta di una virgola l’atteggiamento di Matteo Renzi intervenuto al termine del Consiglio dei ministri: “Massimo rispetto per chi sciopera ma non mi faccio impressionare dalle piazze. C’è un paese da cambiare”.
LE PIAZZE, PERÒ, sono state molte, cinquantaquattro. Con molta gente - anche se meno del 1,5 milioni dichiarato - in particolare a Torino, Brescia, Padova, Napoli, Milano dove si è ricordata anche la strage di piazza Fontana. Alcuni scontri con la polizia si sono verificati a Torino, Milano, Roma e Bolgona, spesso a opera delle rappresentanze di centri sociali edei movimenti sociali. Gli stessi che a Roma hanno tappezzato il ministero del Lavoro con le foto di Giuliano Poletti e Salvatore Buzzi con sopra scritto “Poletti dimettiti”. Negli scontri ci sono stati alcuni feriti e la Cgil si è subito affrettata a prendere le distanze da qualsiasi episodio di violenza.
I dati dello sciopero sono sempre complicati da valutare e quindi non resta che riferirsi a quelli autodenunciati dalle sigle sindacali. Dai dati forniti dalla Cgil risulta una media di adesione del 70,2% nel settore industriale. Si va dal 100% di adesione a Settimo Torinese in fabbriche come Michelin e Pirelli, al 60% della Luxottica. Alla Marcegaglia l’adesione è stata di oltre l’80% mentre al Nuovo Pignone di Firenze preso a modello da Renzi - su 2.990 addetti l’adesione è stata del 78,8%. Alta l’adesione alla Ast di Terni dove, nonostante i 35 giorni di sciopero continuativo si è fermato il 70% dei 2400 addetti, mentre alla Perugina di Perugia si è sfiorato il 100%. All'Ilva di Taranto su 11.800 si è fermato circa il 60% di lavoratori. Nei trasporti, i sindacati denunciano il 50% di adesione. L’Alitalia ha cancellato 250 voli sia a Fiumicino che in Lombardia ma altre centinaia sono stati annullati dalle altre compagnie. A Roma le tre linee della metropolitana sono rimaste chiuse mentre a Torino circa l’80% dei bus non si è mosso.
ALLO STESSO TEMPO non ci sono dati per il settore pubblico e la scuola. Le Fs sostengono che i treni ad alta velocità hanno marciato al 96% e che per quanto riguarda i regionali lo sciopero si è fermato al 17%. Per quanto riguarda le imprese, ufficiosamente la Confindustria attesta la partecipazione complessiva al 10% mentre l’Unione industriali di Torino parla di adesione al 17,2 e quella di Novara la colloca al 13,5%.
Il sindacato, in ogni caso, registra un successo che in parte è riconosciuto dallo stesso presidente del Consiglio quando parla di “rispetto”. Il ministro Poletti, ad esempio, ha subito dichiarato che quando si tratterà di definire i decreti attuativi del Jobs Act con i sindacati si “dialogherà”. In Cgil apprezzano ma fanno anche sapere che la piazza “carica di grandi responsabilità” e che quindi se confronto si farà non “sarà per finta”. La sensazione è che i toni siano stati stemperati. Se qualche mese fa si sbeffeggiava il giorno di sciopero o l’inconsistenza del sindacato oggi si parla di posizioni, distanti ma che si rispettano. Barbagallo si spinge fino a chiedere a Renzi: “Ci stupisca e ci convochi”. Ma la sostanza non sembra cambiata. Il premier non ha intenzione di fare concessioni anche perché ne ha fatte già alla minoranza Pd. La Cgil assicura che il sindacato “non si fermerà” e prenderà tutte le misure utili a modificare le leggi. Difficile che possa accadere anche se nelle stanze di Corso Italia si stanno studiando tutte le misure possibili sul piano giuridico per bloccare l’applicazione delle nuove misure sul mercato del lavoro. Buona parte del conflitto potrebbe spostarsi nelle fabbriche come dimostra l’affondo di Camusso a Confindustria: “Abbiamo capito, pensate che bisogna tornare indietro nel tempo quando nelle fabbriche c’era uno che comandava e gli altri ubbidivano e abbassavano la testa. Dimenticatevelo, quel tempo dell’abbassare la testa non torna più”. L’obiettivo è una nuova “contrattazione”. Gli industriali fanno spallucce perché la crisi non favorisce il conflitto. La stagione della concertazione, in ogni caso, è un ricordo del passato.

Repubblica 13.12.14
Sergio Cofferati
“Ho visto molta sofferenza la politica non c’entra il governo deve ascoltare”
intervista di Annalisa Cuzzocrea


ROMA «Non ho visto niente di politico. Ho visto invece grande sofferenza, e molta povertà». L’ex segretario della Cgil Sergio Cofferati, europarlamentare pd e candidato alle primarie in Liguria, respinge le critiche allo sciopero.
La minoranza pd sta usando il lavoro come un’arma contro Renzi?
«Faccio parte di quella minoranza, ma vorrei che per un attimo sottraessimo questa vicenda alla dialettica del Pd e la guardassimo con rispetto per quello che è: la segnalazione di un pesantissimo disagio e di una pesantissima sofferenza da parte di persone che rinunciano a una parte significativa del loro stipendio per dire che stanno male. Ho visto molte manifestazioni, ma raramente ho visto il disagio di queste ore».
Il governo lo sottovaluta?
«La maggioranza sa benissimo che questa è la priorità assoluta, mi aspetterei che pensasse a un nuovo modo di affrontare il tema. Quel che serve non è cambiare le regole del mercato del lavoro, ma un piano di investimenti di tipo keynesiano in settori strategici che possano avere effetti moltiplicatori. Su questo serve dialogo con le forze sociali».
Renzi ha detto no alla concertazione.
«Non si tratta di questo, ma di un dialogo “preventivo”. Prima delle decisioni importanti si ascoltino le parti sociali, si dia un tempo determinato alla discussione, si valutino alternative e suggerimenti. Poi, quando c’è convergenza bene, altrimenti - a quel punto - il governo ha non solo il diritto, ma il dovere di procedere. Il confronto porta oggettivamente a rafforzare il rispetto cui ha giustamente invitato il capo dello Stato»

il Fatto 13.12.14
Gli slogan dei manifestanti: “Mostro di Firenze”

È STATO IL PREMIER Renzi l’obiettivo numero uno degli slogan che ieri hanno accompagnato cortei e manifestazioni in tutta Italia: a Milano è il “Mostro di Firenze”, a Torino il “Terminator” del lavoro e a Roma è un “Pinocchio” gonfiabile. I palloncini di Renzi - Pinocchio hanno fatto da cornice al corteo, “scortato” da trattori e betoniere lungo il percorso nel cuore della Capitale. “Renzi, occhio al 18”, uno dei messaggi lanciati dai manifestanti che hanno colorato la piazza. A Genova, dove era presente il leader della Fiom Maurizio Landini, è stato installato un “Riformatic” di cartone, un “generatore automatico di riforme renziane”. Nel capoluogo piemontese, dove ha sfilato la leader della Cgil Susanna Camusso, oltre ai pupazzi di Renzi-Terminator sono spuntati striscioni e slogan contro il Jobs Act e il governo al grido di: “Renzi, non avrai il mio scalpo”.

il Fatto 13.12.14
Esplode la sinistra
Nel Pd lo scontro sembra insanabile. E perfino D’Alema si becca del ‘venduto’ nella sua Bari
D’Alema, fischi e insulti. Bari lo caccia dalla sua piazza
“Venduto, pagliaccio”: i 350 metri più lunghi del Lìder Màximo
di Paola Zanca


“Massimo, cammina”. Il consiglio non richiesto si sente a malapena, in mezzo alla bolgia in cui sta sfilando Massimo D’Alema. Siamo a Bari, Regione Puglia, la stessa di Gallipoli, storico feudo del consenso dalemiano. Eppure alla fine dell’anno 2014 qui, per D’Alema, dei feudi e dei consensi non è rimasta nemmeno l’ombra. C'è un’unica mano, avambraccio vestito di felpa blu, che si allunga per stringere quella di colui che fu tra gli uomini più in vista della sinistra italiana. Poi, in due minuti e mezzo di camminata a passo lento, sono solo fischi e insulti. Si vedono alcune sparute bandiere azzurre della Uil. Ma intorno è tutto rosso. Sventolano le bandiere della Fiom e della Cgil. E lui può solo mordicchiare il dito medio, sistemare l'occhiale, arricciare il baffetto per sfogare il nervosismo dei 350 metri più imbarazzanti della sua vita. “Basta rubare”, “Vai via”, “Pezzi di merda”. Usano il plurale, sono fischi rivolti all'intera categoria. “Venduto”, “Siete dei porci”. Lo scortano un paio di persone, strette ai suoi fianchi nel tentativo, vano, di proteggerlo dall'ignominia. Ma non c’è bisogno di avvicinarsi per buttarlo a terra. Dietro ci sono altre persone che si muovono con lui. “Massimo, cammina”, gli suggeriscono. “Fermati! ”, urla invece uno dei contestatori. “Bastardi”, si sente ancora. Poi, arrivati all’altezza di piazza Massari, uno degli uomini che lo accompagna è costretto ad abbassare la testa. Hanno lanciato qualcosa, invisibile a occhio nudo, pare sia terriccio. “Ci avete lasciato nella merda”, “Vergognatevi”, “Lurido”. I suoi hanno accelerato il passo. D'Alema invece rallenta, gira la testa indietro, e di nuovo l'uomo che sta alle sue spalle, lo spinge dolcemente come a dirgli ancora: “Massimo, cammina”. Non gli resta che rifugiarsi nel telefonino. Armeggia sulla tastiera mentre ancora urlano: “Siete quelli che hanno affondato l'Italia”. “Pagliaccio”, “Noi ci dobbiamo fare un culo così per arrivare a fine mese”, “Ci hai condannato a morte, bastardo”.
ALLE 16.22, Alternativa comunista batte un comunicato: “Siamo stati noi”. Magari, direbbe D'Alema. Perché il dato più sconcertante di quei due minuti e mezzo di passeggiata barese è proprio la folla di lavoratori, circondata dalle pettorine del servizio d'ordine del sindacato, che si rivolta contro uno che, fino a qualche tempo fa, sarebbe stato fermato quantomenoper farsi un selfie. In quei trecentocinquanta metri tra la piazza dove si stava tenendo il comizio per lo sciopero generale e l'hotel dove era diretto D'Alema, si consuma l'ultimo atto della sua carriera politica. Prima prova a parare il colpo: “Veramente ero andato a trovare il sindaco di Bari e, uscendo dal comune, mi sono infilato in mezzo all’Ugl ma non mi ero reso conto precisamente”. Poi è costretto a raddrizzare il tiro: “I lavoratori sono in piazza per chiedere un maggiore impegno per il lavoro, per lo sviluppo, e questo mi pare comprensibile – dice – C'è un problema drammatico di una crisi economica e sociale che si trascina ormai da molti anni. Molte persone non vedono una prospettiva e quindi è chiaro che questo scatena una rabbia verso la politica in generale, i partiti e verso tutti”.
Anche verso lui, che pure si è autorottamato, non è più parlamentare e al governo Renzi non ha mai lesinato critiche, tant’è che ieri, oltre a lui, nelle piazze della protesta si sono visti altri dissidenti Pd come Pippo Civati e Stefano Fassina. Ancora ieri, D’Alema, ribadiva le sue perplessità sui rapporti tra il premier e il mondo del lavoro: “L’asprezza dello scontro, l’insulto, il disprezzo del sindacato a cui abbiamo assistito in queste settimane non ci sono mai stati e secondo me sono un errore”. Massimo Paolucci, vicepresidente degli europarlamentari Pd, sostiene che quella che ha contestato D'Alema è una “sparuta pattuglia di noti estremisti”, “gli stessi che da anni contestano i sindacati organizzatori dello sciopero generale”. Eppure le bandiere rosse sono lì, mescolate alle urla. Claudio Ve-lardi, per una vita braccio destro di D’Alema, su Twitter dà la sua personalissima interpretazione della giornata barese: “Chi semina vento... ”. Se ci fosse ancora quell’uomo, lì dietro, direbbe “Massimo, cammina”.

Repubblica 13.12.14
Quei fischi a D’Alema tra le bandiere rosse
di Sebastiano Messina


C’È un paradosso beffardo nella scena quasi surreale di Massimo D’Alema che viene fischiato, minacciato e insultato mentre attraversa un corteo di bandiere rosse. Lui, l’avversario numero uno di Matteo Renzi nel Pd, è sbeffeggiato da quelli che proprio contro il presidente del Consiglio sono scesi in piazza. Lui, il vicepresidente dell’Internazionale socialista, viene inseguito dalle ingiurie di chi sfila sotto le insegne del sindacato rosso. Lui, che non siede più in Parlamento, diventa il bersaglio della rabbia contro la Casta, e gli tocca fingere di non sentire — per non dare soddisfazione a chi lo offende — quelli che gli urlano «Basta rubare!», «Venduti!», «Buffone!», «Siete dei porci!», anche se il grido che deve averlo ferito più dolorosamente è stato quello che è arrivato per ultimo, «Vattene via e non tornare mai più!». A lui, a Massimo D’Alema, che a Bari trent’anni fa era il segretario regionale del Partito comunista italiano, l’alfiere della diversità berlingueriana nella Puglia saccheggiata dal pentapartito. A lui, che a due passi da qui nel 2001 combattè e vinse una sfida che sembrava persa in partenza, quando quella di Berlusconi sembrava più potente dell’Armada Invencible di Filippo II e D’Alema conquistò il collegio di Gallipoli con il 51 per cento.
Ora, sarà pure vero che quei fischi e quegli insulti avevano una regia politica, visto che un gruppuscolo chiamato Alternativa Comunista ha rivendicato l’aggressione verbale e l’assedio teatrale, individuando in lui nientemeno che «un alleato di banchieri e multinazionali», e che là in mezzo c’erano anche quelli dell’Ugl, gente di destra, ma erano rosse le bandiere che sventolavano alle sue spalle mentre l’ex presidente del Consiglio camminava tra le insolenze con la sciarpa a quadri infilata nel cappotto e le mani affondate nelle tasche, e solo ogni tanto ne tirava fuori una per toccarsi i baffi o per sistemarsi gli occhiali, insomma per ostentare la dignitosa indifferenza di chi è stato un uomo di Stato e non può rispondere per strada a chi gli grida «Siete quelli che hanno affossato l’Italia!».
Forse, in quei cinque lunghissimi minuti che gli sono serviti per raggiungere l’hotel Palace dopo essere uscito dal portone del municipio, D’Alema deve aver pensato alla perfidia della sorte, che ha voluto far passare il corteo dei sindacati da Vittorio Emanuele II proprio mentre lui usciva dall’incontro con il sindaco Decaro e andava all’appuntamento organizzato dalla sua fondazione, “ItalianiEuropei”, molte settimane prima che Cgil, Uil e Ugl scegliessero lo stesso giorno per il loro sciopero generale.
O forse ha pensato che una volta, quando lui era il segretario pugliese del Pci, non sarebbe mai potuto accadere che un esponente di primo piano del partito finisse nel posto sbagliato al momento sbagliato (e comunque se fosse successo ci avrebbe pensato il servizio d’ordine a togliere la voglia di fischiare ai contestatori).
Lui, che razionalizza tutto, ha letto nel furore di chi gli gridava «Buffone!» solo «la rabbia generale contro i partiti e contro la politica». Ma la verità è che le medaglie hanno sempre un rovescio, e lui che è stato il primo post-comunista a salire lo scalone d’onore di Palazzo Chigi, lui che è stato il Lìder Massimo della sinistra, anche oggi che ha lasciato Montecitorio — ed è finito all’opposizione nel suo partito — per la piazza rimane uno dei volti del Palazzo, uno dei pochi nomi che contano nella politica italiana, uno dei simboli del potere: anche di quello che non ha più.

il Fatto 13.12.14
La stampa estera I francesi: “Gauche contre gauche”

ITALIA, sinistra contro sinistra” è il titolo di apertura dello storico quotidiano della sinistra francese Libération che ha dedicato la copertina allo sciopero generale indetto in Italia da Cgil e Uil contro il Jobs Act e la legge di stabilità all’esame del governo. Un’altra frase della copertina spiega che Matteo Renzi rappresenta per i sindacati “una sinistra più liberale che sociale. Le sigle sindacali sono colpevoli ai suoi occhi di bloccare il paese e la sua operazione di rottamazione del vecchio sistema italiano”. Le Figaro, rende omaggio alle riforme del Premier e al Jobs Act titolando: “Lezione d'italiano”. Secondo il quotidiano il governo “rivoluzionerà il mercato del lavoro”. Lo sciopero generale in Italia conquista anche la prima pagina di Le Monde. “Divorzio all'italiana tra Renzi e i sindacati” è il titolo, che ricorda come “La Renzimania” sia stata “di breve durata”.

il Fatto 13.12.14
Il sindacato
Landini:
“La politica chi rappresenta? Noi uniamo il Paese, i politici no”
intervista di Salvatore Cannavò


Un grande successo, le nostre piazze uniscono il Paese mentre finora il governo le ha divise. Non è un caso se la gente non si sente rappresentata”. Maurizio Landini parla al ritorno dal corteo di Genova che è andato molto bene. Ha la voce roca, viziata dal comizio e dalle mille discussioni avute con i lavoratori. Ma accetta volentieri di commentare la giornata.
Com’è stato questo sciopero?
Un successo straordinario perché non solo si sono riempite tutte le piazze, ma c'è stata un'adesione alle iniziative e allo sciopero che ha riguardato non solo gli iscritti alla Cgil e alla Uil. Le piazze hanno confermato che la maggioranza di chi lavora, dei precari, anche degli studenti, non condivide le scelte del governo. E chiede ai sindacati di proseguire, di andare avanti.
Renzi dice che lui proseguirà dritto per la sua strada.
Il presidente del Consiglio è intelligente e veloce, e allora dovrebbe valutare come rispondere a questo sciopero e aprire un confronto e una trattativa vera con i sindacati. Togliendo dal tavolo elementi negativi come la modifica dell'articolo 18.
Ci sono segnali in tal senso?
No, io non ne ho. Ma viviamo una fase di crisi della rappresentanza e della politica in cui la gente non va più a votare, come dimostra l’Emilia Romagna. C’è in giro un livello di corruzione che coinvolge tutti i soggetti e se non ci fosse la magistratura la politica non avrebbe da sola gli anticorpi. In questo contesto un governo intelligente dovrebbe rendersi conto del fatto che ci sia gente che rinuncia allo stipendio e va in piazza. Se invece si sceglie la Confindustria, che non è detto che rappresenti gli imprenditori, Renzi va a sbattere.
Poletti dice di voler dialogare sui decreti attuativi del Jobs Act.
Ma non è sufficiente. Discutere i decreti è utile ma bisogna cambiare le decisioni che sono state prese. La domanda che arriva dalle manifestazioni di oggi è di andare avanti. Sono piazze arrabbiate che non ne possono più che chiedono un cambiamento.
La contestazione contro Massimo D’Alema è parte di questo?
Il problema è che la gente non si sente rappresentata. Ci sono situazioni drammatiche. Ci sono disoccupazioni infinite, casse integrazioni senza un euro, figli che non trovano lavoro o sono precari a vita.
Che nei confronti nella politica ci siano una sfiducia e una lontananza è il problema di questo momento.
L’antidoto siete voi?
Le piazze di oggi hanno offerto la possibilità di riunificare il paese. Ricostruire una fiducia richiede confronto e dialogo. E i sindacati non sono finiti, abbiamo dimostrato che non è così.
C’è un’urgenza politica nel ricostruire una nuova rappresentanza?
Prima di questo sono convinto che ci sia bisogno di ricostruire un’etica dell’agire pubblico. L’onestà e l’etica devono tornare a essere valori comuni. Ognuno nel suo campo deve fare la sua parte.
Quello che fa Renzi non basta?
Renzi rappresenta il governo e come tale deve fare delle leggi. Io osservo che il falso in bilancio non è ancora un reato, che l'autoriciclaggio ha ancora dei limiti, che i beni confiscati alla malavita organizzata non bastano. Su questo c'è bisogno di una forza che non è stata ancora usata.
Pensa che in relazione alle polemiche sul caso Mafia Capitale Poletti dovrebbe dimettersi?
Non mi permetto mai di arrivare a queste valutazioni, ognuno deve rispondere alla sua coscienza. Occorre rompere da un lato una rete culturale di clientele e affarismo e dall’altra parte occorre che il governo faccia degli atti concreti.
Fatto lo sciopero cosa farà ora il sindacato?
La riuscita dello sciopero parla a tutto il paese. Noi non ci fermeremo. Occorre riconquistare un confronto vero. Se il governo rifiuta dobbiamo pensare ad altre iniziative e il problema riguarda le imprese, la Confindustria. Non possiamo accettare che dentro le aziende passi un peggioramento dei diritti. Se seguiranno questa linea avranno dei problemi con i sindacati dentro le aziende. E poi percorreremo tutte le azioni possibili sul piano giuridico in Italia e in Europa.
Che pensa del piano del governo sull'Ilva?
Che non c'è più tempo, abbiamo aspettato troppo e si sono persi troppi soldi. Nel giro della prossima settimana servono decisioni. Noi pensiamo che occorra un intervento pubblico diretto senza svendere l’azienda a gruppi privati. Un intervento pubblico non esclude, nel tempo, l’ingresso di altri soggetti.
Alessandro Guerra potrebbe dirigere un’azienda in mano pubblica?
Non lo conosco, non si è occupato di acciaierie, ma se c'è un intervento pubblico servono manager di qualità per una ipotesi di rilancio industriale.
Il prossimo 18 dicembre lei farà una iniziativa comune con Susanna Camusso e Stefano Rodotà. Che significa?
Che lanceremo una raccolta di firme per mettere in discussione il pareggio di bilancio in Costituzione. Un modo per parlare di Europa, contrastare l’austerità, allargare le alleanze dei lavoratori.
Niente costituzione di nuovi partiti, quindi?
No, l'ambizione è molto più grande.

La Stampa 13.12.14
Tutti contro uno
di Federico Geremicca


Il richiamo al rispetto reciproco. L’invito ad una discussione pacata. L’auspicio che si mettano da parte esasperazioni sempre più evidenti. E’ l’ultimo appello del Presidente della Repubblica, nel giorno dello sciopero generale di Cgil, Uil e Ugl. Parole al vento, con ogni probabilità: come portate via dal vento - lo conferma la cronaca di queste ore - sono state, per mesi, le invocazioni a varare quelle riforme (costituzionale ed elettorale) che giacciono tutt’ora in questa commissione o in quell’aula parlamentare, ostaggio di continui veti incrociati.
Le manifestazioni in cinquanta e più città italiane, e uno sciopero generale quasi «ad personam» - come non se ne vedeva dai tempi dei governi Berlusconi - segnalano con inequivoca nettezza come il vento attorno al governo di Matteo Renzi stia decisamente cambiando. La filosofia dell’«uno contro tutti», che tanto aveva pagato nei mesi dell’ascesa dell’ex sindaco di Firenze, comincia infatti a mostrare l’altra faccia della sua medaglia. I «tutti», infatti, vanno riorganizzandosi, si accordano, si spalleggiano e muovono al contrattacco. Il quadro che ne emerge è desolante.
Pessimi i rapporti con l’Europa; in caduta libera tutti i parametri economici; improntati a sospetti (patto del Nazareno) o a scontri durissimi i rapporti tra i partiti; guerra aperta tra Cgil e governo; disastrato, fino a far immaginare una rottura imminente, il rapporto tra il segretario-premier e la minoranza del suo partito, il Pd. In un panorama fattosi così cupo, non può sorprendere che torni ad aleggiare il fantasma di elezioni anticipate: che poi sia tecnicamente difficilissimo arrivarci e politicamente quasi suicida pensarci, pare importare poco o nulla. Tanto a destra quanto a sinistra.
E’ opinione comune che l’origine del rapido deterioramento del quadro politico sia da ricercare nel drammatico scontro in atto nel Partito democratico. La guerra che le correnti di minoranza hanno intrapreso contro Renzi sta infatti riverberando i suoi effetti su quasi ogni fronte. Nelle aule del Parlamento, ogni provvedimento di un qualche peso (riforma del Senato, Jobs Act, legge elettorale) è ostacolato o rallentato dallo scontro interno al Pd; e sul piano economico-sociale, si assiste ad un lievitare della protesta e ad una sorta di rovesciamento - nei rapporti tra sinistra e sindacati - dell’antico concetto di «cinghia di trasmissione»: con la Cgil, oggi, a far da traino e guida per l’opposizione interna al Pd.
Molto di quanto avviene, ricorda assai da vicino dinamiche che erano tradizionali al tempo della Prima Repubblica e della Dc, quando la guerra tra correnti (andreottiani, demitiani, dorotei...) produceva crisi di governo, cambi di premier e fine anticipata di questa o quella segreteria. Sembrava un passato destinato a non tornare, e invece eccolo qui: con i suoi effetti disastrosi tanto sul piano della tenuta del sistema che dell’efficienza di governo. Che il passato non ritorni, è possibile ma non scontato; che occorrerebbe ricordarne gli aspetti peggiori, invece, sarebbe - anzi: è - segno di saggezza e responsabilità.
In tale caos, è annunciata per domani l’ennesima «resa dei conti» all’interno del Pd, ma è difficile che l’Assemblea nazionale dei democrats possa portare a conclusioni e dinamiche nuove e certe. E’ arduo, infatti, immaginare che il copione possa esser assai diverso da quelli visti e noti: Renzi che fa la sua relazione, la minoranza che vota contro, si divide o si astiene, e ogni cosa - alla fine - che ricomincia come prima. Del resto, è inutile per i nemici del segretario-premier, forzare tempi e scelte adesso, quando la migliore occasione per una resa dei conti definitiva sembra a un passo, lontana qualche settimana o poco più.
E’ infatti lungo le alture di quel vicolo stretto - un vero e proprio canyon - rappresentato dalla scelta del nuovo Presidente della Repubblica, che i nemici interni ed esterni del premier vanno accampandosi per consumare la vendetta. In una situazione nella quale nessuno dei leader maggiori (da Berlusconi a Renzi, fino a Beppe Grillo) controlla pienamente il proprio partito, si rischia di vederne di tutti i colori. E il ricordo dei 101 franchi tiratori che affondarono la candidatura di Romano Prodi, potrebbe sbiadire di fronte a dissensi ed insubordinazioni ancor più espliciti e numerosi.
In palio, infatti, non c’è solo l’elezione del nuovo Capo dello Stato, ma la testa di Matteo Renzi: Pier Luigi Bersani, del resto, la sua la perse così. Il più giovane premier della storia repubblicana sa che potrebbe andar incontro ad analogo destino. Riflette e ragiona su come scansare il pericolo, ma una soluzione ancora non ce l’ha. E intorno a lui, intanto, tutto sembra degradare e cambiar verso. Anzi, ricambiar verso: come non si sarebbe mai detto fino ad ancora due o tre mesi fa...

il Fatto 13.12.14
Pd, guerra interna
Conti e cene, i “pizzini” tra i Matteo boys e la ditta
Il colore dei soldi: sui costi della politica minacce tra Pd
Renzi usa i vecchi bilanci per far paura alla minoranza, ma tace sulle cene
di Antonello Caporale


L’idea di Renzi per contrastare l’opposizione interna, e quindi annegarla nella vergogna, sarebbe quella di rendere pubbliche le spese della segreteria Bersani e di quella Epifani. L’idea di Matteo genera, come figlioletti in grembo, due altre verità. La prima: che i bilanci pubblicati sono effettivamente carta straccia, specchio per le allodole, ammesso che le allodole ci caschino. Sono cifre buone a imbonire. Perché le voci di cui si compendia il bilancio del Partito democratico (e di tutti gli altri partiti) tutelano la segretezza delle singole percentuali che i dirigenti attivano per le proprio competenze. Gli euro – si presume molti oltre il lecito – che sono andati a questo e a quello. Sul cattivo odore dei soldi domani Francesco Bonifazi, il tesoriere del nuovo corso renziano, potrebbe attardarsi un pochino di più, sottolineando nella relazione che sembra farà all’assemblea nazionale, le destinazioni d’uso per voci superiori a centomila euro. Non arriverà dunque al singolo destinatario ma lo accarezzerà crudelmente, farà trasparire quel di più che potrebbe uscir fuori, se solo si dovesse decidere di elencare il numero dei peccati e la quantità dei peccatori.
LA SECONDA VERITÀ è nell’aspetto spiccatamente “ritorsivo” che la questione assume nel confronto politico. Di ritorsione parla più distintamente degli altri Chiara Geloni, portavoce di Bersani, ex dipendente del Pd, infilzata da un dossier renziano, al tempo in cui la rottamazione era il sol dell’avvenire, nel quale si spargevano, ma in forma anonima, velenose rivelazioni. Tra le molte proprio quella sul capo della Geloni, incolpata di ricevere 6 mila euro mensili per la direzione della metafisica Youdem, web tv ora in stato vegetativo.
“Pubblichino quel che vogliono, come vogliono, dove vogliono. Io non ho nulla da temere”, dice Antonio Misiani, l’ex tesoriere che ha firmato i conti sia della stagione di Epifani che di quella Bersani. “C’era il finanziamento pubblico integro, molto superiore a ciò che oggi arriva in cassa, che investivamo nelle diverse campagne elettorali. C’erano poi retribuzioni che andavano a chi era impegnato nel partito e variavano da un minimo di mille a un massimo di 4 mila euro per le diverse competenze”. C’era anche dell’altro a dire la verità: un sito web che costò un occhio della testa, una serie allegrissima di consulenze, un fiotto di carta moneta verso destinazioni incerte.
MA IL FUOCO con cui Renzi ha deciso di rispondere all’armata contraria testimonia non solo del livore che lega i sentimenti degli uni e degli altri (“Riecco la premiata ditta Bindi-D’Alema di nuovo in azione”, diceva ieri Debora Serracchiani a commento della bocciatura di parte del testo di riforma costituzionale), ma anche dell’incendio che potrebbe presto scoppiare.
Perché ai soldi si risponde con i soldi. E alle furbizie con le furbizie altrui. Se Bonifazi dovesse provare a spegnere le contestazioni interne elencando le spese stravaganti, i contestatori avranno di che controbattere. Potranno, come fanno sapere, illustrare che il miracolo di un Pd dimagrito ma in salute, senza che un solo dei 189 dipendenti abbia dovuto subìre il licenziamento, è dovuto solo a una emigrazione verso lidi istituzionali. Ai 55 già in forze ai gruppi parlamentari e allestrutture dell’esecutivo precedente, si sono aggiunti altri 40 (cifra non verificata ndr) lavoratori che il governo Renzi ha dirottato tra Palazzo Chigi e altri dicasteri. Una partita di giro molto tradizionale, a cui la politica ricorre quando può per trasferire gli oneri propri allo Stato. Finanche il ricco Berlusconi – divenuto premier – trasferì la sua fedele e privata scorta armata nei registri pubblici...
I soldi, sotto i quali il Pd di Roma è travolto e svergognato, sono ugualmente fastidiosi per Renzi perché le sue cene elettorali hanno avuto finanziatori dal nome ancora sconosciuto. La lista degli invitati è sotto chiave, ma la partecipazione, rivelata dall’inchiesta romana, a una di queste del gruppo Buzzi, famigerato dispensatore di suffragi e di offerte votive ai maggiorenti del partito, rende opaco tutto il cerchio dei commensali. Oltre a Buzzi chi, allora? E anche la Fondazione fiorentina di Renzi, sostenuta da una nutrita schiera di donatori, è sotto chiave. E, andando più indietro nel tempo, i soldi spesi da Renzi al tempo in cui era sindaco di Firenze per assumere a chiamata diretta una moltitudine di amici? E quelle altre spese promozionali durante la presidenza della Provincia per Florence Multimedia?
Migliaia, centinaia di migliaia, e poi milioni.
Sarà a colpi di zaffate di euro la contesa che domani porterà il Pd all’ultimo round?

il Fatto 13.12.14
Fondi illeciti, indagati Zoggia e Mognato


NEL PERCORSO che porta alla chiusura delle indagini sulla vicenda Mose con l’unico eccellente a processo, l’ex sindaco Giorgio Orsoni, il Pd veneziano è nella bufera per il finanziamento illecito dei partiti che avrebbe ricevuto dal Consorzio Venezia Nuova retto allora da Giovanni Mazzaurati. Nel registro degli indagati sono finiti i due parlamentari veneziani Michele Mognato e Davide Zoggia mentre ieri è stato sentito l’ex assessore ai lavori pubblici della giunta Orsoni ma all’epoca dei fatti (2010) segretario veneziano del partito, Alessandro Maggioni (non indagato). Indagando sul concessionario unico, i pm avrebbero scoperto contributi illeciti per 450mila euro ricavati da fondi neri ed un altro centinaio di migliaia di euro fatturati in modo irregolare.

il Fatto 13.12.14
“Mucche da mungere” e “un anno di sfollati” Il frasario di Buzzi
Telefonate e sms dell’uomo della Coop pigliatutto:
“Monnezza”, “donne da scopare” e tanti soldi
di Antonio Massari e Valeria Pacelli


Lo sai il proverbio della mucca? Se la mucca non mangia, non può essere munta”. È questa la filosofia di Salvatore Buzzi, laureato in Lettere moderne, patron della “coop 29 giugno”, braccio “sinistro” di Massimo Carminati, compagno di carcere di Gianni Alemanno negli anni 80, miracolato dalla legge Gozzini e graziato dal presidente Oscar Luigi Scalfaro, dopo anni di detenzione per un omicidio con 34 coltellate. Rispetto alle teorie del “Cecato” e alla sua suddivisione del mondo in segmenti paralleli – il mondo di sopra, il mondo di sotto, il mondo di mezzo – il linguaggio di Buzzi vagheggia di “mucche”, oppure di “monnezza”, come quando augura il buon anno ad Angelo Scozzafava, ex direttore del dipartimento Promozione dei servizi sociali e della salute del Campidoglio.
ED ECCOLA ancora la filosofia di Buzzi, racchiusa nell’sms rivelato ieri dal Corriere della Sera: “Speriamo che il 2013 sia un anno pieno di monnezza, profughi, immigrati, sfollati, minori, piovoso così cresce l’erba da tagliare e magari con qualche bufera di neve: evviva la cooperazione sociale”. È questa la considerazione che Buzzi ha dei più deboli, degli emarginati, dei minori: per lui sono soldi. Tanti soldi: “C’hai idea di quanto ce guadagno sugli immigrati? ”, dice in una ormai famosa intercettazione, “il traffico di droga rende di meno”. Soldi che divide con Carminati, che di lui si fida: “Io c’ho... c’ho... i soldi suoi, lui sai cosa m’ha detto quando... c’aveva paura che l'arrestavano.. è venuto da me e dice ‘guarda, qualunque cosa succede, ce l’hai te, li tieni te e li gestisci te, non li devi dà a nessuno, a chiunque venisse qui da te... nemmeno mia moglie’, non so’ soddisfazioni? ”. Sono amici il “Cecato” e Buzzi, al quale piace vantarsi delle donne di cui si circonda: “Io non mi posso lamentare... c’ho Alessandra... c’ho Piera che ventott’anni... poi ce n’ho altre due, scopo... oh scopo tutti i giorni... tutti i giorni... ogni tanto mi ci vuole un incentivo perché se no non ce la fai... ”. Buzzi il “rosso” e Carminati il “nero” insieme persino nella cooperativa 29 giugno dove, secondo il dirigente Claudio Bolla, il “Cecato” diventa persino socio.
I SOCI ORA PERÒ sono in carcere. Massimo Carminati, ritenuto il capo dell’associazione, è a Rebibbia. Buzzi ieri è stato da Regina Coeli al carcere di massima sicurezza di Nuoro, Badu ‘e Carros, lontano da quella Roma dove faceva da padrone. Ora rischia un processo e una condanna per mafia. L’assassino s’è trasformato nel burocrate della cooperazione sociale, che sborsa tra i 5 mila e i 10 mila euro per finanziare il Pd targato Matteo Renzi, partecipando alla cena di finanziamento del 7 novembre scorso, ma non ha mai dimenticato i suoi modi spicci e le minacce di violenza che ben si attagliano al “mondo di mezzo” che amministra con Carminati.
Quando l'ex consigliere d'amministrazione di Atac Spa, Andrea Carlini, gli crea dei problemi, perché è uno che “parla in libertà”, invita il parlamentare del Pd Umberto Marroni a redarguirlo. E a quel punto Carlini gli fa notare al telefono: “io non lavoro ne pe' te ne pe' Marra... lavoro con Umberto, non per Umberto... non sono un suo dipendente... sono le regole della buona creanza... vaffanculo”. La reazione di Buzzi è istantanea: “Dimmi dove sei che ti vengo a raggiunge' e ti spacco il culo subito, dove sei pezzo di me...? ” “A piazza della Consolazione... ”, risponde Carlini. E Buzzi incalza: “A testa di cazzo! Dimmi dove sei che ti spacco il culo subito... ”. L’incontro si chiuderà con una stretta di mano.
ANCHE PERCHÉ, come annota il Ros dei carabinieri, i due discutono anche di affari immobiliari: “Carlini ha chiesto a Buzzi di acquistare, in suo favore, un appartamento di 50 metri quadri”. E ancora: “. ”Le conversazioni rivelavano, comunque, come dette elargizioni fossero funzionali ad ottenere illeciti vantaggi in procedimenti pubblici amministrativi”. E il 14 marzo viene intercettata una conversazione all'interno degli uffici di via Pomona, quelli della cooperativa 29 giugno, nel corso della quale Buzzi “riferiva che a breve avrebbe incontrato Carlini” e commentava: “glie compreremo ‘na casa”. Anzi, per la precisione: "Mi compro pure lui... ”. Tanto la morale è sempre la stessa: “Lo sai il proverbio della mucca? Se la mucca non mangia, non può essere munta”

Repubblica 13.12.14
E la sorella di Buzzi ora imbarazza il ministero
di Corrado Zunino


ROMA C’è una seconda Lady Buzzi, dopo la compagna del faccendiere coop Salvatore. Alessandra Garrone è stata arrestata, ma le intercettazioni modellano una nuova storia di raccomandazione- corruzione che per li rami tira dentro la sorella del “tarchiato”: Anna Maria Buzzi, 57 anni, due in meno dell’uomo con le mani in tutte le paste di Roma. Sora Buzzi è una laureata in Pedagogia che, entrata al ministero dei Beni culturali come restauratrice di libri, ha fatto una rapida carriera che l’ha portata a diventare dirigente di prima fascia a 168 mila euro l’anno e a guidare, questo dal 2012, la direzione generale per la valorizzazione del patrimonio culturale. Sostituì Mario Resca, l’uomo Fininvest che voleva trasformare il Mibac in Disneyland.
Negli atti dell’inchiesta monstre della procura di Roma ci sono diverse telefonate tra il capotribù Buzzi e la nipote Irene figlia di Anna Maria, tra il capotribù e il cognato. Si evince — in maniera chiara — che il faccendiere vuole aiutare la nipotina a entrare in Comune attraverso un concorso per trecento posti da istruttore amministrativo. È del 29 ottobre 2013 la prima telefonata sul tema. Chiama il cognato Maurizio Turchetti e Ricorda a Buzzi la prova della figlia: «C’aveva quella visita da quel dottore... Il sette me pare… Un appuntamento pigliaglie». Salvatore Buzzi chiama subito Angelo Scozzafava, membro della commissione esaminatrice. Alla vigilia delle prove orali, sei novembre, la nipote ventinovenne invia questo sms: «Ziooo, ti ricordi di domani? Che ansia!!!». Lui rammenta tutto a Scozzafava: «Ti ricordi di domani? Grazie». Il commissario risponde immantinente: «Certo». La mattina del 7 novembre Buzzi messaggia alla nipote: «Tutto avvisato, vai a dormire tranquilla». E nello stesso giorno si vedrà con l’esaminatore, a cui peraltro sta cercando un appartamento da 130 mila euro a Roma per ricompensarlo dei favori sui nomadi. Si vedono in un ristorante sulla Flaminia.
Escono i risultati del concorso e Irene informa subito zio: «Ho preso 9,8... Buonissimo, nove e otto su dieci…». Pochi minuti e Scozzafava invia un messaggio a Buzzi, vuole sapere se è soddisfatto. Il presidente della “29 giugno” risponde: «Sei un grande. Grazie». Il favore ha un prezzo, però. Lo dice il manovratore alla compagna Alessandra il 16 novembre, quando si prospetta il rischio dell’azzeramento del concorsone: «Lo avevo detto ad Anna Maria, lo annullano». La Garrone: «Più che altro hanno buttato cinquemila euro». Buzzi spiega: «Anna Maria ieri m’ha detto che non glie vo da’ i soldi, gli vo fa’ un regalo… I soldi sembra corruzione invece un orologio di Bulgari nooo…». La compagna: «Di fatto l’hai corrotto perché hai alterato il risultato». Felice per i risultati, il 30 novembre sera Anna Maria Buzzi si offre di pagare «il pranzo di oggi », ma il fratello Salvatore: «È un regalo mio, ho fatto pagà la cooperativa».
È appena uscita dal suo splendido ufficio nella sede dei Beni culturali in via di San Michele, Anna Maria Buzzi. Contattata, richiama. E a “Repubblica” dice: «Smentisco ci sia un rapporto tra me e le parole di mio fratello, nelle intercettazioni io non ci sono mai. A Scozzafava non ho dato denaro, né orologi. Mia figlia? Ha fatto quattro concorsi al Comune, non è mai entrata». In verità nell’organico del Primo municipio, dove direttore dell’Ufficio trasparenza era quel Walter Politano indagato e poi rimosso dal sindaco Marino, è inserita una “Irene Turchetti” come “referente amministrativa” e le è stata assegnata una casella di posta “comune.roma.it”. «Dopo trent’anni di onesta carriera mi hanno tirato in mezzo perché ci sono le promozioni al ministero », chiude Anna Maria Buzzi.
Già, al ministero dei Beni culturali è alle viste la grande revisione degli uffici che porterà al taglio di sei dirigenti di prima fascia e trentuno di seconda. La Uil ricorda come giovedì scorso si sia celebrata la giornata della trasparenza, con il ministro Dario Franceschini in sala e la signora Buzzi relatrice. Il ministro è nervoso per questa storia. «Parlerà con gli atti fra tre giorni », dice il suo staff. Quando Anna Maria Buzzi, candidata a occupare la poltrona di responsabile dei musei, scoprirà di essere stata tagliata fuori da qualsiasi incarico come direttore generale.

il Fatto 13.12.14
Il Colle ha (di nuovo) passato il limite
Napolitano sbaglia bersaglio, l’emergenza non è la corruzione ma l’antipolitica
E tanti saluti al dovere di imparzialità
di Massimo Fini


NON HO MAI avuto alcuna considerazione per Giorgio Napolitano (definito a suo tempo, da qualcuno, “coniglio bianco in campo bianco”) e in questo senso ho scritto più volte e in particolare in un articolo pubblicato su Giudizio Universale nel giugno del 2006, quando fu eletto presidente della Repubblica, poi rieditato in un libro di Chiarelettere del 2010. Ma questa volta l'anziano presidente, da sempre cauto, cautissimo, cosa a cui deve la propria longevità politica, pare aver perso la testa. In un momento in cui l’Italia è nel pieno del più grave scandalo della sua Storia, che pur è un sequel di scandali, colpita da un fenomeno criminale-politico che è più pericoloso e inquietante della mafia, perché la mafia è perlomeno un cancro individuato e, almeno teoricamente, circoscrivibile, mentre qui siamo in presenza di una serie di metastasi incontrollabili che attraversano l’intero Paese (in questo senso va intesa la contestatissima affermazione di Grillo “era meglio la mafia”) Napolitano che fa? Non indica come prima emergenza del Paese la corruzione politico-criminale, ma “l'antipolitica che in Italia è ormai degenerata in una patologia eversiva”, con un chiaro riferimento al Movimento 5 Stelle, che di tutto può essere accusato tranne che di corruzione.
È anzi l'unico partito che ha restituito 42 milioni che pur, per legge, gli spettavano. Grillo ha replicato: “Napolitano stia attento, rischia che lo denunciamo per vilipendio del Movimento”. Ma non è questo il punto. Napolitano ha violato il proprio dovere costituzionale di imparzialità. Il presidente della Repubblica, che rappresenta tutti i cittadini, non può prendere parte contro un movimento presente in Parlamento e che oltretutto, allo stato, è il primo partito, il più votato con i suoi 8 milioni 688 mila 231 voti. Napolitano dovrebbe essere semmai denunciato per “alto tradimento”.
Ma perché mai il movimento di Grillo sarebbe “eversivo”? Perché ”nel biennio alle nostre spalle hanno fatto la loro comparsa metodi e atti concreti di intimidazione fisica, di minaccia, di rifiuto di ogni regola e autorità”. Nessuno meglio di Napolitano può sapere, perché c'era, che quando in Parlamento sedevano i comunisti le botte e le scazzottature, con il capintesta Pajetta, erano all'ordine del giorno (naturalmente Napolitano, che non è mai stato uomo di passioni, a quelle zuffe non partecipava, come quando era ragazzo preferiva stare ai bordi del campo). Ma l'affermazione più inquietante di Giorgio Napolitano è quando dice che di questa situazione “eversiva” portano “pesanti responsabilità anche alcuni mass media e opinionisti senza scrupoli”.
QUI SIAMO in pieno regime fascista o, peggio, stalinista quando ogni critica era considerata “un’attività oggettivamente antipartito” e quindi meritevole di purga, come Napolitano che di quegli orrori fu a conoscenza e, per la sua parte, complice, non può non sapere.
Napolitano afferma anche che “serve una scossa civile che spinga i cittadini a reagire”. Se ci sarà una “scossa civile” si dirigerà proprio contro quella politica in cui Napolitano è incistato da quando esiste. Questo non è fare dell’”antipolitica”, ma volere un’”altra” politica, democraticamente.
Ma se la politica persevererà nel derubare sistematicamente i cittadini verrà il giorno in cui la gente, grazie anche alle provocazioni di Napolitano, perderà la pazienza. E non sarà una “scossa”. Sarà rivolta. Né civile, né democratica, né indolore.

il Fatto 13.12.14
Il giornalista Gian Antonio Stella e la Casta
“Antipolitica, la colpa non è di chi denuncia”
intervista di Silvia Truzzi


Parlando delle degenerazioni della politica in antipolitica come “patologia eversiva”, il capo dello Stato ha spiegato che a quest’azione eversiva non si sono sottratti “infiniti canali di comunicazione, a cominciare da giornali tradizionalmente paludati, opinion makers lanciati senza scrupoli a cavalcare l’onda, per impetuosa e fangosa che si stesse facendo, e anche, per demagogia e opportunismo, soggetti politici pur provenienti della tradizioni del primo cinquantennio della vita repubblicana”. Nessuno si stupirà, dunque, leggendo qui di seguito un‘intervista a Gian Antonio Stella, autore insieme al collega del Corriere della Sera Sergio Rizzo, de La casta, best-seller da un milione di copie (Rizzoli, 2006).
Il punto è: chi crea l’antipolitica?
Premessa: c’inchiniamo di fronte a Giorgio Napolitano, che tanti meriti ha avuto come presidente della Repubblica. Ma messa così non va bene: la censura nei confronti della cattiva politica, nell’economia generale del discorso, secondo me non era abbastanza forte. Dobbiamo chiederci chi genera l’antipolitica: i forconi o la cattiva politica? Io credo che le responsabilità siano soprattutto della cattiva politica. Attorno, certo, ci sono – ci sono sempre stati – i mestatori: penso all’Uomo qualunque di Giannini, al Partito della bistecca di Corradi, ai vari movimenti che negli anni si sono succeduti. Più recentemente possono essere i 5Stelle o, appunto, i forconi. Ma chi è responsabile? Restando nella metafora del morbo, la malattia non è imputabile del medico che la diagnostica.
Così sembra un po’ guardare il dito e non la luna. Soprattutto se la questione dell’antipolitica viene sollevata mentre a Roma è stato scoperchiato l’ennesimo vaso di Pandora.
Massimo D’Alema, nel 2011, è arrivato a dire che ‘bisognerebbe liberare il lessico dalle parole anti-democratiche. Ne dico una di parola antidemocratica, capisco che è un po’ forte, ma è la verità. La parola ‘Casta’ non è stata inventata da due brillanti colleghi. ‘Casta dei politici’ compare nel dibattito pubblico italiano per la prima volta in un documento delle Br e ha mantenuto quell’impronta; ogni qualvolta la si usa, bisognerebbe pagare una royalty agli ideatori, e lo si fa culturalmente”. Con ciò tracciava un parallelo tra chi sparava alla nuca – assassini – e quelli che come me, Sergio e tanti colleghi di altri giornali che hanno fatto una campagna contro le storture della politica in nome della democrazia.
La paternità della parola era veramente delle Br?
Ma no! Il primo è stato don Luigi Sturzo, l’11 agosto 1950, sul giornale 24 ore, parlando dell’ipotesi di aprire una cassa pensioni a favore dei deputati. E scrive: “A me sembra aberrante fare del mandato elettorale qualche cosa che confini con la carriera impiegatizia, ovvero il mandarinato, e sbocchi, infine, a uno stato di quiescenza a carico del pubblico erario”. Poco più avanti: “Più si consolida la professione e più si forma lo spirito di corpo, la casta, e più si rende difficile l’avvicendamento, sul quale è basata ogni sana democrazia”. Io credo che don Sturzo avesse ragione: evidentemente già intravedeva i segnali di alcune deviazioni della cattiva politica che hanno portato ai guai di oggi. Forse sarebbe il caso di imputare l’ondata di antipolitica più a chi ha creato regole in base alle quali Claudia Lombardo, consigliere regionale della Sardegna, può andare in pensione a 41 anni con oltre cinquemila euro netti di pensione. Sarà mica colpa di chi ha raccontato questa storia?
D’Alema non è stato l’unico politico a prendersela con voi.
L’ex tesoriere di Forza Italia, Maurizio Bianconi, ha definito me e Rizzo “il cancro di questo Paese”. Vorrei precisare che non abbiamo mai usato parole come magna magna o forchettoni, abbiamo semplicemente cercato di fare una battaglia civile per il bene della politica e dei politici. La denuncia è stata resa necessaria dal marcio che c’era.
C’è ancora, come si vede.
Con grave ritardo, alcune cose sono state fatte. Teoricamente dalla prossima legislatura non ci saranno più i vitalizi per i consiglieri regionali, è stato tolto il finanziamento pubblico ai partiti, anche in maniera esagerata. Sul versante della corruzione è tutto come prima.
E i costi della politica?
La cosa fondamentale sarebbe cambiare il modo di fare i bilanci. Abbiamo sotto gli occhi il caso di Roma. Il Comune di Roma ha messo on line il suo bilancio, ormai qualche anno fa: 1800 pagine, assolutamente incomprensibili. Ma questa non è trasparenza, è una presa in giro. Spiace dirlo, ma sappiamo tutto della regina Elisabetta – compreso quante bottiglie di champagne ha in cantina – e nulla di così dettagliato del bilancio del Colle.

il Fatto 13.12.14
La Cupola di Roma
Questo sistema serve alla politica
di Bruno Tinti


Mafia Capitale. Prima c'era stato il Consorzio Venezia Nuova. E ancora prima Expo 2015. E in mezzo corruzioni grandi, medie e piccole con cadenza bi o triquotidiana. E ogni volta Renzi&C. hanno blaterato di misura colma e di riforme necessarie e immediate. Che naturalmente non si sono fatte. E che, se si fossero fatte, non sarebbero servite a niente. Perché le riforme che servirebbero la politica non le vuole. Perché i reati di corruzione, frode fiscale, falso in bilancio e compagnia continuano a essere commessi? Perché vi è la garanzia dell'impunità. E perché questa garanzia? Per via della prescrizione e della pena che non si sconta.
La prescrizione. Renzi&C. dicono che vogliono aumentarla. Di quanto? In realtà non importa. Aumentarla è come intervenire su una macchina che ha un motore progettato male: con un litro fa 500 metri. Allora si costruisce un serbatoio più grande: sempre 500 metri al litro farà, ma il percorso si allungherà. I passeggeri trasportati resteranno gli stessi, pochi. La prescrizione deve essere allungata, si capisce. Ma non è questo il problema. Il fatto è che il nostro processo è troppo lungo. In effetti, possibile che 7 anni e mezzo, ma anche 10 o perfino 15 (pensate a Eternit) non bastino per un processo? No che non bastano, perché non è un processo. Sono almeno tre, Tribunale, Appello e Cassazione. Ma in realtà sono cinque perché c'è l'udienza preliminare e il Tribunale della Libertà. Ma in realtà sono ancora di più perché al TL si può ricorrere anche 20 volte di seguito; e la Cassazione può rinviare all'Appello o perfino al Tribunale e far ricominciare tutto. Come può un processo come questo essere fatto in tempi brevi? Ovvio che tutto si prescrive (quello che conta, il furto al supermercato no, tranquilli). Quindi la vera riforma è modificare il processo. Niente Appello, niente udienza preliminare, notifiche solo agli avvocati e solo via email, niente avvisi, depositi, termini ripetuti 3/4 volte, un processo in Tribunale e un ricorso in Cassazione per motivi di diritto. Così si raddoppiano i magistrati e il personale senza spendere un soldo e probabilmente la prescrizione smette di essere un problema.
LA PENA È FINTA. Fino a 4 anni in prigione non ci si va. Ma ci pensate? Si spendono una marea di soldi, si passano anni e anni a giocare in aule di giustizia e, sempre che si arrivi a sentenza definitiva di condanna, si dice all'imputato; sei colpevole, ti toccano 3 anni e 11 mesi. Vai pure a casa. Se poi la condanna è di 5 anni, si sconteranno 7 mesi e mezzo; e se fosse di 6 (praticamente mai si danno pene del genere) si sconterebbe 1 anno e mezzo. 10 anni di galera sono poco più di 3. Ma dai!
In queste condizioni, perché corruttori e corrotti dovrebbero smettere di delinquere? L’unico guaio che gli può toccare, dopo aver messo al sicuro una barca di soldi, è farsi pochi mesi di carcerazione preventiva (fino a quando la politica non la eliminerà, come periodicamente minaccia di fare. Ma si sa, è una conquista di civiltà).
Quale riforma possono partorire Renzi&C. se non modificano questa situazione? Che non sarà modificata. Pensateci. Quale cittadino di normale buon senso potrebbe volere un sistema del genere? Chi (esclusi gli amici di mafiosi e criminali e di politici associati, tanti ma pur sempre una minoranza della popolazione) direbbe al suo politico di collegio elettorale: ti voto, vai e realizza un sistema così? Nessuno, ovviamente. Allora come ci si è arrivati? Perché alla politica serve un sistema così. Perché la politica è fondata sul malaffare, perché i politici campano di reati o di sovvenzioni criminali. E non possono permettersi un sistema penale che blocchi il sistema che gli dà da vivere, anche nel senso stretto del termine.
Una prova? C’è un sistema semplicissimo per battere la corruzione. Spezzare il sodalizio necessario tra corrotto e corruttore. Oggi entrambi, se scoperti, sono punibili, tutti e due in galera. Ma, se si prevedesse che il primo che denuncia l’altro, anche prima di un’indagine, andrà esente da pena, il vincolo è reciso. Chi si fiderebbe a farsi corrompere sapendo che, appena c'è in giro puzza di indagini, qualcuno può comprarsi l’impunità denunciandolo. E viceversa. Sistema banale, non a caso adottato da sempre negli Usa e di cui io parlai la prima volta negli anni 70 a Beniamino Andreatta, un Dc onesto e preparato che fu subito d'accordo. Naturalmente non se ne fece niente. Ma, se quello denuncia il falso? Va in prigione per calunnia. Non è che basti la denuncia per condannare, ci vanno i riscontri. Se non si trovano, poveretto lui.

il Fatto 13.12.14
Corsi e ricorsi
Mafia Capitale, una storia già vista
Per reagire ci vorrebbe lo spirito del 1992
di Gian Carlo Caselli


Il malaffare che appesta Roma ha sbalordito un po’ tutti per le sue dimensioni. I primi risultati dell’operazione nota come “Mafia Capitale” non lasciano dubbi. Anche se qualcuno preferisce attardarsi sull’assenza di “punciute” con spine di arancio amare, per cui non ci sarebbe vera mafia nonostante una sostanza di comportamenti tipicamente riconducibili al 416 bis.
Ma come definire la tendenza di pezzi consistenti della classe dirigente (politici, amministratori, alti burocrati e operatori economici) a forme di allergia per la legalità con uso del potere pubblico in modo privato? Persistenza sotterranea che riaffiora ciclicamente? Tara del carattere nazionale? Endemia? Metastasi? Elemento strutturale del sistema? Guicciardini sosteneva che “le cose passate fanno luce alle future (…) e le cose medesime ritornano ma sotto diversi nomi e colori”. I “precedenti” della situazione denunciata oggi dalla Procura di Roma sono singolari e per certe somiglianze stupefacenti. La bella Autobiografia di una Repubblica di Guido Crainz ne offre un ricco e prezioso catalogo. Dagli Anni Ottanta fino ai primi Anni Novanta “la realtà italiana è sempre più caratterizzata da una illegalità diffusa e da un’incredibile accettazione di comportamenti a vario titolo illeciti” (Ornaghi-Parsi). Nel 1980, Italo Calvino scriveva un eloquente Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti, mentre Massimo Riva denunciava che “mai si era vista tanta corruzione radicarsi così dentro e così largamente nelle strutture dello Stato”. Fino a invocare che qualcuno si levasse contro i disonesti con le parole “in nome di Dio andatevene! liberateci dalla vostra presenza” (tolto l’accenno a Dio, sembra quasi un’invettiva “grillina”…).
NEL 1993, all’esordio del ventennio che ora comprende la “Mafia Capitale” e ha rafforzato alcuni caratteri negativi del nostro paese, Antonio Gambino scriveva che “intere schiere di uomini politici e funzionari pubblici hanno saccheggiato lo Stato, avvicinando la comunità a un baratro che rischia di inghiottirla”.
Con queste citazioni non si vuole assolutamente dire (sarebbe bestemmia) che così robusti precedenti possano in qualche modo assolvere conclusioni ispirate a “filosofie” perverse, del tipo “così fan tutti da sempre, non val la pena scaldarsi... ”.
Vero è che queste “filosofie” trovano nutrimento nella constatazione che nel nostro Paese chi sbaglia raramente paga, soprattutto se conta. Grazie anche (soprattutto nel recente passato) a condoni persino tombali, prescrizioni senza freni e leggi mirate su interessi personali. Vero è che una buona parte del popolo italiano è persino riuscito a metabolizzare la penale responsabilità di Andreotti e la condanna di Dell’Utri per gravi collusioni con il peggior potere mafioso. Ma ragionando così si consolida quella rassegnazione dei cittadini (spesso connivenza) che è uno dei più potenti fattori di persistenza all’infinito dei comportamenti immorali e illegali che si fustigano con furore soltanto finché fa effetto l’indignazione dell’ultimo scandalo.
Dobbiamo invece ritrovare quella coscienza civica collettiva che dopo le stragi di mafia del 1992 ci ha consentito di fare resistenza e di salvare l’Italia dal baratro in cui esse volevano cacciarla, trasformando la democrazia in un narco-Stato o Stato-mafia. Coscienza civica tradottasi allora nella stagione dei lenzuoli e poi nell’azione organizzata da “Libera” e altre associazioni. Coscienza civica che oggi significa rifiuto di omologazione, di quieto vivere e conformismo. Soprattutto coraggio di denuncia e coerenza (predicare moralità mentre si praticano favoritismi e illegalità equivale a rafforzare il potere mafioso).
La mafia oggi uccide meno persone, ma uccide sempre più la speranza (copyright di Luigi Ciotti). Il business complessivo dell’evasione fiscale, della corruzione e dell’economia mafiosa è da vertigine. Queste illegalità, con le collusioni e l’inefficienza, operano come una tenaglia che ci stritola causando sempre più impoverimento economico e sociale. Solo l’impegno e il coraggio di tutti possono tenere in vita la speranza di salvare ancora la democrazia.

il Fatto 13.12.14
“Le Monde”: una grande piovra nera su Roma
Per il giornale francese sulla Capitale italiana si è abbattuto “il flagello della corruzione”
di Stefano Citati

Vista da fuori la Roma criminale è il solito impasto di italianità, che conferma l’immagine di un Paese immobile nella sua corruzione irredimibile, stantio e incapace di uscire dai suoi cliché. Il riflesso di un carattere nazionale venato di inefficienza e, collusioni, eppure che si sorprende di vedere la sua immagine così turpe. “Perfino per un Paese in cui la corruzione è data per scontata nella vita quotidiana, le rivelazioni hanno sbalordito i cittadini”, scrive sul New York Times Elisabetta Povoledo, corrispondente del quotidiano americano, in un’articolo titolato “L’Italia rantola per l’ampiezza della rete criminale”. La corrispondente del quotidiano conservatore tedesco Die Welt, ha raccontato all’inizio della settimana con un’ampia inchiesta della corrispondente Constanze Reuscher luoghi e personaggi di Roma criminale.
Spesso in Italia si sostiene che la stampa estera dia un’immagine stereotipata del nostro Paese, soprattutto per quel che riguarda gli scandali, senza badare che i corrispondenti delle grati testate internazionali spesso non fanno che reinterpretare e riproporre l’immagine formulata dai nostri media. Un gioco di specchi dove la differenza sta solo nelle diverse formule linguistiche e nell’efficacia delle frasi che sintetizzano gli scandali. A esempio la grande piovra assisa tra le cupole delle chiese e i cui tentacoli abbrancano la capitale ideata dalla disegnatrice Aline Boureau per l’articolo di Le Monde “A Roma il flagello della corruzione”, ricorda l’immagine tranchant dello Spiegel con la scodella di pasta sulla quale era poggiata una pistola: “Italia paese delle vacanze” - era il 1977.
“Roma città in vendita”, titolava il giornale della gauche parigina, ex fenomeno editoriale ormai sbiadito, Libération (che ieri tornava a occuparsi dell’Italia con un netto: “Sinistra contro sinistra” a proposito della lotta fratricida Pd renziano-sindacati).
Nel suo articolo Eric Jozef, decano dei corrispondenti esteri (come del resto il collega Philippe Ridet di Le Monde, altro quotidiano transalpino in crisi) ricapitola lo scandalo della “ville contaminée” e mette l’accento sulle connessioni politiche della banda criminale. “La mafia non uccide, corrompe”, spiega il settimanale, sempre francese, L’Express. Sintesi che paiono titoli di B movies italiani degli Anni ’70 - ’80. E la percezione del nostro Paese non pare esser cambiata poi di molto nei media internazionali. Tramontata l’era Berlusconi - “Unfit to rule Italy”, secondo la definizione assurta a tormentone, dell’Economist - è rimasto l’armamentario interpretativo di sempre, il cui maggior pregio è la sintesi e la semplicità delle spiegazioni dell’eterna situazione italica: “Virtualmente, non c’è angolo dell’Italia che sia immune dall’infiltrazione criminale”. “La diffusa e incontrollata corruzione, con sottrazione di fondi pubblici rivelata dall’inchiesta è un’esempio della situazione che ha portato il debito pubblico dell’Italia a uno dei livelli più alti in Europa”, parole di Povoledo. Molto più chiare e definitive delle paginate dei giornali del Belpaese.

il Fatto 13.12.14
Il governo
Più carcere per i corrotti, ma non per “Mafia Capitale”
Il ministro ci spiega: “Queste norme non saranno applicabili all’inchiesta romana”
di Marco Palombi


Pene più severe, prescrizione aumentata, misure più efficaci per recuperare il maltolto. Questi i contenuti aggiuntivi al ddl Orlando sulla criminalità economica - che è all’esame del Senato da fine novembre - che il governo ha approvato ieri sera in un apposito Consiglio dei ministri. Si potrebbe dire che forse il governo poteva pensarci prima, e effettivamente una settimana fa le stesse norme che il Guardasigilli ha fatto passare ieri erano state bloccate dal no di Angelino Alfano, però adesso c’è di mezzo l’inchiesta su Mafia Capitale e quindi non si può dare l’idea di perdere tempo: “In Consiglio c’è stata piena condivisione”, ha potuto dire Renzi ieri sera.
MISSIONE COMPIUTA, si dirà, ma solo a livello mediatico: le nuove norme infatti, vendute come reazione a Mafia Capitale, non saranno comunque applicabili ai reati commessi prima dell’entrata in vigore. Lo spiega al Fatto Quotidiano lo stesso Guardasigilli, Andrea Orlando: “No, non saranno applicabili ai reati di ‘Mafia Capitale’ se non forse per alcuni aspetti patrimoniali”. L’articolo 25 della Costituzione, d’altronde, è assai chiaro: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. La questione dei tempi, dunque, è pura propaganda: il governo approva in Consiglio dei ministri proposte da inviare in Senato una settimana dopo l’esplosione dell’inchiesta sul “Mondo di mezzo” di Massimo Carminati e soci.
Queste norme non hanno, però, alcuna speranza di influire sull’inchiesta in corso a Roma e peraltro arrivano - ironia della sorte - proprio a Palazzo Madama, dove un ddl anti-corruzione giace abbandonato da un anno e mezzo: porta la firma del presidente del Senato Pietro Grasso e contiene già molti dei contenuti approvati ieri a palazzo Chigi. Il senatore Pd Felice Casson l’ha detto chiaramente: “Bastava che il governo desse via libera al disegno di legge fermo in commissione Giustizia al Senato: faremmo pure più in fretta”. Ma il punto non è fare in fretta - visti i probabili, lunghissimi dibattiti da azzeccagarbugli che inizieranno ora alle Camere
- ma dare l’impressione di reagire allo scandalo romano.
Veniamo ai contenuti, che - dal poco che si è capito ieri sera - sono comunque un passo avanti rispetto a oggi. Si tratta, in sostanza, di aumentare le pene per la “corruzione propria” (restano fuori quella giudiziaria e l’induzione illecita): la minima passa da 4 a sei anni, la massima da 8 a dieci, il che fa conseguentemente aumentare anche i tempi di prescrizione. Sul punto, però, c’è anche un’altro intervento: la prescrizione verrà bloccata automaticamente per due anni dopo il primo grado e per uno dopo l’appello. Meno chiaro il meccanismo sul recupero del “bottino”, anche se il premier ha sostenuto che si tratta di un modo per rendere più facile la confisca dei beni e che sarà applicabile anche agli eredi.
FORSE È COLPA del viaggio di due giorni in Turchia da cui è atterrato giusto ieri pomeriggio, ma il premier sembra più confuso del solito: vorrebbe dire che è tutto a posto, eppure non può rinunciare a attaccare il vecchio sistema corrotto. La rottamazione è uno sport logorante, si sa. E infatti prima dice che “la lotta alla corruzione non si fa con le norme, è una grande questione educativa e culturale”, poi però magnifica l’aumento delle pene “perché ci sono patteggiamenti che consentono di non andare in carcere e tenersi pure una parte dei soldi” (il riferimento è alla fine in gloria delle inchieste su Expo e Mose, in cui quasi tutti hanno patteggiato pene basse e restituito cifre decisamente contenute). In realtà poi Orlando spiegherà che con le nuove pene “il patteggiamento non esclude la pena detentiva”, ma non la comporta automaticamente.
Finita? Macché. Il Renzi di ieri era un pendolo in incessante movimento tra l’italian pride e il vigore giustizialista: prima cita Transparency International e i suoi pessimi dati sull’inflazione percepita, poi però dice che “noi non siamo d’accordo con chi dice che l’Italia è piena di corruzione”. Pure lo slogan gli esce così così: ripete un paio di volte una cosa tipo “pagare fino all’ultimo giorno, fino all’ultimo centesimo” e poi s’incarta sul non entusiasmante autoritratto “siamo il governo che ha l’ambizione di fare di più contro la corruzione”. E ancora: don Ciotti dice che l’autoriciclaggio è un compromesso al ribasso? “Non è così, ma comunque almeno noi l’abbiamo messo l’autoriciclaggio. C’è chi fa le cose e chi... ”, poi siccome di don Ciotti non può dire che chiacchiera e basta cambia discorso. La chiusura è “un appello ai magistrati” - in cui include pure il Guardasigilli bordeggiando l’incidente costituzionale - “a fare rapidamente i processi per avere le sentenze il prima possibile”. Così, per curiosità, per vedere se “Mafia Capitale” può essere smantellata con le vecchie leggi. Lui, intanto, ha fatto il suo spot.

Corriere 13.12.14
Il compromesso che lascia fuori gli sconti per chi collabora
di Giovanni Bianconi


Manca un intervento sui reati contro la pubblica amministrazione ROMA C’erano due ipotesi per il provvedimento anticorruzione voluto dal premier dopo il clamore suscitato dall’inchiesta su «Mafia capitale», che ha sollevato il coperchio su corruzioni e malversazione nell’amministrazione di Roma e non solo. Entrambe predisposte dagli uffici del ministro della Giustizia Orlando. Una più radicale, con aumenti di pena nel minimo e nel massimo per la corruzione ma anche per quelli correlati, dalla concussione alla corruzione in atti giudiziari, passando per l’induzione indebita a dare o promettere utilità; l’altra un po’ più soft , con l’innalzamento «completo» solo per la corruzione e nel minimo per l’induzione indebita, lasciando inalterate le pene attuali per i reati simili. Doveva scegliere Renzi, al suo rientro a palazzo Chigi, dopo il viaggio in Turchia.
Ha prevalso una «terza via», al ribasso anche rispetto all’ipotesi più blanda: niente disegno di legge autonomo, ma una sorta di maxi-emendamento a quello già annunciato a fine agosto in materia penale. Che contiene l’aumento di pena solo per la corruzione, senza toccare il resto. Il che significa — per quel reato soltanto — aumentare la base della prescrizione (arriva a dieci anni), oltre a termini di sospensione più ampi, che potranno arrivare fino ad altri cinque anni. In più è stata sbloccata (insieme al resto della riforma del processo) l’idea dell’intervento generale già annunciata dal ministro Orlando: sospensione dei termini per due anni dopo la condanna di primo grado e di uno dopo quella d’appello.
Una scelta che serve a tradurre in pratica gli slogan lanciati dal premier in video-messaggio quattro giorni fa, fermandosi però al «minimo sindacale». Prescrizione un po’ più lunga, e norme che dovrebbero rendere più efficaci le confische dei beni, oltre che condizionare il patteggiamento «alla restituzione completa del maltolto», come aveva annunciato Renzi: «sennò uno ruba, patteggia e trova la carta “uscire gratis di prigione” come al Monopoli», aveva detto.
Solo che il codice penale non è un gioco di società, né è fatto per essere modificato in fretta e furia al fine di mettere in pratica una battuta. Parificare la pena minima della corruzione a quella della concussione, per esempio, e dunque mettere sullo stesso piano (nell’ipotesi della condanna più leggera) l’accordo illecito tra privati cittadini e la costrizione da parte di un pubblico ufficiale, non pare una buona idea. Non a caso le pene base, attualmente, sono diverse. E più in generale, se c’è un gruppo di reati collegati tra loro (tanto che la numerazione degli articoli diventa bis , ter , quater , eccetera), toccarne solo uno può creare qualche problema.
Tra le ipotesi entrate a palazzo Chigi ce n’era una — contenuta in entrambi gli schemi — che prevedeva sconti di pena per corrotti o corruttori che avessero deciso di collaborare con gli inquirenti, sollecitata con forza dai magistrati e dall’Autorità anticorruzione. È rimasta sui fogli dei tecnici ministeriali, senza entrare nel disegno di legge. «Ma quella approvata è una buona base di partenza, visto che da vent’anni non si riusciva a fare niente — sostiene David Ermini, responsabile Giustizia del Pd —. Naturalmente va affinata, soprattutto per introdurre l’incentivo alla collaborazione, e lo faremo in Parlamento».
Ma tra Camera e Senato i problemi interni alla maggioranza provenienti soprattutto dal centrodestra potrebbero addirittura aumentare per i democratici. Com’era prevedibile, la giustizia penale s’è dimostrata un terreno sul quale è difficile mettersi d’accordo con il Ncd, partito che deve vedersela con la concorrenza elettorale di Forza Italia, particolarmente agguerrita su questo tema. «È importante che ci sia una risposta da parte del governo in termini tempestivi ed equilibrati», afferma il viceministro della Giustizia Enrico Costa, esponente del partito di Alfano, che pure rimanda alla discussione parlamentare.
«Non mi pare una riforma epocale — commenta il presidente dell’Associazione magistrati Sabelli —. Forse è l’inizio di un cammino che però dovrebbe essere molto più approfondito e sistematico»

Repubblica 13.12.14
Rodolfo Sabelli (Anm)
“Ma questo è solo un antipasto subito gli strumenti dell’antimafia”
intervista di Liana Milella

ROMA Il suo giudizio? «Siamo solo all’antipasto ». Si aspettava di più? «Spero ancora che terranno conto delle nostre proposte». Dica la verità, è deluso? «Leggerò il testo. Ma dalle prime dichiarazioni direi di sì, sono deluso». Il presidente dell’Anm Rodolfo Maria Sabelli non riesce a nascondere le sue perplessità sulla manovra del governo.
Giudica questo intervento un po’ minimalista?
«È senz’altro meno di quello che serve per realizzare lo shock dell’efficienza nella lotta alla corruzione che tutti ci attendiamo».
La pena più alta per la corruzione sarà un deterrente?
«La mossa più efficace sarebbe introdurre strumenti in grado di rompere il patto corruttivo, cioè l’accordo che lega corrotto e corruttore nell’interesse comune di non collaborare con la giustizia. Per questo abbiamo chiesto di estendere alla corruzione gli strumenti che si utilizzano per la lotta alla mafia».
Proprio questa via è stata stoppata da Ncd, tant’è che non ci sarà la doppia prescrizione. Ma sarà sufficiente bloccarla dopo la condanna di primo grado?
«Questa soluzione è insufficiente. La nostra proposta è di interrompere definitivamente la prescrizione con l’esercizio dell’azione penale o tutt’al più con la sentenza di primo grado. Solo allora estinguere il reato non potrà più essere per l’imputato un obiettivo del processo».
Quindi la strada intrapresa è sbagliata?
«Sicuramente non basta».
Questa nuova prescrizione, quando sarà approvata, non si potrà applicare ai processi in corso. Ma, negli ambienti del governo, si dice che si potrà contestare il nuovo reato di autoriciclaggio e questo, già di per sé, allungherebbe la prescrizione. Sarà proprio così?
«Non sarà esattamente così. L’autoriciclaggio non incide sui termini di prescrizione della corruzione, ma l’eventuale reato avrà termini di prescrizione diversi perché la data di commissione sarà successiva a quella della corruzione. Ma di certo l’autoriciclaggio non ci potrà essere in tutti i casi di corruzione».
Il nuovo patteggiamento potrà dare dei frutti?
«In astratto è giusto che chi patteggia restituisca il prezzo della corruzione, anche se questo potrebbe scoraggiare gli stessi patteggiamenti. Perciò occorre assicurare la certezza del processo. Quindi servono regole più semplici e il personale necessario».
Renzi fa un appello ai giudici a fare i processi, anche quelli dell’inchiesta di Roma, in fretta. È possibile con gli attuali strumenti?
«I magistrati faranno la loro parte. Ma siamo noi a fare un appello a Renzi perché ci dia le leggi e le risorse per fare i processi in tempi veloci».
In concreto cosa chiede?
«Innanzitutto i cancellieri, per evitare che nei tribunali i processi si debbano per forza concludere alle 3 di pomeriggio come accade a Santa Maria Capua Vetere».
( l. mi.)

il Fatto 13.12.14
Oggi Civati presenta “Possibile” l’altra Leopolda


Non vi stupiremo domani a Bologna (oggi). Né parleremo di correnti e correntine.
'Possibile’ è una porta aperta sul cambiamento. Presenteremo un “Patto-non-del-Nazareno” con i cittadini, sui principi fondamentali della democrazia e della rappresentanza che sola dà un senso alla politica. Ci occuperemo di riforme, per ribadire la necessità che gli elettori scelgano gli eletti e non siano i politici a farlo, nominando se stessi (Andrea Pertici).
Così si legge sul sito dell’associazione “Possibile”, che rappresenta la minoranza del Pd guidata da Giuseppe Civati, in vista dell’appuntamento “La sinistra? Possibile”, organizzato per domani, alla Scuderia in piazza Verdi a Bologna e trasmesso in streaming sul sito web dell’Associazione Possibile www.epossibile.org  .
Ricomincia con una manifestazione l’opposizione a Renzi dell’ex grande amico Pippo Civati. Qualche anno fa, erano assieme a Firenze a inveire contro i vecchi del Partito democratico.

Corriere 13.12.14
A Bologna la convention della sinistra
Pd, Civati minaccia la scissione: «Se Renzi
continua così faccio un nuovo partito»
Il parlamentare Pd: «Se il premier si presenta con il Jobs act e con le cose che sta dicendo alle elezioni a marzo non saremo candidati con lui»

qui

il Fatto 13.12.14
Altre vie
Per la sinistra un ritorno al futuro
Il libro di Franco Cassano propone di non aspettare il vento della storia e di compiere un vero sforzo di innovazione
di Salvatore Cannavò


Per riprendere un posto nella storia la sinistra avrebbe bisogno di meno presunzione. L’affermazione sembra paradossale. Viviamo una fase in cui la sinistra vive ai margini della politica senza ruolo né voce. Eppure, Franco Cassano, autorevole sociologo che la sinistra italiana l’ha frequentata e la conosce, propone di lasciarsi il passato alle spalle e di costruire un “ritorno al futuro”.
A spiegare il senso dell’operazione politica-culturale del piccolo saggio, edito da Laterza, basterebbe il titolo, Senza il vento della storia. Quel vento che l’Internazionale socialista pensava di avere nelle vele e che oggi si è fermato. Inutile, quindi, attardarsi ai riti e ai rapporti sociali dei “trenta gloriosi”, gli anni che seguono la Seconda guerra mondiale. Ed è inutile, scrive Cassano, pensare ancora di rivolgersi a una base sociale che in larga parte non esiste più.
IL LIBRO È DENSO, capace di suscitare notevoli curiosità e costituisce una lettura utile soprattutto per quei dirigenti, variamente collocati, che si scervellano sul senso della sinistra in frequenti convegni senza venire a capo di nessuna proposta operativa. Nella ricerca di Cassano, va anche detto, si legge l’ansia di mettersi in connessione con le novità imposte dalla globalizzazione che l’autore non vuole considerare un “gioco a somma zero”. Da una parte un vincitore, dall’altro un perdente. La proposta è quella di accettarne le sfide pur ribadendo l’indisponibilità a rientrare nelle compatibilità del moderno capitalismo. Così come viene proposta una riconsiderazione dei destini individuali da non ascrivere necessariamente al campo della “rivoluzione passiva” (Gramsci). Ma queste incursioni nella modernità vanno compiute da una sinistra che recuperi una “ricognizione della base sociale” logorata da anni di politiche distruttrici e che ha scelto “altre vie”, in particolare i nuovi populismi. Una sinistra adeguata dovrebbe mettersi alla ricerca dei “nuovi ceti popolari” e una volta individuati proporre una “convergenza tra convenienze diverse”, un lavoro di egemonia in funzione di un blocco sociale ritrovato. Un lavoro che non si fa nei convegni o nei congressi di partito, ma nel corpo a corpo con “la realtà liquida”.
Si tratta, quindi, di “costruire il popolo”, espressione cara al sociologo Ernesto Laclau e che, non casualmente, ricorre anche nelle riflessioni della formazione di sinistra Podemos, la stessa che in Spagna viene accreditata dai sondaggi come probabile vincitrice delle prossime elezioni politiche. La costruzione del popolo significa “una rete limpida e stabile di alleanze tra diversi diritti e diverse aree sociali”. Ponendosi le domande giuste ma sapendo che “di fronte a un mondo profondamente cambiato si può continuare a dire la verità solo se si lascia la vecchia risposta e si prova a cercarne una nuova”.

SENZA IL VENTO DELLA STORIA, Franco Cassano, Laterza, pagg. 92 © € 12,00

il Fatto 13.12.14
In Parlamento
Riforme al palo per i troppi emendamenti e la paura del governo di andare sotto


NEL PANTANO. La riforma istituzionale e l’Italicum sono ufficialmente impantanati al Parlamento. In commissione Affari costituzionali della Camera, dove la riforma del Senato sta procedendo con difficoltà (diversi emendamenti sono stati ritirati con l’intenzione di votarli direttamente in aula sperando in un’intesa), ieri è saltata la seduta poichè la maggioranza correva il serio rischio di finire sotto su alcune proposte della minoranza del Pd. Tra gli emendamenti rimandati all’aula anche la proposta di Forza Italia di ridurre il numero delle Regioni, da 20 in 7-12. Non va meglio a Palazzo Madama dove l’Italicum deve fronteggiare in commissione la muraglia dei 19.000 emendamenti presentati: difficile immaginarne l’approdo in Aula prima di Natale. La Lega Nord di Roberto Calderoli ha presentato 10.500 emendamenti alla prima versione dell’Italicum e 5.482 sub-emendamenti agli emendamenti della relatrice Anna Finocchiaro che hanno formalizzato la nuova versione dell’Italicum. In più anche qui la minoranza del Pd propone pochi, ma ben precisi emendamenti contro i capilista bloccati. Proposte di modifica che a Renzi non dispiacciono, ma che sono invise a Forza Italia.

il Fatto 13.12.14
“Ugly Ray” in cella, la retata dei pedofili non finisce più
il 73enne “amico di merende” del Dj stupratore seriale morto nel 2011 accusato di violenze su minorenni
Ma l’inchiesta non ha ancora toccato i politici
di Caterina Soffici


Londra Hanno preso un altro amico di merende di Jimmy Savile, il popolare Dj e conduttore di programmi per ragazzini della Bbc che solo dopo morto è stato scoperto come il più grande stupratore seriale mai vissuto in Gran Bretagna.
Il nuovo pedofilo finito nella rete si chiama Ray Teret, era stato un Dj di Radio Caroline, meglio noto come Ugly Ray. Lo hanno arrestato a 73 anni suonati ed è stato condannato a 25 di carcere.
Nessuna attenuante, nessuna clemenza per l’età. Molto probabilmente finirà i suoi giorni dietro le sbarre, a meno che non riesca a campare oltre i 98 anni. Meglio tardi che mai.
Perché i fatti, ancora una volta, si riferiscono agli anni 60 e 70. Durante il processo, “Ugly Ray” è stato descritto come una “ombra di Savile”. Era un suo protetto e lo aveva aiutato nei primi anni della sua carriera. Ci sono foto dei due, giovani e spensierati, a torso nudo che fumano e bevono durante qualche party. Ci sono foto di Ray con i Beatles, tutti sorridenti. Era la Londra rampante della fine anni Sessanta, inizio Settanta.
Erano gli anni della swinging city, ma dietro i lustrini, le celebrità, il pop e la musica – ormai è chiaro – c’era ben altro.
Il giro di amici di Savile sembra non finire mai. Ne sono già stati condannati un paio di dozzine, tra conduttori, fiancheggiatori, manager che sapevano e hanno coperto, infermieri e altro.
Anche nel caso di Ugly Ray lo schema era sempre il solito: forte della propria popolarità, il famoso Dj irretiva ragazzine e le stuprava.
Età preferita sui 12 anni. Le sceglieva deboli, emotivamente e fisicamente fragili. Secondo il giudice, “la maggior parte non si rendevano neppure conto di cosa stesse succedendo e avevano la sensazione di non poter fare niente per evitare che queste cose accadessero”.
MOLTE DI QUESTE persone, allora in età scolare, hanno avuto la vita devastata: sono andate incontro a problemi psicologici, hanno avuto episodi di autolesionismo, difficoltà di relazioni, anche con i propri figli.
Durante la lettura della sentenza, giovedì mattina all’alta Corte di giustizia, erano nella galleria aperta al pubblico e hanno iniziato a battere le mani e a manifestare la propria gioia.
Qualcuno ha urlato: “Mostro”. Alcune, ormai donne mature, si sono finalmente sfogate: “Giustizia è stata fatta”.
Ormai è chiaro: per 50 anni c’è stata un cupola che copriva certi comportamenti sessualmente deviati di certi maschi, ricchi, famosi, principalmente bianchi. Su di loro si chiudeva un occhio. Era un mondo connesso con la politica. Non a caso lo scandalo Savile ha riaperto vecchie indagini anche sulla pedofilia a Westminster. Politici ed ex ministri che adescavano ragazzini. Una casa degli orrori dove avvenivano violenze. Si è parlato anche di bambini scomparsi e cadaveri ritrovati nelle campagne, con evidenti segni di violenza. Un mondo di mostri insospettabili, molti dei quali ancora non scoperti. Oppure scoperti solo dopo la morte, vedi il caso di Savile. Negli anni Ottanta molti fatti finirono nel cosiddetto Dossier Dickens: c’erano nomi e accuse. Il fascicolo era stato consegnato al ministero dell’Interno ed è sparito nel nulla.
LA SETTIMANA scorsa qualche piccolo schizzo di fango ha raggiunto anche Buckingham Palace. Sir Peter Hyman, uno dei mostri della cerchia dei pedofili (defunto nel 1982), che aveva accesso al Palazzo reale e frequentava anche il castello di Balmoral, avrebbe molestato vari ragazzini, minorenni, che facevano parte dello staff di servizio.
In particolare un ragazzo che lavorava nelle cucine della regina e che poi si era dimesso per fare il cameriere presso la residenza di Hayman, quando il deputato diventò Alto commi

il Fatto 13.12.14
Ernesto Jr, la “Poderosa” e il “turismo guerrigliero”
Il figlio del “Che” sfrutta il marchio paterno e organizza viaggi in moto nei luoghi della Rivoluzione cubana
Costo: da 3 a 6 mila dollari
di Andrea Valdambrini


Dalla storia al mito e dal mito al business. Non è un novità per la figura di Ernesto Guevara, detto “Che”, guerrigliero eternamente giovane della rivoluzione cubana, venerato come un eroe nella sua isola e icona mai appannata del marxismo globale. Quando poi le sue gesta ritornano un affare di famiglia, al mito si aggiunge quel pizzico di realtà capace di renderlo quasi irresistibile.
L’ultimo figlio del “Che” si reiventa agente di viaggio, lanciando un tour in moto ispirato al viaggio che suo padre fece da giovane prima ancora di diventare rivoluzionario e combattente. L’agenzia si chiama “La Poderosa”, proprio come la Norton 500 di fabbricazione britannica con cui l’argentino Ernesto Guevara, allora 23enne, e l’ amico d’infanzia Alberto Granado, percorsero dal gennaio a giugno del 1952 quasi ottomila chilometri. Un’avventura dal Cile al Venezuela, attraverso quella “maiuscola America” che “mi ha cambiato molto più di quanto pensassi”, scriverà poi Guevara. E che grazie all’osservazione della povertà e dell’ingiustizia lo porterà ad abbracciare per sempre l’ideale della rivoluzione.
Gli appunti del giovane Che, pubblicati solo nel 1992, saranno poi trasfusi in un film del 2004, I diari della motocicletta (girato dal brasiliano Walter Salles e interpretato dal messicano Gael Garcia Bernal). Anche sull’onda di quel successo cinematografico, Ernesto Guevara junior, 49enne figlio della seconda moglie del “Che” Aleida March, residente a Cuba e di professione avvocato, ha pensato di vendere un accattivante pacchetto turistico. Con qualche sorpresa “capitalista”, a partire dal prezzo: si va dai 3.000 dollari per 6 giorni, ai 5.800 per 9, volo per Cuba escluso. Harley Davidson fiammanti – a scelta tra i modelli Touring Street Glide o Dyna Wide Glide, ci informa il sito web dell’agenzia Guevara - al posto della vecchia Poderosa e un percorso tutto cubano certo meno avventuroso dell’originale. Due gli itinerari proposti, battezzati con il soprannome del giovane Guevara, Fuser 1 e 2. Alla scelta pubblicitaria dei nomi si abbina il percorso “rivoluzionario” ad uso del turista facoltoso, che comprende tanto i luoghi guevariani de L’Avana che il mausoleo di Santa Clara, circa 250 chilometri a est della capitale.
Curiosamente, alla “Poderosa Tour Guevara” si ritrova a lavorare con Camillo, amico di vecchia data e figlio del guerrigliero cubano Antonio Sanchez Diaz, ucciso in battaglia nel 1967, pochi mesi prima del “Che”. “Ernesto Guevara”, si legge sul sito della sua agenzia di viaggio “ha ereditato dal padre la passione per le moto”. Per questo “orgoglioso della sua gente, (Guevara) ha a sempre desiderato condividere l’esperienza di godere le bellezze della propria terra con gli amici e la comunità dei motociclisti che visitano l’isola”. E conclude l’auto-promozione: “Ernesto realizzerà i tuoi sogni sviluppando anche i propri”. E meno male. Basta che non dica di farlo per filantropia. Inutile chiedersi cosa ne penserebbe papà “Che”. Lui certamente amava moto, viaggi e avventura. Ma il business non era il suo mestiere, se è vero che al ministero dell’Economia di Cuba ci finì quasi per sbaglio.

Repubblica 13.12.14
Etgar Keret
“Lo Stato ebraico come il Titanic, ma la svolta è possibile”
intervista di Fabio Scuto


GERUSALEMME . «Il mio Paese è un po’ come il Titanic, dove i passeggeri invece di occuparsi della nave che sta affondando, cercano di farsi assegnare una cabina migliore». Non ha perso il filo dell’ironia lo scrittore Etgar Keret, una delle voci della nuova generazione nata dopo la guerra del 1967. La conversazione avviene mentre arrivano le notizie degli scontri in Cisgiordania e sul tavolo sono sciorinati i giornali del venerdì con le ultime sulla crisi di governo e le alleanze per il voto del prossimo marzo.
Cosa pensa degli avvenimenti che hanno portato al voto anticipato, in un momento di altissima tensione con i palestinesi, e delle alleanze che si prospettano specie nel centro-sinistra?
«Diciamo subito che quello di Netanyahu è stato un governo pessimo al di là delle posizioni politiche. Da un lato quelli che proponevano un confronto violento e dall’altro quelli che, come Tzipi Livni, volevano portare avanti il processo di pace. Sono persone senza alcun comune denominatore, c’erano dentro personaggi che non hanno la minima idea di democrazia e quindi è un bene che sia arrivata alla fine. C’è stato un tentativo di cambiare il volto della società israeliana, prima con la guerra di Gaza e poi con la proposta di legge sulla nazionalità, trasformandola in una società sempre meno democratica e liberale».
Ma non è detto che i risultati delle elezioni siano quelli che lei spera...
«È vero, però questa volte le elezioni toccheranno quello che è nel cuore del dibattito interno israeliano, e cioè il modo con cui vogliamo risolvere il conflitto israelo-palestinese. Penso che la crisi sia stata necessaria, anche se abbiamo dovuto ingoiare molti rospi per arrivarci: ma finalmente si parla delle cose vere, senza confonderle con altri argomenti, non altrettanto prioritari. Il leader del Partito dei coloni ha ricevuto una montagna di voti non solo dalla destra nazionalista, ma anche da giovani che si aspettavano cambiamenti nella politica economica».
La posta in gioco è più di una vittoria elettorale?
«Sì, queste elezioni sono importanti perché ci mettono, in quanto società, di fronte ad uno specchio, come ha fatto la legge sulla nazionalità: “democrazia” è una parola con un ampio spettro di significati, e questa volta saremo costretti a decidere se vogliamo essere una società liberale ed aperta o una società di altro tipo. Anche la Russia si definisce una democrazia, vogliamo essere come la Russia?».
Non è un grosso rischio? La maggioranza degli israeliani si definisce di destra e vi sono strati della società che non certamente non vogliono essere liberali, come gli ultra-ortodossi o i nazionalisti religiosi?
«È vero, ma credo che con una leadership appropriata ed un’opera di convincimento, la definizione che molte persone danno di se stesse potrebbe cambiare. Penso che lo scontro sarà basato meno sulla dicotomia sinistra-destra e più sulla scelta fra una società liberale ed una che non lo è».

il Fatto 13.12.14
Il veto garantista contro la fiction sulla clinica del Dottor Morte
La fiction non s’ha da fare
Il docufilm sulla clinica degli orrori di Milano scatena (a prescindere) gli iper garantisti doc
di Malcom Pagani


Con un cognome in bilico tra i caratteristi di Carlo Verdone e gli incappucciati di Corrado Guzzanti, al dottor Brega Massone non è venuto da ridere. Condannato in primo grado per l’omicidio volontario aggravato dalla crudeltà di quattro persone ai tempi in cui prestava servizio come primario di chirurgia toracica alla clinica Santa Rita di Milano, Pierpaolo Brega Massone è furibondo. Stasera, infatti, dopo lunghe battaglie legali, Rai3 manderà in onda in prima serata una docufiction che lo riguarda da vicino intitolata L’infiltrato-operazione clinica degli orrori.
POTREBBE diventare un Format e l’hanno girata in duplex Cristiano Barbarossa e un autore televisivo, bravo e sensibile, Giovanni Filippetto, avvalendosi di intercettazioni telefoniche e filmati originali figli di un’inchiesta iniziata e condotta fin dal 2007 da due pm milanesi, Grazia Pradella e Tiziana Siciliano, tesa a far luce sul sistema che attraverso rimborsi gonfiati o falsi, truffava attraverso medici compiacenti Stato e Regione. Infilandosi nel tunnel, Pradella e Siciliano non hanno trovato luce, ma altro buio. Morti. Lesioni. Interventi inutili e rischiosi sulla pelle di pazienti non di rado deceduti in seguito alle operazioni, effettuati al solo scopo di ottenere denaro. Anziani. Malati terminali sottoposti ai ferri in condizioni men che precarie. Diagnosi fasulle su inesistenti tumori al seno stilate su giovani donne mandate al macello come bestie. Un inferno che con semplificazione mediatica quanto mai vicina al vero fece ribattezzare la Santa Rita come “clinica degli orrori” e che oggi, a un passo dalla messa in onda de l’Infiltrato, libera il garantismo peloso di una compagnia di giro sorprendentemente eterogenea.
Giovedì mattina infatti, con l’appoggio esterno di Libero, nella sede dei Radicali italiani si sono seduti intorno al tavolo l’avvocato di Brega Massone, Enzo Vitale, il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, l’omologo de L’Opinione delle libertà, Arturo Diaconale, accumulatore seriale di cariche (è anche Presidente del Parco Nazionale del Gran Sasso nonché del tribunale Dreyfus) e un’indignata Rita Bernardini, silente sull’agghiacciante quadro emerso dall’inchiesta e invece preoccupatissima per il depauperarsi dello Stato di diritto nella povera Italia del 2014 giunta ormai a latitudini nordcoreane.
Pur non avendo visto un solo secondo del lavoro di Filippetto e Barbarossa, in omaggio al garantismo, srotolando articoli della Costituzione, Carte di Treviso e breviari sui doveri dei giornalisti, Bernardini ha emesso la sentenza: “Ormai l’ultima preoccupazione è di garantire la presunzione di innocenza, nel caso specifico di Brega Massone, con un accanimento mediatico che corrobora la tesi colpevolista recando gravi danni anche ai familiari, poiché è chiarissimo che la trasmissione dipingerà il chirurgo come un mostro assetato di denaro e incurante della vita dei pazienti”.
A BERNARDINI, assecondandone l’impeto accusatorio, si sono accodati un Sansonetti impegnato a “esprimere totale solidarietà” a Brega Massone: “Un cittadino che sta subendo comunque un linciaggio” e a rievocare criticamente i fatti d’Ungheria, Jan Palach e la passata militanza dalla parte giusta oggi stinta nel volemose bene.
È preoccupato Sansonetti, da “Una cappa di potere e un clima da Ddr che già non mi piaceva quando ero iscritto al Pci e che adesso mi ritrovo in questa Italia che abusa delle intercettazioni e dove trionfa l’ignoranza della Carta costituzionale”.
In realtà L’infiltrato è un lavoro onesto e molto equilibrato. Non giudica, ma mostra. Non condanna, ma spiega. Interpolando ricostruzioni interpretate con diseguale efficacia da attori come Michela Cescon, Lorenza Indovina, Massimiliano Graziosi, Massimo Poggio, Massimiliano Virgilii e Andrea Renzi (uno dei protagonisti de L’Uomo in più di Paolo Sorrentino) e intercettazioni reali, ricostruisce un clima di connivenza in cui scrupoli morali e autoassoluzioni in corsa di un microcosmo medico legato a doppio filo con il guadagno concorrono a cancellare l’etica.
BREGA MASSONE, l’imputato di un processo in cui, sostiene disperato, si era deciso a prescindere di condannarlo, si è difeso in una recente intervista concessa a Panorama: “I giornali hanno riportato soltanto stralci tagliati ad arte dalla procura. Mi hanno attribuito tante falsità. Le percentuali dei miei interventi su casi rivelatisi poi benigni rientrano nella media di tutte le casistiche operatorie: dal 10 al 40 per cento”. Altri al suo posto, non possono più farlo. L’infiltrato è anche per loro. Per tutti quelli che al tribunale Dreyfus non potranno più ricorrere.
“L’Infiltrato - Operazione clinica degli orrori” questa sera su Rai3. In basso, Pierpaolo Brega Massone (a sinistra), condannato in primo grado per omicidio volontario Ansa

Corriere 13.12.14
Storia di George Orwell scomodo liberal-socialista
risponde Sergio Romano


In risposta ad un lettore che la interrogava sui rapporti dell’intellighenzia europea con l’Urss, lei ha risposto citando personaggi famosi decisamente attratti dalla politica di Stalin come George Bernard Shaw e Lion Feuchtwaenger. Più sfumata e non priva di qualche ambiguità — lei scrive — la posizione di André Gide, che ha poi scritto uno dei sei saggi de Il dio che è fallito (gli altri sono di Arthur Koestler, Ignazio Silone, Richard Wright, Louis Fischer, Stephen Spender).
Mi permetto di ricordare che forse più di altri, George Orwell è stato anticipatore, con Arthur Koestler, delle critiche al regime sovietico durante i lunghi anni di sonno dovuto, anche, all’influenza della propaganda del Cominform. Oltre alla Fattoria degli animali , si possono leggere testi meno noti come Inside the Whale (Dentro la Balena). Orwell ha avuto il coraggio di attaccare per tempo la cecità degli intellettuali di sinistra abbacinati dal mito dell’Urss.
Silvia Tozzi

Cara signora Tozzi,
Politicamente Orwell appartiene alla famiglia del laburismo britannico, ma con tratti d’indipendenza e spregiudicata franchezza che lo resero spesso sospetto in molti ambienti della sinistra europea. Conosceva le malefatte del comunismo perché le aveva scoperte sul campo combattendo contro i franchisti durante la Guerra civile spagnola. Come raccontò in Omaggio alla Catalogna , pubblicato dopo il ritorno in patria, i comunisti spagnoli, con l’assistenza dei loro consiglieri sovietici, si servivano della guerra civile per eliminare fisicamente anarchici e socialisti. Fu tra i primi a comprendere che la guerra civile non era più soltanto la battaglia dei repubblicani contro la Spagna conservatrice. Era divenuta il terreno in cui i partiti della Terza Internazionale, guidati dall’Unione Sovietica, stavano sperimentando la conquista del potere con la strategia dei fronti popolari.
Orwell era un eccellente giornalista, con grande capacità di osservazione e lunghe esperienze internazionali in India, in Birmania, in Francia. Ma era anche narratore, romanziere, saggista, e soprattutto autore di «operette morali» che appartenevano alla grande tradizione inglese della satira politica e sociale all’epoca di Jonathan Swift. Nel 1946 pubblicò La fattoria degli animali , una rappresentazione satirica della formazione dello Stato sovietico; e tre anni dopo dette alle stampe 1984 , una cupa descrizione del modo in cui lo Stato totalitario organizza e domina la vita, le coscienze e i sentimenti dei suoi sudditi.
Nei suoi anni giovanili era stato membro di un corpo della polizia imperiale, composto prevalentemente da indiani, che prestava servizio in Birmania; e quella esperienza aveva avuto l’effetto di renderlo sospettoso dell’autorità nelle sue diverse incarnazioni, dovunque e comunque fosse esercitata. Non gli piaceva il conformismo della destra, ma era altrettanto critico del conformismo della sinistra. Era convinto che tra la chiarezza del pensiero e l’efficacia del linguaggio vi è uno stretto rapporto. Intendeva dire che lo stile di un giornalista è tanto più elegante quanto più dice la verità. Era certamente un liberal-socialista, ma parlava sovente di se stesso come di un conservatore anarchico: una definiz ione che sarebbe piaciuta a Indro Montanelli.