lunedì 15 dicembre 2014

Corriere 15.12.14
Pd, il solito dialogo tra sordi dove vince sempre Renzi
di Paolo Franchi


Forse non è stata del tutto inutile, l’assemblea del Pd. Almeno un paio di cose, già abbastanza chiare, adesso sono lampanti. Matteo Renzi, che pure ha rinviato ai mittenti minacce e diktat, si è guardato bene dal comunicare alla minoranza interna, nel caso (probabile) di mancato ravvedimento, l’intenzione di metterla alla porta. E la minoranza interna ha sì protestato, soprattutto con Stefano Fassina, per la rappresentazione «caricaturale» che il segretario-presidente (accusato di puntare alle elezioni anticipate) darebbe delle sue posizioni; ma, con la parziale eccezione di Pippo Civati, ha confermato, e c’è da crederle, che ad andarsene non ci pensa nemmeno. Non è la pace, e nemmeno una tregua. È, piuttosto, un dialogo tra sordi. Una situazione paradossale, nella quale un segretario per antonomasia fortissimo nega ogni disponibilità al compromesso, ma di qualche compromesso avrebbe bisogno per stringere sulle riforme e, ancor più, sull’elezione del nuovo capo dello Stato. E gli oppositori protestano perché vengono trattati alla stregua di gufi, ma sono condannati a una guerra di trincea priva di prospettive. Nemmeno il calo di consensi per Renzi e il suo governo, parallelo, a sinistra, al crescere di una protesta sociale di cui è stato espressione lo sciopero generale, sembra rafforzarli più di tanto, perché non sono portatori neanche dell’abbozzo di un progetto e di un’idea di sinistra in grado di intercettarla. Contro Renzi gioca lo scarto vistoso tra la magniloquenza delle promesse e la realtà delle cose. Contro i suoi avversari, gioca il fatto che sono percepiti, a sinistra, come i protagonisti e le comparse di una lunga stagione di sconfitte: il loro tempo lo hanno già avuto, e ben pochi lo rimpiangono. Le cose stanno così. Quanto a lungo potranno restarci, naturalmente, è un altro discorso, che i convenuti all’assemblea del Pd non hanno nemmeno iniziato.

Corriere 15.12.14
Tra gli scissionisti a fasi alterne: con questi numeri, chi spaventiamo?
di Fabrizio Roncone


L’ala critica La minoranza dem ieri in assemblea. Dall’alto: Stefano Fassina sul palco(Mistrulli); Gianni Cuperlo e Alfredo D’Attorre durante i lavori (Ansa); Pippo Civati all’ingresso dell’Hotel Parco dei Principi (Inside) Il racconto di Fabrizio Roncone ROMA Dopo due ore abbiamo tutti capito che anche questa assemblea del Pd sarebbe finita nel latte e nel miele (è vero che poco fa Stefano Fassina gliel’ha cantate per bene, a Renzi, ma con voce emozionata in falsetto e facendo molta attenzione a non tirare troppo la corda).
Delusione in sala stampa.
E l’annunciata resa finale dei conti?
E la scissione della minoranza?
Non doveva essere una domenica bestiale?
Siamo nei sotterranei di un albergone dei Parioli, stoffa alle pareti e corridoi con la moquette. Il passo di Pippo Civati è più felpato del solito. Ha sempre questa andatura, quando ti viene incontro, mette sempre su questo contegno solenne di uno che sta per annunciare qualcosa di enorme e definitivo. Ma nemmeno oggi è la volta buona.
«Sa quanti sono i cosiddetti civatiani in Parlamento? Ce ne saranno 7 alla Camera e altrettanti al Senato... Posso condizionare un partito con questi numeri? Dove vado? Chi spavento?».
No, Civati, perdoni: ma lei, appena poche ore fa, aveva addirittura annunciato la nascita di un nuovo partito...
«Piano piano... Eh eh... correte troppo voi giornalisti...» (bisogna dire che è quasi impossibile perdere la pazienza con Civati: perché ti parla e ti guarda come se fossi il suo compagno di banco al liceo).
Capito: comunque questo giochino di non mantenere mai le minacce, è un giochino che non funziona più.
«Ma non è un giochino. Non è colpa nostra la deriva di Renzi. È lui che ora vuol abolire l’articolo 18, è lui che insulta il sindacato... Vede, noi e i bersaniani, i dalemiani e i cuperliani... tutti noi insieme manifestiamo un grande disagio e quindi...».
Quindi, in caso di elezioni, darete vita a un nuovo partito?
«Intanto, io potrei anche restarmene a casa. E poi, no, chiedo: lei è sicuro che Renzi ci porterà a votare?».
Va bene, okay: le segnalo che prima, sopra, all’ingresso, le hanno chiesto se non teme di fare la fine di Morgan a «X Factor». La faccenda del «resto nel partito o vado via» sta diventando comica.
«Ha sentito però cosa ho risposto? Ho risposto che Morgan, comunque, è uno piuttosto figo... Ah ah ah!».
Civati la butta sul ridere. Massimo D’Alema è invece rimasto a casa («Non ho intenzione di farmi minacciare da Renzi»). E a casa resta anche Pier Luigi Bersani («Ho un tremendo mal di schiena»). Rosy Bindi ha preferito andare a farsi intervistare negli studi di Sky .
Saggiamente, a metà mattina, Gianni Cuperlo propone di «accantonare la parola scissione». Chiaro, netto. Passa Nico Stumpo: un puma. Passa Francesco Boccia, si volta e fa: «La conta? La conta non conta perché i numeri sono quelli». Una giovane cronista rilegge gli appunti, alza la testa e chiede: «Ma che significa?». I fotografi cercano Felice Casson (area Civati). « Nooo... Nun ce credo: davero nun è venuto?».
Riappare Civati (è una vecchia tecnica, quella di passeggiare nelle vicinanze della sala stampa: c’è sempre una telecamera accesa, può sempre scapparci un’altra intervistina). Però forse adesso è più interessante ascoltare la capriola retorica di Alfredo D’Attorre. «Basta nemici immaginari! Segretario... devi ringraziarci!».
Dovreste vedere la faccia di Matteo Renzi. Certe facce, il premier-segretario, sa farle benissimo. Adesso ha la faccia di uno che pensa: ma questo dice sul serio o scherza? Da mesi minacciano di spaccare il partito e ora mi chiede di ringraziarlo? Non scherza Fassina. Anche lui si rivolge direttamente a Renzi: «Non ti permetto più di fare la caricatura di chi la pensa diversamente da te!». La voce gli va giù, come in un lieve tremore. Tutti riconoscono a Fassina sincerità intellettuale e passione politica. Ora appare tragicamente, teatralmente solo sul palco: così, probabilmente mossi da simpatia personale, applaudono anche alcuni renziani.
L’atmosfera è definibile serena.
Renzi ha un mucchio di pensieri più seri (e infatti spedisce sms in continuazione).
Poi si sente una voce piuttosto alterata.
Chi è che urla? È Roberto Giachetti, guardia scelta del renzismo, vicepresidente della Camera, deputato di grande esperienza e notevole pragmatismo che, avendo studiato dai radicali, a volte si fissa con le questioni di puro principio.
«No, dico: questi devono smetterla! Capitooo? Chi fa più opposizione: Fassina o Romani di Forza Italia? La Bindi o Brunetta? E basta, e non scocciate, e fateci lavorare...» .

Repubblica 15.12.14
“Buon Natale” dopo gli insulti arriva l’ora della tregua
Resa dei conti e minacce di scissione escono di scena, almeno per il momento
Al Parco dei Principi si ripropone il solito palinsesto del premier-leader di partito, che finisce per avere la meglio sui suoi oppositori interni
di Filippo Ceccarelli


«BUON Natale di cuore a tutti noi» si congeda il segretario- presidente Renzi e se da una parte suonava come un augurio gentile, cosa abbastanza rara per quel genere di leadership, dall’altra era il segno che l’Assemblea del Pd finiva inesorabilmente a panettone e spumante.
L’inedito e premuroso congedo è calato sulla vaporosa moquette dell’hotel Parco dei Principi, tra damaschi, palmette e stucchi marini, peccato solo che la sala non fosse addobbata per le feste, il Partito del Buon Natale è insieme una necessità e una scorciatoia perché poteva anche essere un cattivo Natale, invece niente. Niente scissione, niente dissoluzione, facciamo passare le feste, poi si vedrà.
All’inizio hanno messo «Fratelli d’Italia». Per non far rimpiangere «la ditta» Renzi ha esordito: «Se fossimo un consiglio d’amministrazione...». Camicia bianca, ormai più uniforme che costume di scena, comunque segno di distinzione. I dirigenti indicati per nome: Sergio, Stefano, Luciano, là dove l’intimismo confina con l’auto- referenzialità del giro stretto. Quindi delineato il palinsesto di giornata, le bandierine di Emilio Fede, i forconi a “Chi l’ha visto?”. Fuori misura la excusatio di genere, «non potevamo mandare Gentiloni a Casablanca», esempio di ilare berlusconismo senza Berlusconi. Prevedibile che l’Italia sia un grande paese, mentre i gufi (sempre meno gettonati) ne vedono solo le sfighe.
Il solito Renzi, forse troppo «solito», nel senso che comincia a ripetersi. Le stesse immagini (il cantiere e i criticoni), il consueto storytelling («tu operaio», «tu famiglia di Piombino»), l’abituale trucchetto delle auto-obiezioni («Ma come, Matteo?»), per il resto il giovane premier fa le facce, fa le imitazioni (ieri ha masticato per finta gomma americana), fa le smorfiette, fa le pause e poi insegue con lo sguardo le preziose parole appena pronunciate. Insuperabile nel dar corpo all’evanescenza e a darci dentro con i superlativi, «il più straordinario».
Napolitano è stato convenientemente salutato. D’Alema non è venuto, per oltraggio. Bersani nemmeno, ma perché aveva il mal di schiena. Bindi è arrivata dopo. D’Attorre è stato diplomatico, Cuperlo molto forbito, Fassina agitatello, rosso in volto, però efficace. Civati non ha preso proprio la parola. Nel complesso è venuto fuori che Renzi è parecchio più bravo dei suoi avversari, i quali si pedinano per scavalcarsi l’un l’altro. Il guaio vero, però, è che Matteo, per dirla malamente, è troppo meglio del suo partito. Ma talmente troppo che viene quasi da chiedersi se serve davvero, un Pd come questo, o se al contrario Buon Natale e buone feste.
Certo che a sentirsi 35 interventi - con le dovute eccezioni - si resta abbastanza delusi dalla mancanza di fantasia lessicale (il passaggio sempre «delicato», la crisi «drammatica», la fase «difficile»), oltre che da una sintomatica clonazione pappagallesca, per cui Renzi dice «non andrò col cappello in mano», o «basta guardarsi l’ombelico», e molti se la rigiocano.
A una diffusa povertà propositiva (si salva l’architetto Boeri), forse inevitabile in un partito dove decise uno solo, corrisponde il fatto che tutti invocano il leader «Matteo!», «Matteo!» - come una sorta di Deus ex Machina; ma più ieri lo invocavano, più lui sembrava perso nei suoi dispositivi elettronici; solo quando Gad Lerner l’ha contestato per l’assimilazione tra il lancio di uova e le crêpes, Renzi si è ridestato, con flebili proteste.
Questa assemblea non si doveva tenere qui, ma a Reggio Calabria. Poi siccome quella città era lontana e scomoda gli improvvidi organizzatori l’avevano ambientata nel Salone delle fontane dell’Eur, dove senza troppi filtri s’erano raccolti i soldi degli imprenditori e avevano proiettato sul travertino le luminarie bianche rosse e verdi del Partito della Nazione. Ma poi quello s’è rivelato un postaccio, per via degli imbroglioni del mondo di mezzo, e allora in fretta e furia hanno trasferito l’assemblea ai confini dei Parioli.
Qui, anche in vista del Natale, il Pd ha mostrato di non voler far penitenza, solo un po’ d’autocritica per i maneggi capitolini: brogli, forzature, rom in fila per le primarie, candidati ricconi e tirchi, circoli poverissimi. Eppure l’intervento di Cristina Alicata, che invano aveva denunciato solo una piccola parte di quel malcostume, è stato fra i pochissimi che meritavano ascolto. Lei era anche emozionata, forse perché pochi di quelli che l’ascoltavano allora le hanno rivolto una buona parola.
Quasi più interessanti le cose non-dette di quelle stra-dette. Sul caso straordinario del sindaco Marino, prima votato, poi rigettato, poi resuscitato, non si è avuto il bene di ascoltare una sola parola. E dopo ben cinque ore, grazie al compagno Verducci, è risuonata l’espressione «patto del Nazareno».
I giornalisti non potevano girare. Solo televisori in sala stampa e inutile gabbia deserta in fondo alla platea. Regia piuttosto disattenta: le riprese restituivano volti sconosciuti, qualche selfie, sedie vuote, penombra e noia riscattata dal tòctòc della presidenza per sollecitare la chiusura dei cinque minuti (ma i notabili sforavano). A tratti è parso di sentire voci nel deserto, anche da parte di quelli che s’erano preparati la trovatella a effetto. Speranza e le lacrime dei deputati in commissione Affari costituzionali; Andrea Romano e il caciocavallo di Labriola; Epifani e l’obelisco di San Pietro; quando Gennaro Migliore ha evocato la conferenza di Lima si è interrotto l’audio.
Nella replica Renzi, davvero in vena di bontà, ha inteso «ringraziare con un sorriso», dopo di che si è trovato a fluttuare tra don Milani e Valerio Scanu, l’inusitato kairòs e l’immancabile sogno. Comunque buon Natale.

Repubblica 15.12.14
Pd alla resa dei conti, ma lo scontro si ferma davanti allo spettro della scissione
Le sedie vuote di D'Alema, Bindi e Bersani. Fassina urla contro Renzi ma solo Civati sembra pronto a fare le valigie
Confronto serrato all'assemblea Dem, ma con attenzione a non deflagrare. Anche nelle parole del segretario-premier
di Giovanni Cedrone

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La Stampa 15.12.14
Da Renzi mano tesa alla minoranza Pd
Il premier all’assemblea sceglie toni soft ed evita strappi. Ecco perché
di Fabio Martini

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il Fatto 15.12.14
Fassina accusa il segretario:“Non permetterti più”
Ma Renzi tira dritto
di Wanda Marra


“Io da piccolo volevo cambiare il mondo, non fare la moviola”. Assemblea Pd, Hotel Parco dei Principi a Roma. Matteo Renzi, in maniche di camicia (bianca ovviamente), conia la metafora che è insieme rivendicativa nei confronti delle minoranze. Ma anche amara. Perché più che a passo di marcia, gli tocca andare al rallentatore. E alla fine della giornata, all’attivo del segretario-premier, non ci sono espulsioni, né sanzioni, ne per i “ribelli”.Non c’è neanche la conta finale su una relazione, che dice poco.
DALL’ALTRA parte, non c’è né l’Aventino (D’Alema non è venuto per non farsi insultare, Bersani diserta a casa di un mal di schiena, ma gli altri sono presenti), né strappi espliciti e definitivi. Stefano Fassina si conquista applausi entusiasti della platea quando urla in faccia al leader: “È inaccettabile, non ti permetto più di fare caricature di chi non la pensa come te. Se vuoi andare a votare, dillo”. Ma non parla di scissione. Non è una battaglia campale quella nel Pd, è una guerra di trincea. Maggioranza e minoranza si muovono da separati in casa, costretti a rimanere insieme, per ragioni di opportunità e di necessità. La prima, l’elezione del presidente della Repubblica, ormai alle porte. Passaggio di basso profilo nell’intervento di Renzi: “Io non sono preoccupato, questo Parlamento sarà nelle condizioni di eleggere il capo dello Stato quando sarà il momento. Non è il momento per evocare paure e minacce”. Ci pensa Berlusconi a metà della riunione del Pd a farlo: “Il Colle è nel Patto del Nazareno”. Smentita ufficiale alle telecamere del vicesegretario, Lorenzo Guerini, presente a tutte le riunioni tra Matteo e Silvio. E però, quello che suona come un altolà da parte del Cavaliere arriva a compromettere un equilibrio delicatissimo: il premier ha bisogno della minoranza, con la quale sta trattando, a partire da Pier Luigi Bersani (al quale lascia persino coltivare qualche illusione sulla sua persona), finito su una inconsueta linea di dialogo negli ultimi giorni. Tra critiche della magistratura alle nuove misure anti-corruzione, legge elettorale che questa settimana arriva al voto in Commissione al Senato nella più totale confusione, riforme costituzionali appena licenziate dopo un corpo a corpo estenuante tra renziani e “dissidenti”, la giornata di ieri è uno show, senza showdown. Renzi apre i lavori parlando quasi per un’ora. Critiche al passato. Non si capacita di “come si possa aver perso venti anni di tempo senza aver realizzato le promesse” che l’Ulivo aveva indicato in campagna elettorale. Filosofia chiave: “Siamo quelli che cambiano l’Italia, non quelli che si mettono a mugugnare su chi cambia l’Italia”. Ammonimento/avvertimento: “Tutti quelli che stanno nel Pd devono avere l’onestà come elemento fondamentale”. Ironia ai danni della magistratura: “L’indignazione e lo schifo non ci bastano. Io chiedo ai magistrati di arrivare velocemente ai processi. Devono parlare un po’ di più con le sentenze e un po’ meno con le interviste”.
L’AFFONDO interno arriva alla fine: “Il Pd non starà fermo per i diktat della minoranza. Sia chiaro che si farà ogni sforzo per il dialogo fino all’ultimo giorno, ma non staremo nella palude per guardare il nostro ombelico”. Ma è un affondo di rito, lo stesso che il segretario replica ormai ad ogni riunione dem. Rimasta sul tavolo anche la pistola carica dei conti delle vecchie segreterie. I dossier sono pronti, ma meglio non scaricare tutte le munizioni subito. E poi, a scoperchiare il vaso di Pandora, non si sa mai cosa si trova. Attesa per la replica della minoranza. Anzi delle minoranze, che nella migliore tradizione procedono divise. Per usare gli aggettivi di Fassina il “raffinato” Cuperlo si limita all’analisi ( “Le piazze non diventino il nostro nemico”) e il “diplomatico” D’Attorre vorrebbe un grazie per il lavoro fatto in Commissione alla Camera. Fassina, appunto, è l’unico che va all’attacco. Civati non interviene e parla di una scissione. Ma futura. Se si vota. La Bindi passa e poi va in tv a rivendicare la grande tradizione dell’Ulivo. Nella replica Renzi si rimette la giacca. A Fassina risponde ribadendo l’orizzonte di legislatura: “Non ha senso votare a ogni intoppo”. Alla Bindi: “Contrasto il racconto mitologico e nostalgico dell’Ulivo quando quella esperienza è stata mandata a casa dai nostri errori e dalle nostre divisioni”. Chiarisce: “Non sono affezionato a un principiodi obbedienza, in un partito sta insieme sulla base del principio di lealtà”. Chi si aspettava qualche cedimento è rimasto deluso. Più deluso ancora chi conoscendo Renzi vedeva maturo il tempo degli strappi. Di questi tempi, come in ogni matrimonio di convenienza, rompere è un lusso.

il Fatto 15.12.14
Fassina
Il nemico interno
“Niente scissioni ma il premier sbaglia tutto”
intervista di Wanda Marra


La replica? È stata peggio dell’intervento. Anche perché Renzi ha spostato tutto il discorso sul sindacato, mentre quello che gli dicevo io è che il Pd non rappresenta più i lavoratori”. Stefano Fassina, ex responsabile Economia del Pd di Bersani, ex vice ministro di Letta, è l’uomo del giorno. In un’assemblea caratterizzata da toni bassi e minacce felpate, è salito sul palco a metterci la faccia. E ha urlato al segretario premier: “Il presidente del Consiglio cerca giustificazioni per un voto anticipato. È inaccettabile la delegittimazione morale e politica di chi ha posizioni diverse dalle tue: io non sto in Parlamento per gufare ma per esprimere un punto di vista costruttivo”. Una vera e propria invettiva: “Non accetto caricature, la minoranza non fa diktat nè il congresso anticipato. Se vuoi andare a elezioni dillo, assumiti la tua responsabilità e smettila di scaricarla su altri”. Ma se si aspettava cedimenti o aperture, nella replica del segretario non sono arrivati.
Onorevole Fassina, e adesso?
Adesso continuiamo a fare opposizione dall’interno nel merito, in Parlamento.
Molti la danno sulla via della scissione. Se ne va?
Non è nei miei progetti. Il mio impegno è nel Pd.
A Civati che pensa ad andarsene, cosa dice?
Che il Pd è il nostro partito.
Berlusconi ha svelato che nel Patto del Nazareno c’è anche il presidente della Repubblica. Cosa ne pensa?
Non mi stupisce. Ma il nuovo capo dello Stato dev’essere eletto con una larga convergenza, insieme anche a Cinque Stelle, Lega e Sel.

La Stampa 15.12.14
4 domande a Stefano Fassina
«Il segretario ha confermato l’indisponibilità ad ascoltare»
intervista di Francesca Schianchi


Poco dopo il suo acceso intervento dal palco, Stefano Fassina, addentando un tramezzino, smentiva qualunque tentazione di scissione: «Eh no, se volessi uscire dal Pd non mi sarei inca…to così tanto!». Subito dopo la replica del segretario, esce tra i primi con la faccia scura.
L’ha rassicurata la risposta di Renzi?
«Al contrario. Piuttosto che così, era meglio non parlarne. Nella replica non ha raccolto nessuno dei punti che abbiamo evidenziato, ha continuato a fare caricature».
Perché caricature?
«Nessuno vuole fare da cinghia di trasmissione della Cgil, e nessuno ha mai pensato di trasformare l’Assemblea del Pd nell’Assemblea della Cgil. Il punto è che milioni di persone che avevano creduto nel Pd si stanno allontanando perché vedono una deriva che disconosce il valore del lavoro e si avvicina agli interessi forti. E poi sul piano politico interno non ci siamo».
Cosa intende dire?
«C’è un disconoscimento del contributo che ognuno di noi vuole dare. Renzi allude a chi non ha chiaro che è il momento del cambiamento: ma il cambiamento deve essere progressivo, non regressivo».
Con quest’Assemblea migliora qualcosa nel rapporto tra minoranza e maggioranza?
«Non mi pare. Anzi, temo si confermi l’indisponibilità all’ascolto».

il Fatto 15.12.14
B. e il “patto”
“Matteo ricordati: il Quirinale è nel Nazareno”
di Sara Nicoli


Non vede l’ora di riconquistare la sua agibilità politica per rituffarsi nell’agone di una campagna elettorale a primavera che lui dà ormai per scontata. Ma fino a quel momento, quando saluterà gli anziani di Cesano Boscone (succederà “il 15 di febbraio – dice - e ci sarà un cambio assoluto nel modo di relazionarci con gli elettorio”) resterà fermo, ma vigile, nella sua posizione di contraente del Patto del Nazareno. Una visuale di assoluto privilegio per Berlusconi. Anche ieri ha fatto capire il perché, con una frase che è arrivata come una secchiata di acqua gelata sugli spiriti fin troppo bollenti che si stavano confrontando nel catino della direzione Pd. Al telefono con i club dell’Emilia Romagna, riuniti a Imola, il Cavaliere ha buttato lì una frase tutta diretta a Renzi: “È logico – ha detto - che non potrà essere eletto un Capo dello Stato che a noi non sembri adeguato all’alta carica che dovrà ricoprire". Che nessuno s’immagini, insomma, che Berlusconi sia politicamente sepolto. E che, soprattutto, non voglia prendere parte attiva in una partita così importante come quella della successione a Napolitano. Dalla quale potrebbe anche dipendere la sua speranza di ricevere un giorno l’agognata grazia. E ancora: per dare un segnale inequivocabile al suo principale interlocutore (il Pd renziano), Berlusconi ha fatto chiaramente capire - come se non fosse noto – che uno dei puntelli del Patto è proprio la condivisione di un nome per il Colle, anche se poi, per rinfrancare le sue truppe un po’ stanche, ha puntualizzato: “Non potevamo dire no al patto del Nazareno, un patto che ci dà tanto fastidio, perchè non ci fa fare opposizione vera e ci crea problemi all’interno. Ma come facciamo a dire di no alle riforme che consentono il bipolarismo e il superamento del bicameralismo? ”. Già, come si fa.
CHIARO CHE, subito dopo queste dichiarazioni, nel Pd è partita la gara alla smentita di facciata. Prima è arrivata Debora Serracchiani, subito dopo è stata la volta di Lorenzo Guerini: “Non c’è nessun accordo nel patto del Nazareno che riguarda l’elezione del presidente della Repubblica. Quando sarà il momento, costruiremo un percorso in Parlamento parlando con tutte le forze politiche, come abbiamo sempre detto”. Intanto, però, Berlusconi ha già messo una pesante ipoteca su quel prossimo, delicato passaggio parlamentare. E non solo con le parole di ieri. Come svelato dal Fatto il 2 agosto scorso, nel Patto del Nazareno c’è una clausula, sottoscritta da Renzi e Berlusconi, per escludere a tutti i costi la nomina di Romano Prodi. Il Cavaliere, insomma, vuole essere assolutamente certo di non trovarsi al Colle qualcuno che pregiudichi anche la sopravvivenza stessa di Forza Italia, un partito oggi in default economico con gli ultimi 50 dipendenti messi da qualche giorno in cassa integrazione. “Oggi nessuno di noi, con quel che succede, può essere sicuro dei suoi diritti, dei suoi beni, perfino della sua libertà – ha concluso Berlusconi - dobbiamo cambiare il nostro Paese, dobbiamo uscire dall’oppressione fiscale, burocratica e giudiziaria in cui ci troviamo”. Frase da campagna elettorale, certo. Ma prima c’è da nominare il successore di Re Giorgio. E Silvio vuole essere uno dei protagonisti assoluti.

Corriere 15.12.14
«Il Nazareno vale per il Quirinale»
Berlusconi agita la maggioranza
La rivelazione del Cavaliere e le smentite della segreteria pd
Riforme in salita
di Paola Di Caro


ROMA Lo dice con sincerità disarmante, Silvio Berlusconi: il patto del Nazareno a Forza Italia ha portato nell’immediato più guai che altro, anzi «ci ha dato e ci dà tanto fastidio» perchè «ci ha impedito una opposizione vera su tutto, ha creato delle difficoltà al nostro interno, ha confuso il nostro elettorato». E però, spiega in collegamento telefonico con un convegno azzurro a Imola, quell’accordo — mai seriamente da lui messo in discussione nonostante i mugugni dei suoi — va mantenuto. Per almeno due buoni motivi. Il primo è una questione di coerenza: «Come facevamo a dire di no a delle riforme che erano e sono le nostre riforme?». Il secondo è ancora più decisivo: la conseguenza «logica» del patto del Nazareno è che «non potrà essere eletto un capo dello Stato che a noi non sembri adeguato all’alta carica istituzionale che deve ricoprire». Insomma, è un’assicurazione sulla vita e soprattutto è un vincolo che, scritto o non scritto che sia, Renzi dovrà rispettare.
Che Berlusconi la pensasse così non è un segreto per i suoi, anzi è la ragione per cui finora si sono dovuti ingoiare bocconi amarissimi sia sulle riforme sia su una legge elettorale che continua a cambiare in senso sempre peggiorativo per Forza Italia. Ma, nonostante le proteste dei vari Brunetta, Fitto, Capezzone e non solo, mai è venuto a mancare il sostegno a Renzi, mai si è alzata davvero la voce. Adesso è chiaro a tutti il perché: il capo dello Stato riveste un’importanza decisiva, anche se Berlusconi si dice comunque convinto che la sua agibilità politica sia comunque a un passo: «Dal 15 febbraio la riconquisterò» dice riferendosi alla fine dell’obbligo di prestare la sua opera per i servizi sociali al quale è sottoposto e il suo ritorno in campo sarà «un cambio assoluto nel nostro modo di relazionarci con gli elettori».
Peccato però che la rivelazione del Cavaliere metta parecchio in difficoltà il Pd. Che con due big della segreteria, Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini, replica a brutto muso all’avversario. «Se la scelta del capo dello Stato è nel patto del Nazareno? Assolutamente no — dice la prima —. Nel patto ci sono impegni importanti come le riforme costituzionali e istituzionali». Altrettanto netto l’altro vicesegretario del Pd: «Non è vero, non c’è nessun accordo nel patto del Nazareno che riguarda l’elezione del presidente della Repubblica. Quando sarà il momento costruiremo un percorso in Parlamento parlando con tutte le forze politiche, come abbiamo sempre detto». E Angelino Alfano, da parte sua, avverte: «Sul Quirinale speriamo che Renzi non la ponga in termini di partito. Noi vogliamo uno che rappresenti tutti, crediamo che l’unto dal signore debba venire da fuori».
Insomma, la questione resta delicatissima. E non a caso Berlusconi nelle scorse settimane aveva cercato di cautelarsi: «Prima votiamo il nuovo capo dello Stato, poi andiamo avanti sulle riforme....». Richiesta respinta da Renzi, ma che ancora aleggia, e rende il cammino delle riforme meno rapido di quello che il premier vorrebbe. Forse, più accidentato.

Corriere 15.12.14
La base dem: a Roma tutti responsabili
Colpe trasversali dei partiti nell’inchiesta su Mafia Capitale per 3 elettori su 4 del Pd Scetticismo anche sulla pulizia annunciata dal premier: in pochi pensano che ce la farà
di Nando Pagnoncelli


Sono trascorsi quasi sessant’anni dalla celebre inchiesta di Manlio Cancogni sull’ Espresso intitolata «Capitale corrotta, nazione infetta» e nulla sembra cambiato, nonostante il nostro Paese sia profondamente diverso rispetto agli anni Cinquanta.
L’inchiesta Mafia Capitale sta producendo reazioni pesantissime nell’opinione pubblica, già scandalizzata dalle indagini Expo e Mose. L’indignazione e la tendenza a generalizzare sono largamente diffuse e rischiano di accentuare i sentimenti di antipolitica e di sfiducia dei cittadini, nonostante il forte richiamo del presidente Napolitano che ha definito l’antipolitica «patologia eversiva», facendo appello a una maggiore moralità in politica e severità nei confronti dei corrotti.
Ciò che colpisce maggiormente dello scandalo romano è che in un ventennio caratterizzato da un duro scontro tra destra e sinistra nel Paese, nelle aule parlamentari, sui media e nei talk show, esponenti di destra e di sinistra (insieme a criminali incalliti) fossero complici nelle malefatte. Come se il conflitto politico assomigliasse a un combattimento di wrestling, nel quale i protagonisti apparentemente si scambiano colpi durissimi ma in realtà fingono di combattere e si accordano sul risultato del match. Con la differenza che nel wrestling il pubblico ne è consapevole, mentre in politica gli elettori non lo sono e si indignano.
Non sorprende quindi che tre italiani su quattro (e il 73% tra gli elettori del Pd) siano convinti che tutte le amministrazioni che si sono succedute a Roma negli ultimi anni abbiano le stesse responsabilità rispetto a quanto avvenuto, mentre il 14% attribuisce la colpa all’amministrazione di centrodestra guidata da Alemanno e il 3% a quelle di centrosinistra.
Risultano più diversificate le opinioni riguardo a quanto sarebbe meglio fare per Roma nell’immediato futuro: il 32% propende per elezioni il prima possibile (in particolare gli elettori di Forza Italia: 65%), il 29% ritiene opportuno lo scioglimento del consiglio comunale e il commissariamento della Capitale (45% tra gli elettori grillini) e il 26% vorrebbe che si continuasse con il sindaco Ignazio Marino ma si procedesse ad un profondo rinnovamento della giunta e dei dirigenti comunali (49% tra gli elettori del Pd).
Il clima di sfiducia tra i cittadini non aiuta il percorso di riforme intrapreso dal governo e il premier Renzi sembra esserne consapevole, tant’è che nel suo ruolo di segretario del Pd è intervenuto immediatamente commissariando il partito romano, dichiarando che farà pulizia al proprio interno allontanando chi ha preso tangenti. Nonostante le migliori intenzioni prevale nettamente la sfiducia nei risultati che si potranno conseguire: solo il 15% prevede che Renzi riuscirà a fare pulizia nel suo partito, il 36% ritiene che Renzi sicuramente si impegnerà ma non riuscirà a fare molto e il 43% è convinto che nel Pd non cambierà nulla.
Il pessimismo alberga anche tra gli elettori del Pd: solo il 30% infatti pensa che il partito riuscirà a fare pulizia, il 48% non si aspetta risultati significativi e il 15% è decisamente rassegnato.
La situazione è anche peggiore sul fronte opposto: il 62% degli italiani ritiene che nel centrodestra non cambierà nulla (è l’opinione prevalente tra tutti gli elettorati), il 22% che non cambierà molto nonostante l’impegno dei partiti e solo l’8% è ottimista sulla possibilità di fare pulizia.
Fa decisamente riflettere il fatto che i più scettici rispetto alle reali possibilità di cambiamento siano i più giovani (18-30 anni).
La rassegnazione rispetto alle reali possibilità di cambiamento è accompagnata dalla convinzione che i partiti abbiano avuto responsabilità dirette in questi fenomeni di corruzione, traendone vantaggi significativi: è di questo parere il 67% degli italiani mentre il 29% ritiene che i partiti non siano stati in grado di vigilare sull’operato dei propri esponenti ma abbiano responsabilità dirette.
Il quadro che emerge è decisamente preoccupante: i cittadini considerano la corruzione una malattia endemica nel nostro Paese e la loro esasperazione è acuita dallo stridente contrasto tra i sacrifici che sono chiamati a fare a causa della crisi e l’utilizzo dei soldi pubblici che escono dalle loro tasche.
È presto per capire se questi sentimenti si tradurranno in un aumento dell’astensionismo o favoriranno una o più forze politiche. Spesso si tratta di un’indignazione emotiva e superficiale, seguita più da rassegnazione e da mancanza di memoria che da comportamenti coerenti. Ma questa volta, e i segnali dell’Emilia sono eloquenti, non è improbabile che la sfiducia e il distacco diventino davvero prevalenti.

Corriere 15.12.14
«Ho chiamato Buzzi “capo” ma faccio così con tutti»
Campana (Pd) e l’ex marito: confido che si dimostrerà innocente
intervista di Tommaso Labate


ROMA «Difficilmente la mia vita tornerà a essere serena come lo era prima. Prima che il mio nome finisse sui giornali affiancato alla parola “mafia”, intendo. Mi hanno infangata, minacciata, linciata. Sui social network qualcuno ha scritto che merito di essere stuprata. Sto querelando chiunque, anche perché è l’unico modo che ho per difendere me, la mia famiglia e chi crede nell’onestà della politica. Tutto questo perché, in decine di migliaia di pagine di atti giudiziari su Mafia Capitale, sono citata due volte. Tanto è bastato perché certa stampa mi definisse come un mostro da sbattere in prima pagina...».
Micaela Campana ha trentasette anni ed è responsabile welfare del Partito democratico. «Altro che la bella donna dalla carriera rapida che hanno maliziosamente descritto. Ho lavorato duro per 17 anni, dalle periferie difficili di Roma agli incarichi nazionali».
La Procura ha intercettato un sms in cui lei salutava Buzzi chiamandolo «grande capo». E un altro giro di messaggini tra lei, il suo collaboratore e Buzzi su un’interrogazione parlamentare che il capo della cooperativa 29 giugno le chiedeva di presentare.
Partiamo dal «grande capo».
«Chiamo un sacco di gente così da quando ero ragazzina. Ci sono decine di persone che possono testimoniarlo».
Buzzi le chiede di presentare un’interrogazione parlamentare sulla base di un articolo del Tempo. Un suo collaboratore gli risponde che lei l’ha fatto ma che è stata rigettata. Qual è la verità?
«Non ho mai presentato quell’interrogazione e ho chiesto agli uffici della Camera di metterlo nero su bianco. La prova? Qualora l’avessi fatto non sarebbe stata rigettata, visto che altri (Ruocco e Fantinati, del M5S, ndr) l’hanno presentata negli stessi tempi e sulla base del medesimo articolo di giornale. Quell’interrogazione che Buzzi chiedeva non mi convinceva anche perché il Tar si era già espresso contro l’appalto in questione e non mi sembrava corretto intervenire nei confronti della giustizia amministrativa».
Perché allora a Buzzi viene risposto che era stata rigettata?
«Soltanto per evitare che questa sua richiesta venisse riproposta. Avevo già deciso di non presentarla. E non l’ho fatto».
In un altro colloquio Buzzi parla di 20 mila euro che dovrebbe dare per una campagna elettorale. E dice anche la frase : «E mo’ se me compro la Campana...». Come se lo spiega?
«Sarebbe bastato leggere la data della conversazione per capire che Buzzi non poteva riferirsi alla mia campagna elettorale. D’altronde, ero già stata eletta da tempo. Sul secondo punto, scomoderei la lingua italiana: il “se” è tutt’altro che una certezza. Sono millanterie tra due persone che parlano».
Ma non le sembra strano che, visto il credito di cui godeva Buzzi, nessuno sospettasse delle sue attività parallele con Carminati?
«Io ho visto coi miei occhi decine e decine di persone — ex detenuti, disabili e altro ancora — che, lavorando con la 29 giugno, hanno avuto dalla vita una seconda possibilità. Li ho visti nelle loro tute sporche, mentre lavoravano e si spezzavano la schiena. Tra l’altro, adesso, mi chiedo anche che fine farà questa gente... Vede, per me essere di sinistra significa credere fortemente nella riabilitazione delle persone e nella possibilità di dare una seconda opportunità a chi non l’ha mai avuta. Credo nel mondo della cooperazione e del terzo settore, che rappresenta un pezzo importante della nostra storia e del nostro futuro. Queste cose, col mondo dei Carminati, non hanno nulla a che vedere. Chi dice che oggi sono tutti colpevoli di fatto sta dicendo che non c’è nessun colpevole. E su questo ho fiducia nella magistratura, tanta fiducia».
Lei è stata sposata con l’ex assessore Daniele Ozzimo, oggi indagato.
«Ora siamo separati. Cito Marino, che ha parlato di Daniele come di un “tutore della legalità”. E sono fiduciosa che riuscirà a dimostrare la sua totale estraneità ai fatti che gli vengono contestati».
Ha mai pensato di lasciare la segreteria del Pd?
«Io penso solo a continuare a fare il mio lavoro, come ho sempre fatto. E sento la fiducia delle tantissime persone con cui negli anni ho avuto a che fare, a Roma e in giro per l’Italia. La mia vita privata è un’altra cosa. E quella, alla serenità di prima, non credo che tornerà».

il Fatto 15.12.14
Mafia Capitale
L’uomo Pd: “Buzzi, trovami casa” Mentre Marino cambia assessore


DOPO l’Ama, l’azienda che si occupa dei rifiuti, nell’inchiesta sul “Mondo di mezzo” compare anche l’Atac, la mastodontica municipalizzata dei trasporti romani. Da un’intercettazione emerge che Andrea Carlini, fino al 2013 nel consiglio di amministrazione, ma soprattutto nella direzione regionale del Pd Lazio, avrebbe “chiesto a Buzzi (il capo della cooperativa 29 giugno adesso detenuto nel carcere di Nuoro, ndr) di acquistare in suo favore un appartamento da 50 metri quadri”. Il favore, per i Ros dei carabinieri, sarebbe stato “funzionale a ottenere illeciti vantaggi” proprio alla cooperativa di Buzzi “in procedimenti pubblici amministrativi”. C’è anche un litigio telefonico tra i due con Buzzi che minaccia: “Dimmi dove sei... ti spacco il culo... Il vaffa... a me te lo rimangi, capito?”. Segue un sms di pace di Carlini: “Non sono tuo nemico”. A cui Buzzi risponde: “Nemmeno io il tuo”. In un’altra conversazione Buzzi si vanta: “La prossima settimana vado a pranzo con Pedetti e Carlini, mi compro pure lui, gli compriamo casa”. Pierpaolo Pedetti, consigliere comunale del Pd, non è indagato: “Da parte mia mai alcun favoritismo alla 29 giugno”. In Campidoglio domenica di lavoro per il sindaco Ignazio Marino, che continua i cambiamenti nella sua giunta. Salta proprio Rita Cutini, l’assessore ai servizi sociali sommersa dalle critiche nei giorni di Tor Sapienza, ma ritornata “forte” dopo la divulgazione di un’altra intercettazione di Buzzi: “Con la Cutini siamo proprio messi male”. Nonostante questo qualcosa col sindaco Marino si è rotto, tanto che l’addio dell’assessore non avviene senza una nota polemica: “Il contrasto alle situazioni gestite in emergenza, l’azzeramento dei fuori bilancio del 2014, la scelta di procedure amministrative rigorose e non aggirabili (come lo Sprar) sono state il fondamento della mia azione. Il sindaco non ne ha fatto il perno della ricostruzione necessaria”. Al suo posto arriva un’altra “tecnica”: Francesca Danese, anche lei cattolica, presidente del Centro per i servizi del volontariato del Lazio.

Corriere 15.12.14
E gli indagati in Veneto imbarazzano Moretti

L’iscrizione nel registro degli indagati per finanziamento illecito dei deputati veneziani Massimo Zoggia e Michele Mognato (inchiesta Mose) apre una polemica all’interno del Pd veneto, impegnato a sostenere la delicata sfida di Alessandra Moretti al governatore uscente Luca Zaia. La candidata e il segretario regionale Roger De Menech chiedono un passo indietro (autosospensione), ma altri big del partito, come l’ex ministro Flavio Zanonato, invitano a non drammatizzare («Li conosco, non hanno preso soldi»).

Corriere 15.12.14
Stop ai residence lager
Ora c’è un Buono Casa da 800 euro al mese
A Ignazio Marino risponde Sergio Rizzo


Caro direttore,
Sergio Rizzo scrive che «sarebbe pure ingeneroso non riconoscere che il sindaco Ignazio Marino avrebbe voluto cambiare un sistema chiaramente assurdo, passando dagli affitti ai costruttori e alle coop a un contributo diretto alle famiglie bisognose, con un risparmio di una decina di milioni l’anno. Peccato che tutto sia ancora a bagnomaria». Affermazione falsa. «Distinguere per non confondere» è l’insegnamento di don Luigi Ciotti, perché la confusione, il «sono tutti uguali», alimenta proprio quelle mafie che si vorrebbero contrastare. I Residence sono nati nel lontano 2005 per far fronte alla crescente emergenza abitativa. Io li ho visitati in campagna elettorale. Alcuni mi sono apparsi come veri e propri lager, dove si vive anche in otto in pochi metri quadri. Ho dichiarato di volerli chiudere e li sto chiudendo, non solo per ragioni economiche, ma soprattutto per restituire dignità abitativa alle famiglie romane. Questo è il percorso seguito, ma ignorato dal Corriere della Sera . Con la deliberazione n. 368 del 13 settembre 2013, abbiamo immediatamente cambiato le decisioni delle precedenti giunte. Con questo atto è stato deliberato di non rinnovare i contratti già scaduti, quelli di prossima scadenza e di disdire tutti i contratti di locazione, nonché di prevedere misure per consentire l’accesso al mercato privato della locazione: prima fra tutte un Buono Casa di 800 euro mensili nelle tasche delle famiglie a fronte degli oltre 2.000 euro che andavano agli imprenditori che affittano i residence lager. Ora il dipartimento competente eroga il servizio di assistenza abitativa temporanea attraverso 31 strutture per circa 1.900 nuclei familiari a un costo che sfiora i 41 milioni di euro annui. Le procedure per la richiesta del Buono Casa riservato a chi vive nei Centri di assistenza alloggiativa temporanea sono state completate ed è pronto l’elenco definitivo riportante i nuclei familiari che ne hanno diritto. Infine si è proceduto ad istituire l’Unità di supporto di polizia locale proprio per realizzare quei controlli patrimoniali e reddituali che auspica Sergio Rizzo. Con la mia giunta, insomma, aiuteremo il triplo delle famiglie assicurando loro abitazioni adeguate e riducendo drasticamente i costi a carico dell’amministrazione pubblica. Questi sono i fatti, il resto è confusione.
Ignazio Marino

(s.riz.) Il sindaco Marino sa bene che se c’è qualcuno per cui di notte tutti i gatti sono neri, quel qualcuno non è certo il sottoscritto. Così come voglio sinceramente sperare che non mi voglia iscrivere fra coloro che alimentano le mafie. Ma stiamo ai fatti. So quello che ha messo in moto Marino per cambiare uno stato di cose allucinante, e gliel’ho riconosciuto. Al tempo stesso non si può non prendere atto che mentre scriviamo la situazione concreta dell’emergenza abitativa non sia così diversa da quella di un anno e mezzo fa. Confido ovviamente che le azioni messe in campo dalla giunta Marino abbiano pieno successo. Vedremo nel prossimo futur.


Repubblica 15.12.14
Felice Casson, senatore Pd
“Corruzione, legge timida. I giudici parlino”
intervista di Liana Milella


ROMA Renzi zittisce i magistrati? «Devo rispondere da cittadino, da politico, o da ex magistrato?». Da cittadino? «Il diritto di critica è il sale della democrazia». Da politico? «È assurdo che qualsiasi politico abbia paura della critica». E da ex magistrato? «Va tutelato il diritto costituzionale alla libertà di pensiero e di espressione». Felice Casson boccia Renzi e il ddl sulla corruzione.
Il presidente dell’Anm Sabelli non doveva commentare il ddl?
«In quanto tecnico ed esperto aveva tutto il diritto, anzi il dovere di farlo. Quando si parla di codice penale è ovvio che i commenti debbano essere fatti anche da un giurista».
Sabelli, su Repubblica, non ha nascosto la sua delusione per il ddl anti-corruzione. Aveva torto?
«No, ma la mia critica parte da presupposti diversi. In commissione Giustizia sia della Camera che del Senato sono pendenti da vario tempo più ddl in materia di lotta a corruzione e concussione, e su falso in bilancio e prescrizione. E sono norme molto più precise e incisive di quelle prospettate ora. In Senato ci siamo fermati, a giugno, al momento di votare gli emendamenti su richiesta del governo».
Certo che ne è passato di tempo da allora...
«Basterebbe votare quelle norme e il risultato sarebbe certamente più rapido e migliore».
C’è il ddl Grasso che potrebbe marciare in fretta. Invece si ferma. Poi scoppia l’emergenza Eternit e della mafia a Roma e si fa un altro ddl in editio minor. Che senso ha?
«Appunto. Me lo chiedo pure io. Ricordo che il cosiddetto ddl Grasso riporta norme preparate dal Pd già nella scorsa legislatura. Se non va avanti è per un motivo squisitamente politico. Quando si comincia a parlare di prescrizione e di lotta alla corruzione inevitabilmente la maggioranza di governo si spacca. Ncd va sulle posizioni di Forza Italia e della Lega e il governo fibrilla».
Che voto darebbe alla mossa del governo?
«È una proposta minimalista rispetto a quelle già in campo. Per di più la forma del ddl rischia di rallentare i già lenti tempi parlamentari. Vorrei capire perché mandare in Parlamento un ddl di 30 articoli in questa emergenza. Anche perché bisogna decidere chi deve intervenire tra Camera e Senato».
Ma è già stato deciso che il testo va alla Camera...
«Questo significa buttare all’aria mesi di lavoro della commissione del Senato, che è già pronta a votare gli emendamenti».
Da voi non c’è già il ddl col falso in bilancio? E poi, dice “radio governo”, che col presidente Nitto Palma si ferma tutto.
«Non deve certo dirlo a me o ai senatori del Pd... E comunque il falso in bilancio rappresenta solo una parte delle norme da approvare».
Prescrizione e pena maggiore per la corruzione. Basta?
«No perché la sola repressione non è mai sufficiente. Quanto alla prescrizione dovrebbe fermarsi definitivamente, e non solo essere sospesa».

il Fatto 15.12.14
L’Italia dimentica il reddito minimo
di Ferruccio Sansa


“Se diventerò governatore della Liguria proporrò un reddito minimo garantito”. La promessa di Sergio Cofferati, fatta durante uno dei tanti dibattiti per le primarie del Pd, è passata inosservata. Ma le parole di Cofferati - che da anni, anche in Europa, propone il reddito minimo - potrebbero avere un grande peso politico. Primo, aprono un fronte all’interno del Pd diviso tra le proprie radici di sinistra e il desiderio di mostrarsi “moderno” (qualunque sia il significato della parola). Secondo, potrebbero rivelare il tentativo di una parte del centrosinistra di erodere consenso al M5S che aveva lanciato questa battaglia, ma adesso sembra più interessato a marcare la Lega (dimenticando che molti dei suoi elettori non sono di destra). Ma lasciamo questi ragionamenti agli analisti politici. Il punto è un altro: il reddito minimo, una somma garantita a chi non ha lavoro e a chi, soprattutto le donne, pur avendo un impiego non riesce a mettere insieme un salario decente. Lo ha scritto Salvatore Cannavò su queste pagine: Italia e la Grecia sono gli unici paesi europei a non prevederlo (in Parlamento giacciono tre proposte di legge e la Regione Friuli vorrebbe sperimentarlo nel 2015). Perché? Non è solo una questione di bilanci disastrati (costerebbe 15 miliardi). È soprattutto un modo di vedere la nostra società. E quindi la vita. Ormai non esiste un talk show degno di questo nome in cui non sia presente tra gli ospiti un imprenditore, quasi fosse il rappresentante dell’italiano tipo. Niente contro gli imprenditori, per carità, sono una delle ancore di salvezza del nostro Paese. Rischiano del proprio e sono costretti a continui equilibrismi tra adempimenti assurdi e tasse che somigliano talvolta a capestri. Ma nel frattempo sembriamo esserci dimenticati che esistono milioni di persone che stentano ad arrivare a fine mese. Sono anche loro italiani. Di più: in preda a una sorta di marchionnismo imperante ci stiamo convincendo che dietro la difficoltà, la miseria ci sia una responsabilità, perfino una colpa. Non è così, come non è vero che dietro le fortune economiche ci siano sempre meriti. Esiste un destino che non dipende da noi.
   Il reddito minimo non è una tutela soltanto per chi lo riceve, ma per l’intera società. Evita che migliaia di persone scivolino nell’emarginazione e richiedano così investimenti ben più consistenti per l’assistenza sociale. Riduce perfino il rischio di delinquenza. Ma è anche un investimento nel futuro, perché aiuta chi non ha mezzi a garantire occasioni ai propri figli che porteranno avanti il Paese di domani. Soprattutto, ricorda ai cittadini che la società li sostiene. Che, insomma, hanno un valore non solo quando producono. Ma in quanto persone. L’Europa (si va da 500 a 1.500 euro) sembra averlo capito. L’Italia no. Perché?

La Stampa 15.12.14
Nella borgata di Primavalle il Papa mette in guardia da «Suor Lamentela» ed esorta i preti a non allontanare dalle messe i bambini che piangono
di Giacomo Galeazzi

qui

La Stampa 15.12.14
Fine vita, quello che insegna Parigi
di Vladimiro Zagrebelsky


Una Francia afflitta da problemi economici non meno gravi dei nostri e da una verticale caduta di credibilità dei suoi partiti di governo, non evita però di affrontare temi delicati di società e di diritti fondamentali, che invece in Italia sono considerati «divisivi» e per ciò stesso lasciati senza risposta.
Lasciati  senza risposta da parte della legge e cioè dalla politica del legislatore, ma rimessi, volta per volta, alla decisione di giudici che non possono evitare di pronunciarsi, così esponendosi a critiche riguardanti il tenore della soluzione e più ancora la loro legittimazione a occuparsene.
Questa volta – ancora una volta - si tratta del problema della fine della vita di chi, gravemente e irreversibilmente ammalato, è prossimo a morire e penosamente soffre. La domanda di essere accompagnato verso una morte dignitosa e senza inutili patimenti rimane ora in Italia senza risposta esplicita, rimessa come è alla occasionale presa di responsabilità di singoli medici. Il codice penale e il codice deontologico vietano al medico atti diretti a provocare la morte del paziente. Nel caso di prognosi infausta o di definitiva compromissione dello stato di coscienza del paziente il medico, secondo il codice deontologico della sua professione, deve continuare ad accompagnarlo con cure di sedazione del dolore e di sollievo dalle sofferenze «attuando trattamenti di sostegno delle funzioni vitali finché ritenuti proporzionati, tenendo conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento» che il paziente abbia rilasciato. L’efficacia vincolante della volontà anticipatamente manifestata dal paziente ormai divenuto incapace di esprimerla è quindi limitata e debole. Senza contare i casi in cui simili anticipate dichiarazioni non esistano e la famiglia interpellata dai medici si divida nelle opinioni sul trattamento medico e sulla sua continuazione. Il medico è esposto a decisioni gravi e senza la guida di indicazioni legislative sul come agire, per esempio con l’obbligo di una valutazione collegiale e motivata. In una simile evanescenza delle regole si muovono quotidianamente medici e famiglie di pazienti in gravissima difficoltà. Le diverse convinzioni morali e culturali dei medici hanno un peso notevole o addirittura determinante, indirizzando verso esiti drammaticamente differenti la sofferenza di coloro che sono in fin di vita.
In Italia sono ancora nella memoria di tutti le vicende di chi, con una fatica che aggiunse pena a pena, ottenne finalmente da un medico l’interruzione di trattamenti artificiali con contemporanea sedazione e cura antidolorifica. E diede luogo a feroci, umilianti contrapposizioni la storia di quella donna cui, dopo anni di coma irreversibile, la Cassazione infine autorizzò l’interruzione di trattamenti artificiali. La vicenda è di cinque anni fa. Allora Camera e Senato insorsero orgogliosamente rivendicando l’esclusiva loro competenza a legiferare e la prevalenza della politica sull’opera dei giudici. Il Parlamento giunse fino all’estremo rimedio di sollevare un conflitto tra poteri dello Stato davanti alla Corte costituzionale. Respinto dalla Corte il ricorso, il problema è stato abbandonato dalla politica, cosicché se un altro caso simile, anziché esser gestito nel silenzio venisse portato davanti a un giudice, saremmo nuovamente daccapo. Evidentemente il nostro Parlamento, il Governo, le forze politiche in tutt’altro affaccendati, non si ritengono adeguati ad affrontare il tema. Così avviene peraltro per altre questioni riguardanti i diritti civili. Resta ancora irrisolta la questione della cittadinanza di chi nasce in Italia da genitori stranieri, così come quella delle unioni civili e quella più complessa di una mai definita legge generale sulla libertà religiosa. Trattandosi, come si diceva, di questioni «divisive» la politica anziché applicarvisi se ne tiene lontana, sottraendosi al proprio dovere. Nemmeno sono serviti i richiami ripetuti e accorati del Presidente Napolitano, che sui diritti civili da tempo si è dimostrato tanto attento e sensibile, quanto inascoltato.
Ma il desolante silenzio politico italiano non è da accettare come un dato di fatto insuperabile, strutturale e, quindi, inevitabile. La vicina Francia, per tanti aspetti simile, dimostra che è possibile un’altra presa di coscienza e un’altra assunzione di responsabilità politica sulle questioni fondamentali della società.
Avendolo posto tra i suoi punti programmatici elettorali, il presidente Hollande ha chiesto uno studio sul tema della fine della vita a due autorevoli parlamentari appartenenti ai due maggiori partiti di governo e di opposizione alla Assemblea nazionale. Lo studio doveva riguardare lo sviluppo della legge che in materia già esiste in Francia. Una legge che ha recentemente portato davanti ai giudici il caso di un malato in coma irreversibile che i medici hanno valutato doversi lasciar morire interrompendo le cure cui è sottoposto. Essendosi spaccata la famiglia nelle contrapposte volontà della madre e della moglie del paziente, i giudici, fino al Consiglio di Stato, hanno concluso che la decisione dei medici è conforme alla legge. È stata portata la questione alla Corte europea dei diritti umani, che dovrà pronunciarsi sul senso del diritto alla vita in una simile situazione. Intanto però, indipendentemente dallo sviluppo di quella singola vicenda, il parere consegnato al presidente della Repubblica dalla commissione da lui nominata, ha messo in moto un’iniziativa politica che promette di dar luogo a rapide decisioni. L’Assemblea nazionale dovrebbe già a gennaio impegnarsi in una sessione di discussione. Poi il governo presenterà una proposta di legge.
Il rapporto dei due parlamentari suggerisce di rendere vincolanti per i medici le direttive, anticipate o attuali, date dal paziente, così da assicurare che siano rispettate le sue scelte di limitare o arrestare il trattamento medico e di essere accompagnato senza soffrire nella fase avanzata o terminale. Unitamente a quello di rifiutare la continuazione delle cure, sarebbe quindi riconosciuto un diritto nuovo, quello di ottenere insieme alla cessazione dei trattamenti, la sedazione profonda e continua, che assicura di non soffrire e di morire quietamente. La morte non verrebbe procurata dall’azione del medico o di altri, come avviene in alcun Paesi che ammettono l’eutanasia. Essa sopravverrebbe come effetto naturale del male di cui la persona è vittima. E al paziente che ottiene la cessazione dei trattamenti verrebbe praticato, fino alla fine, uno stato di sedazione che esclude coscienza e sofferenza.
L’intenzione del presidente Hollande di giungere ad una soluzione il più possibile condivisa dalla società francese, necessaria in vista di una conclusione legislativa che riguarderà tutti, sembra trovare soddisfazione nei primi commenti. Sono critici quelli dei partigiani dell’eutanasia attiva, ma sono favorevoli quelli della Società francese di accompagnamento e cure palliative e anche quella del vescovo presidente della commissione di studio della Conferenza episcopale di Francia, che, apprezzando una proposta che esclude l’eutanasia e l’assistenza al suicidio, ha affermato che «l’onore di una società è di cercare continuamente il miglior modo di accompagnare i cittadini vulnerabili che si avvicinano alla fine e che hanno diritto ad una fine della vita degna e serena».
È troppo ora attendersi anche in Italia una presa di coscienza da parte del Parlamento con l’abbandono di pretese e interessi identitari ed elettorali da parte di gruppi e partiti? L’esempio francese indica che l’urgenza di problemi economici o politici non impedisce che su altro terreno la politica non si sottragga a compiti che ne fondano la nobiltà. Per il suo equilibrio e la sua capacità di risolvere una rilevante parte dei problemi legati alla fine della vita, la soluzione ora concretamente in discussione in Francia potrebbe essere anche in Italia il punto di partenza per un rapido esame, che consenta di giungere finalmente a una soluzione, superando lo scontro paralizzante delle posizione estreme che si contrappongono su vita e fine vita.

Corriere 15.12.14
Una legge sul fine vita (con sana equidistanza)
di Pierluigi Battista


Bisognerebbe sottoscrivere un manifesto di chi rilutta a sottoscrivere manifesti, a lanciare proclami con sicumera sull’eutanasia pro e sull’eutanasia contro, sulla vita e sulla morte, sul dolore e sull’angoscia della condizione umana, manco si trattasse di schierarsi, per dire, pro o contro una legge elettorale o una norma sulla corruzione della politica. Bisognerebbe sottrarsi alla boria dei concionatori da Bignami della metafisica, difendere la «zona grigia», come la chiamava Angelo Panebianco, in cui con umanità e grazia si cerca di lenire la sofferenza di chi se ne va, con riserbo, delicatezza, con la serietà delle decisioni solenni e definitive ma con la determinazione di fare la cosa giusta.
Bisognerebbe trovare un po’ di civiltà, non tifoseria sguaiata, quando si deve trovare una ragionevole soluzione a quello che fu definito «testamento biologico». Una norma che consenta a chiunque, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, di non essere costretto a sofferenze atroci se il destino è già segnato e di morire con la dignità di chi vuole disporre della propria vita e del proprio fine-vita. Una norma che tenga conto dei possibili abusi di una legge pro-eutanasia, che impedisca scelte arbitrarie al posto di chi deve subire una decisione fondamentale senza avere la forza di dire la sua. Una norma che non si avvicini a quella mostruosità da dottor Mengele che è la legge belga che consente l’eutanasia dei bambini impossibilitati a decidere. Bisognerebbe capire che la legge è solo un male necessario, perché nessuna legge può comprendere le infinite sfumature di scelte dolorose.
   Nessuna legge può sostituire lo sguardo di intesa tra i medici e chi è disperato per un proprio caro immerso nella sofferenza e senza la possibilità di esprimersi. Bisognerebbe ridurre il danno, fare una legge equilibrata, smetterla di urlare come ossessi, discutere pacatamente perché la vita e la morte non consentono sciatterie. E invece: proclami stentorei, manifesti, urla, cartelli, volti lividi, dileggi, sputi. Così in contrasto con i princìpi primi e ultimi che dovrebbero regolare la nostra esistenza. Così fastidiosamente ideologizzati, dall’una e dall’altra parte: e mai come in questo caso una sana posizione di terza equidistanza appare necessaria e persino decente. Si discuta su questa legge (sono favorevole, per me e per tutti, al testamento biologico, con discrezione). Chi sottoscrive questo manifesto?

La Stampa 15.12.14
“Fine dell’occupazione di Israele entro 2 anni”
La Palestina presenta la risoluzione per l’Onu
L’annuncio dell’Olp: pronta la bozza da sottoporre al Consiglio di sicurezza
Netanyahu all’attacco: un ritiro entro i confini del 1967 darebbe il via libera agli estremisti islamici

qui

Corriere 15.12.14
L’israeliano Netanyahu gela americani e russi:
«No ai confini del ‘67»
Offensiva diplomatica di Kerry per allentare le tensioni
di Paolo Valentino


ROMA È stato il Medio Oriente — lo stallo del processo di pace, l’aumento delle tensioni tra Israele e Palestina e il rischio di una nuova esplosione di violenza — a occupare gran parte dei colloqui romani di ieri sera tra il segretario di Stato americano, John Kerry, e il ministro degli Esteri russo, Serghej Lavrov. Per l’inviato di Washington è stato l’avvio di una offensiva diplomatica che stamane lo vedrà impegnato negli incontri con il presidente del Consiglio Matteo Renzi e soprattutto con il premier israeliano, Benjamin Netanyahu. In serata Kerry volerà a Parigi, dove vedrà i ministri degli Esteri francese, tedesco e l’Alto Rappresentante per la politica estera della Ue, Federica Mogherini. Mentre domani a Londra incontrerà il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat e una delegazione della Lega Araba.
All’origine dell’attivismo americano è la preoccupazione di voler disinnescare il potenziale conflitto che una serie di risoluzioni circolate in queste settimane alle Nazioni Unite rischiano di far deflagrare. È stata la Giordania a farsi promotrice di un testo che chiede a Israele di ritirarsi entro due anni sui confini del 1967. I palestinesi presenteranno mercoledì la bozza di risoluzione all’Onu in cui chiedono la fine dell’occupazione e il ritiro da tutti i territori occupati nella Guerra dei sei giorni. Un’altra bozza di risoluzione, questa sponsorizzata da Francia, Gran Bretagna e Germania, definisce invece un calendario di ritiro vincolante ma non specifico. Contro questo scenario si è scagliato ieri Netanyahu, annunciando che farà di tutto per impedirlo: «Dirò a entrambi che Israele è un bastione solitario contro l’ondata crescente dell’estremismo islamico. Questo è un tentativo di costringerci a un ritiro entro due anni sui confini del 1967. Ma ciò significherebbe portare gli estremisti islamici alle porte di Tel Aviv e nel cuore di Gerusalemme: sia chiaro che non lo permetteremo». Israele non nasconde di aspettarsi che, come spesso è accaduto in passato, gli Stati Uniti usino il veto per bloccare l’eventuale pronunciamento del Consiglio di Sicurezza. Ma questa volta non si fa troppe illusioni. Lo stesso ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, ha detto ieri che Washington «non è molto incline a far ricorso al veto». In verità gli Usa sembrano piuttosto voler attendere gli eventi, cercando di disinnescare le tensioni e convincere Giordania ed europei ad aspettare le elezioni israeliane di marzo, prima di agire all’Onu.
«Credo che il Medio Oriente sia il tema cruciale e occorre impedire che la situazione peggiori ulteriormente. I nostri Paesi devono lavorare insieme per evitarlo», ha detto Serghej Lavrov al suo arrivo a Villa Taverna, residenza dell’ambasciatore americano a Roma e sede dei colloqui. «Kerry — ha detto una fonte del Dipartimento di Stato — è a Roma per ascoltare e sollecitare gli attori e quanti hanno influenza nella regione, impegnandosi quanto più possibile a lavorare verso una prospettiva comune». Il segretario di Stato e l’inviato di Mosca hanno naturalmente parlato anche di Ucraina. Lavrov ha espresso l’irritazione di Mosca, di fronte al voto con cui il Congresso Usa ha autorizzato nuove sanzioni e una fornitura d’armi al governo di Kiev. La decisione non è vincolante per Obama, che può scegliere di non renderla esecutiva. Ma crea un nuovo elemento di tensione, proprio nel momento in cui l’Amministrazione punta a una de-escalation della crisi, spingendo per l’applicazione degli accordi di Minsk. Tanto più che la tregua, annunciata martedì tra il governo e i separatisti russi, è stata rispettata.

La Stampa 15.12.14
Turchia, in manette decine di giornalisti
Pugno duro di Erdogan, alba di paura a Istanbul: arrestati i reporter di un quotidiano e di una tv vicini a Gulen
di Marta OIttaviani

qui

Corriere 15.12.14
Padre della patria? Ormai soltanto signore e padrone
di Antonio Ferrari


Che si tratti della vendetta postuma di Recep Tayyip Erdogan nei confronti del più determinato dei suoi nemici, il predicatore islamico moderato Fethullah Gülen, che vive in esilio negli Usa, non vi è dubbio. Che poi si tratti dell’ennesima prova di forza decisa da un presidente della Repubblica troppo arrogante per poter accettare le critiche di chi non la pensa come lui è altrettanto scontato. I nuovi arresti di 24 giornalisti non fanno altro che consolidare un record poco edificante: nelle carceri turche il numero di reporter e commentatori, arrestati e in attesa di giudizio, è superiore a quello dei nostri colleghi prigionieri in Cina, in Russia e in Iran. Un poderoso schiaffo alla democrazia che farà fremere, nella tomba, il fondatore della Repubblica, il grande e laico Mustafà Kemal Ataturk. La scure del vendicativo presidente Erdogan, così megalomane da aver deciso di trasferire la residenza del capo dello stato dal sontuoso ma obsoleto (ai suoi occhi) palazzo di Cankaja, nel cuore di Ankara, a un maestoso edificio in periferia, sembra un’arma davvero offensiva in tempi di spending review. Dalla nuova residenza, che dispone di mille stanze dotate di tutti i comfort, Erdogan comanda; da là guida il Paese contando sul fido primo ministro Ahmet Davutoglou; e da laggiù impartisce disposizioni e punizioni. Come quella di far arrestare Ekrem Dumanli, direttore di Zaman , uno dei più importanti giornali del Paese, che appartiene al movimento di Gülen. La retata è l’evidente risposta all’inchiesta che esplose esattamente un anno fa sulla tangentopoli turca, che vide coinvolti tre ministri e il figlio dello stesso Erdogan. E dimostra che il presidente non ha alcuna intenzione di diventare il padre della patria. Ormai sembra rappresentare solo una parte: quella che lo riconosce come signore e padrone.

Repubblica 15.12.14
La paura di Orhan Pamuk “Noi scrittori nel mirino, mai visto nulla del genere”
Il Nobel e l’autrice Elif Shafak indicati da alcuni media di essere al servizio di una lobby internazionale: “Critiche ridicole e pericolose”
di M. Ans.


«C’È una lobby internazionale degli scrittori», strillava qualche giorno fa dalle edicole turche il quotidiano pro governativo Akit.
E indicava due reprobi fra gli autori scelti dalle «potenze occidentali» contro le autorità di Ankara: Elif Shafak e Orhan Pamuk. I due più noti intellettuali della Turchia, una con decine di romanzi all’attivo e tradotta in ogni continente, l’altro premiato con il Nobel per la Letteratura, tornati nel mirino. Ma questa volta non dei nazionalisti, come accaduto in passato, con minacce di morte che li avevano costretti a scegliere di vivere all’estero (Shafak in Inghilterra, Pamuk negli Stati Uniti). Quanto degli stessi cantori dell’esecutivo conservatore islamico di Erdogan, desiderosi di affossarli.
«Queste accuse conto noi due — dice a Repubblica Elif Shafak — sono così ridicole, però disturbano anche. Si sostiene che questa lobby letteraria avrebbe scelto alcuni autori di Paesi non occidentali, e per attaccare il governo turco sarebbero stati presi Pamuk e Shafak. L’implicazione è che entrambi, Orhan e io, saremmo pedine delle potenze imperiali». A leggere l’articolo in questione le espressioni usate contro i due celebri scrittori, tra il meglio che il Paese della Mezzaluna possa offrire in letteratura e anche per la loro lucidità di pensiero e intervento su questioni culturali e sociali, è un concentrato di odio. «Quando parlo o scrivo per un grande giornale straniero — spiega Elif — tra i tantissimi tweet di apprezzamento che ricevo, ce ne sono sempre alcuni negativi, che mi accusano di parlare male della Turchia agli occidentali. Per loro questo è un “affare di famiglia”. Se critichi il governo in turco non si arrabbiano molto. Ma se lo fai su un giornale straniero, specialmente su un quotidiano molto influente, allora si irritano. Questo è il mondo in cui viviamo».
Anche Orhan Pamuk ha un rapporto conflittuale con il proprio Paese. L’unico turco ad aver mai vinto un premio Nobel nei giorni scorsi ha pubblicato il suo ultimo romanzo, uscito per il momento solo a Istanbul e Ankara (“Una stranezza nella mia mente” il titolo in lingua, che sarà pubblicato in Italia nel novembre 2015, e il cui primo capitolo è stato anticipato da Repubblica l’ 8 dicembre scorso). Per l’occasione ha rilasciato un’intervista al giornale nazionale più diffuso, Hurriyet. E le sue parole non sono state leggere. «Il peggio — ha detto riferendosi alla situazione politica — è che c’è paura. Vedo che tutti hanno paura, questo non è normale: la libertà di espressione è scesa a un livello molto basso». E ha aggiunto: «Molti amici vengono a dirmi che questo o quel giornalista ha perso il lavoro. Ormai gli stessi giornalisti più vicini al potere vengono cacciati. Non ho mai visto nulla di simile da nessuna parte».
In un passato non troppo distante la Turchia ha perseguitato i suoi migliori intellettuali. Basti pensare al caso di Nazim Hikmet, il grandissimo poeta morto in esilio a Mosca nel 1963. Oggi molti spiriti liberi nel Paese, e altrettanti fuori, si augurano che i giorni in cui Orhan Pamuk veniva portato a processo per le frasi dette sui giornali, e i ritratti di Elif Shafak erano bruciati in piazza per quello che scriveva nei suoi libri, siano per l’appunto un’immagine lontana.

Corriere 15.12.14
L’Egitto dei militari.  Da Naguib fino ad Al Sisi
risponde Sergio Romano


Mi pare che in Egitto, con la presidenza di Al Sisi, si sia tornati più o meno alla stessa situazione che precedeva le cosiddette primavere arabe, almeno per quanto riguarda la politica interna (repressione o contenimento della Fratellanza Musulmana, ruolo dell’esercito, rispetto dei Copti) ed estera (rapporti con Israele e con gli altri stati vicini).
L’Egitto è tornato esattamente alla politica di Mubarak? Che cosa ne pensa? E mi permetto di chiederle: forse è meglio così?
Maurizio Davolio

Caro Davolio,
Dalla caduta della Monarchia nel 1952 i militari sono sempre stati protagonisti, anche se in forme e con ruoli diversi, della politica nazionale egiziana. Il colpo di Stato che si concluse con l’esilio di re Faruk fu progettato da un gruppo di giovani ufficiali che si erano affidati alla guida, più formale che sostanziale, del generale Naguib. Ma l’anima della rivolta era un colonnello, Gamal Abdel Nasser, che aveva combattuto contro gli israeliani nella guerra del 1948 e che sarebbe divenuto di lì a poco il leader della nazione. Furono i militari al momento della sua morte, nel 1970, che scelsero il suo successore nella persona di un generale, Anwar Al Sadat, che era stato compagno di Nasser negli anni delle cospirazioni anti-britanniche. E furono ancora una volta i militari, dopo l’assassinio di Sadat nel corso di una parata militare (1981), che designarono un generale dell’aeronautica, Hosni Mubarak, a cui veniva riconosciuto il merito di avere comandato una brillante operazione militare contro gli israeliani nella prima fase della guerra del Kippur (1973).
Da Nasser al maresciallo Al Sisi vi è quindi, anzitutto, continuità. Ma vi sono anche differenze che nel caso dell’ultima successione diventeranno probabilmente sempre più visibili con il passare del tempo. Mubarak era un uomo politico accorto, buon navigatore, capace di dare soddisfazione a diversi gruppi della società egiziana. Garantiva ai militari un ruolo nazionale, importanti stanziamenti di provenienza americana, la proprietà di industrie da cui traevano le risorse necessarie per garantire parecchi benefici ai componenti delle forze armate. Ma garantiva contemporaneamente alla società politica che avrebbe tenuto le forze armate nelle caserme. Era nemico della Fratellanza musulmana, ma abbastanza pragmatico da consentire che poco meno di 80 «Fratelli» entrassero all’Assemblea del popolo nelle elezioni politiche del 2005. Come molti altri leader medio-orientali voleva che il potere, dopo la sua uscita di scena, restasse nella famiglia e aveva già designato, in pectore, il figlio Gamal: una forma di nepotismo, senza dubbio, ma anche un passaggio dei poteri da uomini in uniforme a uomini in giacca e cravatta.
Con Al Sisi il quadro sembra essere alquanto diverso. Il maresciallo, a quanto pare, è molto più devotamente musulmano di Mubarak, ma anche più fermamente deciso a evitare che i Fratelli condizionino con la loro presenza il corso della politica nazionale. Per governare energicamente, soprattutto in questa fase, sembra contare sulle forze armate e sulla loro lealtà più di quanto accadesse all’epoca di Mubarak. Non si limita a garantire i privilegi dei militari. Li esorta a considerarsi anima e coscienza della nazione, garanti della forza e dell’unità del Paese contro i suoi nemici interni ed esterni. Vi è quindi il rischio di un regime maggiormente militarizzato. Ma non credo che le democrazie occidentali abbiano molte scelte. Se vogliono evitare che l’Egitto, come altri Paesi della regione, divenga ingovernabile, il loro interlocutore, almeno per il momento, è Al Sisi.

Corriere 15.12.14
Elogio dell’errore
«Chi sbaglia ha successo» ha detto Mark Zuckerberg
Da Dante agli scienziati, le sviste che fanno crescere

di Paolo Di Stefano

Chi non ha mai commesso un errore nella sua vita alzi la mano. Errori veniali o gravi, magari senza possibilità di riparo. Poi però c’è lo specchio: ci si guarda, si capisce e ci si ravvede, perché, come diceva Molière, gli errori più brevi sono i migliori. Persino i santi sbagliano. San Francesco in gioventù si imbarcò in follie e imprudenze che tra l’altro lo condussero in prigione. Se non avesse sbandato, forse non avrebbe mai pensato di rimediare radicalmente con la conversione, e da cavaliere dedito alle armi non sarebbe mai diventato uomo di pace. Il fatto è che qualche volta dai grandi errori nascono le grandi imprese.
Non che abbia molto a che fare con il poverello di Assisi, ma anche Mark Zuckerberg ha imparato dagli errori, almeno a sentire ciò che ha detto rispondendo alle domande degli utenti di Facebook: «Le persone di successo non solo imparano dai propri errori, ma impiegano la maggior parte del loro tempo a sbagliare». Un po’ esagerato. «Se hai successo, significa che le cose che hai fatto in gran parte sono sbagliate». Doppiamente esagerato. Basterebbe ripetere quel che ci dicevano i nonni: sbagliando s’impara. In effetti si evolve a forza di correggersi e tutto sommato se ci si sbaglia è perché si cerca la verità. Viceversa, raggiungere gli obiettivi senza mai inciampare è quasi innaturale, al punto da farci credere onnipotenti e da precipitarci nella depressione alla prima scivolata. «Solo gli imbecilli — diceva De Gaulle — non sbagliano mai». Vero, ma senza dimenticare la banalità che «perseverare è diabolico». Ti può andar bene una volta, due, tre, ma poi, anche se sei Zuckerberg, cadi irrimediabilmente. Dunque a mia figlia insegnerei sì che sbagliando s’impara, però è meglio farlo con prudenza. Prudentia in latino significa saggezza. Leopardi lamentava il fatto che si passi la vita più a rimediare agli errori che a cercare il vero: però non diceva che questo porta al successo.
Sta di fatto che l’errore aiuta a crescere specie se è figlio della curiosità, cioè della voglia di conoscere, quella di Ulisse. Perché non si può negare che spesso le grandi imprese, come si diceva, sono figlie di una svista, di una distrazione. In fondo, Dante apre la Commedia con questa ammissione. Se avesse proseguito sulla «diritta via», niente visione celeste per lui, e niente capolavoro per noi. Non c’è dubbio che, se avesse saputo quel che l’aspettava oltrepassato il Purgatorio, avrebbe imboccato abbastanza serenamente quella deviazione fatale. Non era un vile. Era quel che ai suoi tempi si definiva un magnanimo: uno che essendo alquanto consapevole delle sue capacità, non si sottraeva. Come certi scienziati che a forza di correggersi arrivano a scoperte sconvolgenti. Tutti sanno che l’errore è parente dell’errare, del vagabondare: il cavaliere errante più errante di tutti è don Chisciotte, campione di abbagli e di equivoci.
Bisogna pur ammettere che ci sono anche gli errori fatali, delle cui conseguenze è impossibile liberarsi: «Un vecchio errore vuole inseguirmi e incatenarmi e trascinarmi lì davanti ad ogni specchio per dirmi: guardati…». È Paolo Conte che spiega, con un gioco di parole e con qualche rammarico, che è impossibile «amare l’amore» senza mai fare neanche un errore. Di che tipo di errore parli, è intuibile. Lo si paga caro, ma uno specchio fa sempre bene.

Corriere 15.12.14
Anche Harry Potter fa bene agli scienziati
Il saggio epistemologico di Marco Ciardi (Carocci)
di Gillo Dorfles


Che un grande scienziato come Galileo e uno dei massimi filosofi tedeschi come Kant non fossero del tutto alieni da avere delle «illuminazioni» che trascendevano la loro consueta razionalità, non può non stupire, ma è fondamentale per comprendere, che non esiste una unicità della struttura mentale che sia completamente estranea dalle interferenze con materie diverse da quelle di solito impiegate. E allora non è sorprendente che un filosofo come Kant avesse, alle volte visto degli «spiriti»; anzi che avesse avuto addirittura dei rapporti — probabilmente medianici o iniziatici che gli permettessero di avere un comportamento del tutto diverso dal consueto; e ciò, oltretutto, significava che l’impostazione iper-razionale del suo pensiero poteva egualmente adeguarsi da quello basato su un genere completamente diverso tra conoscenza e coerenza.
Naturalmente questa ambiguità cui ho accennato si verifica in quasi tutti i rapporti tra l’uomo e la scienza, l’uomo e la conoscenza, perché non bisogna dimenticare che nel rapporto tra pensiero scientifico, pensiero imaginifico e pensiero artistico esistono dei legami indissolubili più spesso ambigui, mentre lo stesso può dirsi per quello che riguarda quello che potremmo definire come atteggiamento magico (sempre però tenendo presente che dicendo fattore magico non intendo accettare gli esempi di una banale azione come quella di una fattucchiera o di una falsa veggente, che predice il futuro). Col termine magia, infatti indichiamo quell’atteggiamento tra il misterico e l’onirico che costituisce un equivalente di quel territorio magico nel quale agiscono le forze più oscure — ma anche più fantastiche — che spesso guidano l’uomo nei suoi rapporti con il prossimo.
Quando nella copertina del suo recente testo Galileo & Harry Potter , Marco Ciardi premette: «La magia può aiutare la scienza», colpisce nel segno nel sintetizzare quello che sarà l’argomento principe della sua trattazione; ossia fin a che punto il pensiero scientifico possa coincidere o meno col pensiero letterario e col pensiero magico. È ovvio che, dicendo pensiero magico, intendo quella disposizione d’anima che consente anche una visione non materialistica della vita e addirittura una possibile situazione iniziatica o mediatica. Dicendo magia dunque non alludiamo alle così dette previsioni delle “veggenti”, ma per contro accettiamo il fatto che spesso le argomentazioni della ragione possano non andare disgiunte da premesse esoteriche, capaci di realizzare un tessuto onirico-magico, denso di ulteriori situazioni emergenti.
Troppo spesso non si tiene conto come quello che esula dal nostro «stato di coscienza» può albergare delle cognizioni «apparentemente nascoste» che trovano inaspettatamente la loro elucubrazione.
Lungi da me l’idea di favorire i principi dell’irrazionale, dell’onirico; ma per contro riconosco la mia volontà di ammettere l’esistenza coeva di un pensiero scientifico e di un pensiero immaginifico (e, perché no, di un pensiero magico).
Per concludere con le stesse parole dell’autore, possiamo affermare che tra scienza, magia e fantasia è possibile sempre uno scambio attivo e positivo, purché non avvenga una confusione di termini tra cultura scientifica e speculazione fantastica col volere attribuire a entrambe lo stesso significato e la stessa portata costruttiva della personalità umana, sia che ci si rivolga ai grandi maestri della scienza come Galileo, Kant, che alle — solo apparentemente — ingenue fantasticherie della J.K.Rowling nella sua fantasmagoria sul maghetto Harry Potter. Sarà sempre evidente che una confluenza tra scienza e arte, tra coscienza e magia, saranno preziose per dare all’uomo una completa visione del mondo nel quale è stato proiettato dal suo destino. Ecco allora come dall’attività di uno scienziato come Galileo Galilei fino alle invenzioni romanzate della J.K. Rowling esiste tutto sommato un filo conduttore che possiamo definire magico e che ci aiuta a ragionare anche al di fuori delle consuete coordinate che regolano — o dovrebbero regolare — il nostro pensiero e la nostra esistenza.

Il libro di Marco Ciardi, Galileo & Harry Potter. La magia può aiutare la scienza? è edito da Carocci (collana Sfere, pp. 131, e 13). Si parla anche di Newton lettore di Nicolas Flamel, Leopardi studioso di scienze naturali e Kant alle prese con Frankenstein
Marco Ciardi è docente di Storia della Scienza all’Università di Bologna. Il suo precedente libro Terra. Storia di un’idea (Laterza 2013) ha ricevuto il Premio Parco Majella. Per Carocci ha pubblicato Le metamorfosi di Atlantide. Storie scientifiche e immaginarie da Platone a Walt Disney (2011)

Repubblica 15.12.14
Dialoghi Matematici /4
“Che fatica dare i numeri in Vietnam”
Ngô Bao Châu, medaglia Fields 2010, racconta come è nato il suo amore per la scienza: “E adesso nel mio Paese sono una celebrità”
di Piergiorgio Odifreddi


NGÔ Bao Châu è il primo, e finora l’unico, indochinese ad aver ottenuto la medaglia Fields. A questo onore è arrivato nel 2010, dopo aver vinto per ben due volte da ragazzo le olimpiadi di matematica: una successione di eventi che si è già prodotta una decina di volte, a dimostrazione del fatto che la matematica è, come diceva Godfrey Hardy, “uno sport da giovani”. Abbiamo incontrato Châu al meeting di Heidelberg di settembre, e con lui abbiamo parlato della situazione della matematica in Vietnam.
Nato ad Hanoi nel 1972, è diventato nel 2005 il più giovane professore della storia del suo Paese, in cui oggi dirige l’Istituto di Studi Avanzati, creato nel 2011 anche in seguito alla medaglia Fields, ottenuta per la risoluzione del lemma fondamentale, un problema con un ruolo centrale nella teoria delle forme automorfe di Robert Langlands e Diana Shelstad.
LEI è nato ormai alla fine della guerra del Vietnam. Com’erano le scuole durante il conflitto, e subito dopo?
«Ovviamente fu un periodo molto duro in generale, e per le scuole in particolare. La mia fortuna è stata di nascere in una famiglia di intellettuali, con un padre professore universitario di matematica e una madre chimica. Molta gente frequentava la nostra casa, e si parlava di scienza e di matematica: è così che io mi sono appassionato».
Ma ci furono periodi analoghi alla Rivoluzione Culturale cinese, in cui tutto si fermò?
«Non direi. Ci furono persecuzioni, ma soprattutto negli anni ’50, nell’intervallo fra le due guerre con i francesi e gli statunitensi. Ed erano cose dirette più contro i proprietari terrieri, per la riforma agraria, che contro gli intellettuali».
C’era una tradizione matematica in Vietnam?
«Non molta. Certo niente di paragonabile a quella dell’India o della Cina. C’era una buona tradizione culturale, ad esempio nella ragioneria: i vietnamiti erano regolarmente usati dai francesi come impiegati statali, anche in paesi come il Laos e la Cambogia, dove quella tradizione è meno presente. Ma per quanto riguarda la matematica vera e propria, si è cominciata a farla seriamente solo una cinquantina o una sessantina di anni fa».
Lei quando ha scoperto di amare la matematica?
«Alle medie. A dodici o tredici anni mi hanno bocciato all’esame di ammissione al Liceo per Studenti Dotati, una scuola istituita negli anni ’60 con tre piani di studio specializzati: matematica, fisica-informatica e chimica- biologia. Ma l’anno dopo mi hanno preso, e ritrovarmi insieme e in competizione con altri ragazzi bravi mi ha stimolato. A sedici e diciassette anni sono andato alle olimpiadi internazionali di matematica, e ho vinto entrambe le volte la medaglia d’oro: una volta con punteggio pieno, 42 su 42».
Io sono un po’ scettico su queste cose. C’è relazione tra la matematica “da competizione” e quella “vera”?
«Più di quanto si pensi. Le olimpiadi matematiche possono effettivamente dare un’idea distorta di quello che è la materia, ma servono ad abituare alla concentrazione che è necessaria per farla. Ci si prepara molto intensamente, come per le olimpiadi sportive. E prima di arrivare alle finali internazionali, bisogna passare le selezioni nazionali».
In seguito, dove ha preso la laurea?
«Il percorso tradizionale in Vietnam, dopo le superiori, sarebbe stato andare a studiare in Unione Sovietica o in qualche paese est europeo. Poiché per la preparazione delle olimpiadi mi ero immerso nella combinatoria, pensai che sarebbe stato interessante andare in Ungheria, dove viveva il grande esperto Paul Erdös. Così ho studiato l’ungherese per un anno, ma nel 1989 cadde il muro di Berlino e l’Ungheria cancellò le borse di studio. Per fortuna un amico di mio padre riuscì a farmene dare una dalla Francia».
Avrei pensato che fosse la scelta ovvia per un vietnamita. Non avevano studiato in Francia anche Ho Chi Minh e gli altri rivoluzionari?
«Al contrario: io fui il primo studente ad andarci in cinquant’anni! E Ho Chi Minh era stato sì in Francia, e in altri paesi come gli Stati Uniti e l’Inghilterra, ma a lavorare, non a studiare: aveva fatto il cuoco, il panettiere, il cameriere, il lavapiatti, il fotografo, eccetera. Naturalmente i rivoluzionari studiavano anche parecchio, ma non in maniera canonica, perché dovevano mantenersi. Ad esempio, il diplomatico che firmò gli accordi di pace di Ginevra nel 1954, Ta Quang Buu, era un matematico autodidatta di gran valore».
Quale fu il suo percorso in Francia?
«Agli inizi non parlavo la lingua, visto che ne avevo studiata un’altra. Andai anche malissimo all’esame di inglese, prendendo 2 su 20! Ma visto che andavo bene in matematica, mi presero alla Scuola Normale, e sono rimasto in Francia diciassette anni».
La Scuola Normale sarà stata un’esperienza straordinaria.
«A dire il vero, non mi piaceva la matematica che mi insegnavano, perché ero ancora sotto l’influsso di quella che avevo imparato per le olimpiadi. Ma ho stretto i denti, e poi ho fatto il dottorato con Gérard Laumon, che ha avuto come studente anche Laurent Lafforgue, vincitore della medaglia Fields nel 2002. È stato Laumon che mi ha fatto amare veramente la matematica».
Prima non le piaceva?
«No. Andavo bene, ma non capivo cosa ci stesse veramente dietro: questo di solito non si impara sui libri, ma solo dai maestri e a voce».
A proposito di scuole, cosa pensa del fatto che ci sia un numero sproporzionato di medaglie Fields francesi, rispetto ad altri Paesi?
«C’è anzitutto una grande traglia: dizione matematica nel Paese, da Cartesio a Bourbaki. Ma c’è anche un sistema molto efficiente, che permette ai giovani promettenti di far ricerca al CNRS
(Centro Nazionale della Ricerca Scientifica) senza dover insegnare. Sono pagati poco, e dunque non possono farsi una fami- cosa che, di nuovo, li concentra sulla ricerca. E poi non c’è pressione a pubblicare, così che ci si può focalizzare su progetti a lungo termine».
La situazione in Vietnam oggi è cambiata?
«Il periodo in cui ero studente io, credo sia stato il punto più basso della storia recente. Subito dopo la fine della guerra, negli anni ’70 e ’80, ci fu una specie di autarchia intellettuale, senza contatti col resto del mondo. Negli anni ’90, la crisi economica provocò una fuga in massa dalle università di professori e studenti. Ma dopo la caduta del muro i paesi occidentali aprirono le porte ai giovani vietnamiti, e ormai centinaia si sono laureati e addottorati all’estero. Il problema, ovviamente, è che molti ci rimangono».
Lei non è mai tornato a viverci stabilmente, vero?
«No. Dopo la Francia sono andato negli Stati Uniti, anche se a un certo punto mi hanno dato una cattedra nel mio paese. Ci vado regolarmente, insegno corsi estivi, e sono il direttore scientifico dell’Istituto Vietnamita di Studi Avanzati, fondato nel 2011».
E non pensa che ci tornerà definitivamente?
«Il problema è che là sono diventato una specie di celebrità: la gente mi ferma per la strada, il ministero vuole consulenze, e questo rende la vita molto difficile. Cerco di fare il possibile per attirare l’attenzione sulla matematica, ma lasciarsi coinvolgere innesca una catena a reazione, mentre la priorità deve andare alla ricerca. Vivere in due posti invece è un’ancora di salvezza: dopo un po’ torno a Chicago, dove ora insegno, e posso staccare dalla notorietà e concentrarmi sulla matematica».

LA SERIE L’intervista a Ngô Bao Châu è la quarta tappa della serie sui matematici del mondo. Le precedenti, uscite l’1, il 3 e il 9 dicembre sono state con Manjul Bhargava Efim Zelmanov e Shigefumi Mori

Repubblica 15.12.14
I cinquant’anni della “Bianca” la storia d’Italia in forma di poesia
Per la celebre e ancora vitalissima collana Einaudi sono passati i più grandi scrittori in versi Una mappa sempre aggiornata della nostra resistenza culturale
di Alberto Asor Rosa


La collezione di poesia, edita da Einaudi, — e più nota come la Bianca , dall’elegante copertina candida e cifrata di pochi segni neri, opera temporibus illis di Bruno Munari, — compie cinquant’anni. È un evento da segnalare con attenzione e interesse. Insieme con lo Specchio mondadoriano, e altre piccole collane di editori minori, si deve alla Bianca un contributo essenziale a quella che, in altra occasione, ho definito, nel nostro paese, la «resistenza della poesia», — la resistenza, s’intende, alle spinte distruttive del mercato e all’omologazione dei linguaggi. Se poi si entra un poco più nel merito, saltano all’occhio particolari anche più significativi.
Cinquant’anni sono tanti: un intero periodo storico, per non parlare delle vicende strettamente letterarie e ancor più di quelle strettamente poetiche (cinquant’anni fa era ancora in piena fioritura, con Xenia e Satura, l’operosità di un Eugenio Montale). Il frutto dell’impresa einaudiana è testimoniato da ben quattrocentoventicinque titoli, se si calcolano anche le uscite delle ultime settimane (e se io non sbaglio i calcoli), cui corrisponde un numero ovviamente meno elevato ma comunque assai cospicuo di autori. Si tratta dunque di un corpus estremamente esteso, che andrebbe attentamente studiato perché vi si riflettono orientamenti e scelte anche di ordine più generale, editoriali, certo, ma anche culturali e letterarie, intese nel senso più lato.
Vi si alternano poeti e poetesse italiani e stranieri, antichi e moderni, di fama consolidata oppure appena esordienti, occidentali e orientali. Gli ultimi due volumi apparsi danno perfettamente il senso di questa continuità e al tempo stesso varietà e difformità. Sono (anche qui spero di non sbagliare) uno splendido Tutte le poesie di Giovanni Raboni (in due volumi), il più autentico e consolidato, insieme a Zanzotto, tra i poeti italiani del secondo Novecento, e un sorprendente (tanto per segnalare l’antitesi) Addio mio Novecento di Aldo Nove, il quale raggiunge qui senza ombra di dubbio il vertice della sua maturità.
La Bianca, oltre a essere un luogo di registrazione di valori acquisiti, ha sempre promosso le novità in campo poetico, quando, evidentemente, sembrava che ne valesse la pena. Lo strumento editoriale, appositamente pensato a tal fine, si riconosce dal titolo ricorrente: Nuovi poeti italiani . Questa attitudine alla ricerca e alla scoperta si è accentuata da quando ha preso la responsabilità della collana l’einaudiano Mauro Bersani. Segnalo le ultime tre edizioni: quella del 1995 (a cura dello stesso Bersani), quella del 2004 (a cura di Franco Loi, una delle voci più alte, io penso, della poesia italiana attuale, quand’anche espressa in un fantastico, forse più esattamente si dovrebbe dire oggi, immaginario, dialetto milanese) e quella del 2012 (a cura di Giovanni Rosadini, completamente dedicato alle ultime voci femminili della poesia italiana contemporanea). Se si percorresse dall’inizio alla fine, da un volume all’altro di questa serie nella serie, il sentiero privilegiato da essa rappresentato, se ne ricaverebbe il senso del mutamento, oltre che dei valori già acquisiti.
In altri momenti, nella Bianca , il rapporto fra creazione poetica (l’espressione è antiquata, lo so, anzi antica, ma ora non me ne viene in mente un’altra) e riflessione sulla poesia si fa anche più stringente e vincolante. Ad esempio. Della Bianca, negli ultimi anni, è stata senza dubbio espressione tipica un poeta come Enrico Testa, autore (anche qui se non erro), nella Collezione di poesia , di quattro titoli come In controtempo (1994), La sostituzione ( 2001), Pasqua di neve (2008) e Ablativo (2013), contraddistinto dalla scelta di un linguaggio sobrio, anzi essenziale, in cui limpidamente si riflette la nostra difficoltà di dire qualcosa di “puro” e di “vero” al di là dei limiti del “linguaggio comune”, quello nel quale quotidianamente affondiamo (e spesso affoghiamo), sia che si parli di politica o di costume, sia che ci si scambi qualche faticoso messaggio personale, di consolazione o di speranza. Ebbene, al medesimo Testa, — il quale appartiene ovviamente alla specie non piccola dei poeti colti, anzi coltissimi, che sanno quel che fanno e, scrivendo di poesia o ragionandone, riescono a dirlo, — va ricondotta la curatela di un’eccellente antologia (quasi un manifesto) di poesia con- temporanea, — antologia che s’intitola Dopo la lirica ( sottotitolo: Poeti italiani 1960 2-000) (2005), la quale si apre con Vittorio Sereni, Giorgio Caproni e Mario Luzi, e si chiude, quarant’anni dopo, con Gabriele Frasca, Fabio Pusterla e, molto giustamente, Antonella Anedda.
In occasione dei cinquantesimo compleanno la Bianca, per omaggiarsi, ha pubblicato un volumetto intitolato, appunto, 5-0 anni di Bianca : lo costituiscono le poesia inedite di quarantotto autori già pubblicati nei volumi precedenti, più le due di autori in via di pubblicazione (Francesco Scarabicchi, Andrea De Alberti). Vi si ritrovano, — non vorrei far torto a qualcuno, ma solo per esemplificare, — poeti e poetesse come Salestrini, Cavalli, Dapunt, De Angelis, D’Elia, Fois, Leonetti, Loi, Magrelli, Marcoaldi, Mari, Nove, Pennati, Piersanti, Rosadini, Ruffilli, Scarpa, Testa, Valduga, Villa, Viviani.
A leggerli l’uno dietro l’altro nell’ordine di comparsa nella Bianca , il caleidoscopio si arricchirebbe fino a diventare una sorta di panglottismo poetico italiano contemporaneo. Le voci sono molte, e anche molto diverse fra loro, ma le accomuna prodigiosamente (credo) la persuasione che con la lingua che si possiede (quella veteroitaliana ancora, almeno per ora), si può andare al di là delle apparenze e scendere in profondità. Basterebbe questo per fare della Bianca un pezzo non irrilevante del nostro esserci e, soprattutto, del nostro sapere di esserci.

domenica 14 dicembre 2014

dal Corriere:
San Damaso. Renzi ricevuto da Papa Francesco

Trenta minuti di colloquio privato
Il premier e la sua famiglia in Vaticano. La moglie Agnese indossa un abito scuro ma non mette il velo.
Renzi alla fine ha regalato al Santo Padre una confezione di vini toscani, in particolare il Vin santo e il Chianti. Illustrando la confezione, Renzi ha detto: «Abbiamo portato il Vin santo per la messa e non solo, sono i nostri prodotti italiani».
Il Santo Padre non li gusterà, perché, Eucarestia a parte, è astemio.

La Stampa 14.12.14
Riforme, ribelli all’assalto
Civati evoca l’uscita dal Pd
di Amedeo La Mattina


Una vigilia di Assemblea nazionale Pd incandescente. Una vigilia da «thriller», ironizza Pippo Civati, riferendosi al mistero della carta che Renzi intende giocare oggi in assemblea per riportare all’ordine i ribelli del suo partito. La ribellione è esplosa in commissione Affari costituzionali di Camera dove procedono a fatica le riforme delle istituzioni e della legge elettorale. Sullo sfondo aleggia il big game del Quirinale e incombe lo spettro della scissione che ieri Civati ha evocato. «Un partito a sinistra del Pd si costituirà se Renzi continua così, non è colpa o responsabilità nostra. Se Renzi si presenta con il Jobs Act e le cose che sta dicendo alle elezioni a marzo, noi non saremo candidati con lui».
L’attacco della minoranza
Renzi, dal canto suo, fa spallucce, apre la porta a chi vorrebbe uscire, pensando che a sinistra del Pd ci sia spazio solo per una minoranza che non tocca palla. E poi, se qualcuno vuole mettersi al suo posto, attenda il congresso o le primarie. «E’ singolare - osserva il renziano Ernesto Carbone - che ci sia ancora chi pensa di vivere in un clima da congresso. Se vuole decidere la linea del Pd, Civati si presenti nuovamente alle prossime primarie». Chi invece non ci pensa affatto a imboccare l’uscita è Bersani che rivendica al Parlamento il diritto di dissentire. «Leggo sui giornali di questo psicodramma a proposito di quanto succede in Parlamento. Cerchiamoci di metterci tranquilli che abbiamo altri problemi in giro». L’ex leader Pd ricorda che non sono i governi a cambiare le Costituzioni: «Renzi riconosca che sono materie parlamentari e quindi se la sbroglino lì. Non vedo la necessità di accendere fuochi».
Il nodo
E invece di fuochi a Montecitorio ne sono stati accesi tanti. Mercoledì in commissione Affari costituzionali il governo è andato sotto su un emendamento dell’onorevole Pd Lauricella che nega al presidente della Repubblica la nomina dei senatori a vita. Ieri lo scivolone è stato recuperato, reintroducendo la nomina dei senatori a vita. Riunione notturna con toni alti, alla fine della quale Lauricella ha deciso di non partecipare alle sedute della commissione. In trincea sono rimasti nove deputati della minoranza democratica che hanno chiesto di essere sostituiti: non vogliono mandare ancora giù il governo, ma intendono continuare a votare in dissenso su alcuni punti della riforma. Ci sono stati momenti concitati ieri pomeriggio a Montecitorio, con i lavori della commissione interrotti. In questa situazione Speranza, che oltre ad essere capogruppo è anche uno dei leader della minoranza, si trova sempre tra l’incudine e il martello. Ieri ha dovuto mediare, riunendo i dissidenti (tra questi Bindi, D’Attorre, Cuperlo, Pollastrini, Agostini) con renziani e ultras renziani come Ettore Rosato considerato il bastone di Matteo in commissione. Sono volate parole grosse: Rosato li ha accusati di voler far cadere il governo e bloccare le riforme; risposta piccata della minoranza che attribuisce a Renzi la volontà di volere mettere la mordacchia a chi la pensa diversamente. Alla fine i ribelli hanno ritirato la richiesta di essere sostituiti, ma non sono rientranti in commissione per non votare l’articolo 3 che ripristina il potere del Capo dello Stato di nominare i senatori a vita. Sono rientrati in un secondo momento, dopo la riformulazione di alcuni articoli. In serata votato un emendamento dei relatori che fissa il quorum per eleggere il capo dello Stato a tre quinti dei votanti a partire dal nono scrutinio.
Ma la guerriglia è rimasta. La Bindi: «Se non ci dicono sì all’emendamento che introduce il giudizio preventivo della Consulta sulla legge elettorale, allora con sdegno me ne vado».

il Fatto 14.12.14
Renzi pronto a bastonare l’Assemblea democratica
Per spingere il suo programma porterà con sé le spese delle ex segreterie
di Wanda Marra


Il “programmino” con le spese delle segreterie pre-Renzi (con tanto di dettagli su viaggi, alberghi, pranzi e quant’altro dei vari componenti) è pronto. L’ordine del giorno da far votare all’Assemblea per stringere all’angolo le minoranze e costringerle a non mettere mai più in difficoltà il governo, Renzi ha finito di scriverlo durante la notte. Aspettava il via definitivo della Commissione Affari Costituzionali di Montecitorio alle riforme. E così il plenum del partito di oggi all’Hotel Parco dei Principi si preannuncia una resa dei conti, con il thrilling dell’incertezza.
Il segretario-premier apre alle 11. Con un discorso molto duro, molto chiaro, quasi definitivo. La premessa l’ha fatta ieri, parlando di scuola: “Gennaio e febbraio saranno mesi complicati, ci sono tanti provvedimenti, passaggi istituzionali, appuntamenti legati ai tanti provvedimenti di legge”.
DUNQUE, BASTA con i “giochetti” parlamentari. Come quello che ha mandato sotto il governo in commissione Affari Costituzionali alla Camera mercoledì. O come il comportamento andato avanti per tutta la giornata di ieri, da parte della minoranza dem: che prima è uscita, poi è rientrata e alla fine si è fatta sostituire da renziani pre-allertati per non votare il testo uscito dal Senato, ma neanche mandare sotto il governo sugli ultimi articoli. Un partito nel partito, che alla fine non rompe, ma non si allinea. E cuoce il leader a fuoco lento. Il quale leader è furioso da giorni. “Cosa dirà di preciso? Vediamo quanto si arrabbia stanotte sentendo i racconti dalla Commissione”, commentano i suoi. Eppure non è così semplice: “Si uniscono due debolezze: dove vanno quelli della minoranza, se escono dal Pd? E Renzi, cosa può fare per disinnescarli? ”, commenta un senatore dem. Perché, in realtà, il logorio quotidiano e la mancanza di controllo del territorio il premier li accusa. Puntando sul fatto che alla fine in Commissione ha avuto il via libera alle riforme, pur con una fatica estrema, e perevitare martiri degli avversari, oggi Renzi - salvo sorprese dell’ultima ora - non dovrebbe annunciare punizioni esemplari. I renziani: “Che fa, li caccia? Non gli conviene. E poi, loro sono divisi”. Civati ieri ha ri-promesso la scissione. “Alla fine resterà solo su questa strada”, ancora gli uomini del presidente. E allora? Allora, potrebbe minacciare intanto la fine della “gestione unitaria” della segreteria. Se le cose annunciate non verranno fatte e votate nei termini previsti. Oltre alla mancata ricandidatura, in caso di voto. Mancata ricandidatura che per i ribelli ormai è certa. Intanto, comunque, si farà votare l’ordine del giorno, forte dei numeri dell’Assemblea. I suoi sono stati precettati in massa: la maggioranza dev’essere schiacciante, come dev’essere chiaro che la minoranza è davvero minoranza. Gli “altri”, i dissidenti, hanno anche valutato se non
farsi vedere, marcando con l’assenza il loro dissenso. Alla fine ci saranno, a parte D’Alema. Alcuni voteranno contro, altri non parteciperanno al voto. La scissione è nell’aria, ma non si materializzerà neanche oggi.
SI ASPETTA IL VOTO per il presidente della Repubblica, prima. E poi, di capire con quale legge si andrà alle elezioni. “Caute”, diceva in latino ieri Roberto Speranza, capogruppo alla Camera, in questi giorni fisso in Commissione. Nel tentativo di tenere la minoranza saldamente nel Pd. Tra i dialoganti c’è anche Pier Luigi Bersani. Spera nel Quirinale. “Con qualche possibilità”, commenta un renzianissimo. Matteo, evidentemente, in questa fase ha tutta la convenienza di farglielo credere, per portare a sé più pezzi di minoranze possibili.
Il resto sarà la mozione degli affetti e delle responsabilità, come al solito sul palcoscenico della diretta nazionale: “Non chiedo obbedienza, ma pretendo lealtà. Non per me. Per la cucina della festa dell’Unità, per l’iscritto che prende ferie nella settimana delle elezioni, per la giovane precaria che spera in noi”. La linea è chiara: i dirigenti della “ditta” non rappresentano più neanche il partito. E ancora: “Chi vuole cambiare segretario può aspettare fino al 2017 con il congresso, chi vuole cambiare governo, fino al 2018. Ma chi vuole cambiare paese non perda un solo giorno e venga a darci una mano”.

La Stampa 14.12.14
Il premier spiazza i nemici e punta ai “collaborazionisti”
Linea soft senza espulsioni. I contestatori divisi in quattro fazioni
di Fabio Martini


In questi giorni la principale preoccupazione dello staff di Renzi è stata poco politica, molto materiale ma è rimasta riservata: riuscire a riempire la sala che questa mattina, all’hotel Parco dei Principi a Roma, ospiterà l’Assemblea nazionale del Pd. Un appuntamento preceduto dall’attesa di uno scontro frontale, l’ennesimo, tra il segretario-presidente Renzi e le minoranze interne, sempre più combattive e sempre più divise tra loro. La preoccupazione di riempire la sala non risponde ad un canone estetico o ad un’ansia organizzativistica: riuscire a far convergere in Assemblea i più di millecinquecento componenti è sempre stata un’impresa titanica anche per i predecessori e dunque Renzi ha chiesto che questa mattina non ci siano vuoti eccessivi, che potrebbero alludere ad un Pd renziano demotivato e poco compatto.
Le preoccupazioni
Abile nel collocare la riunione del parlamentino all’indomani dell’udienza col Papa, Renzi confida di non avere grosse preoccupazioni politiche, anche perché ieri sera la sua intenzione era quella di spiazzare una volta ancora i suoi avversari interni: a chi lo aspetta assetato di provvedimenti disciplinari, il segretario-presidente potrebbe invece riservare un approccio per certi versi capovolto. Il Renzi che aprirà questa mattina i lavori dell’Assemblea nazionale sarà più inclusivo e meno “attaccabrighe” rispetto alle ultime sortite: «Chi vuole cambiare il governo aspetti il 2018, ma chi vuole cambiare il Paese non perda un solo giorno e venga a darci una mano». Un approccio soft, mirato anche a dividere ulteriormente la minoranza interna: anziché attaccarla frontalmente e dal punto di vista disciplinare, Renzi immagina di blandire ulteriormente i “collaborazionisti”, che aumentano ad ogni passaggio cruciale.
Un Renzi che rivendicherà il lavoro fatto, che confronterà il Pd del dicembre 2013 e quello di oggi. Ha confidato ieri: «Non rivendico meriti, non voglio coccarde, ma ricorderò l’impresa che abbiamo fatto: avete preso un partito che non aveva vinto in Italia e lo avete trasformato nel partito più votato d’Europa». Un Renzi che si propone di sferzare la minoranza, con argomenti pungenti ma oggettivi, affermando un principio: «Non voglio obbedienza, ma pretendo lealtà». Un approccio destinato, almeno sulla carta, a complicare la reazione delle minoranze interne, divise in cinque aree: l’ala più lontana da Renzi, guidata da Pippo Civati, che ieri ha riunito i suoi a Bologna e ha ribadito per l’ennesima volta, ma con un po’ di enfasi in più, che lui non resterebbe in un Pd che andasse ad elezioni anticipate con la bandiera del Jobs Act; poi ci sono i bersaniani, oramai divisi in due sotto-aree: i duri e puri (Fassina, D’Attorre e Gotor) e i “collaborazionisti” (Speranza, Stumpo, Epifani, Damiano), con Bersani che è leale con la “ditta” ma al tempo stesso fomenta gli umori guerrieri dei suoi; gli ex dalemiani raccolti attorno a Gianni Cuperlo e il cui punto di riferimento (Massimo D’Alema, reduce dalla contestazione pugliese) non parteciperà all’Assemblea di oggi; infine c’è l’area delle “personalità”, personaggi tra loro diversi, (Bindi, Boccia), ma accomunate nell’atteggiamento critico verso Renzi.

Repubblica 14.12.14
Stefano Fassina
“Matteo drammatizza perché vuole votare io non cerco scissioni”
Riforme e democrazia interna, lo scontro tra le anime del Pd alla vigilia dell’Assemblea nazionale
Per la resa dei conti in Assemblea bisogna essere in due, ma chi dissente vuole solo migliorare le riforme
intervista di Giovanna Casadio


ROMA «Renzi sta drammatizzando lo scontro interno perché vuole andare a votare al più presto». Stefano Fassina, uno dei leader della sinistra dem, lancia accuse durissime alla maggioranza renziana nel giorno dell’Assemblea del partito.
Fassina, nel Pd siete a un passo dalla scissione?
«Spero che nessuno dei dirigenti dem, né Civati né altri, abbiano davvero questo obiettivo. Ma rispondo per me. Il mio impegno rimane nel Pd e per correggere la rotta del partito e del governo».
Però i toni sono di sfida tra Renzi e voi della sinistra dem?
«Mi pare che il presidente del Consiglio voglia andare al voto e cerchi ogni giorno di costruire alibi per giustificare il suo obiettivo, ma scaricando la responsabilità sulle spalle degli altri. I termini utilizzati in questi giorni come “imboscata”, “rivincita congressuale”- dopo un passaggio in commissione Affari costituzionali di Montecitorio assolutamente fisiologico e su un punto secondario, cioè l’eliminazione dei senatori a vita nel nuovo Senato federale - mi pare siano finalizzati a una drammatizzazione politica per creare uno showdown verso le elezioni».
Nell’Assemblea ci sarà quindi una resa dei conti?
«Per fare la resa dei conti bisogna essere in due, ma da parte di chi in questi mesi ha dissentito, l’obiettivo è stato di migliorare le riforme. È surreale ad esempio, che il giorno del successo dello sciopero generale, Renzi e i suoi invece di capire come ricostruire un rapporto con una parte fondamentale del popolo del Pd, continuino a delegittimare sul piano morale e politico chi tra i dem tiene faticosamente aperto il dialogo. Dove vogliono portare il Pd?».
La minoranza dem per la verità ha messo in difficoltà il governo in commissione facendolo andare sotto.
«Il governo è andato sotto dopo essere stato ripetutamente informato della posizione di dissenso e invitato ad accantonare un punto che era secondario».
Ma può la sinistra dem andare avanti con il dissenso continuo sulle riforme da quelle costituzionali al lavoro?
«No, non si può andare avanti così. Siamo di fronte a un bivio: da un lato il premier può continuare a cercare lo scontro per giustificare la sua scelta di andare al voto; dall’altro la strada del contributo che tutti vogliamo dare nel Pd. Renzi la smetta di fare ridicoli ritratti sulle poltrone e sulle candidature, che forse funzionano per chi lui ha attorno, ma per quanto mi riguarda producono il risultato opposto».
In un partito non ci vuole disciplina?
«La disciplina in un partito del XXI secolo si costruisce non attraverso maggioranze blindate che procedono come schiacciasassi, ma con il dialogo».

il Fatto 14.12.14
La minoranza Gianni Cuperlo
“Voteremo ancora contro la Riforma”
intervista di Wanda Marra


Abbiamo deciso di non votare l’articolo 38 delle riforme costituzionali per non mandare sotto il governo una seconda o una terza volta, poi in Aula difenderemo le nostre ragioni”. Gianni Cuperlo, deputato della Commissione Affari Costituzionali, che ieri fino a tarda notte ha votato le riforme, in serata sintetizza così una giornata di ordinaria follia. Con la minoranza dem che prima esce dalla Commissione, poi rientra. In un clima tesissimo, da quando mercoledì proprio la minoranza ha mandato sotto il governo.
Onorevole Cuperlo, perché avete chiesto la sostituzione in Commissione?
Noi abbiamo lavorato per migliorare la riforma e abbiamo accettato la richiesta di non stravolgerne l’impianto rispettando il lavoro del Senato. Con la stessa lealtà abbiamo indicato questioni sulle quali era e resta fondamentale cambiare il testo.
Quali?
Tra le più importanti, alzare il quorum per l’elezione del Capo dello Stato, evitando che chi vinca nelle urne si prenda anche le istituzioni di garanzia. Abbassare il quorum per consentire alle forze di opposizione di chiedere il vaglio di costituzionalità per una legge. Prevedere una verifica della Consulta sulla futura legge elettorale dopo il disastro del Porcellum. Togliere dalla Costituzione il voto a data certa e evitare che il governo
possa porre la fiducia sulle leggi delega. In questo quadro spostare i cinque senatori di nomina presidenziale da un Senato delle autonomie alla Camera politica era una scelta di puro buon senso.
Vi hanno accusato di non aver rispettato un accordo.
Siamo stati leali e coerenti in ogni passaggio, anche chiedendo al governo di accantonare l’emendamento sui senatori di nomina presidenziale.
Perché invece alla fine avete ripreso a votare?
Non abbiamo cambiato idea né atteggiamento. Sono stato presente per verificare il miglioramento sul quorum per il Quirinale, e lo abbiamo ottenuto con i tre quinti dei votanti per il Capo dello Stato. Sul sindacato preventivo di costituzionalità della legge elettorale, che è una questione fondamentale, ho aspettato di conoscere la volontà del governo, e non c’è stata l’apertura che chiedevamo. C’è stata la modifica all’articolo 1 su alcune competenze del Senato. Ho preso atto con amarezza che i margini per delle correzioni al testo che maturassero nel libero confronto parlamentare erano molto ristretti.
In Assemblea che tipo di posizione assumerete?
Ascolteremo la relazione del segretario e diremo senza alcun timore ciò che pensiamo. Spero solo che da parte di chi dirige si abbandonino toni e parole che servono a eccitare gli animi ma non ad affrontare i problemi.
Vi aspettate insulti, minacce o punizioni?
Mi aspetto la relazione di un segretario e non di un capo corrente.
Magari si chiederà agli esponenti della minoranza di uscire dalla segreteria Pd?
Quando quella segreteria è nata si è detto che rifletteva una direzione plurale del partito. Chiedo io, è cambiato tutto in tre mesi o siamo ancora d’accordo che l’unità migliore è quella che nasce dal rispetto delle differenze?
Temete l'espulsione dal partito?
Espulsi perché? Sulla base di quale “colpa”? Cerchiamo di recuperare un minimo di serietà.
Civati ha ufficialmente annunciato la scissione. Per voi esiste come possibilità?
No, questo è il partito che abbiamo contribuito a creare ed è la nostra famiglia politica.
Graziano Delrio vi ha accusato di voler andare a votare: è vero?
Noi vogliamo solo fare delle buone riforme.
Ci vuole andare Renzi?
Lui lo nega e io voglio credere alle sue parole.
A chi vi accusa di logorare il governo che dite?
Che migliorare le riforme è il miglior contributo che si può dare al governo.
Bonifazi minaccia di mettere online le spese delle vecchie segreterie.
A parte che pensavo che i nostri bilanci fossero pubblici per definizione, ma rispondo che va benissimo. Anche se non capisco cosa c’entri col dibattito di questi giorni sulla riforma della Costituzione.
Siete disponibili a votare alla Camera l’Italicum con il Mattarellum come clausola di salvaguardia?
Già la domanda pare uno scioglilingua. Io dico questo: Renzi ha cambiato idea e lascia l’Italicum per il Mattarellum? Ok, ma facciamolo davvero e diamo al Paese una certezza almeno su questo terreno.
Come valuta la contestazione a D’Alema a Bari?
Come il segno di un malessere diffuso che individua la politica come il nemico. Capita a tutti noi e dobbiamo interrogarci a fondo su come contrastare quel sentimento.
wa.ma.

La Stampa 14.12.14
D’Attorre: “Disciplina di partito? Matteo è più rigido di Togliatti”
Il deputato dell’opposizione interna: clima soffocante Altro che agguati, cerca alibi per i problemi del governo
intervista di Francesca Schianchi


Alle otto di sera, il deputato della minoranza Pd Alfredo D’Attorre sta ancora votando la riforma del Senato in Commissione affari costituzionali alla Camera. Ancora per poco, però: «In nove abbiamo chiesto al capogruppo Fiano di essere sostituiti: appena arriveranno i sostituti lasceremo la Commissione».
Perché?
«Abbiamo preso atto dell’indisponibilità del governo a consentire modifiche su punti essenziali, come il sindacato preventivo di costituzionalità sulla legge elettorale, che dovrebbe invece unire il Pd».
Un gesto polemico?
«Un gesto di responsabilità, dopo la drammatizzazione del tutto impropria di tre giorni fa sui senatori nominati dal capo dello Stato, per evitare una spaccatura dentro al Pd dinanzi a un atteggiamento rigido e sbagliato del governo».
Non si può rimettere sempre tutto in discussione…
«Ma noi abbiamo accettato che il governo presentasse un progetto e abbiamo garantito il rispetto dei pilastri che ha individuato come fondamentali. Siamo andati oltre quello che è successo in passato nei processi di revisione costituzionale: persino il Pci togliattiano riconosceva ai parlamentari margini di autonomia di valutazione, sarebbe ben strano che il Pd renziano adottasse un concetto di disciplina più soffocante…».
Non è una questione di lealtà alle scelte della maggioranza?
«Da due settimane lavoriamo ininterrottamente in Commissione, abbiamo fatto centinaia di voti, ritirato emendamenti che potevano creare problemi, come si fa a definire il voto su un singolo punto, mai ritenuto centrale, come agguato? Non si può trasformare il voto su ogni emendamento come un voto di fiducia al governo. La sensazione è che Renzi talvolta giochi deliberatamente a drammatizzare lo scontro, alla ricerca di nemici più o meno immaginari, per costruirsi alibi rispetto alle difficoltà del governo».
Come vi comporterete in Aula?
«Come parlamentari che cercano di migliorare il provvedimento sui punti che non è stato possibile migliorare in Commissione».
Fino a che punto? Fino a votare contro la riforma?
«Assolutamente no. Per noi la riforma deve andare in porto».
Cosa direte oggi in Assemblea?
«Io rivendicherò la lealtà del nostro comportamento, e proverò a convincere Renzi che se il governo in materia costituzionale riconoscesse di più lo spazio del Parlamento, anche a scapito del patto del Nazareno, le riforme camminerebbero meglio e più spedite».
Pensa anche lei alla scissione, come ha evocato Civati?
«Sono radicalmente contrario: solo parlarne è un errore. Ho un’idea molto diversa da Civati, e come me Fassina, Cuperlo e tanti altri con cui ho parlato. I tanti lavoratori che incontriamo non ci chiedono di lasciare il Pd e chiudere la rappresentanza del mondo del lavoro in un cantuccio di sinistra dura e pura, ma di riconnettere il Pd al mondo del lavoro. La battaglia si fa dentro al partito».
Alle otto di sera, il deputato della minoranza Pd Alfredo D’Attorre sta ancora votando la riforma del Senato in Commissione affari costituzionali alla Camera. Ancora per poco, però: «In nove abbiamo chiesto al capogruppo Fiano di essere sostituiti: appena arriveranno i sostituti lasceremo la Commissione».
Perché?
«Abbiamo preso atto dell’indisponibilità del governo a consentire modifiche su punti essenziali, come il sindacato preventivo di costituzionalità sulla legge elettorale, che dovrebbe invece unire il Pd».
Un gesto polemico?
«Un gesto di responsabilità, dopo la drammatizzazione del tutto impropria di tre giorni fa sui senatori nominati dal capo dello Stato, per evitare una spaccatura dentro al Pd dinanzi a un atteggiamento rigido e sbagliato del governo».
Non si può rimettere sempre tutto in discussione…
«Ma noi abbiamo accettato che il governo presentasse un progetto e abbiamo garantito il rispetto dei pilastri che ha individuato come fondamentali. Siamo andati oltre quello che è successo in passato nei processi di revisione costituzionale: persino il Pci togliattiano riconosceva ai parlamentari margini di autonomia di valutazione, sarebbe ben strano che il Pd renziano adottasse un concetto di disciplina più soffocante…».
Non è una questione di lealtà alle scelte della maggioranza?
«Da due settimane lavoriamo ininterrottamente in Commissione, abbiamo fatto centinaia di voti, ritirato emendamenti che potevano creare problemi, come si fa a definire il voto su un singolo punto, mai ritenuto centrale, come agguato? Non si può trasformare il voto su ogni emendamento come un voto di fiducia al governo. La sensazione è che Renzi talvolta giochi deliberatamente a drammatizzare lo scontro, alla ricerca di nemici più o meno immaginari, per costruirsi alibi rispetto alle difficoltà del governo».
Come vi comporterete in Aula?
«Come parlamentari che cercano di migliorare il provvedimento sui punti che non è stato possibile migliorare in Commissione».
Fino a che punto? Fino a votare contro la riforma?
«Assolutamente no. Per noi la riforma deve andare in porto».
Cosa direte oggi in Assemblea?
«Io rivendicherò la lealtà del nostro comportamento, e proverò a convincere».

il Fatto 14.12.14
D’Alema: “Non vado da Renzi. Non mi faccio minacciare”
“Si annunciano punizioni, non ci sto. La contestazione di Bari? Infiltrati tra le bandiere rosse. Ma non mi tiro indietro. Faremo vedere al premier da che parte sta l’Italia. Nonostante i giornaloni”
intervista di di Carlo Tecce


Massimo D’Alema è in campagna, nei suoi poderi, il vino di questi tempi va travasato, non ancora bevuto. Ci vuole pazienza, con l’uva. Ma per Matteo Renzi non aspetta, non fa deroghe, il Líder Máximo. Oggi sarà assente al raduno democratico di Roma. “Non vado all’assemblea nazionale del partito, non voglio assistere alle minacce. Per come si preannuncia, sarà una resa dei conti interni, una serie di punizioni. Non è una sede adeguata per affrontare il merito dei problemi, come la crisi economica che ci travolge o i limiti delle riforme”.
D’Alema reagisce a Renzi, non desiste mai, poi sottolinea che vuole riposare, che deve guidare. Ancora fanno rumore quegli insulti raccolti venerdì, mentre attraversava la piazza di Bari. C’era lo sciopero generale, bandiere e pettorine rosse, e D’Alema s’era immerso nella folla per percorrere il breve tratto che collega il Municipio, dove ha incontrato il sindaco Antonio Decaro, e l’albergo che ospitava una manifestazione di ItalianiEuropei, la fondazione che presiede. L’ex segretario dei Giovani comunisti ha rovistato nella memoria, gli sovviene una più tragica e concitata trasferta a Bari, nel ‘77, per la morte di Benedetto Petrone, un ragazzo antifascista ammazzato da una banda di missini. Non fa paragoni. Non mischia la storia. E rifiuta di passare per il grande vecchio politico, il rottamato che non si rassegna, ferito da un “vaffanculo”. Da Bari a Bari, s’arriva a Renzi con i ragionamenti di D’Alema.
C’è stata da sinistra una reazione di rabbia a un simbolo di sinistra. Cosa ha provato?
Io non mi spavento, ma i fatti vanno illustrati per bene.
Li illustri.
Ho salutato Decaro e sono sceso in strada, non sapevo in che spezzone di corteo mi trovassi. Le assicuro che in tanti mi hanno stretto le mani, mi hanno incoraggiato e poi sono incappato in un gruppetto. C’era una rappresentanza Ugl, non possiamo dire che siano compagni.
La passeggiata tra i fischi la poteva evitare?
Una piccolissima contestazione non può essere confusa con il sentimento dei cittadini. A differenza di chi non riconosce i sindacati e non rispetta la piazza, io sono sempre presente, non mi tiro indietro. Non voglio aggiungere ulteriori commenti, però. È un episodio limitato e superato. Non mi interessa.
Sarà impegnato a scardinare il governo, pare che sia fautore di una manovra per proporre un esecutivo tecnico con a capo il ministro Pier Carlo Padoan.
Queste sono fesserie che vengono divulgate per creare confusione, per distogliere l’attenzione sulle questioni serie e reali, ma le garantisco che non hanno fondamento. E non mi preoccupano le strumentalizzazioni, ormai le cose che scrivono i giornali le ignoro. In Europa, si fidi, la stampa italiana ha una credibilità molto bassa.
Sostiene che Palazzo Chigi
la utilizzi come un alibi, uno spauracchio?
Il gioco non funziona, è banale. D’Alema non occupa scranni, non muove truppe in Parlamento, ma non rinuncia all’attività politica. Mai. I cittadini non sono ingenui, non si fanno ingannare, capiscono le inefficienze di questo governo, gli errori che ha compiuto. E io mi premuro soltanto di spiegare quel che posso spiegare.
Non sarà in platea durante il discorso di Renzi?
No, no, no. La saluto.
IN EFFETTI, un rumore di automobile in marcia si avverte al telefono. È pomeriggio, D’Alema, versione viticoltore, è un po’ vago sull’evento democratico di oggi. In serata, fa sapere al Fatto: “Non partecipo, non accetto le minacce o le sanzioni, come viene prefigurato in questi giorni”. La nota in calce è per Matteo Renzi, che vuole regolare l’opposizione interna. E pure per Graziano Delrio. Il sottosegretario che ha avvisato perentorio: “Se la minoranza vuole il voto, lo dica”. D’Alema s’era immolato in difesa dei parlamentari dissidenti, stavolta lascerà un posto vuoto. E non sarà una protesta meno evidente.

il Fatto 14.12.14
Fischi al compagno Massimo Cacciari
“Confesso, a Bari mi ha fatto pena”
di Paola Zanca


Scene così, anche lui che è stato sindaco (a Venezia) e più volte parlamentare, non le aveva mai viste. E per questo, a Massimo Cacciari, la passeggiata in mezzo ai fischi e alle bandiere rosse di Massimo D'Alema l'altroieri a Bari, ha fatto una certa “impressione”. E anche qualcosa di più.
Cacciari, cosa ha pensato guardando quel video?
Non nutro nessuna simpatia per D'Alema, non ci sopportiamo da quando avevamo i calzoncini corti. Ma quelle immagini, certo, mi hanno fatto impressione. Avrà anche diecimila peli sullo stomaco, ma per uno con la sua storia, quei fischi da parte del sindacato devono essere stati duri da digerire. Dico la verità, il compagno D'Alema mi ha fatto un po' pena.
Troppe colpe sulle sue spalle?
La situazione è drammatica. Le persone stanno sempre peggio e giustamente se la prendono con chi in questi anni ha gestito la baracca e ha ridotto il Paese in questo stato. La questione è delicatissima: non ci sono più punti di riferimento, né a destra né a sinistra né al centro. Nessuno ha più autorevolezza.
Quei fischi quindi non erano solo contro D'Alema?
Macché! Non è una questione personale. Non c'entra niente D'Alema. Poteva passare Bersani, Renzi, Alfano... è la rivolta contro una classe dirigente che non sa trovare soluzioni credibili ai problemi della gente. Anche voi giornali, smettetela di guardare al contingente: questa è una situazione che andrebbe studiata in termini di sistema, e invece noi continuiamo a stare qui a commentare fatti e fatterelli.
D'Alema ha preso i fischi, eppure è uno che critica Renzi un giorno sì e l'altro pure.
Nel Pd ci si avvia verso un divorzio lacrime e sangue. Lo dico da mesi, che era meglio procedere a una separazione consensuale: invece finirà a coltellate, ormai è inevitabile.
È preoccupato?
L'aria che tira è pericolosissima: la crisi peggiora e nessuno sa più a chi credere.
Che conseguenze immagina?
Finirà che verremo commissariati. Se non siamo in grado di cavarcela con le nostre forze, faremo la fine della Grecia. Se non la smettiamo di discutere per mesi di riforma del Senato, di legge elettorale e di altre cose che non cambiano una virgola della vita delle persone non ci sarà alternativa. Adesso ci mancava solo Napolitano...
Che c'entra?
A mio avviso è l'unico che ci ha fatto rimanere in piedi. Senza di lui la situazione può soltanto peggiorare.

il Fatto 14.12.14
Ai ferri corti
E Civati ripromette una scissione
di Giulia Zaccariello


Bologna Lancia ultimatum, traccia programmi, chiama a raccolta per nuove adesioni. Ma alla fine, ancora una volta, rimanda a data da destinarsi il passo della rottura definitiva. Così Giuseppe Civati detto Pippo, il deputato della minoranza Pd, l’eterno dissidente tormentato dai mal di pancia, prepara il terreno per una nuova realtà di sinistra. Senza però spingersi oltre la teoria.
IERI, CIVATI HA CONVOCATO i suoi a Bologna per una sorta di contro Leopolda in salsa emiliana. Un summit che ufficialmente serviva per presentare il “Patto non del Nazareno”, un progetto di governo alternativo, ma che nei fatti si è tradotto nell’occasione per lanciare l’aut aut a Matteo Renzi. E il dubbio amletico “scissione sì, scissione no” alla fine si è risolto in un “scissione forse”. “Io dal Pd non me ne vado con infamia da scissionista, ma c’è un limite e se si vota a marzo con il programma del Jobs act e delle cose che dice, io non mi candido con quella roba lì”, ha detto in serata, al termine del suo discorso conclusivo. In mattinata era stato anche più esplicito, alludendo alla possibilità di un nuovo partito che raccolga le anime scontente della sinistra. “Se nel programma elettorale non sono considerate le nostre ragioni, è più serio dire: andate avanti voi da un'altra parte, noi faremo qualcosa di diverso”. Non una scissione, “ma una presa d’atto di una differenza”.
Subito era partita la controffensiva dei renziani. In prima fila Ernesto Carbone, componente della segreteria nazionale del Pd: “Civati vive in un clima da congresso permanente. L’idea che o si fa come dice Civati o non vale, è offensiva verso i milioni di persone che alle primarie hanno deciso di non votarlo”. A rincarare la dose il senatore democratico, Andrea Marcucci: “Ci-vati non deve aver mai letto la favola al lupo al lupo: a forza di dire che esce dal Pd, la sua credibilità sarà simile a quella del pastorello descritto da Esopo”. Guanti di sfida, in effetti, Civati ne aveva già lanciati parecchi.
UNO PROPRIO DA BOLOGNA, dalla stesso location, il bar Le Scuderie, dove ieri ha riunito i suoi. Era febbraio, e allora tentennava in vista del voto di fiducia all’esecutivo di Renzi. E anche in quell’occasione agitò lo spettro di una scissione. Poi però non se ne fece più nulla. Ieri però l’ipotesi di uno strappo è sembrata farsi più concreta. “Guardate che non è una minaccia, ma è la risposta a quel perché da cui sono partito e dal quale finisco: vorrei battermi per qualcosa che trovo giusto. Non penso che queste ricette funzioneranno. Anzi, temo che comprometteranno il nostro dibattito e le cose che faremo per il Paese. Tra un po’ ci diranno con qualche ritardo che avremmo avuto ragione, ma a quel punto, non ci sarà più un centrosinistra, forse non ci sarà più neppure un Pd”.
Per Civati “lo spazio a sinistra del Pd è enorme”. Lo paragona a una piazza, a “una realtà che ha bisogno di rappresentanza”. Ad ascoltarlo una sala stracolma, con almeno 500 persone. Compresi i fedelissimi della sua area: l’europarlamentare Elly Schlein, i senatori Corradino Mineo, Sergio Lo Giudice e Walter Tocci. Ma seduti ci sono anche il coordinatore nazionale di Sel, Nicola Frantoianni, la sociologa Nadia Urbinati, il giuslavorista Luigi Mariucci, Vittorio e Silvia Prodi, rispettivamente il fratello e la nipote (e oggi anche consigliere regionale) dell’ex premier. Un nome, quello di Prodi - inteso come Romano -, che Civati ha citato più volte, toccando la questione Quirinale. “È il candidato ideale”, ha detto. Ma poi si è lasciato sfuggire altro: “Va bene anche un Prodi-equivalente, una figura che a livello internazionale possiamo spendere e che abbia anche un rapporto con la politica”.
Un’uscita, quest’ultima, che pare il Professore abbia apprezzato molto poco.

il Fatto 14.12.14
Vota Carminati
di Antonio Padellaro


Lo spirito del tempo è lo stupore di Massimo D’Alema inseguito per le strade della “sua” Bari da una pioggia di insulti nel tripudio di bandiere rosse di un corteo sindacale, persone che forse, qualche anno fa, lo avrebbero anche applaudito. Il fatto è che la controversa storia politica di D’Alema c’entra fino a un certo punto con l’esplosione di rabbia, perché con le stesse urla – “Basta rubare”, “Siete dei porci” – probabilmente sarebbe stato accolto qualsiasi personaggio politico minimamente riconoscibile in quanto facente parte dei “venduti” che “hanno affondato l’Italia”, mentre “noi ci facciamo un culo così per arrivare a fine mese”. È sempre accaduto quando le crisi diventano ingovernabili. A scuola ci raccontavano che a Vienna, durante i moti del 1848, il potente principe Von Metternich, ostile ai rivoltosi, per non finire linciato dalla folla fu costretto a scappare nascosto in un carretto della biancheria sporca. Più recentemente, ai tempi di Tangentopoli, il ministro craxiano De Michelis dovette darsi alla fuga per le calli veneziane mentre cittadini inferociti gli gridavano appresso “ònto”, unto, per via dei capelli troppo lunghi e pure per altre ragioni. Alla fine l’imperatore d’Austria fu costretto a concedere ai ribelli una Costituzione, così come i processi di Mani Pulite azzerarono la vecchia classe dirigente: insomma, una reazione ci fu e qualcosa accadde. Invece oggi l’ira montante della gente s’infrange sull’indifferenza di un potere che consuma se stesso e la nostra democrazia facendosi assoldare dai criminali del “mondo di mezzo”, oppure – come l’ineffabile Buzzi, boss della mitica coop rossonera 29 Giugno – augurando ai sodali un felice anno nuovo “pieno di monnezza, profughi, immigrati, sfollati, minori e magari con qualche bufera di neve: evviva la cooperazione sociale”. All’esondazione della cloaca massima, la ferma risposta delle istituzioni produce ulteriori norme sulla corruzione: “Pene più severe” come strombazza l’informazione unica, ma del tutto inefficaci, secondo il nostro Bruno Tinti, una volta inserite in una macchina processuale appositamente rallentata da mille intralci poiché “i politici che campano di reati o di sovvenzioni criminali non possono permettersi un sistema penale che blocchi il sistema che gli dà da vivere, anche nel senso stretto del termine”.
Molto più sincero l’appello straziante di Giorgio Napolitano che, giunto al passo d’addio, definisce “patologia eversiva” la cosiddetta “antipolitica” e non la corruzione che la genera. Tragica coerenza di un uomo che si è posto a sentinella del sistema da preservare a ogni costo, pur se internamente divorato da un termitaio, e che vede il pericolo supremo nella denuncia di “opinion maker lanciati senza scrupoli a cavalcare l’onda impetuosa e fangosa”. Come se i mali italiani fossero stati generati da un libro, La Casta di Stella e Rizzo, e in seguito dal Movimento Cinque Stelle, che ha raccolto sull’opposizione ai ladri quasi nove milioni di voti. Estremizzando, è un sistema che preferisce Carminati a Grillo e che, per la successione a Re Giorgio, auspica un altro defensor fidei come Giuliano Amato, candidato non a caso da Silvio Berlusconi. Un immobilismo che, se protratto dai giochi di Palazzo, finirà in un modo o nell’altro per essere travolto dalla furia popolare. Allora non ci saranno scorte che tengano per difendere certi politici dai propri elettori. “Dunque siamo proprio morti?”, chiese prima della fuga Melanie, la moglie di Von Metternich. E lui: “Sì, mia cara, siamo morti”.

il Fatto 14.12.14
Carminati non basta
Chi dirige Mafia Capitale?
di Furio Colombo


Primo, non esiste il futuro. Non c’è niente che verrà e niente da aspettare. C’è gente che ha capito che o si vive adesso (e si comanda adesso, si esercita la forza o il privilegio o l’arbitrio, adesso) o non ci sarà un secondo tempo. Adesso vuol dire qui, subito, con ogni mezzo, dall’espediente truffaldino al delitto.
Secondo. Il mondo è cambiato. È cambiata la politica. La politica è un lavoro triste, ben pagato, guidato a strappi (cambiamenti improvvisi) da altri poteri, che a volte neppure conosci (meglio dire: neppure immagini), sottoposto a due tipi di umiliazioni: dentro la politica, perché non sai in nome di quale autorevolezza, strategia o ragione qualcuno ti dà ordini perentori, contraddicendo la Costituzione che ti vorrebbe “libero da mandato”. E fuori dalla politica perché ti raggiungono richieste non negoziabili (e vistate dal partito di appartenenza) di cui forse vedi e forse non vedi (o non vuoi vedere) il rischio illegale, dato che è implicitamente previsto un premio, che è prima di tutto l’accettazione nel gruppo “giusto”, quello nel quale si scelgono le “persone giuste”. Se non rispondi, hai chiuso, non conti niente. E raggiungi subito un limbo nel quale siedono molti politici per molti anni, dimenticati. Non ha nulla a che fare con il famoso e mitico “gruppo misto” dove vanno sia gli onesti incerti, sia coloro che si muovono verso il mercato. Quel limbo significa che non cerchi, non vieni cercato, non stringi mai le mani sbagliate, ma neppure le mani giuste. Sei fuori, e basterà aspettare la fine del mandato. Ti resta, come Pollicino nel bosco, la possibilità di lasciare sul sentiero qualche clamoroso voto contrario a qualche accordo esageratamente indecente (vedi Trattato di eterna amicizia con la Libia che contiene molto danaro, molti impegni costosi e non chiari, e viene votato dal Parlamento italiano con una mai spiegata unanimità). Ma lo fai solo per lasciare almeno una traccia.
Però è bene ricordare che le peggiori decisioni parlamentari e le più legate a ordini ricevuti da un ignoto “fuori” dalla politica, e diretti a disciplinati parlamentari, sono nascoste dentro emendamenti e commi di leggi del tutto incomprensibili, e commentate e discusse, e magari lodate, anche da esperti perbene.
TERZO. Dunque il marcio può essere nella politica, che però non è il potere (qualunque cosa sia e comunque lo si voglia descrivere o teorizzare). La verifica è semplice. Cominciamo dal livello locale. I sindaci sono ostaggi che camminano per tutto il tempo su un asse di equilibrio da cui possono cadere per errore umano (come tenere aperte le scuole il giorno dell'alluvione) o per complotto politico. Nove volte su dieci il complotto non è politico (come lo sarebbe uno scontro fra visioni politiche di personaggi forti e incompatibili). È una vendetta per impegno preso (o imposto) e non mantenuto. O perché qualcuno, altrove, ha cambiato idea. I presidenti di Regione vivono una brutta vita dello stesso tipo. È vero che cominciano male. Invece di presentarsi con un programma semplice e condiviso fondato sugli interessi dei cittadini, sono molto presto impegnati in progetti sconosciuti e incomprensibili che a volte hanno l’apparenza del grande balzo in avanti (le metropolitane, le tangenziali, le “grandi opere”), più spesso di fatti misteriosi, parti di più vasti progetti misteriosi.
Per fare un esempio: la chiusura improvvisa (un mese di preavviso) dell’antico e vasto ospedale San Giacomo, unico e attivissimo ente ospedaliero nel centro storico di Roma, cancellato di colpo dopo lunga, accurata e costosissima modernizzazione degli impianti, senza una spiegazione, da un presidente che poi è stato vittima di un violento bullismo, allo stesso tempo istituzionale e illegale, forse con mandanti autorevoli, mai spiegato. Ordini non eseguiti? Uno sgarro? È la vita della Regione.
Quarto. Poi si arriva al potere esecutivo. Una buona tesi di laurea per una buona facoltà di Scienze politiche in Italia, oggi, potrebbe essere: come si diventa ministro? Avete davvero l’impressione che tutto avvenga all’ultimo momento e per caso e che quella brava persona, esperta in quel campo, sia stata scelta proprio ieri notte dopo lunga riflessione e buoni consigli ricevuti da saggi amici del premier? Mi direte che il più delle volte, la brava persona di cui sto parlando non solo non è esperta nel campo, ma ha avuto anche delle frequentazioni non esemplari. Resta l’impressione che vi siano percorsi e ragioni che non conosciamo e che connettano alcuni al potere.
VOLENDO, una tesi di dottorato più ambiziosa e intellettualmente rischiosa potrebbe essere: come si diventa presidente del Consiglio, quando l’evento non è il risultato delle elezioni? C’è un comitato? Ci sono regole? Ci sono divieti? Quinto. Tutti abbiamo notato che la politica non è mai l’investigatore e il giudice della politica. Per esempio, è stato il Senato americano a denunciare e documentare il gravissimo caso delle torture. Il Senato accusa la Cia, ma implicitamente accusa se stesso e l'intero Congresso, che ha efficientissime Commissioni di vigilanza sui servizi segreti del Paese. In Italia arriva il giudice, solo il giudice. Questa volta lo vediamo affacciato su un cumulo di detriti criminali molto più vasto delle pure notevoli esperienze passate. Però anche il giudice sembra bloccato dalla domanda: “Ma questi, di destra e di sinistra, del Mondo di Mezzo, che ovviamente usano la politica e su di essa spadroneggiano, hanno davvero il potere immenso che sembrano avere? Davvero il Cecato comanda Roma? Sennò, chi li manda?”.

Repubblica 14.12.14
Il vecchio volto di Mafia Capitale
di Roberto Saviano


IN QUESTI giorni, dopo l’inchiesta “Mafia Capitale”, sono diventati tutti conoscitori di mafia. Non ho mai temuto i professionisti dell’antimafia, ma i dilettanti sì e ho sentito affermazioni talmente assurde che mi viene da pensare che chi le ha pronunciate non solo non conosce il fenomeno criminale, ma non conosce forse nemmeno il Paese. D’improvviso sembra stupirsi che le organizzazioni mafiose agiscano con alleanze imprenditoriali e politiche. Ma in quale Paese ha vissuto sino ad ora? Non solo Mafia Capitale ma anche la più recente inchiesta “Quarto Passo” in Umbria mostra come le organizzazioni siano in tempo di crisi la nuova e unica linea di credito all’impresa italiana. Chi sottovaluta il problema non riesce a capire quello che sta accadendo nel Paese, e allora decide che è meglio prendere in giro e sottovalutare. Il Pd sembra accorgersi solo ora del meccanismo di corruzione di cui molti suoi uomini erano protagonisti da molto tempo. Agisce costretto dalle inchieste giudiziarie quando avrebbe dovuto al contrario ispirare le inchieste.
BEPPE Grillo ha detto, a proposito di Mafia Capitale: «La parola mafia ci depista. Ci ricorda qualcosa che non c’è più. Oggi un’associazione mafiosa è fatta da professionisti, politici, magistrati, poliziotti; il mafioso non c’è neanche». Sono anni che si lotta per ribadire culturalmente che mafia significa invece proprio questo: impresa, borghesia imprenditoriale, rapporti con i media. Mi domando: ma secondo Grillo cosa sono state le organizzazioni criminali italiane sino a questo momento? Dei cafoni armati di fucile? Quindi secondo l’interpretazione di alcuni adesso, e solo adesso, la mafia sarebbe «diventata tridimensionale perché ci sono dentro politici, imprenditori, massoni, spacciatori», e perché ha smesso di parlare calabrese, napoletano, lucano, casertano, siciliano? Queste sono semplificazioni inaccettabili.
Ciò che mi viene da dire a chi condivide queste tesi è: ma sapete che le cose sono sempre andate così? Quando si riduce tutto al contadino dalla parlata incomprensibile, del cafone con il kalashnikov, si sta facendo il gioco delle mafie più o meno consapevolmente. Il boss che sappia uccidere e allo stesso tempo gestire il segmento economico dell’organizzazione è la base di una struttura vincente.
Mafia Capitale è in realtà il primo e compiuto tentativo di dimostrare, da parte dei pm, che il modello delle mafie storiche è stato mutuato su Roma. La novità scientifica di questa indagine non è limitata alla sola corruzione: ma dimostra come il meccanismo mafioso e l’operatività delle cosche si sia imposta nella vita della Capitale. Per questa ragione il legame tra Carminati e le organizzazioni non è episodico e momentaneo. Riuscite davvero a immaginare Pasquale Condello o Michele Zagaria che parlano con il sindaco di Sacrofano in merito al catering per la chiusura della campagna elettorale e si fanno commissionare una grigliata? È inimmaginabile che un capo mafia del Sud si occupi di grigliate. Ma attenzione: i clan si occupano di ogni singolo affare dal più piccolo al più grande. I Mazzarella di Napoli hanno raccolto estorsioni “straccione” persino dai lavavetri eppure investivano nei duty free in diversi aeroporti mondiali. Provenzano stesso con i suoi pizzini interviene sulle strade interpoderali da affidare a imprese amiche. Il ruolo mafioso di Carminati è un ruolo diverso rispetto a quello dei boss storici delle mafie tradizionali: è però l’anello che congiunge le mafie storiche e Roma: un multiservice con un certo grado di autonomia.
Da Reggio Calabria a Palermo le organizzazioni criminali sono in guerra aperta tra loro e sanno come essere parte dello Stato con strategie differenti. Carminati e Buzzi sono diversi: hanno usato telefonini, hanno avuto incontri contrassegnati dall’imprudenza tipica di chi si sente tutto sommato fuori pericolo, di chi sente che l’attenzione è altrove, perché è convinto che gli altri pensino che la mafia sia un’altra cosa, e che questo pensiero li proteggerà. Chi parla di nuova mafia tridimensionale a Roma sembra aver rimosso l’influenza di Cosa Nostra sulla politica romana raccontata da Buscetta e della camorra raccontata da Galasso e parliamo di dati accertati da decenni, è storia condivisa insomma. Ci si dimentica del braccio destro di Cutolo, Vincenzo Casillo ‘o Nirone munito di tesserino dei servizi, ucciso nell’83 a Roma proprio fuori la sede del Sismi in Via Clemente VII e l’elenco di connivenze sarebbe infinito.
Le mafie sono organizzazioni che da sempre hanno più sponde in politica, ed è esattamente ciò che differenzia il reato stesso di associazione mafiosa dalla semplice associazione criminale. Se oggi si afferma che esiste un nuovo percorso, significa che non si è data abbastanza attenzione alla dinamica mafiosa fino a questo momento. Significa non aver mai ascoltato chi da anni denuncia la presenza della mafia al Nord, la presenza della mafia a Roma. Ci hanno considerati matti, esagerati, sbruffoni, speculatori, diffamatori eppure la verità è solo questa: il tema mafia fuori dai luoghi in cui si ritiene che le mafie nascano, ovvero il tema mafia fuori dalla Campania, dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Puglia è sempre stato sottovalutato, marginalizzato, mai approfondito, trattato solo nelle aule dei tribunali, solo in superficie. Il primo ministro Renzi delega ai probiviri come se fosse una questione personale e di uomini. Eppure il sistema fiscale e la burocrazia sono i grandi alleati delle organizzazioni criminali, il loro strumento d’accesso per divorare le imprese sane ancora rimaste in piedi.
È ovviamente già partita da soliti siti di retroscena e parte della stampa berlusconiana la sottovalutazione del problema per far credere che sia tutto un giro di poveracci e rubapolli. Non ce ne stupiamo. Il motivo è semplice: sono complici spesso della stessa cultura che ispira questi mondi criminali romani pensando che mafioso sia solo lo sfregio di Al Capone o l’occhio pigro di Lucky Luciano. Iperbole e sfottò sono uguali modalità per non comprendere. Ora l’inchiesta dimostra che le grandi organizzazioni criminali storiche sono su Roma da sempre e che Carminati e Buzzi sono solo una rubrica dei loro affari. Ciò che è cambiato non è la mafia, non è la sua tridimensionalità, non è il coinvolgimento di politici, imprenditori o massoni deviati ma il fatto che ora la presenza a Roma è diventata innegabile.
La mafia non si esporta, ma come ogni modello vincente si diffonde in nome della sua capacità di successo e di intimidazione. Il fenomeno va contrastato, ma prima va capito. Il Paese si è accorto che le mafie si sostituiscono alle banche quando non sono (ma su questo c’è da lavorarci molto) direttamente partner delle banche italiane? Il governo deve affrontare il problema dal lato della sua rilevanza economica. O si interrompe questo meccanismo, o in Italia l’economia più forte, quella vincente, quella che verrà imitata e che diffonderà i propri modelli, continuerà a essere l’economia mafiosa.

il Fatto 14.12.14
Conversioni
Marino, il marziano ora piace anche ai rossi
di Luca De Carolis


Il marziano ormai piace pure ai “rossi”. E quindi non lascia, raddoppia: “Sciogliere il Comune per mafia getterebbe nel fango tante persone perbene. E poi se certe cose non le sapeva il prefetto come facevo a saperle io? ”. Applausi, tanti. In un sabato mattina romano, Ignazio Marino sale sul palco del teatro Ambra Jovinelli, proscenio che fu sacro a Ettore Petrolini, come ospite d’onore di Cambiamo tutto, dibattito organizzato da Sel per ribadire (e promettere) che nella Capitale bisogna ripartire da zero dopo il diluvio. Ma soprattutto per giurare imperitura fedeltà al sindaco, per il quale, prima, la sinistra vendoliana mica stravedeva. “Andava un po’ meglio che con il Pd” rievoca un dirigente vicino a Marino. Poi però è stata “Mafia Capitale”, più o meno la fine del mondo (di mezzo e non). Così adesso a sinistra e dintorni è tutto un viva Marino, argine asciutto a cui aggrapparsi nella tempesta. Innanzitutto per i democratici, che pure il sindaco sta estromettendo dalla giunta un po’ per forza e molto per volontà. Al posto del dimissionario assessore alla Casa, Daniele Ozzimo, indagato, potrebbe arrivare un fedelissimo dell’ex chirurgo, Roberto Tricarico, già assessore alle Politiche abitative con Chiamparino a Torino. E la contestatissima Rita Cutini non dovrebbe più spostarsi dalle Politiche sociali.
È SEMPRE più autarchico Marino, a cui fino all’altroieri rimproveravano il folto cerchio magico. Ma questa volta il Pd non fiaterà, come già chiarito dal commissario Orfini (“la giunta la decide il sindaco”). E non dirà una parola neppure Sel. Per ratificarlo di persona all’Ambra Jovinelli si palesa Nichi Vendo-la. Assieme a lui sul palco il giudice-scrittore
Giancarlo De Cataldo e Francesco Forgione, ex presidente della commissione Antimafia. Coordina Lucia Annunziata. Marino arriva dopo le 11. Niente bici, nonostante la giornata di sole. Maglioncino blu, è palesemente di buon umore. Militanti e cittadini lo accolgono con calore. Lui si siede e si mette subito a compulsare una pila di fogli. L’Annunziata lo chiama alla tenzone: “La stimo, ma a mio avviso lei si dovrebbe dimettere”. Marino risponde volentieri: “Questa amministrazione sta cambiando la città. Abbiamo chiuso in 50 giorni la discarica di Malagrotta, la più grande del mondo, e abbiamo cancellato 167 concessioni edilizie nell’Agro romano. Abbiamo creato una centrale unica degli acquisti”. A ogni rivendicazione, mani che battono forte. Marino sale di tono: “Nelle 70 mila pagine delle intercettazioni si legge: ‘Se avete le palle dovete farlo cadere sulla Panda rossa’. Io sono la discontinuità, devo andare avanti. Gli affari per quella gente sono finiti”. Ma su Salvatore Buzzi e sodali mai sentito neanche un sospiro? “Siamo in una città in cui un prefetto riceve nel suo studio una persona che ora è agli arresti per il 416 bis e parla nel suo studio di progetti relativi alle cooperative (Buzzi, ndr). È chiaro che nessuno di noi pensa che lo fa sapendo che quella persona è indagata per mafia”. Ergo, “se non lo sapeva il prefetto che ha disposizione le forze dell’ordine, come faceva a saperlo il sindaco? ”. Chissà cosa penserà di queste parole il prefetto Pecoraro. Nell’attesa, Vendola: “Voglio bene e difendo questo marziano di Marino perché ha il coraggio di metterci la faccia, prima di lui per 5 anni ha governato una banda di gangster. Ignazio, fai volare Roma”. Ovazione. Marino esce: a spalle larghe.

Corriere 14.12.14
All’origine dell’antipolitica
di Ernesto Galli della Loggia


Si levano anche nelle sedi più autorevoli del Paese le condanne dell’antipolitica: termine con cui bisogna intendere la critica aprioristica — e proprio per questo distruttiva, eversiva — oltre che del sistema politico in quanto tale, anche dell’intera vita pubblica, vista come interamente e irrimediabilmente inquinata.
Ho scritto aprioristica in corsivo perché evidentemente sta tutto lì il problema. Infatti, se la critica di cui sopra non appare affatto aprioristica ma ha una qualche giustificazione nei fatti, se essa è condivisa da più o meno larghe parti dell’opinione pubblica, allora è difficile in un regime democratico negarle il diritto di cittadinanza. Si potrà beninteso fare questione di toni, di stile, di capacità minore o maggiore da parte dei critici di proporre alternative credibili o accettabili, ma la sua natura eversiva, cioè antidemocratica, non sembra facilmente sostenibile. In una democrazia, infatti, non basta che i nostri avversari si comportino in modo volutamente oltraggioso e usino un linguaggio sommario e violento per farne dei candidati alla messa fuori legge. E d’altra parte non ci si può nascondere che è comunque difficile rispondere alla domanda chiave: in base a quale criterio, al di là di una soglia ovvia, si decide quando una critica è aprioristica e quando non lo è? Non si tratta in sostanza di un giudizio sempre politico, e dunque dipendente alla fine solo dalle nostre personali opinioni?
In realtà, se da vent’anni l’assetto politico italiano non trova pace, sentendosi periodicamente insidiato dall’antipolitica, dal populismo, dal giustizialismo — con i vari schieramenti politici che di volta in volta incarnano uno dei tre — una ragione di fondo c’è. Ed è che tutte e tre quelle patologie sono nel Dna stesso della Seconda Repubblica: costituiscono una sorta di suo peccato originale. Tra il 1992 e il 1994 — non bisogna mai dimenticarlo — la Seconda Repubblica è nata infatti fuori e contro la politica. Violando in molti modi l’insieme di regole e di prassi che fino allora la democrazia italiana aveva più o meno sempre rispettato, e al tempo stesso, però, non essendo capace di darsi regole davvero nuove. Proprio per questo essa è restata in certo senso prigioniera delle modalità della sua nascita: condannata a ripercorrerle periodicamente. Dunque a doversela vedere periodicamente con l’antipolitica, con il populismo, con il giustizialismo.
Ci sono fatti di quella lontana origine degli anni 90 di cui ci siamo dimenticati con troppa facilità. Ma che invece pesano come macigni, e ci ricordano da dove veniamo.
Era il 2 settembre 1992, per esempio, quando il deputato socialista Sergio Moroni, destinatario di due avvisi di garanzia nel quadro delle inchieste di Mani Pulite, si uccise nella sua casa di Brescia lasciando una lettera che oggi è difficile rileggere senza sentirne lo straordinario valore di premonizione. In essa Moroni, dopo aver rivendicato di non «aver mai personalmente approfittato di una lira», invocava «la necessità di distinguere ancor prima sul piano morale che su quello legale», dolendosi di essere «accomunato nella definizione di ladro oggi così diffusa». Terminava denunciando «un clima da pogrom nei confronti della classe politica», clima caratterizzato da «un processo sommario e violento». Ma le sue parole caddero nel vuoto. Benché dirette alla Presidenza della Camera, allora tenuta da Giorgio Napolitano, non furono ritenute degne della benché minima discussione parlamentare.
Ancora un altro ricordo. Era il 5 marzo 1993, nel pieno di Tangentopoli, quando in risposta all’annuncio di un decreto del Guardasigilli del governo Amato, Giovanni Conso, in cui si stabiliva la depenalizzazione (con valore anche retroattivo) del finanziamento illecito ai partiti, accadde un fatto probabilmente mai avvenuto prima in alcun regime costituzionale fondato sulla divisione dei poteri. I magistrati del pool di Mani Pulite si presentarono al gran completo davanti alle telecamere del telegiornale delle 20, incitando con parole di fuoco i cittadini alla protesta contro il decreto legge emanato da quello che a tutti gli effetti era il governo legale del Paese. Decreto legge che a quel punto — caso anche questo fino ad allora unico nella storia della Repubblica — il capo dello Stato Scalfaro, impressionato dalla rivolta, si rifiutò di firmare. E naturalmente nessuno ebbe qualcosa da ridire.
Mi chiedo: è possibile non riconoscere in questi episodi e in tanti altri che accaddero allora alcuni elementi caratterizzanti di quella che è stata poi la vicenda italiana? Non appare forse della medesima natura di quella che oggi siamo portati ad attribuire all’antipolitica — se non addirittura identica — la tendenza all’esasperazione verbale, alla generalizzazione indiscriminata nei confronti dell’avversario, alla sollecitazione spregiudicata delle reazioni più elementari dell’opinione pubblica? Non appare più o meno la medesima pure la timidezza imbarazzata, talvolta impaurita, del potere? E non suona forse sempre eguale anche il richiamo alla volontà della «gente» o del «popolo» che sia — che allora era quello «dei fax», poi è stato quello degli «indignati», e oggi è quello della «Rete»? Da queste parti, come si vede, anche il populismo ha una storia lunga e molto varia: allo stesso modo, peraltro, dei suoi fratelli gemelli, il giustizialismo e l’antipolitica.
La classe dirigente che si ritrova ad essere oggi alla testa della Seconda Repubblica non dovrebbe scordarselo. È proprio in quei terreni che oggi essa disdegna che affondano, infatti, le radici profonde della sua stessa legittimazione.

Repubblica 14.12.14
Quirinale, Italicum e guerra nel Pd
Renzi ora deve scoprire le carte
di Stefano Folli

POCHI credono che l’assemblea di oggi risolverà qualche problema all’interno del Partito Democratico. Le divisioni interne ci sono e continueranno a esistere anche domani. Del resto, nonostante Civati che si è preso i titoli della vigilia, la prospettiva non è una scissione in grande stile, ma un calcolo di convenienza la cui posta in gioco è Renzi: la sua leadership, la sua filosofia politica. La possibilità di condizionarlo quando si sceglierà il prossimo presidente della Repubblica.
Non sarà quindi una rituale occasione di partito, con la passerella degli oratori dai tempi contingentati, a ratificare la frattura. Non siamo a Livorno nel ‘21 e Civati non è Bordiga, così come senza dubbio Renzi non è Turati. Più che nel fuoco di un grande scontro ideologico, il Pd si consuma in un gioco tattico abbastanza estenuante, dove contano di più i successi o i passi falsi in Parlamento dei discorsi nelle assemblee interne.
Questo non significa che la riunione odierna sia poco significativa. Al contrario, è un passaggio carico di tensione e in effetti Civati ha buttato altra benzina nel camino acceso. Ma un punto è chiaro: oggi all’orizzonte non c’è una scissione, quanto meno non una scissione in tempi brevi. Non è il luogo né il momento. Prima vengono altri nodi assai insidiosi per il presidente del Consiglio: la fronda sulla legge elettorale, sulla riforma del Senato e soprattutto sull’elezione del capo dello Stato. La minoranza non dispone di numeri notevoli, però è in grado di mettersi di traverso, facendo saltare qualsiasi strategia renziana. E poiché l’accordo del premier con Berlusconi non è di ferro, come tutti hanno ormai compreso, il risultato è che si naviga al buio in un mare pieno di scogli.
Acosa può servire allora l’assemblea di Villa Borghese? Forse a rispondere all’interrogativo che da tempo aleggia sulla Roma politica: Renzi intende umiliare la minoranza interna fino alle estreme conseguenze o al contrario è pronto a sancire un compromesso? Ben sapendo che tale compromesso, per essere credibile, non può essere una semplice tregua, ma deve comportare un’intesa sul nome del capo dello Stato e sulla riforma elettorale (in questo ordine). Finora il premier ha evitato di prendere posizione in merito. Ma il tempo passa e ci si avvicina alle scadenze decisive. Al netto delle feste di fine anno, manca circa un mese al momento in cui il Parlamento si riunirà in seduta comune, quindici giorni dopo le formali dimissioni di Napolitano.
Forse converrebbe a Renzi diradare la nebbia che avvolge le sue intenzioni. Un punto a suo vantaggio è che la minoranza è suddivisa in almeno tre segmenti. Ci sono gli irriducibili come Civati, appunto, e Fassina, testimoni di una linea dura e massimalista che può persino far comodo al premier. Poi c’è D’Alema che mette sul piatto il peso di una storia, ma il cui presente è segnato da una relativa debolezza. E infine viene Bersani, in fondo il più dialogante e al tempo stesso il più rappresentativo: Renzi fino ad ora ha esitato ad assumerlo come interlocutore, rinunciando quindi a dividere il fronte avversario più di quanto già non sia.
Potrebbe tuttavia essere giunto il momento di mettere le carte in tavola, in modo che sia chiaro cosa si vuole a Palazzo Chigi. Se il premier si sente in grado di far passare il suo candidato al Quirinale senza una vera trattativa interna, imponendolo quindi alla minoranza, allora ci si può aspettare oggi un discorso perentorio e al limite sprezzante, di quelli a cui Renzi ha abituato i giornali e i Tg. Se invece questa certezza non c’è (e oggi un certo pessimismo è d’obbligo), allora il presidente del Consiglio potrebbe cogliere l’occasione dell’assemblea per trasmettere qualche segnale di disponibilità. Probabilmente troverà qualcuno all’ascolto.

Repubblica 14.12.14
La partita dell’Italia si gioca interamente in Europa
di Eugenio Scalfari


IL PRESIDENTE della Bundesbank, Jens Weidmann, ha rilasciato una lunga intervista al nostro giornale nella quale espone la sua politica confrontandola con quella di Mario Draghi e con la politica dell’Unione europea.
Sui suoi rapporti con la Bce, di cui la Bundesbank fa parte, non dice nulla di nuovo: con Draghi spesso si telefonano quasi quotidianamente, su molte cose concordano e spesso lavorano in piena intesa su altre c’è un duraturo dissenso che non impedisce una reciproca e amichevole lealtà di comportamento.
La visione che Weidmann ha dell’Europa mette invece in luce alcuni aspetti che non conoscevamo, il più importante dei quali è la propensione di Weidmann verso un’Europa politicamente ed economicamente unita, con una politica economica e fiscale gestita da Bruxelles, un debito sovrano unico e numerose cessioni di sovranità da parte degli Stati nazionali. Se questo fosse avvenuto non ci sarebbero le attuali diseguaglianze tra i Paesi membri dell’Eurozona e le tensioni che ne sono la conseguenza. A proposito della Germania Weidmann è consapevole della sua attuale debolezza economica e demografica ma ritiene che la situazione migliorerà entro un paio di anni e ne fa uno dei suoi obiettivi principali.
Infine le regole che governano l’Unione europea. Il loro obiettivo è quello di ottenere un risanamento dei bilanci nazionali e la loro stabilità. Non sarebbero necessarie quelle regole se l’Europa fosse uno Stato federale, ma poiché non lo è e non lo sarà, le regole e la restrizione che esse comportano non possono essere violate.
LA FLESSIBILITÀ tanto richiesta dall’Italia e dai Paesi economicamente più deboli è inaccettabile e va respinta. Questo è il pensiero della Bundesbank e del suo presidente che emerge dall’intervista che stiamo esaminando.
Che cosa ne pensa Draghi? Non ritiene scorretto che il governatore d’una Banca centrale nazionale esprima pubblicamente il proprio pensiero e i suoi dissensi dalla Bce di cui fa parte?
No, non lo ritiene scorretto e non ci vede nulla di nuovo. Che la Bundesbank sia contraria su alcuni punti decisivi della sua politica e in particolare alla possibilità del “quantitative easing” non è una sorpresa. D’altra parte il “qe” non è ancora stato deciso e neppure le forme della sua eventuale applicazione. Si deciderà entro il prossimo gennaio se sarà adottato e con quali regole; tra di esse una delle più importanti riguarda le modalità esecutive: se la scelta dei Paesi ai quali sarà applicato il “qe” spetterà alla Bce oppure se sarà esteso a tutta l’Eurozona in proporzione al Pil di ciascuno dei diciotto Paesi che la compongono. *** Abbiamo cominciato da questa intervista perché, insieme a quanto detto da Draghi, traccia un panorama della massima importanza per il nostro governo. È infatti pacifico che per Renzi la vera partita ormai non si gioca in Italia ma in Europa e lì si deciderà entro poche settimane. L’azione politica del governo Renzi in Italia ne sarà fortemente condizionata. Se a Bruxelles dovesse fallire, la crisi italiana gli sfuggirebbe di mano e non gli resterebbe altra via che quella elettorale, sempre che il futuro inquilino del Quirinale glielo consenta. Renzi insomma rischia d’essere rottamato a Bruxelles e quindi anche a Roma.
Ebbene, le prospettive della partita europea non sono affatto favorevoli per il nostro governo e lo si vede dal mutamento di Juncker, di Moscovici e del vice di Juncker preposto ai rapporti con i paesi in maggiore sofferenza economica Jyrki Katainen.
La flessibilità chiesta dall’Italia sarà ridotta al minimo, l’autorizzazione alla politica keneysiana del “deficit spending” sarà negata al rischio di immediati processi di infrazione. L’aumento del debito pubblico non sarà sopportato e l’arrivo della Troika da possibile sta diventando probabile.
*** Questo per quanto riguarda l’economia. Nel frattempo sono però avvenuti negli ultimi giorni alcuni fatti che mettono a repentaglio il governo. Due in particolare: lo sciopero generale della Cgil-Uil, l’emergere sempre più evidente delle minoranze di sinistra interne al Pd.
Lo sciopero è pienamente riuscito con oltre il 60 per cento di lavoratori che hanno rinunciato ad un giorno di paga (importante coi tempi che corrono) pur di manifestare per la loro esistenza e dignità.
Susanna Camusso, che ha parlato a Torino di fronte ad una piazza gremita, ha messo in chiaro che lo sciopero, come tutti gli scioperi generali, ha come obiettivo il governo, per opporsi a Renzi e alla sua politica economica e sociale.
Il “Jobs Act” non conta nulla (Camusso e Barbagallo), non crea alcun posto di lavoro, cancella l’articolo 18, dà mano libera ai “padroni” di licenziare. Ma al di là del solo Renzi l’intera politica sociale del governo si fonda su una generale “deregulation” contrattuale che priva d’ogni forza le organizzazioni rappresentative dei lavoratori. Queste politiche piacciono molto alla Confindustria ed anche a Bruxelles, favoriscono la privatizzazione delle aziende pubbliche e la loro vendita a investitori stranieri che adottano immediatamente politiche aziendali basate sull’esubero di lavoratori.
Del resto la politica degli esuberi è una costante essenziale della politica del governo. I tagli effettuati e quelli che verranno per ricavare risorse produrranno inevitabilmente altri esuberi. Il risultato finale sarà esattamente l’opposto di quanto tutti vorrebbero e che lo stesso governo proclama come obiettivo numero uno: non già aumento ma diminuzione dei posti di lavoro. Per ottenere le risorse necessarie bisognerebbe cambiare la distribuzione delle imposte sulle varie categorie sociali e far diminuire le diseguaglianze: questa dovrebbe essere la politica fiscale del governo.
Gli obiettivi della Camusso sono quelli qui esposti, condivisi interamente dalla minoranza di sinistra del Pd. Lo scontro decisivo interno al partito avverrà nell’Assemblea di oggi e sarà molto duro, con probabili ripercussioni addirittura nella scelta del futuro presidente della Repubblica. *** Ma c’è un tema che ha poco da vedere con quelli fin qui trattati anche se le sue ripercussioni economiche sono tutt’altro che irrilevanti: la corruzione, le mafie, l’immoralità così universalmente diffusa, che inquina gran parte della classe dirigente ma è purtroppo presente anche capillarmente nei ceti sociali medio-bassi.
C’è in tutti i Paesi la corruzione e il suo rapporto con la politica e con le istituzioni, ma in Italia è più diffusa e meno punita.
Il tema chiama in causa la morale, le leggi che dovrebbero presidiarla, il costume che dovrebbe respingerla. Ho detto prima che la corruzione è diffusa ovunque e non solo in Italia, ma in alcuni Paesi che si distinguono dagli altri proprio per questo aspetto, il costume è diverso, la capillarità è minore, l’auto-punizione è più frequente attraverso auto-denunce, dimissioni dalle cariche ricoperte, auto-rottamazione, se vogliamo usare una parola di moda.
Lo scandalo di Roma, che coinvolge oltre al Comune anche Provincia e Regione, ha posto il governo di fronte all’urgente necessità di emanare leggi appropriate e lo sta facendo, con ritardo, perché il fenomeno esiste da sempre e nessun governo l’ha mai seriamente affrontato. I governi di destra (Berlusconi) l’hanno addirittura incoraggiato con leggi fatte su misura; quelli di sinistra l’hanno tollerato (mancate leggi sul conflitto di interessi, sulla prescrizione, sul riciclaggio di capitali).
Oggi finalmente il governo sta preparando e varando leggi sulla prescrizione e sulla corruzione. Quest’ultima, da quanto se ne sa, sembra insufficiente. Attendiamo di poter leggere il testo definitivo. Il segnale comunque c’è anche se tardivo e va appoggiato dandone lode al governo che se ne è dato finalmente carico.
È inutile dire che la parola giusta per definire il fenomeno è “vergogna”. Non ci sono altre parole che questa. Del resto che la corruttela ampiamente diffusa sia un fenomeno antico lo sappiamo dalla storia del nostro Paese e dagli scandali che vennero alla luce dopo il governo della Destra storica. Il trasformismo celò spesso fenomeni di corruzioni che travolsero governi, cooperative e perfino movimenti che si proclamavano di sinistra e denunciavano i padroni pur essendo anch’essi inquinati di corruzione.
Ricordo qui una canzone che mio nonno paterno conosceva ed era una versione anarchica dell’inno dell’Internazionale. Diceva così: «Quando che sarò morto — non voglio le campane — ma voglio le puttane — e il Sol dell’Avvenir ». La parola “puttane” è qui usata per significare che sono meglio loro che la gente cosiddetta perbene ma quasi sempre inquinata dalla corruzione. E il Sol dell’Avvenir è il segno d’un futuro anarchico e socialista che metta fine alla vergogna.
Ma brillerà finalmente quel Sole?

il Fatto 14.12.14
Editoria, pioggia di fondi ai big
Ma l’occupazione resta al palo
In 10 anni 163 milioni, contributi nascosti per i giornali che però licenziano
di Salvatore Cannavò


Non solo quotidiani politici o cooperative. Non solo testate come il manifesto o l’Unità, spesso additate come coloro che hanno incamerato contributi pubblici più o meno meritati. A farsi foraggiare dal Dipartimento per l’Editoria, collocato a Palazzo Chigi, in anni passati, sono stati tutti i grandi gruppi editoriali italiani. Dall’Espresso a Rcs, da Mondadori alla Stampa. E lo hanno fatto in sordina, senza clamori, senza editorialisti che su questo o quel giornale si indignassero per le sovvenzioni di Stato. Concessi a suon di milioni, per lo meno negli anni dal 2008 al 2011, e senza grandi corrispettivi sul piano dell’occupazione. Anzi, in questi stessi anni il settore dell’editoria ha assistito a un’emorragia costante dalle redazioni pagata dagli enti previdenziali. Un circolo vizioso di cui ancora non si vede il peggio.
I DATI DI CUI PARLIAMO sono difficili da trovare eppure sono pubblicati sul sito del governo alla sezione Dipartimento per l’editoria. A segnalarli ieri è stato il giornale online Lettera43, ma per raggiungere i dati alla fonte è stato necessario un lavoro di ricerca adeguato. I contributi sono riferiti a due specifiche voci: “Agevolazioni di credito d’imposta per l’acquisto di carta utilizzata dalle imprese del settore editoriale”; “Agevolazioni di credito alle imprese del settore editoriale”. Nel primo caso si è trattato di un rifinanziamento, per l’anno 2011, in favore delle imprese editrici di quotidiani e periodici e delle imprese editrici di libri, “nel limite del 10 per cento della spesa sostenuta per l’acquisto della carta utilizzata per la stampa” secondo un meccanismo già utilizzato nel 2004-2005. Quella volta, il finanziamento fu di 92 milioni spalmato su 587 società editrici tra cui spiccavano Rcs (libri, periodici e quotidiani) con 12,6 milioni, Mondadori con 11,2 milioni, il gruppo Espresso con 8,5 ma anche Sole 24 Ore con 3,7 milioni, La Stampa con 2,3 milioni. Nel 2011, invece, il finanziamento è stato limitato a 30 milioni ed è stato ripartito su 411 società per un importo complessivo di 29.784.647, 42 euro.
IL CREDITO AGEVOLATO, invece, è un intervento “indiretto” che consiste nella “concessione di contributi in conto interessi sui finanziamenti deliberati da soggetti autorizzati all’attività bancaria” o “contributi in conto canone”, sui finanziamenti deliberati da “soggetti autorizzati all’attività di locazione finanziaria, della durata massima di dieci anni”. Un sostegno al pagamento degli interessi, insomma, per “finanziamento di progetti di ristrutturazione tecnico-produttiva”, “realizzazione, ampliamento e modifica degli impianti”, “miglioramento della distribuzione”, “formazione professionale”. Il credito è stato anche utilizzato per “il ripianamento delle passività destinato ad alcune imprese fra cui le imprese editrici e radiofoniche che risultano essere organi di partiti politici che hanno contratto mutui, di durata massima ventennale, per l’estinzione di debiti emergenti da bilanci 1986-1990”. Anche questi contributi sono cessati ma sono stati attivi dal 2008 al 2011. E nei quattro anni in esame hanno erogato 40 milioni scesi dai 18,4 del 2008 ai 13,8 del 2009 fino ai 470 mila euro del 2011. A spiccare nell’ottenimento dei fondi sempre gli stessi nomi: il gruppo Espresso, comprensivo di Finegil, con 8,5 milioni, la Rcs con 1,5, il Corriere dello Sport con 1,8 milioni, il Sole 24 Ore con 1,8 milioni, Mondadori con 2,2 milioni e altri ancora.
IL SOSTEGNO all’editoria non è un male in sé. Ma dovrebbe servire a migliorare il settore, ad aumentare l’occupazione, ad ampliare i diritti dell’utenza. Difficile sostenere che tutto questo sia avvenuto negli ultimi anni. I rapporti dei vari istituti, tra cui l’Agcom, non fanno che sottolineare il peggioramento di tutti gli indicatori. Tra questi, quello dell’occupazione. Tra il 2008 e il 2012, gli anni dei finanziamenti qui indicati, gli occupati dell’editoria cartacea sono diminuiti di oltre mille unità e la massa salariale è diminuita di 22 milioni sia nel 2012 che nel 2011. Se prendiamo le società editoriali che si sono distinte nella ricezione di crediti agevolati e/o di imposta quasi tutti hanno dato vita a piani di ristrutturazione aziendale. A titolo di esempio, il gruppo Rcs ha varato un piano di riduzioni di costi da 20 milioni con 70 prepensionamenti, il Sole 24 Ore oltre ai prepensionamenti ha istituito i contratti di solidarietà, così come il gruppo l’Espresso. E un giornale politico, come l’Unità, che oltre al finanziamento pubblico ha usufruito di 1,5 milioni di credito agevolato è stato portato alla chiusura dalla sua proprietà.

Corriere 14.12.14
Roma e gli affitti: le spese folli per le emergenze
Case in periferia a 2.700 euro al mese
Gli affitti d’oro per Buzzi e i costruttori
Pagati dal Comune per le famiglie in difficoltà. Anche Totti tra i proprietari
di Sergio Rizzo


Come lo stipendio di due impiegati comunali. O la pigione di un appartamento in un quartiere bene come i Parioli. Tanto spendeva il Comune di Roma di affitto mensile medio per appartamenti in residence di periferia destinati alle famiglie in difficoltà. Una cifra annuale di 43 milioni incassata dai costruttori e dalle cooperative sociali tra cui quelle del solito Buzzi.
Duemilasettecento euro al mese: lo stipendio di due impiegati comunali, oppure la pigione di un appartamento signorile ai Parioli. Impossibile credere che il Comune di Roma possa spendere una somma simile per l’affitto di un alloggio in un residence di periferia. Prima, naturalmente, di aver visto le cifra che il Campidoglio spende per la cosiddetta emergenza abitativa. Ovvero, circa 43 milioni l’anno. Più le bollette delle utenze.
Soldi, quei 43 milioni, incassati dai costruttori che affittano immobili al Comune, e dalle cooperative sociali come il Consorzio Eriches 29 di Salvatore Buzzi.
Con risvolti paradossali, più volte segnalati nelle sue interrogazioni dal solito consigliere comunale Riccardo Magi, recentemente eletto presidente dei Radicali italiani. E non soltanto per i costi, oggettivamente astronomici. Un esempio? Per gli 84 alloggi dell’Immobiliare San Giovanni 2005 del costruttore Antonio Pulcini in vicolo del Casale Lumbroso il Campidoglio spende 2.690.753 euro: 2.669 euro al mese per ciascuno. In discussione, soprattutto, sono le modalità con cui gli alloggi venivano di regola assegnati: senza graduatorie e i dovuti controlli sulle situazioni patrimoniali dei nuclei familiari. Con il risultato che l’emergenza «temporanea» si trasforma sempre in emergenza stabile, con le famiglie (circa 1.850) che restano perennemente a carico del Comune pure quando viene accertata la mancanza dei requisiti. Anche perché le ordinanze di sgombero quasi mai vengono eseguite.
In una di queste strutture, quella di via Giacomini di proprietà della Immobiliare commerciale srl, era addirittura ospitata la sede dell’organizzazione della destra romana Popolo di Roma.
Quello dell’assistenza all’emergenza abitativa è un meccanismo a geometrie variabili. C’è il cosiddetto «vuoto per pieno», che consiste nell’affittare un immobile intero, pagandolo indipendentemente dal fatto che tutti gli alloggi siano o meno occupati. In qualche caso al canone si somma il costo del servizio di «portierato sociale»( ?!) o «guardiania» (?!) affidato a una cooperativa: per cifre niente affatto simboliche. C’è poi l’assistenza alloggiativa diretta da parte delle coop sociali. Il Comune paga a queste una retta a persona, e la coop provvede all’alloggiamento e ai servizi. In questo caso il costo di aggira fra i 23 e i 24 euro a cranio. Il che significa oltre 2.100 euro al mese per un nucleo familiare di tre persone.
Il Consorzio Eriches 29 di Buzzi ha incassato per il solo 2012 una cifra superiore ai 5 milioni di euro per 584 persone: 720 euro mensili per ognuna di queste. E in aggiunta un milione circa per i servizi di guardiania in due strutture, della Immobiliare Pollenza e della Investimenti Roma 2006. Entrambe riconducibili alla famiglia di Antonio Pulcini (del quale si è ricordato ieri il coinvolgimento nell’inchiesta sulle presunte tangenti al deputato pd Marco Di Stefano), che con quattro immobili affittati al Comune (gli altri due sono quelli della New Esquilino e, appunto, della Immobiliare San Giovanni 2005) risulta il soggetto privato più attivo in questo business. Il giro d’affari annuale con il Comune di Roma si aggira intorno ai 9 milioni: più di un quinto del totale.
Ma nell’elenco non manca la famiglia Armellini, proprietaria del Park Hotel Costanza attraverso una società lussemburghese (la Soloverte finance sa), come pure gli eredi del conte Romolo Vaselli (Nuova patrimoniale srl), mentre la Serenissima Sgr, che incassa circa tre milioni e mezzo l’anno ci porta fino alla A4 holding, la società che controlla l’Autostrada Brescia-Padova presieduta dall’ex presidente leghista della Provincia di Vicenza Attilio Schneck. Quindi nomi come quelli dei gruppi Baldassari, Amore, Caporlingua... Infine, la Immobiliare Ten amministrata da Riccardo Totti, fratello del capitano della Roma calcio e bandiera della città, Francesco Totti, a cui fa capo il pacchetto di maggioranza.
E se alla testa del gruppo di cooperative sociali impegnate nell’affare figura indisturbata la Eriches di Buzzi, nella lista furoreggiano anche la Domus Caritas e la Casa della Solidarietà. Due coop alle quali la relazione degli ispettori della Ragioneria che mesi fa avevano decretato come illegittimi gli affidamenti diretti a Buzzi perché sopra le soglie di importo comunitarie e illecitamente prorogati, non ha riservato commenti più lusinghieri.
C’è da dire che molti di quei contratti (fra i quali quello con la società di Totti) sono scaduti o in scadenza a fine anno, anche se per alcuni, fra cui un paio di Pulcini e quello della famiglia Armellini, si andrà avanti fino al 2018. Sarebbe pure ingeneroso non riconoscere che il sindaco Ignazio Marino avrebbe voluto cambiare un sistema chiaramente assurdo, passando dagli affitti ai costruttori e alle coop a un contributo diretto alle famiglie bisognose, con un risparmio di una decina di milioni l’anno. Peccato che tutto sia ancora a bagnomaria.

La Stampa 14.12.14
Nel carcere delle Medee d’Italia
“Qui nessuno viene mai a trovarle”
Lo psichiatra: è terribile quando capiscono cosa hanno fatto
di Fabio Poletti


Il nome è poetico, reparto Arcobaleno. Ma non è facile trovare vite colorate in quest’ala dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere vicino a Mantova dove sono rinchiuse per legge 64 donne delle quali 7 figlicide. Alle finestre non ci sono sbarre, nei corridoi non ci sono agenti, i medici sono senza camici. «Non ci sono celle. Le chiamiamo stanze. Facciamo di tutto perché queste donne stiano il più possibile insieme...», racconta il direttore Andrea Pinotti di questo non carcere dove le mamme hanno le chiavi della stanza, il proprio lucchetto all’armadietto, le cose stipate in ordine e qualche volta ben nascosta perché non si veda, la foto di quel figlio che hanno ucciso.
Da qui è passata Loretta che senza sapere perché un giorno ha infilato il suo bambino in lavatrice ed è rimasto a guardare l’oblò per ore prima che la arrestassero. O B. che suo figlio che aveva tre anni lo ha abbracciato così forte ma così forte da togliergli il fiato. O Manuela che ha usato un coltello perché soffriva troppo a sentir piangere sua figlia. Donne in apparenza come tante. Ma sempre di più. Con una vita che troppe volte si cristallizza in quel gesto che nessun Tribunale riuscirà mai a spiegare con una sentenza che si accontenta di numeri, 10 anni di ospedale psichiatrico come minimo.
«Il nostro lavoro inizia subito dopo. Un lavoro per cui ci vuole pazienza. Che a volte finisce molto prima dei 10 anni quando la paziente può finire in una struttura esterna all’ospedale».
Una casa famiglia che mai è una famiglia vera. Perché non ci sono più né mariti né parenti attorno alle figlicide, reiette dal mondo libero e a volte in carcere, qui dentro accompagnate per mano a ritrovare almeno un simulacro di vita. Qualcuna si affida a don Giuseppe Baruffi il cappellano, ma lui dei giornalisti non si fida: «Lasciatele stare...». Altre sopravvivono con la chimica delle medicine e a volte soccombono alla violenza della contenzione. «In casi rarissimi, per evitare che si facciano male, le stanze di contenzione ci sono, mica le nascondiamo...», ammette i limiti della scienza Andrea Pinotti, psichiatra prima che direttore.
Ma il lavoro più grande, quello che inizia un secondo dopo aver varcato l’abisso, lo fanno altri medici. Come la dottoressa Maria Grazia Missora che fa parte dell’équipe dell’Arcobaleno: «Abbiamo di fronte donne che hanno dentro di sé una sofferenza enorme. Ma non tutte sono subito consapevoli di quello che hanno fatto. Arrivarci è il momento più brutto per loro».
La loro salvezza inizia allora. Dopo mesi e a volte anni come racconta Cristina Benazzi, un’altra dottoressa dell’équipe: «Ognuna ha una storia a sé. Ma c’è sempre del dolore nelle loro vite prima di fare quello che fanno». Quando lo riconoscono lo accettano. E per capirlo a volte basta che chiedano di rivedere il figlio che hanno ucciso, almeno in foto.

il Fatto 14.12.14
Elezioni in vista
Israele, Netanyahu ha un nuovo nemico si chiama “Tutti Noi”
È il partito fondato dall’ex ministro Kahlon, vuole la pace con i Palestinesi
di Roberta Zunini


Bibi Netanyahu, il premier israeliano, è arrivato a Roma per incontrare il segretario di Stato americano John Kerry dopo aver ottenuto una vittoria all'interno del suo partito, il Likud, in vista delle primarie previste per il 31 dicembre. Ma se la vittoria della battaglia interna al partito conservatore di cui Bibi è ancora il leader, ha portato al ritiro dell’ex ministro degli Interni Gideon Saar, che secondo alcuni sondaggi avrebbe potuto scalzare Netanyahu dalla guida del partito, non ha però messo il primo ministro al riparo da sgradite sorprese. Soprattutto per quanto riguarda lo spostamento degli equilibri politici dopo la sua decisione di sciogliere il governo e indire elezioni anticipate il 17 marzo. L'ex ministro delle Comunicazioni, Moshe Kahlon, ha fondato un nuovo partito centrista che potrebbe sottrargli voti. Kahlon 54 anni, esponente del Likud, ha fatto parte del primo governo guidato da Netanyahu fra il 2009 e il 2013. Allora diventò molto popolare aprendo la telefonia mobile alla concorrenza, in modo da ridurre i costi per gli utenti. Il suo neo movimento Kulanu (Tutti noi) ha una piattaforma incentrata sui problemi socio-economici. Ma l'ex ministro, un tempo considerato un falco sui temi della sicurezza, si è anche espresso a favore di un accordo di pace con i palestinesi. Un sondaggio del 5 dicembre assegnava a Kahlon un tasso di popolarità del 46% contro il 36% di Netanyahu e prevedeva la conquista di 11 dei 120 seggi della Knesset in caso di lancio del partito. Anche l'annunciato ticket elettorale tra i laburisti di Isaac Herzog e i centristi di Hatnua, il partito di Tizpi Livni, entrambi sostenitori della soluzione Due popoli-due Stati, non lascia tranquillo il premier uscente. Secondo i sondaggi sarebbe davanti al Likud, anche se di misura. Qualora dovesse vince le elezioni, Herzog sarà primo ministro durante i primi due anni di legislatura per poi passare il testimone negli ultimi due all'ex ministro Livni. Il centrista Yair Lapid, ex ministro delle Finanze,non ha ancora fatto sapere se il suo partito Yesh Atid (C'è futuro) correrà da solo, ma anche lui ha rilanciato sulla necessità di un “dialogo regionale”, che coinvolga il presidente egiziano Sisi e la Lega Araba, per risolvere il conflitto israelo-palestinese. Bisognerà vedere se si tratta di intenzioni reali o solo pre-elettorali.

La Stampa 14.12.14
In marcia su Washington la rabbia dei neri d’America
Come negli Anni Sessanta la capitale al centro della lotta per i diritti civili
di Paolo Mastrolilli


La protesta degli americani, non solo i neri, ha riempito ieri le strade delle città degli Stati Uniti. «Hands up, don’t shoot», abbiamo le mani alzate, non sparate; e «I can’t breathe», non posso respirare, non sono più le ultime parole pronunciate da Mike Brown a Ferguson ed Eric Garner a Staten Island. Ormai sono diventate gli slogan di un malcontento che valica i confini razziali. Parte dalla brutalità dei poliziotti, ma tocca in generale le corde della rabbia per la discriminazione e la diseguaglianza in tutta la società.
I familiari delle vittime
La marcia di ieri, organizzata in contemporanea a Washington, New York, Boston e altre città, è stata ideata dai leader della comunità afro-americana come il reverendo Al Sharpton, dopo gli scontri degli ultimi mesi cominciati con l’uccisione di Mike Brown a Ferguson. Sul palco della capitale sono saliti i famigliari di Mike, Eric Garner, Akai Gurley, Trayvon Martin, Tamir Rice e Amadou Diallo. Brown era stato ucciso a Ferguson dal poliziotto Darren Wilson, dopo che aveva rubato in un negozio e si era scontrato con lui. Garner era morto a Staten Island in luglio, quando un poliziotto lo aveva soffocato cercando di arrestarlo perché vendeva sigarette di contrabbando. Gurley, un ragazzo ventenne disarmato, era stato ucciso da un agente a colpi di pistola a New York.
Martin era morto in Florida per mano di un vigilante, mentre andava a casa del padre. Rice, 12 anni, è stato ammazzato il mese scorso dalla polizia in un parco di Cleveland, perché puntava ai passanti una pistola giocattolo. Diallo invece era stato ucciso a New york nel 1999. Tutti questi casi si sono risolti senza la condanna dei responsabili delle violenze, provocando proteste in tutti gli Usa. La manifestazione di ieri voleva raccogliere tutte le rimostranze della minoranza nera per gli abusi e le discriminazioni, e trasformarle in una questione nazionale. Portandole davanti al Congresso, ma anche alla Casa Bianca, dove abita un presidente nero accusato di non aver fatto abbastanza per la sua gente.
Martin Luther King
Lesly McSapdden, la madre di Brown, guardando la folla dal palco ha detto: «Che mare di gente. Se non lo vedono e non cambiano le cose, non so proprio cosa dobbiamo fare». Samaria Rice ha faticato a trovare le parole: «Mio figlio aveva un futuro splendido davanti a sé, e tutto il diritto di viverlo». Gwen Carr, la madre di Garner, l’ha aiutata: «È straordinario che siate così numerosi. Guardate che massa: neri, bianchi, tutte le razze, tutte le religiosi. Questo è uno di quei momenti che fanno la storia. I nostri figli non sono qui con il corpo, ma di certo il paese sta sentendo le loro voci». Gwen ha detto che suo figlio «era un uomo gentile e si occupava solo della sua famiglia». Quindi ha invitato i manifestanti a mobilitarsi, affinché i loro figli possano avere la giustizia che finora è stata negata ai propri genitori.
Sharpton ha avvertito i parlamentari: «Membri del Congresso, prestate attenzione, perché noi facciamo sul serio. Quando sentirete un campanello alla porta durante le feste di Natale, potrebbe non essere Santa, ma il reverendo Al che viene a casa vostra». Sharpton ha detto che quella di ieri non era «una marcia nera o bianca, ma americana, perché tutto il paese è rappresentato e avverte il problema».
Il figlio di Martin Luther King, però, ha richiamato anche i neri alla realtà: «Se fosse qui mio padre, ci chiederebbe di guardare pure agli abusi nella nostra comunità, perché in qualche misura siamo tutti un po’ responsabili».

Corriere 14.12.14
Sindacato polizia NY contro De Blasio «Non partecipi a funerali di agenti»
La protesta per la presa di posizione del sindaco sull’uccisione di afroamericani disarmati da parte dei poliziotti. In migliaia in marcia contro la violenza

qui

il Fatto 14.12.14
L’appello del miliziano: “Per favore, disarmateci”
di Nancy Porsia


Zuwara Anche gli ultimi romantici in Libia, quelli che credevano nella forza della diplomazia internazionale per porre fine alla spirale di violenza che dallo scorso luglio tiene paralizzato il paese nordafricano, oggi gettano la spugna e si preparano al peggio. Le ultime notizie riguardano lo scontro fra l’esercito filo-governativo e le milizie islamiche – impegnate nell’operazione Alba della Libia – che miravano a prendere il controllo di una zona ricca di petrolio, nei pressi della città portuale di Sidra. “Un attacco a sorpresa”, ha confermato il generale Saqr al-Jroshi, comandante delle forze aeree dell’ex generale Khalifa Haftar che sarebbe stato respinto. Sulla città di Zuwara intanto continuano i raid.
“MIO FIGLIO di 18 anni vuole entrare in una delle brigate locali per proteggere la città” ha detto a Il Fatto una donna di Zuwara, madre di 5 figli. Poi, con lo sguardo perso nei sottotitoli che scorrono in sovra impressione in tv, 24 ore su 24 sintonizzata sul canale nazionale all news Nabaa, spiega: “Mio figlio maggiore fa i turni ai check point intorno alla città oramai da settimane. Ogni giorno vivo nel terrore che gli succede qualcosa. Ora anche il piccolo vuole andare. ” Da circa due settimane, Zuwara e altre città a Ovest della capitale Tripoli sono sotto attacco aereo. “Andremo avanti con i bombardamenti finché non avremo liberato la capitale dai fondamentalisti” aveva tuonato due settimane fa il primo ministro Al Thinni, nominato dal parlamento eletto lo scorso giugno rifugiatosi a Tubruq, puntando il dito contro il Congresso Generale rivale, rimasto a presidiare il territorio su Tripoli per conto della Fratellanza Musulmana. Da allora circa una decina di persone sono morte a Zuwara sotto le bombe del generale Khalifa Haftar, mentre i feriti si contano a dozzine. “Questi sono jet militari libici, non sauditi o egiziani come quelli usati da Haftar a Bengasi per colpire i gruppi terroristici” dice un membro della brigata Tamzgha di Zuwara. “Tubruq continua ad inveire contro i terroristi, ma fino ad oggi ha colpito solo civili e lande deserte” conclude l’uomo sulla trentina.
“Certo se fossi a Bengasi, forse starei con Haftar” ha detto un altro membro della brigata Tamzgha rintanato in un pick up, durante il suo turno di guardia sul fronte sud-ovest di Zuwara. Infreddolito dalla lunga notte passata a scrutare l’orizzonte, il ragazzo ha spiegato: “A Bengasi, la minaccia fondamentalista e terroristica è reale. Ma qui no, qui noi ci armiamo solo per difendere la nostra città dai nostri vicini, nemici giurati del popolo Amazigh”. Nonostante gli amazigh, minoranza culturale libica, rappresenti una terza parte rispetto al conflitto in corso tra estremisti e nazionalisti arabi, la vicinanza di Zuwara al confine tunisino attrae le mire espansionistiche dell’esercito di Tubruq.
LA CHIUSURA del confine di Ras Jadir potrebbe essere uno dei principali obiettivi di Haftar per stremare le città nell’Ovest. “Siamo in balia del nostro destino” riprende la donna, pensando ancora ai suoi due unici figli maschi. “Speravo in Bernardine Lèon, ma a quanto pare pure lui non ha potere” ha continuato, commentando il fallimento dell’inviato delle Nazioni Unite in Libia nel suo tentativo di far sedere le due parti belligeranti intorno al tavolo del dialogo nazionale nella città di Gaddames. L’incontro di Gaddames, previsto lo scorso martedì, è stato posticipato di una sola settimana per dare più tempo alle parti per trovare un accordo. Da circa due giorni, a Zuwara come nelle città a sud di Zintan sono partiti anche attacchi via terra. “Dov’è l’Italia? ” più di una persona chiede a Zuwara. “Se le Nazioni Unite non ce la fanno, forse è il caso che l’Italia scenda in campo” ha detto scherzando un membro di una delle brigate di Zuwara, mentre si preparava ad affrontare la notte al check point a est della città, immediatamente dopo la notizia dell’ennesimo attacco da parte delle forze di Haftar nella città vicina di Sabrata. Il ragazzo, avvolto nella sua mimetica e con il kalashnikov in mano, ha continuato: “Invadeteci, disarmateci e saremo felici. ” Poi ha concluso “D’altronde i vostri interessi in Libia oggi sono ancora maggiori che nel secolo scorso”. Un appello a cui il ministro Roberta Pinotti ieri ha risposto così: “L’Italia vuole essere protagonista nella soluzione della crisi libica” ed è pronta a “fornire i suoi soldati a una forza di pace delle Nazioni Unite”, ma occorre prima chiarire il contesto interno perché “in Libia non c'è un solo interlocutore e anche dal punto di vista della legittimità la situazione rimane confusa”.

Corriere 14.12.14
«La mia Germania vi fa paura? Siamo noi a temere il futuro»
Edgar Reitz, il regista di Heimat, racconta un Paese «che ha perso le utopie»
intervista di Valerio Cappelli


La Germania fa paura? No: è la Germania ad aver paura. Edgar Reitz, classe 1932, è uno dei maestri del cinema tedesco. Il regista che nella saga di « Heimat» ha raccontato il suo Paese, da metà 800 al 2000, attraverso la lente di un remoto villaggio dell’Hunsrück dove egli è cresciuto (per poi spostare la cinepresa a Monaco di Baviera e Berlino), rovescia il binocolo degli analisti. «La Germania ha paura del futuro. È straordinario come i miei connazionali, al profilarsi di una crisi, reagiscano con timore maggiore rispetto ad altre nazioni europee. Dopo il terremoto di Fukushima, fummo noi a essere subito presi dal panico, e spegnemmo le nostre centrali nucleari. Se si verificano atti di guerra in Ucraina, nel mio Paese si risvegliano antichi incubi».
Questa paura ha un riflesso nell’attuale crisi economica?
«La paura tedesca fa sì che in una situazione di crisi, come quella economica (che non deriva da noi o dai Paesi vicini ma dalle dinamiche del capitalismo e dalle banche), siano ricercate misure di stabilizzazione e austerity. Non esiste più una “utopia tedesca”. Tutti sanno che ogni utopia del XX secolo è tramontata. Non dobbiamo dimenticare che i tedeschi possono sentirsi ragionevolmente al sicuro nel loro territorio solo da un quarto di secolo, dalla caduta del Muro; vogliono preservare tutto ciò con la pace. Non c’è Paese in cui il desiderio di pace sia superiore a quello della Germania».
Eppure l’Europa più povera teme il potere economico tedesco.
«Sono sorpreso che siamo temuti. Noi percepiamo l’esatto contrario. Siamo sulla difensiva, cerchiamo solo di non lasciarci destabilizzare dall’esterno».
Il passato nazionalsocialista ha un ruolo in tutto questo?
«La memoria di un popolo è molto lunga. Nessuno oserebbe parlare ora di un Reich millenario. Siamo già felici di non perdere il nostro lavoro domani. Quando a 20 anni cominciai a viaggiare, in quanto tedesco, venivo considerato come un nazista. Non era d’aiuto dire che all’epoca ero un bambino. La mia generazione ha fatto qualunque cosa per porre fine all’eredità nazista. La Germania oggi è un Paese democratico che non ha soppiantato la sua storia. Non è solo Hitler, di cui dobbiamo vergognarci ancora, ma anche gli eccessi dell’Impero e i secoli di feudalesimo, ad aver gettato sfiducia. Insieme con Weimar, l’unica rivoluzione democratica del 1848 è fallita, dunque non abbiamo alcun mito positivo dalla fondazione dello Stato, come lo ebbero i francesi».
«Heimat», il suo film in quattro cicli e 64 ore, è una parola intraducibile dai molti significati: nostalgia, luogo natio, patria. Come si è evoluto nel tempo il concetto di patria?
«Il rapporto con lo Stato non è mai stato positivo in Germania, la gente non ha dimenticato che ha recato nei secoli disonore e disgrazie. Oggi differenziamo i concetti di patria e Stato. La patria è la terra materna dell’infanzia e la terra che lega le persone al territorio; lo Stato è un costrutto astratto, una terra “paterna”, campo d’azione dei politici e delle autorità. Nessuno di noi nutre amore per lo Stato, al contrario l’amore per la patria diverrà sempre più importante. Un crescente patriottismo regionale significa per molti tedeschi una nuova identità».
Che impatto ebbe su di lei la vita «bohémienne» di Monaco, quando dalla provincia arrivò nel 1952?
«Ero ragazzo, Monaco mostrava le ferite della guerra, rovine e case improvvisate appartenevano allo scenario quotidiano. La leggenda di città delle arti e dell’allegra vita notturna risaliva al periodo precedente la Prima guerra mondiale. Dopo due settimane mi resi conto di aver inseguito un’illusione. Ma la mia generazione, negli anni 60, riuscì a ridare slancio culturale a Monaco. Berlino, a quel tempo dietro la Cortina di ferro, era il luogo dei nostri sogni».
Con l’ultimo capitolo della sua saga, «Die andere Heimat», ha girato la ruota della Storia all’indietro, nell’800.
«È un film indipendente dalla trilogia. Da 30 anni ai miei film metto la parola “Heimat” nel titolo, è un trucco con cui tendo la mano agli “heimatiani”, in realtà tratto temi molto diversi fra loro. Non c’è bisogno di vedere i capitoli precedenti per comprenderlo. Attraverso due fratelli racconto l’immigrazione, il desiderio di vivere in una società migliore. Volevo richiamare alla memoria di noi europei che circa 150 anni fa eravamo disperati e miserabili proprio come le persone che dall’Africa, dall’Asia o dall’Est si rivolgono a noi per condurre una vita libera. Ovunque si formi un divario economico, la gente cercherà l’uguaglianza, un processo che richiederà molto tempo e causerà nuove crisi fino al costituirsi di una sorta di unità planetaria. Rispetto alla trilogia ha una durata di soli 220 minuti, un cortometraggio al confronto. Nonostante il grande successo dei miei film in Italia, non ho ancora una distribuzione nelle sale. Amo il vostro Paese, il rispetto che avete per le arti. Non a caso “Heimat 2”, che parla di giovani artisti turbolenti, individualisti e dalla vita promiscua, in Germania fu visto con una certa diffidenza mentre in Italia ebbe molto più successo. La Mostra di Venezia nel 1967 premiò il mio debutto. Mi sento vicino e familiare ai vostri grandi maestri, Rossellini, De Sica, Visconti, che a differenza dei registi tedeschi incardinano le storie in un luogo preciso, come ho fatto io in “Heimat”. Spesso spettatori di terre lontane mi hanno detto che avevo narrato esattamente la loro storia. All’inizio ero molto stupito, perché racconto cose personali che riguardano miei ricordi ed esperienze. Il segreto sembra essere che quanto più veniamo compresi, tanto meglio capiamo noi stessi».

il Fatto 14.12.14
La Grecia, i neonazi e il tradimento di Churchill
Il primo ministro temeva l’espansione della sinistra
Nel ’44 gli Inglesi spararono sui partigiani che erano stati loro alleati
di Carlo Antonio Biscotto


Il 3 dicembre 1944: un giorno che ha cambiato la storia della Grecia. Ad Atene, in piazza Syntagma la polizia greca e i soldati britannici, ancora in guerra con la Germania nazista, aprirono il fuoco dal tetto del Parlamento sui dimostranti facendo diversi morti. Erano passate sei settimane dalla liberazione della Grecia e molti erano scesi in piazza per appoggiare i partigiani con i quali la Gran Bretagna era stata alleata per tre anni. Quel giorno, invece, i soldati di Sua Maestà armarono i collaborazionisti tradendo chi aveva dato la vita per la democrazia. A 70 anni di distanza il poeta Titos Patrikios, 86 anni, ricorda tutto, scena per scena: “La folla dei dimostranti sventolava bandiere greche, britanniche, americane e russe. Morirono 28 persone, per lo più giovani donne e uomini, e centinaia furono ferite. Non se lo aspettava nessuno. E in quel lago di sangue annegò probabilmente il futuro della democrazia greca”. Quel massacro fu la conseguenza di un cinico calcolo di Churchill il quale riteneva eccessivo il peso del Partito comunista greco all’interno del movimento di liberazione e temeva che la sinistra greca avrebbe ostacolato il suo progetto di rimettere il re sul trono di Atene. Preferì snaturare le alleanze e sostenere i filo-nazisti greci.
POCHI GIORNI dopo, l’aviazione britannica attaccava le roccaforti della sinistra greca dando inizio alla cosiddetta ”Battaglia di Atene” che i greci ricordano con il nome di Dekemvriana. Il risultato di questa decisione fu una tragica guerra civile, un bagno di sangue che rappresenta una macchia nella storia della Grecia, ma anche in quella della Gran Bretagna. Su questa pagina vergognosa della storia britannica è calata la congiura del silenzio, pochi ne parlano e la storiografia ufficiale si ostina a non riconoscere le conseguenze che quel tradimento ebbe sullo sviluppo democratico della Grecia.
“Le conseguenze della rivolta del dicembre 1944 e della guerra civile del 1946-49 sono ancora tra noi”, spiega lo storico André Gerolymatos, studioso del periodo. “I partigiani francesi e italiani furono rispettati da tutti dopo la guerra, a prescindere dalle diverse posizioni politiche. In Grecia chi aveva preso parte alla Resistenza fu perseguitato, incarcerato e torturato, su ordine dei britannici, da quelle stesse persone che avevano collaborato con i nazisti. I crimini commessi contro i partigiani non furono mai riconosciuti, non c’è mai stato un solo processo contro i collaborazionisti greci e in buona parte quanto sta accadendo oggi in Grecia con il travolgente successo di una formazione politica di estrema destra come Alba Dorata, è la conseguenza del non aver voluto fare i conti con il passato”.
Alla fine della Dekemvriana, erano morte decine di migliaia di persone e 12.000 ex partigiani furono arrestati e inviati in diversi campi di concentramento in Medio Oriente. Dopo la firma del cessate il fuoco, ebbe inizio in Grecia un periodo che va sotto il nome di ”terrore bianco”. Tutti coloro che erano sospettati di aver spalleggiato i partigiani e la sinistra durante la guerra civile furono arrestati e avviati in veri e propri gulag per essere torturati e talvolta uccisi.
La storia, inesorabile, si ripete. Il 25 gennaio 2009 la polizia greca ha usato i lacrimogeni contro una folla di dimostranti che chiedeva lavoro e giustizia. Tra loro c’era una giovane di nome Marina che non riesce a darsi pace: “Perché la Grecia? In cosa saremmo diversi dal resto d’Europa? Solo da noi i partigiani sono stati perseguitati, torturati e uccisi. La mia famiglia ha conosciuto il carcere e le torture per due generazioni prima di me: mio nonno dopo la seconda guerra mondiale, mio padre durante il regime dei colonnelli. E oggi potrebbe toccare a me, in qualunque momento, quando meno me lo aspetto. Siamo i nipoti degli antifascisti e i nostri nemici sono i nipotini greci di Churchill”.

Corriere La Lettura 14.12.14
Jean d’Ormesson
Einstein e Hubble sono più importanti di Proust e Joyce
di Stefano Montefiori


Ci si avvicina all’ hôtel particulier di Jean d’Ormesson, a Neuilly, come a un monumento: in quella strada elegante e malinconica tra gli alberi, nel villaggio dell’alta borghesia alle porte di Parigi, vive e lavora lo scrittore nei decenni più amato dai francesi. Dal 1970 d’Ormesson ha pubblicato molti romanzi, alcuni d’amore, gli ultimi tre sull’universo — Che cosa strana è il mondo (edito in Italia da Barbès, 2011), Un giorno me ne andrò senza aver detto tutto (da noi tradotto da Clichy, 2014) e Comme un chant d’espérance (Gallimard 2014) — che gli hanno dato un immenso successo popolare e, ciò nonostante, l’ammira zione della critica.
Nell’aprile prossimo l’opera di d’Ormesson entrerà nella Pléiade, la più prestigiosa collana del più prestigioso editore del mondo, Gallimard, e sarà allora l’unico scrittore vivente a condividere il privilegio con Milan Kundera. «Me lo ha fatto notare Antoine Gallimard, aggiungendo però che qualcuno è morto mentre si stava preparando la sua Pléiade... Mi sono messo a ridere», racconta il conte d’Ormesson (dei Le Fèvre d’Ormesson, nobiltà di toga dell’ ancien régime ) nel salone di casa, tra antichi dipinti e un enorme dente di narvalo. «Ho risposto a Gallimard che in ogni caso, grazie a me, rischia finalmente di venderlo, qualche libro della Pléiade».
Condotti dal maggiordomo nel suo studio, abbiamo trovato l’89enne scrittore circondato, ma non sconfitto, da pile di fogli. Un raro caso di monumento sorridente, entusiasta per l’attenzione, pronto a mettersi in ginocchio per litigare con la presa della lampada che non si accende: l’atmosfera crepuscolare non gli si addice. «Vede tutte queste carte? Sono i lettori, mi arrivano un centinaio di lettere al giorno e cerco di rispondere a tutti». I celebri occhi azzurri brillano di soddisfazione.
Che cosa le scrivono?
«La maggior parte sono complimenti. Poi c’è anche qualcuno che non sopporta il mio andare d’accordo con tutti o quasi. Il fatto è che riconosco facilmente le ragioni degli avversari. Ah, e poi una signora mi ha scritto indignata perché io sono notoriamente di destra, gollista, ma difendo gli immigrati, e in più mi ha sentito dire che i miei amici omosessuali mi hanno nominato omosessuale onorario. Questo è troppo, non le stringo la mano! , ha protestato. Pazienza».
Che significa omosessuale onorario?
«È una battuta, per dire che ci intendiamo bene. Quando ero presidente dell’Unesco, degli amici peul (il popolo dell’Africa occidentale) mi avevano nominato peul ad honorem , e lo stesso hanno fatto dei miei amici gay. È un tema difficile, perché quando si dice “ho amici omosessuali” si fa come quei funzionari di Vichy che dicevano “ho molti amici ebrei” e intanto li mandavano a morire nei campi di concentramento. Ma diciamo che alla domanda “con chi vorresti rimanere bloccato in ascensore?” rispondo “con uno dei miei amici omosessuali”, i più interessanti e divertenti. Qualcuno lo trova ancora scioccante».
Però sul matrimonio degli omosessuali lei ha espresso delle riserve.
«Sì, di natura direi semantica. Io, più che il mariage pour tous , uguale per tutti, avrei riservato la parola matrimonio a quello tra un uomo e una donna. In Germania, per esempio, hanno risolto la questione brillantemente, riconoscendo tutti i diritti alle coppie gay. Comunque, a parte quella signora indignata, tanti lettori mi scrivono per chiedermi un incontro, e qualcuno per sapere come si fa a essere pubblicati».
E lei cosa risponde?
«Cerco di convincerli che non è vero che bisogna per forza conoscere qualcuno nelle case editrici. “Fate come me”, dico».
Lei come ha fatto?
«Mi sono deciso a scrivere tardi, a 30 anni. Non perché non conoscessi la letteratura, ero un normalista, ma proprio perché la conoscevo un po’ ero intimidito: come potevo osare di aggiungere qualcosa a Dante? Comunque, volevo fare colpo su una ragazza, e allora ho scritto L’amour est un plaisir , e ho lasciato il manoscritto alla segreteria di Gallimard, alla ragazza che rispondeva al telefono. Per due settimane nessuno si è fatto vivo. Allora, da presuntuoso e impaziente qual ero, un sabato sono andato da un altro editore, Julliard, che pubblicava Françoise Sagan, e ho lasciato il manoscritto anche a lui. La mattina dopo, alle 8 di domenica, mi telefona per dire “è un capolavoro, meglio di Sagan”. L’aveva letto di notte».
Il successo è arrivato subito?
«Il primo romanzo andò bene, i due successivi così così. E poi avevo contro di me un giornale molto importante, il “Figaro” , perché mi ero inimicato il direttore Pierre Brisson, scrivendo di uno dei suoi libri che “c’è comunque una giustizia a questo mondo, non si può essere direttore del Figaro e avere pure del talento”. Il bello è che 15 anni dopo sono diventato direttore del “ Figaro ”».
Come è passato a Gallimard?
«Dopo i primi romanzi brevi ho scritto un’opera più importante, un romanzo di 600 pagine ambientato qualche secolo prima della nascita di Cristo, La gloria dell’impero . Julliard era morto, allora ho portato il manoscritto a Grasset, dove mi hanno detto: “I tuoi libri precedenti erano anche divertenti, ma questo è noioso, illeggibile”. Allora ho riprovato da Gallimard, e ho venduto 300 mila copie».
Il suo ultimo romanzo, «Comme un chant d’espérance», è stato uno dei libri più venduti del 2014, per mesi primo in classifica. Se lo aspettava di essere ancora così amato?
«In effetti questo successo ha sorpreso anche me. Con i miei ultimi tre romanzi ho voluto superare la spaccatura tra letteratura e scienza. Un tempo uno scrittore non sapeva nulla della scienza, e gli scienziati avevano un po’ di sussiego nei confronti dei letterati. Ma Einstein, Heisenberg, Hubble o Bohr sono importanti quanto o forse più di Proust, Joyce o Claudel. Io conoscevo poco le scienze, il governo di Vichy aveva introdotto la cosmologia nel programma del baccalaureato, e aveva ragione. Ma siccome era Vichy io non avevo voluto impararla, il mio voto era un 2. Poi mi sono appassionato, ho cercato di capire la relatività e ho letto un libro bellissimo, La melodia segreta dell’astrofisico Trinh Xuan Thuan. Mi sono detto: invece di scrivere eternamente di adulteri, di Paul che incontra Marie, di Julien che ama Thèrese, parliamo di luce, spazio, tempo, la necessità, il caso, e ho scritto il romanzo dell’universo dal big bang a oggi. Ma mi sto già occupando di altro. Non posso ancora svelare il tema, già è difficile parlare dei libri scritti, figurarsi di quelli da scrivere. Ho già pronte 300 pagine, arriverò a 600».
Pochi giorni fa il presidente socialista François Hollande l’ha insignita della Legion d’Onore con una cerimonia solenne all’Eliseo. Pure François Mitterrand la ammirava.
«Mitterrand mi chiamò a quel telefono (lo indica, sulla scrivania, ndr) , un giorno. “Sono François Mitterrand”. E io risposi “si vabbè, smettila”, credendo fosse un imitatore. “Sono François Mitterrand!”, ripeté un po’ seccato; capii che era davvero lui. Mi convocò all’Eliseo prima di passare le consegne a Jacques Chirac, era alla fine dei suoi giorni e voleva parlare con me, cattolico privo di certezze ma con qualche speranza, delle forze dello spirito , l’espressione che usa nel suo discorso d’addio».
Scrittore, giornalista, entrato giovane (a 48 anni) tra gli Immortali dell’Académie Française, ha pure interpretato Mitterrand al cinema.
«Nel film La cuoca del presidente (uscito in Italia nel 2013, ndr) : il regista mi ha chiamato per propormi la parte e mi stava dicendo “ci pensi per qualche giorno” ma io avevo già deciso di accettare all’istante. È stato molto divertente».
Torniamo a Hollande. Oltre ad avere sostenuto Nicolas Sarkozy, lei non ha mai risparmiato critiche al presidente della sinistra e continua ad attaccarlo sulle colonne del «Figaro». Ha scritto pure che «non è un uomo di Stato». Non è strano che Hollande abbia tenuto a darle di persona la Grand-Croix de la Légion d’Honneur?
«Devo dirle che quando l’ho saputo, mi sono sentito in dovere di avvertire i miei amici dell’Ump (il partito del centrodestra francese,ndr) . Ho parlato a Sarkozy, Fillon, Juppé: devo accettare? E tutti mi hanno detto certamente, è la Francia a premiarti, non una persona. Sono d’accordo ed è stato un incontro molto piacevole, anche se trovo che la politica di Hollande sia disastrosa».
È vero che quando è stato poco bene, mesi fa, lei ha detto: «Non voglio morire adesso, mi terrorizza il pensiero che sia Hollande a rendermi omaggio»?
«Lo so che gira questa battuta, che trovo ottima. Ma purtroppo non posso attribuirmela, è circolata su internet non so come».
Il presidente più impopolare della V Repubblica ha pronunciato un discorso brillante e autoironico: «Lei è riuscito a essere amato durante tutta la sua vita, come ha fatto? È popolare tra le donne, gli uomini, celebre in Francia senza essere sconosciuto all’estero, amato senza essere invidiato... Perché questo dono di Dio? Perché a lei? E perché Dio è così selettivo?». Lei sa dare una risposta?
«Non saprei. Forse conta anche il fatto di non essere fazioso, sono di destra ma tra i miei amici c’è per esempio Jean-Luc Mélenchon, il politico di estrema sinistra. Poi, amo molto la vita. Ora non riesco più a farlo, ma tante volte ho preso l’auto il venerdì sera, magari la Mercedes decappottabile del 1967 che ho ancora in garage, guidavo tutta la notte, arrivavo a Portofino all’alba, stavo a Roma fino alla sera della domenica, e poi ripartivo per presentarmi il lunedì mattina in redazione, al “Figaro”. Distrutto, ma molto felice».

Corriere La Lettura 14.12.14
il Duce prendeva tempo
di Dino Messina


Emilio Gin, sulla «Nuova Rivista Storica», in un saggio scritto in inglese, riprende e amplia un tema già affrontato nel libro L’ora segnata dal destino. Gli Alleati e Mussolini da Monaco all’intervento (Edizioni Nuova Cultura, 2012). Lo storico dell’Università di Salerno, nel lungo articolo intitolato Speak of War and Prepare for Peace: Rome June 1940 («Parlare di guerra e prepararsi per la pace: Roma 10 giugno 1940»), si concentra, anche sulla base di nuove acquisizioni, sul periodo della «non belligeranza». Quell’arco di tempo che va dal 1° settembre 1939, quando la Germania invade la Polonia, all’entrata in guerra dell’Italia. Poco più di nove mesi in cui, può suonare strano ai non specialisti, l’orientamento prevalente nel nostro Paese fu quello della neutralità. Sono noti i sentimenti antitedeschi di Galeazzo Ciano, genero di Mussolini e ministro degli Esteri, le resistenze della monarchia a lanciarsi in un conflitto e le prudenze dei vertici militari, ben consapevoli dell’impreparazione e della mancanza di mezzi. Ma Gin sostiene che la politica temporeggiatrice del Duce durante il periodo di non belligeranza fu la scelta autonoma e consapevole verso un sentiero diplomatico di pace più che una concessione alle resistenze interne. Il capo del fascismo, secondo lo studioso — come risulta dai resoconti di colloqui riservati e dai diari di due esponenti di primo piano del regime, Ciano, appunto, e Giuseppe Bottai —, sarebbe stato favorevole a una soluzione diplomatica, perché in una guerra anglo-tedesca, com’ebbe modo di dire esplicitamente, la vittoria della Gran Bretagna avrebbe confinato l’Italia in uno spazio ristretto e del pari quella della Germania sarebbe stata soffocante. Mussolini era contrariato dal patto Molotov-Ribbentrop, che, ricordiamolo, è del 23 agosto 1939, pochi giorni prima dell’invasione della Polonia. E, anche in funzione antibolscevica, propose la creazione di uno Stato autonomo polacco, che, disse a Hitler, non avrebbe mai potuto far ombra al Reich. È noto del resto che fino alla primavera del 1940 continuarono i lavori di fortificazione ai confini con la Germania. Che cosa spinse Mussolini a cambiare idea? Probabilmente fu abbagliato dal successo della Blitzkrieg sul fronte occidentale e, seguendo il suo istinto opportunista, volle entrare in un gioco che credeva di breve durata.

Corriere La Lettura 14.12.14
Islam e Occidente I giovani precipitano in un nuovo buio
Il ragazzo musulmano caduto nell’abisso radicale è come il suo corrispondente europeo o americano ubriaco di narcisismo
di Luigi Zoja

psicoanalista junghiano

Iniziando La ginestra , Leopardi cita il Vangelo di Giovanni (3, 19): «E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce». Poi si scioglie in sarcasmi sulle aspettative di progresso, sulla ingenuità e frivolezza del suo secolo. Dall’Illuminismo — secolo della luce — e dalla delusione del poeta ne sono passati altri due. Dopo due guerre mondiali e la guerra fredda, gli entusiasmi guerrieri avrebbero dovuto scomparire. Eppure, nuove masse scelgono un nuovo buio.
I martiri della nuova guerra santa sono pronti. Mentre le nazioni che si combattono cercano la vittoria, ma possono tornare ai compromessi politici, nelle guerre sante l’unica alternativa è morire: la religione è un assoluto, non prevede patteggiamenti. Sarà quindi una guerra a morte, concepita ben prima delle convenzioni di Ginevra: guerra ai civili, alle bambine, agli ostaggi. Che non «metterà fine a tutte le guerre» (come si diceva della Grande guerra), ma al contrario metterà inizio a infiniti altri conflitti. Il loro vero martire è la ragionevolezza: la coerenza logica dell’Io — che, nella generosa illusione di Freud, doveva gradualmente svuotare l’inconscio — mentre di nuovo le tenebre lo stanno sopraffacendo. Come nella medievale Crociata dei Fanciulli, questi ingenui della vita hanno ricevuto una visione o hanno udito una chiamata e non si voltano indietro. Partono: persino dalle classi borghesi dei Paesi musulmani laici (Turchia, Tunisia). Persino da famiglie islamiche integrate nel sazio e secolarizzato Occidente. A volte, persino da famiglie cristiane colte, dell’Europa e del Nord America, cui voltano le spalle per convertirsi a un islam fondamentalista e gettarsi in un «eroismo» senza ritorno: i maschi, con armi modernissime; le ragazze, con strumenti antichi come i fornelli e gli uteri, per dare conforto a giovani eroi e sangue nuovo a una impresa che lo versa quotidianamente. È insensato, ma partono.
Non possiamo rispondere che non ci riguardano. Non sono nati dall’islam: sono una risposta al vuoto del nostro Occidente, senza il quale non avrebbero motivo di esistere. Sono giovanissimi e appassionati. Anche se qualcuno è disadattato o trasgressivo, non sono i bulli del quartiere, né vanno alle partite con il coltello in tasca (comportamenti che restano «occidentali»). In gran parte, sono adolescenti che non hanno mai commesso una infrazione: molti sono addirittura studenti modello. Né sono dei disobbedienti Pinocchi che beffano un debole Geppetto: vengono spesso da famiglie solide, dove il padre è tutt’altro che assente. Tutti, obbedienti o trasgressivi, erano alla ricerca di un senso e non lo sapevano: ora hanno trovato un’autorità assoluta in grado di somministrarlo.
Dicono di andare «verso» qualcosa: ma il loro obiettivo appare fumoso tanto all’europeo laico, quanto ai teologi musulmani. Quello che è chiaro, invece, è che vanno «via da». Rifiutano il nostro mondo che, morta per disidratazione la cultura romantica, è diventato troppo pratico: senza passioni, senza assoluti, senza sacrifici e senza trascendenza. Possiamo capirli, anche se cominciamo a non capire quando per loro la morte si trasforma da strumento in scopo ultimo.
La morte e il sacrificio di chi? Questo forse non l’avevano pensato a fondo. Se qualcuno glielo chiedesse su due piedi, borbotterebbero formule quali «gli infedeli», che nella genericità rivelano come l’avversario sia per loro astratto e non umano. Il giovane caduto nel nuovo buio è, proprio come il corrispondente occidentale che disprezza, innamorato dei propri entusiasmi, ubriaco di narcisismo. È convinto di opporsi al nostro materialismo, ma si affida a ricchi finanziatori che gli somministrano armi corrompendo la sua anima, proprio come ai giovani occidentali somministrano la droga; e a raffinati informatici, che mettono in rete filmati delle eroiche gesta jihadiste con l’abilità delle multinazionali pubblicitarie. Soffocano nel nostro materialismo, eppure non hanno appreso nuove vie: non sono stati mai veramente iniziati alla teologia dell’islam. Sono risucchiati verso quello che considerano un mondo di valori, ma è la controfaccia di un potere materialista rivestita da guerra santa disneyana.
Gli opposti che si combattono mortalmente, ma senza consapevolezza, diventano simili, ha detto Jung. Lo ha confermato lo storico Alan Bullock nel saggio Hitler e Stalin. Vite parallele (Garzanti). Per vivere veramente nei valori, ha detto Isaiah Berlin (in un testo del 1994 riproposto dalla «New York Review of Books» del 23 ottobre), bisogna ricomporli ogni giorno col bilancino del farmacista. Libertà e uguaglianza sono fondamenti. Ma la libertà totale porta verso la dittatura del mercato, l’uguaglianza totale verso Stalin. Gli unici miglioramenti nella vita degli uomini si raggiungono realizzando compromessi fra le due. Il problema è che milioni di giovani sono pronti a morire per idee assolute, nessuno a «morire per un compromesso»: che è, aggiungerebbe uno psicoanalista, insipido per il nostro narcisismo.
Inconsciamente o meno, gli estremisti si rinforzano a vicenda. I due palestinesi che hanno fatto strage in sinagoga parlavano di giustizia per i loro fratelli: ma la rivincita che si sono presi è quella individualista dell’adolescente che vuol diventare famoso, scaricando sul loro popolo una ennesima umiliazione.
Prevedibilmente — ma non inevitabilmente — il ritorno a forme di pensiero del passato riappare dall’altra parte: nella reazione dello Stato israeliano, che dopo aver naturalmente reagito con le armi, meno naturalmente estende la rappresaglia ai familiari e demolisce le loro case. In questo modo applica una forma antimoderna di diritto (l’allargamento della responsabilità personale ai familiari corrisponde alla Sippenhaft o kin liability medievale, riattualizzata nella modernità da Stati totalitari). Nella loro inconsapevolezza, i terroristi sono riusciti a «infettare» con la loro regressione il loro avversario: uno Stato che, lo voglia o meno, ha fra le responsabilità quella di rappresentare in Medio Oriente la luce della democrazia e della modernità, non i secoli bui. Come ho ricordato nel testo Paranoia , questa è l’unica malattia mentale altamente infettiva. A differenza dalle altre espressioni di follia, non è solo individuale ma riguarda i gruppi interi, gli amici e i nemici. Contagia la psiche collettiva e può comunicarsi ininterrotta attraverso le generazioni.

Corriere La Lettura 14.12.14
Per mestiere ho ucciso i bulli
«Ero un’arma con un cuore. Ora voglio dare la vita»
Dialogo tra un ex Marine e un filosofo della scienza
Colloquio di Giulio Giorello con David Tell


«Tutti mentono, spesso a se stessi più che agli altri». Così in Io sono un’arma (scritto originariamente in inglese, ma pubblicato in prima assoluta da Longanesi). L’autore si firma David Tell. Sia un caso o no, il cognome dello pseudonimo suona come il verbo che in inglese significa «narrare, confessare, rivelare». David, che ha lasciato il corpo dei Marines e vive in Italia da qualche anno, è tenuto alla riservatezza su non pochi aspetti della sua carriera militare, nonché per ragioni di sicurezza personale. Il libro mi pare non solo la cronaca di un duro addestramento, ma un vero «romanzo di formazione», pervaso da un disperato bisogno di sincerità. Il nostro dialogo è cominciato con una domanda che è forse la sfida più difficile di tutta la filosofia: cosa mai voglia dire «Conosci te stesso».
DAVID TELL — Quando mi sono arruolato mi pareva essenziale sapere fino a che punto potessi spingermi, se mi sarei spezzato, se sarei invece diventato più forte. Ma quando si scende nel proprio profondo per scoprire ciò che lì si cela, è spesso difficile confrontarsi con ciò che si è realmente. Per esempio: i Marines insegnano a comportarsi in maniera altruistica; ed è facile, quando si sta bene. Ma immagina di essere allo stremo delle forze, da giorni senza sonno e senza cibo, e il tipo di fianco a te se la passa ancora peggio: nessuno ti comanda di aiutarlo. Ma se riesci a trovare dentro di te l’energia straordinaria per farlo, allora hai raggiunto un livello di consapevolezza che non ti lascerà più per tutta la vita.
GIULIO GIORELLO — È una forma di conoscenza di sé che ha anche una valenza morale, perché mette in gioco le nostre idee su cosa è bene e cosa è male…
DAVID TELL — Sono convinto che al mondo ci siano figure irriducibilmente e irrimediabilmente malvagie. Prendiamo Hitler: rispettava gli animali, era vegetariano; eppure, ha causato la morte di milioni di persone. Se qualcuno avesse agito già nel 1939, le avrebbe salvate. Sono convinto che contro tipi del genere il rimedio sia scovarli il più rapidamente possibile, e ucciderli o imprigionarli a seconda delle circostanze. Se si opera nel proprio Paese d’origine, la questione usualmente viene lasciata alla polizia; se invece l’operazione si estende al mondo intero, non è più così; ci devono essere apposite unità militari destinate al compito. Sorge allora il problema che gli individui malvagi sono spesso coperti dalle Convenzioni di Ginevra (sul trattamento dei prigionieri di guerra) e dalle Convenzioni dell’Aia (sui crimini di guerra), sicché anche costoro godono di diritti. Questo è l’autentico nodo morale: quei tipi sono certamente malvagi; ma per combatterli efficacemente, si violano i loro diritti. E allora diventi come loro, diventi malvagio tu stesso.
GIULIO GIORELLO — Nel libro racconti che una delle motivazioni che ti ha spinto ad arruolarti era combattere il «bullismo» e i Marines erano per te «gli anti-bulli». Poi aggiungi che il leader di un qualsiasi «Stato canaglia» non è altro che «un bullo con un esercito». Eppure, leggendo il libro, si ha talvolta l’impressione che qualche forma di bullismo si annidi anche nel corpo dei Marines…
DAVID TELL — Anche fra i Marines i bulli non mancano; ma non ho mai pensato che il mio libro dovesse essere una completa condanna oppure una totale approvazione dei metodi di addestramento e dei modi di vivere nel Corpo. Certo, mi sono trovato a lavorare per e con tipi piuttosto stupidi e arroganti, persino avidi e spesso ossessionati dai loro pregiudizi. Però ho incontrato anche gente in gamba, intelligente e profonda, pronta a fare qualsiasi cosa per aiutarti.
Non direi che il Corpo costituisca globalmente un fenomeno di bullismo. Piuttosto, l’immagine di una guerra combattuta da due parti che vanno cavallerescamente alla carica l’una contro l’altra sul campo di battaglia non vale più; adesso bisogna cogliere impreparato il nemico, andando a stanarlo come, dove e quando si vuole… Tutto accade così rapidamente che la battaglia è terminata prima ancora che il nemico abbia avuto la possibilità di reagire. Dunque, un piano ben congegnato prevede di prendere il nemico alle spalle. Questa si potrebbe considerare una tattica da bulli, ma è anche l’unico modo intelligente di combattere, perché consente di risparmiare il maggior numero possibile di vite umane.
Per di più, i Marines stanno facendo del bene nel mondo in misura assai maggiore di quanto si ammetta comunemente. Per esempio, si impegnano a prestare il primo soccorso sia in crisi militari sia in catastrofi ambientali. D’altra parte, con la loro tendenza a vedere il mondo in bianco e nero, senza badare troppo alle sfumature di grigio, si prestano a eseguire ciò che la maggior parte della gente non vorrebbe mai fare in prima persona.
GIULIO GIORELLO — «Sono considerato un killer», leggiamo all’inizio del libro. Ma non è così per ogni soldato?
DAVID TELL — Oggi, in quelle che vengono definite «guerre a bassa intensità», è difficile tracciare una netta distinzione fra il militare medio e le forze speciali. Tipicamente, i soldati ordinari si trovano su un campo di battaglia specifico, in cui combattono quelli di un’altra nazione; e tendenzialmente prendono parte a guerre molto estese, sia come scenari sia come numero di truppe coinvolte. Invece, FastCo, l’unità cui appartenevo, non scende mai su un vero campo di battaglia: sarebbe uno spreco di risorse e di capacità. Viene utilizzata su terreni relativamente poco estesi: si tratta di infiltrarsi dietro le linee nemiche o in zone prive di un governo, o magari laddove non c’è guerra dichiarata e sarebbe imbarazzante essere sorpresi lì con le armi in pugno. Nelle nostre missioni facevamo attacchi di precisione chirurgica in posti chiave contro qualsiasi obiettivo per cui ci fossero ragioni strategiche.
GIULIO GIORELLO — Si tratta dunque di essere the point at the tip of the spear , come suona il titolo del libro in inglese. È così che colpisce «la punta della lancia»?
DAVID TELL — In missioni del genere non c’è tempo di riflettere o di chiedere l’opinione di qualcuno: devi decidere in prima persona. E poi devi essere in grado di vivere con il peso delle tue decisioni, che possono essere di ordine morale, ma anche di tipo operativo. Chi ci ha scelto voleva gente che possa sopportare fisicamente e mentalmente le conseguenze del decidere subito. Già in questo senso diventi un’arma che chi governa può adoperare in qualsiasi modo gli paia opportuno. E quando sei diventato quest’arma, c’è una parte di te che è orgogliosa di far parte di un gruppo d’élite; ma tutto ciò ha un costo umano altissimo.
GIULIO GIORELLO — Ti definisci, in conclusione, un’arma umana dotata di sentimenti…
DAVID TELL — Anche se ci fanno diventare delle armi, non siamo dei fucili: per funzionare bene, un fucile ha bisogno di essere tenuto pulito e in ordine, ha bisogno di qualcuno che si occupa di lui, ma non «sente» nulla; anche le persone hanno bisogno di chi si occupa di loro, ma non per questo perdono i propri sentimenti, che sono sempre lì, celati da qualche parte. E chi mai vorrebbe trovarsi in una missione «terminale» a fianco di tipi che non hanno sentimenti?
Comunque, le operazioni speciali a cui ho preso parte sono una cura temporanea. Possono essere straordinariamente efficaci contro i sintomi, ma non eliminano le radici del male. Puoi uccidere Osama Bin Laden, ma ci sarà sempre chi ne segue le orme. E di fatto non si possono uccidere tutti! Per di più, i terroristi e altri «bulli» possono approfittare delle conoscenze tecnologiche e informatiche più avanzate.
GIULIO GIORELLO — Per reazione, nelle nostre società emerge sempre più la tendenza dei singoli individui a rinunciare a una parte delle loro libertà in cambio di maggiore sicurezza…
DAVID TELL — I governi di solito offrono solo un’illusione di sicurezza. Prendiamo i controlli agli aeroporti. Sembrano severi; in realtà, il personale addetto non ha alcuna formazione specifica, svolge un lavoro malpagato ed è spesso demotivato. Il progetto è di farci sentire sicuri, in modo che volentieri cediamo le nostre libertà per rafforzare chi ci governa. Corriamo un gravissimo rischio: potrebbero riemergere pulsioni di tipo fascista.
GIULIO GIORELLO — Nel libro dici che spesso l’esistenza di un Marine ruota, in definitiva, attorno alla morte.
DAVID TELL — Quello per cui i Marines esistono, il loro primo compito, è uccidere i nemici. Pensano alla morte, perché la morte è il loro mestiere e anche il pericolo che li sovrasta. Lo ammetto pure adesso che ho lasciato quel Corpo che mi aveva modellato come un’arma umana.
GIULIO GIORELLO — C’è tutta una filosofia secondo la quale «viviamo per la morte», sia nostra che altrui. È davvero l’ultima parola?
DAVID TELL — No. La parte più importante dell’esistenza è portare alla vita qualcun altro, e soprattutto fornirgli dei principi morali per convivere con gli altri nel rispetto reciproco. Direi ora che lo scopo della mia esistenza è portare più vita, e cercare di rendere queste nuove vite migliori della mia.

Repubblica 14.12.14
Franco Loi
“Jung aveva ragione, la forza nasce dai sogni così ho imparato a non aver paura della poesia”
intervista di Antonio Gnoli


QUELLA mattina ci fu la strage. Sul piazzale Loreto giacevano una quindicina di partigiani. Per la prima volta Franco Loi, quasi un adolescente, percepì gli effetti brutali della morte. Il cartello umiliante, appeso al collo di uno di loro, con su scritto “Banditi”, spalancava una tragedia inaudita. Il colpo di coda di una guerra feroce. Non c’era poesia. Non c’erano Salgari e Verne che, con le loro avventure, lo avevano fatto sognare. Solo la brutale efferatezza di un episodio. E una data: il dieci agosto 1944.
Cosa ricorda di quel giorno?
«C’era un sole bellissimo. Ero uscito di casa per andare a scuola di ripetizioni. Mi avevano rimandato in tutte le materie. Il fascismo era anche questo. Giunsi sul luogo, inaspettatamente, e vidi quei corpi ammonticchiati. Un’immagine tremenda. Scoprii che c’era anche il padre di un mio amico. Ero frastornato. Tutto lì intorno mi pareva finto. Finti i fascisti della legione Muti. Finta la gente che guardava inorridita. Finte le case che circondavano il piazzale. Anche il cielo sembrava di cartapesta. La sola cosa vera, in quella Milano allo stremo delle forze, era la morte».
Perché quel senso di estraneazione?
«Era la sproporzione di quelle povere vittime a rendere artificiale tutto il resto. Come un sentimento di buio che equivalse per me al passaggio a un’altra età».
Lei non è nato a Milano?
«No, infatti. Sono nato a Genova. La mia infanzia fu lì: tra un padre sardo e taciturno e una madre emiliana, spesso grintosa e irriverente. Avevo sette anni quando ci trasferimmo a Milano al seguito di mio padre che era stato chiamato a dirigere lo scalo merci».
Un padre taciturno, diceva.
«Non abbiamo mai avuto un dialogo. Sentivo che mi rispettava e mi amava. Quando crebbi, presi a lavorare anch’io allo scalo merci. Cominciai come manovale. Mi alzavo alle quattro, la sera studiavo. Un inferno. Di fatica e di sonno. Facevo un po’ di attività sindacale. Un giorno il capo ufficio convocò me e mio padre. Improvvisamente Mainardi, ricordo ancora il suo nome, prese a insultarlo: “Non sei stato neppure capace di educarlo”, disse indicandomi. “Che razza di uomo sei?”, aggiunse con disprezzo. Non ci vidi più. Gli saltai addosso. Ci rotolammo. Lo presi a pugni. Fummo separati. E naturalmente venni licenziato in tronco».
E suo padre?
«Restò fino al 1958. Poi gli diedero una medaglietta per i 25 anni di fedeltà alla ditta. E lo buttarono fuori. Credo ne soffrì particolarmente. Un ictus e una cura sbagliata fecero il resto. Fu inchiodato nel letto per 11 anni prima di morire».
E lei?
«Iniziai a fare politica nel Pci. Ma non durò a lungo. C’era un fanatismo ideologico che non riuscivo ad accettare. Cossutta era segretario del partito a Milano. Già allora sembrava un fossile. “Che ci faccio io qui?” mi dissi e nel 1954, molto prima dei fatti di Ungheria, restituii la tessera. Devo dire che ebbi anche la fortuna di incrociare un personaggio per me fondamentale: Giulio Trasanna».
Chi era?
«Sembrava uscito da un libro di Osvaldo Soriano. Era stato pugile. Campione del Friuli. Un giorno si imbatté in un testo di Nietzsche, era Al di là del bene e del male.
Si immerse nella lettura al punto che dimenticò l’incontro di boxe. Abbandonò il pugilato per la letteratura e la poesia. Da lui ho appreso tutto: l’amore per le stelle. L’onestà. La passione per i libri. Morì di cancro nel 1962. Avevo da poco iniziato il mio lavoro alla Mondadori».
E la poesia?
«Sarebbe venuta dopo, anche se era già tutta dentro di me».
Cosa faceva alla Mondadori?
«Mi occupavo dell’ufficio stampa. Allora a capo della casa editrice c’era Vittorio Sereni. Un giorno mi chiamò: ho saputo da un amico che lei scrive poesie. È vero, risposi. Ma come, sono dieci anni che lei lavora qui e non me ne ha mai parlato? Le scrivo per me, replicai. Alla fine volle leggerle. Lo trovai qualche giorno dopo, davanti alla porta del mio ufficio. Mi guardò in silenzio e poi mi abbracciò. Da allora ebbe inizio la nostra amicizia, grazie a lui pubblicai le prime poesie».
Predilige il dialetto perché?
«Non lo so. È venuto fuori spontaneamente. Sentivo la parlata milanese degli operai, della gente comune. Sentivo che i discorsi cambiavano grazie ai suoni più che al significato delle parole. Mi affascinava. E poi lessi il Belli. Capii che il dialetto è la lingua dell’esperienza e quindi della vita. Quell’anno, il 1967, scrissi per la prima volta delle poesie».
Cosa la indusse a farlo?
«Era una forza sconosciuta. Uno stato di ebbrezza che durò tutto il mese di settembre. Scrissi in tutto 119 poesie. Poi, per anni più niente».
Perché la lunga interruzione?
«È difficile da spiegare. Davvero. È come conoscere la parte insopportabile del dolore e averne timore. Una volta Zanzotto paragonò la poesia al terremoto. Mi disse: sai, a volte scrivo il primo verso e mi ritraggo. Ne ho paura. È come se tutto stia per crollare».
E lei ha avuto paura della sua poesia?
«Devi vincerla la paura. Devi trovare l’equilibrio tra
l’inconscio e la conoscenza. Non è facile. Lo so. Perché la poesia è anche un modo di sfidare il sacro».
È religioso?
«Non vado in chiesa dall’età di 14 anni. Il prete di allora, anzi un frate, mi chiese nel confessionale se mi toccavo. Avvertii qualcosa di squallido. Ad ogni modo ho frequentato dei religiosi particolarmente interessanti ».
Chi?
«Don Giussani. Mi colpì il suo carisma. Non ho mai sentito nessuno far vibrare le emozioni come seppe fare lui con le parole. Fui anche attratto da Padre Turoldo. Ma la persona che, se ci penso, ancora mi turba è don Lorenzo Milani. Andai a trovarlo a Barbiana. Era incredibile ».
Incredibile perché?
«Brusco come un orso. Ma anche tagliente. Con quegli occhi ironici. Quando mi vide, la prima volta, disse: te sei comunista ed è già meglio di niente, in questo momento pensi che io sia dalla tua parte. Ma quando andrete al potere, io sarò un vostro avversario, ricordatelo. Più volte mi recai a Barbiana. In quegli incontri, davanti ai suoi adorati allievi, capitava che don Lorenzo infilasse un braccio in una pentola d’acqua bollente. E indifferente al calore, che gli ravvivava la circolazione sanguigna, poteva spiegare il verso di una poesia di Leopardi, di Dante o commentare un passo della Bibbia».
Che impressione ne ricavò?
«Sapeva essere durissimo. Ma non ho mai visto una classe di allievi discutere così liberamente e profondamente come quella che don Lorenzo aveva creato. L’ultima volta che lo vidi fu in un’alba dell’ottobre del 1964. Stavo lasciando Barbiana.
Avevo dormito male. Mi alzai verso le quattro del mattino. Preparai lo zaino. Mi mossi senza far rumore. Ma lui era già al suo scrittoio. Mi guardò, con tenerezza. Disse: “Questo è il solo tempo che mi appartiene e che non rubo ai miei allievi”. Stava scrivendo una lettera alla madre. Mi chiese di restare. Gli dissi: “È tardi, don Lorenzo”. Non l’ho più rivisto. Gli scrissi un paio di anni dopo. Mi rispose che era in ospedale e che riusciva a vedere solo gli amici più stretti. Morì nel 1967, in casa dell’adorata madre e alla vigilia dei grandi eventi studenteschi che in qualche modo anticipò».
Ai quali ha partecipato.
«Sì, poi le cose si complicarono. Si imputtanarono. Fui perfino arrestato come fiancheggiatore delle Br. E pensare che detestavo la loro violenza».
Com’era finito in quella situazione?
«Fui convocato una mattina dalla procura di Venezia. Pensavo a una testimonianza. Mai avrei immaginato di cadere in un inferno. Mi accorsi improvvisamente di essere accusato dei peggiori misfatti. Il giudice si accanì nell’interrogatorio. Minacciando di coinvolgere anche mia moglie».
Di cosa l’accusava?
«Di essere un terrorista. Forse, perfino, uno dei capi delle Br».
Con quali prove?
«Qualcuno mi aveva denunciato. Si parlò di un “teste probante”. Le domande, brutali, mi gettarono nella disperazione. Ero inerme. Incredulo. Alla fine fui trascinato fuori della stanza e, in catene, su di un motoscafo, trasferito nel carcere a Santa Maria Maggiore. In isolamento. La notte, la prima notte, sentii le voci lontane di altri detenuti. Una in particolare: “Voglio morire”, gridava. “Fatemi morire”. Mi sembrava di essere precipitato in un baratro. Cominciai a piangere».
«Durante l’interrogatorio mi chiesero se conoscevo Corrado Simioni. Dissi sì. Dissi che era mio amico. Che lo era stato».
Simioni fu considerato uno dei teorici della lotta armata. Qualcuno si è spinto fino a dire che fosse lui il “grande vecchio” delle Br. Un’amicizia così non poteva passare inosservata.
«Se è per questo Corrado Simioni era anche un grande studioso di Pirandello. Iscritto al partito socialista. Facemmo assieme il Sessantotto. Poi lui prese la sua strada con Renato Curcio e Mara Cagol. Ma io non c’entravo più niente. Non condividevo più nulla di quella storia politica».
Ha conosciuto Curcio e la Cagol?
«Sì, c’eravamo frequentati negli anni Sessanta. Una mattina del febbraio del 1970 Curcio venne a trovarmi per propormi la direzione di una rivista che stava fondando, Sinistra proletaria . Rifiutai».
Con quali argomenti?
«Gli ripetei quello che già c’eravamo detti mesi prima durante un incontro nel quale cominciarono a immaginare di entrare in clandestinità. Mi sembravano fuori dal mondo. Lo ribadii con forza. Gli dissi che non c’era futuro per la lotta armata. Per la violenza».
E lui?
«Se ne andò con Mara che in qualche modo sembrò darmi ragione. Scesero le scale. Lei alzò il braccio per salutarmi. Per me quella storia finì lì. Definitivamente».
E dopo il suo arresto?
«Ebbi una condanna a un anno e messo in libertà provvisoria. In appello fui completamente prosciolto».
Che anno era?
«Il 1983. Avevo la sensazione che la vita dovesse ricominciare. Tre figli, una moglie e neppure uno straccio di lavoro. Fu, ancora una volta, Sereni ad aiutarmi».
È stato molto amico anche di Franco Fortini.
«Scrisse una prefazione a un mio libro di poesie. Era un uomo strano. Dottissimo. Litigioso come pochi. Una volta per una serie di fraintendimenti si prese a pugni con Stefano Agosti. Si azzuffarono per un verso di Leopardi. Finirono agli insulti e poi alle mani. Dovemmo separarli a forza. Come vede nella mia vita non sono mancate le sensazioni forti».
E oggi?
«Continuo a pensare che l’ingiustizia prosperi e che la gente alla fine non faccia nulla per contrastarla. Regnano indifferenza e ipocrisia. Quando ho compiuto ottant’anni c’è stata, in un teatro milanese, una grande festa in mio onore. Ero felice per tutti i riconoscimenti. Poi ho sentito crescere il dubbio. Improvvisamente mi sembrava che tutte le parole spese per dire quanto fossero belle le mie poesie, suonassero false. Provavo lo stesso sentimento di estraneazione che ebbi in piazzale Loreto. La mia giovinezza, ormai perduta, i miei drammi, le ragioni stesse dello scrivere stritolate in un inutile anniversario. Proprio in quei giorni scoprii che stavo diventando cieco».
Lo ha scoperto come?
«Un esame oculistico approfondito e il responso: affetto da maculopatia. In sostanza è la perdita della centralità visiva. E dei colori. Avendo perso i dettagli della visione le immagini sfocano. Prevalgono le ombre. Non riesco più a leggere e faccio un’enorme fatica a scrivere. Ho provato a buttare giù dei versi su un taccuino. Guardi la scrittura: incerta, sbilenca, incomprensibile. Mi avvilisco e provo a resistere».
In che modo?
«C’è una forza che nasce dai sogni. Jung dice che c’è un punto dentro di noi che non è riconducibile alla logica. Lì si realizzano i sogni più importanti. Ma bisogna trovarlo quel punto. Bisogna arrivarci. Bisogna conoscere se stessi. È il fondamento di ogni civiltà, il sogno. Ancora oggi continuo a sognare. Non mi sono del tutto arreso».

Repubblica 14.12.14
La poesia del mondo
Quel cortile dell’allegro funerale di Hikmet
di Walter Siti


Forse una fanfara, sicuramente i bambini e l’atmosfera molto familiare del quartiere Due mesi prima della scomparsa così ipotizzava la sua cerimonia funebre
il poeta turco in esilio a Mosca E il suo ottimismo romantico finiva per esorcizzare la morte con ironia

Il cuore è un muscolo simbolico, però gli infarti sono veri e causati da tredici anni di carcere politico Ma anche con la cardiologa l’autore saprà scherzare

IL“ qui” del v.9 non è Turchia, è Mosca: appartiene all’usanza russa dei funerali che la bara lasci scoperto il volto del defunto durante il trasporto. Hikmet, emigrato a Mosca fin dal ’51, ha sperato a lungo di tornare nel proprio Paese, dove ha lasciato una moglie e un figlio, o almeno di andarci a morire («datemi sepoltura tra i campi d’Anatolia») – ma ormai ha sposato a Mosca la sua quarta moglie Vera, sa che la casa popolare di via Pesciànaya sarà il suo ultimo domicilio su questa terra. Il “noi” e il “voi” del testo designano una comunità: se la “nostra cucina” e il “nostro balcone” si riferiscono alla piccola famiglia nucleare di lui più Vera, il “nostro cortile” (“avlu”, cortile, è ripetuto ben cinque volte) è lo spazio dell’amicizia tra casigliani; e forse il “calerete” del v.2 è già rivolto a loro, prevedendone la collaborazione nell’estremo triste compito. Tra i molti versi dedicati da Hikmet a immaginare la propria morte (dopo il primo infarto del ’52 e soprattutto dopo il secondo del ’59) questi sono senz’altro i più sereni.
Ci sono poeti che, invece di attraversare l’ombra affidandosi pericolosamente alle parole, preferiscono usare le parole per esorcizzare l’ombra; il che li condanna spesso al secondo rango. Hikmet è uno di questi, la sua retorica umanitaria e il suo ottimismo amoroso si sono prestati anche troppe volte a citazioni da Baci Perugina («la cosa più bella che vorrei dirti/ è quella che non ti ho ancora detto»). Ma di fronte alla prova decisiva, la morte, la retorica sotto sforzo rivela la propria tenuta e la qualità umana diventa misura poetica. A questa prova Hikmet non fallisce. Il cuore è un muscolo altamente simbolico, ma gli infarti sono veri e causati da tredici anni di carcere politico; alla cardiologa russa che gli raccomanda di evitare le forti emozioni risponde scherzando «se schiatterà di rabbia o di allegria,/ lo lasci schiattare». È la stessa ironia sui piccioni che gli lasceranno un ricordino in fronte (portafortuna, certo, ma anche antiretorico stigma d’elezione).
La cosa che non si può non riconoscere a Hikmet è il coraggio: da quando nel ’21 a Istanbul denunciava il genocidio armeno a quando nel ’55 osò scrivere per un teatro moscovita una satira sul culto della personalità. Cercò di riabilitare Mejerchol’d, lodò scrittori caduti in disgrazia; il potere sovietico lo controllava stretto ma non poteva rinunciare a un intellettuale turco anti-Nato e lo esibiva in giro come “vate di pace e libertà”. Lui lo capiva di essere usato ma sperava di servire comunque alla causa; il suo ottimismo fu in origine reazione alla galera («miei cari/ mandatemi libri che finiscano bene») e non si lasciò smontare nemmeno dai fatti d’Ungheria o dalla corsa agli armamenti: «la rovina degli ideali crollati non mi schiaccia», scrive in una poesia del ’61. Comunista indomito, ateo gran lettore dei mistici arabi e persiani, nipote di pascià ma ribelle per costituzione, maschio di vorace sensualità, ama la vita e la natura con quel che l’amica Joyce Lussu definiva un “ingualcibile candore”. Così attrezzato si appresta ad andarsene: senza rimpianti né invidie, augurando a chi resta lunga vita. Nel ’54 aveva scritto «sarebbe un’ignominia, o forse crudeltà/ separarsi dal mondo in primavera» – ora è aprile ma ormai qualunque stagione va bene, l’importante è che ci siano dei bambini (il suo, lontano, aveva 12 anni). L’accenno alla “fanfara” del v.11 allude a una possibile ufficialità della cerimonia, ma la cosa non sposta niente. Quello che conta è l’intimità con lo spazio; sentiamo di poterci fidare, quel cortile moscovita è davvero un incrocio di seria umanità. La sequenza è cinematografica (Hikmet fu anche sceneggiatore): prima l’interno stretto delle scale e il cortile traguardato dall’alto, poi la panoramica in esterna con le alternative stagionali affidate alla triplice anafora di “belki” (forse); l’ingresso prepotente del sonoro. Poi l’obiettivo si stringe sul primo piano del volto e si ri-allarga ad accogliere le facce curiose dei bambini; lì ci aspetteremmo il controcampo, l’occhiata gettata indietro dal protagonista a salutare ciò che lascia: ma il protagonista è cadavere e allora è la finestra che segue il padrone con lo sguardo, come un cane fedele, mentre il bucato saluta dal balcone. Oggetti umili per gente umile – e umile la lingua.
In turco vige una regola fonetica nota come “armonia vocalica”, per cui in ogni parola le vocali dei suffissi si accordano alla vocale della radice. Sfruttare questo in poesia significa valorizzare le assonanze rinforzandole con allitterazioni e rime; Hikmet ha scelto il verso libero fin dalla giovinezza influenzata dal futurismo russo, dunque niente rime, ma le allitterazioni le usa eccome (qui, ben 9 versi su 16 cominciano per “b”). L’armonia dev’essere sobria, niente più esagitazioni verbali o metafore troppo tese; tutto molto realistico e credibile, sul ritmo del cuore affaticato. Solo dei puntini di sospensione nell’ultimo verso, a lasciare aperto il dialogo. La morte arriverà empiricamente due mesi dopo e la temeraria parola “felice” ne sarà il sigillo: “socialismo”, scriveva nel ’54, “è sentire la felicità come un dovere patriottico”.

NÂZIM HIKMET LA CERIMONIA DEL MIO FUNERALE
da Ultime poesie
Il mio funerale partirà dal nostro cortile?
Come mi farete scendere dal terzo piano? La bara non ci sta nell’ascensore e la scala è stretta.
Forse il cortile sarà pieno di sole, di piccioni, forse nevicherà, i bambini faranno tanto rumore, forse l’asfalto sarà bagnato di pioggia e nel cortile come sempre i bidoni della spazzatura. Se sul furgone, come usa qui, mi caricano a faccia scoperta, un piccione potrebbe farmi cadere qualcosa sulla fronte: porta bene.
Che ci sia o no la fanfara, i bambini verranno di sicuro, i bambini sono curiosi dei morti.
La finestra della nostra cucina mi seguirà con lo sguardo, il nostro balcone mi saluterà col bucato steso.
Non potete sapere come sono stato felice in questo cortile.
Miei casigliani del cortile, vi auguro lunga vita, a tutti.
(aprile 1963)

L’autore
Nazim Hikmet (Salonicco 1901 -Mosca 1963) è stato un poeta, drammaturgo turco definito “comunista romantico”, in esilio in Russia dal 1951 dopo aver passato numerosi anni in carcere per le sue idee politiche

Corriere La Lettura 14.12.14
Paolo Conte, musica e provincia
«Sono moderno, cioè fuori moda»
intervista di Paolo Di Stefano


Non resta quasi più niente da dire di Paolo Conte. Basterebbe sentirlo cantare lasciando venir fuori tutta la sua poesia, la sua grana, il suo timbro che ritorna intatto in Snob , il nuovo disco fitto di sambe, di blues e di mazurke, di esotico e di provincia italiana. Fedele a se stesso, alle sue arie e alle sue parole. Sono passati più di vent’anni dal suo omaggio sentimentale al Novecento, ma Conte è sempre lì. Sono diminuite le sigarette, non più di una decina al giorno, qualcuna fumata anche durante le prove degli spettacoli, con le dita sul pianoforte, ma il macaco è sempre lì, con tutt’e due i mocassini nel secolo scorso.
«Credo di non aver mai attinto la misteriosa ispirazione dagli anni che passano. Mi sono sempre divertito a scrivere fantasticando e lavorando con lo stesso metodo. Sento che è cambiato il mondo, però io resisto. Mi tengo lontano dalla tecnologia, non uso il telefonino né il computer. Semmai, qualcuno lo fa per me, ma io sono negatissimo. La nostalgia? Non mi appartiene. Mi sono guardato sempre indietro per trovare cose che mi piacevano molto di più di quelle che stavo vivendo».
Nessun interesse per il presente?
«Da artista, io appartengo al moderno. Negli anni Settanta poi è venuto quello che hanno chiamato il postmoderno, arte cosiddetta attuale. Ma trovo difficile rinunciare a tutto il lavoro molto fitto che io ho fatto da modernista, in contrasto con le cose estremamente semplificate che si fanno adesso. Soprattutto in musica, è stata mandata fuori dai piedi l’armonia, le forme sono ridotte a pochi elementi. E quindi non mi posso sentire attuale. L’attualità è sempre segnata dalle mode che vanno e vengono, che chissà quanto durano e quanto cambiano. Non è una scelta mia; è che guardandomi allo specchio, mi sono sempre trovato fuori moda, completamente. E i miei modelli non sono mai cambiati. Da appassionato di jazz, ho seguito tutto il suo percorso storico, ma criticamente sono tornato indietro agli anni dei primitivi, che sono i più importanti perché sono i più audaci, gli anni Dieci, Venti… E questo vale un po’ per tutta la musica, sono gli anni di Ravel, di Stravinskij…».
Un guardare il mondo da provinciale?
«Non è una posa. Anzi, mi è stata fatta spesso una sorridente accusa al fatto di essere provinciale. Ma ho sempre spiegato: guardate che tutto sommato la provincia è una passerella di personaggi ben stagliati, per cui diventa abbastanza facile poterne scrivere, poter individuare certe sagome… In questo disco racconto la storia di due provinciali visitati da uno snob che viene dalla città e solo lì, per la prima volta, pronuncio la parola “provincia”…».
Provinciale un po’ dandy?
«Ci sono tre categorie di persone non ordinarie che un pochino si somigliano: l’intellettuale, lo snob e il dandy, a cui mi illudo di appartenere. Il dandy è uno che cerca la bellezza in profondità senza assolutamente tirarsela, come si dice oggi: cosa che fa piuttosto lo snob, che è un parvenu, mentre il dandy è proprio sostanza, è vero».
In questo album si nota una sottolineatura sudamericana. A cosa si deve?
«Ci sono ragioni anche tecniche dietro queste scelte. Io mi sono sempre lamentato della difficoltà della lingua italiana dal punto di vista musicale in senso ritmico, preferendo quindi l’inglese, poi anche discretamente il francese e lo spagnolo. Ma coi ritmi sudamericani la parola italiana riesce a muoversi meglio. Poi ho una certa simpatia per quel poco di spagnolo qua e là che ti dà un po’ di frizzo, ecco. Noi italiani in genere amiamo l’esotismo, e lo spagnolo ci è abbastanza amico. Ma io vado molto indietro, ho sempre cercato l’essenza indigena primitiva: se mi trovo in una città musicale importante, come Vienna o l’Avana o Chicago, cerco di annusare la linfa originaria».
Il Sud America è un luogo dell’ispirazione conosciuto anche fisicamente?
«Sono stato una volta in Brasile, all’inizio degli anni Ottanta. La prima sera, sono stato invitato da amici, abbiamo sentito dei dischi di quegli anni ma non trovavo quel che cercavo, e una ragazza brasiliana mi ha dato una risposta che per un attimo mi ha messo con le spalle al muro. Mi ha detto: noi siamo un popolo giovane, voi siete dei vecchi europei che vogliono sempre il classico… Si sentiva molto moderna».
L’uso di parole tronche («Tropicàl... gerovitàl... virtuàl...») e sdrucciole rende più facile il rapporto con la lingua italiana in musica?
«Dipende dalle frasi musicali, che scrivo prima delle parole. In “Tropical” mi sono detto: le vocali finali le faccio svanire in aria così come si faceva una volta... Le sdrucciole, quando si possono usare mi piacciono. Hanno un loro peso e una loro camminata, ecco».
Il personaggio maschile e solitario di tante canzoni, quello che guarda il mondo dai margini, è anche Paolo Conte?
«Alla fin fine è il mio specchio, anche se non per questo voglio somigliare a me stesso quando scrivo. Io sì, sono solitario, non mi piace la vita sociale, non mi piace la massa, coltivo poche amicizie, vivo fuori dai centri nevralgici metropolitani… La tentazione di vivere in città l’ho avuta, ci sono tante città che mi piacciono, New York, Parigi, ma anche Milano o Torino…, però, che fatica… Forse mi proteggo».
Il poeta-Conte che poeti ama?
«Sempre gli stessi: Gozzano, Caproni, Sbarbaro... Son sempre quelli, anche perché non mi sono aggiornato. Io sono un lettore standard. Thriller scandinavi, che ti entrano da una parte e ti escono dall’altra, però sono confezionati molto bene e scorrono. Naturalmente non mi lascio scappare Camilleri, Vitali o Carofiglio. Con Camilleri ho fatto poca fatica a imparare la sua musicalità, e dopo essermi impadronito di una ventina di parole, mi ritrovo. Tutto sommato mi piace perché ci sono dentro delle parole vecchie, cariche di profumo, che appartengono al siciliano, ma potrebbero appartenere anche al piemontese o al lombardo antico e che fa piacere ritrovare».
Il giornale, la politica?
«Leggo la pagina dello sport, quelle due o tre curiosità. La politica non ci capisco niente, per cui è inutile... Qualcosa leggo, ma proprio non ci arrivo a capire... Trovo che ci sia troppa gente che crede di essere padrona del linguaggio della politica, ma poi chissà se davvero capisce. È tutto da vedere».
Se avesse dei figli, la preoccupazione di guardare come va il mondo sarebbe diversa?
«Può darsi che sì, per proteggere i figli mi terrei più informato, mi servirebbe sul piano organizzativo, della quotidianità. Ma gli insegnamenti che potrei dar loro sarebbero comunque antichissimi: la libertà, la lealtà, cose che travalicano il momento».
Figli a parte, Conte si sente un maestro, uno di quelli che entrano nell’anima?
«Sì, confermo, credo di sì. O meglio lo sarei, perché in realtà non esercito questo mestiere. I miei orchestrali sono tutti più giovani di me e molto preparati, hanno fatto il conservatorio, ma ho l’impressione di averli allevati, di aver insegnato loro certe cose abbastanza segrete lavorando anche di psicologia per colmare il divario dell’età».
Cosa direbbe a un giovane che si avvia alla musica?
«Qualche anno fa ho fatto una lezione ai ragazzi della scuola di composizione del Conservatorio di Torino e mi ero preparato diciamo un decalogo di cose che mi sembravano importanti per qualunque musica. Credo anche di essermi spiegato anche abbastanza bene. Poi alla fine qualcuno si è alzato e mi ha dato un provino di un disco di canzonette di nessun valore, chiedendomi in sostanza come si fa ad aver successo. C’è ancora in parte un rapporto di ammirazione per i maestri, ma bisogna vedere che cos’è davvero l’oggetto di questa ammirazione. Non ho mai ben capito quello che è finto e quello che è vero».

Il Sole Domenica 14.12.14
Non possiamo non dirci naturalisti
Il punto sul naturalismo, la filosofia più vicina alla scienza, dominante nel mondo ma avversata in Italia
Anche da chi si autodefinisce realista
di Carlo Rovelli


Naturalismo senza specchi è un libro complesso, dove uno dei più brillanti filosofi contemporanei, Huw Price, cattedra Bertrand Russell a Cambridge, discute una versione di quella che non è forse la filosofia dominante del nostro tempo: il naturalismo. È una versione che risponde implicitamente a molte posizioni anti-naturalistiche di casa nostra.
Il naturalismo, come scrive Federico Laudisa in un recente volume intitolato appunto Naturalismo, «è diventato un quadro di riferimento generale per molte questioni filosofiche al centro dei dibattiti dell'ultimo mezzo secolo». Come tutte le vaste tendenze di pensiero, non ha una definizione precisa e si declina in una varietà di forme; lo si può caratterizzare come l'atteggiamento filosofico di chi ritiene che tutti i fatti che esistono possano essere indagati dalle scienze naturali, e noi stessi siamo parte della natura. Non è naturalista chi assume realtà trascendenti che possiamo conoscere solo attraverso forme non indagabili dal pensiero scientifico. O chi pensa che esistano due realtà: la natura studiata dalla scienza, e altro. Il naturalismo nasce nel pensiero classico greco, dispiegato in Democrito, rinasce dopo una lunga eclissi nel Rinascimento italiano e si rafforza con i trionfi della scienza moderna. Diventa forte nel diciannovesimo secolo e oggi permea la cultura mondiale. Tesi marcatamente naturalistiche sono state difese per esempio da Willard Quine, uno dei maggiori filosofi del ventesimo secolo. Una delle sue tesi estreme in questo senso è la «naturalizzazione dell'epistemologia»: lo sforzo di ricondurre alle scienze naturali anche le questioni sulla natura stessa della conoscenza.
L'Italia, dopo il Rinascimento, è diventata singolarmente refrattaria al naturalismo, e lo è ancora. Nell'enciclica Quanta Cura, Pio IX condannava ferocemente «l'empio ed assurdo principio del naturalismo». Non siamo più a questi eccessi, ma resta diffusa nel nostro Paese l'opinione prettamente anti-naturalistica che «ci dev'essere "qualcosa" al di là di ciò che si può studiare scientificamente». La refrattarietà al naturalismo si riflette in tutto ciò che ci distingue dalla maggior parte degli altri Paesi. La nostra scuola è strutturata dall'idealismo crociano, i nostri filosofi adorano Heidegger, la nostra stampa e televisione, con poche eccezioni, fanno la peggior divulgazione scientifica del pianeta – si pensi a Voyager –, il nostro Parlamento non eccelle per cultura scientifica. Siamo l'unico Paese dove scuole e tribunali espongono simboli religiosi, e l'unico, oltre forse all'Iran, dove i telegiornali raccontano ogni giorno cosa ha detto il leader religioso locale. Di naturalismo in Italia abbiamo sentito parlare quasi solo quando ci raccontavano a scuola quanto esso avesse fatto soffrire Leopardi...
In questo clima non stupisce che anche i nostri migliori intellettuali si tengano a distanza dal naturalismo. Nel suo libro che pure al naturalismo è dedicato, Laudisa si affretta a scrivere: «Non condivido il grande entusiasmo che manifesta per il naturalismo la stragrande maggioranza dei miei colleghi». Laudisa rimprovera al naturalismo soprattutto di non essere in grado di rendere conto degli aspetti normativi (ed estetici) del pensiero. Più marcatamente, per il retaggio della sua tradizione culturale, Maurizio Ferraris, nella sua pur benemerita crociata illuminista contro le degenerazioni del pensiero che legge tutto come «costruzione sociale», si affretta ad aggiungere nel suo Manifesto: «Non si tratta affatto di dire che tutte le verità sono in mano alla scienza» e a distinguere realtà «naturali», come montagne alberi e stelle, da realtà «sociali», come contratti, valori, e matrimoni. Da tradizioni di pensiero lontane, Laudisa e Ferraris vedono entrambi i limiti del naturalismo là dove inizia il pensiero.
Questa è esattamente la questione da cui parte Huw Price. Price lo chiama il «problema della collocazione» («placement»), e lo formula come la domanda di dove "collocare" nel mondo delle scienze naturali entità come valori morali, bellezza, conoscenza, coscienza, verità, numeri, mondi ipotetici, leggi, eccetera: tutte le entità che sembrano meno compatibili con il mondo descritto dalla fisica.
La risposta di Price è in due passi. Il primo è l'osservazione che linguaggio e pensiero non sono sempre rappresentazioni di qualcosa di esterno. L'osservazione è il cuore della filosofia della seconda fase di Wittgenstein: contrariamente a quanto ipotizzato dalla teoria del linguaggio (da Gottlob Frege, il padre della logica moderna), linguaggio e pensiero fanno ben altro che designare oggetti e proprietà di oggetti. Se guardo il tramonto e dico «che meraviglia!» alla mia compagna, non sto designando un'entità «meraviglia» che sia là, vicina al sole. Sto esprimendo l'effetto del tramonto su di me, rafforzando il legame di vicinanza con la mia compagna, cercando di mostrarle qualcosa della mia intimità, o mille altre cose ancora, nessuna delle quali ha a che vedere con un oggetto esterno «meraviglia». Interpretare le nostre sofisticate e complesse attività linguistiche come affermazioni su una realtà esterna è l'errore che, secondo Price, genera il falso problema del «collocamento».
Il secondo passo di Price è uno slittamento nel succo del naturalismo: porre l'accento sul fatto che noi, esseri umani, siamo parti della natura. E possiamo essere studiati dalle scienze naturali. Price lo chiama «naturalismo del soggetto». Valori morali, bellezza, conoscenza, coscienza, verità, numeri, mondi ipotetici..., non vanno compresi come arredamento metafisico del mondo, né dichiarati «illusori»: vanno compresi come aspetti del comportamento di noi stessi, esseri naturali in un mondo naturale. Questo non toglie la possibilità di studiarli in forma autonoma: un matematico studia i numeri, un filosofo i valori morali. Diritto, estetica, morale, logica, psicologia... sono scienze autonome. Ma i loro presupposti, e le realtà di cui si occupano non contraddicono il naturalismo, perché sono riconducibili alla coerenza generale del mondo naturale, come la chimica è compatibile con la fisica: il nostro pensiero e la nostra vita interiore sono fenomeni reali, generati da creature naturali in un mondo naturale.
Molte vivacissime scienze si concentrano oggi nello sforzo di completare questa intuizione: scienze del cervello, cognitive, etologia, antropologia, linguistica, psicologia... Una sterminata letteratura sta crescendo, dedicata a comprendere noi stessi in termini naturali. Un testo che riassume lo sforzo, la nostra capacità di conoscere, per esempio, è Teoria evoluzionaria della conoscenza di Gerhard Vollmer, da poco tradotto. Moltissimo ancora non capiamo, perché come sempre quello che sappiamo è molto di più di quello che non sappiamo, ma stiamo imparando.
Curiosamente, riportarci alla nostra realtà naturale, che per Price si radica nel pragmatismo e nel rispetto per il sapere scientifico, finisce per riallacciarsi alle intuizioni di Nietzsche, che per altra via sono sfociate negli eccessi del postmoderno: prima di essere animale razionale l'uomo è animale («Sono i nostri bisogni che interpretano il mondo... Ogni istinto ha la sua sete di dominio»); vero, ma anche la nostra ragione nasce da questo magma, e ne emerge come la nostra arma migliore. Su questo intreccio segnalo anche un piccolo libro di diversi anni fa in tutt'altro mondo: Gli istinti dell'uomo di Antonio Balestrieri. Come presidente della Società Italiana di Psichiatria, Balestrieri giocò un ruolo centrale per l'approvazione della legge 180, vanto dell'Italia, che ha chiuso i manicomi liberando l'umanità da grande sofferenza ed è stata copiata nel mondo intero. Con la semplicità di chi con la forza e la debolezza della mente, ci lavora quotidianamente, Balestrieri delinea un quadro per comprendere la rete di relazioni fra istinti e ragione, e tratteggia il percorso evolutivo che ci può aver portato a essere ciò che siamo, esseri di emozioni e di pensieri.
In favore della possibilità di questo naturalismo umile e completo, il libro di Price argomenta con rigore: siamo creature naturali in un mondo naturale; questi termini ci danno il miglior quadro concettuale per comprendere noi e il mondo. Siamo parte di questa natura ricchissima, di cui sappiamo ancora poco, ma abbastanza per capire che è sufficientemente complessa per dare luogo a tutto ciò che siamo, compresa la nostra etica, la nostra conoscenza, il nostro sentire la bellezza, e la nostra capacità di emozionarci. Per un fisico teorico come sono io, abituato a pensare la sterminata distesa di più di cento miliardi di galassie, ciascuna formata da più di cento miliardi di stelle, ciascuna con la sua ghirlanda di pianeti, su uno dei quali non siamo che un fenomeno breve e fugace, granelli di polvere persi nel cosmo sterminato, questa non può essere che un'ovvietà. Ogni uomo-centrismo impallidisce di fronte a questa immensità. Questo è il naturalismo.

Il Sole 14.12.14
Filosofia minima
Ne uccidereste uno per salvarne 5?
Armando Massarenti


«Uccideresti l'uomo grasso?». No caro lettore, molto probabilmente non lo uccideresti. Ma se leggerai il libro di David Edmonds edito da Cortina che porta questo titolo, un piccolo gioiello divulgativo sulla filosofia morale contemporanea, con i suoi intrecci con la psicologia e le neuroscienze cognitive, capirai mille volte di più perché (forse) non lo faresti. L'analisi filosofica ti farà capire mille sfumature diverse, assai fruttuose anche se (forse) confermeranno la tua prima reazione a quella domanda. Il vero tema del libro è ben delineato nel sottotitolo: Il dilemma etico del male minore. Il punto di partenza è l'"esperimento mentale" che la filosofa inglese Philippa Foot escogitò negli anni seguenti la Seconda guerra mondiale, durante la quale Churchill lasciò i tedeschi nella convinzione che i bombardamenti stessero davvero colpendo, come loro volevano, soprattutto il centro di Londra mentre per sbaglio si concentrarono a lungo nella zona Sud: ciò provocò meno vittime, ma queste, a differenza di quelle del centro, erano dovute alla scelta del premier. Ecco dunque il dilemma disegnato dall'esperimento mentale più famoso in campo morale degli ultimi sessant'anni. Immaginate di trovarvi, come l'omino nell'immagine, accanto a un binario e di vedere un treno in corsa che sfreccia verso di voi. I freni non hanno funzionato e voi lo capite al volo. Più avanti ci sono cinque persone legate sui binari che saranno travolte e uccise. Però potete fare qualcosa: per fortuna siete accanto a uno scambio, azionando il quale il treno finirà su una linea secondaria, un ramo deviato, che si trova davanti a voi. Sul ramo deviato però che c'e una persona legata sui binari, che verrebbe travolta e uccisa. Che cosa fareste? Beh, è probabile che azioneste il cambio, come la maggior parte delle persone cui viene proposto il dilemma. Le cose si complicano quando entra in scena l'uomo grasso, in una variante dell'esperimento, cui, nel volume, ne seguiranno altre otto, volte via a via a chiarire le modalità del nostro ragionamento morale e, soprattutto, il ruolo che le emozioni giocano nelle nostre scelte. La situazione è identica alla precedente, solo che invece della leva del cambio c'è un cavalcavia. C'è un uomo molto grasso che sta guardando il treno appoggiato alla ringhiera. Se lo spingeste giù, piomberebbe di sotto e si schianterebbe sui binari. È così obeso che la sua massa farebbe fermare bruscamente il treno. Purtroppo, in questo modo verrebbe ucciso, salvando però gli altri cinque. Dunque la domanda è: si dovrebbe dare una spinta all'uomo grasso? Una percentuale molto alta di persone dichiara che non lo farebbe. In molti, in altre parole, smettono di essere utilitaristi. Per spiegare perché esiste questa differenza entrano in gioco tutti i protagonisti della filosofia morale contemporanea angloamericana: Foot, Thomson, Anscombe, Murdoch, Hare, Williams e poi Haidt, Greene e il Nobel Kahneman. Edmonds guida per mano il lettore mostrando la miriade di casi concreti in cui ci troviamo di fronte a situazioni simili a quelle illuminate dagli esperimenti mentali escogitati dai filosofi – in ambito medico, militare, civile – e perché le loro analisi siano così utili. Una prima chiave è quella che già Tommaso d'Aquino aveva escogitato per chiarire il dilemma della "guerra giusta" con la "dottrina del duplice effetto": nel caso del «Ramo deviato», azionando solo una leva, prevediamo ma non intendiamo causare una morte (questa è l'effetto secondario della decisione di salvare gli altri cinque uomini), nel caso dell'«Uomo grasso» invece lo facciamo con le nostre stesse mani. Ma può bastare questa distinzione per risolvere il dilemma?

Il Sole Domenica 14.12.14
Lettera dalla Cina
Verità sulla strage di Nanchino
Le autorità cinesi chiedono al Giappone di riconoscere e abiurare gli eccidi perpetrati contro la popolazione nel 1937, durante l'invasione giapponese del Paese
di Rita Fatiguso


Solerti funzionari in guanti bianchi prelevano da una cassaforte quaderni ingialliti, rilegati rozzamente e li mostrano, nel silenzio generale, al gruppo di giornalisti stranieri seduto ai tavoli disposti a ferro di cavallo.
È uno strappo alla burocrazia, questa volta, almeno, la testimonianza dei media è più che opportuna ma la tensione è palpabile davanti alle cicatrici della storia: ecco gli archivi di Nanchino, nati nel 1951, 329 volumi, oltre 340mila files, la prova regina dello "stupro" subito nel 1937 dall'allora capitale cinese per mano degli invasori giapponesi.
Pagine fitte di nomi, mappe, codici di guerra, la traccia di un odio senza fine passato di generazione in generazione.
La Cina chiede il suggello del riconoscimento di crimine contro l'umanità proprio attraverso quelle carte che dimostrano l'agonia di un intero Paese.
Quel lampo di odio si è riacceso negli occhi dei presidenti Xi Jinping e Shinzo Abe mentre nella Great Hall of People si scambiavano una storica, gelida, stretta di mano, a chiusura di due lunghi anni di schermaglie a distanza, fomentate da quegli eventi della storia sino-giapponese che dividono ancora profondamente i due Paesi.
Nel dicembre di quell'anno orribile, a partire dal 13, le acque del fiume Yang-tze che lambisce Nanchino in pochi giorni si gonfiarono di cadaveri putrefatti, trecentomila vittime secondo i cinesi, in pochi comunque scamparono all'eccidio. Finita la guerra i tribunali alleati ne contarono 167mila, di morti, ma il punto è che gli studiosi negazionisti si misero a smontare pezzo dopo pezzo l'intera tragedia.
Invano. Ieri la Cina che ha un'inestinguibile sete di verità riconosciuta, ha celebrato la prima giornata nazionale in onore delle vittime di Nanchino, nel luglio scorso ha ottenuto il placet per la candidatura degli archivi di Nanchino nel programma dell'Unesco "Memoria del mondo", ha aperto gli archivi ai taccuini e agli obiettivi dei cronisti stranieri. Vuole che si sappia e che si racconti cosa è successo in quei giorni del dicembre del 1937.
Lanciato nel 1992, il programma punta a conservare gli archivi e i documenti patrimonio dell'umanità, dalla Magna Charta al Capitale autografato da Carlo Marx ai diari di Anna Frank.
I cinesi, che hanno nove richieste pendenti, chiedono di inserire con forza gli archivi di Nanchino, la loro pratica più scottante, nella Memoria collettiva.
Ci vorranno mesi, la valenza politica della candidatura, stigmatizzata subito dai giapponesi che hanno chiesto, inutilmente, a Pechino di fare un passo indietro, è palese.
Il Comitato dell'Unesco dovrà valutare tutte le variabili, "Memoria del mondo" raccoglie manoscritti, documenti rari e registrazioni di storia orale che davvero abbiano una comprovata portata globale. Un sì per la Cina sarebbe vissuto dal Giappone come uno smacco terribile, soprattutto se ricalcasse alla lettera i desiderata cinesi.
La portavoce Unesco Isabelle Le-Fournis conferma che «la Cina ha presentato a base della richiesta documenti autentici, rari e preziosi con significato storico, che soddisfano gli standard di applicazione del programma».
La Cina vuol dimostrare che i fatti di Nanchino offendono l'intera umanità e non trecentomila o 167mila morti, ma i diritti del genere umano a che tutto ciò non accada mai più. Quei quaderni ingialliti devono servire alle generazioni future.
Lo zelo nel mostrare e validare la versione cinese sui fatti di Nanchino è tale da spingere le autorità a chiamare a raccolta sul posto anche i giornalisti, in quel Memorial Hall che mette angoscia, costruito proprio sui luoghi dell'eccidio, sulle ossa delle fosse comuni ormai calcificate in un orribile intreccio e mostrate al pubblico attraverso pavimenti di vetro, quasi fossero le vittime dell'eruzione di Pompei ed Ercolano. Ma la violenza a Nanchino è stata opera dell'essere umano, non di un vulcano capriccioso.
I colleghi giapponesi sono la maggioranza e per loro è una prova particolarmente dura, un pellegrinaggio guidato per due giorni tra un luogo e l'altro di una storia che appartiene a un passato per molti di loro ormai troppo lontano nel tempo.
L'acme è la testimonianza dell'ottuagenaria Xia Shuqin, all'epoca dei fatti aveva pochi anni, è l'unica sopravvissuta con Xu Yao, la sorellina più piccola. Shuqin sta rattrappita su una sedia nel centro del piazzale del Memorial, scoppia in un pianto dirotto quando racconta di aver mangiato per giorni solo briciole di riso, la sua voce è un lamento stridulo, reporter e televisioni registrano, filmano, documentano. Poi c'è la visita alla casa di John Rabe, il dirigente tedesco noto come lo Schindler cinese che ebbe un ruolo importante in quei giorni convulsi e che riuscì a portare in salvo decine di cinesi nascondendoli proprio nel suo giardino, rimasto intatto. Era a capo della zona franca, Rabe, e in Cina è venerato come un santo.
Non è semplice, per loro, per i giapponesi. L'imbarazzo viene nascosto dietro una pragmatica assenza, segno di una palese rimozione. Ci sono fisicamente, ma non sappiamo dove siano realmente e non fanno domande, prendono solo appunti anche delle discussioni più accese che nascono durante i vari incontri con scrittori o studiosi cinesi intenti a perorare la causa storica dell'eccidio di Nanchino. Il più aspro è quello con il curatore del Museo della Memoria, Zhu Chengshan, secondo il quale tutto finirà «quando i bambini giapponesi leggeranno cosa davvero è successo a Nanchino nel 1937».
Perchè la Cina vorrebbe dal Giappone la stessa abiura dei tedeschi sull'Olocausto. Vorrebbe che i libri di testo giapponesi contenessero la loro versione e certamente i giornalisti giapponesi con cui visitiamo i luoghi dell'eccidio di Nanchino non hanno studiato sugli stessi libri di storia cinesi nei quali si racconta ancora dei 300mila morti.
Nessun ente mondiale potrà costringerli ad adottare lo stesso libro di testo sui fatti del 1937.
La sensazione, forte, è che nulla più possa riparare quelle ferite. Al rientro da questa discesa agli inferi della memoria, a Pechino, sulla Janguomen, l'arteria principale della capitale, la Storia sbuca ancora, proprio dietro l'angolo.
Perchè ogni giorno un signore con i capelli bianchi aggancia la sua bicicletta a una balaustra e issa un cartellone con la scritta: "I giapponesi hanno massacrato la mia famiglia".
Non chiede soldi. Nessuno gliene dà. La gente gli lancia un'occhiata frettolosa, continuando a parlare al cellulare, distratta dal presente. Passano e vanno. Lui, ogni giorno, sta lì con la sua bicicletta e il suo cartello. Non vuole dimenticare.

Il Sole Domenica 14.12.14
Cultura islamica di padre Dante
di Carlo Ossola


«Hic incipit liber qui arabice vocatur Halmahereig, quod latine interpretatur: "in altum ascendere". Hunc autem librum fecit Machometus et imposuit ei hoc nomen» («Qui comincia il libro che in arabo si intitola Halmahereig, che in latino significa: "salire in alto". Maometto lo compose, e gli diede tale nome»). Ben prima che Enrico Cerulli pubblicasse, nel 1949, il Libro della scala. La questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia, un grande studioso spagnolo, Miguel Asín Palacios (Saragozza, 5 luglio 1871 - San Sebastián, 12 agosto 1944) aveva posto, con una erudita e vastissima messe di allegazioni, il problema dei contatti tra la struttura della visione di Dante e le tradizioni del l'ascensione o mi'ra-'g´ di Maometto nei regni dell'oltretomba.
Il suo saggio La escatología musulmana en la Divina Comedia, pubblicato nel 1919, suscitò polemiche enormi; non si riconosceva più, nell'autore, il sacerdote pieno di dottrina che aveva edito l'Averroísmo teológico en Santo Tomás de Aquino (1904), bensì un avventuroso e incauto assertore di contatti immaginari, e proprio alla vigilia del VI centenario della morte di Dante (1921). Naturalmente il libro non venne tradotto in italiano, ma trovò un recensore attento nel grande arabista francese Louis Massignon, che gli consacrò, nello stesso 1919, un lungo saggio ora ripreso, da Andrea Celli, nel prezioso volume dello stesso Massignon, Il soffio dell'Islam. La mistica araba e la letteratura occidentale (Medusa, 2008). Asín conosceva i resoconti del viaggio di Ricoldo da Montecroce, ma morì prima di aver potuto vedere l'edizione del Liber de scala, che certo avrebbe portato ben altri suffragi alle sue tesi (esso è ora edito da Anna Longoni, Rizzoli-Bur, 2013). Nei cinquant'anni dalla morte di Asín Palacios proposi all'editore Pratiche di pubblicare il volume (nell'ottima traduzione di Roberto Rossi Testa e Younis Tawfik) e da allora il libro si è ristampato, sino alla presente edizione, nella quale propongo il bilancio di ulteriori vent'anni di indagini. Dalle parallele ricerche di Maria Corti, e poi di più giovani studiosi – da Andrea Celli a Luciano Gargan –, è apparsa evidente l'ampia circolazione occidentale del Liber de scala, sino alla menzione di una copia del Liber de scala nell'inventario della biblioteca di un domenicano bolognese ai tempi di Dante.
Ora non si tratta né di attingere a tipologie intemporali che riunifichino i culti, come fece Frazer, e neppure di voler immaginare filiazioni dirette, bensì – ben vide Maria Corti – ritrovare costellazioni di testi e di senso che circolarono con libertà e influenze reciproche nel Mediterraneo della fine del Medioevo (Mediterraneo oggi irriconoscibile, per fratture e reciproca ignoranza, rispetto alla sua storia plurimillenaria). Si tratta, ancor più, di sceverare ciò che è della "memoria collettiva" di tutte le tradizioni semitiche (ad esempio, il capitolo XXXIII che «parla del Paradiso in cui fu creato Adamo, e dei fiumi che in esso si trovano») da ciò che è più tipico di una tradizione araba che si innerverà in Occidente («Il XXVI capitolo parla di come Dio fece molteplici mondi e creature di molteplici specie»), e dai luoghi che possono aver suscitato l'attenzione di Dante e che ho ampiamente esaminato nell'"Introduzione".
Oggi, nel ripubblicare il volume, occorre riconoscere la funzione storica che il saggio ebbe, e rendere onore a Miguel Asín Palacios, probo e coraggioso nel l'aprire un problema storiografico, che non è spento. I libri servono a suscitare ricerche: e mi auguro che questa edizione, prima che nuovi giudizi, riapra le porte dell'inchiesta storica, sì che rientri il vento delle generazioni che corsero le acque e le terre, come vide Julio Cortázar per la parabola di Marco Polo: «Con il mio nome / ho gettato sulle porte la pergamena aperta» (Marco Polo ricorda).

Miguel Asín Palacios, Dante e l'Islam. L'escatologia islamica nella Divina Commedia,
introduzione di Carlo Ossola, traduzione di R. Rossi Testa e Y. Tawfik, Luni editrice, Milano, pagg. XXX + 686, € 32,00

Il Sole Domenica 14.12.14
Giovanni Gentile
Il ritorno del maestro
Bollato come sterile idealismo, in realtà il pensiero del filosofo siciliano ha affascinato intellettuali come Gobetti e Gramsci che lo consideravano un innovatore cui ispirarsi
di Giuseppe Bedeschi


Su Giovanni Gentile non è mai scesa una coltre di oblio. Recentissimo è l'ottimo libro di Luciano Mecacci, La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile (Adelphi); ed esce ora, per i tipi di Bompiani, un volume, L'attualismo (con introduzione di E. Severino), che ripropone alcune delle opere più impegnative del filosofo siciliano. Ma anche nei passati decenni sono apparsi saggi, alcuni di grande pregio, sulla figura e l'opera di Gentile (penso in primo luogo ai libri di A. Del Noce, G. Sasso, S. Romano).
Quali sono i motivi di questo continuo «ritorno» del filosofo siciliano? Un «ritorno» tanto più singolare, in quanto alcuni degli studiosi più influenti della Prima Repubblica hanno dato su Gentile un giudizio negativo, durissimo. Vale la pena di fare, a questo proposito, un paio di esempi.
Uno studioso di formazione neoidealistica come Eugenio Garin scriveva nel 1955 (nelle Cronache di filosofia italiana) che purtroppo il primato della gnoseologia aveva orientato l'attualismo verso una sorta di «teologia», e quindi non l'aveva fatto gravitare sulla storia, bensì gli aveva fatto risolvere la storia nella filosofia, «ossia nel quadro vuoto del pensiero pensante, che invece di essere concretissimo diviene astrattissimo». Norberto Bobbio, a sua volta, scriveva vent'anni dopo, nel 1975, che la filosofia di Gentile era stata una «cattiva filosofia», e che «una cultura in cui una filosofia come quella di Gentile poté essere portata alle stelle, era una cultura povera, chiusa in se stessa, fatua e al tempo stesso infatuata, senza porte né finestre verso l'esterno, provinciale, consacrata al culto della parola per la parola».
Dunque, secondo questi autorevolissimi studiosi, che dominavano il nostro campo culturale, i conti con Gentile erano definitivamente chiusi.
Senonché, accadde poi qualcosa di inquietante. Infatti si appurò che due eminenti esponenti della cultura italiana della prima metà del Novecento, Gramsci e Gobetti – che (si badi!) sia Garin sia Bobbio proponevano come punti di riferimento fondamentali per l'elaborazione di una «nuova cultura» – erano stati non solo influenzati, ma direi affascinati da Gentile. Nel 1918 Gramsci aveva scritto che Gentile era «il filosofo italiano che più in questi ultimi anni abbia prodotto nel campo del pensiero»; che il suo sistema filosofico era lo sviluppo ultimo dell'idealismo tedesco, culminato in Hegel, maestro di Marx, ed era «la negazione di ogni trascendentalismo, l'identificazione della filosofia con la storia, con l'atto del pensiero in cui si uniscono il vero e il fatto in una progressione dialettica mai definitiva e perfetta». È difficile immaginare, credo, un elogio più convinto e, starei per dire, più commosso di questo.
Quanto a Gobetti, nel 1921 aveva scritto (proprio sulla rivista di Gramsci, «L'ordine nuovo») che Gentile «ha veramente formata la nostra cultura filosofica». E aveva concluso con queste parole: «Quest'insegnamento di vitalità intensa, d'operosità necessaria, di serenità, d'umanità cosciente, scaturisce dall'opera di Giovanni Gentile. Egli ha fatto scendere (anzi, meglio, salire) la filosofia dalle astruserie professorali nell'immensa concretezza della vita». Perciò era giusto riconoscere in lui «un maestro di moralità», e tutta la nuova generazione doveva «ispirarsi al suo pensiero per rinnovarsi».
Quali le motivazioni di questa profonda adesione di Gramsci e di Gobetti a Gentile? In primo luogo, direi, l'interpretazione gentiliana di Marx. Per Gentile, Marx era, nonostante il suo materialismo e in contrasto con esso, un pensatore fondamentalmente dialettico. E ciò perché la chiave di volta della sua costruzione filosofica era il concetto di prassi, che Marx aveva ricavato dall'idealismo. Infatti egli, a differenza di Feuerbach, aveva concepito l'uomo come l'insieme dei rapporti sociali, e la natura come un prodotto del lavoro e dell'attività dell'uomo, della sua prassi.
Ma c'era un altro aspetto (al quale qui posso solo accennare) della concezione di Gentile che affascinava Gramsci e Gobetti: l'identità di filosofia e politica, non solo nel senso che la politica deve chiarirsi a se stessa, e a tal fine deve armarsi di pensiero con l'aiuto della filosofia; ma anche e soprattutto nel senso che non è «più possibile – diceva Gentile – una filosofia degna di questo nome, la quale non s'abbracci alle questioni politiche, e non ne rifletta in sé gli interessi, e non senta la necessità di risolverle nel suo proprio processo».
Una volta assodato che Gramsci e Gobetti (nei quali, ripeto, i Garin, i Bobbio e altri, individuavano i padri di una «nuova cultura») erano stati gentiliani, e che gli stessi Quaderni del carcere di Gramsci erano permeati di concetti gentiliani (gli intellettuali «organici», l'egemonia del «moderno Principe», eccetera), il discorso su Gentile doveva inevitabilmente riaprirsi, al di là delle facili e frettolose stroncature. (Del resto l' «attualismo» suscita interesse anche fuori d'Italia: è appena uscito in Inghilterra un ricco fascicolo della «Review of Collingwood and British Idealism Studies», interamente dedicato al filosofo siciliano).
Giovanni Gentile, L'attualismo, a cura di V. Lo Cicero e con introduzione di E. Severino, Bompiani, Milano,  pagg. 1.486, € 40,00

Il Sole Domenica 14.12.14
Neuroscienze / 1
Misuriamo la coscienza
Un libro di Stanislas Dehaene spiega come un mistero filosofico è stato trasformato in un fenomeno da studiare in laboratorio
di Arnaldo Benini


Il libro del neuroscienziato francese Stanislas Dehaene sul nesso fra i contenuti della coscienza e l'attività nervosa verificabile e misurabile, in parte anticipato in un famoso articolo del 2011, è uno dei testi più importanti degli ultimi anni sui meccanismi della coscienza. L'autore, assieme col suo maestro Jean-Pierre Changeux, ha contribuito alla ricerca con lavori e riflessioni di cui scrive con chiarezza esemplare. La prima parte del libro s'occupa dei meccanismi dell'esperienza cosciente nell'ambito della «Global Neuronal Workspace Theory» dell'attività cerebrale, alla quale aderiscono i maggiori centri di ricerca. Il dato fondamentale è che i contenuti della coscienza, vale a dire ciò di cui diventiamo consapevoli, è la minima parte delle informazioni che vengono elaborate dai meccanismi elettrochimici della coscienza. Solo un evento alla volta diventa cosciente, dopo esser stato trattato da centri anche lontani della corteccia, collegati fra loro da fasci di fibre anche molto lunghe.
Il passaggio dalla fase elettrochimica alla coscienza è segnalato da uno scoppio di attività delle aree prefrontali registrabile nelle risonanze magnetiche e da un'onda lenta ritardata (la P3, «firma della percezione cosciente») della elettroencefalografia. Elaborazioni elettrochimiche provocate da percezioni, riflessioni, ricordi, presenti e attive nei meccanismi della coscienza, rimangono incoscienti pur condizionando l'attività e la riflessione cosciente, cioè la mente. Ciò costituisce quel che Dehaene chiama «il lato oscuro del cervello». La sollecitazione della saggezza greca «conosci te stesso» sembra quindi un ideale irraggiungibile. Fra i meccanismi coscienti e quelli incoscienti non c'è differenza d'elaborazione, ma solo di avvicinamento ai centri prefrontali da cui sorge la coscienza. Dehaene sorvola sulle evenienze per cui un'informazione diviene cosciente a scapito delle altre. L'orientamento generale è di considerare il passaggio alla coscienza un evento regolato dalla distribuzione casuale della scarsa energia del cervello. Così si spiega che a volte ci si immerge in attività e compiti marginali, dimenticando necessità urgenti e gravi. Noi siamo consapevoli solo della piccola parte del nostro essere con la quale identifichiamo la coscienza. Il grande neurologo inglese MacDonald Critchley pubblicò nel 1953 uno studio famoso (The Parietal Lobes) nel quale sosteneva che i lobi parietali avevano un'importanza funzionale ben maggiore di una stazione corticale primaria delle percezioni sensoriali. Gli studi e gli esperimenti nell'ambito della Global Work Space e l'esperienza con casi clinici di lesioni dei lobi parietali dimostrano che essi sono cruciali nell'elaborazione delle informazioni coscienti. L'altra parte del libro va al cuore dell'evento nervoso della coscienza con uno dei temi chiave della ricerca contemporanea. Le molte tecniche della Neuroimaging (visualizzazione del cervello e della sua attività) hanno mostrato e confermato che ogni evento della coscienza (rimpiangere, disprezzare, decidersi, percepire, credere, pregare, imparare, riflettere, valutare, far di conto, ricordare, amare, odiare, gioire, esser tristi, ottimisti o pessimisti, incerti, convinti, fiduciosi o sfiduciati eccetera) è preceduto dall'attivazione di aree cerebrali specifiche, cioè dalla sincronizzazione dei loro neuroni. Il ragionamento con logica deduttiva è preceduto da un'attività prefrontale diversa dal ragionamento per induzione.
Aggiungere o sottrarre una somma a un'altra e pensare a Dio con amore o con timore sono eventi mentali preceduti da attivazioni corticali diverse. Se l'attivazione specifica non c'è, non ci sarà evento cosciente. L'attivazione corticale avviene circa un terzo di secondo prima che la coscienza ne sia informata. Per questo il grande neurofisiologo Gerald Edelman (anch'egli partecipe della Global Work Space Theory) sosteneva che noi viviamo in un «presente ricordato», perché, nel momento in cui ne diventiamo consapevoli, è già trascorso. Se l'esperimento consiste nell'aggiungere o nel sottrarre una somma, o nel muovere una mano, chi esamina la risonanza magnetica sa prima della persona esaminata se essa aggiungerà o sottrarrà, o quale mano muoverà. Il problema è di chiarire se l'attivazione corticale è la causa dell'evento mentale o una correlazione casuale fra la sincronizzazione dei neuroni dell'area attiva e l'evento cosciente. Che ogni evento cosciente sia preceduto da un'attivazione specifica è un indizio pesante, ma non una prova definitiva.
Essa potrebbe essere raggiunta con la stimolazione magnetica transcranica, che, in maniera innocua, spegne l'attivazione corticale circoscritta prima che l'informazione abbia raggiunto la coscienza. In questo caso non c'è evento cosciente, a conferma che esso sembra possibile solo previa attivazione corticale specifica di durata sufficiente. L'esperimento è geniale, ma la prova definitiva non è ancora raggiunta. Rimane poi il mistero di come un'attività elettrochimica, forse casualmente, diventi cosciente. Il problema è talmente arduo (e verosimilmente insolubile per i meccanismi cognitivi del cervello che studiano se stessi) che non si riesce a formularlo in termini coerenti. Ciononostante nessun'altra metodologia s'avvicina al cuore del problema della coscienza in tutti i suoi aspetti come le molte ricerche, e le teorie che su di esse si basano, di cui Dehaene parla in questo libro. Esse, dice l'autore, hanno trasformato un mistero filosofico in un fenomeno da laboratorio da studiare secondo i criteri della scienza sperimentale. Giusto, e, a paragone, le altre riflessioni sulla coscienza sono di un'astrattezza senza plausibilità. Anche la scienza, ovviamente, non va oltre i limiti della conoscenza. Un grande fisico ammoniva che l'aumento dell'isola della conoscenza allunga le coste dell'ignoranza.
ajb@bluewin.ch
Stanislas Dehaene, Coscienza e cervello. Come i neuroni codificano il pensiero, Cortina, Milano, pagg. 442, € 45,00;
Stanislas Dehaene, Jean-Pierre Changeux, Experimental and Theoretical Approaches to Conscious Processing, «Neuron» 70, pagg. 200-227, aprile 2011

Il Sole 14.12.14
Neuroscienze /2
Angelo Mosso, il pioniere
Fu il primo a dimostrare la correlazione tra emozione o calcolo e flusso di sangue nel cervello. I suoi studi sono tradotti solo ora in inglese
di Fiorenzo Conti


Le moderne tecniche di imaging, di cui la risonanza magnetica funzionale è la più nota e utilizzata, hanno concorso in maniera sostanziale allo sviluppo delle moderne neuroscienze, soprattutto di quelle cognitive. Le immagini colorate e spettacolari che vengono generate hanno anche contribuito alla diffusione delle neuroscienze tra i non-specialisti e al dialogo tra neuroscienziati e studiosi di altre discipline, oltre a essere diventate un must ornamentale in molti giornali. Com'è noto, le tecniche di imaging si basano nella maggior parte dei casi sulla misurazione di parametri correlati al flusso di sangue nel cervello, che varia in funzione del grado di attività.
Pochi però sanno che il pioniere di questi studi è stato Angelo Mosso (1846-1910), grande fisiologo piemontese, che negli anni 1879 e 1880 pubblicò Sulla circolazione del sangue nel cervello dell'uomo, la cui versione estesa fu poi tradotta in tedesco (allora la lingua franca della scienza) nel 1881. Mosso ebbe l'opportunità di studiare alcuni pazienti che, a causa di lesioni craniche, gli permisero di osservare le oscillazioni del volume cerebrale determinate dalle variazioni del flusso di sangue in relazione a diverse condizioni fisiologiche. Il più famoso di questi pazienti era un contadino di nome Michele Bertino che fu colpito in testa da un mattone, scivolato dalle mani di un muratore che lavorava sul campanile sotto il quale si trovava il malcapitato, che gli provocò un'importante lesione cranica che lasciava ben visibile la superficie cerebrale. Mosso, allievo di Ludwig e amico di Marey e quindi abilissimo a costruire strumenti di misurazione e di riproduzione di segnali biologici, progettò e realizzò uno strumento adatto a misurare la pressione intracerebrale collegato a un cilindro rotante che permetteva di ottenere un tracciato delle variazioni nel tempo. Bertino fu sottoposto a molti esperimenti, nei quali Mosso fece numerose e interessantissime osservazioni: se Bertino dormiva, il tracciato presentava piccole oscillazioni che aumentano di ampiezza sia quando Mosso lo chiamava, risvegliandolo, sia se si verificava un rumore, per esempio il suono della campana. Ma ancora più straordinaria per il tempo fu la dimostrazione che variazioni dello stato emotivo o l'esecuzione mentale di un calcolo (8 x 22 nel nostro caso) determinavano un notevole aumento di ampiezza delle oscillazioni. Benché Mosso avesse studiato pochi casi (quattro in totale), la conclusione a cui giunse fu chiara: l'aumento di attività cerebrale determinava l'aumento d'ampiezza delle oscillazioni, cioè del flusso sanguigno. Un po' meno colorato delle immagini che siamo abituati a vedere, ma concettualmente la stessa cosa! L'implicazione rivoluzionaria fu ovviamente che si dimostrava la correlazione tra fenomeni mentali (per esempio, l'emozione o l'esecuzione di un calcolo) e fenomeni fisici (l'oscillazione provocata dall'aumento del flusso sanguigno). Mosso quindi precorse anche le neuroscienze cognitive.
Nonostante la fama internazionale di cui Mosso godeva e la diffusione dei risultati dei suoi studi anche nella comunità scientifica anglosassone (le sue osservazioni furono citate da due celeberrimi studiosi, lo psicologo statunitense Henry James e il neurofisiologo inglese Charles Sherrington), il suo libro sulla circolazione cerebrale incredibilmente non fu mai tradotto in inglese. A questa carenza hanno provveduto ora due importanti neuroscienziati contemporanei, Marcus Raichle e Gordon Shepherd, che hanno curato e commentato la traduzione dell'opera effettuata da Christiane Nockels Fabbri per i tipi di Oxford University Press (New York, 2014), impedendo così che la memoria di questo fondamentale passaggio delle neuroscienze rimanesse confinata agli storici della medicina e ai pochi cultori delle neuroscienze capaci di leggere l'italiano o il tedesco. Questo evento editoriale riempie naturalmente di gioia e orgoglio i fisiologi e i neuroscienziati italiani, che vedono riconosciuti a livello internazionale (anche se con quasi 150 anni di ritardo) l'assoluta originalità delle osservazioni di Mosso e il valore della nostra tradizione scientifica. Ma questa felice occasione non riesce a essere (e ovviamente non deve essere) consolatoria e a farci dimenticare lo stato di abbandono in cui versa la ricerca scientifica in Italia: ricercatori (dall'assegnista all'ordinario, senza distinzioni di ruolo accademico) sottopagati (un post-doc negli Usa guadagna più del doppio di un pari grado italiano, un fatto da valutare se vogliamo che i nostri migliori giovani tornino e che le nostre università si "internazionalizzino"); blocco sostanziale dell'assunzione di ricercatori; fondi statali scomparsi (sono due anni che il Miur non bandisce «il Prin», acronimo di Progetti di interesse nazionale, che, pur striminzito, permetteva a tutta l'accademia italiana di provare ancora a competere sulla scena internazionale); e, con poche lodevolissime eccezioni, fondi privati latitanti. Se vogliamo che la grande tradizione italiana di cui Angelo Mosso è solo uno degli esempi non venga dissipata e se vogliamo che la ricerca venga messa nella condizione di contribuire al rilancio del Paese e al suo benessere, come avvenne nella Germania post-unificazione, occorre che la politica cominci a prendere molto sul serio lo stato della ricerca italiana. Gli scienziati, spesso distratti o impegnati e a volte parte del problema, sono a disposizione per lavorare a un nuovo patto tra politica e scienza. Perché non si vive solo della gloria passata.
Angelo Mosso, Circulation of blood in the human brain, con una nota di Marcus E. Raichle e Gordon Shepherd, traduzione di Christiane Nockels Fabbri, Oxford University Press, Oxford, pagg. 202, £ 35,99

Il Sole 14.12.14
Antipsichiatria
La rivoluzione dei «goriziani»
di Massimo Bucciantini


«Qui è notte fonda, su un'isola popolata di fantasmi. Barricata su se stessa, lontana dalla memoria degli uomini». A pronunciare queste parole non è il capitano Willard di Apocalipse now, né il marinaio Marlow in Cuore di tenebra. Siamo in Italia, in una piccola città di provincia, nei primi anni Sessanta del secolo scorso. Ma siamo ugualmente in uno dei luoghi più tenebrosi della terra e quella che si sta compiendo è una vera e propria discesa agli inferi.
A scriverle è Franco Basaglia appena giunto a Gorizia. È l'inverno del 1961 quando decide di lasciare il suo posto di assistente all'Università di Padova – non ci sono cattedre per lui, glielo dicono chiaro e tondo – e se ne va alla fine del mondo, in un luogo dimenticato e senza futuro, dove non ci si passa ma «ci si va soltanto se bisogna andarci». Allora l'Ospedale psichiatrico di Gorizia era «il più periferico, piccolo e insignificante di tutti i manicomi italiani». Abitato da 600 pazienti, la metà dei quali non parlava italiano, era come la città diviso in due dalla cortina di ferro. Il confine tra Italia e Jugoslavia passava proprio tra le mura, i cancelli, le sbarre, i reparti chiusi a chiave del manicomio; come dentro ai suoi bellissimi giardini, sempre silenziosi e deserti, fatta eccezione per la presenza di qualche internato legato a una panchina o al tronco di un albero.
Quando vi mise piede la prima volta, Basaglia si sentì male. «Ritrovava l'odore "di morte, di merda", lo assaliva il ricordo dei sei mesi passati in una prigione fascista a Venezia nel 1944, a vent'anni». Nessuno, in quegli anni, avrebbe scommesso che in un posto simile sarebbe nata una rivoluzione, nessuno avrebbe mai immaginato che da lì sarebbe partita la battaglia contro l'establishment accademico e politico, tanto da diventare in poco tempo uno dei luoghi più visitati da giornalisti, amministratori e medici provenienti da ogni parte d'Italia. E uno dei simboli – insieme all'Ospedale di Trieste – per l'intera generazione sessantottina.
La storia di Basaglia, chiamiamola così per brevità, è stata raccontata più volte. Ma questo libro è per molti aspetti diverso da quelli che lo hanno preceduto. Certo non nasce nel deserto, e fa buon uso di studi recenti (come Franco Basaglia di Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio, o Liberi tutti di Valeria Babini), ma ha caratteristiche che lo contraddistinguono e lo rendono un libro che segna un nuovo inizio. E ciò dipende non tanto dalle informazioni di prima mano provenienti dall'archivio della Fondazione Basaglia o da quello della casa editrice Einaudi, quanto dalla prospettiva con cui l'autore interroga e seleziona le fonti della sua ricerca.
Provo a dirlo in altro modo. Ci sono libri che aprono e libri che chiudono. Ecco, questo è un libro che fa parte del primo gruppo. E vi rientra a pieno titolo perché segna un cambiamento di orizzonte negli studi sulla nuova psichiatria italiana e scava in profondità più di quanto tante biografie dedicate al suo capo carismatico sono riuscite a fare. E vi riesce proprio perché la prospettiva da cui guarda le cose non è "basagliocentrica". La parola è orrenda, lo ammetto, ma ha il pregio di farsi capire: se si illumina di troppa luce il protagonista, il risultato che si ottiene è che il suo cono d'ombra impedisce di vedere tutto ciò che gli sta attorno. Scrive John Foot: «Soltanto se distogliamo una parte della nostra attenzione dalla persona di Basaglia potremo apprezzare davvero la centralità del suo ruolo».
Il libro prende spunto da una foto scattata a Gorizia nel 1967. Attorno a un tavolo, in una stanza dell'ospedale, Basaglia è ritratto insieme ai suoi collaboratori durante una riunione di lavoro. Alcuni, come Giovanni Jervis e Agostino Pirella, sono nomi noti; altri, come Antonio Slavich, Domenico Casagrande e la psicologa Letizia Comba, la moglie di Jervis, lo sono molto meno. A questi vanno poi aggiunti i nomi di Lucio Schittar, Leopoldo Tesi, Giorgio Antonucci e Maria Pia Bombonato. Sono loro i "goriziani", il nucleo principale della squadra che dal 1961 al 1969 lavorò con entusiasmo e senza un attimo di sosta a fianco di Basaglia riuscendo a smantellare, anche se solo parzialmente, quel luogo estremo di segregazione e di annientamento.
Insieme a loro c'era anche Franca Ongaro, la moglie di Franco Basaglia. E le pagine a lei dedicate ristabiliscono un minimo di verità storica sul suo contributo a quella esperienza pilota. Nonostante nutrisse ambizioni letterarie – scrisse fiabe per il «Corriere dei Piccoli» e a più riprese, fino al 1959, inviò senza fortuna i propri racconti per l'infanzia alla Einaudi, e in particolare a Italo Calvino – Franca svolse nel gruppo un ruolo chiave. Oltre a essere traduttrice di testi fondamentali come Asylums di Erving Goffman e autrice di alcuni articoli pubblicati in Che cos'è la psichiatria? (1967), Franca fu molto più di una collaboratrice. «Il disordine istintivo e prorompente delle idee di Franco veniva messa in riga, e in pagina, da Franca». A tal punto che Foot sostiene che tutti i loro scritti sono più da attribuire a lei che a lui. Anche per quanto riguarda il libro più celebre tratto dall'esperimento scientifico goriziano, L'istituzione negata, fu lei a occuparsi della raccolta dei testi e a mantenere i rapporti con Giulio Bollati, dopo che Jervis, apprezzato consulente einaudiano da svariati anni, aveva spianato la strada tra Gorizia e Torino, troncando così i contatti che Basaglia aveva stabilito con Enrico Filippini (che, per inciso, già allora era molto di più di «un dirigente della Feltrinelli», pagina 124). Nonostante il frontespizio riportasse la dicitura «a cura di Franco Basaglia», si trattò di un appassionante e duro lavoro di squadra, anzi con ogni probabilità il "vero" curatore del libro fu Giovanni Jervis. Ma, come osserva Foot, «senza Basaglia non ci sarebbe stata Gorizia. Era la sua creatura, e lui ne era chiaramente il leader».
L'istituzione negata uscì nel marzo del 1968. Al momento giusto. E fu un bestseller: 12.500 copie vendute in quell'anno, 60mila tra il '68 e il '72. Fu il libro di un'intera generazione, che fece di Basaglia un leader indiscusso, e di Gorizia «un riflesso e un motore del Sessantotto italiano».
Ma Foot indaga anche le zone d'ombra, parlando delle divergenze politiche e delle rivalità presenti nel gruppo. Affronta il tema del conflitto sempre più marcato tra Basaglia e Jervis, ma anche quello dei frequenti disaccordi sulle strategie da seguire con gli amministratori locali o sul grado di responsabilità da concedere ai pazienti. Proprio nel momento in cui Gorizia acquistava un rilievo nazionale e diventava, insieme a un altro luogo sperduto, Barbiana nel Mugello, uno dei simboli del movimento, la squadra dei "goriziani" si sfaldò. Da un lato i difficili rapporti con l'amministrazione provinciale, che impediva di proseguire nello smantellamento del l'ospedale, e dall'altro la sempre più debole coesione del gruppo, condussero alla frantumazione e alla dispersione. Il 28 gennaio 1968 Basaglia scriveva allo psichiatra Maxwell Jones, che stava sperimentando una comunità terapeutica a Dingleton, in Scozia, la sua intenzione di andarsene: «Anch'io sono in crisi, (...) sento che il mio lavoro risulta sempre più funzionale all'attuale sistema politico ed economico che non condivido, e devo trovare qualche cosa di diverso, altrimenti non vedrò significato nel farlo». L'anno seguente i coniugi Basaglia lasciano Gorizia per trasferirsi prima a Colorno e poi a Trieste. Negli stessi mesi se ne vanno Slavich, Schittar, Jervis e Letizia Comba. Nel frattempo esperimenti di riforma sono realizzati a Perugia, Varese, Venezia, Napoli, Nocera Superiore, Parma, Bologna, Reggio Emilia, Padova, Pistoia. Poi, nel 1971, sarà la volta di Agostino Pirella ad abbandonare Gorizia per dirigere l'Ospedale psichiatrico di Arezzo – sul colle del Pionta, attuale Dipartimento di scienze della formazione dell'Università di Siena – e continuare così l'attività anti-istituzionale appresa a fianco del maestro.
È stata l'unica vera rivoluzione del '68. E questo libro – oggi, che in suo nome nessuno più combatte delle battaglie politiche – ha il merito di farci capire il valore e i limiti di quella rivoluzione. «È il tempo della tregua storica», per usare le parole dell'autore, che consente di guardare con occhi disincantati quel pezzo importante di storia italiana. Un buon viatico da prendere come esempio e da proseguire, per "aprire" la storia del '68 ad altri e originali punti di vista.

John Foot, La "Repubblica dei matti". Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978, traduzione di Enrico Basaglia, Feltrinelli, Milano, pagg. 376, € 22,00

Il Sole Domenica 14.12.14
I ricordi dell'artista
«Orribile, ma chi è questo?» «Picasso»...
di Jean Jacques Sempé


La mattina che arrivai per la prima volta a Parigi, era il 1959, andai dritto dalla stazione alla casa dell'illustratore Chaval, con i miei disegni sotto il braccio. Aveva vissuto anche lui a Bordeaux, mia città natale, e qualcuno mi aveva dato il suo indirizzo. Suonai il suo campanello alle 7,45. Chaval era in pigiama. «Sai, non ci svegliamo tanto presto qui» mi disse, «e soprattutto... io lavoro di notte. Torna un po' più tardi». Andai a fare un giro. Ritornai alle 8 e un quarto; Chaval era ancora in pigiama. Mi scusai e andai a fare un altro giretto, dicendomi che Chaval non era proprio uno di quelli che viveva in modo veloce... Insomma tornai a suonare a casa sua che erano le nove. Era ancora in pigiama, ma stavolta mi fece entrare. L'appartamento era piuttosto piccolo, e molto scuro, ma aveva un telefono, e questo, per me, era un segno di grande status sociale. Molto gentilmente guardò i miei disegni e mi fece qualche domanda. (...) Ero molto intimidito da Chaval. Penso che all'epoca lui avesse 37 anni e poi avevo visto una sua fotografia in un settimanale che aveva dedicato un servizio – un'intera pagina! – a lui e ai suoi disegni. Mi mise in guardia, dicendomi che era molto difficile vivere facendo solo disegni, e specialmente per chi voleva fare il cartoonist o l'illustratore. Sapevo bene che i miei disegni erano goffi rispetto ai suoi, e, come se non bastasse, mi sentivo molto confuso e insicuro, dal momento che non ero riuscito a trovare un lavoro vero in nessuna delle cose che avevo provato a fare negli anni precendenti.
Celai l'imbarazzo comportandomi un bel po' sopra le righe, non preoccupandomi per nulla di nascondere questo stato d'animo. Anzi: ero così preoccupato che spesso diventavo maleducato. Mentre Chaval guardava i miei disegni un'altra volta, apparentemente rassicurato dal fatto che il servizio militare (mi ero appena arruolato ed era quello il motivo del mio viaggio a Parigi quella mattina) si sarebbe «preso cura di me» per i prossimi due anni, vidi alla parete una riproduzione. Chiesi: «Che cos'è quello?» «È Igor Stravinsky, ritratto da Picasso» anticipò la risposta la moglie di Chaval, anche lei pittrice. «È bello, non è vero?» proseguì. «Mi sembra disegnato molto male» replicai io. Chaval e sua moglie mi fissarono, attoniti, le loro tazzine di caffè sospese di colpo a pochi centimetri dalla bocca. Un po' impazientemente, a questo punto, Chaval mi disse: «Bene. Quando penserai che quello è ben disegnato, allora... avrai fatto un vero progresso».
Scesi le scale, mi sentivo devastato. Ero così malconcio che dovevo far qualcosa per redimermi, almeno ai miei occhi. Chaval mi aveva dato alcuni indirizzi di riviste, e aveva persino avuto la gentilezza di segnare sulla cartina le stazioni della metropolitana più vicina a ciascuna di esse. Mi persi parecchie volte, ma alla fine riuscii a portare i miei disegni alla reception di almeno due riviste. Scrissi il mio nuovo indirizzo sui due portfolio: «Caserma Vincennes». Arrivai finalmente alla caserma verso le quattro del pomeriggio. Mi era stato detto di presentarmi alle 8 del mattino, e così, ecco che mi ritrovai in cella! Succede tutto così in fretta, a Parigi.
***
Quando mostrai a Chaval i disegni per la prima volta, mi chiese se conoscessi l'inglese. Non sapevo una parola. Che peccato, mi disse, ma in ogni caso mi suggerì di guardare la rivista «New Yorker», che conteneva delle eccellenti illustrazioni. Un giorno, così, guardai il «New Yorker»: i disegni che conteneva erano davvero eccezionali.
I disegnatori che lavoravano al «New Yorker» ebbero su di me una grande influenza e la sola idea di pubblicare un giorno dei miei disegni per quella rivista era una specie di sogno hollywoodiano. Ma, nei tardi anni '70, l'art director della rivista, Lee Lorenz, venne a Parigi, si prese alcuni dei miei lavori e... li pubblicò. Un anno dopo, andai io stesso a New York, portando con me molti altri disegni.
Il «New Yorker» ha un grande vantaggio, per un illustratore come me: i disegni delle copertine non sono strettamente legati alle notizie. D'altra parte, i disegni per le parti interne del giornale, mi danno degli enormi problemi: i miei disegni sono, semplicemente, troppo grandi per quelle pagine.
Lee Lorenz era un uomo delizioso. Quel tipo di persona capace di dirti che il tuo disegno non va per niente bene, o che ha bisogno di modifiche, ma lo fa in un modo talmente piacevole che tu ti senti nello stesso modo che se lui ti avesse detto «Ok, mi piace proprio!». Lorenz, anche lui è un illustratore, e suona la cornetta in un club di New York. Parla il francese tanto quanto io l'inglese; per fortuna abbiamo un amico in comune, un altro illustratore del «New Yorker», Edward Koren, che invece il francese lo parla assai bene.
A tutti e tre, ci piace il jazz e ci vantiamo di averne una discreta conoscenza. Una sera così, andiamo insieme in una remota periferia di New York per sentire un pianista, Red Garland, del quale ciascuno di noi aveva qualche disco. Mentre ascoltavamo Garland ci scambiavamo dei commenti, naturalmente. Concordammo che aveva proprio uno stile tutto suo, che il suo tocco e la sua fluidità musicale non potevano essere eguagliate da nessun altro, che il suo suono, insomma, era il famoso e unico «Red Garland sound». Alla fine del concerto andammo a congratularci con lui per la bellissima serata e stringergli la mano. Alzandosi dal piano, si presentò: «Piacere, John Seffert».