domenica 14 dicembre 2014

dal Corriere:
San Damaso. Renzi ricevuto da Papa Francesco

Trenta minuti di colloquio privato
Il premier e la sua famiglia in Vaticano. La moglie Agnese indossa un abito scuro ma non mette il velo.
Renzi alla fine ha regalato al Santo Padre una confezione di vini toscani, in particolare il Vin santo e il Chianti. Illustrando la confezione, Renzi ha detto: «Abbiamo portato il Vin santo per la messa e non solo, sono i nostri prodotti italiani».
Il Santo Padre non li gusterà, perché, Eucarestia a parte, è astemio.

La Stampa 14.12.14
Riforme, ribelli all’assalto
Civati evoca l’uscita dal Pd
di Amedeo La Mattina


Una vigilia di Assemblea nazionale Pd incandescente. Una vigilia da «thriller», ironizza Pippo Civati, riferendosi al mistero della carta che Renzi intende giocare oggi in assemblea per riportare all’ordine i ribelli del suo partito. La ribellione è esplosa in commissione Affari costituzionali di Camera dove procedono a fatica le riforme delle istituzioni e della legge elettorale. Sullo sfondo aleggia il big game del Quirinale e incombe lo spettro della scissione che ieri Civati ha evocato. «Un partito a sinistra del Pd si costituirà se Renzi continua così, non è colpa o responsabilità nostra. Se Renzi si presenta con il Jobs Act e le cose che sta dicendo alle elezioni a marzo, noi non saremo candidati con lui».
L’attacco della minoranza
Renzi, dal canto suo, fa spallucce, apre la porta a chi vorrebbe uscire, pensando che a sinistra del Pd ci sia spazio solo per una minoranza che non tocca palla. E poi, se qualcuno vuole mettersi al suo posto, attenda il congresso o le primarie. «E’ singolare - osserva il renziano Ernesto Carbone - che ci sia ancora chi pensa di vivere in un clima da congresso. Se vuole decidere la linea del Pd, Civati si presenti nuovamente alle prossime primarie». Chi invece non ci pensa affatto a imboccare l’uscita è Bersani che rivendica al Parlamento il diritto di dissentire. «Leggo sui giornali di questo psicodramma a proposito di quanto succede in Parlamento. Cerchiamoci di metterci tranquilli che abbiamo altri problemi in giro». L’ex leader Pd ricorda che non sono i governi a cambiare le Costituzioni: «Renzi riconosca che sono materie parlamentari e quindi se la sbroglino lì. Non vedo la necessità di accendere fuochi».
Il nodo
E invece di fuochi a Montecitorio ne sono stati accesi tanti. Mercoledì in commissione Affari costituzionali il governo è andato sotto su un emendamento dell’onorevole Pd Lauricella che nega al presidente della Repubblica la nomina dei senatori a vita. Ieri lo scivolone è stato recuperato, reintroducendo la nomina dei senatori a vita. Riunione notturna con toni alti, alla fine della quale Lauricella ha deciso di non partecipare alle sedute della commissione. In trincea sono rimasti nove deputati della minoranza democratica che hanno chiesto di essere sostituiti: non vogliono mandare ancora giù il governo, ma intendono continuare a votare in dissenso su alcuni punti della riforma. Ci sono stati momenti concitati ieri pomeriggio a Montecitorio, con i lavori della commissione interrotti. In questa situazione Speranza, che oltre ad essere capogruppo è anche uno dei leader della minoranza, si trova sempre tra l’incudine e il martello. Ieri ha dovuto mediare, riunendo i dissidenti (tra questi Bindi, D’Attorre, Cuperlo, Pollastrini, Agostini) con renziani e ultras renziani come Ettore Rosato considerato il bastone di Matteo in commissione. Sono volate parole grosse: Rosato li ha accusati di voler far cadere il governo e bloccare le riforme; risposta piccata della minoranza che attribuisce a Renzi la volontà di volere mettere la mordacchia a chi la pensa diversamente. Alla fine i ribelli hanno ritirato la richiesta di essere sostituiti, ma non sono rientranti in commissione per non votare l’articolo 3 che ripristina il potere del Capo dello Stato di nominare i senatori a vita. Sono rientrati in un secondo momento, dopo la riformulazione di alcuni articoli. In serata votato un emendamento dei relatori che fissa il quorum per eleggere il capo dello Stato a tre quinti dei votanti a partire dal nono scrutinio.
Ma la guerriglia è rimasta. La Bindi: «Se non ci dicono sì all’emendamento che introduce il giudizio preventivo della Consulta sulla legge elettorale, allora con sdegno me ne vado».

il Fatto 14.12.14
Renzi pronto a bastonare l’Assemblea democratica
Per spingere il suo programma porterà con sé le spese delle ex segreterie
di Wanda Marra


Il “programmino” con le spese delle segreterie pre-Renzi (con tanto di dettagli su viaggi, alberghi, pranzi e quant’altro dei vari componenti) è pronto. L’ordine del giorno da far votare all’Assemblea per stringere all’angolo le minoranze e costringerle a non mettere mai più in difficoltà il governo, Renzi ha finito di scriverlo durante la notte. Aspettava il via definitivo della Commissione Affari Costituzionali di Montecitorio alle riforme. E così il plenum del partito di oggi all’Hotel Parco dei Principi si preannuncia una resa dei conti, con il thrilling dell’incertezza.
Il segretario-premier apre alle 11. Con un discorso molto duro, molto chiaro, quasi definitivo. La premessa l’ha fatta ieri, parlando di scuola: “Gennaio e febbraio saranno mesi complicati, ci sono tanti provvedimenti, passaggi istituzionali, appuntamenti legati ai tanti provvedimenti di legge”.
DUNQUE, BASTA con i “giochetti” parlamentari. Come quello che ha mandato sotto il governo in commissione Affari Costituzionali alla Camera mercoledì. O come il comportamento andato avanti per tutta la giornata di ieri, da parte della minoranza dem: che prima è uscita, poi è rientrata e alla fine si è fatta sostituire da renziani pre-allertati per non votare il testo uscito dal Senato, ma neanche mandare sotto il governo sugli ultimi articoli. Un partito nel partito, che alla fine non rompe, ma non si allinea. E cuoce il leader a fuoco lento. Il quale leader è furioso da giorni. “Cosa dirà di preciso? Vediamo quanto si arrabbia stanotte sentendo i racconti dalla Commissione”, commentano i suoi. Eppure non è così semplice: “Si uniscono due debolezze: dove vanno quelli della minoranza, se escono dal Pd? E Renzi, cosa può fare per disinnescarli? ”, commenta un senatore dem. Perché, in realtà, il logorio quotidiano e la mancanza di controllo del territorio il premier li accusa. Puntando sul fatto che alla fine in Commissione ha avuto il via libera alle riforme, pur con una fatica estrema, e perevitare martiri degli avversari, oggi Renzi - salvo sorprese dell’ultima ora - non dovrebbe annunciare punizioni esemplari. I renziani: “Che fa, li caccia? Non gli conviene. E poi, loro sono divisi”. Civati ieri ha ri-promesso la scissione. “Alla fine resterà solo su questa strada”, ancora gli uomini del presidente. E allora? Allora, potrebbe minacciare intanto la fine della “gestione unitaria” della segreteria. Se le cose annunciate non verranno fatte e votate nei termini previsti. Oltre alla mancata ricandidatura, in caso di voto. Mancata ricandidatura che per i ribelli ormai è certa. Intanto, comunque, si farà votare l’ordine del giorno, forte dei numeri dell’Assemblea. I suoi sono stati precettati in massa: la maggioranza dev’essere schiacciante, come dev’essere chiaro che la minoranza è davvero minoranza. Gli “altri”, i dissidenti, hanno anche valutato se non
farsi vedere, marcando con l’assenza il loro dissenso. Alla fine ci saranno, a parte D’Alema. Alcuni voteranno contro, altri non parteciperanno al voto. La scissione è nell’aria, ma non si materializzerà neanche oggi.
SI ASPETTA IL VOTO per il presidente della Repubblica, prima. E poi, di capire con quale legge si andrà alle elezioni. “Caute”, diceva in latino ieri Roberto Speranza, capogruppo alla Camera, in questi giorni fisso in Commissione. Nel tentativo di tenere la minoranza saldamente nel Pd. Tra i dialoganti c’è anche Pier Luigi Bersani. Spera nel Quirinale. “Con qualche possibilità”, commenta un renzianissimo. Matteo, evidentemente, in questa fase ha tutta la convenienza di farglielo credere, per portare a sé più pezzi di minoranze possibili.
Il resto sarà la mozione degli affetti e delle responsabilità, come al solito sul palcoscenico della diretta nazionale: “Non chiedo obbedienza, ma pretendo lealtà. Non per me. Per la cucina della festa dell’Unità, per l’iscritto che prende ferie nella settimana delle elezioni, per la giovane precaria che spera in noi”. La linea è chiara: i dirigenti della “ditta” non rappresentano più neanche il partito. E ancora: “Chi vuole cambiare segretario può aspettare fino al 2017 con il congresso, chi vuole cambiare governo, fino al 2018. Ma chi vuole cambiare paese non perda un solo giorno e venga a darci una mano”.

La Stampa 14.12.14
Il premier spiazza i nemici e punta ai “collaborazionisti”
Linea soft senza espulsioni. I contestatori divisi in quattro fazioni
di Fabio Martini


In questi giorni la principale preoccupazione dello staff di Renzi è stata poco politica, molto materiale ma è rimasta riservata: riuscire a riempire la sala che questa mattina, all’hotel Parco dei Principi a Roma, ospiterà l’Assemblea nazionale del Pd. Un appuntamento preceduto dall’attesa di uno scontro frontale, l’ennesimo, tra il segretario-presidente Renzi e le minoranze interne, sempre più combattive e sempre più divise tra loro. La preoccupazione di riempire la sala non risponde ad un canone estetico o ad un’ansia organizzativistica: riuscire a far convergere in Assemblea i più di millecinquecento componenti è sempre stata un’impresa titanica anche per i predecessori e dunque Renzi ha chiesto che questa mattina non ci siano vuoti eccessivi, che potrebbero alludere ad un Pd renziano demotivato e poco compatto.
Le preoccupazioni
Abile nel collocare la riunione del parlamentino all’indomani dell’udienza col Papa, Renzi confida di non avere grosse preoccupazioni politiche, anche perché ieri sera la sua intenzione era quella di spiazzare una volta ancora i suoi avversari interni: a chi lo aspetta assetato di provvedimenti disciplinari, il segretario-presidente potrebbe invece riservare un approccio per certi versi capovolto. Il Renzi che aprirà questa mattina i lavori dell’Assemblea nazionale sarà più inclusivo e meno “attaccabrighe” rispetto alle ultime sortite: «Chi vuole cambiare il governo aspetti il 2018, ma chi vuole cambiare il Paese non perda un solo giorno e venga a darci una mano». Un approccio soft, mirato anche a dividere ulteriormente la minoranza interna: anziché attaccarla frontalmente e dal punto di vista disciplinare, Renzi immagina di blandire ulteriormente i “collaborazionisti”, che aumentano ad ogni passaggio cruciale.
Un Renzi che rivendicherà il lavoro fatto, che confronterà il Pd del dicembre 2013 e quello di oggi. Ha confidato ieri: «Non rivendico meriti, non voglio coccarde, ma ricorderò l’impresa che abbiamo fatto: avete preso un partito che non aveva vinto in Italia e lo avete trasformato nel partito più votato d’Europa». Un Renzi che si propone di sferzare la minoranza, con argomenti pungenti ma oggettivi, affermando un principio: «Non voglio obbedienza, ma pretendo lealtà». Un approccio destinato, almeno sulla carta, a complicare la reazione delle minoranze interne, divise in cinque aree: l’ala più lontana da Renzi, guidata da Pippo Civati, che ieri ha riunito i suoi a Bologna e ha ribadito per l’ennesima volta, ma con un po’ di enfasi in più, che lui non resterebbe in un Pd che andasse ad elezioni anticipate con la bandiera del Jobs Act; poi ci sono i bersaniani, oramai divisi in due sotto-aree: i duri e puri (Fassina, D’Attorre e Gotor) e i “collaborazionisti” (Speranza, Stumpo, Epifani, Damiano), con Bersani che è leale con la “ditta” ma al tempo stesso fomenta gli umori guerrieri dei suoi; gli ex dalemiani raccolti attorno a Gianni Cuperlo e il cui punto di riferimento (Massimo D’Alema, reduce dalla contestazione pugliese) non parteciperà all’Assemblea di oggi; infine c’è l’area delle “personalità”, personaggi tra loro diversi, (Bindi, Boccia), ma accomunate nell’atteggiamento critico verso Renzi.

Repubblica 14.12.14
Stefano Fassina
“Matteo drammatizza perché vuole votare io non cerco scissioni”
Riforme e democrazia interna, lo scontro tra le anime del Pd alla vigilia dell’Assemblea nazionale
Per la resa dei conti in Assemblea bisogna essere in due, ma chi dissente vuole solo migliorare le riforme
intervista di Giovanna Casadio


ROMA «Renzi sta drammatizzando lo scontro interno perché vuole andare a votare al più presto». Stefano Fassina, uno dei leader della sinistra dem, lancia accuse durissime alla maggioranza renziana nel giorno dell’Assemblea del partito.
Fassina, nel Pd siete a un passo dalla scissione?
«Spero che nessuno dei dirigenti dem, né Civati né altri, abbiano davvero questo obiettivo. Ma rispondo per me. Il mio impegno rimane nel Pd e per correggere la rotta del partito e del governo».
Però i toni sono di sfida tra Renzi e voi della sinistra dem?
«Mi pare che il presidente del Consiglio voglia andare al voto e cerchi ogni giorno di costruire alibi per giustificare il suo obiettivo, ma scaricando la responsabilità sulle spalle degli altri. I termini utilizzati in questi giorni come “imboscata”, “rivincita congressuale”- dopo un passaggio in commissione Affari costituzionali di Montecitorio assolutamente fisiologico e su un punto secondario, cioè l’eliminazione dei senatori a vita nel nuovo Senato federale - mi pare siano finalizzati a una drammatizzazione politica per creare uno showdown verso le elezioni».
Nell’Assemblea ci sarà quindi una resa dei conti?
«Per fare la resa dei conti bisogna essere in due, ma da parte di chi in questi mesi ha dissentito, l’obiettivo è stato di migliorare le riforme. È surreale ad esempio, che il giorno del successo dello sciopero generale, Renzi e i suoi invece di capire come ricostruire un rapporto con una parte fondamentale del popolo del Pd, continuino a delegittimare sul piano morale e politico chi tra i dem tiene faticosamente aperto il dialogo. Dove vogliono portare il Pd?».
La minoranza dem per la verità ha messo in difficoltà il governo in commissione facendolo andare sotto.
«Il governo è andato sotto dopo essere stato ripetutamente informato della posizione di dissenso e invitato ad accantonare un punto che era secondario».
Ma può la sinistra dem andare avanti con il dissenso continuo sulle riforme da quelle costituzionali al lavoro?
«No, non si può andare avanti così. Siamo di fronte a un bivio: da un lato il premier può continuare a cercare lo scontro per giustificare la sua scelta di andare al voto; dall’altro la strada del contributo che tutti vogliamo dare nel Pd. Renzi la smetta di fare ridicoli ritratti sulle poltrone e sulle candidature, che forse funzionano per chi lui ha attorno, ma per quanto mi riguarda producono il risultato opposto».
In un partito non ci vuole disciplina?
«La disciplina in un partito del XXI secolo si costruisce non attraverso maggioranze blindate che procedono come schiacciasassi, ma con il dialogo».

il Fatto 14.12.14
La minoranza Gianni Cuperlo
“Voteremo ancora contro la Riforma”
intervista di Wanda Marra


Abbiamo deciso di non votare l’articolo 38 delle riforme costituzionali per non mandare sotto il governo una seconda o una terza volta, poi in Aula difenderemo le nostre ragioni”. Gianni Cuperlo, deputato della Commissione Affari Costituzionali, che ieri fino a tarda notte ha votato le riforme, in serata sintetizza così una giornata di ordinaria follia. Con la minoranza dem che prima esce dalla Commissione, poi rientra. In un clima tesissimo, da quando mercoledì proprio la minoranza ha mandato sotto il governo.
Onorevole Cuperlo, perché avete chiesto la sostituzione in Commissione?
Noi abbiamo lavorato per migliorare la riforma e abbiamo accettato la richiesta di non stravolgerne l’impianto rispettando il lavoro del Senato. Con la stessa lealtà abbiamo indicato questioni sulle quali era e resta fondamentale cambiare il testo.
Quali?
Tra le più importanti, alzare il quorum per l’elezione del Capo dello Stato, evitando che chi vinca nelle urne si prenda anche le istituzioni di garanzia. Abbassare il quorum per consentire alle forze di opposizione di chiedere il vaglio di costituzionalità per una legge. Prevedere una verifica della Consulta sulla futura legge elettorale dopo il disastro del Porcellum. Togliere dalla Costituzione il voto a data certa e evitare che il governo
possa porre la fiducia sulle leggi delega. In questo quadro spostare i cinque senatori di nomina presidenziale da un Senato delle autonomie alla Camera politica era una scelta di puro buon senso.
Vi hanno accusato di non aver rispettato un accordo.
Siamo stati leali e coerenti in ogni passaggio, anche chiedendo al governo di accantonare l’emendamento sui senatori di nomina presidenziale.
Perché invece alla fine avete ripreso a votare?
Non abbiamo cambiato idea né atteggiamento. Sono stato presente per verificare il miglioramento sul quorum per il Quirinale, e lo abbiamo ottenuto con i tre quinti dei votanti per il Capo dello Stato. Sul sindacato preventivo di costituzionalità della legge elettorale, che è una questione fondamentale, ho aspettato di conoscere la volontà del governo, e non c’è stata l’apertura che chiedevamo. C’è stata la modifica all’articolo 1 su alcune competenze del Senato. Ho preso atto con amarezza che i margini per delle correzioni al testo che maturassero nel libero confronto parlamentare erano molto ristretti.
In Assemblea che tipo di posizione assumerete?
Ascolteremo la relazione del segretario e diremo senza alcun timore ciò che pensiamo. Spero solo che da parte di chi dirige si abbandonino toni e parole che servono a eccitare gli animi ma non ad affrontare i problemi.
Vi aspettate insulti, minacce o punizioni?
Mi aspetto la relazione di un segretario e non di un capo corrente.
Magari si chiederà agli esponenti della minoranza di uscire dalla segreteria Pd?
Quando quella segreteria è nata si è detto che rifletteva una direzione plurale del partito. Chiedo io, è cambiato tutto in tre mesi o siamo ancora d’accordo che l’unità migliore è quella che nasce dal rispetto delle differenze?
Temete l'espulsione dal partito?
Espulsi perché? Sulla base di quale “colpa”? Cerchiamo di recuperare un minimo di serietà.
Civati ha ufficialmente annunciato la scissione. Per voi esiste come possibilità?
No, questo è il partito che abbiamo contribuito a creare ed è la nostra famiglia politica.
Graziano Delrio vi ha accusato di voler andare a votare: è vero?
Noi vogliamo solo fare delle buone riforme.
Ci vuole andare Renzi?
Lui lo nega e io voglio credere alle sue parole.
A chi vi accusa di logorare il governo che dite?
Che migliorare le riforme è il miglior contributo che si può dare al governo.
Bonifazi minaccia di mettere online le spese delle vecchie segreterie.
A parte che pensavo che i nostri bilanci fossero pubblici per definizione, ma rispondo che va benissimo. Anche se non capisco cosa c’entri col dibattito di questi giorni sulla riforma della Costituzione.
Siete disponibili a votare alla Camera l’Italicum con il Mattarellum come clausola di salvaguardia?
Già la domanda pare uno scioglilingua. Io dico questo: Renzi ha cambiato idea e lascia l’Italicum per il Mattarellum? Ok, ma facciamolo davvero e diamo al Paese una certezza almeno su questo terreno.
Come valuta la contestazione a D’Alema a Bari?
Come il segno di un malessere diffuso che individua la politica come il nemico. Capita a tutti noi e dobbiamo interrogarci a fondo su come contrastare quel sentimento.
wa.ma.

La Stampa 14.12.14
D’Attorre: “Disciplina di partito? Matteo è più rigido di Togliatti”
Il deputato dell’opposizione interna: clima soffocante Altro che agguati, cerca alibi per i problemi del governo
intervista di Francesca Schianchi


Alle otto di sera, il deputato della minoranza Pd Alfredo D’Attorre sta ancora votando la riforma del Senato in Commissione affari costituzionali alla Camera. Ancora per poco, però: «In nove abbiamo chiesto al capogruppo Fiano di essere sostituiti: appena arriveranno i sostituti lasceremo la Commissione».
Perché?
«Abbiamo preso atto dell’indisponibilità del governo a consentire modifiche su punti essenziali, come il sindacato preventivo di costituzionalità sulla legge elettorale, che dovrebbe invece unire il Pd».
Un gesto polemico?
«Un gesto di responsabilità, dopo la drammatizzazione del tutto impropria di tre giorni fa sui senatori nominati dal capo dello Stato, per evitare una spaccatura dentro al Pd dinanzi a un atteggiamento rigido e sbagliato del governo».
Non si può rimettere sempre tutto in discussione…
«Ma noi abbiamo accettato che il governo presentasse un progetto e abbiamo garantito il rispetto dei pilastri che ha individuato come fondamentali. Siamo andati oltre quello che è successo in passato nei processi di revisione costituzionale: persino il Pci togliattiano riconosceva ai parlamentari margini di autonomia di valutazione, sarebbe ben strano che il Pd renziano adottasse un concetto di disciplina più soffocante…».
Non è una questione di lealtà alle scelte della maggioranza?
«Da due settimane lavoriamo ininterrottamente in Commissione, abbiamo fatto centinaia di voti, ritirato emendamenti che potevano creare problemi, come si fa a definire il voto su un singolo punto, mai ritenuto centrale, come agguato? Non si può trasformare il voto su ogni emendamento come un voto di fiducia al governo. La sensazione è che Renzi talvolta giochi deliberatamente a drammatizzare lo scontro, alla ricerca di nemici più o meno immaginari, per costruirsi alibi rispetto alle difficoltà del governo».
Come vi comporterete in Aula?
«Come parlamentari che cercano di migliorare il provvedimento sui punti che non è stato possibile migliorare in Commissione».
Fino a che punto? Fino a votare contro la riforma?
«Assolutamente no. Per noi la riforma deve andare in porto».
Cosa direte oggi in Assemblea?
«Io rivendicherò la lealtà del nostro comportamento, e proverò a convincere Renzi che se il governo in materia costituzionale riconoscesse di più lo spazio del Parlamento, anche a scapito del patto del Nazareno, le riforme camminerebbero meglio e più spedite».
Pensa anche lei alla scissione, come ha evocato Civati?
«Sono radicalmente contrario: solo parlarne è un errore. Ho un’idea molto diversa da Civati, e come me Fassina, Cuperlo e tanti altri con cui ho parlato. I tanti lavoratori che incontriamo non ci chiedono di lasciare il Pd e chiudere la rappresentanza del mondo del lavoro in un cantuccio di sinistra dura e pura, ma di riconnettere il Pd al mondo del lavoro. La battaglia si fa dentro al partito».
Alle otto di sera, il deputato della minoranza Pd Alfredo D’Attorre sta ancora votando la riforma del Senato in Commissione affari costituzionali alla Camera. Ancora per poco, però: «In nove abbiamo chiesto al capogruppo Fiano di essere sostituiti: appena arriveranno i sostituti lasceremo la Commissione».
Perché?
«Abbiamo preso atto dell’indisponibilità del governo a consentire modifiche su punti essenziali, come il sindacato preventivo di costituzionalità sulla legge elettorale, che dovrebbe invece unire il Pd».
Un gesto polemico?
«Un gesto di responsabilità, dopo la drammatizzazione del tutto impropria di tre giorni fa sui senatori nominati dal capo dello Stato, per evitare una spaccatura dentro al Pd dinanzi a un atteggiamento rigido e sbagliato del governo».
Non si può rimettere sempre tutto in discussione…
«Ma noi abbiamo accettato che il governo presentasse un progetto e abbiamo garantito il rispetto dei pilastri che ha individuato come fondamentali. Siamo andati oltre quello che è successo in passato nei processi di revisione costituzionale: persino il Pci togliattiano riconosceva ai parlamentari margini di autonomia di valutazione, sarebbe ben strano che il Pd renziano adottasse un concetto di disciplina più soffocante…».
Non è una questione di lealtà alle scelte della maggioranza?
«Da due settimane lavoriamo ininterrottamente in Commissione, abbiamo fatto centinaia di voti, ritirato emendamenti che potevano creare problemi, come si fa a definire il voto su un singolo punto, mai ritenuto centrale, come agguato? Non si può trasformare il voto su ogni emendamento come un voto di fiducia al governo. La sensazione è che Renzi talvolta giochi deliberatamente a drammatizzare lo scontro, alla ricerca di nemici più o meno immaginari, per costruirsi alibi rispetto alle difficoltà del governo».
Come vi comporterete in Aula?
«Come parlamentari che cercano di migliorare il provvedimento sui punti che non è stato possibile migliorare in Commissione».
Fino a che punto? Fino a votare contro la riforma?
«Assolutamente no. Per noi la riforma deve andare in porto».
Cosa direte oggi in Assemblea?
«Io rivendicherò la lealtà del nostro comportamento, e proverò a convincere».

il Fatto 14.12.14
D’Alema: “Non vado da Renzi. Non mi faccio minacciare”
“Si annunciano punizioni, non ci sto. La contestazione di Bari? Infiltrati tra le bandiere rosse. Ma non mi tiro indietro. Faremo vedere al premier da che parte sta l’Italia. Nonostante i giornaloni”
intervista di di Carlo Tecce


Massimo D’Alema è in campagna, nei suoi poderi, il vino di questi tempi va travasato, non ancora bevuto. Ci vuole pazienza, con l’uva. Ma per Matteo Renzi non aspetta, non fa deroghe, il Líder Máximo. Oggi sarà assente al raduno democratico di Roma. “Non vado all’assemblea nazionale del partito, non voglio assistere alle minacce. Per come si preannuncia, sarà una resa dei conti interni, una serie di punizioni. Non è una sede adeguata per affrontare il merito dei problemi, come la crisi economica che ci travolge o i limiti delle riforme”.
D’Alema reagisce a Renzi, non desiste mai, poi sottolinea che vuole riposare, che deve guidare. Ancora fanno rumore quegli insulti raccolti venerdì, mentre attraversava la piazza di Bari. C’era lo sciopero generale, bandiere e pettorine rosse, e D’Alema s’era immerso nella folla per percorrere il breve tratto che collega il Municipio, dove ha incontrato il sindaco Antonio Decaro, e l’albergo che ospitava una manifestazione di ItalianiEuropei, la fondazione che presiede. L’ex segretario dei Giovani comunisti ha rovistato nella memoria, gli sovviene una più tragica e concitata trasferta a Bari, nel ‘77, per la morte di Benedetto Petrone, un ragazzo antifascista ammazzato da una banda di missini. Non fa paragoni. Non mischia la storia. E rifiuta di passare per il grande vecchio politico, il rottamato che non si rassegna, ferito da un “vaffanculo”. Da Bari a Bari, s’arriva a Renzi con i ragionamenti di D’Alema.
C’è stata da sinistra una reazione di rabbia a un simbolo di sinistra. Cosa ha provato?
Io non mi spavento, ma i fatti vanno illustrati per bene.
Li illustri.
Ho salutato Decaro e sono sceso in strada, non sapevo in che spezzone di corteo mi trovassi. Le assicuro che in tanti mi hanno stretto le mani, mi hanno incoraggiato e poi sono incappato in un gruppetto. C’era una rappresentanza Ugl, non possiamo dire che siano compagni.
La passeggiata tra i fischi la poteva evitare?
Una piccolissima contestazione non può essere confusa con il sentimento dei cittadini. A differenza di chi non riconosce i sindacati e non rispetta la piazza, io sono sempre presente, non mi tiro indietro. Non voglio aggiungere ulteriori commenti, però. È un episodio limitato e superato. Non mi interessa.
Sarà impegnato a scardinare il governo, pare che sia fautore di una manovra per proporre un esecutivo tecnico con a capo il ministro Pier Carlo Padoan.
Queste sono fesserie che vengono divulgate per creare confusione, per distogliere l’attenzione sulle questioni serie e reali, ma le garantisco che non hanno fondamento. E non mi preoccupano le strumentalizzazioni, ormai le cose che scrivono i giornali le ignoro. In Europa, si fidi, la stampa italiana ha una credibilità molto bassa.
Sostiene che Palazzo Chigi
la utilizzi come un alibi, uno spauracchio?
Il gioco non funziona, è banale. D’Alema non occupa scranni, non muove truppe in Parlamento, ma non rinuncia all’attività politica. Mai. I cittadini non sono ingenui, non si fanno ingannare, capiscono le inefficienze di questo governo, gli errori che ha compiuto. E io mi premuro soltanto di spiegare quel che posso spiegare.
Non sarà in platea durante il discorso di Renzi?
No, no, no. La saluto.
IN EFFETTI, un rumore di automobile in marcia si avverte al telefono. È pomeriggio, D’Alema, versione viticoltore, è un po’ vago sull’evento democratico di oggi. In serata, fa sapere al Fatto: “Non partecipo, non accetto le minacce o le sanzioni, come viene prefigurato in questi giorni”. La nota in calce è per Matteo Renzi, che vuole regolare l’opposizione interna. E pure per Graziano Delrio. Il sottosegretario che ha avvisato perentorio: “Se la minoranza vuole il voto, lo dica”. D’Alema s’era immolato in difesa dei parlamentari dissidenti, stavolta lascerà un posto vuoto. E non sarà una protesta meno evidente.

il Fatto 14.12.14
Fischi al compagno Massimo Cacciari
“Confesso, a Bari mi ha fatto pena”
di Paola Zanca


Scene così, anche lui che è stato sindaco (a Venezia) e più volte parlamentare, non le aveva mai viste. E per questo, a Massimo Cacciari, la passeggiata in mezzo ai fischi e alle bandiere rosse di Massimo D'Alema l'altroieri a Bari, ha fatto una certa “impressione”. E anche qualcosa di più.
Cacciari, cosa ha pensato guardando quel video?
Non nutro nessuna simpatia per D'Alema, non ci sopportiamo da quando avevamo i calzoncini corti. Ma quelle immagini, certo, mi hanno fatto impressione. Avrà anche diecimila peli sullo stomaco, ma per uno con la sua storia, quei fischi da parte del sindacato devono essere stati duri da digerire. Dico la verità, il compagno D'Alema mi ha fatto un po' pena.
Troppe colpe sulle sue spalle?
La situazione è drammatica. Le persone stanno sempre peggio e giustamente se la prendono con chi in questi anni ha gestito la baracca e ha ridotto il Paese in questo stato. La questione è delicatissima: non ci sono più punti di riferimento, né a destra né a sinistra né al centro. Nessuno ha più autorevolezza.
Quei fischi quindi non erano solo contro D'Alema?
Macché! Non è una questione personale. Non c'entra niente D'Alema. Poteva passare Bersani, Renzi, Alfano... è la rivolta contro una classe dirigente che non sa trovare soluzioni credibili ai problemi della gente. Anche voi giornali, smettetela di guardare al contingente: questa è una situazione che andrebbe studiata in termini di sistema, e invece noi continuiamo a stare qui a commentare fatti e fatterelli.
D'Alema ha preso i fischi, eppure è uno che critica Renzi un giorno sì e l'altro pure.
Nel Pd ci si avvia verso un divorzio lacrime e sangue. Lo dico da mesi, che era meglio procedere a una separazione consensuale: invece finirà a coltellate, ormai è inevitabile.
È preoccupato?
L'aria che tira è pericolosissima: la crisi peggiora e nessuno sa più a chi credere.
Che conseguenze immagina?
Finirà che verremo commissariati. Se non siamo in grado di cavarcela con le nostre forze, faremo la fine della Grecia. Se non la smettiamo di discutere per mesi di riforma del Senato, di legge elettorale e di altre cose che non cambiano una virgola della vita delle persone non ci sarà alternativa. Adesso ci mancava solo Napolitano...
Che c'entra?
A mio avviso è l'unico che ci ha fatto rimanere in piedi. Senza di lui la situazione può soltanto peggiorare.

il Fatto 14.12.14
Ai ferri corti
E Civati ripromette una scissione
di Giulia Zaccariello


Bologna Lancia ultimatum, traccia programmi, chiama a raccolta per nuove adesioni. Ma alla fine, ancora una volta, rimanda a data da destinarsi il passo della rottura definitiva. Così Giuseppe Civati detto Pippo, il deputato della minoranza Pd, l’eterno dissidente tormentato dai mal di pancia, prepara il terreno per una nuova realtà di sinistra. Senza però spingersi oltre la teoria.
IERI, CIVATI HA CONVOCATO i suoi a Bologna per una sorta di contro Leopolda in salsa emiliana. Un summit che ufficialmente serviva per presentare il “Patto non del Nazareno”, un progetto di governo alternativo, ma che nei fatti si è tradotto nell’occasione per lanciare l’aut aut a Matteo Renzi. E il dubbio amletico “scissione sì, scissione no” alla fine si è risolto in un “scissione forse”. “Io dal Pd non me ne vado con infamia da scissionista, ma c’è un limite e se si vota a marzo con il programma del Jobs act e delle cose che dice, io non mi candido con quella roba lì”, ha detto in serata, al termine del suo discorso conclusivo. In mattinata era stato anche più esplicito, alludendo alla possibilità di un nuovo partito che raccolga le anime scontente della sinistra. “Se nel programma elettorale non sono considerate le nostre ragioni, è più serio dire: andate avanti voi da un'altra parte, noi faremo qualcosa di diverso”. Non una scissione, “ma una presa d’atto di una differenza”.
Subito era partita la controffensiva dei renziani. In prima fila Ernesto Carbone, componente della segreteria nazionale del Pd: “Civati vive in un clima da congresso permanente. L’idea che o si fa come dice Civati o non vale, è offensiva verso i milioni di persone che alle primarie hanno deciso di non votarlo”. A rincarare la dose il senatore democratico, Andrea Marcucci: “Ci-vati non deve aver mai letto la favola al lupo al lupo: a forza di dire che esce dal Pd, la sua credibilità sarà simile a quella del pastorello descritto da Esopo”. Guanti di sfida, in effetti, Civati ne aveva già lanciati parecchi.
UNO PROPRIO DA BOLOGNA, dalla stesso location, il bar Le Scuderie, dove ieri ha riunito i suoi. Era febbraio, e allora tentennava in vista del voto di fiducia all’esecutivo di Renzi. E anche in quell’occasione agitò lo spettro di una scissione. Poi però non se ne fece più nulla. Ieri però l’ipotesi di uno strappo è sembrata farsi più concreta. “Guardate che non è una minaccia, ma è la risposta a quel perché da cui sono partito e dal quale finisco: vorrei battermi per qualcosa che trovo giusto. Non penso che queste ricette funzioneranno. Anzi, temo che comprometteranno il nostro dibattito e le cose che faremo per il Paese. Tra un po’ ci diranno con qualche ritardo che avremmo avuto ragione, ma a quel punto, non ci sarà più un centrosinistra, forse non ci sarà più neppure un Pd”.
Per Civati “lo spazio a sinistra del Pd è enorme”. Lo paragona a una piazza, a “una realtà che ha bisogno di rappresentanza”. Ad ascoltarlo una sala stracolma, con almeno 500 persone. Compresi i fedelissimi della sua area: l’europarlamentare Elly Schlein, i senatori Corradino Mineo, Sergio Lo Giudice e Walter Tocci. Ma seduti ci sono anche il coordinatore nazionale di Sel, Nicola Frantoianni, la sociologa Nadia Urbinati, il giuslavorista Luigi Mariucci, Vittorio e Silvia Prodi, rispettivamente il fratello e la nipote (e oggi anche consigliere regionale) dell’ex premier. Un nome, quello di Prodi - inteso come Romano -, che Civati ha citato più volte, toccando la questione Quirinale. “È il candidato ideale”, ha detto. Ma poi si è lasciato sfuggire altro: “Va bene anche un Prodi-equivalente, una figura che a livello internazionale possiamo spendere e che abbia anche un rapporto con la politica”.
Un’uscita, quest’ultima, che pare il Professore abbia apprezzato molto poco.

il Fatto 14.12.14
Vota Carminati
di Antonio Padellaro


Lo spirito del tempo è lo stupore di Massimo D’Alema inseguito per le strade della “sua” Bari da una pioggia di insulti nel tripudio di bandiere rosse di un corteo sindacale, persone che forse, qualche anno fa, lo avrebbero anche applaudito. Il fatto è che la controversa storia politica di D’Alema c’entra fino a un certo punto con l’esplosione di rabbia, perché con le stesse urla – “Basta rubare”, “Siete dei porci” – probabilmente sarebbe stato accolto qualsiasi personaggio politico minimamente riconoscibile in quanto facente parte dei “venduti” che “hanno affondato l’Italia”, mentre “noi ci facciamo un culo così per arrivare a fine mese”. È sempre accaduto quando le crisi diventano ingovernabili. A scuola ci raccontavano che a Vienna, durante i moti del 1848, il potente principe Von Metternich, ostile ai rivoltosi, per non finire linciato dalla folla fu costretto a scappare nascosto in un carretto della biancheria sporca. Più recentemente, ai tempi di Tangentopoli, il ministro craxiano De Michelis dovette darsi alla fuga per le calli veneziane mentre cittadini inferociti gli gridavano appresso “ònto”, unto, per via dei capelli troppo lunghi e pure per altre ragioni. Alla fine l’imperatore d’Austria fu costretto a concedere ai ribelli una Costituzione, così come i processi di Mani Pulite azzerarono la vecchia classe dirigente: insomma, una reazione ci fu e qualcosa accadde. Invece oggi l’ira montante della gente s’infrange sull’indifferenza di un potere che consuma se stesso e la nostra democrazia facendosi assoldare dai criminali del “mondo di mezzo”, oppure – come l’ineffabile Buzzi, boss della mitica coop rossonera 29 Giugno – augurando ai sodali un felice anno nuovo “pieno di monnezza, profughi, immigrati, sfollati, minori e magari con qualche bufera di neve: evviva la cooperazione sociale”. All’esondazione della cloaca massima, la ferma risposta delle istituzioni produce ulteriori norme sulla corruzione: “Pene più severe” come strombazza l’informazione unica, ma del tutto inefficaci, secondo il nostro Bruno Tinti, una volta inserite in una macchina processuale appositamente rallentata da mille intralci poiché “i politici che campano di reati o di sovvenzioni criminali non possono permettersi un sistema penale che blocchi il sistema che gli dà da vivere, anche nel senso stretto del termine”.
Molto più sincero l’appello straziante di Giorgio Napolitano che, giunto al passo d’addio, definisce “patologia eversiva” la cosiddetta “antipolitica” e non la corruzione che la genera. Tragica coerenza di un uomo che si è posto a sentinella del sistema da preservare a ogni costo, pur se internamente divorato da un termitaio, e che vede il pericolo supremo nella denuncia di “opinion maker lanciati senza scrupoli a cavalcare l’onda impetuosa e fangosa”. Come se i mali italiani fossero stati generati da un libro, La Casta di Stella e Rizzo, e in seguito dal Movimento Cinque Stelle, che ha raccolto sull’opposizione ai ladri quasi nove milioni di voti. Estremizzando, è un sistema che preferisce Carminati a Grillo e che, per la successione a Re Giorgio, auspica un altro defensor fidei come Giuliano Amato, candidato non a caso da Silvio Berlusconi. Un immobilismo che, se protratto dai giochi di Palazzo, finirà in un modo o nell’altro per essere travolto dalla furia popolare. Allora non ci saranno scorte che tengano per difendere certi politici dai propri elettori. “Dunque siamo proprio morti?”, chiese prima della fuga Melanie, la moglie di Von Metternich. E lui: “Sì, mia cara, siamo morti”.

il Fatto 14.12.14
Carminati non basta
Chi dirige Mafia Capitale?
di Furio Colombo


Primo, non esiste il futuro. Non c’è niente che verrà e niente da aspettare. C’è gente che ha capito che o si vive adesso (e si comanda adesso, si esercita la forza o il privilegio o l’arbitrio, adesso) o non ci sarà un secondo tempo. Adesso vuol dire qui, subito, con ogni mezzo, dall’espediente truffaldino al delitto.
Secondo. Il mondo è cambiato. È cambiata la politica. La politica è un lavoro triste, ben pagato, guidato a strappi (cambiamenti improvvisi) da altri poteri, che a volte neppure conosci (meglio dire: neppure immagini), sottoposto a due tipi di umiliazioni: dentro la politica, perché non sai in nome di quale autorevolezza, strategia o ragione qualcuno ti dà ordini perentori, contraddicendo la Costituzione che ti vorrebbe “libero da mandato”. E fuori dalla politica perché ti raggiungono richieste non negoziabili (e vistate dal partito di appartenenza) di cui forse vedi e forse non vedi (o non vuoi vedere) il rischio illegale, dato che è implicitamente previsto un premio, che è prima di tutto l’accettazione nel gruppo “giusto”, quello nel quale si scelgono le “persone giuste”. Se non rispondi, hai chiuso, non conti niente. E raggiungi subito un limbo nel quale siedono molti politici per molti anni, dimenticati. Non ha nulla a che fare con il famoso e mitico “gruppo misto” dove vanno sia gli onesti incerti, sia coloro che si muovono verso il mercato. Quel limbo significa che non cerchi, non vieni cercato, non stringi mai le mani sbagliate, ma neppure le mani giuste. Sei fuori, e basterà aspettare la fine del mandato. Ti resta, come Pollicino nel bosco, la possibilità di lasciare sul sentiero qualche clamoroso voto contrario a qualche accordo esageratamente indecente (vedi Trattato di eterna amicizia con la Libia che contiene molto danaro, molti impegni costosi e non chiari, e viene votato dal Parlamento italiano con una mai spiegata unanimità). Ma lo fai solo per lasciare almeno una traccia.
Però è bene ricordare che le peggiori decisioni parlamentari e le più legate a ordini ricevuti da un ignoto “fuori” dalla politica, e diretti a disciplinati parlamentari, sono nascoste dentro emendamenti e commi di leggi del tutto incomprensibili, e commentate e discusse, e magari lodate, anche da esperti perbene.
TERZO. Dunque il marcio può essere nella politica, che però non è il potere (qualunque cosa sia e comunque lo si voglia descrivere o teorizzare). La verifica è semplice. Cominciamo dal livello locale. I sindaci sono ostaggi che camminano per tutto il tempo su un asse di equilibrio da cui possono cadere per errore umano (come tenere aperte le scuole il giorno dell'alluvione) o per complotto politico. Nove volte su dieci il complotto non è politico (come lo sarebbe uno scontro fra visioni politiche di personaggi forti e incompatibili). È una vendetta per impegno preso (o imposto) e non mantenuto. O perché qualcuno, altrove, ha cambiato idea. I presidenti di Regione vivono una brutta vita dello stesso tipo. È vero che cominciano male. Invece di presentarsi con un programma semplice e condiviso fondato sugli interessi dei cittadini, sono molto presto impegnati in progetti sconosciuti e incomprensibili che a volte hanno l’apparenza del grande balzo in avanti (le metropolitane, le tangenziali, le “grandi opere”), più spesso di fatti misteriosi, parti di più vasti progetti misteriosi.
Per fare un esempio: la chiusura improvvisa (un mese di preavviso) dell’antico e vasto ospedale San Giacomo, unico e attivissimo ente ospedaliero nel centro storico di Roma, cancellato di colpo dopo lunga, accurata e costosissima modernizzazione degli impianti, senza una spiegazione, da un presidente che poi è stato vittima di un violento bullismo, allo stesso tempo istituzionale e illegale, forse con mandanti autorevoli, mai spiegato. Ordini non eseguiti? Uno sgarro? È la vita della Regione.
Quarto. Poi si arriva al potere esecutivo. Una buona tesi di laurea per una buona facoltà di Scienze politiche in Italia, oggi, potrebbe essere: come si diventa ministro? Avete davvero l’impressione che tutto avvenga all’ultimo momento e per caso e che quella brava persona, esperta in quel campo, sia stata scelta proprio ieri notte dopo lunga riflessione e buoni consigli ricevuti da saggi amici del premier? Mi direte che il più delle volte, la brava persona di cui sto parlando non solo non è esperta nel campo, ma ha avuto anche delle frequentazioni non esemplari. Resta l’impressione che vi siano percorsi e ragioni che non conosciamo e che connettano alcuni al potere.
VOLENDO, una tesi di dottorato più ambiziosa e intellettualmente rischiosa potrebbe essere: come si diventa presidente del Consiglio, quando l’evento non è il risultato delle elezioni? C’è un comitato? Ci sono regole? Ci sono divieti? Quinto. Tutti abbiamo notato che la politica non è mai l’investigatore e il giudice della politica. Per esempio, è stato il Senato americano a denunciare e documentare il gravissimo caso delle torture. Il Senato accusa la Cia, ma implicitamente accusa se stesso e l'intero Congresso, che ha efficientissime Commissioni di vigilanza sui servizi segreti del Paese. In Italia arriva il giudice, solo il giudice. Questa volta lo vediamo affacciato su un cumulo di detriti criminali molto più vasto delle pure notevoli esperienze passate. Però anche il giudice sembra bloccato dalla domanda: “Ma questi, di destra e di sinistra, del Mondo di Mezzo, che ovviamente usano la politica e su di essa spadroneggiano, hanno davvero il potere immenso che sembrano avere? Davvero il Cecato comanda Roma? Sennò, chi li manda?”.

Repubblica 14.12.14
Il vecchio volto di Mafia Capitale
di Roberto Saviano


IN QUESTI giorni, dopo l’inchiesta “Mafia Capitale”, sono diventati tutti conoscitori di mafia. Non ho mai temuto i professionisti dell’antimafia, ma i dilettanti sì e ho sentito affermazioni talmente assurde che mi viene da pensare che chi le ha pronunciate non solo non conosce il fenomeno criminale, ma non conosce forse nemmeno il Paese. D’improvviso sembra stupirsi che le organizzazioni mafiose agiscano con alleanze imprenditoriali e politiche. Ma in quale Paese ha vissuto sino ad ora? Non solo Mafia Capitale ma anche la più recente inchiesta “Quarto Passo” in Umbria mostra come le organizzazioni siano in tempo di crisi la nuova e unica linea di credito all’impresa italiana. Chi sottovaluta il problema non riesce a capire quello che sta accadendo nel Paese, e allora decide che è meglio prendere in giro e sottovalutare. Il Pd sembra accorgersi solo ora del meccanismo di corruzione di cui molti suoi uomini erano protagonisti da molto tempo. Agisce costretto dalle inchieste giudiziarie quando avrebbe dovuto al contrario ispirare le inchieste.
BEPPE Grillo ha detto, a proposito di Mafia Capitale: «La parola mafia ci depista. Ci ricorda qualcosa che non c’è più. Oggi un’associazione mafiosa è fatta da professionisti, politici, magistrati, poliziotti; il mafioso non c’è neanche». Sono anni che si lotta per ribadire culturalmente che mafia significa invece proprio questo: impresa, borghesia imprenditoriale, rapporti con i media. Mi domando: ma secondo Grillo cosa sono state le organizzazioni criminali italiane sino a questo momento? Dei cafoni armati di fucile? Quindi secondo l’interpretazione di alcuni adesso, e solo adesso, la mafia sarebbe «diventata tridimensionale perché ci sono dentro politici, imprenditori, massoni, spacciatori», e perché ha smesso di parlare calabrese, napoletano, lucano, casertano, siciliano? Queste sono semplificazioni inaccettabili.
Ciò che mi viene da dire a chi condivide queste tesi è: ma sapete che le cose sono sempre andate così? Quando si riduce tutto al contadino dalla parlata incomprensibile, del cafone con il kalashnikov, si sta facendo il gioco delle mafie più o meno consapevolmente. Il boss che sappia uccidere e allo stesso tempo gestire il segmento economico dell’organizzazione è la base di una struttura vincente.
Mafia Capitale è in realtà il primo e compiuto tentativo di dimostrare, da parte dei pm, che il modello delle mafie storiche è stato mutuato su Roma. La novità scientifica di questa indagine non è limitata alla sola corruzione: ma dimostra come il meccanismo mafioso e l’operatività delle cosche si sia imposta nella vita della Capitale. Per questa ragione il legame tra Carminati e le organizzazioni non è episodico e momentaneo. Riuscite davvero a immaginare Pasquale Condello o Michele Zagaria che parlano con il sindaco di Sacrofano in merito al catering per la chiusura della campagna elettorale e si fanno commissionare una grigliata? È inimmaginabile che un capo mafia del Sud si occupi di grigliate. Ma attenzione: i clan si occupano di ogni singolo affare dal più piccolo al più grande. I Mazzarella di Napoli hanno raccolto estorsioni “straccione” persino dai lavavetri eppure investivano nei duty free in diversi aeroporti mondiali. Provenzano stesso con i suoi pizzini interviene sulle strade interpoderali da affidare a imprese amiche. Il ruolo mafioso di Carminati è un ruolo diverso rispetto a quello dei boss storici delle mafie tradizionali: è però l’anello che congiunge le mafie storiche e Roma: un multiservice con un certo grado di autonomia.
Da Reggio Calabria a Palermo le organizzazioni criminali sono in guerra aperta tra loro e sanno come essere parte dello Stato con strategie differenti. Carminati e Buzzi sono diversi: hanno usato telefonini, hanno avuto incontri contrassegnati dall’imprudenza tipica di chi si sente tutto sommato fuori pericolo, di chi sente che l’attenzione è altrove, perché è convinto che gli altri pensino che la mafia sia un’altra cosa, e che questo pensiero li proteggerà. Chi parla di nuova mafia tridimensionale a Roma sembra aver rimosso l’influenza di Cosa Nostra sulla politica romana raccontata da Buscetta e della camorra raccontata da Galasso e parliamo di dati accertati da decenni, è storia condivisa insomma. Ci si dimentica del braccio destro di Cutolo, Vincenzo Casillo ‘o Nirone munito di tesserino dei servizi, ucciso nell’83 a Roma proprio fuori la sede del Sismi in Via Clemente VII e l’elenco di connivenze sarebbe infinito.
Le mafie sono organizzazioni che da sempre hanno più sponde in politica, ed è esattamente ciò che differenzia il reato stesso di associazione mafiosa dalla semplice associazione criminale. Se oggi si afferma che esiste un nuovo percorso, significa che non si è data abbastanza attenzione alla dinamica mafiosa fino a questo momento. Significa non aver mai ascoltato chi da anni denuncia la presenza della mafia al Nord, la presenza della mafia a Roma. Ci hanno considerati matti, esagerati, sbruffoni, speculatori, diffamatori eppure la verità è solo questa: il tema mafia fuori dai luoghi in cui si ritiene che le mafie nascano, ovvero il tema mafia fuori dalla Campania, dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Puglia è sempre stato sottovalutato, marginalizzato, mai approfondito, trattato solo nelle aule dei tribunali, solo in superficie. Il primo ministro Renzi delega ai probiviri come se fosse una questione personale e di uomini. Eppure il sistema fiscale e la burocrazia sono i grandi alleati delle organizzazioni criminali, il loro strumento d’accesso per divorare le imprese sane ancora rimaste in piedi.
È ovviamente già partita da soliti siti di retroscena e parte della stampa berlusconiana la sottovalutazione del problema per far credere che sia tutto un giro di poveracci e rubapolli. Non ce ne stupiamo. Il motivo è semplice: sono complici spesso della stessa cultura che ispira questi mondi criminali romani pensando che mafioso sia solo lo sfregio di Al Capone o l’occhio pigro di Lucky Luciano. Iperbole e sfottò sono uguali modalità per non comprendere. Ora l’inchiesta dimostra che le grandi organizzazioni criminali storiche sono su Roma da sempre e che Carminati e Buzzi sono solo una rubrica dei loro affari. Ciò che è cambiato non è la mafia, non è la sua tridimensionalità, non è il coinvolgimento di politici, imprenditori o massoni deviati ma il fatto che ora la presenza a Roma è diventata innegabile.
La mafia non si esporta, ma come ogni modello vincente si diffonde in nome della sua capacità di successo e di intimidazione. Il fenomeno va contrastato, ma prima va capito. Il Paese si è accorto che le mafie si sostituiscono alle banche quando non sono (ma su questo c’è da lavorarci molto) direttamente partner delle banche italiane? Il governo deve affrontare il problema dal lato della sua rilevanza economica. O si interrompe questo meccanismo, o in Italia l’economia più forte, quella vincente, quella che verrà imitata e che diffonderà i propri modelli, continuerà a essere l’economia mafiosa.

il Fatto 14.12.14
Conversioni
Marino, il marziano ora piace anche ai rossi
di Luca De Carolis


Il marziano ormai piace pure ai “rossi”. E quindi non lascia, raddoppia: “Sciogliere il Comune per mafia getterebbe nel fango tante persone perbene. E poi se certe cose non le sapeva il prefetto come facevo a saperle io? ”. Applausi, tanti. In un sabato mattina romano, Ignazio Marino sale sul palco del teatro Ambra Jovinelli, proscenio che fu sacro a Ettore Petrolini, come ospite d’onore di Cambiamo tutto, dibattito organizzato da Sel per ribadire (e promettere) che nella Capitale bisogna ripartire da zero dopo il diluvio. Ma soprattutto per giurare imperitura fedeltà al sindaco, per il quale, prima, la sinistra vendoliana mica stravedeva. “Andava un po’ meglio che con il Pd” rievoca un dirigente vicino a Marino. Poi però è stata “Mafia Capitale”, più o meno la fine del mondo (di mezzo e non). Così adesso a sinistra e dintorni è tutto un viva Marino, argine asciutto a cui aggrapparsi nella tempesta. Innanzitutto per i democratici, che pure il sindaco sta estromettendo dalla giunta un po’ per forza e molto per volontà. Al posto del dimissionario assessore alla Casa, Daniele Ozzimo, indagato, potrebbe arrivare un fedelissimo dell’ex chirurgo, Roberto Tricarico, già assessore alle Politiche abitative con Chiamparino a Torino. E la contestatissima Rita Cutini non dovrebbe più spostarsi dalle Politiche sociali.
È SEMPRE più autarchico Marino, a cui fino all’altroieri rimproveravano il folto cerchio magico. Ma questa volta il Pd non fiaterà, come già chiarito dal commissario Orfini (“la giunta la decide il sindaco”). E non dirà una parola neppure Sel. Per ratificarlo di persona all’Ambra Jovinelli si palesa Nichi Vendo-la. Assieme a lui sul palco il giudice-scrittore
Giancarlo De Cataldo e Francesco Forgione, ex presidente della commissione Antimafia. Coordina Lucia Annunziata. Marino arriva dopo le 11. Niente bici, nonostante la giornata di sole. Maglioncino blu, è palesemente di buon umore. Militanti e cittadini lo accolgono con calore. Lui si siede e si mette subito a compulsare una pila di fogli. L’Annunziata lo chiama alla tenzone: “La stimo, ma a mio avviso lei si dovrebbe dimettere”. Marino risponde volentieri: “Questa amministrazione sta cambiando la città. Abbiamo chiuso in 50 giorni la discarica di Malagrotta, la più grande del mondo, e abbiamo cancellato 167 concessioni edilizie nell’Agro romano. Abbiamo creato una centrale unica degli acquisti”. A ogni rivendicazione, mani che battono forte. Marino sale di tono: “Nelle 70 mila pagine delle intercettazioni si legge: ‘Se avete le palle dovete farlo cadere sulla Panda rossa’. Io sono la discontinuità, devo andare avanti. Gli affari per quella gente sono finiti”. Ma su Salvatore Buzzi e sodali mai sentito neanche un sospiro? “Siamo in una città in cui un prefetto riceve nel suo studio una persona che ora è agli arresti per il 416 bis e parla nel suo studio di progetti relativi alle cooperative (Buzzi, ndr). È chiaro che nessuno di noi pensa che lo fa sapendo che quella persona è indagata per mafia”. Ergo, “se non lo sapeva il prefetto che ha disposizione le forze dell’ordine, come faceva a saperlo il sindaco? ”. Chissà cosa penserà di queste parole il prefetto Pecoraro. Nell’attesa, Vendola: “Voglio bene e difendo questo marziano di Marino perché ha il coraggio di metterci la faccia, prima di lui per 5 anni ha governato una banda di gangster. Ignazio, fai volare Roma”. Ovazione. Marino esce: a spalle larghe.

Corriere 14.12.14
All’origine dell’antipolitica
di Ernesto Galli della Loggia


Si levano anche nelle sedi più autorevoli del Paese le condanne dell’antipolitica: termine con cui bisogna intendere la critica aprioristica — e proprio per questo distruttiva, eversiva — oltre che del sistema politico in quanto tale, anche dell’intera vita pubblica, vista come interamente e irrimediabilmente inquinata.
Ho scritto aprioristica in corsivo perché evidentemente sta tutto lì il problema. Infatti, se la critica di cui sopra non appare affatto aprioristica ma ha una qualche giustificazione nei fatti, se essa è condivisa da più o meno larghe parti dell’opinione pubblica, allora è difficile in un regime democratico negarle il diritto di cittadinanza. Si potrà beninteso fare questione di toni, di stile, di capacità minore o maggiore da parte dei critici di proporre alternative credibili o accettabili, ma la sua natura eversiva, cioè antidemocratica, non sembra facilmente sostenibile. In una democrazia, infatti, non basta che i nostri avversari si comportino in modo volutamente oltraggioso e usino un linguaggio sommario e violento per farne dei candidati alla messa fuori legge. E d’altra parte non ci si può nascondere che è comunque difficile rispondere alla domanda chiave: in base a quale criterio, al di là di una soglia ovvia, si decide quando una critica è aprioristica e quando non lo è? Non si tratta in sostanza di un giudizio sempre politico, e dunque dipendente alla fine solo dalle nostre personali opinioni?
In realtà, se da vent’anni l’assetto politico italiano non trova pace, sentendosi periodicamente insidiato dall’antipolitica, dal populismo, dal giustizialismo — con i vari schieramenti politici che di volta in volta incarnano uno dei tre — una ragione di fondo c’è. Ed è che tutte e tre quelle patologie sono nel Dna stesso della Seconda Repubblica: costituiscono una sorta di suo peccato originale. Tra il 1992 e il 1994 — non bisogna mai dimenticarlo — la Seconda Repubblica è nata infatti fuori e contro la politica. Violando in molti modi l’insieme di regole e di prassi che fino allora la democrazia italiana aveva più o meno sempre rispettato, e al tempo stesso, però, non essendo capace di darsi regole davvero nuove. Proprio per questo essa è restata in certo senso prigioniera delle modalità della sua nascita: condannata a ripercorrerle periodicamente. Dunque a doversela vedere periodicamente con l’antipolitica, con il populismo, con il giustizialismo.
Ci sono fatti di quella lontana origine degli anni 90 di cui ci siamo dimenticati con troppa facilità. Ma che invece pesano come macigni, e ci ricordano da dove veniamo.
Era il 2 settembre 1992, per esempio, quando il deputato socialista Sergio Moroni, destinatario di due avvisi di garanzia nel quadro delle inchieste di Mani Pulite, si uccise nella sua casa di Brescia lasciando una lettera che oggi è difficile rileggere senza sentirne lo straordinario valore di premonizione. In essa Moroni, dopo aver rivendicato di non «aver mai personalmente approfittato di una lira», invocava «la necessità di distinguere ancor prima sul piano morale che su quello legale», dolendosi di essere «accomunato nella definizione di ladro oggi così diffusa». Terminava denunciando «un clima da pogrom nei confronti della classe politica», clima caratterizzato da «un processo sommario e violento». Ma le sue parole caddero nel vuoto. Benché dirette alla Presidenza della Camera, allora tenuta da Giorgio Napolitano, non furono ritenute degne della benché minima discussione parlamentare.
Ancora un altro ricordo. Era il 5 marzo 1993, nel pieno di Tangentopoli, quando in risposta all’annuncio di un decreto del Guardasigilli del governo Amato, Giovanni Conso, in cui si stabiliva la depenalizzazione (con valore anche retroattivo) del finanziamento illecito ai partiti, accadde un fatto probabilmente mai avvenuto prima in alcun regime costituzionale fondato sulla divisione dei poteri. I magistrati del pool di Mani Pulite si presentarono al gran completo davanti alle telecamere del telegiornale delle 20, incitando con parole di fuoco i cittadini alla protesta contro il decreto legge emanato da quello che a tutti gli effetti era il governo legale del Paese. Decreto legge che a quel punto — caso anche questo fino ad allora unico nella storia della Repubblica — il capo dello Stato Scalfaro, impressionato dalla rivolta, si rifiutò di firmare. E naturalmente nessuno ebbe qualcosa da ridire.
Mi chiedo: è possibile non riconoscere in questi episodi e in tanti altri che accaddero allora alcuni elementi caratterizzanti di quella che è stata poi la vicenda italiana? Non appare forse della medesima natura di quella che oggi siamo portati ad attribuire all’antipolitica — se non addirittura identica — la tendenza all’esasperazione verbale, alla generalizzazione indiscriminata nei confronti dell’avversario, alla sollecitazione spregiudicata delle reazioni più elementari dell’opinione pubblica? Non appare più o meno la medesima pure la timidezza imbarazzata, talvolta impaurita, del potere? E non suona forse sempre eguale anche il richiamo alla volontà della «gente» o del «popolo» che sia — che allora era quello «dei fax», poi è stato quello degli «indignati», e oggi è quello della «Rete»? Da queste parti, come si vede, anche il populismo ha una storia lunga e molto varia: allo stesso modo, peraltro, dei suoi fratelli gemelli, il giustizialismo e l’antipolitica.
La classe dirigente che si ritrova ad essere oggi alla testa della Seconda Repubblica non dovrebbe scordarselo. È proprio in quei terreni che oggi essa disdegna che affondano, infatti, le radici profonde della sua stessa legittimazione.

Repubblica 14.12.14
Quirinale, Italicum e guerra nel Pd
Renzi ora deve scoprire le carte
di Stefano Folli

POCHI credono che l’assemblea di oggi risolverà qualche problema all’interno del Partito Democratico. Le divisioni interne ci sono e continueranno a esistere anche domani. Del resto, nonostante Civati che si è preso i titoli della vigilia, la prospettiva non è una scissione in grande stile, ma un calcolo di convenienza la cui posta in gioco è Renzi: la sua leadership, la sua filosofia politica. La possibilità di condizionarlo quando si sceglierà il prossimo presidente della Repubblica.
Non sarà quindi una rituale occasione di partito, con la passerella degli oratori dai tempi contingentati, a ratificare la frattura. Non siamo a Livorno nel ‘21 e Civati non è Bordiga, così come senza dubbio Renzi non è Turati. Più che nel fuoco di un grande scontro ideologico, il Pd si consuma in un gioco tattico abbastanza estenuante, dove contano di più i successi o i passi falsi in Parlamento dei discorsi nelle assemblee interne.
Questo non significa che la riunione odierna sia poco significativa. Al contrario, è un passaggio carico di tensione e in effetti Civati ha buttato altra benzina nel camino acceso. Ma un punto è chiaro: oggi all’orizzonte non c’è una scissione, quanto meno non una scissione in tempi brevi. Non è il luogo né il momento. Prima vengono altri nodi assai insidiosi per il presidente del Consiglio: la fronda sulla legge elettorale, sulla riforma del Senato e soprattutto sull’elezione del capo dello Stato. La minoranza non dispone di numeri notevoli, però è in grado di mettersi di traverso, facendo saltare qualsiasi strategia renziana. E poiché l’accordo del premier con Berlusconi non è di ferro, come tutti hanno ormai compreso, il risultato è che si naviga al buio in un mare pieno di scogli.
Acosa può servire allora l’assemblea di Villa Borghese? Forse a rispondere all’interrogativo che da tempo aleggia sulla Roma politica: Renzi intende umiliare la minoranza interna fino alle estreme conseguenze o al contrario è pronto a sancire un compromesso? Ben sapendo che tale compromesso, per essere credibile, non può essere una semplice tregua, ma deve comportare un’intesa sul nome del capo dello Stato e sulla riforma elettorale (in questo ordine). Finora il premier ha evitato di prendere posizione in merito. Ma il tempo passa e ci si avvicina alle scadenze decisive. Al netto delle feste di fine anno, manca circa un mese al momento in cui il Parlamento si riunirà in seduta comune, quindici giorni dopo le formali dimissioni di Napolitano.
Forse converrebbe a Renzi diradare la nebbia che avvolge le sue intenzioni. Un punto a suo vantaggio è che la minoranza è suddivisa in almeno tre segmenti. Ci sono gli irriducibili come Civati, appunto, e Fassina, testimoni di una linea dura e massimalista che può persino far comodo al premier. Poi c’è D’Alema che mette sul piatto il peso di una storia, ma il cui presente è segnato da una relativa debolezza. E infine viene Bersani, in fondo il più dialogante e al tempo stesso il più rappresentativo: Renzi fino ad ora ha esitato ad assumerlo come interlocutore, rinunciando quindi a dividere il fronte avversario più di quanto già non sia.
Potrebbe tuttavia essere giunto il momento di mettere le carte in tavola, in modo che sia chiaro cosa si vuole a Palazzo Chigi. Se il premier si sente in grado di far passare il suo candidato al Quirinale senza una vera trattativa interna, imponendolo quindi alla minoranza, allora ci si può aspettare oggi un discorso perentorio e al limite sprezzante, di quelli a cui Renzi ha abituato i giornali e i Tg. Se invece questa certezza non c’è (e oggi un certo pessimismo è d’obbligo), allora il presidente del Consiglio potrebbe cogliere l’occasione dell’assemblea per trasmettere qualche segnale di disponibilità. Probabilmente troverà qualcuno all’ascolto.

Repubblica 14.12.14
La partita dell’Italia si gioca interamente in Europa
di Eugenio Scalfari


IL PRESIDENTE della Bundesbank, Jens Weidmann, ha rilasciato una lunga intervista al nostro giornale nella quale espone la sua politica confrontandola con quella di Mario Draghi e con la politica dell’Unione europea.
Sui suoi rapporti con la Bce, di cui la Bundesbank fa parte, non dice nulla di nuovo: con Draghi spesso si telefonano quasi quotidianamente, su molte cose concordano e spesso lavorano in piena intesa su altre c’è un duraturo dissenso che non impedisce una reciproca e amichevole lealtà di comportamento.
La visione che Weidmann ha dell’Europa mette invece in luce alcuni aspetti che non conoscevamo, il più importante dei quali è la propensione di Weidmann verso un’Europa politicamente ed economicamente unita, con una politica economica e fiscale gestita da Bruxelles, un debito sovrano unico e numerose cessioni di sovranità da parte degli Stati nazionali. Se questo fosse avvenuto non ci sarebbero le attuali diseguaglianze tra i Paesi membri dell’Eurozona e le tensioni che ne sono la conseguenza. A proposito della Germania Weidmann è consapevole della sua attuale debolezza economica e demografica ma ritiene che la situazione migliorerà entro un paio di anni e ne fa uno dei suoi obiettivi principali.
Infine le regole che governano l’Unione europea. Il loro obiettivo è quello di ottenere un risanamento dei bilanci nazionali e la loro stabilità. Non sarebbero necessarie quelle regole se l’Europa fosse uno Stato federale, ma poiché non lo è e non lo sarà, le regole e la restrizione che esse comportano non possono essere violate.
LA FLESSIBILITÀ tanto richiesta dall’Italia e dai Paesi economicamente più deboli è inaccettabile e va respinta. Questo è il pensiero della Bundesbank e del suo presidente che emerge dall’intervista che stiamo esaminando.
Che cosa ne pensa Draghi? Non ritiene scorretto che il governatore d’una Banca centrale nazionale esprima pubblicamente il proprio pensiero e i suoi dissensi dalla Bce di cui fa parte?
No, non lo ritiene scorretto e non ci vede nulla di nuovo. Che la Bundesbank sia contraria su alcuni punti decisivi della sua politica e in particolare alla possibilità del “quantitative easing” non è una sorpresa. D’altra parte il “qe” non è ancora stato deciso e neppure le forme della sua eventuale applicazione. Si deciderà entro il prossimo gennaio se sarà adottato e con quali regole; tra di esse una delle più importanti riguarda le modalità esecutive: se la scelta dei Paesi ai quali sarà applicato il “qe” spetterà alla Bce oppure se sarà esteso a tutta l’Eurozona in proporzione al Pil di ciascuno dei diciotto Paesi che la compongono. *** Abbiamo cominciato da questa intervista perché, insieme a quanto detto da Draghi, traccia un panorama della massima importanza per il nostro governo. È infatti pacifico che per Renzi la vera partita ormai non si gioca in Italia ma in Europa e lì si deciderà entro poche settimane. L’azione politica del governo Renzi in Italia ne sarà fortemente condizionata. Se a Bruxelles dovesse fallire, la crisi italiana gli sfuggirebbe di mano e non gli resterebbe altra via che quella elettorale, sempre che il futuro inquilino del Quirinale glielo consenta. Renzi insomma rischia d’essere rottamato a Bruxelles e quindi anche a Roma.
Ebbene, le prospettive della partita europea non sono affatto favorevoli per il nostro governo e lo si vede dal mutamento di Juncker, di Moscovici e del vice di Juncker preposto ai rapporti con i paesi in maggiore sofferenza economica Jyrki Katainen.
La flessibilità chiesta dall’Italia sarà ridotta al minimo, l’autorizzazione alla politica keneysiana del “deficit spending” sarà negata al rischio di immediati processi di infrazione. L’aumento del debito pubblico non sarà sopportato e l’arrivo della Troika da possibile sta diventando probabile.
*** Questo per quanto riguarda l’economia. Nel frattempo sono però avvenuti negli ultimi giorni alcuni fatti che mettono a repentaglio il governo. Due in particolare: lo sciopero generale della Cgil-Uil, l’emergere sempre più evidente delle minoranze di sinistra interne al Pd.
Lo sciopero è pienamente riuscito con oltre il 60 per cento di lavoratori che hanno rinunciato ad un giorno di paga (importante coi tempi che corrono) pur di manifestare per la loro esistenza e dignità.
Susanna Camusso, che ha parlato a Torino di fronte ad una piazza gremita, ha messo in chiaro che lo sciopero, come tutti gli scioperi generali, ha come obiettivo il governo, per opporsi a Renzi e alla sua politica economica e sociale.
Il “Jobs Act” non conta nulla (Camusso e Barbagallo), non crea alcun posto di lavoro, cancella l’articolo 18, dà mano libera ai “padroni” di licenziare. Ma al di là del solo Renzi l’intera politica sociale del governo si fonda su una generale “deregulation” contrattuale che priva d’ogni forza le organizzazioni rappresentative dei lavoratori. Queste politiche piacciono molto alla Confindustria ed anche a Bruxelles, favoriscono la privatizzazione delle aziende pubbliche e la loro vendita a investitori stranieri che adottano immediatamente politiche aziendali basate sull’esubero di lavoratori.
Del resto la politica degli esuberi è una costante essenziale della politica del governo. I tagli effettuati e quelli che verranno per ricavare risorse produrranno inevitabilmente altri esuberi. Il risultato finale sarà esattamente l’opposto di quanto tutti vorrebbero e che lo stesso governo proclama come obiettivo numero uno: non già aumento ma diminuzione dei posti di lavoro. Per ottenere le risorse necessarie bisognerebbe cambiare la distribuzione delle imposte sulle varie categorie sociali e far diminuire le diseguaglianze: questa dovrebbe essere la politica fiscale del governo.
Gli obiettivi della Camusso sono quelli qui esposti, condivisi interamente dalla minoranza di sinistra del Pd. Lo scontro decisivo interno al partito avverrà nell’Assemblea di oggi e sarà molto duro, con probabili ripercussioni addirittura nella scelta del futuro presidente della Repubblica. *** Ma c’è un tema che ha poco da vedere con quelli fin qui trattati anche se le sue ripercussioni economiche sono tutt’altro che irrilevanti: la corruzione, le mafie, l’immoralità così universalmente diffusa, che inquina gran parte della classe dirigente ma è purtroppo presente anche capillarmente nei ceti sociali medio-bassi.
C’è in tutti i Paesi la corruzione e il suo rapporto con la politica e con le istituzioni, ma in Italia è più diffusa e meno punita.
Il tema chiama in causa la morale, le leggi che dovrebbero presidiarla, il costume che dovrebbe respingerla. Ho detto prima che la corruzione è diffusa ovunque e non solo in Italia, ma in alcuni Paesi che si distinguono dagli altri proprio per questo aspetto, il costume è diverso, la capillarità è minore, l’auto-punizione è più frequente attraverso auto-denunce, dimissioni dalle cariche ricoperte, auto-rottamazione, se vogliamo usare una parola di moda.
Lo scandalo di Roma, che coinvolge oltre al Comune anche Provincia e Regione, ha posto il governo di fronte all’urgente necessità di emanare leggi appropriate e lo sta facendo, con ritardo, perché il fenomeno esiste da sempre e nessun governo l’ha mai seriamente affrontato. I governi di destra (Berlusconi) l’hanno addirittura incoraggiato con leggi fatte su misura; quelli di sinistra l’hanno tollerato (mancate leggi sul conflitto di interessi, sulla prescrizione, sul riciclaggio di capitali).
Oggi finalmente il governo sta preparando e varando leggi sulla prescrizione e sulla corruzione. Quest’ultima, da quanto se ne sa, sembra insufficiente. Attendiamo di poter leggere il testo definitivo. Il segnale comunque c’è anche se tardivo e va appoggiato dandone lode al governo che se ne è dato finalmente carico.
È inutile dire che la parola giusta per definire il fenomeno è “vergogna”. Non ci sono altre parole che questa. Del resto che la corruttela ampiamente diffusa sia un fenomeno antico lo sappiamo dalla storia del nostro Paese e dagli scandali che vennero alla luce dopo il governo della Destra storica. Il trasformismo celò spesso fenomeni di corruzioni che travolsero governi, cooperative e perfino movimenti che si proclamavano di sinistra e denunciavano i padroni pur essendo anch’essi inquinati di corruzione.
Ricordo qui una canzone che mio nonno paterno conosceva ed era una versione anarchica dell’inno dell’Internazionale. Diceva così: «Quando che sarò morto — non voglio le campane — ma voglio le puttane — e il Sol dell’Avvenir ». La parola “puttane” è qui usata per significare che sono meglio loro che la gente cosiddetta perbene ma quasi sempre inquinata dalla corruzione. E il Sol dell’Avvenir è il segno d’un futuro anarchico e socialista che metta fine alla vergogna.
Ma brillerà finalmente quel Sole?

il Fatto 14.12.14
Editoria, pioggia di fondi ai big
Ma l’occupazione resta al palo
In 10 anni 163 milioni, contributi nascosti per i giornali che però licenziano
di Salvatore Cannavò


Non solo quotidiani politici o cooperative. Non solo testate come il manifesto o l’Unità, spesso additate come coloro che hanno incamerato contributi pubblici più o meno meritati. A farsi foraggiare dal Dipartimento per l’Editoria, collocato a Palazzo Chigi, in anni passati, sono stati tutti i grandi gruppi editoriali italiani. Dall’Espresso a Rcs, da Mondadori alla Stampa. E lo hanno fatto in sordina, senza clamori, senza editorialisti che su questo o quel giornale si indignassero per le sovvenzioni di Stato. Concessi a suon di milioni, per lo meno negli anni dal 2008 al 2011, e senza grandi corrispettivi sul piano dell’occupazione. Anzi, in questi stessi anni il settore dell’editoria ha assistito a un’emorragia costante dalle redazioni pagata dagli enti previdenziali. Un circolo vizioso di cui ancora non si vede il peggio.
I DATI DI CUI PARLIAMO sono difficili da trovare eppure sono pubblicati sul sito del governo alla sezione Dipartimento per l’editoria. A segnalarli ieri è stato il giornale online Lettera43, ma per raggiungere i dati alla fonte è stato necessario un lavoro di ricerca adeguato. I contributi sono riferiti a due specifiche voci: “Agevolazioni di credito d’imposta per l’acquisto di carta utilizzata dalle imprese del settore editoriale”; “Agevolazioni di credito alle imprese del settore editoriale”. Nel primo caso si è trattato di un rifinanziamento, per l’anno 2011, in favore delle imprese editrici di quotidiani e periodici e delle imprese editrici di libri, “nel limite del 10 per cento della spesa sostenuta per l’acquisto della carta utilizzata per la stampa” secondo un meccanismo già utilizzato nel 2004-2005. Quella volta, il finanziamento fu di 92 milioni spalmato su 587 società editrici tra cui spiccavano Rcs (libri, periodici e quotidiani) con 12,6 milioni, Mondadori con 11,2 milioni, il gruppo Espresso con 8,5 ma anche Sole 24 Ore con 3,7 milioni, La Stampa con 2,3 milioni. Nel 2011, invece, il finanziamento è stato limitato a 30 milioni ed è stato ripartito su 411 società per un importo complessivo di 29.784.647, 42 euro.
IL CREDITO AGEVOLATO, invece, è un intervento “indiretto” che consiste nella “concessione di contributi in conto interessi sui finanziamenti deliberati da soggetti autorizzati all’attività bancaria” o “contributi in conto canone”, sui finanziamenti deliberati da “soggetti autorizzati all’attività di locazione finanziaria, della durata massima di dieci anni”. Un sostegno al pagamento degli interessi, insomma, per “finanziamento di progetti di ristrutturazione tecnico-produttiva”, “realizzazione, ampliamento e modifica degli impianti”, “miglioramento della distribuzione”, “formazione professionale”. Il credito è stato anche utilizzato per “il ripianamento delle passività destinato ad alcune imprese fra cui le imprese editrici e radiofoniche che risultano essere organi di partiti politici che hanno contratto mutui, di durata massima ventennale, per l’estinzione di debiti emergenti da bilanci 1986-1990”. Anche questi contributi sono cessati ma sono stati attivi dal 2008 al 2011. E nei quattro anni in esame hanno erogato 40 milioni scesi dai 18,4 del 2008 ai 13,8 del 2009 fino ai 470 mila euro del 2011. A spiccare nell’ottenimento dei fondi sempre gli stessi nomi: il gruppo Espresso, comprensivo di Finegil, con 8,5 milioni, la Rcs con 1,5, il Corriere dello Sport con 1,8 milioni, il Sole 24 Ore con 1,8 milioni, Mondadori con 2,2 milioni e altri ancora.
IL SOSTEGNO all’editoria non è un male in sé. Ma dovrebbe servire a migliorare il settore, ad aumentare l’occupazione, ad ampliare i diritti dell’utenza. Difficile sostenere che tutto questo sia avvenuto negli ultimi anni. I rapporti dei vari istituti, tra cui l’Agcom, non fanno che sottolineare il peggioramento di tutti gli indicatori. Tra questi, quello dell’occupazione. Tra il 2008 e il 2012, gli anni dei finanziamenti qui indicati, gli occupati dell’editoria cartacea sono diminuiti di oltre mille unità e la massa salariale è diminuita di 22 milioni sia nel 2012 che nel 2011. Se prendiamo le società editoriali che si sono distinte nella ricezione di crediti agevolati e/o di imposta quasi tutti hanno dato vita a piani di ristrutturazione aziendale. A titolo di esempio, il gruppo Rcs ha varato un piano di riduzioni di costi da 20 milioni con 70 prepensionamenti, il Sole 24 Ore oltre ai prepensionamenti ha istituito i contratti di solidarietà, così come il gruppo l’Espresso. E un giornale politico, come l’Unità, che oltre al finanziamento pubblico ha usufruito di 1,5 milioni di credito agevolato è stato portato alla chiusura dalla sua proprietà.

Corriere 14.12.14
Roma e gli affitti: le spese folli per le emergenze
Case in periferia a 2.700 euro al mese
Gli affitti d’oro per Buzzi e i costruttori
Pagati dal Comune per le famiglie in difficoltà. Anche Totti tra i proprietari
di Sergio Rizzo


Come lo stipendio di due impiegati comunali. O la pigione di un appartamento in un quartiere bene come i Parioli. Tanto spendeva il Comune di Roma di affitto mensile medio per appartamenti in residence di periferia destinati alle famiglie in difficoltà. Una cifra annuale di 43 milioni incassata dai costruttori e dalle cooperative sociali tra cui quelle del solito Buzzi.
Duemilasettecento euro al mese: lo stipendio di due impiegati comunali, oppure la pigione di un appartamento signorile ai Parioli. Impossibile credere che il Comune di Roma possa spendere una somma simile per l’affitto di un alloggio in un residence di periferia. Prima, naturalmente, di aver visto le cifra che il Campidoglio spende per la cosiddetta emergenza abitativa. Ovvero, circa 43 milioni l’anno. Più le bollette delle utenze.
Soldi, quei 43 milioni, incassati dai costruttori che affittano immobili al Comune, e dalle cooperative sociali come il Consorzio Eriches 29 di Salvatore Buzzi.
Con risvolti paradossali, più volte segnalati nelle sue interrogazioni dal solito consigliere comunale Riccardo Magi, recentemente eletto presidente dei Radicali italiani. E non soltanto per i costi, oggettivamente astronomici. Un esempio? Per gli 84 alloggi dell’Immobiliare San Giovanni 2005 del costruttore Antonio Pulcini in vicolo del Casale Lumbroso il Campidoglio spende 2.690.753 euro: 2.669 euro al mese per ciascuno. In discussione, soprattutto, sono le modalità con cui gli alloggi venivano di regola assegnati: senza graduatorie e i dovuti controlli sulle situazioni patrimoniali dei nuclei familiari. Con il risultato che l’emergenza «temporanea» si trasforma sempre in emergenza stabile, con le famiglie (circa 1.850) che restano perennemente a carico del Comune pure quando viene accertata la mancanza dei requisiti. Anche perché le ordinanze di sgombero quasi mai vengono eseguite.
In una di queste strutture, quella di via Giacomini di proprietà della Immobiliare commerciale srl, era addirittura ospitata la sede dell’organizzazione della destra romana Popolo di Roma.
Quello dell’assistenza all’emergenza abitativa è un meccanismo a geometrie variabili. C’è il cosiddetto «vuoto per pieno», che consiste nell’affittare un immobile intero, pagandolo indipendentemente dal fatto che tutti gli alloggi siano o meno occupati. In qualche caso al canone si somma il costo del servizio di «portierato sociale»( ?!) o «guardiania» (?!) affidato a una cooperativa: per cifre niente affatto simboliche. C’è poi l’assistenza alloggiativa diretta da parte delle coop sociali. Il Comune paga a queste una retta a persona, e la coop provvede all’alloggiamento e ai servizi. In questo caso il costo di aggira fra i 23 e i 24 euro a cranio. Il che significa oltre 2.100 euro al mese per un nucleo familiare di tre persone.
Il Consorzio Eriches 29 di Buzzi ha incassato per il solo 2012 una cifra superiore ai 5 milioni di euro per 584 persone: 720 euro mensili per ognuna di queste. E in aggiunta un milione circa per i servizi di guardiania in due strutture, della Immobiliare Pollenza e della Investimenti Roma 2006. Entrambe riconducibili alla famiglia di Antonio Pulcini (del quale si è ricordato ieri il coinvolgimento nell’inchiesta sulle presunte tangenti al deputato pd Marco Di Stefano), che con quattro immobili affittati al Comune (gli altri due sono quelli della New Esquilino e, appunto, della Immobiliare San Giovanni 2005) risulta il soggetto privato più attivo in questo business. Il giro d’affari annuale con il Comune di Roma si aggira intorno ai 9 milioni: più di un quinto del totale.
Ma nell’elenco non manca la famiglia Armellini, proprietaria del Park Hotel Costanza attraverso una società lussemburghese (la Soloverte finance sa), come pure gli eredi del conte Romolo Vaselli (Nuova patrimoniale srl), mentre la Serenissima Sgr, che incassa circa tre milioni e mezzo l’anno ci porta fino alla A4 holding, la società che controlla l’Autostrada Brescia-Padova presieduta dall’ex presidente leghista della Provincia di Vicenza Attilio Schneck. Quindi nomi come quelli dei gruppi Baldassari, Amore, Caporlingua... Infine, la Immobiliare Ten amministrata da Riccardo Totti, fratello del capitano della Roma calcio e bandiera della città, Francesco Totti, a cui fa capo il pacchetto di maggioranza.
E se alla testa del gruppo di cooperative sociali impegnate nell’affare figura indisturbata la Eriches di Buzzi, nella lista furoreggiano anche la Domus Caritas e la Casa della Solidarietà. Due coop alle quali la relazione degli ispettori della Ragioneria che mesi fa avevano decretato come illegittimi gli affidamenti diretti a Buzzi perché sopra le soglie di importo comunitarie e illecitamente prorogati, non ha riservato commenti più lusinghieri.
C’è da dire che molti di quei contratti (fra i quali quello con la società di Totti) sono scaduti o in scadenza a fine anno, anche se per alcuni, fra cui un paio di Pulcini e quello della famiglia Armellini, si andrà avanti fino al 2018. Sarebbe pure ingeneroso non riconoscere che il sindaco Ignazio Marino avrebbe voluto cambiare un sistema chiaramente assurdo, passando dagli affitti ai costruttori e alle coop a un contributo diretto alle famiglie bisognose, con un risparmio di una decina di milioni l’anno. Peccato che tutto sia ancora a bagnomaria.

La Stampa 14.12.14
Nel carcere delle Medee d’Italia
“Qui nessuno viene mai a trovarle”
Lo psichiatra: è terribile quando capiscono cosa hanno fatto
di Fabio Poletti


Il nome è poetico, reparto Arcobaleno. Ma non è facile trovare vite colorate in quest’ala dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere vicino a Mantova dove sono rinchiuse per legge 64 donne delle quali 7 figlicide. Alle finestre non ci sono sbarre, nei corridoi non ci sono agenti, i medici sono senza camici. «Non ci sono celle. Le chiamiamo stanze. Facciamo di tutto perché queste donne stiano il più possibile insieme...», racconta il direttore Andrea Pinotti di questo non carcere dove le mamme hanno le chiavi della stanza, il proprio lucchetto all’armadietto, le cose stipate in ordine e qualche volta ben nascosta perché non si veda, la foto di quel figlio che hanno ucciso.
Da qui è passata Loretta che senza sapere perché un giorno ha infilato il suo bambino in lavatrice ed è rimasto a guardare l’oblò per ore prima che la arrestassero. O B. che suo figlio che aveva tre anni lo ha abbracciato così forte ma così forte da togliergli il fiato. O Manuela che ha usato un coltello perché soffriva troppo a sentir piangere sua figlia. Donne in apparenza come tante. Ma sempre di più. Con una vita che troppe volte si cristallizza in quel gesto che nessun Tribunale riuscirà mai a spiegare con una sentenza che si accontenta di numeri, 10 anni di ospedale psichiatrico come minimo.
«Il nostro lavoro inizia subito dopo. Un lavoro per cui ci vuole pazienza. Che a volte finisce molto prima dei 10 anni quando la paziente può finire in una struttura esterna all’ospedale».
Una casa famiglia che mai è una famiglia vera. Perché non ci sono più né mariti né parenti attorno alle figlicide, reiette dal mondo libero e a volte in carcere, qui dentro accompagnate per mano a ritrovare almeno un simulacro di vita. Qualcuna si affida a don Giuseppe Baruffi il cappellano, ma lui dei giornalisti non si fida: «Lasciatele stare...». Altre sopravvivono con la chimica delle medicine e a volte soccombono alla violenza della contenzione. «In casi rarissimi, per evitare che si facciano male, le stanze di contenzione ci sono, mica le nascondiamo...», ammette i limiti della scienza Andrea Pinotti, psichiatra prima che direttore.
Ma il lavoro più grande, quello che inizia un secondo dopo aver varcato l’abisso, lo fanno altri medici. Come la dottoressa Maria Grazia Missora che fa parte dell’équipe dell’Arcobaleno: «Abbiamo di fronte donne che hanno dentro di sé una sofferenza enorme. Ma non tutte sono subito consapevoli di quello che hanno fatto. Arrivarci è il momento più brutto per loro».
La loro salvezza inizia allora. Dopo mesi e a volte anni come racconta Cristina Benazzi, un’altra dottoressa dell’équipe: «Ognuna ha una storia a sé. Ma c’è sempre del dolore nelle loro vite prima di fare quello che fanno». Quando lo riconoscono lo accettano. E per capirlo a volte basta che chiedano di rivedere il figlio che hanno ucciso, almeno in foto.

il Fatto 14.12.14
Elezioni in vista
Israele, Netanyahu ha un nuovo nemico si chiama “Tutti Noi”
È il partito fondato dall’ex ministro Kahlon, vuole la pace con i Palestinesi
di Roberta Zunini


Bibi Netanyahu, il premier israeliano, è arrivato a Roma per incontrare il segretario di Stato americano John Kerry dopo aver ottenuto una vittoria all'interno del suo partito, il Likud, in vista delle primarie previste per il 31 dicembre. Ma se la vittoria della battaglia interna al partito conservatore di cui Bibi è ancora il leader, ha portato al ritiro dell’ex ministro degli Interni Gideon Saar, che secondo alcuni sondaggi avrebbe potuto scalzare Netanyahu dalla guida del partito, non ha però messo il primo ministro al riparo da sgradite sorprese. Soprattutto per quanto riguarda lo spostamento degli equilibri politici dopo la sua decisione di sciogliere il governo e indire elezioni anticipate il 17 marzo. L'ex ministro delle Comunicazioni, Moshe Kahlon, ha fondato un nuovo partito centrista che potrebbe sottrargli voti. Kahlon 54 anni, esponente del Likud, ha fatto parte del primo governo guidato da Netanyahu fra il 2009 e il 2013. Allora diventò molto popolare aprendo la telefonia mobile alla concorrenza, in modo da ridurre i costi per gli utenti. Il suo neo movimento Kulanu (Tutti noi) ha una piattaforma incentrata sui problemi socio-economici. Ma l'ex ministro, un tempo considerato un falco sui temi della sicurezza, si è anche espresso a favore di un accordo di pace con i palestinesi. Un sondaggio del 5 dicembre assegnava a Kahlon un tasso di popolarità del 46% contro il 36% di Netanyahu e prevedeva la conquista di 11 dei 120 seggi della Knesset in caso di lancio del partito. Anche l'annunciato ticket elettorale tra i laburisti di Isaac Herzog e i centristi di Hatnua, il partito di Tizpi Livni, entrambi sostenitori della soluzione Due popoli-due Stati, non lascia tranquillo il premier uscente. Secondo i sondaggi sarebbe davanti al Likud, anche se di misura. Qualora dovesse vince le elezioni, Herzog sarà primo ministro durante i primi due anni di legislatura per poi passare il testimone negli ultimi due all'ex ministro Livni. Il centrista Yair Lapid, ex ministro delle Finanze,non ha ancora fatto sapere se il suo partito Yesh Atid (C'è futuro) correrà da solo, ma anche lui ha rilanciato sulla necessità di un “dialogo regionale”, che coinvolga il presidente egiziano Sisi e la Lega Araba, per risolvere il conflitto israelo-palestinese. Bisognerà vedere se si tratta di intenzioni reali o solo pre-elettorali.

La Stampa 14.12.14
In marcia su Washington la rabbia dei neri d’America
Come negli Anni Sessanta la capitale al centro della lotta per i diritti civili
di Paolo Mastrolilli


La protesta degli americani, non solo i neri, ha riempito ieri le strade delle città degli Stati Uniti. «Hands up, don’t shoot», abbiamo le mani alzate, non sparate; e «I can’t breathe», non posso respirare, non sono più le ultime parole pronunciate da Mike Brown a Ferguson ed Eric Garner a Staten Island. Ormai sono diventate gli slogan di un malcontento che valica i confini razziali. Parte dalla brutalità dei poliziotti, ma tocca in generale le corde della rabbia per la discriminazione e la diseguaglianza in tutta la società.
I familiari delle vittime
La marcia di ieri, organizzata in contemporanea a Washington, New York, Boston e altre città, è stata ideata dai leader della comunità afro-americana come il reverendo Al Sharpton, dopo gli scontri degli ultimi mesi cominciati con l’uccisione di Mike Brown a Ferguson. Sul palco della capitale sono saliti i famigliari di Mike, Eric Garner, Akai Gurley, Trayvon Martin, Tamir Rice e Amadou Diallo. Brown era stato ucciso a Ferguson dal poliziotto Darren Wilson, dopo che aveva rubato in un negozio e si era scontrato con lui. Garner era morto a Staten Island in luglio, quando un poliziotto lo aveva soffocato cercando di arrestarlo perché vendeva sigarette di contrabbando. Gurley, un ragazzo ventenne disarmato, era stato ucciso da un agente a colpi di pistola a New York.
Martin era morto in Florida per mano di un vigilante, mentre andava a casa del padre. Rice, 12 anni, è stato ammazzato il mese scorso dalla polizia in un parco di Cleveland, perché puntava ai passanti una pistola giocattolo. Diallo invece era stato ucciso a New york nel 1999. Tutti questi casi si sono risolti senza la condanna dei responsabili delle violenze, provocando proteste in tutti gli Usa. La manifestazione di ieri voleva raccogliere tutte le rimostranze della minoranza nera per gli abusi e le discriminazioni, e trasformarle in una questione nazionale. Portandole davanti al Congresso, ma anche alla Casa Bianca, dove abita un presidente nero accusato di non aver fatto abbastanza per la sua gente.
Martin Luther King
Lesly McSapdden, la madre di Brown, guardando la folla dal palco ha detto: «Che mare di gente. Se non lo vedono e non cambiano le cose, non so proprio cosa dobbiamo fare». Samaria Rice ha faticato a trovare le parole: «Mio figlio aveva un futuro splendido davanti a sé, e tutto il diritto di viverlo». Gwen Carr, la madre di Garner, l’ha aiutata: «È straordinario che siate così numerosi. Guardate che massa: neri, bianchi, tutte le razze, tutte le religiosi. Questo è uno di quei momenti che fanno la storia. I nostri figli non sono qui con il corpo, ma di certo il paese sta sentendo le loro voci». Gwen ha detto che suo figlio «era un uomo gentile e si occupava solo della sua famiglia». Quindi ha invitato i manifestanti a mobilitarsi, affinché i loro figli possano avere la giustizia che finora è stata negata ai propri genitori.
Sharpton ha avvertito i parlamentari: «Membri del Congresso, prestate attenzione, perché noi facciamo sul serio. Quando sentirete un campanello alla porta durante le feste di Natale, potrebbe non essere Santa, ma il reverendo Al che viene a casa vostra». Sharpton ha detto che quella di ieri non era «una marcia nera o bianca, ma americana, perché tutto il paese è rappresentato e avverte il problema».
Il figlio di Martin Luther King, però, ha richiamato anche i neri alla realtà: «Se fosse qui mio padre, ci chiederebbe di guardare pure agli abusi nella nostra comunità, perché in qualche misura siamo tutti un po’ responsabili».

Corriere 14.12.14
Sindacato polizia NY contro De Blasio «Non partecipi a funerali di agenti»
La protesta per la presa di posizione del sindaco sull’uccisione di afroamericani disarmati da parte dei poliziotti. In migliaia in marcia contro la violenza

qui

il Fatto 14.12.14
L’appello del miliziano: “Per favore, disarmateci”
di Nancy Porsia


Zuwara Anche gli ultimi romantici in Libia, quelli che credevano nella forza della diplomazia internazionale per porre fine alla spirale di violenza che dallo scorso luglio tiene paralizzato il paese nordafricano, oggi gettano la spugna e si preparano al peggio. Le ultime notizie riguardano lo scontro fra l’esercito filo-governativo e le milizie islamiche – impegnate nell’operazione Alba della Libia – che miravano a prendere il controllo di una zona ricca di petrolio, nei pressi della città portuale di Sidra. “Un attacco a sorpresa”, ha confermato il generale Saqr al-Jroshi, comandante delle forze aeree dell’ex generale Khalifa Haftar che sarebbe stato respinto. Sulla città di Zuwara intanto continuano i raid.
“MIO FIGLIO di 18 anni vuole entrare in una delle brigate locali per proteggere la città” ha detto a Il Fatto una donna di Zuwara, madre di 5 figli. Poi, con lo sguardo perso nei sottotitoli che scorrono in sovra impressione in tv, 24 ore su 24 sintonizzata sul canale nazionale all news Nabaa, spiega: “Mio figlio maggiore fa i turni ai check point intorno alla città oramai da settimane. Ogni giorno vivo nel terrore che gli succede qualcosa. Ora anche il piccolo vuole andare. ” Da circa due settimane, Zuwara e altre città a Ovest della capitale Tripoli sono sotto attacco aereo. “Andremo avanti con i bombardamenti finché non avremo liberato la capitale dai fondamentalisti” aveva tuonato due settimane fa il primo ministro Al Thinni, nominato dal parlamento eletto lo scorso giugno rifugiatosi a Tubruq, puntando il dito contro il Congresso Generale rivale, rimasto a presidiare il territorio su Tripoli per conto della Fratellanza Musulmana. Da allora circa una decina di persone sono morte a Zuwara sotto le bombe del generale Khalifa Haftar, mentre i feriti si contano a dozzine. “Questi sono jet militari libici, non sauditi o egiziani come quelli usati da Haftar a Bengasi per colpire i gruppi terroristici” dice un membro della brigata Tamzgha di Zuwara. “Tubruq continua ad inveire contro i terroristi, ma fino ad oggi ha colpito solo civili e lande deserte” conclude l’uomo sulla trentina.
“Certo se fossi a Bengasi, forse starei con Haftar” ha detto un altro membro della brigata Tamzgha rintanato in un pick up, durante il suo turno di guardia sul fronte sud-ovest di Zuwara. Infreddolito dalla lunga notte passata a scrutare l’orizzonte, il ragazzo ha spiegato: “A Bengasi, la minaccia fondamentalista e terroristica è reale. Ma qui no, qui noi ci armiamo solo per difendere la nostra città dai nostri vicini, nemici giurati del popolo Amazigh”. Nonostante gli amazigh, minoranza culturale libica, rappresenti una terza parte rispetto al conflitto in corso tra estremisti e nazionalisti arabi, la vicinanza di Zuwara al confine tunisino attrae le mire espansionistiche dell’esercito di Tubruq.
LA CHIUSURA del confine di Ras Jadir potrebbe essere uno dei principali obiettivi di Haftar per stremare le città nell’Ovest. “Siamo in balia del nostro destino” riprende la donna, pensando ancora ai suoi due unici figli maschi. “Speravo in Bernardine Lèon, ma a quanto pare pure lui non ha potere” ha continuato, commentando il fallimento dell’inviato delle Nazioni Unite in Libia nel suo tentativo di far sedere le due parti belligeranti intorno al tavolo del dialogo nazionale nella città di Gaddames. L’incontro di Gaddames, previsto lo scorso martedì, è stato posticipato di una sola settimana per dare più tempo alle parti per trovare un accordo. Da circa due giorni, a Zuwara come nelle città a sud di Zintan sono partiti anche attacchi via terra. “Dov’è l’Italia? ” più di una persona chiede a Zuwara. “Se le Nazioni Unite non ce la fanno, forse è il caso che l’Italia scenda in campo” ha detto scherzando un membro di una delle brigate di Zuwara, mentre si preparava ad affrontare la notte al check point a est della città, immediatamente dopo la notizia dell’ennesimo attacco da parte delle forze di Haftar nella città vicina di Sabrata. Il ragazzo, avvolto nella sua mimetica e con il kalashnikov in mano, ha continuato: “Invadeteci, disarmateci e saremo felici. ” Poi ha concluso “D’altronde i vostri interessi in Libia oggi sono ancora maggiori che nel secolo scorso”. Un appello a cui il ministro Roberta Pinotti ieri ha risposto così: “L’Italia vuole essere protagonista nella soluzione della crisi libica” ed è pronta a “fornire i suoi soldati a una forza di pace delle Nazioni Unite”, ma occorre prima chiarire il contesto interno perché “in Libia non c'è un solo interlocutore e anche dal punto di vista della legittimità la situazione rimane confusa”.

Corriere 14.12.14
«La mia Germania vi fa paura? Siamo noi a temere il futuro»
Edgar Reitz, il regista di Heimat, racconta un Paese «che ha perso le utopie»
intervista di Valerio Cappelli


La Germania fa paura? No: è la Germania ad aver paura. Edgar Reitz, classe 1932, è uno dei maestri del cinema tedesco. Il regista che nella saga di « Heimat» ha raccontato il suo Paese, da metà 800 al 2000, attraverso la lente di un remoto villaggio dell’Hunsrück dove egli è cresciuto (per poi spostare la cinepresa a Monaco di Baviera e Berlino), rovescia il binocolo degli analisti. «La Germania ha paura del futuro. È straordinario come i miei connazionali, al profilarsi di una crisi, reagiscano con timore maggiore rispetto ad altre nazioni europee. Dopo il terremoto di Fukushima, fummo noi a essere subito presi dal panico, e spegnemmo le nostre centrali nucleari. Se si verificano atti di guerra in Ucraina, nel mio Paese si risvegliano antichi incubi».
Questa paura ha un riflesso nell’attuale crisi economica?
«La paura tedesca fa sì che in una situazione di crisi, come quella economica (che non deriva da noi o dai Paesi vicini ma dalle dinamiche del capitalismo e dalle banche), siano ricercate misure di stabilizzazione e austerity. Non esiste più una “utopia tedesca”. Tutti sanno che ogni utopia del XX secolo è tramontata. Non dobbiamo dimenticare che i tedeschi possono sentirsi ragionevolmente al sicuro nel loro territorio solo da un quarto di secolo, dalla caduta del Muro; vogliono preservare tutto ciò con la pace. Non c’è Paese in cui il desiderio di pace sia superiore a quello della Germania».
Eppure l’Europa più povera teme il potere economico tedesco.
«Sono sorpreso che siamo temuti. Noi percepiamo l’esatto contrario. Siamo sulla difensiva, cerchiamo solo di non lasciarci destabilizzare dall’esterno».
Il passato nazionalsocialista ha un ruolo in tutto questo?
«La memoria di un popolo è molto lunga. Nessuno oserebbe parlare ora di un Reich millenario. Siamo già felici di non perdere il nostro lavoro domani. Quando a 20 anni cominciai a viaggiare, in quanto tedesco, venivo considerato come un nazista. Non era d’aiuto dire che all’epoca ero un bambino. La mia generazione ha fatto qualunque cosa per porre fine all’eredità nazista. La Germania oggi è un Paese democratico che non ha soppiantato la sua storia. Non è solo Hitler, di cui dobbiamo vergognarci ancora, ma anche gli eccessi dell’Impero e i secoli di feudalesimo, ad aver gettato sfiducia. Insieme con Weimar, l’unica rivoluzione democratica del 1848 è fallita, dunque non abbiamo alcun mito positivo dalla fondazione dello Stato, come lo ebbero i francesi».
«Heimat», il suo film in quattro cicli e 64 ore, è una parola intraducibile dai molti significati: nostalgia, luogo natio, patria. Come si è evoluto nel tempo il concetto di patria?
«Il rapporto con lo Stato non è mai stato positivo in Germania, la gente non ha dimenticato che ha recato nei secoli disonore e disgrazie. Oggi differenziamo i concetti di patria e Stato. La patria è la terra materna dell’infanzia e la terra che lega le persone al territorio; lo Stato è un costrutto astratto, una terra “paterna”, campo d’azione dei politici e delle autorità. Nessuno di noi nutre amore per lo Stato, al contrario l’amore per la patria diverrà sempre più importante. Un crescente patriottismo regionale significa per molti tedeschi una nuova identità».
Che impatto ebbe su di lei la vita «bohémienne» di Monaco, quando dalla provincia arrivò nel 1952?
«Ero ragazzo, Monaco mostrava le ferite della guerra, rovine e case improvvisate appartenevano allo scenario quotidiano. La leggenda di città delle arti e dell’allegra vita notturna risaliva al periodo precedente la Prima guerra mondiale. Dopo due settimane mi resi conto di aver inseguito un’illusione. Ma la mia generazione, negli anni 60, riuscì a ridare slancio culturale a Monaco. Berlino, a quel tempo dietro la Cortina di ferro, era il luogo dei nostri sogni».
Con l’ultimo capitolo della sua saga, «Die andere Heimat», ha girato la ruota della Storia all’indietro, nell’800.
«È un film indipendente dalla trilogia. Da 30 anni ai miei film metto la parola “Heimat” nel titolo, è un trucco con cui tendo la mano agli “heimatiani”, in realtà tratto temi molto diversi fra loro. Non c’è bisogno di vedere i capitoli precedenti per comprenderlo. Attraverso due fratelli racconto l’immigrazione, il desiderio di vivere in una società migliore. Volevo richiamare alla memoria di noi europei che circa 150 anni fa eravamo disperati e miserabili proprio come le persone che dall’Africa, dall’Asia o dall’Est si rivolgono a noi per condurre una vita libera. Ovunque si formi un divario economico, la gente cercherà l’uguaglianza, un processo che richiederà molto tempo e causerà nuove crisi fino al costituirsi di una sorta di unità planetaria. Rispetto alla trilogia ha una durata di soli 220 minuti, un cortometraggio al confronto. Nonostante il grande successo dei miei film in Italia, non ho ancora una distribuzione nelle sale. Amo il vostro Paese, il rispetto che avete per le arti. Non a caso “Heimat 2”, che parla di giovani artisti turbolenti, individualisti e dalla vita promiscua, in Germania fu visto con una certa diffidenza mentre in Italia ebbe molto più successo. La Mostra di Venezia nel 1967 premiò il mio debutto. Mi sento vicino e familiare ai vostri grandi maestri, Rossellini, De Sica, Visconti, che a differenza dei registi tedeschi incardinano le storie in un luogo preciso, come ho fatto io in “Heimat”. Spesso spettatori di terre lontane mi hanno detto che avevo narrato esattamente la loro storia. All’inizio ero molto stupito, perché racconto cose personali che riguardano miei ricordi ed esperienze. Il segreto sembra essere che quanto più veniamo compresi, tanto meglio capiamo noi stessi».

il Fatto 14.12.14
La Grecia, i neonazi e il tradimento di Churchill
Il primo ministro temeva l’espansione della sinistra
Nel ’44 gli Inglesi spararono sui partigiani che erano stati loro alleati
di Carlo Antonio Biscotto


Il 3 dicembre 1944: un giorno che ha cambiato la storia della Grecia. Ad Atene, in piazza Syntagma la polizia greca e i soldati britannici, ancora in guerra con la Germania nazista, aprirono il fuoco dal tetto del Parlamento sui dimostranti facendo diversi morti. Erano passate sei settimane dalla liberazione della Grecia e molti erano scesi in piazza per appoggiare i partigiani con i quali la Gran Bretagna era stata alleata per tre anni. Quel giorno, invece, i soldati di Sua Maestà armarono i collaborazionisti tradendo chi aveva dato la vita per la democrazia. A 70 anni di distanza il poeta Titos Patrikios, 86 anni, ricorda tutto, scena per scena: “La folla dei dimostranti sventolava bandiere greche, britanniche, americane e russe. Morirono 28 persone, per lo più giovani donne e uomini, e centinaia furono ferite. Non se lo aspettava nessuno. E in quel lago di sangue annegò probabilmente il futuro della democrazia greca”. Quel massacro fu la conseguenza di un cinico calcolo di Churchill il quale riteneva eccessivo il peso del Partito comunista greco all’interno del movimento di liberazione e temeva che la sinistra greca avrebbe ostacolato il suo progetto di rimettere il re sul trono di Atene. Preferì snaturare le alleanze e sostenere i filo-nazisti greci.
POCHI GIORNI dopo, l’aviazione britannica attaccava le roccaforti della sinistra greca dando inizio alla cosiddetta ”Battaglia di Atene” che i greci ricordano con il nome di Dekemvriana. Il risultato di questa decisione fu una tragica guerra civile, un bagno di sangue che rappresenta una macchia nella storia della Grecia, ma anche in quella della Gran Bretagna. Su questa pagina vergognosa della storia britannica è calata la congiura del silenzio, pochi ne parlano e la storiografia ufficiale si ostina a non riconoscere le conseguenze che quel tradimento ebbe sullo sviluppo democratico della Grecia.
“Le conseguenze della rivolta del dicembre 1944 e della guerra civile del 1946-49 sono ancora tra noi”, spiega lo storico André Gerolymatos, studioso del periodo. “I partigiani francesi e italiani furono rispettati da tutti dopo la guerra, a prescindere dalle diverse posizioni politiche. In Grecia chi aveva preso parte alla Resistenza fu perseguitato, incarcerato e torturato, su ordine dei britannici, da quelle stesse persone che avevano collaborato con i nazisti. I crimini commessi contro i partigiani non furono mai riconosciuti, non c’è mai stato un solo processo contro i collaborazionisti greci e in buona parte quanto sta accadendo oggi in Grecia con il travolgente successo di una formazione politica di estrema destra come Alba Dorata, è la conseguenza del non aver voluto fare i conti con il passato”.
Alla fine della Dekemvriana, erano morte decine di migliaia di persone e 12.000 ex partigiani furono arrestati e inviati in diversi campi di concentramento in Medio Oriente. Dopo la firma del cessate il fuoco, ebbe inizio in Grecia un periodo che va sotto il nome di ”terrore bianco”. Tutti coloro che erano sospettati di aver spalleggiato i partigiani e la sinistra durante la guerra civile furono arrestati e avviati in veri e propri gulag per essere torturati e talvolta uccisi.
La storia, inesorabile, si ripete. Il 25 gennaio 2009 la polizia greca ha usato i lacrimogeni contro una folla di dimostranti che chiedeva lavoro e giustizia. Tra loro c’era una giovane di nome Marina che non riesce a darsi pace: “Perché la Grecia? In cosa saremmo diversi dal resto d’Europa? Solo da noi i partigiani sono stati perseguitati, torturati e uccisi. La mia famiglia ha conosciuto il carcere e le torture per due generazioni prima di me: mio nonno dopo la seconda guerra mondiale, mio padre durante il regime dei colonnelli. E oggi potrebbe toccare a me, in qualunque momento, quando meno me lo aspetto. Siamo i nipoti degli antifascisti e i nostri nemici sono i nipotini greci di Churchill”.

Corriere La Lettura 14.12.14
Jean d’Ormesson
Einstein e Hubble sono più importanti di Proust e Joyce
di Stefano Montefiori


Ci si avvicina all’ hôtel particulier di Jean d’Ormesson, a Neuilly, come a un monumento: in quella strada elegante e malinconica tra gli alberi, nel villaggio dell’alta borghesia alle porte di Parigi, vive e lavora lo scrittore nei decenni più amato dai francesi. Dal 1970 d’Ormesson ha pubblicato molti romanzi, alcuni d’amore, gli ultimi tre sull’universo — Che cosa strana è il mondo (edito in Italia da Barbès, 2011), Un giorno me ne andrò senza aver detto tutto (da noi tradotto da Clichy, 2014) e Comme un chant d’espérance (Gallimard 2014) — che gli hanno dato un immenso successo popolare e, ciò nonostante, l’ammira zione della critica.
Nell’aprile prossimo l’opera di d’Ormesson entrerà nella Pléiade, la più prestigiosa collana del più prestigioso editore del mondo, Gallimard, e sarà allora l’unico scrittore vivente a condividere il privilegio con Milan Kundera. «Me lo ha fatto notare Antoine Gallimard, aggiungendo però che qualcuno è morto mentre si stava preparando la sua Pléiade... Mi sono messo a ridere», racconta il conte d’Ormesson (dei Le Fèvre d’Ormesson, nobiltà di toga dell’ ancien régime ) nel salone di casa, tra antichi dipinti e un enorme dente di narvalo. «Ho risposto a Gallimard che in ogni caso, grazie a me, rischia finalmente di venderlo, qualche libro della Pléiade».
Condotti dal maggiordomo nel suo studio, abbiamo trovato l’89enne scrittore circondato, ma non sconfitto, da pile di fogli. Un raro caso di monumento sorridente, entusiasta per l’attenzione, pronto a mettersi in ginocchio per litigare con la presa della lampada che non si accende: l’atmosfera crepuscolare non gli si addice. «Vede tutte queste carte? Sono i lettori, mi arrivano un centinaio di lettere al giorno e cerco di rispondere a tutti». I celebri occhi azzurri brillano di soddisfazione.
Che cosa le scrivono?
«La maggior parte sono complimenti. Poi c’è anche qualcuno che non sopporta il mio andare d’accordo con tutti o quasi. Il fatto è che riconosco facilmente le ragioni degli avversari. Ah, e poi una signora mi ha scritto indignata perché io sono notoriamente di destra, gollista, ma difendo gli immigrati, e in più mi ha sentito dire che i miei amici omosessuali mi hanno nominato omosessuale onorario. Questo è troppo, non le stringo la mano! , ha protestato. Pazienza».
Che significa omosessuale onorario?
«È una battuta, per dire che ci intendiamo bene. Quando ero presidente dell’Unesco, degli amici peul (il popolo dell’Africa occidentale) mi avevano nominato peul ad honorem , e lo stesso hanno fatto dei miei amici gay. È un tema difficile, perché quando si dice “ho amici omosessuali” si fa come quei funzionari di Vichy che dicevano “ho molti amici ebrei” e intanto li mandavano a morire nei campi di concentramento. Ma diciamo che alla domanda “con chi vorresti rimanere bloccato in ascensore?” rispondo “con uno dei miei amici omosessuali”, i più interessanti e divertenti. Qualcuno lo trova ancora scioccante».
Però sul matrimonio degli omosessuali lei ha espresso delle riserve.
«Sì, di natura direi semantica. Io, più che il mariage pour tous , uguale per tutti, avrei riservato la parola matrimonio a quello tra un uomo e una donna. In Germania, per esempio, hanno risolto la questione brillantemente, riconoscendo tutti i diritti alle coppie gay. Comunque, a parte quella signora indignata, tanti lettori mi scrivono per chiedermi un incontro, e qualcuno per sapere come si fa a essere pubblicati».
E lei cosa risponde?
«Cerco di convincerli che non è vero che bisogna per forza conoscere qualcuno nelle case editrici. “Fate come me”, dico».
Lei come ha fatto?
«Mi sono deciso a scrivere tardi, a 30 anni. Non perché non conoscessi la letteratura, ero un normalista, ma proprio perché la conoscevo un po’ ero intimidito: come potevo osare di aggiungere qualcosa a Dante? Comunque, volevo fare colpo su una ragazza, e allora ho scritto L’amour est un plaisir , e ho lasciato il manoscritto alla segreteria di Gallimard, alla ragazza che rispondeva al telefono. Per due settimane nessuno si è fatto vivo. Allora, da presuntuoso e impaziente qual ero, un sabato sono andato da un altro editore, Julliard, che pubblicava Françoise Sagan, e ho lasciato il manoscritto anche a lui. La mattina dopo, alle 8 di domenica, mi telefona per dire “è un capolavoro, meglio di Sagan”. L’aveva letto di notte».
Il successo è arrivato subito?
«Il primo romanzo andò bene, i due successivi così così. E poi avevo contro di me un giornale molto importante, il “Figaro” , perché mi ero inimicato il direttore Pierre Brisson, scrivendo di uno dei suoi libri che “c’è comunque una giustizia a questo mondo, non si può essere direttore del Figaro e avere pure del talento”. Il bello è che 15 anni dopo sono diventato direttore del “ Figaro ”».
Come è passato a Gallimard?
«Dopo i primi romanzi brevi ho scritto un’opera più importante, un romanzo di 600 pagine ambientato qualche secolo prima della nascita di Cristo, La gloria dell’impero . Julliard era morto, allora ho portato il manoscritto a Grasset, dove mi hanno detto: “I tuoi libri precedenti erano anche divertenti, ma questo è noioso, illeggibile”. Allora ho riprovato da Gallimard, e ho venduto 300 mila copie».
Il suo ultimo romanzo, «Comme un chant d’espérance», è stato uno dei libri più venduti del 2014, per mesi primo in classifica. Se lo aspettava di essere ancora così amato?
«In effetti questo successo ha sorpreso anche me. Con i miei ultimi tre romanzi ho voluto superare la spaccatura tra letteratura e scienza. Un tempo uno scrittore non sapeva nulla della scienza, e gli scienziati avevano un po’ di sussiego nei confronti dei letterati. Ma Einstein, Heisenberg, Hubble o Bohr sono importanti quanto o forse più di Proust, Joyce o Claudel. Io conoscevo poco le scienze, il governo di Vichy aveva introdotto la cosmologia nel programma del baccalaureato, e aveva ragione. Ma siccome era Vichy io non avevo voluto impararla, il mio voto era un 2. Poi mi sono appassionato, ho cercato di capire la relatività e ho letto un libro bellissimo, La melodia segreta dell’astrofisico Trinh Xuan Thuan. Mi sono detto: invece di scrivere eternamente di adulteri, di Paul che incontra Marie, di Julien che ama Thèrese, parliamo di luce, spazio, tempo, la necessità, il caso, e ho scritto il romanzo dell’universo dal big bang a oggi. Ma mi sto già occupando di altro. Non posso ancora svelare il tema, già è difficile parlare dei libri scritti, figurarsi di quelli da scrivere. Ho già pronte 300 pagine, arriverò a 600».
Pochi giorni fa il presidente socialista François Hollande l’ha insignita della Legion d’Onore con una cerimonia solenne all’Eliseo. Pure François Mitterrand la ammirava.
«Mitterrand mi chiamò a quel telefono (lo indica, sulla scrivania, ndr) , un giorno. “Sono François Mitterrand”. E io risposi “si vabbè, smettila”, credendo fosse un imitatore. “Sono François Mitterrand!”, ripeté un po’ seccato; capii che era davvero lui. Mi convocò all’Eliseo prima di passare le consegne a Jacques Chirac, era alla fine dei suoi giorni e voleva parlare con me, cattolico privo di certezze ma con qualche speranza, delle forze dello spirito , l’espressione che usa nel suo discorso d’addio».
Scrittore, giornalista, entrato giovane (a 48 anni) tra gli Immortali dell’Académie Française, ha pure interpretato Mitterrand al cinema.
«Nel film La cuoca del presidente (uscito in Italia nel 2013, ndr) : il regista mi ha chiamato per propormi la parte e mi stava dicendo “ci pensi per qualche giorno” ma io avevo già deciso di accettare all’istante. È stato molto divertente».
Torniamo a Hollande. Oltre ad avere sostenuto Nicolas Sarkozy, lei non ha mai risparmiato critiche al presidente della sinistra e continua ad attaccarlo sulle colonne del «Figaro». Ha scritto pure che «non è un uomo di Stato». Non è strano che Hollande abbia tenuto a darle di persona la Grand-Croix de la Légion d’Honneur?
«Devo dirle che quando l’ho saputo, mi sono sentito in dovere di avvertire i miei amici dell’Ump (il partito del centrodestra francese,ndr) . Ho parlato a Sarkozy, Fillon, Juppé: devo accettare? E tutti mi hanno detto certamente, è la Francia a premiarti, non una persona. Sono d’accordo ed è stato un incontro molto piacevole, anche se trovo che la politica di Hollande sia disastrosa».
È vero che quando è stato poco bene, mesi fa, lei ha detto: «Non voglio morire adesso, mi terrorizza il pensiero che sia Hollande a rendermi omaggio»?
«Lo so che gira questa battuta, che trovo ottima. Ma purtroppo non posso attribuirmela, è circolata su internet non so come».
Il presidente più impopolare della V Repubblica ha pronunciato un discorso brillante e autoironico: «Lei è riuscito a essere amato durante tutta la sua vita, come ha fatto? È popolare tra le donne, gli uomini, celebre in Francia senza essere sconosciuto all’estero, amato senza essere invidiato... Perché questo dono di Dio? Perché a lei? E perché Dio è così selettivo?». Lei sa dare una risposta?
«Non saprei. Forse conta anche il fatto di non essere fazioso, sono di destra ma tra i miei amici c’è per esempio Jean-Luc Mélenchon, il politico di estrema sinistra. Poi, amo molto la vita. Ora non riesco più a farlo, ma tante volte ho preso l’auto il venerdì sera, magari la Mercedes decappottabile del 1967 che ho ancora in garage, guidavo tutta la notte, arrivavo a Portofino all’alba, stavo a Roma fino alla sera della domenica, e poi ripartivo per presentarmi il lunedì mattina in redazione, al “Figaro”. Distrutto, ma molto felice».

Corriere La Lettura 14.12.14
il Duce prendeva tempo
di Dino Messina


Emilio Gin, sulla «Nuova Rivista Storica», in un saggio scritto in inglese, riprende e amplia un tema già affrontato nel libro L’ora segnata dal destino. Gli Alleati e Mussolini da Monaco all’intervento (Edizioni Nuova Cultura, 2012). Lo storico dell’Università di Salerno, nel lungo articolo intitolato Speak of War and Prepare for Peace: Rome June 1940 («Parlare di guerra e prepararsi per la pace: Roma 10 giugno 1940»), si concentra, anche sulla base di nuove acquisizioni, sul periodo della «non belligeranza». Quell’arco di tempo che va dal 1° settembre 1939, quando la Germania invade la Polonia, all’entrata in guerra dell’Italia. Poco più di nove mesi in cui, può suonare strano ai non specialisti, l’orientamento prevalente nel nostro Paese fu quello della neutralità. Sono noti i sentimenti antitedeschi di Galeazzo Ciano, genero di Mussolini e ministro degli Esteri, le resistenze della monarchia a lanciarsi in un conflitto e le prudenze dei vertici militari, ben consapevoli dell’impreparazione e della mancanza di mezzi. Ma Gin sostiene che la politica temporeggiatrice del Duce durante il periodo di non belligeranza fu la scelta autonoma e consapevole verso un sentiero diplomatico di pace più che una concessione alle resistenze interne. Il capo del fascismo, secondo lo studioso — come risulta dai resoconti di colloqui riservati e dai diari di due esponenti di primo piano del regime, Ciano, appunto, e Giuseppe Bottai —, sarebbe stato favorevole a una soluzione diplomatica, perché in una guerra anglo-tedesca, com’ebbe modo di dire esplicitamente, la vittoria della Gran Bretagna avrebbe confinato l’Italia in uno spazio ristretto e del pari quella della Germania sarebbe stata soffocante. Mussolini era contrariato dal patto Molotov-Ribbentrop, che, ricordiamolo, è del 23 agosto 1939, pochi giorni prima dell’invasione della Polonia. E, anche in funzione antibolscevica, propose la creazione di uno Stato autonomo polacco, che, disse a Hitler, non avrebbe mai potuto far ombra al Reich. È noto del resto che fino alla primavera del 1940 continuarono i lavori di fortificazione ai confini con la Germania. Che cosa spinse Mussolini a cambiare idea? Probabilmente fu abbagliato dal successo della Blitzkrieg sul fronte occidentale e, seguendo il suo istinto opportunista, volle entrare in un gioco che credeva di breve durata.

Corriere La Lettura 14.12.14
Islam e Occidente I giovani precipitano in un nuovo buio
Il ragazzo musulmano caduto nell’abisso radicale è come il suo corrispondente europeo o americano ubriaco di narcisismo
di Luigi Zoja

psicoanalista junghiano

Iniziando La ginestra , Leopardi cita il Vangelo di Giovanni (3, 19): «E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce». Poi si scioglie in sarcasmi sulle aspettative di progresso, sulla ingenuità e frivolezza del suo secolo. Dall’Illuminismo — secolo della luce — e dalla delusione del poeta ne sono passati altri due. Dopo due guerre mondiali e la guerra fredda, gli entusiasmi guerrieri avrebbero dovuto scomparire. Eppure, nuove masse scelgono un nuovo buio.
I martiri della nuova guerra santa sono pronti. Mentre le nazioni che si combattono cercano la vittoria, ma possono tornare ai compromessi politici, nelle guerre sante l’unica alternativa è morire: la religione è un assoluto, non prevede patteggiamenti. Sarà quindi una guerra a morte, concepita ben prima delle convenzioni di Ginevra: guerra ai civili, alle bambine, agli ostaggi. Che non «metterà fine a tutte le guerre» (come si diceva della Grande guerra), ma al contrario metterà inizio a infiniti altri conflitti. Il loro vero martire è la ragionevolezza: la coerenza logica dell’Io — che, nella generosa illusione di Freud, doveva gradualmente svuotare l’inconscio — mentre di nuovo le tenebre lo stanno sopraffacendo. Come nella medievale Crociata dei Fanciulli, questi ingenui della vita hanno ricevuto una visione o hanno udito una chiamata e non si voltano indietro. Partono: persino dalle classi borghesi dei Paesi musulmani laici (Turchia, Tunisia). Persino da famiglie islamiche integrate nel sazio e secolarizzato Occidente. A volte, persino da famiglie cristiane colte, dell’Europa e del Nord America, cui voltano le spalle per convertirsi a un islam fondamentalista e gettarsi in un «eroismo» senza ritorno: i maschi, con armi modernissime; le ragazze, con strumenti antichi come i fornelli e gli uteri, per dare conforto a giovani eroi e sangue nuovo a una impresa che lo versa quotidianamente. È insensato, ma partono.
Non possiamo rispondere che non ci riguardano. Non sono nati dall’islam: sono una risposta al vuoto del nostro Occidente, senza il quale non avrebbero motivo di esistere. Sono giovanissimi e appassionati. Anche se qualcuno è disadattato o trasgressivo, non sono i bulli del quartiere, né vanno alle partite con il coltello in tasca (comportamenti che restano «occidentali»). In gran parte, sono adolescenti che non hanno mai commesso una infrazione: molti sono addirittura studenti modello. Né sono dei disobbedienti Pinocchi che beffano un debole Geppetto: vengono spesso da famiglie solide, dove il padre è tutt’altro che assente. Tutti, obbedienti o trasgressivi, erano alla ricerca di un senso e non lo sapevano: ora hanno trovato un’autorità assoluta in grado di somministrarlo.
Dicono di andare «verso» qualcosa: ma il loro obiettivo appare fumoso tanto all’europeo laico, quanto ai teologi musulmani. Quello che è chiaro, invece, è che vanno «via da». Rifiutano il nostro mondo che, morta per disidratazione la cultura romantica, è diventato troppo pratico: senza passioni, senza assoluti, senza sacrifici e senza trascendenza. Possiamo capirli, anche se cominciamo a non capire quando per loro la morte si trasforma da strumento in scopo ultimo.
La morte e il sacrificio di chi? Questo forse non l’avevano pensato a fondo. Se qualcuno glielo chiedesse su due piedi, borbotterebbero formule quali «gli infedeli», che nella genericità rivelano come l’avversario sia per loro astratto e non umano. Il giovane caduto nel nuovo buio è, proprio come il corrispondente occidentale che disprezza, innamorato dei propri entusiasmi, ubriaco di narcisismo. È convinto di opporsi al nostro materialismo, ma si affida a ricchi finanziatori che gli somministrano armi corrompendo la sua anima, proprio come ai giovani occidentali somministrano la droga; e a raffinati informatici, che mettono in rete filmati delle eroiche gesta jihadiste con l’abilità delle multinazionali pubblicitarie. Soffocano nel nostro materialismo, eppure non hanno appreso nuove vie: non sono stati mai veramente iniziati alla teologia dell’islam. Sono risucchiati verso quello che considerano un mondo di valori, ma è la controfaccia di un potere materialista rivestita da guerra santa disneyana.
Gli opposti che si combattono mortalmente, ma senza consapevolezza, diventano simili, ha detto Jung. Lo ha confermato lo storico Alan Bullock nel saggio Hitler e Stalin. Vite parallele (Garzanti). Per vivere veramente nei valori, ha detto Isaiah Berlin (in un testo del 1994 riproposto dalla «New York Review of Books» del 23 ottobre), bisogna ricomporli ogni giorno col bilancino del farmacista. Libertà e uguaglianza sono fondamenti. Ma la libertà totale porta verso la dittatura del mercato, l’uguaglianza totale verso Stalin. Gli unici miglioramenti nella vita degli uomini si raggiungono realizzando compromessi fra le due. Il problema è che milioni di giovani sono pronti a morire per idee assolute, nessuno a «morire per un compromesso»: che è, aggiungerebbe uno psicoanalista, insipido per il nostro narcisismo.
Inconsciamente o meno, gli estremisti si rinforzano a vicenda. I due palestinesi che hanno fatto strage in sinagoga parlavano di giustizia per i loro fratelli: ma la rivincita che si sono presi è quella individualista dell’adolescente che vuol diventare famoso, scaricando sul loro popolo una ennesima umiliazione.
Prevedibilmente — ma non inevitabilmente — il ritorno a forme di pensiero del passato riappare dall’altra parte: nella reazione dello Stato israeliano, che dopo aver naturalmente reagito con le armi, meno naturalmente estende la rappresaglia ai familiari e demolisce le loro case. In questo modo applica una forma antimoderna di diritto (l’allargamento della responsabilità personale ai familiari corrisponde alla Sippenhaft o kin liability medievale, riattualizzata nella modernità da Stati totalitari). Nella loro inconsapevolezza, i terroristi sono riusciti a «infettare» con la loro regressione il loro avversario: uno Stato che, lo voglia o meno, ha fra le responsabilità quella di rappresentare in Medio Oriente la luce della democrazia e della modernità, non i secoli bui. Come ho ricordato nel testo Paranoia , questa è l’unica malattia mentale altamente infettiva. A differenza dalle altre espressioni di follia, non è solo individuale ma riguarda i gruppi interi, gli amici e i nemici. Contagia la psiche collettiva e può comunicarsi ininterrotta attraverso le generazioni.

Corriere La Lettura 14.12.14
Per mestiere ho ucciso i bulli
«Ero un’arma con un cuore. Ora voglio dare la vita»
Dialogo tra un ex Marine e un filosofo della scienza
Colloquio di Giulio Giorello con David Tell


«Tutti mentono, spesso a se stessi più che agli altri». Così in Io sono un’arma (scritto originariamente in inglese, ma pubblicato in prima assoluta da Longanesi). L’autore si firma David Tell. Sia un caso o no, il cognome dello pseudonimo suona come il verbo che in inglese significa «narrare, confessare, rivelare». David, che ha lasciato il corpo dei Marines e vive in Italia da qualche anno, è tenuto alla riservatezza su non pochi aspetti della sua carriera militare, nonché per ragioni di sicurezza personale. Il libro mi pare non solo la cronaca di un duro addestramento, ma un vero «romanzo di formazione», pervaso da un disperato bisogno di sincerità. Il nostro dialogo è cominciato con una domanda che è forse la sfida più difficile di tutta la filosofia: cosa mai voglia dire «Conosci te stesso».
DAVID TELL — Quando mi sono arruolato mi pareva essenziale sapere fino a che punto potessi spingermi, se mi sarei spezzato, se sarei invece diventato più forte. Ma quando si scende nel proprio profondo per scoprire ciò che lì si cela, è spesso difficile confrontarsi con ciò che si è realmente. Per esempio: i Marines insegnano a comportarsi in maniera altruistica; ed è facile, quando si sta bene. Ma immagina di essere allo stremo delle forze, da giorni senza sonno e senza cibo, e il tipo di fianco a te se la passa ancora peggio: nessuno ti comanda di aiutarlo. Ma se riesci a trovare dentro di te l’energia straordinaria per farlo, allora hai raggiunto un livello di consapevolezza che non ti lascerà più per tutta la vita.
GIULIO GIORELLO — È una forma di conoscenza di sé che ha anche una valenza morale, perché mette in gioco le nostre idee su cosa è bene e cosa è male…
DAVID TELL — Sono convinto che al mondo ci siano figure irriducibilmente e irrimediabilmente malvagie. Prendiamo Hitler: rispettava gli animali, era vegetariano; eppure, ha causato la morte di milioni di persone. Se qualcuno avesse agito già nel 1939, le avrebbe salvate. Sono convinto che contro tipi del genere il rimedio sia scovarli il più rapidamente possibile, e ucciderli o imprigionarli a seconda delle circostanze. Se si opera nel proprio Paese d’origine, la questione usualmente viene lasciata alla polizia; se invece l’operazione si estende al mondo intero, non è più così; ci devono essere apposite unità militari destinate al compito. Sorge allora il problema che gli individui malvagi sono spesso coperti dalle Convenzioni di Ginevra (sul trattamento dei prigionieri di guerra) e dalle Convenzioni dell’Aia (sui crimini di guerra), sicché anche costoro godono di diritti. Questo è l’autentico nodo morale: quei tipi sono certamente malvagi; ma per combatterli efficacemente, si violano i loro diritti. E allora diventi come loro, diventi malvagio tu stesso.
GIULIO GIORELLO — Nel libro racconti che una delle motivazioni che ti ha spinto ad arruolarti era combattere il «bullismo» e i Marines erano per te «gli anti-bulli». Poi aggiungi che il leader di un qualsiasi «Stato canaglia» non è altro che «un bullo con un esercito». Eppure, leggendo il libro, si ha talvolta l’impressione che qualche forma di bullismo si annidi anche nel corpo dei Marines…
DAVID TELL — Anche fra i Marines i bulli non mancano; ma non ho mai pensato che il mio libro dovesse essere una completa condanna oppure una totale approvazione dei metodi di addestramento e dei modi di vivere nel Corpo. Certo, mi sono trovato a lavorare per e con tipi piuttosto stupidi e arroganti, persino avidi e spesso ossessionati dai loro pregiudizi. Però ho incontrato anche gente in gamba, intelligente e profonda, pronta a fare qualsiasi cosa per aiutarti.
Non direi che il Corpo costituisca globalmente un fenomeno di bullismo. Piuttosto, l’immagine di una guerra combattuta da due parti che vanno cavallerescamente alla carica l’una contro l’altra sul campo di battaglia non vale più; adesso bisogna cogliere impreparato il nemico, andando a stanarlo come, dove e quando si vuole… Tutto accade così rapidamente che la battaglia è terminata prima ancora che il nemico abbia avuto la possibilità di reagire. Dunque, un piano ben congegnato prevede di prendere il nemico alle spalle. Questa si potrebbe considerare una tattica da bulli, ma è anche l’unico modo intelligente di combattere, perché consente di risparmiare il maggior numero possibile di vite umane.
Per di più, i Marines stanno facendo del bene nel mondo in misura assai maggiore di quanto si ammetta comunemente. Per esempio, si impegnano a prestare il primo soccorso sia in crisi militari sia in catastrofi ambientali. D’altra parte, con la loro tendenza a vedere il mondo in bianco e nero, senza badare troppo alle sfumature di grigio, si prestano a eseguire ciò che la maggior parte della gente non vorrebbe mai fare in prima persona.
GIULIO GIORELLO — «Sono considerato un killer», leggiamo all’inizio del libro. Ma non è così per ogni soldato?
DAVID TELL — Oggi, in quelle che vengono definite «guerre a bassa intensità», è difficile tracciare una netta distinzione fra il militare medio e le forze speciali. Tipicamente, i soldati ordinari si trovano su un campo di battaglia specifico, in cui combattono quelli di un’altra nazione; e tendenzialmente prendono parte a guerre molto estese, sia come scenari sia come numero di truppe coinvolte. Invece, FastCo, l’unità cui appartenevo, non scende mai su un vero campo di battaglia: sarebbe uno spreco di risorse e di capacità. Viene utilizzata su terreni relativamente poco estesi: si tratta di infiltrarsi dietro le linee nemiche o in zone prive di un governo, o magari laddove non c’è guerra dichiarata e sarebbe imbarazzante essere sorpresi lì con le armi in pugno. Nelle nostre missioni facevamo attacchi di precisione chirurgica in posti chiave contro qualsiasi obiettivo per cui ci fossero ragioni strategiche.
GIULIO GIORELLO — Si tratta dunque di essere the point at the tip of the spear , come suona il titolo del libro in inglese. È così che colpisce «la punta della lancia»?
DAVID TELL — In missioni del genere non c’è tempo di riflettere o di chiedere l’opinione di qualcuno: devi decidere in prima persona. E poi devi essere in grado di vivere con il peso delle tue decisioni, che possono essere di ordine morale, ma anche di tipo operativo. Chi ci ha scelto voleva gente che possa sopportare fisicamente e mentalmente le conseguenze del decidere subito. Già in questo senso diventi un’arma che chi governa può adoperare in qualsiasi modo gli paia opportuno. E quando sei diventato quest’arma, c’è una parte di te che è orgogliosa di far parte di un gruppo d’élite; ma tutto ciò ha un costo umano altissimo.
GIULIO GIORELLO — Ti definisci, in conclusione, un’arma umana dotata di sentimenti…
DAVID TELL — Anche se ci fanno diventare delle armi, non siamo dei fucili: per funzionare bene, un fucile ha bisogno di essere tenuto pulito e in ordine, ha bisogno di qualcuno che si occupa di lui, ma non «sente» nulla; anche le persone hanno bisogno di chi si occupa di loro, ma non per questo perdono i propri sentimenti, che sono sempre lì, celati da qualche parte. E chi mai vorrebbe trovarsi in una missione «terminale» a fianco di tipi che non hanno sentimenti?
Comunque, le operazioni speciali a cui ho preso parte sono una cura temporanea. Possono essere straordinariamente efficaci contro i sintomi, ma non eliminano le radici del male. Puoi uccidere Osama Bin Laden, ma ci sarà sempre chi ne segue le orme. E di fatto non si possono uccidere tutti! Per di più, i terroristi e altri «bulli» possono approfittare delle conoscenze tecnologiche e informatiche più avanzate.
GIULIO GIORELLO — Per reazione, nelle nostre società emerge sempre più la tendenza dei singoli individui a rinunciare a una parte delle loro libertà in cambio di maggiore sicurezza…
DAVID TELL — I governi di solito offrono solo un’illusione di sicurezza. Prendiamo i controlli agli aeroporti. Sembrano severi; in realtà, il personale addetto non ha alcuna formazione specifica, svolge un lavoro malpagato ed è spesso demotivato. Il progetto è di farci sentire sicuri, in modo che volentieri cediamo le nostre libertà per rafforzare chi ci governa. Corriamo un gravissimo rischio: potrebbero riemergere pulsioni di tipo fascista.
GIULIO GIORELLO — Nel libro dici che spesso l’esistenza di un Marine ruota, in definitiva, attorno alla morte.
DAVID TELL — Quello per cui i Marines esistono, il loro primo compito, è uccidere i nemici. Pensano alla morte, perché la morte è il loro mestiere e anche il pericolo che li sovrasta. Lo ammetto pure adesso che ho lasciato quel Corpo che mi aveva modellato come un’arma umana.
GIULIO GIORELLO — C’è tutta una filosofia secondo la quale «viviamo per la morte», sia nostra che altrui. È davvero l’ultima parola?
DAVID TELL — No. La parte più importante dell’esistenza è portare alla vita qualcun altro, e soprattutto fornirgli dei principi morali per convivere con gli altri nel rispetto reciproco. Direi ora che lo scopo della mia esistenza è portare più vita, e cercare di rendere queste nuove vite migliori della mia.

Repubblica 14.12.14
Franco Loi
“Jung aveva ragione, la forza nasce dai sogni così ho imparato a non aver paura della poesia”
intervista di Antonio Gnoli


QUELLA mattina ci fu la strage. Sul piazzale Loreto giacevano una quindicina di partigiani. Per la prima volta Franco Loi, quasi un adolescente, percepì gli effetti brutali della morte. Il cartello umiliante, appeso al collo di uno di loro, con su scritto “Banditi”, spalancava una tragedia inaudita. Il colpo di coda di una guerra feroce. Non c’era poesia. Non c’erano Salgari e Verne che, con le loro avventure, lo avevano fatto sognare. Solo la brutale efferatezza di un episodio. E una data: il dieci agosto 1944.
Cosa ricorda di quel giorno?
«C’era un sole bellissimo. Ero uscito di casa per andare a scuola di ripetizioni. Mi avevano rimandato in tutte le materie. Il fascismo era anche questo. Giunsi sul luogo, inaspettatamente, e vidi quei corpi ammonticchiati. Un’immagine tremenda. Scoprii che c’era anche il padre di un mio amico. Ero frastornato. Tutto lì intorno mi pareva finto. Finti i fascisti della legione Muti. Finta la gente che guardava inorridita. Finte le case che circondavano il piazzale. Anche il cielo sembrava di cartapesta. La sola cosa vera, in quella Milano allo stremo delle forze, era la morte».
Perché quel senso di estraneazione?
«Era la sproporzione di quelle povere vittime a rendere artificiale tutto il resto. Come un sentimento di buio che equivalse per me al passaggio a un’altra età».
Lei non è nato a Milano?
«No, infatti. Sono nato a Genova. La mia infanzia fu lì: tra un padre sardo e taciturno e una madre emiliana, spesso grintosa e irriverente. Avevo sette anni quando ci trasferimmo a Milano al seguito di mio padre che era stato chiamato a dirigere lo scalo merci».
Un padre taciturno, diceva.
«Non abbiamo mai avuto un dialogo. Sentivo che mi rispettava e mi amava. Quando crebbi, presi a lavorare anch’io allo scalo merci. Cominciai come manovale. Mi alzavo alle quattro, la sera studiavo. Un inferno. Di fatica e di sonno. Facevo un po’ di attività sindacale. Un giorno il capo ufficio convocò me e mio padre. Improvvisamente Mainardi, ricordo ancora il suo nome, prese a insultarlo: “Non sei stato neppure capace di educarlo”, disse indicandomi. “Che razza di uomo sei?”, aggiunse con disprezzo. Non ci vidi più. Gli saltai addosso. Ci rotolammo. Lo presi a pugni. Fummo separati. E naturalmente venni licenziato in tronco».
E suo padre?
«Restò fino al 1958. Poi gli diedero una medaglietta per i 25 anni di fedeltà alla ditta. E lo buttarono fuori. Credo ne soffrì particolarmente. Un ictus e una cura sbagliata fecero il resto. Fu inchiodato nel letto per 11 anni prima di morire».
E lei?
«Iniziai a fare politica nel Pci. Ma non durò a lungo. C’era un fanatismo ideologico che non riuscivo ad accettare. Cossutta era segretario del partito a Milano. Già allora sembrava un fossile. “Che ci faccio io qui?” mi dissi e nel 1954, molto prima dei fatti di Ungheria, restituii la tessera. Devo dire che ebbi anche la fortuna di incrociare un personaggio per me fondamentale: Giulio Trasanna».
Chi era?
«Sembrava uscito da un libro di Osvaldo Soriano. Era stato pugile. Campione del Friuli. Un giorno si imbatté in un testo di Nietzsche, era Al di là del bene e del male.
Si immerse nella lettura al punto che dimenticò l’incontro di boxe. Abbandonò il pugilato per la letteratura e la poesia. Da lui ho appreso tutto: l’amore per le stelle. L’onestà. La passione per i libri. Morì di cancro nel 1962. Avevo da poco iniziato il mio lavoro alla Mondadori».
E la poesia?
«Sarebbe venuta dopo, anche se era già tutta dentro di me».
Cosa faceva alla Mondadori?
«Mi occupavo dell’ufficio stampa. Allora a capo della casa editrice c’era Vittorio Sereni. Un giorno mi chiamò: ho saputo da un amico che lei scrive poesie. È vero, risposi. Ma come, sono dieci anni che lei lavora qui e non me ne ha mai parlato? Le scrivo per me, replicai. Alla fine volle leggerle. Lo trovai qualche giorno dopo, davanti alla porta del mio ufficio. Mi guardò in silenzio e poi mi abbracciò. Da allora ebbe inizio la nostra amicizia, grazie a lui pubblicai le prime poesie».
Predilige il dialetto perché?
«Non lo so. È venuto fuori spontaneamente. Sentivo la parlata milanese degli operai, della gente comune. Sentivo che i discorsi cambiavano grazie ai suoni più che al significato delle parole. Mi affascinava. E poi lessi il Belli. Capii che il dialetto è la lingua dell’esperienza e quindi della vita. Quell’anno, il 1967, scrissi per la prima volta delle poesie».
Cosa la indusse a farlo?
«Era una forza sconosciuta. Uno stato di ebbrezza che durò tutto il mese di settembre. Scrissi in tutto 119 poesie. Poi, per anni più niente».
Perché la lunga interruzione?
«È difficile da spiegare. Davvero. È come conoscere la parte insopportabile del dolore e averne timore. Una volta Zanzotto paragonò la poesia al terremoto. Mi disse: sai, a volte scrivo il primo verso e mi ritraggo. Ne ho paura. È come se tutto stia per crollare».
E lei ha avuto paura della sua poesia?
«Devi vincerla la paura. Devi trovare l’equilibrio tra
l’inconscio e la conoscenza. Non è facile. Lo so. Perché la poesia è anche un modo di sfidare il sacro».
È religioso?
«Non vado in chiesa dall’età di 14 anni. Il prete di allora, anzi un frate, mi chiese nel confessionale se mi toccavo. Avvertii qualcosa di squallido. Ad ogni modo ho frequentato dei religiosi particolarmente interessanti ».
Chi?
«Don Giussani. Mi colpì il suo carisma. Non ho mai sentito nessuno far vibrare le emozioni come seppe fare lui con le parole. Fui anche attratto da Padre Turoldo. Ma la persona che, se ci penso, ancora mi turba è don Lorenzo Milani. Andai a trovarlo a Barbiana. Era incredibile ».
Incredibile perché?
«Brusco come un orso. Ma anche tagliente. Con quegli occhi ironici. Quando mi vide, la prima volta, disse: te sei comunista ed è già meglio di niente, in questo momento pensi che io sia dalla tua parte. Ma quando andrete al potere, io sarò un vostro avversario, ricordatelo. Più volte mi recai a Barbiana. In quegli incontri, davanti ai suoi adorati allievi, capitava che don Lorenzo infilasse un braccio in una pentola d’acqua bollente. E indifferente al calore, che gli ravvivava la circolazione sanguigna, poteva spiegare il verso di una poesia di Leopardi, di Dante o commentare un passo della Bibbia».
Che impressione ne ricavò?
«Sapeva essere durissimo. Ma non ho mai visto una classe di allievi discutere così liberamente e profondamente come quella che don Lorenzo aveva creato. L’ultima volta che lo vidi fu in un’alba dell’ottobre del 1964. Stavo lasciando Barbiana.
Avevo dormito male. Mi alzai verso le quattro del mattino. Preparai lo zaino. Mi mossi senza far rumore. Ma lui era già al suo scrittoio. Mi guardò, con tenerezza. Disse: “Questo è il solo tempo che mi appartiene e che non rubo ai miei allievi”. Stava scrivendo una lettera alla madre. Mi chiese di restare. Gli dissi: “È tardi, don Lorenzo”. Non l’ho più rivisto. Gli scrissi un paio di anni dopo. Mi rispose che era in ospedale e che riusciva a vedere solo gli amici più stretti. Morì nel 1967, in casa dell’adorata madre e alla vigilia dei grandi eventi studenteschi che in qualche modo anticipò».
Ai quali ha partecipato.
«Sì, poi le cose si complicarono. Si imputtanarono. Fui perfino arrestato come fiancheggiatore delle Br. E pensare che detestavo la loro violenza».
Com’era finito in quella situazione?
«Fui convocato una mattina dalla procura di Venezia. Pensavo a una testimonianza. Mai avrei immaginato di cadere in un inferno. Mi accorsi improvvisamente di essere accusato dei peggiori misfatti. Il giudice si accanì nell’interrogatorio. Minacciando di coinvolgere anche mia moglie».
Di cosa l’accusava?
«Di essere un terrorista. Forse, perfino, uno dei capi delle Br».
Con quali prove?
«Qualcuno mi aveva denunciato. Si parlò di un “teste probante”. Le domande, brutali, mi gettarono nella disperazione. Ero inerme. Incredulo. Alla fine fui trascinato fuori della stanza e, in catene, su di un motoscafo, trasferito nel carcere a Santa Maria Maggiore. In isolamento. La notte, la prima notte, sentii le voci lontane di altri detenuti. Una in particolare: “Voglio morire”, gridava. “Fatemi morire”. Mi sembrava di essere precipitato in un baratro. Cominciai a piangere».
«Durante l’interrogatorio mi chiesero se conoscevo Corrado Simioni. Dissi sì. Dissi che era mio amico. Che lo era stato».
Simioni fu considerato uno dei teorici della lotta armata. Qualcuno si è spinto fino a dire che fosse lui il “grande vecchio” delle Br. Un’amicizia così non poteva passare inosservata.
«Se è per questo Corrado Simioni era anche un grande studioso di Pirandello. Iscritto al partito socialista. Facemmo assieme il Sessantotto. Poi lui prese la sua strada con Renato Curcio e Mara Cagol. Ma io non c’entravo più niente. Non condividevo più nulla di quella storia politica».
Ha conosciuto Curcio e la Cagol?
«Sì, c’eravamo frequentati negli anni Sessanta. Una mattina del febbraio del 1970 Curcio venne a trovarmi per propormi la direzione di una rivista che stava fondando, Sinistra proletaria . Rifiutai».
Con quali argomenti?
«Gli ripetei quello che già c’eravamo detti mesi prima durante un incontro nel quale cominciarono a immaginare di entrare in clandestinità. Mi sembravano fuori dal mondo. Lo ribadii con forza. Gli dissi che non c’era futuro per la lotta armata. Per la violenza».
E lui?
«Se ne andò con Mara che in qualche modo sembrò darmi ragione. Scesero le scale. Lei alzò il braccio per salutarmi. Per me quella storia finì lì. Definitivamente».
E dopo il suo arresto?
«Ebbi una condanna a un anno e messo in libertà provvisoria. In appello fui completamente prosciolto».
Che anno era?
«Il 1983. Avevo la sensazione che la vita dovesse ricominciare. Tre figli, una moglie e neppure uno straccio di lavoro. Fu, ancora una volta, Sereni ad aiutarmi».
È stato molto amico anche di Franco Fortini.
«Scrisse una prefazione a un mio libro di poesie. Era un uomo strano. Dottissimo. Litigioso come pochi. Una volta per una serie di fraintendimenti si prese a pugni con Stefano Agosti. Si azzuffarono per un verso di Leopardi. Finirono agli insulti e poi alle mani. Dovemmo separarli a forza. Come vede nella mia vita non sono mancate le sensazioni forti».
E oggi?
«Continuo a pensare che l’ingiustizia prosperi e che la gente alla fine non faccia nulla per contrastarla. Regnano indifferenza e ipocrisia. Quando ho compiuto ottant’anni c’è stata, in un teatro milanese, una grande festa in mio onore. Ero felice per tutti i riconoscimenti. Poi ho sentito crescere il dubbio. Improvvisamente mi sembrava che tutte le parole spese per dire quanto fossero belle le mie poesie, suonassero false. Provavo lo stesso sentimento di estraneazione che ebbi in piazzale Loreto. La mia giovinezza, ormai perduta, i miei drammi, le ragioni stesse dello scrivere stritolate in un inutile anniversario. Proprio in quei giorni scoprii che stavo diventando cieco».
Lo ha scoperto come?
«Un esame oculistico approfondito e il responso: affetto da maculopatia. In sostanza è la perdita della centralità visiva. E dei colori. Avendo perso i dettagli della visione le immagini sfocano. Prevalgono le ombre. Non riesco più a leggere e faccio un’enorme fatica a scrivere. Ho provato a buttare giù dei versi su un taccuino. Guardi la scrittura: incerta, sbilenca, incomprensibile. Mi avvilisco e provo a resistere».
In che modo?
«C’è una forza che nasce dai sogni. Jung dice che c’è un punto dentro di noi che non è riconducibile alla logica. Lì si realizzano i sogni più importanti. Ma bisogna trovarlo quel punto. Bisogna arrivarci. Bisogna conoscere se stessi. È il fondamento di ogni civiltà, il sogno. Ancora oggi continuo a sognare. Non mi sono del tutto arreso».

Repubblica 14.12.14
La poesia del mondo
Quel cortile dell’allegro funerale di Hikmet
di Walter Siti


Forse una fanfara, sicuramente i bambini e l’atmosfera molto familiare del quartiere Due mesi prima della scomparsa così ipotizzava la sua cerimonia funebre
il poeta turco in esilio a Mosca E il suo ottimismo romantico finiva per esorcizzare la morte con ironia

Il cuore è un muscolo simbolico, però gli infarti sono veri e causati da tredici anni di carcere politico Ma anche con la cardiologa l’autore saprà scherzare

IL“ qui” del v.9 non è Turchia, è Mosca: appartiene all’usanza russa dei funerali che la bara lasci scoperto il volto del defunto durante il trasporto. Hikmet, emigrato a Mosca fin dal ’51, ha sperato a lungo di tornare nel proprio Paese, dove ha lasciato una moglie e un figlio, o almeno di andarci a morire («datemi sepoltura tra i campi d’Anatolia») – ma ormai ha sposato a Mosca la sua quarta moglie Vera, sa che la casa popolare di via Pesciànaya sarà il suo ultimo domicilio su questa terra. Il “noi” e il “voi” del testo designano una comunità: se la “nostra cucina” e il “nostro balcone” si riferiscono alla piccola famiglia nucleare di lui più Vera, il “nostro cortile” (“avlu”, cortile, è ripetuto ben cinque volte) è lo spazio dell’amicizia tra casigliani; e forse il “calerete” del v.2 è già rivolto a loro, prevedendone la collaborazione nell’estremo triste compito. Tra i molti versi dedicati da Hikmet a immaginare la propria morte (dopo il primo infarto del ’52 e soprattutto dopo il secondo del ’59) questi sono senz’altro i più sereni.
Ci sono poeti che, invece di attraversare l’ombra affidandosi pericolosamente alle parole, preferiscono usare le parole per esorcizzare l’ombra; il che li condanna spesso al secondo rango. Hikmet è uno di questi, la sua retorica umanitaria e il suo ottimismo amoroso si sono prestati anche troppe volte a citazioni da Baci Perugina («la cosa più bella che vorrei dirti/ è quella che non ti ho ancora detto»). Ma di fronte alla prova decisiva, la morte, la retorica sotto sforzo rivela la propria tenuta e la qualità umana diventa misura poetica. A questa prova Hikmet non fallisce. Il cuore è un muscolo altamente simbolico, ma gli infarti sono veri e causati da tredici anni di carcere politico; alla cardiologa russa che gli raccomanda di evitare le forti emozioni risponde scherzando «se schiatterà di rabbia o di allegria,/ lo lasci schiattare». È la stessa ironia sui piccioni che gli lasceranno un ricordino in fronte (portafortuna, certo, ma anche antiretorico stigma d’elezione).
La cosa che non si può non riconoscere a Hikmet è il coraggio: da quando nel ’21 a Istanbul denunciava il genocidio armeno a quando nel ’55 osò scrivere per un teatro moscovita una satira sul culto della personalità. Cercò di riabilitare Mejerchol’d, lodò scrittori caduti in disgrazia; il potere sovietico lo controllava stretto ma non poteva rinunciare a un intellettuale turco anti-Nato e lo esibiva in giro come “vate di pace e libertà”. Lui lo capiva di essere usato ma sperava di servire comunque alla causa; il suo ottimismo fu in origine reazione alla galera («miei cari/ mandatemi libri che finiscano bene») e non si lasciò smontare nemmeno dai fatti d’Ungheria o dalla corsa agli armamenti: «la rovina degli ideali crollati non mi schiaccia», scrive in una poesia del ’61. Comunista indomito, ateo gran lettore dei mistici arabi e persiani, nipote di pascià ma ribelle per costituzione, maschio di vorace sensualità, ama la vita e la natura con quel che l’amica Joyce Lussu definiva un “ingualcibile candore”. Così attrezzato si appresta ad andarsene: senza rimpianti né invidie, augurando a chi resta lunga vita. Nel ’54 aveva scritto «sarebbe un’ignominia, o forse crudeltà/ separarsi dal mondo in primavera» – ora è aprile ma ormai qualunque stagione va bene, l’importante è che ci siano dei bambini (il suo, lontano, aveva 12 anni). L’accenno alla “fanfara” del v.11 allude a una possibile ufficialità della cerimonia, ma la cosa non sposta niente. Quello che conta è l’intimità con lo spazio; sentiamo di poterci fidare, quel cortile moscovita è davvero un incrocio di seria umanità. La sequenza è cinematografica (Hikmet fu anche sceneggiatore): prima l’interno stretto delle scale e il cortile traguardato dall’alto, poi la panoramica in esterna con le alternative stagionali affidate alla triplice anafora di “belki” (forse); l’ingresso prepotente del sonoro. Poi l’obiettivo si stringe sul primo piano del volto e si ri-allarga ad accogliere le facce curiose dei bambini; lì ci aspetteremmo il controcampo, l’occhiata gettata indietro dal protagonista a salutare ciò che lascia: ma il protagonista è cadavere e allora è la finestra che segue il padrone con lo sguardo, come un cane fedele, mentre il bucato saluta dal balcone. Oggetti umili per gente umile – e umile la lingua.
In turco vige una regola fonetica nota come “armonia vocalica”, per cui in ogni parola le vocali dei suffissi si accordano alla vocale della radice. Sfruttare questo in poesia significa valorizzare le assonanze rinforzandole con allitterazioni e rime; Hikmet ha scelto il verso libero fin dalla giovinezza influenzata dal futurismo russo, dunque niente rime, ma le allitterazioni le usa eccome (qui, ben 9 versi su 16 cominciano per “b”). L’armonia dev’essere sobria, niente più esagitazioni verbali o metafore troppo tese; tutto molto realistico e credibile, sul ritmo del cuore affaticato. Solo dei puntini di sospensione nell’ultimo verso, a lasciare aperto il dialogo. La morte arriverà empiricamente due mesi dopo e la temeraria parola “felice” ne sarà il sigillo: “socialismo”, scriveva nel ’54, “è sentire la felicità come un dovere patriottico”.

NÂZIM HIKMET LA CERIMONIA DEL MIO FUNERALE
da Ultime poesie
Il mio funerale partirà dal nostro cortile?
Come mi farete scendere dal terzo piano? La bara non ci sta nell’ascensore e la scala è stretta.
Forse il cortile sarà pieno di sole, di piccioni, forse nevicherà, i bambini faranno tanto rumore, forse l’asfalto sarà bagnato di pioggia e nel cortile come sempre i bidoni della spazzatura. Se sul furgone, come usa qui, mi caricano a faccia scoperta, un piccione potrebbe farmi cadere qualcosa sulla fronte: porta bene.
Che ci sia o no la fanfara, i bambini verranno di sicuro, i bambini sono curiosi dei morti.
La finestra della nostra cucina mi seguirà con lo sguardo, il nostro balcone mi saluterà col bucato steso.
Non potete sapere come sono stato felice in questo cortile.
Miei casigliani del cortile, vi auguro lunga vita, a tutti.
(aprile 1963)

L’autore
Nazim Hikmet (Salonicco 1901 -Mosca 1963) è stato un poeta, drammaturgo turco definito “comunista romantico”, in esilio in Russia dal 1951 dopo aver passato numerosi anni in carcere per le sue idee politiche

Corriere La Lettura 14.12.14
Paolo Conte, musica e provincia
«Sono moderno, cioè fuori moda»
intervista di Paolo Di Stefano


Non resta quasi più niente da dire di Paolo Conte. Basterebbe sentirlo cantare lasciando venir fuori tutta la sua poesia, la sua grana, il suo timbro che ritorna intatto in Snob , il nuovo disco fitto di sambe, di blues e di mazurke, di esotico e di provincia italiana. Fedele a se stesso, alle sue arie e alle sue parole. Sono passati più di vent’anni dal suo omaggio sentimentale al Novecento, ma Conte è sempre lì. Sono diminuite le sigarette, non più di una decina al giorno, qualcuna fumata anche durante le prove degli spettacoli, con le dita sul pianoforte, ma il macaco è sempre lì, con tutt’e due i mocassini nel secolo scorso.
«Credo di non aver mai attinto la misteriosa ispirazione dagli anni che passano. Mi sono sempre divertito a scrivere fantasticando e lavorando con lo stesso metodo. Sento che è cambiato il mondo, però io resisto. Mi tengo lontano dalla tecnologia, non uso il telefonino né il computer. Semmai, qualcuno lo fa per me, ma io sono negatissimo. La nostalgia? Non mi appartiene. Mi sono guardato sempre indietro per trovare cose che mi piacevano molto di più di quelle che stavo vivendo».
Nessun interesse per il presente?
«Da artista, io appartengo al moderno. Negli anni Settanta poi è venuto quello che hanno chiamato il postmoderno, arte cosiddetta attuale. Ma trovo difficile rinunciare a tutto il lavoro molto fitto che io ho fatto da modernista, in contrasto con le cose estremamente semplificate che si fanno adesso. Soprattutto in musica, è stata mandata fuori dai piedi l’armonia, le forme sono ridotte a pochi elementi. E quindi non mi posso sentire attuale. L’attualità è sempre segnata dalle mode che vanno e vengono, che chissà quanto durano e quanto cambiano. Non è una scelta mia; è che guardandomi allo specchio, mi sono sempre trovato fuori moda, completamente. E i miei modelli non sono mai cambiati. Da appassionato di jazz, ho seguito tutto il suo percorso storico, ma criticamente sono tornato indietro agli anni dei primitivi, che sono i più importanti perché sono i più audaci, gli anni Dieci, Venti… E questo vale un po’ per tutta la musica, sono gli anni di Ravel, di Stravinskij…».
Un guardare il mondo da provinciale?
«Non è una posa. Anzi, mi è stata fatta spesso una sorridente accusa al fatto di essere provinciale. Ma ho sempre spiegato: guardate che tutto sommato la provincia è una passerella di personaggi ben stagliati, per cui diventa abbastanza facile poterne scrivere, poter individuare certe sagome… In questo disco racconto la storia di due provinciali visitati da uno snob che viene dalla città e solo lì, per la prima volta, pronuncio la parola “provincia”…».
Provinciale un po’ dandy?
«Ci sono tre categorie di persone non ordinarie che un pochino si somigliano: l’intellettuale, lo snob e il dandy, a cui mi illudo di appartenere. Il dandy è uno che cerca la bellezza in profondità senza assolutamente tirarsela, come si dice oggi: cosa che fa piuttosto lo snob, che è un parvenu, mentre il dandy è proprio sostanza, è vero».
In questo album si nota una sottolineatura sudamericana. A cosa si deve?
«Ci sono ragioni anche tecniche dietro queste scelte. Io mi sono sempre lamentato della difficoltà della lingua italiana dal punto di vista musicale in senso ritmico, preferendo quindi l’inglese, poi anche discretamente il francese e lo spagnolo. Ma coi ritmi sudamericani la parola italiana riesce a muoversi meglio. Poi ho una certa simpatia per quel poco di spagnolo qua e là che ti dà un po’ di frizzo, ecco. Noi italiani in genere amiamo l’esotismo, e lo spagnolo ci è abbastanza amico. Ma io vado molto indietro, ho sempre cercato l’essenza indigena primitiva: se mi trovo in una città musicale importante, come Vienna o l’Avana o Chicago, cerco di annusare la linfa originaria».
Il Sud America è un luogo dell’ispirazione conosciuto anche fisicamente?
«Sono stato una volta in Brasile, all’inizio degli anni Ottanta. La prima sera, sono stato invitato da amici, abbiamo sentito dei dischi di quegli anni ma non trovavo quel che cercavo, e una ragazza brasiliana mi ha dato una risposta che per un attimo mi ha messo con le spalle al muro. Mi ha detto: noi siamo un popolo giovane, voi siete dei vecchi europei che vogliono sempre il classico… Si sentiva molto moderna».
L’uso di parole tronche («Tropicàl... gerovitàl... virtuàl...») e sdrucciole rende più facile il rapporto con la lingua italiana in musica?
«Dipende dalle frasi musicali, che scrivo prima delle parole. In “Tropical” mi sono detto: le vocali finali le faccio svanire in aria così come si faceva una volta... Le sdrucciole, quando si possono usare mi piacciono. Hanno un loro peso e una loro camminata, ecco».
Il personaggio maschile e solitario di tante canzoni, quello che guarda il mondo dai margini, è anche Paolo Conte?
«Alla fin fine è il mio specchio, anche se non per questo voglio somigliare a me stesso quando scrivo. Io sì, sono solitario, non mi piace la vita sociale, non mi piace la massa, coltivo poche amicizie, vivo fuori dai centri nevralgici metropolitani… La tentazione di vivere in città l’ho avuta, ci sono tante città che mi piacciono, New York, Parigi, ma anche Milano o Torino…, però, che fatica… Forse mi proteggo».
Il poeta-Conte che poeti ama?
«Sempre gli stessi: Gozzano, Caproni, Sbarbaro... Son sempre quelli, anche perché non mi sono aggiornato. Io sono un lettore standard. Thriller scandinavi, che ti entrano da una parte e ti escono dall’altra, però sono confezionati molto bene e scorrono. Naturalmente non mi lascio scappare Camilleri, Vitali o Carofiglio. Con Camilleri ho fatto poca fatica a imparare la sua musicalità, e dopo essermi impadronito di una ventina di parole, mi ritrovo. Tutto sommato mi piace perché ci sono dentro delle parole vecchie, cariche di profumo, che appartengono al siciliano, ma potrebbero appartenere anche al piemontese o al lombardo antico e che fa piacere ritrovare».
Il giornale, la politica?
«Leggo la pagina dello sport, quelle due o tre curiosità. La politica non ci capisco niente, per cui è inutile... Qualcosa leggo, ma proprio non ci arrivo a capire... Trovo che ci sia troppa gente che crede di essere padrona del linguaggio della politica, ma poi chissà se davvero capisce. È tutto da vedere».
Se avesse dei figli, la preoccupazione di guardare come va il mondo sarebbe diversa?
«Può darsi che sì, per proteggere i figli mi terrei più informato, mi servirebbe sul piano organizzativo, della quotidianità. Ma gli insegnamenti che potrei dar loro sarebbero comunque antichissimi: la libertà, la lealtà, cose che travalicano il momento».
Figli a parte, Conte si sente un maestro, uno di quelli che entrano nell’anima?
«Sì, confermo, credo di sì. O meglio lo sarei, perché in realtà non esercito questo mestiere. I miei orchestrali sono tutti più giovani di me e molto preparati, hanno fatto il conservatorio, ma ho l’impressione di averli allevati, di aver insegnato loro certe cose abbastanza segrete lavorando anche di psicologia per colmare il divario dell’età».
Cosa direbbe a un giovane che si avvia alla musica?
«Qualche anno fa ho fatto una lezione ai ragazzi della scuola di composizione del Conservatorio di Torino e mi ero preparato diciamo un decalogo di cose che mi sembravano importanti per qualunque musica. Credo anche di essermi spiegato anche abbastanza bene. Poi alla fine qualcuno si è alzato e mi ha dato un provino di un disco di canzonette di nessun valore, chiedendomi in sostanza come si fa ad aver successo. C’è ancora in parte un rapporto di ammirazione per i maestri, ma bisogna vedere che cos’è davvero l’oggetto di questa ammirazione. Non ho mai ben capito quello che è finto e quello che è vero».

Il Sole Domenica 14.12.14
Non possiamo non dirci naturalisti
Il punto sul naturalismo, la filosofia più vicina alla scienza, dominante nel mondo ma avversata in Italia
Anche da chi si autodefinisce realista
di Carlo Rovelli


Naturalismo senza specchi è un libro complesso, dove uno dei più brillanti filosofi contemporanei, Huw Price, cattedra Bertrand Russell a Cambridge, discute una versione di quella che non è forse la filosofia dominante del nostro tempo: il naturalismo. È una versione che risponde implicitamente a molte posizioni anti-naturalistiche di casa nostra.
Il naturalismo, come scrive Federico Laudisa in un recente volume intitolato appunto Naturalismo, «è diventato un quadro di riferimento generale per molte questioni filosofiche al centro dei dibattiti dell'ultimo mezzo secolo». Come tutte le vaste tendenze di pensiero, non ha una definizione precisa e si declina in una varietà di forme; lo si può caratterizzare come l'atteggiamento filosofico di chi ritiene che tutti i fatti che esistono possano essere indagati dalle scienze naturali, e noi stessi siamo parte della natura. Non è naturalista chi assume realtà trascendenti che possiamo conoscere solo attraverso forme non indagabili dal pensiero scientifico. O chi pensa che esistano due realtà: la natura studiata dalla scienza, e altro. Il naturalismo nasce nel pensiero classico greco, dispiegato in Democrito, rinasce dopo una lunga eclissi nel Rinascimento italiano e si rafforza con i trionfi della scienza moderna. Diventa forte nel diciannovesimo secolo e oggi permea la cultura mondiale. Tesi marcatamente naturalistiche sono state difese per esempio da Willard Quine, uno dei maggiori filosofi del ventesimo secolo. Una delle sue tesi estreme in questo senso è la «naturalizzazione dell'epistemologia»: lo sforzo di ricondurre alle scienze naturali anche le questioni sulla natura stessa della conoscenza.
L'Italia, dopo il Rinascimento, è diventata singolarmente refrattaria al naturalismo, e lo è ancora. Nell'enciclica Quanta Cura, Pio IX condannava ferocemente «l'empio ed assurdo principio del naturalismo». Non siamo più a questi eccessi, ma resta diffusa nel nostro Paese l'opinione prettamente anti-naturalistica che «ci dev'essere "qualcosa" al di là di ciò che si può studiare scientificamente». La refrattarietà al naturalismo si riflette in tutto ciò che ci distingue dalla maggior parte degli altri Paesi. La nostra scuola è strutturata dall'idealismo crociano, i nostri filosofi adorano Heidegger, la nostra stampa e televisione, con poche eccezioni, fanno la peggior divulgazione scientifica del pianeta – si pensi a Voyager –, il nostro Parlamento non eccelle per cultura scientifica. Siamo l'unico Paese dove scuole e tribunali espongono simboli religiosi, e l'unico, oltre forse all'Iran, dove i telegiornali raccontano ogni giorno cosa ha detto il leader religioso locale. Di naturalismo in Italia abbiamo sentito parlare quasi solo quando ci raccontavano a scuola quanto esso avesse fatto soffrire Leopardi...
In questo clima non stupisce che anche i nostri migliori intellettuali si tengano a distanza dal naturalismo. Nel suo libro che pure al naturalismo è dedicato, Laudisa si affretta a scrivere: «Non condivido il grande entusiasmo che manifesta per il naturalismo la stragrande maggioranza dei miei colleghi». Laudisa rimprovera al naturalismo soprattutto di non essere in grado di rendere conto degli aspetti normativi (ed estetici) del pensiero. Più marcatamente, per il retaggio della sua tradizione culturale, Maurizio Ferraris, nella sua pur benemerita crociata illuminista contro le degenerazioni del pensiero che legge tutto come «costruzione sociale», si affretta ad aggiungere nel suo Manifesto: «Non si tratta affatto di dire che tutte le verità sono in mano alla scienza» e a distinguere realtà «naturali», come montagne alberi e stelle, da realtà «sociali», come contratti, valori, e matrimoni. Da tradizioni di pensiero lontane, Laudisa e Ferraris vedono entrambi i limiti del naturalismo là dove inizia il pensiero.
Questa è esattamente la questione da cui parte Huw Price. Price lo chiama il «problema della collocazione» («placement»), e lo formula come la domanda di dove "collocare" nel mondo delle scienze naturali entità come valori morali, bellezza, conoscenza, coscienza, verità, numeri, mondi ipotetici, leggi, eccetera: tutte le entità che sembrano meno compatibili con il mondo descritto dalla fisica.
La risposta di Price è in due passi. Il primo è l'osservazione che linguaggio e pensiero non sono sempre rappresentazioni di qualcosa di esterno. L'osservazione è il cuore della filosofia della seconda fase di Wittgenstein: contrariamente a quanto ipotizzato dalla teoria del linguaggio (da Gottlob Frege, il padre della logica moderna), linguaggio e pensiero fanno ben altro che designare oggetti e proprietà di oggetti. Se guardo il tramonto e dico «che meraviglia!» alla mia compagna, non sto designando un'entità «meraviglia» che sia là, vicina al sole. Sto esprimendo l'effetto del tramonto su di me, rafforzando il legame di vicinanza con la mia compagna, cercando di mostrarle qualcosa della mia intimità, o mille altre cose ancora, nessuna delle quali ha a che vedere con un oggetto esterno «meraviglia». Interpretare le nostre sofisticate e complesse attività linguistiche come affermazioni su una realtà esterna è l'errore che, secondo Price, genera il falso problema del «collocamento».
Il secondo passo di Price è uno slittamento nel succo del naturalismo: porre l'accento sul fatto che noi, esseri umani, siamo parti della natura. E possiamo essere studiati dalle scienze naturali. Price lo chiama «naturalismo del soggetto». Valori morali, bellezza, conoscenza, coscienza, verità, numeri, mondi ipotetici..., non vanno compresi come arredamento metafisico del mondo, né dichiarati «illusori»: vanno compresi come aspetti del comportamento di noi stessi, esseri naturali in un mondo naturale. Questo non toglie la possibilità di studiarli in forma autonoma: un matematico studia i numeri, un filosofo i valori morali. Diritto, estetica, morale, logica, psicologia... sono scienze autonome. Ma i loro presupposti, e le realtà di cui si occupano non contraddicono il naturalismo, perché sono riconducibili alla coerenza generale del mondo naturale, come la chimica è compatibile con la fisica: il nostro pensiero e la nostra vita interiore sono fenomeni reali, generati da creature naturali in un mondo naturale.
Molte vivacissime scienze si concentrano oggi nello sforzo di completare questa intuizione: scienze del cervello, cognitive, etologia, antropologia, linguistica, psicologia... Una sterminata letteratura sta crescendo, dedicata a comprendere noi stessi in termini naturali. Un testo che riassume lo sforzo, la nostra capacità di conoscere, per esempio, è Teoria evoluzionaria della conoscenza di Gerhard Vollmer, da poco tradotto. Moltissimo ancora non capiamo, perché come sempre quello che sappiamo è molto di più di quello che non sappiamo, ma stiamo imparando.
Curiosamente, riportarci alla nostra realtà naturale, che per Price si radica nel pragmatismo e nel rispetto per il sapere scientifico, finisce per riallacciarsi alle intuizioni di Nietzsche, che per altra via sono sfociate negli eccessi del postmoderno: prima di essere animale razionale l'uomo è animale («Sono i nostri bisogni che interpretano il mondo... Ogni istinto ha la sua sete di dominio»); vero, ma anche la nostra ragione nasce da questo magma, e ne emerge come la nostra arma migliore. Su questo intreccio segnalo anche un piccolo libro di diversi anni fa in tutt'altro mondo: Gli istinti dell'uomo di Antonio Balestrieri. Come presidente della Società Italiana di Psichiatria, Balestrieri giocò un ruolo centrale per l'approvazione della legge 180, vanto dell'Italia, che ha chiuso i manicomi liberando l'umanità da grande sofferenza ed è stata copiata nel mondo intero. Con la semplicità di chi con la forza e la debolezza della mente, ci lavora quotidianamente, Balestrieri delinea un quadro per comprendere la rete di relazioni fra istinti e ragione, e tratteggia il percorso evolutivo che ci può aver portato a essere ciò che siamo, esseri di emozioni e di pensieri.
In favore della possibilità di questo naturalismo umile e completo, il libro di Price argomenta con rigore: siamo creature naturali in un mondo naturale; questi termini ci danno il miglior quadro concettuale per comprendere noi e il mondo. Siamo parte di questa natura ricchissima, di cui sappiamo ancora poco, ma abbastanza per capire che è sufficientemente complessa per dare luogo a tutto ciò che siamo, compresa la nostra etica, la nostra conoscenza, il nostro sentire la bellezza, e la nostra capacità di emozionarci. Per un fisico teorico come sono io, abituato a pensare la sterminata distesa di più di cento miliardi di galassie, ciascuna formata da più di cento miliardi di stelle, ciascuna con la sua ghirlanda di pianeti, su uno dei quali non siamo che un fenomeno breve e fugace, granelli di polvere persi nel cosmo sterminato, questa non può essere che un'ovvietà. Ogni uomo-centrismo impallidisce di fronte a questa immensità. Questo è il naturalismo.

Il Sole 14.12.14
Filosofia minima
Ne uccidereste uno per salvarne 5?
Armando Massarenti


«Uccideresti l'uomo grasso?». No caro lettore, molto probabilmente non lo uccideresti. Ma se leggerai il libro di David Edmonds edito da Cortina che porta questo titolo, un piccolo gioiello divulgativo sulla filosofia morale contemporanea, con i suoi intrecci con la psicologia e le neuroscienze cognitive, capirai mille volte di più perché (forse) non lo faresti. L'analisi filosofica ti farà capire mille sfumature diverse, assai fruttuose anche se (forse) confermeranno la tua prima reazione a quella domanda. Il vero tema del libro è ben delineato nel sottotitolo: Il dilemma etico del male minore. Il punto di partenza è l'"esperimento mentale" che la filosofa inglese Philippa Foot escogitò negli anni seguenti la Seconda guerra mondiale, durante la quale Churchill lasciò i tedeschi nella convinzione che i bombardamenti stessero davvero colpendo, come loro volevano, soprattutto il centro di Londra mentre per sbaglio si concentrarono a lungo nella zona Sud: ciò provocò meno vittime, ma queste, a differenza di quelle del centro, erano dovute alla scelta del premier. Ecco dunque il dilemma disegnato dall'esperimento mentale più famoso in campo morale degli ultimi sessant'anni. Immaginate di trovarvi, come l'omino nell'immagine, accanto a un binario e di vedere un treno in corsa che sfreccia verso di voi. I freni non hanno funzionato e voi lo capite al volo. Più avanti ci sono cinque persone legate sui binari che saranno travolte e uccise. Però potete fare qualcosa: per fortuna siete accanto a uno scambio, azionando il quale il treno finirà su una linea secondaria, un ramo deviato, che si trova davanti a voi. Sul ramo deviato però che c'e una persona legata sui binari, che verrebbe travolta e uccisa. Che cosa fareste? Beh, è probabile che azioneste il cambio, come la maggior parte delle persone cui viene proposto il dilemma. Le cose si complicano quando entra in scena l'uomo grasso, in una variante dell'esperimento, cui, nel volume, ne seguiranno altre otto, volte via a via a chiarire le modalità del nostro ragionamento morale e, soprattutto, il ruolo che le emozioni giocano nelle nostre scelte. La situazione è identica alla precedente, solo che invece della leva del cambio c'è un cavalcavia. C'è un uomo molto grasso che sta guardando il treno appoggiato alla ringhiera. Se lo spingeste giù, piomberebbe di sotto e si schianterebbe sui binari. È così obeso che la sua massa farebbe fermare bruscamente il treno. Purtroppo, in questo modo verrebbe ucciso, salvando però gli altri cinque. Dunque la domanda è: si dovrebbe dare una spinta all'uomo grasso? Una percentuale molto alta di persone dichiara che non lo farebbe. In molti, in altre parole, smettono di essere utilitaristi. Per spiegare perché esiste questa differenza entrano in gioco tutti i protagonisti della filosofia morale contemporanea angloamericana: Foot, Thomson, Anscombe, Murdoch, Hare, Williams e poi Haidt, Greene e il Nobel Kahneman. Edmonds guida per mano il lettore mostrando la miriade di casi concreti in cui ci troviamo di fronte a situazioni simili a quelle illuminate dagli esperimenti mentali escogitati dai filosofi – in ambito medico, militare, civile – e perché le loro analisi siano così utili. Una prima chiave è quella che già Tommaso d'Aquino aveva escogitato per chiarire il dilemma della "guerra giusta" con la "dottrina del duplice effetto": nel caso del «Ramo deviato», azionando solo una leva, prevediamo ma non intendiamo causare una morte (questa è l'effetto secondario della decisione di salvare gli altri cinque uomini), nel caso dell'«Uomo grasso» invece lo facciamo con le nostre stesse mani. Ma può bastare questa distinzione per risolvere il dilemma?

Il Sole Domenica 14.12.14
Lettera dalla Cina
Verità sulla strage di Nanchino
Le autorità cinesi chiedono al Giappone di riconoscere e abiurare gli eccidi perpetrati contro la popolazione nel 1937, durante l'invasione giapponese del Paese
di Rita Fatiguso


Solerti funzionari in guanti bianchi prelevano da una cassaforte quaderni ingialliti, rilegati rozzamente e li mostrano, nel silenzio generale, al gruppo di giornalisti stranieri seduto ai tavoli disposti a ferro di cavallo.
È uno strappo alla burocrazia, questa volta, almeno, la testimonianza dei media è più che opportuna ma la tensione è palpabile davanti alle cicatrici della storia: ecco gli archivi di Nanchino, nati nel 1951, 329 volumi, oltre 340mila files, la prova regina dello "stupro" subito nel 1937 dall'allora capitale cinese per mano degli invasori giapponesi.
Pagine fitte di nomi, mappe, codici di guerra, la traccia di un odio senza fine passato di generazione in generazione.
La Cina chiede il suggello del riconoscimento di crimine contro l'umanità proprio attraverso quelle carte che dimostrano l'agonia di un intero Paese.
Quel lampo di odio si è riacceso negli occhi dei presidenti Xi Jinping e Shinzo Abe mentre nella Great Hall of People si scambiavano una storica, gelida, stretta di mano, a chiusura di due lunghi anni di schermaglie a distanza, fomentate da quegli eventi della storia sino-giapponese che dividono ancora profondamente i due Paesi.
Nel dicembre di quell'anno orribile, a partire dal 13, le acque del fiume Yang-tze che lambisce Nanchino in pochi giorni si gonfiarono di cadaveri putrefatti, trecentomila vittime secondo i cinesi, in pochi comunque scamparono all'eccidio. Finita la guerra i tribunali alleati ne contarono 167mila, di morti, ma il punto è che gli studiosi negazionisti si misero a smontare pezzo dopo pezzo l'intera tragedia.
Invano. Ieri la Cina che ha un'inestinguibile sete di verità riconosciuta, ha celebrato la prima giornata nazionale in onore delle vittime di Nanchino, nel luglio scorso ha ottenuto il placet per la candidatura degli archivi di Nanchino nel programma dell'Unesco "Memoria del mondo", ha aperto gli archivi ai taccuini e agli obiettivi dei cronisti stranieri. Vuole che si sappia e che si racconti cosa è successo in quei giorni del dicembre del 1937.
Lanciato nel 1992, il programma punta a conservare gli archivi e i documenti patrimonio dell'umanità, dalla Magna Charta al Capitale autografato da Carlo Marx ai diari di Anna Frank.
I cinesi, che hanno nove richieste pendenti, chiedono di inserire con forza gli archivi di Nanchino, la loro pratica più scottante, nella Memoria collettiva.
Ci vorranno mesi, la valenza politica della candidatura, stigmatizzata subito dai giapponesi che hanno chiesto, inutilmente, a Pechino di fare un passo indietro, è palese.
Il Comitato dell'Unesco dovrà valutare tutte le variabili, "Memoria del mondo" raccoglie manoscritti, documenti rari e registrazioni di storia orale che davvero abbiano una comprovata portata globale. Un sì per la Cina sarebbe vissuto dal Giappone come uno smacco terribile, soprattutto se ricalcasse alla lettera i desiderata cinesi.
La portavoce Unesco Isabelle Le-Fournis conferma che «la Cina ha presentato a base della richiesta documenti autentici, rari e preziosi con significato storico, che soddisfano gli standard di applicazione del programma».
La Cina vuol dimostrare che i fatti di Nanchino offendono l'intera umanità e non trecentomila o 167mila morti, ma i diritti del genere umano a che tutto ciò non accada mai più. Quei quaderni ingialliti devono servire alle generazioni future.
Lo zelo nel mostrare e validare la versione cinese sui fatti di Nanchino è tale da spingere le autorità a chiamare a raccolta sul posto anche i giornalisti, in quel Memorial Hall che mette angoscia, costruito proprio sui luoghi dell'eccidio, sulle ossa delle fosse comuni ormai calcificate in un orribile intreccio e mostrate al pubblico attraverso pavimenti di vetro, quasi fossero le vittime dell'eruzione di Pompei ed Ercolano. Ma la violenza a Nanchino è stata opera dell'essere umano, non di un vulcano capriccioso.
I colleghi giapponesi sono la maggioranza e per loro è una prova particolarmente dura, un pellegrinaggio guidato per due giorni tra un luogo e l'altro di una storia che appartiene a un passato per molti di loro ormai troppo lontano nel tempo.
L'acme è la testimonianza dell'ottuagenaria Xia Shuqin, all'epoca dei fatti aveva pochi anni, è l'unica sopravvissuta con Xu Yao, la sorellina più piccola. Shuqin sta rattrappita su una sedia nel centro del piazzale del Memorial, scoppia in un pianto dirotto quando racconta di aver mangiato per giorni solo briciole di riso, la sua voce è un lamento stridulo, reporter e televisioni registrano, filmano, documentano. Poi c'è la visita alla casa di John Rabe, il dirigente tedesco noto come lo Schindler cinese che ebbe un ruolo importante in quei giorni convulsi e che riuscì a portare in salvo decine di cinesi nascondendoli proprio nel suo giardino, rimasto intatto. Era a capo della zona franca, Rabe, e in Cina è venerato come un santo.
Non è semplice, per loro, per i giapponesi. L'imbarazzo viene nascosto dietro una pragmatica assenza, segno di una palese rimozione. Ci sono fisicamente, ma non sappiamo dove siano realmente e non fanno domande, prendono solo appunti anche delle discussioni più accese che nascono durante i vari incontri con scrittori o studiosi cinesi intenti a perorare la causa storica dell'eccidio di Nanchino. Il più aspro è quello con il curatore del Museo della Memoria, Zhu Chengshan, secondo il quale tutto finirà «quando i bambini giapponesi leggeranno cosa davvero è successo a Nanchino nel 1937».
Perchè la Cina vorrebbe dal Giappone la stessa abiura dei tedeschi sull'Olocausto. Vorrebbe che i libri di testo giapponesi contenessero la loro versione e certamente i giornalisti giapponesi con cui visitiamo i luoghi dell'eccidio di Nanchino non hanno studiato sugli stessi libri di storia cinesi nei quali si racconta ancora dei 300mila morti.
Nessun ente mondiale potrà costringerli ad adottare lo stesso libro di testo sui fatti del 1937.
La sensazione, forte, è che nulla più possa riparare quelle ferite. Al rientro da questa discesa agli inferi della memoria, a Pechino, sulla Janguomen, l'arteria principale della capitale, la Storia sbuca ancora, proprio dietro l'angolo.
Perchè ogni giorno un signore con i capelli bianchi aggancia la sua bicicletta a una balaustra e issa un cartellone con la scritta: "I giapponesi hanno massacrato la mia famiglia".
Non chiede soldi. Nessuno gliene dà. La gente gli lancia un'occhiata frettolosa, continuando a parlare al cellulare, distratta dal presente. Passano e vanno. Lui, ogni giorno, sta lì con la sua bicicletta e il suo cartello. Non vuole dimenticare.

Il Sole Domenica 14.12.14
Cultura islamica di padre Dante
di Carlo Ossola


«Hic incipit liber qui arabice vocatur Halmahereig, quod latine interpretatur: "in altum ascendere". Hunc autem librum fecit Machometus et imposuit ei hoc nomen» («Qui comincia il libro che in arabo si intitola Halmahereig, che in latino significa: "salire in alto". Maometto lo compose, e gli diede tale nome»). Ben prima che Enrico Cerulli pubblicasse, nel 1949, il Libro della scala. La questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia, un grande studioso spagnolo, Miguel Asín Palacios (Saragozza, 5 luglio 1871 - San Sebastián, 12 agosto 1944) aveva posto, con una erudita e vastissima messe di allegazioni, il problema dei contatti tra la struttura della visione di Dante e le tradizioni del l'ascensione o mi'ra-'g´ di Maometto nei regni dell'oltretomba.
Il suo saggio La escatología musulmana en la Divina Comedia, pubblicato nel 1919, suscitò polemiche enormi; non si riconosceva più, nell'autore, il sacerdote pieno di dottrina che aveva edito l'Averroísmo teológico en Santo Tomás de Aquino (1904), bensì un avventuroso e incauto assertore di contatti immaginari, e proprio alla vigilia del VI centenario della morte di Dante (1921). Naturalmente il libro non venne tradotto in italiano, ma trovò un recensore attento nel grande arabista francese Louis Massignon, che gli consacrò, nello stesso 1919, un lungo saggio ora ripreso, da Andrea Celli, nel prezioso volume dello stesso Massignon, Il soffio dell'Islam. La mistica araba e la letteratura occidentale (Medusa, 2008). Asín conosceva i resoconti del viaggio di Ricoldo da Montecroce, ma morì prima di aver potuto vedere l'edizione del Liber de scala, che certo avrebbe portato ben altri suffragi alle sue tesi (esso è ora edito da Anna Longoni, Rizzoli-Bur, 2013). Nei cinquant'anni dalla morte di Asín Palacios proposi all'editore Pratiche di pubblicare il volume (nell'ottima traduzione di Roberto Rossi Testa e Younis Tawfik) e da allora il libro si è ristampato, sino alla presente edizione, nella quale propongo il bilancio di ulteriori vent'anni di indagini. Dalle parallele ricerche di Maria Corti, e poi di più giovani studiosi – da Andrea Celli a Luciano Gargan –, è apparsa evidente l'ampia circolazione occidentale del Liber de scala, sino alla menzione di una copia del Liber de scala nell'inventario della biblioteca di un domenicano bolognese ai tempi di Dante.
Ora non si tratta né di attingere a tipologie intemporali che riunifichino i culti, come fece Frazer, e neppure di voler immaginare filiazioni dirette, bensì – ben vide Maria Corti – ritrovare costellazioni di testi e di senso che circolarono con libertà e influenze reciproche nel Mediterraneo della fine del Medioevo (Mediterraneo oggi irriconoscibile, per fratture e reciproca ignoranza, rispetto alla sua storia plurimillenaria). Si tratta, ancor più, di sceverare ciò che è della "memoria collettiva" di tutte le tradizioni semitiche (ad esempio, il capitolo XXXIII che «parla del Paradiso in cui fu creato Adamo, e dei fiumi che in esso si trovano») da ciò che è più tipico di una tradizione araba che si innerverà in Occidente («Il XXVI capitolo parla di come Dio fece molteplici mondi e creature di molteplici specie»), e dai luoghi che possono aver suscitato l'attenzione di Dante e che ho ampiamente esaminato nell'"Introduzione".
Oggi, nel ripubblicare il volume, occorre riconoscere la funzione storica che il saggio ebbe, e rendere onore a Miguel Asín Palacios, probo e coraggioso nel l'aprire un problema storiografico, che non è spento. I libri servono a suscitare ricerche: e mi auguro che questa edizione, prima che nuovi giudizi, riapra le porte dell'inchiesta storica, sì che rientri il vento delle generazioni che corsero le acque e le terre, come vide Julio Cortázar per la parabola di Marco Polo: «Con il mio nome / ho gettato sulle porte la pergamena aperta» (Marco Polo ricorda).

Miguel Asín Palacios, Dante e l'Islam. L'escatologia islamica nella Divina Commedia,
introduzione di Carlo Ossola, traduzione di R. Rossi Testa e Y. Tawfik, Luni editrice, Milano, pagg. XXX + 686, € 32,00

Il Sole Domenica 14.12.14
Giovanni Gentile
Il ritorno del maestro
Bollato come sterile idealismo, in realtà il pensiero del filosofo siciliano ha affascinato intellettuali come Gobetti e Gramsci che lo consideravano un innovatore cui ispirarsi
di Giuseppe Bedeschi


Su Giovanni Gentile non è mai scesa una coltre di oblio. Recentissimo è l'ottimo libro di Luciano Mecacci, La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile (Adelphi); ed esce ora, per i tipi di Bompiani, un volume, L'attualismo (con introduzione di E. Severino), che ripropone alcune delle opere più impegnative del filosofo siciliano. Ma anche nei passati decenni sono apparsi saggi, alcuni di grande pregio, sulla figura e l'opera di Gentile (penso in primo luogo ai libri di A. Del Noce, G. Sasso, S. Romano).
Quali sono i motivi di questo continuo «ritorno» del filosofo siciliano? Un «ritorno» tanto più singolare, in quanto alcuni degli studiosi più influenti della Prima Repubblica hanno dato su Gentile un giudizio negativo, durissimo. Vale la pena di fare, a questo proposito, un paio di esempi.
Uno studioso di formazione neoidealistica come Eugenio Garin scriveva nel 1955 (nelle Cronache di filosofia italiana) che purtroppo il primato della gnoseologia aveva orientato l'attualismo verso una sorta di «teologia», e quindi non l'aveva fatto gravitare sulla storia, bensì gli aveva fatto risolvere la storia nella filosofia, «ossia nel quadro vuoto del pensiero pensante, che invece di essere concretissimo diviene astrattissimo». Norberto Bobbio, a sua volta, scriveva vent'anni dopo, nel 1975, che la filosofia di Gentile era stata una «cattiva filosofia», e che «una cultura in cui una filosofia come quella di Gentile poté essere portata alle stelle, era una cultura povera, chiusa in se stessa, fatua e al tempo stesso infatuata, senza porte né finestre verso l'esterno, provinciale, consacrata al culto della parola per la parola».
Dunque, secondo questi autorevolissimi studiosi, che dominavano il nostro campo culturale, i conti con Gentile erano definitivamente chiusi.
Senonché, accadde poi qualcosa di inquietante. Infatti si appurò che due eminenti esponenti della cultura italiana della prima metà del Novecento, Gramsci e Gobetti – che (si badi!) sia Garin sia Bobbio proponevano come punti di riferimento fondamentali per l'elaborazione di una «nuova cultura» – erano stati non solo influenzati, ma direi affascinati da Gentile. Nel 1918 Gramsci aveva scritto che Gentile era «il filosofo italiano che più in questi ultimi anni abbia prodotto nel campo del pensiero»; che il suo sistema filosofico era lo sviluppo ultimo dell'idealismo tedesco, culminato in Hegel, maestro di Marx, ed era «la negazione di ogni trascendentalismo, l'identificazione della filosofia con la storia, con l'atto del pensiero in cui si uniscono il vero e il fatto in una progressione dialettica mai definitiva e perfetta». È difficile immaginare, credo, un elogio più convinto e, starei per dire, più commosso di questo.
Quanto a Gobetti, nel 1921 aveva scritto (proprio sulla rivista di Gramsci, «L'ordine nuovo») che Gentile «ha veramente formata la nostra cultura filosofica». E aveva concluso con queste parole: «Quest'insegnamento di vitalità intensa, d'operosità necessaria, di serenità, d'umanità cosciente, scaturisce dall'opera di Giovanni Gentile. Egli ha fatto scendere (anzi, meglio, salire) la filosofia dalle astruserie professorali nell'immensa concretezza della vita». Perciò era giusto riconoscere in lui «un maestro di moralità», e tutta la nuova generazione doveva «ispirarsi al suo pensiero per rinnovarsi».
Quali le motivazioni di questa profonda adesione di Gramsci e di Gobetti a Gentile? In primo luogo, direi, l'interpretazione gentiliana di Marx. Per Gentile, Marx era, nonostante il suo materialismo e in contrasto con esso, un pensatore fondamentalmente dialettico. E ciò perché la chiave di volta della sua costruzione filosofica era il concetto di prassi, che Marx aveva ricavato dall'idealismo. Infatti egli, a differenza di Feuerbach, aveva concepito l'uomo come l'insieme dei rapporti sociali, e la natura come un prodotto del lavoro e dell'attività dell'uomo, della sua prassi.
Ma c'era un altro aspetto (al quale qui posso solo accennare) della concezione di Gentile che affascinava Gramsci e Gobetti: l'identità di filosofia e politica, non solo nel senso che la politica deve chiarirsi a se stessa, e a tal fine deve armarsi di pensiero con l'aiuto della filosofia; ma anche e soprattutto nel senso che non è «più possibile – diceva Gentile – una filosofia degna di questo nome, la quale non s'abbracci alle questioni politiche, e non ne rifletta in sé gli interessi, e non senta la necessità di risolverle nel suo proprio processo».
Una volta assodato che Gramsci e Gobetti (nei quali, ripeto, i Garin, i Bobbio e altri, individuavano i padri di una «nuova cultura») erano stati gentiliani, e che gli stessi Quaderni del carcere di Gramsci erano permeati di concetti gentiliani (gli intellettuali «organici», l'egemonia del «moderno Principe», eccetera), il discorso su Gentile doveva inevitabilmente riaprirsi, al di là delle facili e frettolose stroncature. (Del resto l' «attualismo» suscita interesse anche fuori d'Italia: è appena uscito in Inghilterra un ricco fascicolo della «Review of Collingwood and British Idealism Studies», interamente dedicato al filosofo siciliano).
Giovanni Gentile, L'attualismo, a cura di V. Lo Cicero e con introduzione di E. Severino, Bompiani, Milano,  pagg. 1.486, € 40,00

Il Sole Domenica 14.12.14
Neuroscienze / 1
Misuriamo la coscienza
Un libro di Stanislas Dehaene spiega come un mistero filosofico è stato trasformato in un fenomeno da studiare in laboratorio
di Arnaldo Benini


Il libro del neuroscienziato francese Stanislas Dehaene sul nesso fra i contenuti della coscienza e l'attività nervosa verificabile e misurabile, in parte anticipato in un famoso articolo del 2011, è uno dei testi più importanti degli ultimi anni sui meccanismi della coscienza. L'autore, assieme col suo maestro Jean-Pierre Changeux, ha contribuito alla ricerca con lavori e riflessioni di cui scrive con chiarezza esemplare. La prima parte del libro s'occupa dei meccanismi dell'esperienza cosciente nell'ambito della «Global Neuronal Workspace Theory» dell'attività cerebrale, alla quale aderiscono i maggiori centri di ricerca. Il dato fondamentale è che i contenuti della coscienza, vale a dire ciò di cui diventiamo consapevoli, è la minima parte delle informazioni che vengono elaborate dai meccanismi elettrochimici della coscienza. Solo un evento alla volta diventa cosciente, dopo esser stato trattato da centri anche lontani della corteccia, collegati fra loro da fasci di fibre anche molto lunghe.
Il passaggio dalla fase elettrochimica alla coscienza è segnalato da uno scoppio di attività delle aree prefrontali registrabile nelle risonanze magnetiche e da un'onda lenta ritardata (la P3, «firma della percezione cosciente») della elettroencefalografia. Elaborazioni elettrochimiche provocate da percezioni, riflessioni, ricordi, presenti e attive nei meccanismi della coscienza, rimangono incoscienti pur condizionando l'attività e la riflessione cosciente, cioè la mente. Ciò costituisce quel che Dehaene chiama «il lato oscuro del cervello». La sollecitazione della saggezza greca «conosci te stesso» sembra quindi un ideale irraggiungibile. Fra i meccanismi coscienti e quelli incoscienti non c'è differenza d'elaborazione, ma solo di avvicinamento ai centri prefrontali da cui sorge la coscienza. Dehaene sorvola sulle evenienze per cui un'informazione diviene cosciente a scapito delle altre. L'orientamento generale è di considerare il passaggio alla coscienza un evento regolato dalla distribuzione casuale della scarsa energia del cervello. Così si spiega che a volte ci si immerge in attività e compiti marginali, dimenticando necessità urgenti e gravi. Noi siamo consapevoli solo della piccola parte del nostro essere con la quale identifichiamo la coscienza. Il grande neurologo inglese MacDonald Critchley pubblicò nel 1953 uno studio famoso (The Parietal Lobes) nel quale sosteneva che i lobi parietali avevano un'importanza funzionale ben maggiore di una stazione corticale primaria delle percezioni sensoriali. Gli studi e gli esperimenti nell'ambito della Global Work Space e l'esperienza con casi clinici di lesioni dei lobi parietali dimostrano che essi sono cruciali nell'elaborazione delle informazioni coscienti. L'altra parte del libro va al cuore dell'evento nervoso della coscienza con uno dei temi chiave della ricerca contemporanea. Le molte tecniche della Neuroimaging (visualizzazione del cervello e della sua attività) hanno mostrato e confermato che ogni evento della coscienza (rimpiangere, disprezzare, decidersi, percepire, credere, pregare, imparare, riflettere, valutare, far di conto, ricordare, amare, odiare, gioire, esser tristi, ottimisti o pessimisti, incerti, convinti, fiduciosi o sfiduciati eccetera) è preceduto dall'attivazione di aree cerebrali specifiche, cioè dalla sincronizzazione dei loro neuroni. Il ragionamento con logica deduttiva è preceduto da un'attività prefrontale diversa dal ragionamento per induzione.
Aggiungere o sottrarre una somma a un'altra e pensare a Dio con amore o con timore sono eventi mentali preceduti da attivazioni corticali diverse. Se l'attivazione specifica non c'è, non ci sarà evento cosciente. L'attivazione corticale avviene circa un terzo di secondo prima che la coscienza ne sia informata. Per questo il grande neurofisiologo Gerald Edelman (anch'egli partecipe della Global Work Space Theory) sosteneva che noi viviamo in un «presente ricordato», perché, nel momento in cui ne diventiamo consapevoli, è già trascorso. Se l'esperimento consiste nell'aggiungere o nel sottrarre una somma, o nel muovere una mano, chi esamina la risonanza magnetica sa prima della persona esaminata se essa aggiungerà o sottrarrà, o quale mano muoverà. Il problema è di chiarire se l'attivazione corticale è la causa dell'evento mentale o una correlazione casuale fra la sincronizzazione dei neuroni dell'area attiva e l'evento cosciente. Che ogni evento cosciente sia preceduto da un'attivazione specifica è un indizio pesante, ma non una prova definitiva.
Essa potrebbe essere raggiunta con la stimolazione magnetica transcranica, che, in maniera innocua, spegne l'attivazione corticale circoscritta prima che l'informazione abbia raggiunto la coscienza. In questo caso non c'è evento cosciente, a conferma che esso sembra possibile solo previa attivazione corticale specifica di durata sufficiente. L'esperimento è geniale, ma la prova definitiva non è ancora raggiunta. Rimane poi il mistero di come un'attività elettrochimica, forse casualmente, diventi cosciente. Il problema è talmente arduo (e verosimilmente insolubile per i meccanismi cognitivi del cervello che studiano se stessi) che non si riesce a formularlo in termini coerenti. Ciononostante nessun'altra metodologia s'avvicina al cuore del problema della coscienza in tutti i suoi aspetti come le molte ricerche, e le teorie che su di esse si basano, di cui Dehaene parla in questo libro. Esse, dice l'autore, hanno trasformato un mistero filosofico in un fenomeno da laboratorio da studiare secondo i criteri della scienza sperimentale. Giusto, e, a paragone, le altre riflessioni sulla coscienza sono di un'astrattezza senza plausibilità. Anche la scienza, ovviamente, non va oltre i limiti della conoscenza. Un grande fisico ammoniva che l'aumento dell'isola della conoscenza allunga le coste dell'ignoranza.
ajb@bluewin.ch
Stanislas Dehaene, Coscienza e cervello. Come i neuroni codificano il pensiero, Cortina, Milano, pagg. 442, € 45,00;
Stanislas Dehaene, Jean-Pierre Changeux, Experimental and Theoretical Approaches to Conscious Processing, «Neuron» 70, pagg. 200-227, aprile 2011

Il Sole 14.12.14
Neuroscienze /2
Angelo Mosso, il pioniere
Fu il primo a dimostrare la correlazione tra emozione o calcolo e flusso di sangue nel cervello. I suoi studi sono tradotti solo ora in inglese
di Fiorenzo Conti


Le moderne tecniche di imaging, di cui la risonanza magnetica funzionale è la più nota e utilizzata, hanno concorso in maniera sostanziale allo sviluppo delle moderne neuroscienze, soprattutto di quelle cognitive. Le immagini colorate e spettacolari che vengono generate hanno anche contribuito alla diffusione delle neuroscienze tra i non-specialisti e al dialogo tra neuroscienziati e studiosi di altre discipline, oltre a essere diventate un must ornamentale in molti giornali. Com'è noto, le tecniche di imaging si basano nella maggior parte dei casi sulla misurazione di parametri correlati al flusso di sangue nel cervello, che varia in funzione del grado di attività.
Pochi però sanno che il pioniere di questi studi è stato Angelo Mosso (1846-1910), grande fisiologo piemontese, che negli anni 1879 e 1880 pubblicò Sulla circolazione del sangue nel cervello dell'uomo, la cui versione estesa fu poi tradotta in tedesco (allora la lingua franca della scienza) nel 1881. Mosso ebbe l'opportunità di studiare alcuni pazienti che, a causa di lesioni craniche, gli permisero di osservare le oscillazioni del volume cerebrale determinate dalle variazioni del flusso di sangue in relazione a diverse condizioni fisiologiche. Il più famoso di questi pazienti era un contadino di nome Michele Bertino che fu colpito in testa da un mattone, scivolato dalle mani di un muratore che lavorava sul campanile sotto il quale si trovava il malcapitato, che gli provocò un'importante lesione cranica che lasciava ben visibile la superficie cerebrale. Mosso, allievo di Ludwig e amico di Marey e quindi abilissimo a costruire strumenti di misurazione e di riproduzione di segnali biologici, progettò e realizzò uno strumento adatto a misurare la pressione intracerebrale collegato a un cilindro rotante che permetteva di ottenere un tracciato delle variazioni nel tempo. Bertino fu sottoposto a molti esperimenti, nei quali Mosso fece numerose e interessantissime osservazioni: se Bertino dormiva, il tracciato presentava piccole oscillazioni che aumentano di ampiezza sia quando Mosso lo chiamava, risvegliandolo, sia se si verificava un rumore, per esempio il suono della campana. Ma ancora più straordinaria per il tempo fu la dimostrazione che variazioni dello stato emotivo o l'esecuzione mentale di un calcolo (8 x 22 nel nostro caso) determinavano un notevole aumento di ampiezza delle oscillazioni. Benché Mosso avesse studiato pochi casi (quattro in totale), la conclusione a cui giunse fu chiara: l'aumento di attività cerebrale determinava l'aumento d'ampiezza delle oscillazioni, cioè del flusso sanguigno. Un po' meno colorato delle immagini che siamo abituati a vedere, ma concettualmente la stessa cosa! L'implicazione rivoluzionaria fu ovviamente che si dimostrava la correlazione tra fenomeni mentali (per esempio, l'emozione o l'esecuzione di un calcolo) e fenomeni fisici (l'oscillazione provocata dall'aumento del flusso sanguigno). Mosso quindi precorse anche le neuroscienze cognitive.
Nonostante la fama internazionale di cui Mosso godeva e la diffusione dei risultati dei suoi studi anche nella comunità scientifica anglosassone (le sue osservazioni furono citate da due celeberrimi studiosi, lo psicologo statunitense Henry James e il neurofisiologo inglese Charles Sherrington), il suo libro sulla circolazione cerebrale incredibilmente non fu mai tradotto in inglese. A questa carenza hanno provveduto ora due importanti neuroscienziati contemporanei, Marcus Raichle e Gordon Shepherd, che hanno curato e commentato la traduzione dell'opera effettuata da Christiane Nockels Fabbri per i tipi di Oxford University Press (New York, 2014), impedendo così che la memoria di questo fondamentale passaggio delle neuroscienze rimanesse confinata agli storici della medicina e ai pochi cultori delle neuroscienze capaci di leggere l'italiano o il tedesco. Questo evento editoriale riempie naturalmente di gioia e orgoglio i fisiologi e i neuroscienziati italiani, che vedono riconosciuti a livello internazionale (anche se con quasi 150 anni di ritardo) l'assoluta originalità delle osservazioni di Mosso e il valore della nostra tradizione scientifica. Ma questa felice occasione non riesce a essere (e ovviamente non deve essere) consolatoria e a farci dimenticare lo stato di abbandono in cui versa la ricerca scientifica in Italia: ricercatori (dall'assegnista all'ordinario, senza distinzioni di ruolo accademico) sottopagati (un post-doc negli Usa guadagna più del doppio di un pari grado italiano, un fatto da valutare se vogliamo che i nostri migliori giovani tornino e che le nostre università si "internazionalizzino"); blocco sostanziale dell'assunzione di ricercatori; fondi statali scomparsi (sono due anni che il Miur non bandisce «il Prin», acronimo di Progetti di interesse nazionale, che, pur striminzito, permetteva a tutta l'accademia italiana di provare ancora a competere sulla scena internazionale); e, con poche lodevolissime eccezioni, fondi privati latitanti. Se vogliamo che la grande tradizione italiana di cui Angelo Mosso è solo uno degli esempi non venga dissipata e se vogliamo che la ricerca venga messa nella condizione di contribuire al rilancio del Paese e al suo benessere, come avvenne nella Germania post-unificazione, occorre che la politica cominci a prendere molto sul serio lo stato della ricerca italiana. Gli scienziati, spesso distratti o impegnati e a volte parte del problema, sono a disposizione per lavorare a un nuovo patto tra politica e scienza. Perché non si vive solo della gloria passata.
Angelo Mosso, Circulation of blood in the human brain, con una nota di Marcus E. Raichle e Gordon Shepherd, traduzione di Christiane Nockels Fabbri, Oxford University Press, Oxford, pagg. 202, £ 35,99

Il Sole 14.12.14
Antipsichiatria
La rivoluzione dei «goriziani»
di Massimo Bucciantini


«Qui è notte fonda, su un'isola popolata di fantasmi. Barricata su se stessa, lontana dalla memoria degli uomini». A pronunciare queste parole non è il capitano Willard di Apocalipse now, né il marinaio Marlow in Cuore di tenebra. Siamo in Italia, in una piccola città di provincia, nei primi anni Sessanta del secolo scorso. Ma siamo ugualmente in uno dei luoghi più tenebrosi della terra e quella che si sta compiendo è una vera e propria discesa agli inferi.
A scriverle è Franco Basaglia appena giunto a Gorizia. È l'inverno del 1961 quando decide di lasciare il suo posto di assistente all'Università di Padova – non ci sono cattedre per lui, glielo dicono chiaro e tondo – e se ne va alla fine del mondo, in un luogo dimenticato e senza futuro, dove non ci si passa ma «ci si va soltanto se bisogna andarci». Allora l'Ospedale psichiatrico di Gorizia era «il più periferico, piccolo e insignificante di tutti i manicomi italiani». Abitato da 600 pazienti, la metà dei quali non parlava italiano, era come la città diviso in due dalla cortina di ferro. Il confine tra Italia e Jugoslavia passava proprio tra le mura, i cancelli, le sbarre, i reparti chiusi a chiave del manicomio; come dentro ai suoi bellissimi giardini, sempre silenziosi e deserti, fatta eccezione per la presenza di qualche internato legato a una panchina o al tronco di un albero.
Quando vi mise piede la prima volta, Basaglia si sentì male. «Ritrovava l'odore "di morte, di merda", lo assaliva il ricordo dei sei mesi passati in una prigione fascista a Venezia nel 1944, a vent'anni». Nessuno, in quegli anni, avrebbe scommesso che in un posto simile sarebbe nata una rivoluzione, nessuno avrebbe mai immaginato che da lì sarebbe partita la battaglia contro l'establishment accademico e politico, tanto da diventare in poco tempo uno dei luoghi più visitati da giornalisti, amministratori e medici provenienti da ogni parte d'Italia. E uno dei simboli – insieme all'Ospedale di Trieste – per l'intera generazione sessantottina.
La storia di Basaglia, chiamiamola così per brevità, è stata raccontata più volte. Ma questo libro è per molti aspetti diverso da quelli che lo hanno preceduto. Certo non nasce nel deserto, e fa buon uso di studi recenti (come Franco Basaglia di Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio, o Liberi tutti di Valeria Babini), ma ha caratteristiche che lo contraddistinguono e lo rendono un libro che segna un nuovo inizio. E ciò dipende non tanto dalle informazioni di prima mano provenienti dall'archivio della Fondazione Basaglia o da quello della casa editrice Einaudi, quanto dalla prospettiva con cui l'autore interroga e seleziona le fonti della sua ricerca.
Provo a dirlo in altro modo. Ci sono libri che aprono e libri che chiudono. Ecco, questo è un libro che fa parte del primo gruppo. E vi rientra a pieno titolo perché segna un cambiamento di orizzonte negli studi sulla nuova psichiatria italiana e scava in profondità più di quanto tante biografie dedicate al suo capo carismatico sono riuscite a fare. E vi riesce proprio perché la prospettiva da cui guarda le cose non è "basagliocentrica". La parola è orrenda, lo ammetto, ma ha il pregio di farsi capire: se si illumina di troppa luce il protagonista, il risultato che si ottiene è che il suo cono d'ombra impedisce di vedere tutto ciò che gli sta attorno. Scrive John Foot: «Soltanto se distogliamo una parte della nostra attenzione dalla persona di Basaglia potremo apprezzare davvero la centralità del suo ruolo».
Il libro prende spunto da una foto scattata a Gorizia nel 1967. Attorno a un tavolo, in una stanza dell'ospedale, Basaglia è ritratto insieme ai suoi collaboratori durante una riunione di lavoro. Alcuni, come Giovanni Jervis e Agostino Pirella, sono nomi noti; altri, come Antonio Slavich, Domenico Casagrande e la psicologa Letizia Comba, la moglie di Jervis, lo sono molto meno. A questi vanno poi aggiunti i nomi di Lucio Schittar, Leopoldo Tesi, Giorgio Antonucci e Maria Pia Bombonato. Sono loro i "goriziani", il nucleo principale della squadra che dal 1961 al 1969 lavorò con entusiasmo e senza un attimo di sosta a fianco di Basaglia riuscendo a smantellare, anche se solo parzialmente, quel luogo estremo di segregazione e di annientamento.
Insieme a loro c'era anche Franca Ongaro, la moglie di Franco Basaglia. E le pagine a lei dedicate ristabiliscono un minimo di verità storica sul suo contributo a quella esperienza pilota. Nonostante nutrisse ambizioni letterarie – scrisse fiabe per il «Corriere dei Piccoli» e a più riprese, fino al 1959, inviò senza fortuna i propri racconti per l'infanzia alla Einaudi, e in particolare a Italo Calvino – Franca svolse nel gruppo un ruolo chiave. Oltre a essere traduttrice di testi fondamentali come Asylums di Erving Goffman e autrice di alcuni articoli pubblicati in Che cos'è la psichiatria? (1967), Franca fu molto più di una collaboratrice. «Il disordine istintivo e prorompente delle idee di Franco veniva messa in riga, e in pagina, da Franca». A tal punto che Foot sostiene che tutti i loro scritti sono più da attribuire a lei che a lui. Anche per quanto riguarda il libro più celebre tratto dall'esperimento scientifico goriziano, L'istituzione negata, fu lei a occuparsi della raccolta dei testi e a mantenere i rapporti con Giulio Bollati, dopo che Jervis, apprezzato consulente einaudiano da svariati anni, aveva spianato la strada tra Gorizia e Torino, troncando così i contatti che Basaglia aveva stabilito con Enrico Filippini (che, per inciso, già allora era molto di più di «un dirigente della Feltrinelli», pagina 124). Nonostante il frontespizio riportasse la dicitura «a cura di Franco Basaglia», si trattò di un appassionante e duro lavoro di squadra, anzi con ogni probabilità il "vero" curatore del libro fu Giovanni Jervis. Ma, come osserva Foot, «senza Basaglia non ci sarebbe stata Gorizia. Era la sua creatura, e lui ne era chiaramente il leader».
L'istituzione negata uscì nel marzo del 1968. Al momento giusto. E fu un bestseller: 12.500 copie vendute in quell'anno, 60mila tra il '68 e il '72. Fu il libro di un'intera generazione, che fece di Basaglia un leader indiscusso, e di Gorizia «un riflesso e un motore del Sessantotto italiano».
Ma Foot indaga anche le zone d'ombra, parlando delle divergenze politiche e delle rivalità presenti nel gruppo. Affronta il tema del conflitto sempre più marcato tra Basaglia e Jervis, ma anche quello dei frequenti disaccordi sulle strategie da seguire con gli amministratori locali o sul grado di responsabilità da concedere ai pazienti. Proprio nel momento in cui Gorizia acquistava un rilievo nazionale e diventava, insieme a un altro luogo sperduto, Barbiana nel Mugello, uno dei simboli del movimento, la squadra dei "goriziani" si sfaldò. Da un lato i difficili rapporti con l'amministrazione provinciale, che impediva di proseguire nello smantellamento del l'ospedale, e dall'altro la sempre più debole coesione del gruppo, condussero alla frantumazione e alla dispersione. Il 28 gennaio 1968 Basaglia scriveva allo psichiatra Maxwell Jones, che stava sperimentando una comunità terapeutica a Dingleton, in Scozia, la sua intenzione di andarsene: «Anch'io sono in crisi, (...) sento che il mio lavoro risulta sempre più funzionale all'attuale sistema politico ed economico che non condivido, e devo trovare qualche cosa di diverso, altrimenti non vedrò significato nel farlo». L'anno seguente i coniugi Basaglia lasciano Gorizia per trasferirsi prima a Colorno e poi a Trieste. Negli stessi mesi se ne vanno Slavich, Schittar, Jervis e Letizia Comba. Nel frattempo esperimenti di riforma sono realizzati a Perugia, Varese, Venezia, Napoli, Nocera Superiore, Parma, Bologna, Reggio Emilia, Padova, Pistoia. Poi, nel 1971, sarà la volta di Agostino Pirella ad abbandonare Gorizia per dirigere l'Ospedale psichiatrico di Arezzo – sul colle del Pionta, attuale Dipartimento di scienze della formazione dell'Università di Siena – e continuare così l'attività anti-istituzionale appresa a fianco del maestro.
È stata l'unica vera rivoluzione del '68. E questo libro – oggi, che in suo nome nessuno più combatte delle battaglie politiche – ha il merito di farci capire il valore e i limiti di quella rivoluzione. «È il tempo della tregua storica», per usare le parole dell'autore, che consente di guardare con occhi disincantati quel pezzo importante di storia italiana. Un buon viatico da prendere come esempio e da proseguire, per "aprire" la storia del '68 ad altri e originali punti di vista.

John Foot, La "Repubblica dei matti". Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978, traduzione di Enrico Basaglia, Feltrinelli, Milano, pagg. 376, € 22,00

Il Sole Domenica 14.12.14
I ricordi dell'artista
«Orribile, ma chi è questo?» «Picasso»...
di Jean Jacques Sempé


La mattina che arrivai per la prima volta a Parigi, era il 1959, andai dritto dalla stazione alla casa dell'illustratore Chaval, con i miei disegni sotto il braccio. Aveva vissuto anche lui a Bordeaux, mia città natale, e qualcuno mi aveva dato il suo indirizzo. Suonai il suo campanello alle 7,45. Chaval era in pigiama. «Sai, non ci svegliamo tanto presto qui» mi disse, «e soprattutto... io lavoro di notte. Torna un po' più tardi». Andai a fare un giro. Ritornai alle 8 e un quarto; Chaval era ancora in pigiama. Mi scusai e andai a fare un altro giretto, dicendomi che Chaval non era proprio uno di quelli che viveva in modo veloce... Insomma tornai a suonare a casa sua che erano le nove. Era ancora in pigiama, ma stavolta mi fece entrare. L'appartamento era piuttosto piccolo, e molto scuro, ma aveva un telefono, e questo, per me, era un segno di grande status sociale. Molto gentilmente guardò i miei disegni e mi fece qualche domanda. (...) Ero molto intimidito da Chaval. Penso che all'epoca lui avesse 37 anni e poi avevo visto una sua fotografia in un settimanale che aveva dedicato un servizio – un'intera pagina! – a lui e ai suoi disegni. Mi mise in guardia, dicendomi che era molto difficile vivere facendo solo disegni, e specialmente per chi voleva fare il cartoonist o l'illustratore. Sapevo bene che i miei disegni erano goffi rispetto ai suoi, e, come se non bastasse, mi sentivo molto confuso e insicuro, dal momento che non ero riuscito a trovare un lavoro vero in nessuna delle cose che avevo provato a fare negli anni precendenti.
Celai l'imbarazzo comportandomi un bel po' sopra le righe, non preoccupandomi per nulla di nascondere questo stato d'animo. Anzi: ero così preoccupato che spesso diventavo maleducato. Mentre Chaval guardava i miei disegni un'altra volta, apparentemente rassicurato dal fatto che il servizio militare (mi ero appena arruolato ed era quello il motivo del mio viaggio a Parigi quella mattina) si sarebbe «preso cura di me» per i prossimi due anni, vidi alla parete una riproduzione. Chiesi: «Che cos'è quello?» «È Igor Stravinsky, ritratto da Picasso» anticipò la risposta la moglie di Chaval, anche lei pittrice. «È bello, non è vero?» proseguì. «Mi sembra disegnato molto male» replicai io. Chaval e sua moglie mi fissarono, attoniti, le loro tazzine di caffè sospese di colpo a pochi centimetri dalla bocca. Un po' impazientemente, a questo punto, Chaval mi disse: «Bene. Quando penserai che quello è ben disegnato, allora... avrai fatto un vero progresso».
Scesi le scale, mi sentivo devastato. Ero così malconcio che dovevo far qualcosa per redimermi, almeno ai miei occhi. Chaval mi aveva dato alcuni indirizzi di riviste, e aveva persino avuto la gentilezza di segnare sulla cartina le stazioni della metropolitana più vicina a ciascuna di esse. Mi persi parecchie volte, ma alla fine riuscii a portare i miei disegni alla reception di almeno due riviste. Scrissi il mio nuovo indirizzo sui due portfolio: «Caserma Vincennes». Arrivai finalmente alla caserma verso le quattro del pomeriggio. Mi era stato detto di presentarmi alle 8 del mattino, e così, ecco che mi ritrovai in cella! Succede tutto così in fretta, a Parigi.
***
Quando mostrai a Chaval i disegni per la prima volta, mi chiese se conoscessi l'inglese. Non sapevo una parola. Che peccato, mi disse, ma in ogni caso mi suggerì di guardare la rivista «New Yorker», che conteneva delle eccellenti illustrazioni. Un giorno, così, guardai il «New Yorker»: i disegni che conteneva erano davvero eccezionali.
I disegnatori che lavoravano al «New Yorker» ebbero su di me una grande influenza e la sola idea di pubblicare un giorno dei miei disegni per quella rivista era una specie di sogno hollywoodiano. Ma, nei tardi anni '70, l'art director della rivista, Lee Lorenz, venne a Parigi, si prese alcuni dei miei lavori e... li pubblicò. Un anno dopo, andai io stesso a New York, portando con me molti altri disegni.
Il «New Yorker» ha un grande vantaggio, per un illustratore come me: i disegni delle copertine non sono strettamente legati alle notizie. D'altra parte, i disegni per le parti interne del giornale, mi danno degli enormi problemi: i miei disegni sono, semplicemente, troppo grandi per quelle pagine.
Lee Lorenz era un uomo delizioso. Quel tipo di persona capace di dirti che il tuo disegno non va per niente bene, o che ha bisogno di modifiche, ma lo fa in un modo talmente piacevole che tu ti senti nello stesso modo che se lui ti avesse detto «Ok, mi piace proprio!». Lorenz, anche lui è un illustratore, e suona la cornetta in un club di New York. Parla il francese tanto quanto io l'inglese; per fortuna abbiamo un amico in comune, un altro illustratore del «New Yorker», Edward Koren, che invece il francese lo parla assai bene.
A tutti e tre, ci piace il jazz e ci vantiamo di averne una discreta conoscenza. Una sera così, andiamo insieme in una remota periferia di New York per sentire un pianista, Red Garland, del quale ciascuno di noi aveva qualche disco. Mentre ascoltavamo Garland ci scambiavamo dei commenti, naturalmente. Concordammo che aveva proprio uno stile tutto suo, che il suo tocco e la sua fluidità musicale non potevano essere eguagliate da nessun altro, che il suo suono, insomma, era il famoso e unico «Red Garland sound». Alla fine del concerto andammo a congratularci con lui per la bellissima serata e stringergli la mano. Alzandosi dal piano, si presentò: «Piacere, John Seffert».